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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 2 anno I luglio 2012


editoriale

L’ordine arrivò dall’alto ed era categorico: bisognava incendiare e distruggere tutte le case e gli edifici fino a 50km dalla linea del fronte. Edgar e Allan si infiltrarono nel villaggio occupato con molotov e benzina, ma qualcosa andò storto. La benzina era come acqua e la paglia non prese fuoco. Ormai non c’era più tempo, ci avrebbero riprovato la notte successiva. La partigiana Tanja aveva 17 anni. Era un’aspirante scrittrice, si era appena arruolata e aveva partecipato ad una sola missione minore. Quella notte avrebbe voluto essere con i suoi compagni, ma glielo impedirono perché era troppo giovane. Appena seppe del rinvio, si disse che la notte dopo nessuno le avrebbe proibito di unirsi alla spedizione; ma l’operazione venne sospesa, perché Edgar e Allan rischiavano di venire riconosciuti. Fu così che Tanja decise di riprovarci da sola. Nessuno ne era al corrente, come nessuno sapeva che, prima di partire, Tanja si mesmerizzò. Edgar e Allan lo scoprirono quando ormai era già stata impiccata, leggendo il suo diario: era la Testimonianza sul caso della partigiana Tanja, quella che oggi tutti noi abbiamo letto e amato. http://comeittoogami.blogspot.it/2011/07/propaganda-vergini-e-martiri-zoya.html Il 28 maggio scorso abbiamo inaugurato i LIBRETTI VERDI: periodicamente pubblicheremo on-line (http://issuu.com/verderivista) numeri speciali,antologie di racconti, romanzi inediti, traduzioni di vecchi culti dimenticati e altro ancora. Le prime tre uscite riguardano il nostro passato, le basi nate fuori e prima della nostra rivista ma che ancora la fondano: le prime Storie Nere di Luca Carelli, 6 Blitzrecenzion e i tre capitoli inziali di Apocalyptical Marshmallow Crunchers di S.H. Palmer (già pubblicati su una rivista che oggi non esiste più.) LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE, DIFFONDETE!

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p.2 Editoriale p.3 TI ODIO POESIA #3: Dicono che (Er Farco) p.4 Il cane di Pavlov (Alda Teodorani) p.5 Mi morde una vipera (Morris Del Frate) p.6 Morte di un venditore di aspirapolvere (Luigi Bonaro) p.8 SUPER AMICI (Maicol & Mirco) p.10 Apocalyptical Marshmallow Crunchers cap.VI (S.H. Palmer) p.12 IN-DISTRO #3 (Deny Everything Distro 2.0) p.13 BLITZRECENZION #9: Teschi (S.H. Palmer) p.14 FICTIOTEQUE #1: Branca Mon Amour (Federica Lemme) p.15 ROCK CRIMINAL #1: L’uomo che uccise Tex Watson (Sergio Gilles Lacavalla)

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VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini.

Cover: La partigiana Tanja


TI ODIO POESIA

Dicono che

Er Farco

Dicono che quanno se mòre diventa silenzio ogni rumore. Arriva la pace tanto agognata. Avevi sperato. L’avevi sognata. Dicono che quanno se vive le grandi speranze son curative. La fede e la luce portano gioia, annullano il buio intriso de noia. Dicono che quanno se nasce l’intero universo è dentro le fasce. T’esce da dentro un grido soltanto. Non per dolore. È il tuo primo canto. *** Io che sprofondo a tutte le ore... Il tempo pe’ me è futuro anteriore. Solo la notte ha vera durata. Madre rapace demoralizzata. Io che ho bevuto acque cattive... ho polvere e sangue sulle gengive. Me resta soltanto la paranoia che spinge la fede verso ‘l suo boia. C’è chi non vive eppure rinasce solo se ucciso a colpi de asce. Con l’anima mia han fatto altrettanto. Dicono che... s’è persa nel pianto.

Er Farco è la macchia nera dei Poeti der Trullo, un gruppo di sette ragazzi del quartiere Trullo, alla periferia di Roma. Un movimento che parte dalla periferia e si diffonde e si espande attraverso la rete. Una mentalità metroromantica, con una forte componente urbana. VERDE 33


pavlov

Il cane di Pavlov

Un omaggio a Lucio Fulci

Il mio sogno nel cassetto? Scrivere racconti horror. E quando il caporedattore mi ha chiesto se volevo intervistare Lucio Fulci, il più splatter tra tutti i registi del mondo, ho detto subito di sì.

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di

Ho impiegato una decina di giorni per mettermi in pari con i suoi film che non ho visto - ne ha girati così tanti! Al citofono del regista risponde una voce burbera, per poco non mi faccio il segno della croce. Ho per un attimo la tentazione di andarmene poi rifletto, come faccio spesso notare ai miei lettori e ai miei amici, che l’horror è materia per gente a cui piace scherzare. Fulci è un personaggio divertentissimo. La sua casa è tappezzata di fotografie di barche – le sue barche, mi spiega – e di foto dei suoi film. Lui succhia caramelle dietetiche alla liquirizia mentre un cagnetto di piccola taglia uggiola ai suoi piedi, correndo instancabilmente dal salotto alla cucina. Alle mie domande Fulci non risponde, ovvero si fabbrica risposte da solo, facendo una spietata radiografia di tutto il cinema italiano. Ma alla fine di ogni amara constatazione su quanto poco siano valutati i registi in Italia, e di come non resta nulla ai veri realizzatori dei film (nemmeno le copie su pellicola), esplode in una risata. Cose di questo genere non hanno il potere di avvelenarlo. Quando arrivo alla domanda clou, quella che tutti i lettori vorrebbero facessi e cioè se pensa che l’horror possa indurre alla violenza, mi chiede se ho visto il suo ultimo film, appena uscito nelle sale, Un gatto nel cervello. Al mio segno di diniego mi dice: “Vada a vederlo, la risposta che cerca è là dentro. È un film autobiografico, sono io il protagonista”. E mentre immagino crudeltà su crudeltà commesse dal regista per prendere ispirazione, al montatore che si sporca le mani di sangue toccando le sue pellicole durante il montaggio, lui mi dice: “Vede quella pendola?” Guardo il vecchio orologio di fronte a noi che segna le ore 12 di un giorno qualsiasi del 1990. “Sa cos’è il cane di Pavlov? E

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di Alda Teodorani

continua senza aspettare risposta Be’, lui – e indica il suo cane che gli scodinzola di fronte – è qualcosa di simile. Quando la pendola suonerà, meglio che gli dia da mangiare se non voglio che mangi me!” e ride, con quella sua risata roca. Bene, ci mancava solo un cane cannibale. Ma si potrà dire cane cannibale? Mi chiedo mentre i due si allontanano e la pendola suona i suoi lugubri rintocchi. Forse è convinta che sia mezzanotte. Fulci continua a borbottare qualcosa, non so se parla con me e nell’incertezza resto seduta al mio posto. “Vorrei tanto scrivere racconti horror” gli dico quando torna. Mi dà un consiglio? “Il consiglio migliore è questo: giochi con le sue idee. Ricordi sempre che la scrittura è una cosa e la realtà è un’altra. Ma noi non abbiamo niente a che fare con la violenza reale”. Ancora qualche domanda e l’intervista è finita. Mi alzo per andarmene. La pendola suona l’una, e mentre Fulci si avvicina alla porta dell’ingresso immerso nella penombra, arriva il cagnetto scodinzolando e trascinando un pupazzo che è quasi più grande di lui. Vorrà sicuramente farmi vedere il suo giocattolo preferito, che carino. Lo guardo e prendo fiato mentre mi deposita ai piedi un omaggio del tutto personale. Fulci sta per aprire la porta che farà la differenza, almeno per me, tra dentro e fuori dall’orrore. Ai miei piedi, una testa di donna. “Non ci faccia caso. Dicono che i cani e i loro padroni si somigliano sempre”, sussurra Fulci., la mano contratta sulla maniglia, E sorride. Chissà perché quel sorriso sembra il ringhio di un lupo affamato...


i morde una vipera

Mi morde una vipera

Morris Del Frate

Mi morde una vipera. Muoio. Camminavo sull’orlo, le suole che accarezzano i ciuffi d’erba e baciano il vuoto. Camminavo sui monti, pregavo al cielo ma il cielo mi sputava nuvole sulla fronte. Non siamo per te, fischiettavano. Tu fottiti e annaspa nel fango, noi veleggiamo e tu arranchi. Le rincorrevo, inseguivo quei batuffoli di superbia per trascinarli giù con me. E l’erba, sempre più rada. Le pietre, proiettili immobili che mordono le scarpe; il ciglio del burrone mi invita. Mi trascina giù. Cado e i nembi ridono in coro, mi mostrano il dito medio. Precipito dalla scarpata, un volo di settantanove centimetri. Fa male, ma non quanto vacillare. Lecco la polvere, disteso davanti alla banale immensità della montagna. Mi disgusta il sublime, a me piacciono le moto. Sono qui perché fuggo, incespico perché bevo; mi piace quando bevo, i contorni sfumano e la realtà sembra un quadro sciolto nell’acido. Mi piace anche sparare, ma in montagna no. La natura esige rispetto, questo lo capisco, l’uomo invece si merita dolore. Gliel’ho dato, ai miei fratelli uomini, il dolore che spettava loro e anche qualcosa in più. Un omaggio della ditta, la mia è la migliore perché non bada a spese. E ora due occhi gialli si piantano nei miei ancora spenti. Un sibilo dardeggia e mi afferra: la vipera mi morde. Buca la pelle, misera barriera tra la carne e il cielo, ed è già il dopo. Il dopo di tutto, oltre la vita e la speranza e i baci mancati e le sberle e il pane senza sale. Solo, in cima al mio squallore, mi spengo. Cazzo se fa male. La bestia ormai se n’è andata. Serpe che striscia, diavolo e biscia, il veleno è miscela che incrosta la vene. Così io cadrò, sbronzo

come un accattone. Ora è il momento, tira le fila di una vita meschina e confessa a quel dio i peccati degli altri, giacché i tuoi non meritano perdono. Eppure non ho fatto mai niente di male, gli ordini li ho seguiti e di ideali non ne ho mai voluti, puzzavano di vecchio e di miseria. Un bambino, due bambini, forse di più, chi se lo ricorda, ammazzato il primo il conto si perde. Donne non ne ho mai amate, mi intrufolavo nei loro umori con l’arroganza di chi possiede un’arma e solo l’ombra di una coscienza; i miei baci, lividi e squarci sul volto e sui seni. Di uomini non parliamo. Non sono fiero di ciò che sono, a me piacerebbe essere semplice, come i soldi. Ma gli sguardi di chi implora pietà, nell’assurdo silenzio che precede la mia sentenza, nemmeno un giudice li vedrà mai. Le pene che io infliggo sono ergastoli infernali, batte il tamburo e la polvere mi entra nel naso, che sia bianca o nero pece la aspiro tutta e il colpo è già partito. Neanche il tempo di un pensiero. Mi ha morso una vipera. Muoio. E non cerco aiuto, io non l’ho mai voluto. Se c’è mai stato un dio lo sfido, perché ho sparato a mille anime e pure senza un’arma. In ginocchio leverò le dita e sparerò anche a lui. Così ha voluto il mio destino, così ho scelto io. La fuga non mi ha salvato, la montagna ora mi mangia. Ma io sono indigesto. Mi ha morso una vipera. Respiro. Morris Del Frate è nato nel 1987. Ha frequentato il corso di scrittura creativa presso la Scuola Internazionale di Comics di Roma e ha pubblicato racconti brevi per riviste indipendenti e piccole case editrici. Traduce inoltre racconti dall’inglese.

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orte di un venditore di aspirapolvere

Morte di un venditore di aspirapolvere Luigi Bonaro «(…) Poi, a bassa voce, come se si trovasse in chiesa, mi ha chiesto: Sa che cos’è questo? Mi sono avvicinato. Direi che è un aspirapolvere». Raymond Carver, Collettori «E quando la giornata è conclusa, una casa confortevole dove ritrovare l’energia». Ikea, Catalogo 2011

Casa Faticoni, giugno 2012 «Vede? C’è l’anti-odore, l’anti-allergico, il Pula che separa il 99% delle polveri, fino a 0,09 micron di diametro. I comuni aspirapolvere necessitano di due filtri per queste prestazioni. Al Falletto basta l’innovativo Filtrino Premium. Che ne pensa?» Chiese il novello commesso a Maruska Hot Pussy Alina, neo fiamma di Silvio Faticoni, politico locale di mezza età, mercante di lauree tarocche lungo l’asse industriale delle periferie di Roma-Pontida-Tirana. Alina, sul divano in attesa di clienti, era in abiti da lavoro, una sorta di bizzarra lingerie tigrata, degli orrendi zatteroni di plexiglas. «Puenso che nuon mi fruegare un cuazzo né de casa, né de touo fuottuto Fualletto» prorompeva, in una nuvola grigia, Hot Pussy Maruska mentre, a colpi di plateau, spegneva la sua Morley1 sul pavimento lustro. Roma,Verano, 5 aprile 2012 Funerale multimediale di Stato Cappella della famiglia Miracle Workers Diretta TV nazionale su reti unificate «La filosofia della Miracle Workers è, da sempre, quella di predicare attraverso il porta a porta, servendosi dell’opera di discepoli, la Forza Vendita Falletto, in possesso di capacità spirituali e del tesserino, emesso ai sensi della legge n. 173 del 2005, a tutela del consumatore dalle vendite piramidali. Diamo l’ultimo saluto al nostro eroe, vittima della barbarie femminista, caduto nell’esercizio della sua missione, il dottor Polveroni». Così esclamò commosso il cappellano aziendale alla folla che gremiva il sacrario tra scrosci di applausi, turbe emotive, miasma di polline e peti, perturbabili frasi di commiato, accorati volti di casalinghe addomesticate, solcati da lacrime nere di trucco economico, variopinte autorità politiche foraggiate dalla Miracle per l’evento. Roma, Regina Coeli, giugno 2012 Insomma, mi suona il campanello e sulla porta chi ti vedo? Un fighetto impomatato che fa il simpatico: «Nononò…» dico. «Tranquilla pupa, ti puliamo la casa gratis» mi dice. Che avreste fatto? Giorni dopo, si presenta un tizio, il tesserino verde mostra la scritta Miracle Workers2: «Posso?» Mi tende volitivo la mano. «Polveroni Alfredo. Lei è…» Gessato démodé, mocassini lucidi, cravatta, candido fazzoletto da taschino, baffo alla Rhett Butler3; di lato un valigione4 verde con le ruote. «Amanda Cavoli in Faticoni, non compro…» 1 Marca di sigaretta inventata, descritta nell’episodio di XFiles Musings of a Sigarette Smoking Man 2 Non è il nome di una multinazionale ma Miracle Workers erano un gruppo musicale garage rock originario di Portland, Oregon 3 Personaggio del film Via col vento 4 Termine impiegato da Raymond Carver in Collettori per definire il borsone che contiene l’aspirapolvere e gli accessori.

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morte di un venditore di aspirapolvere

«Sisisì» mi blocca lesto mentre trascina in casa il pesante dinosauro a rotelle. «So tutto. Te lo faccio solo vedere… Ci diamo del tu?» invita affettato. Si sfrega le mani: «La casa è grande. La pulisci da sola?» «Olio di gomito» rispondo orgogliosa. «Bene!» Proferisce risoluto e passa un fogliettino sullo stipite: «Ah! Siete sporchini». «Vieni qui, ti spiego» mi dice. Guardo il foglio sporco mentre parla. Mi spacco la schiena “appresso” alla casa, arriva lui e… Il gesto col foglio è davvero scortese. «Bello il tappeto!» «Lo spolveri con il resto della casa, giusto?» «Non pulisco i tappeti a nessuno» replica irritato. «Allora perché sei qui?» Mi fissa: «Vengo a mostrarvi la Verità… Passa prima tu col bidone». «Ma ho appena finito le faccende». «Dai, ti faccio il Miracolo». Per farla breve, prendo scocciata il bidone e aspiro di nuovo il persiano. «Va bene così?» dico quasi sbuffando. «Può bastare». Quindi, Fred Astaire Polveroni inscena un goffo tip-tap col Falletto sul tappeto. Poi, sfoggia il filtro: «Guarda che schifo! Siete maialini». Sono furiosa, mi sento umiliata. Prima della sua “aspirante” presenza la casa brilla. E adesso? «I tuoi figli saranno di certo allergici». «Mia figlia sta bene» replico. «Bugiarda!» sferza alterato e ravana nel valigione. «Ecco la Miracle Brush, estensione del Falletto, per la cura delle pavimentazioni dure. Ha due spazzole di metallo» Il suo occhio riflette lo Shining1. Polveroni, figlio di mille accessori, stronzo verde, re dei Falletti, tu e i tuoi diminutivi, ti odio.

«Solo quattromila, tutto compreso». «Sei pazzo?» «Il Falletto è per la salute della famiglia! Non ti vergogni?» «Abbi pietà. Abbiamo molte spese e poi ne devo parlare con Silvio, mio mari…» Lo supplico. «Ah! Ho capito chi ha le palle qui, non conti niente!». «Stronzo maschilista, ti sbatto fuori!» urlo. «E brava la nostra puttana. Si offende invece di addomesticarsi. Sappi che starò qui e aspetterò tuo marito, devo dirgli chi sei! Pulirò la casa, per la salute di tua figlia, non certo per te, inutile sgualdrinella. E poi… Sono sicuro! Troverò escrementi di acaro». Polveroni, infaticabile bastardo, è fuori di sè, aspira, collega accessori, mi insulta tronfio d’orgoglio, brandisce quell’arnese a mo’ di vessillo di potere fallico-casalingo, continua così per ore: «Casalinghe, razza inferiore, miserabili, untuose puttanelle dilettanti». Subisco in silenzio. Sono in ostaggio. Mi fissa con disprezzo: «Dammi il numero di tuo marito! Hai capito puttana?» mi vibra un ceffone, sbatto a terra e svengo mentre lui dirige il Falletto verso lo stipite dell’ingresso dicendo: «Vedi sgualdrina?» Mi sveglio e, penne di sbirri annotano su taccuini, tute bianche chinate sul pavimento, ho le mani insanguinate. Polveroni è prono in una pozza di sangue, la testa fracassata. Tra bande gialle che ne limitano il perimetro, c’è la Miracle Brush, ha delle parti di materia cerebrale sulle spazzole. Mio marito manca da più di un mese. Poverino, è spesso all’estero. Ha preso per me il miglior difensore del foro di Roma, mi ha lasciato il biglietto con il numero. Sarà… Due mesi che sono in carcere e ancora nessun avvocato. Al telefono risponde una voce straniera. Almeno è una donna. Preferisco. Al di là delle professioni, noi tutte abbiamo una casa e un uomo di cui occuparci.Ah! Ecco il biglietto, c’è scritto: Avv. Maruska.

Classe '72, laurea in antropologia, autore di storie strampalate, dissonanze, frammenti, macchie d'inchiostro, porzioni di realtà. Redattore di Knife e Nero Cafè ha ricevuto una menzione come articolista italiano 2011. Vive a Est di Roma con la moglie e il suo piccolo Francesco. creeptale.blogspot.com www.luigibonaro.com

1 Luccicanza - Il corrispettivo reale è un fenomeno di presentimento che fa parte della telepatia. Il termine è stato coniato da Frederick William Henry Myers (1843-1901), uno dei fondatori della moderna psicologia, ripreso da Kubrick nei suoi film.

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pocalyptical marshmallow cruncher

CapitoloVI*That’snotProust’s matter* S.H. Palmer RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI L’ultima guerra contro il nulla ha distrutto il mondo, i desideri e la memoria di ogni cosa: gli unici sopravvissuti sono i Randagi del Macello, bambini mangiatori di libri antichi, detentori della saggezza storica predestinati alla rieducazione futura del popolo, e un gruppo di masticatori di tabacco inumidito di benzina, che coadiuvano la realizzazione del “progetto”: la ricostruzione del passato dimenticato, una grande opera di recupero della memoria della civiltà (o della barbarie) perduta.

H** è nervoso oggi. Deve cominciare a pensare. Ha paura che la sua ricerca si riveli vana. Probabilmente è solo un po' ansioso. Ha solo bisogno di una pestilenza per calmarsi. È quel tipo di persona piena di progetti e sogni che volano in alto di notte per poi infrangersi il mattino seguente. Ogni notte, ogni mattino. Quel tipo di persona che cerca sempre una possibilità, una forma di salvezza, anche con i resti rancidi del suo sogno più grande buttati lì, di fronte ai suoi occhi. Non smette mai di cercare la possibilità. Cerca sempre il pezzo mancante per ripararlo, anche quando i pezzi sono palesemente troppi. La sua immensa cultura lo porta ad essere scettico e totalmente ottimista allo stesso tempo, più che altro perché l’essere a conoscenza di troppi pareri (più o meno illustri che siano) gli ha fatto dimenticare il proprio personale punto di vista. Questo, nello specifico, a lui succede a tratti. Dopo qualche pestilenza la sua lucidità ci faceva paura. Ogni volta che accadeva usufruivamo di una scala di valori approssimativi e normativi che va dal fremito sublinguale al terrore paralizzante. Le sue considerazioni ci inquietavano sì, ma le ricercavamo avidamente. Tutti. Ogni volta che venivano a farci visita casualmente alcuni deliziosi e onesti individui da noi conosciuti prima della guerra, ne eravamo sempre entusiasti. Parlare con loro, anche solo di quanto sia stato plumbeo il cielo quel giorno o lo VERDE

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fosse stato il giorno prima, è ogni volta un sollievo universalmente valido. In quella specifica occasione la loro visita non fu casuale come al solito; H** li aveva contattati personalmente per tentare di cominciare al meglio, e senza dover ingoiare troppo veleno, la propria crociata personale. Pur non essendo stato loro esposto chiaramente il motivo di questa visita improvvisa e disorganizzata, non si sono fatti prendere dal panico, anche se, in confidenza, una di loro – R** – mi ha confessato di essersi un po’ preoccupata data l’urgenza ed il tono stralunato di H**. Nummù era stranamente tranquillo. Sembrava quasi intontito dalle voci calme e cadenzate dei presenti. Le parole fluivano e si inerpicavano e scalavano vette ed argomenti, i quali – sconosciuti e noti che fossero – venivano scandagliati, ma mai violentati. L’atmosfera non si irrigidiva neanche durante le esposizioni delle opinioni più contrastanti e sanguigne. Appoggiata alla lamiera con la mia pipa di creta, sorridevo al nulla ringraziando l’aria che mi circondava per essere in quel posto, in quel momento, con quella gente. Presto, una sera ancor più tranquilla del nostro compagno d'avventura si è insinuata liscia e sinuosa tra gli ultimi respiri di luce, scivolando silenziosa come un serpente che sguscia fuori dalla sua vecchia pelle. E intanto Nummù scodinzolava la sua enorme coda grigia. Al tavolo i commensali masticavano il marshmallow delle grandi occasioni insieme a bastoncini di carne secca e


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salata. Una prelibatezza che la signora P** ci aveva tenuto da parte con cura e premura. Mi accorsi dell’attenzione con cui H** poneva domande puntigliose, ma sempre generali, con l’unico scopo di arrivare proprio lì, dove il dente duole. Lì, dove la lingua non smetterà mai di battere. Q** non diceva una parola e con lenti sguardi globali non lasciava trasparire minimamente il suo interesse per gli argomenti. Fa sempre così, Q**. Lo fa anche nei confronti di cose e persone e parole e suoni e animali e piante e libri che ama. A volte non posso negare che questo atteggiamento mi destabilizzi, ma non posso neanche negare quanto ami questo suo modo di essere. H** intanto non prendeva appunti scritti. Non lo faceva mai. Però i suoi bulbi oculari volteggiavano per la stanza e per il mondo intero leggermente umidi. Al termine della sua estenuante seduta di ricerca si è ritenuto così soddisfatto da congedarci tutti con un lungo e profondo inchino, per andare nell’altra stanza a buttare giù qualche appunto; la stesura quasi definitiva dell’opera. In quel preciso momento si è sentito così soddisfatto da lasciarci lì attoniti a crederci un po’ cretini, con i nostri piatti mezzi pieni e i bicchieri mezzi vuoti. Dopo qualche secondo di imbarazzo siamo scoppiati a ridere. Un riso sommesso, perché in fondo eravamo consapevoli di quanto fosse importante quello che il nostro eroe stava cercando di fare, pur sollazzandoci, rispondendo ai suoi quesiti con una sorta di cut-up mnemonico. Tutto nel rispetto più totale, però. E ce ne scusavamo di questo nostro riso, ogni santissima/maledetta volta, pur sapendo che non ce n’era bisogno. Non ci lasciava entrare nel suo lavoro. Ne saremmo stati protagonisti inconsapevoli, diceva per vezzo.

Non si lasciava distrarre e continuava a costruire, smontare e rattoppare le verità dei sopravvissuti, affinché non andassero completamente perdute anche queste. Una volta – ancora non era scoppiata la guerra, ma ne sentivamo già l’odore – qualcuno mi parlò con spocchia di Proust cercando di convincermi di alcune cose, di alcune visioni e forzature, volendo tentare di farmi sentire più piccola di quanto già non lo fossi in quel tempo da ritrovare, durante il quale indossavo i trampoli per non sentire la puzza del mondo. La cosa divertente fu che questo eminente luminare, non lo aveva proprio capito Proust. Quanta superficialità sulla bocca di stagno. Un pappagallo senza fantasia, che s’atteggia pavone. Ed io, che resterò pur sempre quaglia, non mi atteggerò mai a faraona. Perché non mi serve. Le mie uova sono migliori. Una lampada a grasso di maiale. Ecco cos’era quell'idiota. Una scopa appoggiata ad uno stipite senza un granello di polvere. Anche la polvere con una scusa banale si allontanava da lui. Ecco cos’era quel falso intelligente. Faceva finta anche di averlo letto, Proust. Quando al contrario – ci metterei sul fuoco tutte le mani che mi sono rimaste – sicuramente si sarà fermato all’assunto per cui Marcel diventa scrittore. Lo lasciai detto a Marcel. Non potevo esimermi dal farlo: «Marcel, call me 000846-xxx.» I nostri Randagi quelle migliaia e migliaia di pagine le hanno tritate per bene tanto tempo fa. Per una simpatica coincidenza del destino, quel tempo perduto non potrà mai esserlo nel senso stretto del suo significato lessicale, in quanto ormai geneticamente aggrovigliato ai migliori sopravvissuti che potessimo sperare di conservare. Lasciate detto a Marcel anche questo.

Nata a Brentwood il 3 febbraio 1971, S.H. Palmer è la più giovane e significativa esponente dei DISTRUZIONISTI, oscura avanguardia romana di fine anni'80, nata in seno agli ambienti di estrema destra della capitale, dove Palmer si trasferisce nel 1985. Poetessa, narratrice, autrice di numerosi testi teatrali e di romanzi dai temi controversi (su tutti APOCALYPTICAL MARSHMALLOW CRUNCHERS, la sua opera maggiore), dopo aver a lungo lottato contro una insidiosa depressione post-disintossicazione, muore a San Severo il 27 dicembre del 2004, a soli 33 anni. VERDE

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in-distro in-distro

Deny Everything Distro 2.0 Sincope è la più recente incarnazione di truculentboy, multiforme ed eclettico agitatore della scena sotterranea da quasi tre lustri. Riassunto delle puntate precedenti: in principio era Empty Zine ma parliamo degli anni ‘90 e beato chi l’ha letta, poi venne l’epopea di Mammamiaquantosangue con editoriali e report geniali, uno spirito divertito ma coerente, i racconti e le recensioni in cui il “ragazzo truculento” suggeriva ai punx del 2000 di aggiornare gli ascolti: consigliava gruppi come Encore Fou e With Love o pazzoidi come Ovo e Allun. Per il sottoscritto sono stati gli “anni d’oro” e i due numeri di “mmqs” consumati e imparati a memoria, letture davvero formative e non solo per i contenuti: trasudavano attitudine, un concetto che oggi è passato di moda ma fino all’altro ieri era come il bollino chiquita, o ce l’avevi o eri un fottuto poseur. Dal 2004 al 2009 la fanza è stata affiancata dal sito splatteroso e dall’etichetta Mastro Titta Produzioni e il simpatico guru frusinate si è sbizzarrito tra coproduzioni di gruppi punk e hc tra i più interessanti di quel periodo (Arsenico, Un Quarto Morto, Blood ‘77, Bone Machine) e progetti più sperimentali, curati in solitaria dalla grafica ai gadget (viti, petali e pezzi di muro dentro il cd-r Spliner Vs Stalin). L’etichetta si è evoluta insieme ai gusti del suo responsabile che nel frattempo è impegnato anche in diversi progetti musicali (Compoundead, Tronco, Drum is dead, truculentboy): si allontana gradualmente dalle sonorità elettriche per abbracciare noise, industrial, rumorismo e improvvisazioni ma, manco a dirlo, rimane punk fino al midollo nell’approccio e nello spirito. È arrivato il momento della mutazione: muore Mastro Titta, nasce Sincope, anche stavolta il nome non nasconde le intenzioni. Ogni uscita, 17 dal 2010 ad oggi!, è una piccola opera d’arte, spesso estrema ed inquietante, ma la caratteristica di Sincope, rispetto ad altre etichette di questo tipo, è proprio l’“approccio positivo” di chiara derivazione hardcore. Niente visioni apocalittiche né ricerca dell’estremo fine ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY www.myspace.com/denyeverythingdistro denyeverythingdistro.blogspot.com denydistro@gmail.com

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a se stesso, la “politica” intrinseca alle “sue” sperimentazioni è estremamente chiara senza strizzate d’occhio ambigue. Musicalmente ce n’è per tutti i gusti, dall’harsh di Fecalove al post punk dei Tronco, dal cantautorato ambient-folk-avantgard di Daniele Brusaschetto al caro vecchio emocore di Affranti e Sumo, con un occhio di riguardo alle realtà al di fuori dell’Italia, perché truculentboy non ha paura di attraversare generi, correnti, scenari apparentemente distanti tra loro, accomunati però dall’assenza di compromessi di qualunque tipo. In arrivo il nuovo Compoundead (ambient drone), Nodolby (noise nastri e delay vs acustico da Belluno), Pregnant Spore (synth e distorsioni da Baltimora), Crystal Plumage (drone minimalista tra Francia e Berlino), Bruital Orgasme (duo belga tra drone e harsh) nonché l’attesissimo Mammamiaquantosangue # 3... sono altri frammenti di presente che Sincope sta pazientemente cucendo insieme.

Contatti sincoperec.altervista.org http://soundcloud.com/sincoperec


BLITZRECENZION S. H. Palmer

BLITZRECENZION

Teschi

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Quando ti stringo forte mi rendo conto che dovrei portare sempre con me tutti i pezzi di te che merito di amare: estremo bisogno di romanticismo, d’estate e d’amore. (shanduziopalmer.tumblr.com)

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boutique di cronache cineletterarie Elettra Reed BRANCA MON AMOUR EBM Edizioni, pp. 160, euro 9,90 Una misteriosa ragazza giapponese dalla chioma blue Klein. Un uomo in nero che incide il suo romanzo sopra nastro magnetico. Una cyberstar in maschera che piange il fallimento. Avventori di un posto lontano in cui si ballano cangianti ritmi nipponici dai capelli poco lisci. Tutti girano come una lavatrice, come le lancette impazzite dei battiti spezzati e convulsi di un noir dai riflessi kitsch e steampunk dove, nello spazio di un quadrante, ragazzi mascherati da giacobini del III millennio perdono per sempre il DNA in una sanguinosa eiaculazione. Frasi senza impronta digitale impastano la bocca dei pensieri con un aromatico sapore sessuale. Raccontando la radiografia interiore di corpi che s’increspano e smarriscono l’anima nell’amplesso con una donna senza volto: MeduSa. Sulle spalle porta un groviglio di serpi inciso con indelebile inchiostro. Una ripresa a bassa risoluzione di queste parole è il solo indizio ritrovato, grazia e angoscia di Special Agent Man. Arruolatosi in polizia dopo una giovinezza violentata dal western, l’uomo ha il compito di squarciare il velario che ricade sopra le morti insieme a Shampoo che, passato dal Nintendo direttamente alle droghe sintetiche, gestisce il centro sociale dove avvengono le stragi senza calibro. Nessuna mano armata. Solo inchiostro di piombo declina le modalità della macelleria di mezzanotte ideologicamente impenetrabile. Tra odore di piscio e wasabi, allo scoccare di lampi strobo, a cinque ore esatte dalla conoscenza col proprio carnefice si muore faccia a faccia con lui. In un sospiro truccato d’argento si annega in sabbie fluorescenti di desiderio. Mentre l’assassino continua, invisibile, a cercare la perfezione del palpito degli orologi nella morte, che qualcuno gli ha portato via impressionandolo eternamente nelle pagine di un libro. Rendendolo null’altro che il prolungamento del suo pene. Folle volere di regnare sulle cose che cambiano. Decapitare il tempo prima che un pugno d’ore possa impossessarsi degli eventi, cambiare il radioclima e portarlo al tormento. È la verità proclamata dalle riprese ritrovate? Rispondono solo il vento e una frase che rimbomba incessantemente. Nebbia. Nessuna ideologia in anonime pagine che potrebbero appartenere all’aguzzino come alla vittima. Si dilegua il confine tra padroni e schiavi, tra chi racconta e chi compie l’azione. Una dissolvenza in nero ricopre il diritto d’autore, perché la storia, le immagini e i personaggi, sono solo un’illusione dentro questo romanzo dalle punte doppie che si riavvolge in un perfetto cerchio concentrico. Una bobina omicida dal dogma bifronte. Attraverso una scrittura più esasperante di un ticchettio il lettore viene pettinato con una carica elettrostatica in grado di far saltare in aria tutti gli stereotipi che popolano la controcultura. Federica Lemme è dedita al vizio del gioco letterario. Scrive di musica sopra Ritual Magazine e Indie For Bunnies. La potete trovare all’indirizzo www.facebook.com/sig.inaina, quando esiste.

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Sergio Gilles Lacavalla

# 1 L’uomo che uccise Tex Watson

Bill (lo chiameremo così – visto che a tutt’oggi, dal 19 dicembre 1991, non è ancora stato identificato) sosteneva che quello era Tex Watson. E che lui, dunque, avesse ucciso il killer di Cielo Drive e Los Feliz: Charles Tex Watson, il luogotenente di Charles Manson, quello che guidava le ragazze della Family nelle notti di gloria e morte di Bel Air. Le notti dell’Helter Skelter. «Ma che cazzo stai dicendo, imbecille! Guarda qua!» Carl (altro nome di fantasia: neanche di lui si è mai arrivati a conoscere l’identità) gli mise il Los Angeles Times davanti a quella faccia da cretino che si ritrovava e gli fece leggere la notizia: “Ucciso durante una rapina il roadie dei Black Flag e della Rollins Band e attore di Hollywood Joe Cole. Era insieme al coinquilino e cantante Henry Rollins, uscito indenne dalla sparatoria”. «Ma no, era lui ti dico. L’ho riconosciuto. Per questo gli ho sparato.» «L’hai visto alla tv, stupido di un drogato. Guarda ora in che casino siamo. C’è anche l’identikit.» Il problema, era che Bill, per la droga, era diventato stupido davvero e confondeva le cose: Joe Cole aveva interpretato il ruolo di Tex Watson in un film, quindi, per lui, era Tex Watson; doveva per forza essere Tex Watson. Neanche il giornale riusciva a convincerlo. C’era pure il fatto che si trovava in crisi d’astinenza dalla sera precedente. Appena cinque dollari: avevano trovato addosso a Cole e Rollins solo cinque dollari. Lo spacciatore ti ride dietro. Li avevano attesi fuori dal videonoleggio vicino casa, dove erano passati al ritorno dal concerto delle Hole al Whisky A Go-Go, li avevano fatti sdraiare a terra sotto la minaccia delle armi per rapinarli e li avevano costretti a farli entrare nella loro abitazione: che cazzo ci fai con cinque pidocchiosi, miserabili dollari. Allora dateci quello che nascondete in casa, stronzi! E non cercate di fare i furbi! Poi, però, il nostro Bill, appena Henry Rollins ha aperto la porta, ha sparato. Dritto allla testa di Tex Watson. Perché, vuoi che uno che ha fatto tutto quel macello non sia capace di stenderlo?! No, non era un film: Tex Watson stava estraendo la pistola e allora bang! bang! bang! Cazzo, prima che mi fai secco tu, ti faccio saltare il cervello io! Ah ah ah! Ha avuto quello che si meritava. Mentre Henry Rollins ne approfittava per scappare sul retro, inseguito dalle pallottole dell’omicida di Charles Tex Watson. «È all’ergastolo, Idiota! Tex Watson è all’ergastolo. Dove finiremo noi. Solo che su di noi, non ci faranno nessun film.» Carl scosse la testa, ripiegando il giornale, ormai arreso. «Che dici?» sorrise meravigliato Bill: «Non possono non fare un film su chi ha ucciso Tex Watson!» VERDE

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tutto quel che vediamo o sembriamo è solo un sogno nel sogno


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