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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 6 anno I novembre 2012

Adiletta Bevilacqua Carelli Cortonesi Lemme Palmer Pianigiani Teodorani


dove siamo editoriale

Sei mesi fa scrivevamo che VERDE non è un colore, ma un germe del racconto sotto forme di visioni da ripensare e riscoprire in spazi diversi e più estesi. Il numero zero cadeva ad aprile, ma era l’Ottobre della nostra rivelazione; da allora ventisette tra autrici e autori l’hanno declinata a modo loro, segnando queste pagine con una combinazione di istinti e sentimenti che ci hanno portato fino a qui, nel mese dei morti e dei poeti. Sei mesi son pochi per fermarsi a guardare indietro. Per noi questo è solo un inizio: abbiamo appena cominciato...

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p.2 Editoriale p.3 TI ODIO POESIA #6: (Giovanni Pianigiani) p.4 Separazione (Alda Teodorani) p.6 Perché è questo il giorno (Francesco Cortonesi) p.8 Concept: Reading “From Beyond” - A H.P. Lovecraft’s Tale (Nando Adiletta) p. 10 Ingrid (Agostina Bevilacqua) p.12 FICTIOTEQUE #4: Il monologo di Minnie (in)Bloom (Federica Lemme) p.13 BLITZRECENZION #12: Non temere la mietitrice (S.H. Palmer) p.14 STORIE NERE #4: Christa (Luca Carelli)

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Io sono vivo, voi siete morti

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VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista verderivista.blogspot.it


In autobus si trovano i tipi più normali che spingi e subito sbraitano, qualcuno parla da solo tutti dicono cazzate, qualche altro sta zitto ed è meglio così. L'altra notte però con l'ultimo bus è salito un tipo che era ubriaco e senza le scarpe e uno un po' brillo guardando le calze gli ha chiesto gentile: «Capo dove la ga lassado le scarpe?» e lui bofonchiava e non si capiva un bel niente, «Senza le scarpe la se ciapa un malano!» e tutti a chiedergli come e perché ma non si riusciva a capirgli un granché. Allora abbiamo dirottato l'autobus e siamo andati per le osterie a cercare le scarpe del nostro compare «Perché se no el se ciapa un malano...». Non le abbiamo trovate, lui è morto dal freddo, abbiamo ucciso l'autista che più non voleva guidare e adesso non so dove cazzo siamo, io, l'ubriacone, la vecchia puttana che nessuno più caga, un'altra che sembra di un film di Fellini, un matto dai piedi piatti, un ex legionario che parla mezzo francese, una ragazza orrenda che ha terrore di uscire di notte da sola, due froci con pancia da birraioli e una vecchia megera dal body attillato. E il morto disteso sul fondo sembra ronfare e ormai che ci siamo in ballo balliamo, e c'è che c'è un blocco stradale, che mi sa che è per noi, lascio andare il bus, e aspetto il boom, ma si sono spostati e la tipa attillata se la ride a la grande e i denti che vedo sono ben pochi e l'autobus fila veloce e andiamo lontano. Regista, nato a Trieste nel 1962, laureato con una tesi sulla trilogia dei morti viventi di George A. Romero, ama l’heavy metal, il grindcore e la grappa slovena di 50 gradi. Per la Rai ha realizzato documentari sul metal (i Rhapsody), il piercing, i tatuaggi, le preghiere mussulmane, la nascita della Croazia e della Slovenia, la comunità serba di Trieste e i gruppi rock sempre di Trieste. Ha scritto sceneggiature porno e dialoghi per soap opere. Ha insegnato sceneggiatura nelle scuole medie. Negli Anni 80 ha girato a Bologna film underground in super 8, oscillanti tra John Waters e il lambrusco. Esordisce nel lungo con “Nella notte” in co regia con Lorenzo Onorati, di cui ha scritto anche il soggetto e la sceneggiatura. Sono seguiti “Red Midnight” (episodio “Pilgrimage”), “Darkness Surrounds Roberta”, “La canzone della notte”, “Finché morte non vi separi” (episodio “Embryo”), “P.O.E. – Poetry of Eerie” (ep. “Gordon Pym” in co regia con Bruno di Marcello), il fetish grindcore “iiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii”... Tra horror, giallo, erotismo, musica, solitudine. Scrive nelle poesie tutte le cose che non possono entrare nei film e arrivano dalla vita... VERDE

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TI ODIO POESIA

Giovanni Pianigiani


Separazione Alda Teodorani È lì, steso. Fermo. Potrei colpirlo in qualsiasi momento, recidergli arterie e vene, segarlo a metà. Potrei cacciarlo lontano da me. Potrei dargli fuoco, potrei fare tante cose se fossi sicuro che non mi farebbe male. Potrei anestetizzare me stesso e anche lui. Lui che da vent’anni mi serve fedelmente, ma ora non lo riconosco più. Ci sono dei momenti in cui penso che nella sua carne sia stato impiantato un microchip di tecnologia aliena, durante un rapimento di cui non mi sono mai accorto. Gli alieni, con quella tecnologia, potrebbero controllare anche me. E poi sento quelle onde, quelle onde che durante tutta la giornata lo attraversano. Anche questo è il segno di un controllo alieno. Ho googlato tutta la giornata e ho trovato molti indizi sul fatto che le onde di forma potrebbero essere governate dagli alieni. Presenze intelligenti, che viaggiano intorno al nostro pianeta con le loro navi spaziali, esseri ostili, che vogliono annientare la civiltà umana come noi vorremmo annientare le formiche dal nostro pavimento. Ci considerano dei parassiti del cosmo. Questi in particolare, che gli hanno impiantato il microchip, sono una specie di poliziotti dello spazio, tramite i meccanismi che inseriscono nei

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corpi umani possono sapere cosa mangiano gli uomini, come ragionano, le sostanze che possono avvelenarli, tutto insomma. Questo stanno facendo con lui: gli stanno facendo dei test per vedere le sue reazioni. La scorsa settimana, per esempio. Si è messo a tremare forsennatamente proprio mentre eravamo al bar a prendere il caffè e mi sono vergognato come un infame, sono scappato via. Altre volte fa dei gesti strani, altre ancora, quando siamo a letto, è talmente freddo e inerte che mi fa pensare di avere su di me un essere estraneo. Insomma, è difficile vivere con lui. Un distacco definitivo sarebbe la soluzione giusta. Ma come fare? Ho preso appuntamento con un chirurgo plastico. Lui verrà con me, non ha scelta. Il medico mi ha osservato a lungo, facendomi sentire a disagio. Ha un odore strano e pungente, che mi ricorda le violette di parma che mia madre usava per profumare la biancheria. E il suo sguardo era un po’ come quello di mia madre: indagatore e freddo, e al centro della sua iride si vedevano dei movimenti di luce che si accendevano e si spostavano, come se degli esseri microscopici la stessero illuminando da dentro con delle minuscole torce elettriche. «Mi dica cosa non le piace di se


stesso» ha detto con un sorriso falso. Ha tutti i denti incapsulati e anche questo non è un buon segno. Dietro ci potrebbero essere delle microriceventi. Ho fatto finta di niente e gli ho detto che ci avevo ripensato. Sono passato dallo SmartMarket e ho comprato una sega circolare, in fin dei conti somiglia a quelle che si usano nelle operazioni chirurgiche, lo stesso meccanismo. Ho passato tutto il pomeriggio a toglierle le protezioni, studiate perché nessuno si possa fare male. Verso sera ho cominciato a bere. Intanto guardavo lui.

Una volta faceva parte di me. Ora non più. Ora è un essere fastidioso, che fa quel che gli pare. Devo liberarmene. È tanto evidente questo cambiamento in lui che ha già iniziato a staccarsi dall’articolazione. I muscoli non lo sorreggono più. Mi tolgo la camicia, avvio la sega. Il braccio inizia subito a pulsare, come se dentro si fossero già stabiliti quegli esseri. Come hanno fatto? Non lo so, non arriveranno a me. Stendo il braccio appena sopra la sega. Basterà un colpo secco. Sto sudando e dentro il cervello qualcuno urla di non farlo. Ma so che non sono io.

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Perché è questo il giorno Francesco Cortonesi «Fatti il giorno e che il giorno faccia te.» Stephen King, Duma Key (2008) «Oggi non è che un giorno qualunque di tutti i giorni che verranno, ma ciò che farai in tutti i giorni che verranno dipende da quello che farai oggi.» Ernest Hemingway

Un giorno d’estate. Era seduto sul bordo di una piscina a valle di un piccolo paese che non gli sembrava di aver mai visto prima. Aveva un bicchiere in mano. Da dietro la collina improvvisamente spuntò un elicottero. Il rumore era fortissimo e si alzò un gran vento, tanto che gli ombrelloni sul prato sembravano sul punto di volare via. Cercò di mettersi in piedi, ma il vento era così forte che cadde all’indietro. Nel frattempo l’acqua dalla vasca era misteriosamente scomparsa e cadde sul fondo sbattendo sulle piastrelle. Per qualche istante restò lì a guardare l’elicottero che si allontanava mentre sentiva il sangue uscire dalla nuca. Ne uscì così tanto che la piscina si riempì velocemente e allora seppe che era quello il giorno. Si svegliò mezz’ora prima del previsto senza sapere perché. Si svegliò e restò a guardare il lento movimento delle pale sul soffitto che rendevano l’aria fresca e innaturale allo stesso tempo. Suo padre era passato a trovarlo dopo due mesi di silenzio. Alzò leggermente la testa e guardò l’orologio. Erano le sette in punto. Si alzò e andò alla finestra. Tirò su l’avvolgibile e guardò in strada. Fuori c’era il camion della nettezza urbana che stava svuotando i bidoni. Li sollevava lentamente da terra. S’immaginò un uomo sudato, dentro la cabina mentre armeggiava faticosamente con una leva per tirar via la spazzatura dalle strade. Restò a guardare fino a quando il camion non ripartì e scomparve in VERDE

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fondo al viale. S’infilò una maglietta, prese la borsa da tennis, l’appoggiò sul letto. Poi andò in cucina. Accese la televisione, premendo un tasto a caso e preparò la macchinetta del caffè. Un’avvenente giornalista intervistava un uomo sulla cinquantina, stempiato, muscoloso, con la voce roca. Mentre aspettava si sedette a ascoltare. L’uomo raccontava di quando aveva scoperto che suo figlio frequentava una baby gang. L’uomo stempiato, muscoloso e con la voce roca teneva le mani in grembo muovendole di continuo una sopra l’altra, come ragni intenti ad accoppiarsi. La macchinetta del caffè fischiò e contemporaneamente suonò anche il telefono. Quando rispose, dall’altra parte arrivò solo silenzio. La conferma che quello era il giorno. Tornò in cucina. L’uomo stempiato, muscoloso e con la voce roca aveva adesso un bicchiere in mano. Bevve. Poi raccontò di quando avevano trovato suo figlio dentro a un sacco nero, in una strada, vicino a dei bidoni. Gli avevano sparato in testa. Ora quell’uomo stempiato, rauco e muscoloso era lì che si guardava le mani, aveva gli occhi lucidi e chiedeva aiuto a chiunque sapesse qualcosa.Voleva trovare l’assassino o gli assassini di suo figlio. Era patetico e triste allo stesso tempo. Spense la televisione e tornò in camera. Mise dentro la borsa da tennis un paio di pantaloncini e la racchetta, poi lo sguardo gli cadde sulle fotografie appese al muro che non guardava più da tempo. In una


di queste c’era il suo amico Sandro che sorrideva. Era seduto sul bordo di una piscina. Sandro. L’ultima volta che l’aveva visto era Natale. La sua ragazza lo aveva piantato per il suo maestro di tennis. L’ultima volta che aveva visto Sandro era proprio a pezzi, diceva cose terribili sulla sua ex, diceva che voleva ucciderla. Diceva che voleva buttarle l’acido in faccia e poi ammazzarla con le sue stesse mani. Diceva anche che voleva spararle. Spararle con un fucile. Ricordò che dopo averlo riaccompagnato a casa in bicicletta, prima di salire si era acceso una sigaretta e poi si era messo a piangere. Dopo qualche minuto, senza dire una parola se n’era andato. Se lo ricordava perché non l’aveva mai visto piangere. Se lo ricordava perché avrebbe voluto dire qualcosa ma non l’aveva fatto. Erano passati sei mesi da allora. Non si erano più sentiti. Decise di chiamarlo perché soffermarsi sulla sua fotografia gli era sembrato come una specie di segnale. Anche Sandro diceva sempre che prima o poi sarebbe venuto il giorno. Decise di chiamarlo perché quel tipo stempiato, rauco e muscoloso alla televisione gli aveva ricordato un loro vecchio segreto. Decise di chiamarlo perché questo era il giorno.Tutto tornava. «Pronto?» rispose. «Hai inghiottito il rospo?» attaccò, senza stare troppo a pensare se era quello il tono giusto. «Sei tu?» chiese Sandro, facendo finta di non averlo riconosciuto. La sua voce sembrava venire da lontano, appannata, come se parlasse con un fazzoletto davanti alla bocca per non farsi riconoscere. «Stavi dormendo?» «No, non stavo dormendo» disse Sandro seccato, «stavo guardando la tv.» «Ah e cosa stavi guardando?» Lo sentì sospirare come se stesse cercando in qualche modo di mantenere la calma. Sul momento gli venne un po’ da ridere a pensare alla faccia di Sandro, dall’altro capo del telefono che sospirava scocciato. «Senti,» disse, «abbiamo deciso per oggi. Andiamo allo Sporting Club.Vuoi venire?»

«Lasciami in pace,» rispose lui, «non ti è bastato quel che hai fatto?» «Perché, cosa ho fatto?» chiese. «Lo sai!» urlò come una donnicciola un istante prima di riattaccare. Non lo richiamò. Andò in bagno, aprì il rubinetto e si guardò allo specchio cercando di capire se aveva una brutta cera oppure no. Si sciacquò la faccia con l’acqua fredda, poi chiuse il rubinetto e prese l’accappatoio. Prima di uscire dal bagno si fermò di nuovo davanti allo specchio. Si scoprì a chiedersi cosa avesse voluto dire Sandro. Poi ripensò a quell’uomo stempiato, muscoloso e con la voce roca. Tornò in camera e infilò nella borsa da tennis l’accappatoio e un costume da bagno. Poi si distese sul letto a fissare le pale che adesso gli sembravano così veloci da essere sul punto di staccarsi. Respirò profondamente e ripensò ancora una volta alle parole di Sandro, ripensò a quel giorno, ma non gli venne in mente nulla. Si sentiva comunque davvero bene. La scuola era finita. Aveva davanti a sé tre mesi di vacanza. Sua madre poi avrebbe sempre lavorato fino a sera. Tre mesi. Solo lui e l’estate. Si affacciò di nuovo alla finestra. I bidoni erano lì, probabilmente ancora vuoti. Fuori non c’era nessuno. Chiuse la finestra. Poi aprì l’armadio. Tirò fuori il cassetto in basso e tolse tutte le magliette. Prese il fucile a canne mozze e lo mise dentro la borsa da tennis, poi tornò in cucina. Tra una settimana avrebbe compiuto undici anni. Ma era questo il giorno. Francesco Cortonesi ha lavorato come speaker radiofonico notturno. È cofondatore della Filmhorror. com. I cortometraggi nati dalle sue sceneggiature hanno vinto i più importanti festival nazionali di cinema horror. Fa parte del movimento di scrittori Connettivista, ha pubblicato numerosi racconti e il concept book Gotham Polaroid per Lupo Editore. Come Deadtoday ha pubblicato “Storie di Gente Morta” insieme alla Muzakiller Foundation. Attualmente sta lavorando con Federico Greco e Danilo Arona a LIKE ICKE, una serie tv di fantascienza. Recentemente ha portato in teatro “NOF4: È FANTASCIENZA, NON FOLLIA” spettacolo sulla storia di Nannetti Oreste Fernando internato a vita nel manicomio di Volterra.

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Ingrid Agostina Bevilacqua Conobbi Ingrid ad un meeting, durante la sfilata silenziosa che, come da tradizione, mi proposero dopo l'amaro. Mi divertiva osservare il dimenarsi alticcio dei miei esimi colleghi, alla ricerca ossessiva di un godereccio postcena senza nome. L'albergo che solitamente mi ospitava durante quei soggiorni lampo si trovava vicino a Bernauer Strasse. L'avrei raggiunto a piedi per scrollarmi di dosso la pesantezza che calcava sul mio ventre e nella mia testa. Costeggiare il muro meno conosciuto, quello grigio che non tradisce il colore del cielo berlinese, mi faceva sentire l'unico abitante di un impero cadente diviso a metà. Quella sera non aspettai il dolce per uscire a fumare il mio sigaro. Rientrai appena in tempo per gustarmi la scelta dei bocconcini profumati di talco e rossetto. Ripresi posto cercando di non attirare l’attenzione, nonostante portassi con me l’odore forte e acre del cubano. Dopo il caffè, avevo già deciso, mi sarei dileguato. Ingrid sedeva accanto al nostro tavolo da inizio serata, sguardo fisso sul calice con il quale aveva svuotato un'intera bottiglia di Sauvignon. Si alzò, da gran professionista predatrice, appena posai lo sguardo su di lei. Sfoderò con lentezza vertiginosa il suo metro e ottanta di carne di marmo incisa – non era un caso che la chiamassero Die Skulptur. Il candore delle sue cosce mi costrinse a bloccare un’erezione che prendeva forma sotto il Bauwmolle 100% che cominciava a darmi fastidio. Senza rendermene conto ero entrato a pieno titolo nello spettacolo che fino ad allora avevo deriso con sufficienza e compassione. Divoravo quel corpo con lo sguardo: non VERDE

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ancora lo avevo, già lo possedevo. I suoi occhi investirono i miei fermando l’estasi che li attraversava – pietre amorfe poggiate senza rumore. Ormai era fatta. Ingrid cingeva la mia gola e in un attimo mi ritrovai nella sua stanza profumata di incenso e cannella. Respiravo ancora. Attaccate alle pareti, grandi tele di donne facevano bella mostra di sé. Corpi nudi e seminudi dipinti a olio contrastavano il vermiglio tutto tondo della camera oscura. Le torsioni di quei corpi avrebbero fatto impallidire uno Schiele disturbato dalla Bauhaus. Erano pennellate dense di passione color della carne. Vi erano donne di ogni misura e gradazione: alcune offrivano timide foreste di enigmi mai svelati, o scoperti troppo in fretta; altre intimidivano il mio sguardo già turbato da quel che immaginavo sarebbe arrivato; quella che più mi colpì era una copia dell’Olympia, color terra di Siena: la tela, ancora da finire, poggiata a terra, mostrava spavalda il suo sesso ben definito, malinconico e procace; era una ebbrezza che sentivo palpitare nei miei sensi. I programmi per il dopocena, che puntigliosamente avevo progettato, mi balenavano ora come uno sbiadito ricordo del passato. Ingrid sorrideva, burlandosi silenziosa del mio imbarazzo. Dovevo alzare la testa per guardarla, ma così facendo smarrivo ancora di più la certezza dei miei movimenti, infermi a causa delle endorfine che sotto la pelle mi annegavano in un turbinio estatico. «Ti piacciono?» mi chiese in uno spigoloso italiano, che dolcemente ferì con riguardo le mie orecchie eccitate.


Risposi di sì con lo sguardo, mentre i miei occhi continuavano a perdersi nella lievità della bellezza tutta attorno. Un odore di sesso mi inebriava da quando avevo varcato la soglia di quella camera berlinese. Bevemmo vino rosso senza risparmiarci e la feci ridere di cuore, raccontando aneddoti che il mio tedesco appena sforzato rendeva esilaranti. Dimenticammo in fretta il motivo per cui mi trovavo lì con lei. Le sue risate liquide, sull’orlo del pianto, si confondevano a singhiozzi spezzati che mi divertivano come il suo italiano sgrammaticato. Già la sentivo mia senza nemmeno sfiorarla: il pensiero della sua pelle sulla mia mi immobilizzava e, certo, Ingrid lo aveva capito; per quale altra ragione, mi chiedevo, le sue mani, decise come il marmo, mi avrebbero sfidato,

sfiorando in continuazione le mie guance disorientate? Mi accontentavo della sua risata e del suo harem che, multiforme e lussurioso, ci attorniava, appagando i miei sensi sfiniti. Fu la luce dell’alba a vedermi prono e spogliato sulla tela appena abbozzata dell’Olympia nera: il mio corpo seguiva la torsione del suo. Ingrid dormiva sul divano che con noi aveva riso durante la notte appena finita. Un sorriso copriva ancora il suo viso, come il vestito sgualcito che ammantava la sua pelle inviolata. Guardai l’Olympia sulla quale ero disteso. Un alone bianco e incrostato imbrattava i colori ancora freschi che disegnavano il suo sesso. La stessa macchia contornava i miei pantaloni. Ora mi sentivo più leggero.

Agostina Bevilacqua (Roma, 31-10-84) cerca di unire l'utile al dilettevole lavorando in vari musei romani mentre rincorre una laurea in storia dell'arte. Scrive recensioni, sceneggiature e corti teatrali (l’ultimo è Consunati, presentato al Palladium di Roma in collaborazione con l’associazione culturale Traslochi ad Arte). Nel 2008 è quarta classificata all’edizione MArteLive Letteratura. (Nell’immagine: Edoard Manet, Olympia, 1863)

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BOUTIQUE DI CRONACHE CINELETTERARIE

federlca Lemme

Minnie Bloom IL MONOLOGO DI MINNIE (In)BLOOM Ulisse Editore, pp. 490, 15€ EPISODIO 18 PENELOPE E LA SCATOLA A FORMA DI CUORE « [un tocco, una goccia et voilà, fantasmi in erezione] sono chiusa nella scatola a forma di cuore e giaccio sul suolo tra insetti e pulci e anche muco o macchie di vaselina e panini contaminati sul pavimento piastrellato di pizza collosa dove tossica mi sento bruciare intanto che fertilizzo funghi e colando gas i fumi diventano profumi e gli elettroliti odorano come sperma con cui violentami amico mio tu violentami ancora e devastami o assaggiami o fa un twist perché la mia libidine è una negazione dentro cui vieni avanti e vieni come sei o come eri e ci sdraieremo sulle nuvole poi scenderemo giù e avremo mal di testa e io bacerò le tue ferite aperte quando sarai immerso nel fango o impregnato di candeggina mentre sai ti giuro che non ho una pistola e che mi taglio in capelli d’angelo e respiri da bambina e mastico la tua carne per te e la passo avanti e indietro in un bacio appassionato dalla mia bocca alla tua perché io sono come te ma amo me stessa più di te [pseudonimi per lubrificanti scaduti, le uniche parole che volavano in aria. Il cervello in catalessi cercava di recuperare sogni persi in un vano sperare che s’incupiva. Un piccolo pensiero incerto dietro al collo sussurrato con la forza dei forse sempre in bilico ... L’obliquità: il dono. Le parole cedettero, non ebbero forza di far altro. Le idee si sbriciolarono guardando un finto fiume immobile e polveroso, nemmeno soffrivano più di tanto] brusio d’amore e ritagli di carta mentre rimbombi nell’aneurisma: non sto per schiantarmi pur se ascolto l’odore di lei dentro te ho un po’ di colla per il cuore rotto aiutami a inalarla e non dirmi quel che voglio sentire dopo vestirò uno scudo per mandare via la sofferenza e distribuire lobotomie Oh non posso lasciarti soffocarmi pure se mi piacerebbe non potrebbe funzionare pure se non rimpiango nulla perché sono come te: labbra umide su labbra umide ma ora sono sepolta fino al collo in voli contraddittori dentro il cielo e fuori dal cielo e fori dalla terra e nella sporcizia [la routine dei sentimenti: oggi fa male, domani anche; quegli attimi veloci, fino a una nottata, che ridere, sopravvivere con quelle notti, quegli attimi veloci, che ridere, da piangere...] sono intrappolata in una pozzanghera di catrame magnetico dove con le luci spente è meno pericoloso e non intendo aprire gli occhi Oh conosco un mondo sporco e ora una bambina da un’altra parte odora di spirito adolescenziale e ha trovato i suoi amici nella testa: un mulatto un albino una zanzara e sai loro non hanno sentimenti. Lei non è come loro ma sa fare finta perché è una puttana. [Nel frattempo: lui viaggiò e Nessuno lo pensò, non gli rispose mai, anche se per un attimo pensò «caro Ulisse, non arrivare, altrimenti tutto finirà». Era arrivato quel momento, lo sentiva lei non ha deciso nulla, prima dell’evento, il suo ritorno...] » VERDE

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BLITZRECENZION S. H. Palmer

BLITZRECENZION

Non temere la mietitrice

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Tra la folla qualcuno ti urta per sbaglio. Il gelo profondo del suo passaggio sotto la pelle. Lacrime immobili del terzo occhio, aperto. (shanduziopalmer.tumblr.com)

http://www.youtube.com/watch?v=AUO_5EALZoM

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storie nere

STORIE NERE Luca Carelli

I primi anni in carcere non furono i peggiori. Non eravamo più un’emergenza sociale né un pericolo per lo Stato, la guerra era finita e noi avevamo perso. Gli anni Ottanta stavano finendo, non era più tempo di carceri speciali o superpoliziotti torturatori, e i pentimenti erano ormai la norma, ben mascherati dietro la pleonastica armatura simbolica della dissociazione di derivazione farandiana/ morucciana1. Tra i pochi che non parlarono mai si distinsero da subito i mit(olog)ici grandi capi, che poterono usufruire del tracotante e vacuo stato di irriducibilità – grazie al quale la detenzione si commutò in villeggiatura carcerata – e alcuni tra gli ultimi della disperata generazione ‘77, arrestati fuori tempo massimo ben oltre l’onda lunga del post-Moro: sfigati come me, già manipolati dal grande abbaglio della ribellione autonoma, che il più delle volte non si pentirono perché non contavano niente e finirono dentro per permettere il rilascio delle stelle brigatiste. Rifiutando sponsor paraciellini, fummo gli unici a scontare per intero le pene comminate, nello statuario inveramento maoista dei pesi diversi delle morti violente. Per me il carcere non è mai stato una maledizione. Prima dell’arresto vivevo già da tempo in una gabbia inamidata d’incertezza e confusione e dentro ho sperimentato per la prima volta un senso domestico di presenza a me stesso che determinava i miei motivi, i

miei momenti e tutti i miei movimenti. Nei primi due anni, in particolare, una quotidianità rassicurante e analgesica si impose fatalmente irradiandomi di una calma piattezza che surclassava ambizioni e illusioni e determinava un appagamento pra(gma)tico che non ho mai più ritrovato. La memoria era solo una parte di quel contesto, non quanto la televisione o la masturbazione, ma sottotraccia sempre presente nel mio intorno. Ricordare era di fatto l’appendice di quel che presto è diventata l’occupazione che più di ogni altra mi ha assorbito in questi anni: la passione dei tempi e dei luoghi non era altro che un modo per riorientare il mio presente collegandolo a un passato non mio a cui sovraimprimevo una immagine di me simbolizzata che ne moltiplicava il senso, risignificandolo per la mia assimilazione. Che fosse una mancanza riempita di nodi e mimata nel presente, o una «bella e amabile illusione» di leopardiana imitazione («trovandoci in luoghi dove sieno accadute cose o per se stesse o verso di noi memorabili, e dicendo, qui avvenne questo, e qui questo, ci reputiamo, per modo di dire, più vicini a quegli avvenimenti, che quando ci troviamo altrove»), ho soffocato di memoria, come in un fondale livido e viscoso. E continuo a farlo.

CHRISTA

1 «Non faccio il nome del compagno assassino ma lo indico con il ditino». VERDE

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A Bologna la Via Emilia taglia tutta la città, a Roma è una stradina tra Via Veneto, Piazza di Spagna e il Muro Torto; non


più di tre isolati di pensioni, alberghi a ore, lavanderie in franchising e internet point, nella accezione anonima della declinazione vittoriana di uno spazio immutato nel tempo. Il mito è un istituto libertario, inattaccabile e lineare, e quello della Dolce Vita si conforma per intero nell’allegoria beffarda della conformazione irta e in salita della via che ha causato la spettralità di un rione, il Ludovisi, lastricato di inconciliabilità segrete e costretto a devolvere anonimato per omonimia: non bastano gli storici licei Tasso e Righi, né le oscure chiese sconsacrate di San Lorenzo e San Giuseppe per emendarlo da uno stato di confine tra la Porta Pinciana e la strada dei paparazzi prima, e della Magliana poi. Quel mito era già finito quando, nel 1963, Christa decise di avocarne a sé un brandello. Da Via Sicilia ogni sera non doveva che uscire di casa per lasciarsi investire dall’orizzonte bianco dell’Excelsior che bruciava nei suoi occhi illuminandole il viso. Probabilmente non ha mai avuto il tempo di dialettizzare l’intrico fumoso di quello spazio in quel tempo quando, una mattina di maggio, nell’ora in cui la città dopo il pranzo si arresta, le sue urla incendiarono la polvere di un androne immobile e deserto, che troppo tardi si riempì di sguardi curiosi e giudicanti, tutti per il suo cadavere – incastrato nelle ante del vecchio ascensore fermo al quarto piano – accoltellato fino al cuore e alle ossa, i muscoli recisi, un mano quasi mozzata, forse perché non suonasse alla porta dell’amica che l’aspettava. Da allora, in una epifania d’appendice giallo-mondana, Christa divenne volta per volta la facile “tedeschina” che a Roma più che la dolce doveva fare solo la vita, l’amante clandestina di golpisti neri del Sifar, agente antinazi di Odessa in missione segreta e assassina

e contraltare nero del sogno allegro felliniano: una centralità mediatica micidiale, per quanto necrofila e beffarda, per un’aspirante attrice ventitreenne, cinicamente uguale ai tanti ritratti di celluloide imposti con leggerezza e presunzione dai nostri Auteurs, che a nulla servì se non a rifare presente, per sempre nella memoria, il suo tragico essere (appena) stato in un passato eternizzato in veste di transstoria affondata nello spazio. Al di là delle colpe e delle aule giudiziarie, in quel limbo oscuro che ciclicamente impone storie nere insensate e senza finale, che sembrano inventate per essere scritte e raccontate. ChristaWanninger, 23 anni, viene uccisa con 7 coltellate la mattina del 2 maggio 1963, di fronte alla porta dell’appartamento della sua amica Gerda Hoddap, al 4°piano di Via Emilia 81, una traversa di Via Veneto. Subito dopo l’omicidio, i primi soccorritori vedono fuggire «L’Uomo in blu» (dal colore dell’abito che indossava), un personaggio mai identificato che anni dopo verrà associato alla figura del pittore Stefano Pierri, autoaccusatosi del crimine nel 1964, ma infine assolto nel marzo 1988. Il caso è tuttora insoluto. Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito. È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. http://archiviostorico.corriere.it/2008/ maggio/18/Dolce_Vita_Christa_Cancellata_ dall_co_9_080518038.shtml http://www.cronaca-nera.it/misteriditalia/532-caso-christa-wanninger-misterouomo-blu.html http://www.raistoria.rai.it/articoli/il-delitto-dichrista-wanninger/12906/default.aspx VERDE

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IO SONO VIVO

VOI SIETE MORTI

IO SONO VIVO

VOI SIETE MORTI

IO SONO VIVO

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VOI SIETE MORTI

IO SONO VIVO

VOI SIETE MORTI

IO SONO VIVO

VOI SIETE MORTI

IO SONO VIVO

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