protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 12 anno II maggio 2013
Pierluca d’Antuon o
ani r o d o e t a d al
s.h. palmer katia ceccarelli jacopo marocco Simone lucciola
Andrea frau
UN ANNO DI VERDE
VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/ verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/ verderivista http://verderivista.blogspot.it
p.3 Edit p.4 Radio Graal (Alda Teodorani) p.6 The Cruelest Month Strikes Again (S.H. Palmer) p.8 Stefano Tamburini Artwork 1980-1984 (Portfolio Muscles) p.10 Stella di Mamma (Katia Ceccarelli) p.12 Deep Throat (Jacopo Marocco) p.14 Speciale SEMIAUTOMATICA: Stefano Tamburini (Simone Lucciola) p.15 Il Salone di Emma (Andrea Frau)
PARTNERS IN CRIME for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY
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PER FARE GRAFICA CI VOGLIONO MUSCOLI Le opere di Stefano Tamburini presenti in questo numero sono tratte da MUSCLES VERDE ANTOLOGIA 19802 - 1984
Tu volevi che io Svelassi il tuo destino Fuor di parentesi ormai Come un fabbro d’intralci d’acciaio Per te Tamburo sfondato (in)dimenticato. VERDE – mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze – nasce a Roma nel maggio 2012. Autodidatta, ideatrice, teorica e talent scout di se stessa, è stata fondata da AA.VV. in seguito all’implosione indolore di Pastiche – Tutte le forme del raccontare Di ascendenza veneta, ha operato, in oltre 30 anni di attività, un vero e proprio confronto col meglio della letteratura ispanoamericana. Dal 1991 ha iniziato una proficua ricerca sui viraggi policromi del nero, che le ha permesso di postulare un noir visto dalla parte di Caino e di firmare, negli ultimi 20 anni, alcune delle più visionarie pagine della letteratura italiana. È stata la più giovane e significativa esponente dei Distruzionisti romani, oscura avanguardia capitolina di fine anni Ottanta. In quegli anni scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir; l’incantesimo, però, si spezza nel 1986, quando viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito. Art director esperta, nella sua lunga carriera ha fatto parte della generazione letteraria Gioventù Cannibale, ma si è inoltre dedicato alla scrittura di sceneggiature porno e di dialoghi per soap opera internazionali. Ha fatto parte del movimento di scrittori Connettivista e in giovane età ha lavorato come speaker radiofonico per Radio Graal. Dal 2003 ha approfondito i suoi studi di antropologia culturale, fitochimica e magia, grazie ai quali, a fine 2012, ha pubblicato un racconto breve – ambientato nella Milano di Piombo del 1982 – in un’antologia natalizia. He started to draw since childhood and, with ever more conscience, he decided to give himself to the art in its wholeness. Ha vinto due premi di poesia e ha conseguito una Laurea Magistrale in Filosofia e Storia delle Idee con una tesi sul fenomenologo Erwin Straus, pubblicata per Amazon con il titolo Conoscenza e Mondo nella “fenomenologia” di Erwin Straus (Why the Mind is not in the Head?). Ha pubblicato saggi di krautrock e kosmische musik per la rivista Musikbox, poesie sparse, racconti, saggi di critica letteraria, filosofica e storiografica. Punk rocker, disegnatore underground, giornalista musicale autonomo, dedita al vizio del gioco letterario, lavora come redattrice e suona il basso nei Vigo. Per vivere fa la sarta e si occupa di culture dell’immagine come autrice di testi e artista fotografa. Dal 2005 è presente nell’archivio della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia e scrive racconti erotici firmati con pseudonimi. Ha altresì lavorato, nel 2001, come operaio in una fabbrica di bottoni in Germania, dove è nato. Ha realizzato i libri inchiesta I Mignotti e Pornocuore e diverse antologie, tra cui Buon Natale e felice Anno Nuovo. Scrive di sé in terza persona. È stato scarcerato nell’agosto 2011. Dopo essere stato scrittore, critico cinematografico, copy-writer, docente universitario e saggista, è approdato alla fantascienza. Il suo primo romanzo postribolare uscirà postumo nei prossimi mesi. Ha compiuto un anno il 1 maggio 2013. Per l’occasione, il numero 12 sarà stampato in split con il numero zero, ad oggi inedito su carta.
Radio Graal Alda Teodorani Radio Graal era per me un segno di libertà e coincideva proprio con la ricerca mia personale di libertà che conducevo in quegli anni. Non so nemmeno più quali percorsi mi abbiano trascinata lì per la prima volta in una fredda e nebbiosa sera d’inverno. Amici, un sacco di amici. Che non erano certo di quella zona politica che io definivo “Rosso antico”. Probabilmente erano gli stessi che mi avevano condotta - forse alcuni anni dopo - al Tondo di Lugo, il giardino pubblico vicino alla stazione, per le feste del Sole che ride, o all’osteria del Ricciotto, un essere straordinario che sembrava uscito dalle pagine di un romanzo, magari un horror, con quel suo braccio poliomelitico e gli accessi di una voglia di scappare che lo portavano a chiudere l’osteria quando
gli pareva per andarsene a zonzo in bicicletta senza meta, vagando nella notte. La stessa abitudine che, mi hanno detto, lo ha ucciso, travolto da un’auto. Radio Graal, il primo sogno, lo strumento di comunicazione, le prime parole dette a un microfono, parole che fossero anche un modo per farsi sentire forte e bene. Una vecchia casa, una scala che portava su, che dava proprio l’idea dell’altezza come luogo privilegiato per diffondere una voce. E poi quel tizio con i capelli rossi che rideva quando gli avevo acceso una sigaretta con un fiammifero antivento (ne avevo trovato una scatola tra il cartone che mio nonno vendeva a peso). Mi aveva detto: «Che ci devi fare con quei fiammiferi? la guerra?» continuando
a ridere e pure io ridevo anche se non capivo. A diciannove anni, tenuta sotto una cappa di protezione dai miei genitori, il mio massimo era stato partecipare a qualche manifestazione (la più recente a Bologna contro la pena di morte, dove mi ero spaventata vedendo avanzare verso di me poliziotti con caschi e scudi, in assetto da combattimento).
Avevo un’ingenuità e un’innocenza indistruttibili (forse anche un po’ preoccupanti). A Radio Graal non ricordo chi ho incontrato, nemmeno chi c’era tra quelli che conoscevo. Ma in quest’epoca di rumore e strapotere delle immagini quella di Radio Graal è una dimensione così diversa, sicuramente da ricordare. O sforzarsi di farlo.
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The Cruelest Month Strikes Again S. H. Palmer È che non riesco proprio a fare a meno di Thomas Mann. Nelle notti senza sonno – quando Sleepless risuona roca sotto la lingua e in mezzo allo sterno – mi accompagna una parabola aurea che riesce a unire il mio passato al passato degli altri. Al passato di altri. Penso a Tadzio. La Morte a Venezia è un chiodo fisso: sarà per questo che ho scelto a caso la Germania e non la laguna, una decisione forzata dal destino. Nulla riesce a distrarmi da Tadzio. Lo fisso mettere la barchetta in acqua credendolo e vedendolo simile al soggettino curioso che anima il videoclip di 3 Libras. Oddio che canzone. Oddio. Che voce. Il montaggio video di questa opera pia della costola di Mida – A Perfect Circle, mai nome fu più appropriato – mi ha da sempre ricordato quel cazzo di morte romanzata in laguna. Introspettiva, aspetto i risvolti e le pieghe del cuore respirando più lentamente che posso, creando dissonanza col battito cardiaco che mi porto in petto. Alla vista di Maynard, come un re, continuo ad aspettare risvolti e pieghe del subconscio, mentre lui – Keenan – gorgheggia ondulando i lunghi capelli neri, assorto in posizione fetale, crogiolandosi tra le sue VERDE
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perversioni. A questo punto entra in gioco potente la memoria fisica, insieme a quella emotiva. Vivevo insieme a un uomo alto, pallido e dai lunghissimi capelli lisci, neri come alghe giapponesi. Dividevamo il pane, il letto, il sonno e la fame. Quei colori però nascondevano un fototipo diverso – visibile solo alle prime luci del giorno, ogni giorno – pur lasciandomi introiettare quella somiglianza che sarebbe venuta alla luce molto tempo dopo. Come quelli di Mida ondeggiavano lenti. Come se fossero perennemente a mollo nell’acqua ghiacciata. «Ma chi? Quello che assomigliava a Maynard?» Ancora un occhio si apre, sul costato stavolta, e mi spinge a guardare dentro e fuori di me. Ancora una volta – di nuovo un’altra – la vita schiacciata nei cerchi concentrici che si stringono intorno ai maggiori vasi sanguigni. Padrona senza anelli, mi lascio ghermire dal ricordo senza lasciare spazio al rimpianto. Seduta sull’argine guardo – ad uno ad uno, a volte in coppia – i cadaveri passare.
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Stella di mamma Katia Ceccarelli Il camerino di Marina, dopo più di un anno di assenza dal video, ha una novità: un fasciatoio. La conduttrice ritorna in TV con un’intervista a Pomeriggio con amore. Al trucco le fanno i complimenti su come la maternità l’abbia resa più bella e le abbia addolcito lo sguardo. “Sapessero delle smagliature e dei capillari che mi ritrovo” pensa lei mentre la spolverano di cipria illuminante. In camerino il pupo dorme custodito dalla tata. «Allora, si è addormentato?» chiede Marina. «Sì signora, è un angelo.» «Sarà ma alle volte è un gran rompiballe.» Entra Enrico, il manager della conduttrice in fase di rilancio: «Come stai bene cara. Sei emozionata, di’ la verità.» «Non sono una principiante, non penserai che con vent’anni di carriera mi emozioni ancora per le telecamere?» «È qui che sbagli, devi farti vedere emozionata come la prima volta. In fondo con la maternità hai cominciato una nuova vita.» «Questa è la tua politica, non la mia. Sono stata in panchina già abbastanza, adesso sono in forma e mi riprendo la prima serata.» Il pupo fa qualche verso dalla sua cuccia dorata. «Ines, guarda che si è svegliato!» fa Marina seccata mentre prende il suo portafortuna dalla borsa, l’appoggia sulla mensola che è piena di pelouche. «E levatemi dalle palle tutti questi mostri!» urla. «Servono solo ad accumulare polvere.» «Sono dimostrazioni di affetto da parte dei fan» precisa Enrico. «Cosa me ne faccio di questi cosi? Sono orrendi.» «Sono per il bambino.» «E ti pare che faccio giocare mio VERDE
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figlio con questa monnezza? Via, via tutto... Madonna che è ‘sta puzza?» Dal fasciatoio la voce della tata: «Lo sto cambiando signora. Ne aveva fatta così tanta.» «E ti credo! Mangia come un bue. Tutto suo padre. Ce l’hai lì lo scaldabiberon?» «Sì, signora.» «Adesso comincio la cura per far tornare indietro il latte. Non posso mica andare avanti così.» «Con quello che ti sono costate...» Enrico indica la scollatura di Marina. «Appunto, con quello che mi sono costate e che mi è costato anche il bambino.» «Ti riferisci a quel viaggetto all’estero?» Marina lo fulmina coi suoi occhi verdi: «Una vacanza, ovviamente.» «Calma, lo sai che so tenere i segreti. D’altronde non potevi continuare a fare la giovincella, dopo un po’, le donne senza figli sono zitelle sfigate.» Marina si fa seria: «Come fai a condurre un programma senza immedesimarti nel ruolo di madre? Alla prima che dici sono tutte lì, le opinioniste, a dirti “lei non è una madre, non può capire”. Ecco, adesso capisco.» Il pupo frigna con discrezione. «Ines, glielo dai questo biberon o no? Cavolo, mi tocca sempre dirti tutto.» Enrico le fa segno di tacere. Bussano: «Cinque minuti.» «Tesoro, cinque minuti e ti riprenderai il tuo pubblico.» «Già, sapessero cosa ho dovuto sopportare. Una statua d’oro dovrebbero farmi, altro che pupazzi.» Marina si alza e si spiana le pieghe dell’abito. «Signora, non vuole fare un salutino al bambino prima di uscire?» «Santiddio Ines, cosa vuoi che capisca? Ha solo due mesi.»
Il corridoio è breve ma a lei sembra infinito. Il wall si apre, la luce la invade. Trema. É di nuovo in TV. La accoglie l’ultima sciacquetta entrata in scuderia: «Marina bentornata, sei bellissima!» In sottofondo la canzone di Loredana Berté, lo sanno “gli stronzi” che le puerpere vanno rassicurate. Il corsetto la stringe fino a toglierle il fiato, maledetta pancia che ancora non si ritira. Marina manda baci allo studio e verso le telecamere. Finalmente si siede tra gli applausi che non si smorzano. «Grazie, grazie» balbetta la neomamma che seduta soffre ancora di più per il
corsetto. Parte la prima domanda: «Ci sei mancata. Sei felice di tornare in TV, Marina? Si parla già di un tuo nuovo programma!» Marina fa una pausa strategica come a ricacciare indietro la commozione e parla: «Grazie a tutti! Mi siete mancati tantissimo. Sono felice di tornare in vostra compagnia ma il più bel successo di tutta la mia vita è quello di essere diventata mamma.» Ripartono applausi assordanti, viene inquadrata qualche anziana commossa tra il pubblico. La sciacquetta si alza: «Non andate via. L’intervista con Marina subito dopo la pubblicità.»
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Deep Throat Jacopo Marocco Il mio, alle volte, è proprio un lavoro di merda, anzi, un lavoro del cazzo, come direbbe qualcuno per fare una battuta a doppio senso; ma banale e poco originale. Il copione è sempre lo stesso. Cambia giusto la posizione, la scenetta e la situazione, sempre qualcosa di ridicolo: una casalinga in casa da sola, con la lavatrice rotta, chiama l’idraulico; una professoressa dà lezioni private ad un alunno un po’ troppo cresciuto; una suora confessa i suoi peccati a un Vescovo allupato; una contadina attraversa il bosco per portare al padrone i frutti della sua terra. Cose così insomma, da quando esiste questo genere, è sempre la stessa storia: all’improvviso cambio di scena e la protagonista lo prende in bocca dal protagonista; lei lo succhia un po’ a lui; lui la lecca un po’ a lei; dopo un po’ lui è dentro di lei, e scopano in tutte le posizioni. Lui sopra lei sotto, lei sopra lui sotto, in piedi, seduti, sdraiati, da dietro, da una parte, insomma lo sapete. Poi si passa dietro; e lì si fa di nuovo tutto quello che s’è fatto davanti. Alla fine tutto si chiude con un pompino: lui, in piedi, viene nella bocca di lei, che in ginocchio finge di non desiderare altro che farsi schizzare sul palato, sulle guance, nelle orecchie, sulla fronte, negli occhi. In generale, da quando il porno esiste, è sempre stato così, non è mai cambiato nulla. Per ogni film, sempre la stessa cronologia di azioni: d’altronde, perché cambiare? Queste sono pellicole dirette a un pubblico superficiale, che guarda il film per il tempo di una sega; il più delle volte non si tratta di cinefili esigenti che si lamentano della solita minestra riscaldata o del copione sempre uguale. Perché? Perché nella realtà queste cose nessuno le sogna nemmeno; ciò che si vede nei nostri film è pura fantascienza. Metterlo in culo alla moglie, venire in bocca alla VERDE
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propria fidanzatina o anche solamente appoggiarlo in mano alla provocante vicina di casa è pura utopia per la quasi totalità di chi ci guarda, che davanti allo schermo si limita a smanettarsi nel tentativo di venire in sincrono con il protagonista, per sentirsi come lui e immaginare di essere al suo posto, e inondare le labbra della fantastica ragazza che geme al suo fianco. La finzione del porno strega e oscura la monotonia e la ripetitività della vita di tutti i giorni. Questo però non ha impedito all’industria di introdurre lentamente delle piccole novità. C’è questo Deep Throat, ad esempio, che letteralmente significa Gola Profonda, perché in effetti di questo si tratta: avere una gola talmente profonda da farci entrare un cazzo per intero, senza strozzarsi. I pompini non sono più semplici pompini, ma veri supplizi per chi, come me, non è predisposta. E non pensate che sia pur sempre meno fastidioso o doloroso del sesso anale: la gola col tempo non si allarga, non si espande, non si ammorbidisce. Farsi stantuffare certi salsicciotti fino alle tonsille e poi ancora più giù, fino a sfiorare con le labbra la pancia del tuo partner di scena, non è bello. Credetemi non lo è. E ogni volta che sei lì a farlo, pensi per quanti soldi lo stai facendo, per quanto ti stai facendo sfondare la gola, per quanto arrivi a sentire lo stomaco torcersi e il vomito salire veloce su dall’esofago; e lui, che non sa che è vomito, pensa invece che ti stai bagnando, come se la tua bocca fosse un sesso, e si eccita e ci dà dentro ancora più forte, fino a quando non ce la fai più, non puoi trattenerti ancora, ti divincoli dalla sua presa e vomiti anche l’anima. Sarai costretta a girare la scena di nuovo. Dall’inizio. Per sempre meno soldi, tra l’altro. Ogni volta che sono là sotto ripenso a quando, da bambina, il mio pediatra
controllava che la mia gola non fosse arrossata, premendomi la lingua con una sottile stecca di legno che mi procurava conati di vomito, e io lo odiavo per questo. Ora ho paura che qualcuno, prima o poi, mi trapani da parte a parte fino alla nuca. Altro che vomito. Maledetto Deep Throat e maledetti gli americani che ci costringono a farlo: non sanno scopare come noi europei e se ne inventano di tutti i colori. Maledetto Gerard Damiano
e maledetta Linda Lovelace. Ora c’è questo ragazzotto mulatto che ce la sta mettendo tutta per far vedere che è bravo. Sembra che stia arrancando a perdifiato su una montagna, come un martello pneumatico che sfonda l’asfalto. Io non resisto, gli strizzo forte un testicolo e lui mi lascia la testa, così sono libera di vomitare. Il mio, a volte, è proprio un lavoro di merda, anzi, un lavoro del cazzo, come direbbe qualcuno per fare una battuta a doppio senso; ma banale e poco originale.
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E L A I C PS E RO
U B AT M
Tamburo. Ho visto il timbro con cui siglava i suoi lavori muscolosi, del tutto simile a quello che usava un tempo mia madre per le perizie immobiliari, e ho avuto l’idea precisa del buco spazio-temporale frapposto a partire da quella brusca interruzione. Come un’altra volta che c’era lui che parlava nei sotterranei del Forte Preneste e mi sembrava sostanzialmente timido, rivolgeva sguardi febbricitanti in macchina e un po’ vestiva e appariva come gli Yuppies di Vanzina, un po’ come uno dei ragazzi della Terza C, ma si capiva che faceva fatica a ricoprire un ruolo. Grieco era marmorizzato davanti allo schermo a due sedie da me con la fissità di chi sta telepatizzando un ponte, e io avrei dato qualcosa per sapere che cazzo stesse pensando esattamente in quel momento, ma mi sa che era a Trastevere. Davanti ad una fotocopiatrice, mi ritrovai ad almanaccare. Michele Mordente una volta aveva uno Snake Agent inedito, e poi anche quel ritratto di Pazienza che fu relegato in quarta: ingiustamente, ho sempre pensato, ma poi ci ho trovato anch’io quel che di mortuario e tetro – il viraggio celeste mummia, l’occhio nero quasi a mandorla,
una specie di richiamo egizio – e ho capito le ragioni di Vincenzo. Davanti all’ingresso di una birreria di Lucca, una notte – eravamo rimasti solo noi due fuori all’addiaccio con le sigarette – io e Vincenzo convenimmo che era il migliore. Tamburini di cui comunque si fatica a mettere insieme una mostra, e non si sa mai se è perché era così generoso da lasciar disegnare gli altri, o troppo concettuale per interessarsene del tutto, o troppo pigro per mettere mano ai violini senza una banda armata, o troppo insicuro del suo bel tratto 60’s underground crumbiano, o insicuro tout court come sostenne una volta Guarnaccia. Lu Bonanni dice che al Bar Magia a Trastevere c’era una barista che si chiamava Lubna. E che c’erano i punk, ci sono sempre i punk dove racconta Lu. I 100celle City Rockers, rettificherebbe Mordente. Scòzzari ha rivelato particolari impietosi e macabri – e se mai leggesse questo pezzo non mancherebbe di dirmi brocco, cagnaccio, frocio con la bandana, distorsore del vero, che cazzo ne sai TU – ma va da sé che se ce li avesse risparmiati avrebbe ritardato di decenni la riscoperta in corso. Alessandra, firmandosi Strèkeno, mi ha ringraziato pubblicamente per essermi occupato di suo fratello su Lamette, ma gli articoli erano imprecisi, condensati, ellittici, mutili e tronchi, e un po’ mi sento in imbarazzo per non aver saputo fare di meglio. Ricominciamo. Umberto D’Agostino al Mulino a Viterbo o al Circolo degli Artisti, o il diavolo sa dove: lo conoscevo bene, abitava nel mio quartiere, quando è morto ho pianto. Thalido che mentre beviamo a San Lorenzo mi dice che ha una copia del demo di Mongoholy Nazi, e che non è vero che è un nastro ribaltato, ci sono interventi e loop. Delucchi che rettifica non mi ricordo cosa, ma mi dice cazzo io c’ero. I collage con i capelli sparati appesi a Giano dell’Umbria, ripresi pari pari in una locandina dei Bloody Riot. Le cartoline Vudu nella mia libreria a Formia. Lui che si fagocita a Napoli in quella prima copertina di Liberatore che mi ricorda un po’ Popeye. Tamburini che forse mi segue, o sono io che seguo lui, o in ogni caso ci scontriamo spesso. Curioso per uno che ha lasciato poca roba e se n’è andato con le valige sfatte, in chissà che livello, mentre all’ombra del Colosseo di plexiglas, rosa Buscaglione nel pomeriggio d’aprile, si parlava e non si parlava di lui.
Il Salone di Emma Andrea Frau Se gli uomini restassero incinti, potresti avere un aborto anche dal barbiere. (Daniele Luttazzi) Nei cadaveri per un po’ di tempo capelli e unghie continuano a crescere. Napolitano è l’ultima unghia marcescente del comunismo italiano. I partiti si ostinano; non vogliono che il vecchio Presidente lasci. Siamo all’accanimento terapeutico alla nordcoreana. Al Quirinale c’è una teca contenente l’unghia del Presidente che cresce alla stessa velocità dei movimenti delle nuvole. Solo che quell’unghia rimane un’unghia, non sembra nulla di diverso. Se abbassi lo sguardo non puoi fantasticare. Quel monolite putrescente è calato dall’alto e le scimmie-partito lo adorano come un feticcio salvifico. Emma Bonino è la nuova papessa della Repubblica. Ma nessuno lo sa. Al Quirinale riceve i capataz dei partiti ed estirpa le loro nuove emanazioni. Bersani è il primo. La sala della papessa è asettica, disinfettata. Bersani si accomoda. Emma gli insapona il viso, gli lega al collo l’articolo 7 della costituzione, tira fuori una falce e lo rade con grande cura. Berlusconi sbraita. «È il mio turno!» «Uno alla volta, per carità!» risponde la papessa canterina. Ora è il turno di Berlusconi. Per rilassarsi Emma gli infilza dei ferri da calza in faccia, tipo agopuntura di Hellraiser. Silvio ha con sé una troupe televisiva. Il suo staff infila dei collant negli obbiettivi delle macchine da presa. Con l’ausilio di un biscione gli vengono asportati dal sedere una serie di minorenni, liste della spesa e Alfano. E svariati scheletri, tanto che il suo ano pare un ossario. A Vendola l’unica cosa che si può aspirare sono le mille parole. La pompa viene azionata e dalla bocca di Nichi grandinano parole tintinnanti. Sembra una slot machine in tilt. Il banco ha perso! Lì vicino, Grillo si fa bello con vecchie battaglie radicali. Si profuma con il finanziamento
pubblico ai partiti, si deterge con balsami di trasparenza e lotta antipartitocratica. Emma gli fa la barba con calma. Ora tutti riconoscono il bluff sotto i suoi peli. La teca contenente l’unghia di Napolitano cade e si infrange in mille pezzi. Dei signori con dei camici bianchi mi entrano nella testa e mi estirpano il sogno di Emma Bonino Presidente della Repubblica con una gruccia arrugginita. La gruccia cade e gira su se stessa. Ed io non so se questa è la realtà o meno.
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