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Antonio Veneziani Alda Teodorani Pierluca D'Antuono 'A Gatta Morta Simone Lucciola Deny Everything Distro Elena Bortolini S.H. Palmer Luca Carelli Cristiano Baricelli

Cristiano Baricelli http://www.crybik.com - Omaggio a MOTOSEGA (personaggio inventato da Akab http://mattatoio23.blogspot.it )

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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 9 anno II febbraio 2013


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PARTNERS IN CRIME

Un mostro percorre il mondo: la falsa rivoluzione

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VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it

Cristiano Baricelli, http://www.crybik.com Dislessico

p.2 Editoriale p.3 TI ODIO POESIA #8: Lasciamoli lì a parlare (Antonio Veneziani) p.4 Lara l’ombrellina (Alda Teodorani) p.6 Con calma, senza fretta (Pierluca D’Antuono) p.8 La mia piccola Katie (‘A Gatta Morta) p.10 SEMIAUTOMATICA #2 (Simone Lucciola) p.11 IN-DISTRO #6: Hellnation (Deny Everything Distro) p.12 PIRATERIA SERIALE #1: Girls p.13 BLITZRECENZION #14: Lei disse (S.H. Palmer) p.14 STORIE NERE #5: Mara (Luca Carelli)

indizi

dove siamo editoriale

La scrittura è un’arma, come possono esserlo tutti i mezzi di espressione, e sono bene armati gli autori dei racconti e delle rubriche che ogni mese apportano vita e linfa a questa (sempre più) VERDE Rivista; di fatto il mese scorso abbiamo dato inizio alla collaborazione di Simone “Lamette” Lucciola, che a tal proposito ci illustrava via messaggio il suo parallelo tra il ritmo della scrittura e quello di una Semiautomatica, sostantivo scelto come titolo del suo appuntamento mensile. La scrittura è davvero in grado di cambiare le cose nel mondo e di fare evolvere gli uomini: basta pensare ai grandi della narrativa o della poesia mondiale e al messaggio che hanno portato nel corso del tempo. Non a caso, in uno dei più bei romanzi sull’argomento, Farenheit 951di Bradbury, i primi a fare le spese durante la dittatura erano i libri e così è sempre stato anche nella realtà. Il potere degli scrittori è un potere armato, l’importante è che siamo consapevoli della forza di cui possiamo disporre. Continuate a seguirci e... LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE, DIFFONDETE!


Antonio Veneziani

Lasciamoli lì a parlare. ma come faranno? Sono su rive opposte del lago. Costruiranno barche di carta, azzarderanno il limo e l’acqua, agghinderanno mano e bocca, sdoppieranno sogni e pensieri, sono sempre stati ragazzi vivaci, lasciamoli lì a parlare.

Antonio Veneziani è poeta, saggista, editor. Fra i suoi libri: Brown sugar, Torbida innocenza; con Riccardo Reim ha realizzato i libri inchiesta I mignotti e Pornocuore. Ha curato varie antologie fra cui: Peccati veniali, Qualcuno ha morso il cane, Buon Natale e felice anno nuovo. Dirige con Claudio Marrucci la rivista Ciclostile. VERDE

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TI ODIO POESIA

Lasciamoli lì a parlare


Lara l’ombrellina Alda Teodorani «Scoparsi una vergine è un po’ come montare una moto che grippa» le aveva detto Vincent, il suo primo ragazzo, quando lei gli aveva chiesto com’era fare sesso per la prima volta, lei che ancora non aveva mai provato, terrorizzata più che altro dal pensiero di poter restare incinta, rovinarsi la vita tra pappe e pannolini e giocarsi le sere in discoteca e le domeniche al mare a Ostia, come era successo alla sua compagna di banco. Vincent era uno esplosivo, uno che con i suoi sedici anni e un evidente priapismo le si masturbava addosso e lei, gli occhi chiusi, l’ascoltava gemere, terrorizzata e affascinata al tempo stesso dalla voglia di lui, dal suo sesso. Era uno che si prendeva sempre tutto quel che voleva, che a dodici anni si era costruito una moto con le sue mani, con pezzi di recupero e saldatore, uno che passava tutto il suo tempo in pista, o in una roulotte nel parcheggio dell’autodromo. E la febbre della moto Lara non sa nemmeno quando se l’è presa, forse quella prima volta a Vallelunga, con Vincent che era uscito di pista durante il terzo giro, sbagliando in pieno una curva, Vincent che probabilmente era tutto cazzo e niente palle, lei sulla tribuna a osservare la sua sconfitta, guardando le moto sfrecciare e sentendo il sangue rimescolarsi dentro lo stomaco insieme al rombo dei motori che le vibrava nelle viscere. E in quel momento aveva capito che non sarebbe stato lui il primo a cavalcarla. Terza giornata di campionato. Al margine della pista, il sole brucia. Lei osserva ogni movimento dei piloti in tuta, nell’aria un vago odore di cannabis, le hanno detto – chissà se è vero – che è l’odore della VERDE

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combustione dei carburanti in quei motori tanto potenti che non si può nemmeno misurare il tempo da zero a cento come si fa con le auto. Ma lei non è lì per le moto. Non le interessano quegli ammassi di plastica e alluminio, forse carbonio – ha sentito dire qualcosa in proposito – che riempiono l’aria caldissima di un rombo feroce. Eppure probabilmente è proprio quel rombo che le fa battere forte il cuore, che le dà una sensazione strana, di leggero capogiro. Le mani tremano, mentre lei – il giro di prova è già stato fatto, e ora tutti sono schierati sulla griglia di partenza – osserva la mano guantata di nero del pilota più vicino, l’osserva muoversi sulla manopola del gas, frenetica, può quasi sentire i muscoli delle gambe di lui contrarsi, pronto a innestare la marcia, e poi eccolo, lo schiocco leggero della leva del cambio spostata all’insù, ancora più gas e le moto scivolano via, compatte, pulite, alcune serpeggiando leggermente di coda, straordinariamente forti nell’impeto della partenza. Si è allontanata dalla pista, perde tempo aggirandosi tra i paddock. Dopo tutte le volte che l’hanno vista lì, dopo tutte le volte in minigonna bianca sopra il tanga nero, canottiera bianca e blu, capelli spettinati – il suo parrucchiere ha chiamato questo taglio Isteria – che alla gente delle corse piace un po’ di stranezza, tacco rigorosamente da 13 centimetri a reggere l’ombrello sopra il pilota (un rito che è qualcosa di simbolico più che una reale difesa dalla pioggia o dal sole, come se il suo status includesse una giovane schiava pronta a servirlo e riverirlo dentro un mondo quasi interamente composto da maschi) è riuscita a conquistare un


pass all access, può andare dove vuole, conosce tutti o quasi: quelli delle gomme, quelli dell’organizzazione, i camionisti dei team, perfino il pubblico che più variegato di così non si può: la famiglia del pilota, la fidanzata del tecnico di gara, il giornalista appassionato di moto e azzoppato dall’ultima caduta nel traffico di Roma – occhialetti azzurrati e zaino per computer – c’è perfino il barbone easy rider style, che si gratta la pancia gonfia di birra e fuma il sigaro toscano. Loro, i piloti, cambiano sempre, a seconda del tipo di gara o di specialità, ogni volta è un brivido vederli salire sulla moto, in quella posizione così sfacciatamente da monta. Anche d’estate, con l’aria rovente, i piloti indossano una tuta di pelle, protezioni ovunque, sempre più somigliano a un antico guerriero, in questa specie di spettacolo un po’ alla Rollerball: malgrado la sicurezza sembri aumentare, lei sente che, quando un pilota cade, tra il pubblico serpeggia un brivido, la gente vuol vedere il sangue. Lara è sulla torre, osservando la parte est della pista, quando un pilota scivola in curva, slitta via, la moto slitta anch’essa a pochi centimetri da lui. Lara ha un sussulto, osserva la scena, il pilota si rialza a capo chino, subito è un pullulare di gente, controllano che non ci siano rimasti pezzi di moto sull’asfalto, poi qualcuno recupererà la moto e il pilota. Lei lo guarda, cerca di immaginare il volto del centauro, come è il suo corpo sotto la tuta, il suo odore, un misto di sudore, di plastica e pelle. Più tardi, dopo essere ritornata giù dalla torre, quando la gara è finita, lo rivede seduto sulla scaletta di accesso al camion dei ricambi. Lei gli si avvicina, lo guarda da sotto in su. Sfrontato, provocante nonostante la sconfitta, si è tolto la parte superiore della tuta – quella tuta afflosciata intorno al corpo, piena di tracce di sabbia, di sbucciature come una pelle vera, non indossa niente sotto, nemmeno la canottiera. Lara lo

guarda e gli sorride, lui le fissa come prima cosa le gambe – non è la sua faccia che vuole – probabilmente pensa a sbattersela, lei indossa la solita gonna corta che, più del pass, garantisce, e le garantisce, un accesso dovunque. Tra il sole e il rombo dei motori qui la velocità si respira con il sudore, l’adrenalina e il testosterone, che sono legati e interdipendenti, ma questo Lara non lo sa, sa solo che ora il cuore le batte forte, stimolato dalla vista del torso nudo del pilota, luccicante di sudore, del suo sguardo vacuo, quasi nero e leggermente inappetente. Odore di olio bruciato, di gomme lasciate sull’asfalto, l’aria le trema intorno, dagli altoparlanti esplodono a tutto volume i commenti sulla gara. Lo ha fissato a lungo, secondi che sembrano ore, e poi gli ha fatto un cenno, ed eccolo là, il ragazzo la segue nei locali della torre di osservazione, la segue e a ogni passo metabolizza la rabbia per la sconfitta, la proietta nei muscoli, gli uscirà fuori sotto forma di energia, è quello che sperava Lara, e infatti lui nemmeno si lascia baciare quando lei avvicina il volto al suo, una spinta e la butta per terra, furiosamente la prende così, solo scostandole le mutandine dal sesso già bagnato e gonfio di liquidi, già preparato da tutto quel pomeriggio torrido, da tutte le altre volte che s’è fatta sbattere in mezzo alle moto, dentro una tenda o in un camper, con l’odore di benzina e di metallo, di attrezzi da meccanico, scopate frettolose che la eccitano più aspettandole o ripensandoci che compiendole. Poi lui se n’è andato e lei è rimasta lì, a guardarsi il seme di lui che le scorre lungo le gambe in piccole gocce iridescenti. Unico risultato di tutta la giornata. Forse sta spirando un’aria fredda, forse il sole s’è avvicinato più in fretta al tramonto ma Lara non se ne cura e se ne va camminando lentamente, tra cartacce e rifiuti e stracci di giornali, notizie straordinarie che già domani non saranno più niente. VERDE

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Con calma, senza fretta

Pierluca D’Antuono

E per la quarta volta entrano nel condominio, grazie a qualche frescone che gli apre […] Pensavo, dopo non aver più visto da tempo i Testimoni di Geova […] che fosse finito il fenomeno del porta a porta e invece ecco che arrivano loro. Delle quattro volte, due stavo perfino dormendo. […] Non essendo un anziano o una donna non ho avuto timore ad aprire. Poi però è successo il finimondo. Ho urlato loro tutta la mia rabbia per questo disturbo ILLEGALE […] li ho cacciati ricoprendoli d’insulti e minacce […] Ora preparo un piccolo cartello da mettere vicino al campanello con su scritto «se mi suoni perché vuoi vendermi qualcosa, sappi che prima apro la porta e poi te.» […] Sarebbe ora di smetterla perché una donna o degli anziani, di questi tempi, si spaventano! La fastidiosa invadenza di Lotta Comunista (Utente Amen, 20-09-12) Avrei fatto qualsiasi cosa pur di militare con loro, negli anni in cui li incrociavo ogni giorno lungo i viali fioriti dell’Università, davanti alle fontanelle bulicanti – le casematte strategiche della loro avanzata egemonica – prese d’assalto a ogni ora del giorno e della notte, le pesanti mazzette di giornali sotto braccio, vestiti di un sobrio ed elegante nero coordinato, rigorosamente in giacca. cravatta, e austeri girocolli a V – perché è nella storia del movimento operaio che i proletari facciano politica ben vestiti. Se nelle circostanze di quelli agganci schivati con fastidio confondevo spesso – con supponenza – la loro dedizione per invadenza, oggi, a distanza di anni, mi appare chiaro per quel che era: un umile senso di classe e di appartenenza – o di appartenenza di classe. Il loro coraggio e la loro indipendenza, la barra dritta opposta con calma e senza fretta ad ogni rifiuto scortese, quell’indomita perseveranza e la febbrile fede profusa, tutto rimandava a una dimensione comunitaria forte e intensa che, sebbene bramassi, ripudiavo con VERDE

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ostentazione nella mia accidia indievidualistica. La conferma della loro identità mi venne dalla vista di uno dei loro volantini con la foto di Marx e la scritta (alquanto ambiziosa) “Corsi di Marxismo”. […] Attendevo che uno dei loro “esponenti” mi si avvicinasse per propormi di andare a uno dei loro incontri […] l’avrei steso a colpi di dialettica […] come un giaguaro attende il lento bufalo nascondendosi nella savana. Finalmente il fatidico momento: una ragazza […] mi si avvicina porgendomi il loro volantino. Il gioco era fatto: sarebbe stato sufficiente affondare le mie zanne “dialettiche e marxiste” sulla sua carne nuda, per rendere giustizia e riscattare il buon nome del compagno Stalin… Incontro ravvicinato con Lotta Comunista parte II (Utente Georgij Konstantinovic Zukov, 18-09-12) Ero deliziato da quella grafica spartana in stile Weimar 1919 e dal tranquillizzante font sempre uguale negli anni, ma sopra ogni cosa adoravo i loro titoli, sparati indefettibilmente a caratteri cubitali: lenin europeo e classe internazionale; la scienza marxista del mutamento; regolarità sociali dello sviluppo imperialista; dialettica e infinito. Per me, che mi ero appena allontanato da Rifondazione sconvolto dal Congresso di Venezia e dalla svolta non violenta della maggioranza bonghista bertinottiana, era una specie di serrata ordinata e familiare, un po’ come i tanti compagni che, entrando nell’organizzazione a metà degli anni Ottanta, smisero di bucarsi vendendo i giornali porta a porta. I miei nuovi compagni non erano dei semplici troskisti à la Ferrando; essi erano stati forgiati con furore nell’ambizione bordighiana del frazionismo astensionista; di conseguenza, non avevano bisogno di nascondersi dietro alla contingenza, perché avevano imparato a perforarla per puntellarla dall’interno, in


vista dell’inevitabile e definitivo crollo del capitalismo. L’assillo del tempo, si sa, è uno psicodramma borghese. Un giorno, con i miei nuovi compagni, avrei potuto assistere – con calma e senza fretta – ad almeno un pezzetto della fase di transizione verso il socialismo reale; un inimitabile ed entusiasmante sample treviriano dal trascinante groove veteroleninista. Di loro ammiravo tutte quelle caratteristiche che nella vulgata popolare ne alimentavano la leggenda: il settarismo religioso espanso e appiccicaticcio, l’attitudine messianica-ecumenica, l’assenza di semplificazioni reducistiche, la scansione deframmentata e utilitaristica del loro tempo, il culto dello studio, delle scienze e del sapere: per entusiasmarmi, non dovevo che scorgere i densi e imponenti saggi che riempivano d’inchiostro nero come la pece le pagine del giornale, e che applicavano alla lettera la questione del marxismo-leninismo come teoria scientifica, complessa, intricata, imperscrutabile se vuoi, perché rigorosa: se l’azione politica va ricondotta in ultima istanza ad un’analisi attenta e accurata dell’attuale fase controrivoluzionaria, lo studio della realtà economica e il monitoraggio dell’andamento della finanza mondiale sono le preminenze ideali. E poi basta con i soliti rigurgiti stalinisti, i vacanti anacronismi storici dell’antifascismo di maniera e i pii vagheggiamenti idiotici del parlamentarismo borghese: questa organizzazione non è un partito, ma è l’organo dei gruppi leninisti della sinistra comunista, internazionalista e antistalinista, per l’opposizione proletaria all’imperialismo europeo e all’imperialismo unitario. Per tutta la scorsa settimana i giovanissimi militanti duri e puri di Lotta Comunista hanno volantinato davanti ad H&M, alle discoteche, persino di fronte ai negozi di abbigliamento intimo, per convincere i loro coetanei a partecipare alla Grande Giornata della Gioventù Internazionalista, che si svolgerà oggi pomeriggio (inizio ore 15) nel luogo più decontaminato dal capitalismo selvaggio, cioè la Sala Chiamata del Porto, messa a disposizione dal console della Compagnia, Antonio Benvenuti, che a Lotta Comunista fa, da sempre, riferimento. Lotta Comunista davanti ai tempi del capitalismo (Repubblica di Genova, 15-01-12)

Fai conto che il più delle volte le riunioni si tengono in scantinati ricoperti di muffa a San Lorenzo, a Prati, a Monteverde, non al Pigneto, ma ai Castelli. Dopo il primo incontro in facoltà o sul pianerottolo di casa, dopo l’immarcescibile domanda rituale1, dopo che hai comprato una copia del giornale a 5 euro invece di 1, dopo avergli lasciato il tuo numero di telefono, dopo che ti hanno dato appuntamento davanti a una stazione della metro A, due ragazze molto attraenti ti vengono a prendere in macchina per accompagnarti in sede, dove una scalinata ripida e scoscesa ti conduce in una piccola sala illuminata a freddo da un neon sporco che macchia i muri ricoperti di stucco scrostato e dà luce ai santini incorniciati di dirigenti e esponenti storici del movimento operaio (Marx, Engels, Lenin, Bordiga, Cervetti). Ovunque ti giri c’è una sedia di plastica bianca, come quelle su cui in spiaggia mangiavi il gelato nel 1990, mentre alla radio Lucio Dalla cantava in mezzo al bosco con l’aiuto del buon dio. In fondo alla stanza, alla parete, simboli cirillici su una grande lavagna verde, mentre un uomo dal volto emaciato – di solito un Arrigo o un Onorato – si siede dietro una lunga cattedra di legno con microfono e leggio, per tenere una lezione sulle 5 tesi per una prospettiva internazionalista degli antimperialismi Mediorientali – Della centralità del lavoro politico sul territorio. Un ragazzino di seconda media contesta alcuni sbilanciamenti hegeliani sulle ipotesi di uscita leninista dalla strumentalizzazione in chiave marxiana del processo di islamizzazione dei Fronti di Liberazione Nazionale: il dibattito, va da sé, si alimenta di questione complesse ma convergenti. Alle undici meno dieci un compagno dalla seconda fila ti guarda con fiducia e speranza, e con un sorriso elegante ti chiede di intervenire. Con calma, senza fretta. Non puoi deluderlo. Non puoi tradirli. Se fai una sola domanda – quella domanda – non li rivedrai mai più. Passeranno gli anni, passeranno i decenni, ma loro non dimenticheranno. E conservano ancora il tuo numero di telefono. 1 Siamo qui perché siamo stanchi del sistema e ci piacerebbe proporre nuove idee. Se lasci il numero di telefono ti inviteremo alle nostre riunioni.

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La mia piccola Katie ‘A Gatta morta Dovreste vederla, la mia piccola Katie. Vi perdereste nei suoi grandi occhi scuri e vi ritrovereste innamorati di lei. Vorreste fosse vostra, solo vostra, se solo sentiste il suono della sua flebile voce. La trattereste anche voi come una regina. Pensate, da quando vive con me non deve neanche lavorare. Non potevo sopportare che la fatica del lavoro contaminasse la sua incantevole bellezza e ancora meno che un lurido manager senza scrupoli le facesse da padrone. O peggio: le mettesse gli occhi addosso. Però non volevo neanche che la scomparsa improvvisa del suo stipendio danneggiasse l'altissimo livello di vita a cui ci eravamo giustamente abituati. Ho iniziato a lavorare di più, ecco cosa ho fatto. Ore e ore di straordinari per la mia piccola Katie. Ma questo è niente. Non tralascio nessun particolare quando si tratta della sua felicità. Da quando le ho permesso di lasciare il lavoro, non solo deve dedicarsi solamente a cucinare e tenere casa pulita, ma non deve neanche farlo da sola. Quando Katie cucina, ho pensato, cucina per noi due, e anche quando pulisce lo fa per noi due. Per questo ho chiesto a Katie di cucinare e pulire solo in mia compagnia. Ovviamente questo vuol dire che Katie inizia a cucinare solo quando io ritorno a casa e che devo aspettare molto tempo prima di poter mangiare, ma il piacere che provo nel condividere con lei i suoi piccoli lavori vince qualsiasi attesa. Se non fosse la mia piccola Katie, ma la vostra piccola Katie, anche voi vorreste starle sempre vicino. Essere sempre pronti a proteggerla. E se state pensando che io sia troppo premuroso è solo perché non è la vostra piccola Katie e quindi non potete capire. Neanche la spesa deve fare, la mia piccola Katie. VERDE

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Anche a quella penso io. Il sabato pomeriggio. Compro i migliori prodotti esistenti sul mercato, che, come potete immaginare, coincidono spesso con quelli più costosi. Qualità commestibile, la chiamo io. Non sono mica come quegli uomini che costringono le loro donne ad acquistare prodotti di bassa qualità, in qualche discount di periferia. No, la mia piccola Katie ha tutto quello che le serve per preparare una cena prelibata con estrema facilità. Lo faccio anche per me, è vero, perché dopo una giornata di lavoro non c’è niente di peggio che mangiare male, ma lo faccio soprattutto per lei, perché le donne, lo sapete, ci restano male quando sbagliano qualcosa in cucina e io voglio evitare che la mia piccola Katie si trovi in una condizione così umiliante. Se devo essere sincero, è capitato che commettesse qualche errore. Una volta, per esempio, ha dimenticato di aggiungere il sale nell’acqua della pasta. Un’altra volta, invece, ha fatto bruciare le patate al forno. Ero molto stupito: avevo ridotto al minimo il margine di errore e Katie era riuscita comunque a sbagliare. Chiaramente in quelle occasioni non le ho mai nascosto il mio dispiacere: il nostro rapporto si basa sulla sincerità. Katie non è il suo vero nome. Katie si chiamava Veronica, ma ho sempre trovato che Veronica fosse un nome volgare. Katie invece è perfetto. Non potete immaginare quanto le si addica. Dovreste vederla mentre si muove, la mia piccola Katie. Tutti i suoi movimenti sembrano avere unicamente lo scopo di servirmi. Di regalarmi felicità. Sa come farmi sentire un uomo, la mia piccola Katie. Non come molte donne che devono a tutti i costi gridare al mondo la loro emancipazione, cercando di emulare e dominare l'uomo, con il deprimente risultato che faticano il doppio di un uomo per ottenere


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la metà. Non sono forse ancora più schiave se costrette, tutti i giorni, a presentarsi in orario al lavoro e dimostrare di essere all'altezza del loro ruolo? Non è davvero libero, in fondo, solo chi non deve lavorare? Non è forse libera la mia piccola Katie? Che seni, la mia piccola Katie. Dovreste vederli come si muovono delicati e leggeri sotto la sua maglietta un po' lenta. E che pelle, la mia piccola Katie. Così bianca. Così nobile. Dovreste sfiorarla, quella pelle. Sentireste tutta la sua fragilità. La amereste, proprio come me, quella fragilità. Chiede la protezione di un uomo, quella fragilità. Non ci credereste mai, ma prima di me la mia piccola Katie era fidanzata con un uomo che la portava sempre alle feste e poi si metteva a parlare con chiunque, lasciando Katie sola, in mezzo a degli sconosciuti, in balia delle loro tattiche di conquista, dei loro sporchi sguardi da seduttori di seconda mano. L'uomo

che doveva proteggerla permetteva che altri uomini parlassero con lei e mettessero in pratica le loro strategie studiate allo specchio per portarsela via. Non a caso è proprio in una di quelle feste che Katie ha incontrato me e io ho incontrato lei. Credo sia stato il giorno più bello della sua vita. Ma a forza di parlare non mi sono accorto che è ormai passata l'1.00. Dovete sapere che ogni notte, all'1.00 in punto, porto la mia piccola Katie a fare una passeggiata al parco sotto casa. Perché così tardi?, vi starete chiedendo. Perché così tardi non c'è nessuno e io e la mia piccola Katie abbiamo tutto il parco per noi. Mi rendo conto che come rito di piacere possa apparire alquanto rigido. Potevamo accordarci, io e la mia piccola Katie, su un orario più approssimativo, intorno all'1.00, dieci minuti prima, venti minuti dopo. Sono convinto però che nella vita sia importante avere delle abitudini. So che molti preferiscono chiamarle “regole”. E le abitudini non sono, forse, delle regole mansuete? Inizialmente, lo ammetto, ero più elastico con l'orario. Ma mi è capitato più di una volta che, rivolgendomi a Katie per dirle di uscire, la scoprissi già addormentata. Per me, che considero questo momento il più bello della giornata e lo vivo a tutti gli effetti come un appuntamento romantico, fu un duro colpo. Da allora ho introdotto l'orario fisso: l'1.00 di notte. Il fatto che Katie non si sia più addormentata dovrebbe essere una dimostrazione più che sufficiente dell'efficacia del mio accorgimento. Infatti anche questa volta è sveglia, nonostante sia ormai l'1.15. Non preoccuparti, mia piccola Katie, non ti farò aspettare ancora. Vado ad aprire la gabbia. Prendo il guinzaglio e lo aggancio al suo collare. Andiamo, mia piccola Katie. Sono nata e cresciuta a Roma, ho 30 anni e sono sempre stata attratta dal legame che scorre tra mente e corpo. Ho scritto in passato alcuni racconti erotici firmati con diversi pseudonimi e da due anni faccio parte del gruppo Poeti der Trullo. Per vivere faccio la sarta, spesso lavori ordinari, ma a volte mi occupo di abiti d'epoca. La mia scrittura indaga sul discorso amoroso e sul terreno dell'erotismo, esplorando quei piaceri della carne che nascono sempre prima nella mente.

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#2 «Per me vòi fa la fine de Victor Cavallo», mi dice una notte una romana de Roma cliente fissa al paninaro di Darietto e Lucia, all’esterno del quale locale, affittuaria tale Marconi Elettra fu Guglielmo, io mi trovo disteso svaccato sul cofano di un’automobile parcheggiata. «Cavallo? Chi è Cavallo? Che ha fatto Cavallo?». «Era un attore e un poeta, è morto. Pure la compagna. So morti tutt’e due». Vai a sapere che era destino che anni dopo io rileggessi i diari di questo Cavallo trovandoli strabilianti, mentre il giorno che è morto io pure ero a Roma e non sapevo assolutamente chi fosse, al punto che l’ho appreso dalla sillogista romana cliente del paninaro che ha fatto due più due: questo beve, questo scrive, questo vò fa la fine de Cavallo. Dal 1999 al 2002 ho datato rigorosamente tutte le mie poesie: anno, mese, giorno. Cavallo è morto il 22 gennaio 2000, l’archivio del Corriere della Sera dice che era un sabato. Venerdì 21 gennaio, mentre faceva buio, io so che caracollavo verso casa da San Lorenzo a Piazza De Cristoforis, dopo un pomeriggio trascorso nella casa multietnica di Claudio a studiare letteratura italiana con il suo amichevole rosso da tavola. Arrivato a Portonaccio dopo non so quanti chilometri, mi fermai a pisciare in un angolo dietro un’autofficina e fui colto da un’intuizione che sul momento mi sembrò grandiosa, invece era semplicemente passabile: due versi gravi e perentori sulla notte, separati da uno spazio bianco. Colsi l’assist del momento e misi in rete nel block notes che allora mi portavo sempre appresso e che forse era anche la mia unica ragione di vita. Il giorno dopo VERDE

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mi svegliai di buon umore, e sembra che Silvio Orlando e Margherita Buy presero un sacco di fischi al Teatro Argentina. *** Negli anni novanta in Italia i punk degli anni ottanta erano spariti. Non li trovavi nei centri sociali e non li trovavi nelle periferie urbane di cui avevano cantato dieci anni prima, anzi, i più erano musicalmente inattivi o semi-ritirati. Potevi percorrere le città a vuoto sulle loro tracce: il risultato era l’orfanotrofio. Ipotizzo crisi dei trent’anni, desiderio di anonimato, strenuo tentativo di raddrizzare la propria vita in extremis. Oggi che ho trent’anni io provo più o meno la stessa cosa, però dico più o meno perché non mi ci vorranno due lustri da recluso per capire che la dissidenza è una malattia incurabile, ho già fatto tesoro dei fallimenti altrui. Così ho rinunciato da subito a vestirmi in borghese, fare una lista delle abitudini da eliminare, cercare un salotto di ammogliati con prole dove poter dire senza entrare nei dettagli che una volta quella musica, sì proprio quella lì, mi piaceva un sacco. Però continuo a domandarmi quello che penso che prima o poi si domandino tutti i potenziali sopravvissuti all’ammutinamento del Bounty: se a ventisette anni non sono morto come previsto, sociopatico sono rimasto sociopatico, famoso non sono diventato famoso e per giunta ho perso il treno l’aereo il taxi il tram il motorino il filobus, (no future altisonanti a parte) adesso che ne sarà di me e del mio povero corpicino? Boh, forse tornerò pure io o meglio non me ne sarò mai andato, come i punk degli anni ottanta, come la sfiga, come l’herpes, come il conto in rosso.


in-distro in-distro

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Deny Everything Distro 2.0 Le regole esistono per essere infrante: prima pausa dalle distro, questa volta si parla di un negozio di dischi speciale. Anzi dell'individuo leggendario che c'è dietro (ma anche dentro) il negozio in questione... in attesa che si decida a scrivere un’autobiografia di suo pugno. Che succede quando una brava persona si fa il punk dagli anni ‘80, scrive fanzine su fanzine, organizza tonnellate di concerti ai gruppi più interessanti del globo e poi decide di aprire un negozio di dischi? Succede che apre Hellnation Store e l’etica che il generico distrofilo hc applica una tantum, qui è attiva 24 ore su 24. Hellnation è più una distro enorme in uno spazio fisso che un negozio di dischi, poche chiacchiere. Perché checché ne dica Robertò la sua non è una “semplice” attività commerciale e lui non è certo un bottegaio. Sì, i prezzi sono bassi e se c’è un negoziante onesto, inteso come persona che ti dà qualcosa in cambio di pezzi di carta e monetine, questo è lui. Ma quello che conta davvero è che in quelle quattro mura sono nate e cresciute almeno due generazioni di ragazzini anacronistici e incazzati che hanno alimentato la loro rabbia tanto quanto la loro cultura grazie a una manciata di dischi, libri e fanze. O ascoltando la persona giusta che beccavi lì dentro per caso. Se c’è (stata) una certa cultura hardcore romana buona parte del merito è suo. E Roma è concorde nel segnalare la presenza di Robertò tra i monumenti che la città capitolina può vantare. Tu che leggi dovresti fare sì con la testa e cercare altre conferme in questo articoletto. Se invece non sai di cosa sto parlando sentiti in colpa e sappi che in via Nomentana 113 c’è un piccolo tempio con le vetrine rosse, un territorio neutrale per tutte le microcategorie etico/musicali. E che se rispetto a qualche anno fa la scena romana si è accartocciata su se stessa, i pochi ma buoni rimasti (che sempre ci sono stati e sempre ci saranno) ruotano intorno a Hellnation, non ci sono storie! Nel ‘92 Robertò, che ha sempre avuto il pallino del negozio di dischi, tira su la Banda Bonnot insieme ad un paio di baldi hardcorers capitolini. La Banda è stata negozio di dischi, etichetta e organizzazione di concerti. Nonostante la produzione di dischi memorabili chiude i battenti nel ‘97. Ma Robertò non si dà per vinto e riprende l’avventura da solo: nasce Hellnation Store e poco dopo la Valium

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Recordz con cui stampa il meglio dei gruppi punk, oi!, hardcore, grind & derivati degli anni ‘98-’08. E parliamo di gente come Notorius, Comrades, Gozzilla e le tre bambine coi baffi, Tear Me Down, Frontiera, Taxi e poi tutta l’ondata Die!, Coloss & Co. Dopo 13 anni di onesta carriera ha ridimensionato lo spazio dedicato alla musica per sbizzarrirsi nella serigrafia di maglie e felpe geniali e soprattutto per Pick a Book, una libreria degna di questo nome, gestita dalla sua compagna, dove la selezione dei titoli fa impazzire qualunque essere umano con un po’ di sale in zucca. Oggi che si può comprare tutto online, un luogo fisico come Hellnation si frequenta con lo stesso movente di una volta: non solo per le novità musicoeditoriali, quanto per l’atmosfera e per le chiacchierate su passato-presentefuturo con una persona reale che puoi stare sicuro/a ti tratterà bene, che ne sa più di te e non te lo farà mai pesare e che si sta sbattendo più di una cordata di squat berlinesi. Giovane punk senza una chance, tu che sogni Londra e i bei tempi andati, lo sapevi che Camden Town è a Roma? Contatti: di persona: Via Nomentana 113 - telematici: http://stores.ebay.it/ ARMAGIDEON-TIMES VERDE

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A metà della stagione, senza sapere come finisce, ché tanto non m’interessa il finale ma lo svolgimento, mi sento di consigliarvi GIRLS, nulla di troppo sotto il sole di New York, serie deliziosa con personaggi ben azzeccati, trama convincente, ottima regia di Lena Dunham per dei piccoli gioielli di 20 minuti dal gusto dolceamaro. Non vi dirò niente di più sul cast tecnico, non mi piace mettermi su wikipedia a cercare i nomi degli attori protagonisti delle serie televisive, non foss’altro perché a sorpresa mi ci ritrovo sempre spoiler giganteschi - del resto, anche a sfogliare i quotidiani più blasonati c’è rischio di vedersi buttate in faccia le notizie che non si vorrebbero sapere su quello che succederà nella serie, e dire che uno dai mezzi d’informazione s’aspetterebbe ben altro che pettegolezzi di questo tipo ma tant’è. Una ragione in più per non leggerli. Tornando a GIRLS, alzi la mano il colpevole che ha visto SEX AND THE CITY, io per prima, del resto mi divoro tutto con una fame atavica che non mi consente di selezionare o di fare la difficile quando si tratta di cinematografia. Gli ammiccamenti da GIRLS a SEX AND THE CITY ci sono tutti e anche di più, e alla buonora si riparla di sesso: un sesso, questo, disincantato e reale, (a differenza dell’edulcorato e fighetto di SATC) come sono reali i corpi dei protagonisti che lavorano nella serie, come sono reali i pensieri che s’incasellano nelle loro menti sui rapporti, sul sesso e sull’esistenza. L’avreste detto che gente così vi avrebbe convinto al punto da seguire la serie dopo la prima, la seconda, la terza puntata? Io VERDE 12 12

continuo a vederla, sul serio. La trovate con tutti i link dei migliori host in inglese e con i sottotitoli in italiano su http://serietvsubita.org/ sito che merita di essere citato per primo da PIRATERIA SERIALE per l’ottima selezione di titoli, l’assenza di fronzoli, l’elenco dei contenuti ben chiaro a destra della pagina, la puntualità e cosa non meno importante la cortesia di chi lo gestisce, che risponde con inaspettata velocità alle domande poste dagli utenti sulla pagina facebook. Come si capisce dal nome, qui trovate solo le serie sottotitolate in inglese, io le preferisco così. Fatelo anche voi, ne vale la pena. (E. B.)

serietv su FB Trailer GIRLS serietv sito


BLITZRECENZION

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S. H. Palmer

BLITZRECENZION

Lei disse

«...è che sento di nuovo tutto questo sangue bollente che mi sale al cervello.» Crocchio le dita, il collo e schiocco forte la lingua. Guardando in alto mi accorgo che, dietro il tramonto, si nasconde la più bella luna piena dell’anno. (shanduziopalmer.tumblr.com)

http://www.youtube.com/watch?v=ndc-LhBSRQE

Fotografa il codice QR con il tuo cellulare e guarda il video di youtube

VERDE

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storie nere

STORIE NERE Luca Carelli

Ci sono storie nere in cui non contano i colpevoli, ma solo il passato, e un gesto che infrange il futuro di un presente cancellato. Un assassinio è sempre un assassinio, ma le morti sono tutte diverse: in certe storie nere, conta solo chi è Stato. Una mattina mi son svegliato e «Hanno ammazzato Mara», urlava mia madre. «Mara è morta», piangevano in cucina, e un coro denso di lacrime nere s’alzava forte al cielo: «MARA È VIVA!», «VIVA MARA!» «Vita amara», diceva spesso mio padre. Una sera torna a casa dalla fabbrica e giù a urlare contro i fassisti, quelli che volevano andare a Genova, quelli che la guerra è finita ieri e sono di nuovo al Governo! Il giorno dopo, con un treno del partito, sarebbe andato a Reggio per la grande manifestazione contro l’MSI e la celere di Tambroni: era il 7 luglio del 1960. A casa non è più tornato. Mia madre avrebbe finito i (miei) nove mesi tre settimane più tardi, quando sono nato. Sono cresciuto nella più classica delle famiglie comuniste bolognesi, di quelle che se fossero nate a Roma sarebbero state fasciste, e in Puglia democriste. Mia madre non piangeva mai e parlava poco. Non era andata a scuola, scriveva a mala pena e fino ad allora non aveva mai lavorato. Votare comunista, per loro, non era che mettere una croce ogni 5 anni sul primo simbolo in alto a sinistra della scheda, quello del Partito

della regione con le piazze più verdi d’Italia e gli asili nido migliori d’Europa, che neanche in Svezia o in America; ma quando mio padre divenne un nome inciso su una targa d’ottone, qualcosa, a ragione, cambiò per sempre. Se fino a quel momento, da buona comunista, aveva rispettato lo Stato e venerato il Partito, da allora prese a odiare il primo per disprezzare il secondo: stracciò la tessera e trovò un lavoro in università, dove puliva le aule e le scale, lontana dalle fabbriche e dai centri nevralgici dell’apparato. I Settanta arrivarono in fretta: dopo la strage di Reggio Emilia, la morte del Migliore e la bomba a Milano, qualcuno cominciò a detestare il sincretismo politico del PCI, sempre in bilico tra lotta e Governo. Per ironia, o forse no, fu proprio nella terra delle oasi picciste che una piccola brigata di compagni rossi di rabbia voltò le spalle al Partito. Per mia madre, che non aveva ancora 30 anni ma comunista lo era ancora, fu una catarsi; o forse, di più, una epifania: se poteva essere cattolica senza andare in chiesa, perché non essere comunista fregandosene del Partito? Da quel momento casa nostra divenne il ritrovo per assemblee infinite e affollate, scandite da concetti e parole ricorrenti come il passaggio alla lotta armata e la clandestinità, il bisogno di comunismo e la minaccia del golpe, l’azione controrivoluzionaria della

mara

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borghesia imperialista e lo Stato di polizia, la Cuba di Castro e la guerriglia urbana dei tupamaros. Ma quella mattina, nella piccola cucina con le pareti annerite dai vapori dei fornelli, le solite parole vennero oscurate da un nome accordato drammaticamente come una tragica nenia. La notizia della morte di Mara colse tutti di sorpresa e agì da detonatore sulle incertezze di ciascuno, politiche o esistenziali che fossero. Mia madre pianse come non aveva fatto nemmeno per mio padre: la rabbia di 15 anni prima si sciolse nella disperazione di un lutto paradossale, per la perdita – solo virtuale – di una compagna lontana; ma Mara era molto più di una semplice compagna: fu la prima dirigente comunista rivoluzionaria a morire sul campo, e la sua vita e le sue gesta fondarono, nel corso del tempo, un mito venerato che non ha mai smesso di essere ammirato ed elevato a esempio. La rottura con la famiglia, il matrimonio con Renato Curcio, il ‘68 a Trento, la formazione della prima Brigata Rossa, il disincanto e la delusione per Milano, l’entusiasmo torinese, il peso della repressione, le campagne per i primi compagni incarcerati (a partire dal marito, che nel 1974 riuscì a fare evadere grazie a un piano amoroso e spettacolare), fino alla morte misteriosa per mano di tre pistole in divisa, che la giustiziarono a sangue freddo senza ragione, se non quella di essere disarmata e con le mani alzate, ma mai arresa. Quella mattina, nell’angusta cucina di casa nostra, qualcosa di sincero e nefasto aveva avuto luogo, qualcosa che ancora oggi, inevitabilmente, mi porto dietro nel profondo. Allora, non potevo sapere che stavamo consumando un rito di passaggio: dalle lacrime, presto o tardi, avremmo imbracciato le armi per entrare in clandestinità.Tutti, tranne mia madre, che si limitò a guardare e a benedirci, come prima di una guerra.

Cristiano Baricelli, http://www.crybik.com Focomelico

Nel giro di cinque anni hanno arrestato tutti. Più tardi, quando è toccato a me, ho aspettato invano che la mia Mara venisse a prendermi, per portarmi via da lì. Non ne sono bastati 25, quelli che lo Stato mi ha tolto prima di lasciarmi andare. Da solo. Margherita Cagol, detta Mara, nel 1970, con Renato Curcio e Alberto Franceschini, fonda a Milano le Brigate Rosse. Il 5 giugno 1975 viene giustiziata da un nucleo dei carabinieri con un colpo di pistola a bruciapelo: l’autopsia ha dimostrato che Mara era seduta e a braccia alzate. Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito. È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. Scheda di Margherita Cagol da brigaterosse.org In ricordo di Margherita Cagol

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Un mostro percorre il mondo: la falsa rivoluzione


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