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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 7 anno I Dicembre 2012

Marco Lupo Simone Ghelli Pierluca D’Antuono Alda Teodorani Antonin Artaud Sonia Caporossi


L’identità umana è fatta di negazioni: non sappiamo cosa siamo ma di sicuro conosciamo ciò che non siamo, ciò che non vogliamo. Esistono luoghi-non luoghi nelle nostre città in cui il tempo non scorre e la vita – ammesso che si possa chiamarla vita – si svolge secondo un rituale preciso e monotono, senza mai niente di diverso: in quei luoghi sono rinchiuse persone non normali e ci danno uno dei metri di paragone su quel che non siamo. Ci consentono di nutrire la consapevolezza del nostro essere umani. Quelli che sono sepolti dentro i manicomi e le carceri, dentro i campi nomadi o nei cosiddetti centri di “accoglienza”per gli immigrati, non sono considerati persone (proprio come nei cimiteri) e in questi non luoghi è tutto calibrato per togliere loro l’identità. In questo mese di dicembre VERDE ha voluto accomunarsi ai nostri amati pazzi, ai diversi con il suo secondo numero monografico. La pazzia, nelle società primitive, era spesso considerata il segno più alto di consapevolezza e di saggezza, persino di un contatto privilegiato con gli dei, o di ispirazione poetica. Pazzia e genialità sono spesso accoppiate, come testimoniano alcuni grandi nomi dell’arte e della letteratura. In questo mese dove incombe, come ogni anno, il natale della bontà, della fratellanza e della carità, VERDE vi regala un folle antidoto alla bontà! LEGGETE, CONDIVIDETE, SCARICATE E DIFFONDETE! VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista verderivista.blogspot.it

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Antonin Artaud da “Alice inmanicomio” pag. 4 Pierluca D’Antuono La chiave pag. 6 Alda Teodorani Scegli la tua morte pag. 8 Sonia Caporossi Van Gogh pag. 10 Simone Ghelli Orsacchiotti pag. 12

Marco Lupo Bile pag. 14 VERDE


Antonin Rodez, 12 febbraio 1943

Caro dottore ed amico, la sua offerta di accogliermi nella sua struttura e di occuparsi di me in prima persona va ben oltre il desiderio di rendere giustizia ad uno scrittore ricoverato contro la propria volontà, senza che un qualche medico che abbia avuto a che fare con il suo caso abbia potuto riconoscerlo pazzo; in questo movimento di simpatia umana che l’ha spinta a ospitarmi, c’è un’ispirazione occulta che giunge dall’alto, cioè voglio dire, dottor Ferdière, che le proviene da Dio ed è lui che l’ha spinta a soccorrere un uomo sconosciuto e reietto dagli uomini quale io sono. – Antonin Artaud era in verità uno scrittore, un uomo di teatro e un attore stimato ed è per lo meno strano a prima vista che il suo internamento sia potuto durare per più di cinque anni, senza nessun ammorbidimento e senza che un movimento efficace di avversione abbia sollevato nei suoi confronti la coscienza delle persone oneste. C’è stata comunque molta indignazione e parecchie manifestazioni di piazza e di massa in Francia e nel mondo, dottor Ferdière, da quando Antonin Artaud è stato internato. Ce n’è stata una ad Havre nei pressi della cella del servizio Pinel dell’Ospedale generale di Havre dove Antonin Artaud era trattenuto in camicia di forza e avvelenato ad ogni pasto, mentre le campane di tutte le chiese di Havre suonavano e questo movimento era coordinato da André Breton e dall’Action Française; ce n’è stato uno a Rouen, a Sainte-Anne e sono avvenuti innumerevoli scontri sanguinosi per le strade di Parigi in nome di Antonin Artaud mentre questi era a Ville-Évrard. Ma quel che voglio dirle, dottor Ferdière, è questo: che nel caso di Antonin Artaud non si tratta né di letteratura né di teatro, ma di religione e che è per le sue idee religiose, per il suo atteggiamento religioso e mistico che Antonin Artaud FINO ALLA SUA MORTE è stato perseguitato dal volgo dei Francesi. E su questo punto, dottor Ferdière, mi ascolti bene. Antonin VERDE

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Artaud, contrariamente a quel che si è qualche volta potuto pensare di lui, era profondamente religioso e cristiano. In questo mondo è stato il rappresentante più qualificato e più puro della vera Religione di Gesù Cristo, il cui cattolicesimo esoterico da tempo non era altro che una spudorata caricatura. Codesta Religione richiede l’integrale castità non soltanto del Prete ma di ogni uomo degno di questo nome e predica l’assoluta separazione dei sessi e la totale eliminazione di tutto ciò che può essere sessualità. Tutto ciò che non è casto e ha attinenza con la sessualità, al di fuori del matrimonio e NEL matrimonio, è da condannare, e la riproduzione umana non avviene esercitando l’assolutamente immonda copulazione. Antonin Artaud è morto di dispiacere e di dolore a VilleÉvrard nell’agosto del 1939 e il suo cadavere è stato portato fuori dalla città durante una notte bianca simile a quelle di cui parla Dostoevskij, che durano parecchi giorni intercalari ma che non sono comprese nel calendario di questo mondo – benché vere come i giorni di qui. Ho preso il suo posto e mi sono unito a lui fisicamente e nell’anima, in un corpo che si è formato concretamente e realmente nel suo stesso letto per magia al posto del suo. Il vero nome di Antonin Artaud è Hippolyte e Sant’Hippolyte, lei sa, fu vescovo del Pireo nei primi secoli dell’era cristiana dopo la morte di Gesù Cristo, e il cui corpo Antonin Artaud Hippolyte ha trasportato attraverso il tempo. Il mio nome, dottor Ferdière, è Antonin Nalpas e a questo riguardo ho una famiglia sulla terra che mi cerca, che mi rivuole e alla quale i poteri pubblici francesi hanno rifiutato la restituzione. – Questa famiglia benché sia sulla terra è celeste. Ed è il Cielo, da dove in verità anche lei proviene, che l’ha inviata da me. Io le ho scritto questa lettera perché lei se ne ricordi letteralmente ed oggettivamente perché in realtà la sua anima è quella di un Angelo e lei è un Angelo di Gesù Cristo. Antonin Nalpas


Artaud Rodez, 18 maggio 1943

C’è una cosa che non può esistere e che è di un’ingiustizia totale nei miei confronti qui. Sono già trascorsi quindici giorni da quando ho chiesto al dottor Latrémolière di fare un bagno ogni giorno, per poter essere pulito, e che l’ho pregato di evitarmi la promiscuità del bagno comune che offende i miei sentimenti religiosi e la mia castità a causa di tutte le nudità che vedo, e a causa dell’odore dei gas mefitici che mollano certi malati e mi hanno risposto che non c’è acqua calda. Ho anche chiesto di essere sbarbato almeno ogni due giorni e il barbiere mi ha risposto di non avere il tempo. Sono due mesi che lei mi ha promesso di farmi avere uno spazzolino da denti, ma non l’ha fatto. Lei sa che vengo trascurato e riconosce anche lei comunque di trascurarmi parecchio e che sono obbligato a rimproverarla. Riconoscerà che non è giusto e che ciò, mio carissimo amico, non corrisponde ai suoi veri sentimenti nei miei confronti. La prego, ordini che mi venga concesso di fare un bagno al giorno e che possa inoltre essere rasato tutti i giorni. Non vi è nulla che mantenga in uno stato mentale negativo come il fatto di non rasarsi e mantenga il corpo in una disposizione di melanconia depressiva. Ho una grandissima cura della mia pulizia fisica e nonostante i miei notevoli sforzi che lei sa e che non vuole riconoscere perché occulti, mi procurerò tutto il necessario, pure uno spazzolino da denti. Ma non ha notato che non ho quasi più denti e che me ne rimangono esattamente 8 su 33, e ha già dimenticato come li ho persi? Lei è crudele dottor Ferdière rimproverando ad un uomo ferito e infortunato per malevolenza di non lavarsi i denti quando questi li ha perduti per sventura. E poi non è così che mi vedeva, lei non avrebbe voluto per nulla al mondo che un poeta, un drammaturgo, un attore, un ispirato, fosse confuso con un pazzo e bisogna essere stupidi e vili come il mondo moderno che lei odia perché mente, per confondere il sacro fanatismo con una

forma qualsiasi di demenza o di follia. Dottor Ferdière non sono assolutamente un essere sociale, e nei confronti della Società sono ciò che si chiama un Ribelle e lei lo sa; Jules Vallès, Jacques Vaché, Arthur Rimbaud e molti altri furono anche loro dei Ribelli e degli esseri Anti-Sociali perché la Società Umana è cattiva, non si è pazzi solo perché lo si dice e lo si proclama ad alta voce come quelli hanno ben saputo fare. E c’è pure un grande Ribelle che il Mondo ha rifiutato e ha crocifisso, e che si chiamava Gesù Cristo ed era Dio, ed io non credo che lei avrebbe accettato di incarcerare Gesù Cristo in un ospedale psichiatrico né che lo avrebbe rimproverato di non essere pulito mentre veniva coperto di ingiurie e di sputi. Se mi è capitato di alzare la voce per le strade di Parigi è stato contro il Male e per scacciare i demoni e la gente mi faceva sempre da eco contro la polizia e la metà della polizia alla fine era dalla mia parte. Ora, dopo sei anni di internamento e di lavoro occulto contro il male, vorrei sapere dove è arrivato il Mondo e se sta dalla parte di Dio o di Satana. Antonin Nalpas Brano tratto da Antonin Artaud, Alice in manicomio. Lettere e traduzioni da Rodez a cura di Leonardo Boero, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo, 2008. Per l’acquisto: http://www.stampalternativa.it Ringraziamo la Casa Editrice per averci concesso di pubblicare il testo

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La chiave Pierluca D’Antuono Molti scienziati hanno evitato di riflettere sui sentimenti degli animali per il timore, senza dubbio realistico, di essere accusati di antropomorfismo. Ecco perché io ho esaminato con cura il problema dell'antropomorfismo. Se esso potrà essere eliminato come una falsa critica, lo studio delle emozioni degli animali potrà procedere su una base scientifica, liberato da un timore infondato.1

I gatti possono essere agili, combattivi, indifferenti, ingegnosi, indipendenti, riservati, affettuosi, curiosi, energici, pigri, rabbiosi, nervosi, impulsivi, vendicativi, passivi, silenziosi, invisibili, aggressivi, agnostici, ironici, famelici, ineffabili, predatori, immortali, ciechi, sordi, muti, graziosi, eleganti, carnosi, espressivi, misteriosi, femminili, reticenti, allusivi, virtuosi. L’antropomorfismo è l’attribuzione di caratteristiche e qualità umane ad esseri animati o inanimati o a fenomeni naturali o soprannaturali, in particolare divinità. Il termine deriva da due termini greci, άνθρωπος e μορφή. In una notte di estate, guardandolo sfinito per il caldo, steso a terra sul fianco destro, gli occhi immobili da ore in piccole fessure lacrimose, un pensiero mi oscura la vista e mi costringe ad alzarmi dal letto; ma le gambe indolenzite e un senso di vertigine pauroso mi impediscono di levarmi dalle lenzuola e al terzo tentativo mi lascio andare avvinto nella conca del materasso bagnato di vino. Le finestre chiuse, le luci spente, le mosche avviluppate in fasci di pulviscoli nervosi, gli aloni di sudore che mi irritano la pelle tra le gambe, 1 Jeffrey Moussaieff Masson. VERDE

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tra i capelli, sotto le ascelle, nella bocca e uno scarafaggio nero che guada quel corpo di tigre ai piedi del letto e si arrampica sulla pagina di un libro aperto a caso, lungo la linea perfetta di grafite che sottolinea una frase in corsivo Può darsi che non ne sentiremo troppo la mancanza Dopo la a inciampa nello spazio e allora il pensiero ritorna, oscuro più di prima. Mi alzo dal letto solo per cercarlo, seguo il suo pelo ma lui resta nell’ombra, in un punto qualsiasi della casa che non conosco o che ho dimenticato. Da quanto tempo non mangia? mi chiedo fissandolo. E poi il pensiero rimane, notte dopo notte, per tutta l’estate. La bocca del farmacista si muove lentamente. Il suo naso è pieno di peli neri e duri che si rovesciano come lenzuola annodate sul labbro screpolato, in un disegno di evasione insolentito da una linea di baffi incerta e sparuta. La voce che trema apre a denti gialli macchiati di caffè, su cui una patina di tartaro si disgrega lentamente, in scaglie invisibili e leggere che mi sputa addosso mentre parla. Sono piccole particelle atomichesolide-incolori-insapori e presenti nell’atmosfera, che suggeriscono ai miei pensieri di scappare, andare via e mettere in salvo i miei occhiali scuri dalla sua bocca appiccicosa, ma resto fino a quando le sue mani incartano la quarta scatola di Triptizol e il rumore


della carta velina cessa all’improvviso. Da allora le cose peggiorano in un verso che non esiterei a definire epocale. La contingenza, va da sé, s’era già smarrita. In quelle notti d’estate prendo l’abitudine di uscire quando il sole cala e le ombre si riprendono lentamente le strade vuote e smembrate della città. Dalla stazione vado giù al distributore di sigarette e poi in fondo fino alla farmacia di turno. Guido senza cintura, con i finestrini abbassati e non ho neanche bisogno di guardare la via, sopra le buche profonde che mi costringono a girare sulla sinistra della carreggiata, in attesa degli eventi. In quei momenti ventilati e di rilievo penso spesso ai miei bambini e mi ritrovo in compagnia di quel senso di sollievo che mi fa d’albergo da quando sono andati via con lei. Quanto tempo è passato non riesco a dirlo: è un lasso che oscilla tra una settimana e un mese, tempo di spiagge, di mare e di vento. Il conforto cresce e mi parla ogni giorno. Sento la sua voce ammaliante che mi rassicura, e mentre un vortice d’assenso mulina sulle mie squame, il conforto investe di luce la linea di mezzeria. Quello che succede dopo è l’inizio di una nuova (prei)storia. Posteggio sul pendio di un cratere e calpesto i resti di un rospo investito al centro della carreggiata; il suo sangue sprofonda sotto gli strati di bitume impolverato, imbevendo le radici di catrame. Sul dorso, l’ombra degli pneumatici sulle ferite aperte dipinge le sue scaglie di nero. Deve essere appena successo perché il sangue è ancora denso. Mi è difficile immaginare che sia accaduto accidentalmente, ma come indovinare da quale delle due parti provenga la premeditazione? Da quel momento, lungo la stessa strada sterrata, trovo ogni sera un animale differente: tartarughe con le

zampe squartate da brani di carapace, bisce fuse all’asfalto bollente, un cane con le orbite esplose, topi deflagrati come bolle d’aria velenose; nessun rombo di freni mi precede, e nel silenzio le tracce spariscono misteriosamente. Ricompongo le spoglie come meglio posso e le carico in macchina: porto via quelli che respirano ancora e hanno negli occhi l’indifferenza di fronte alla fine. La mia casa adesso è popolata e illuminata a festa. Prima di andare a dormire li raccolgo nel bagno e lì prendiamo le medicine: a me i miei Triptizol da 150mg, a loro un quarto di Laroxyl ciascuno, e se serve anche il Tofranil in bustine. Ci mettono poco a rifiorire e nel giro di qualche giorno scalpitano, camminano, mangiano e ridono (anche lo sguardo è diverso). Se ne accorge pure il mio gatto che all’improvviso non è più quello di prima: non si nasconde più, ha ripreso a mangiare e un vitalismo che avrei detto estinto si impossessa delle sue brame. Fa amicizia con tutti gli animali e con loro trascorre il grosso delle giornate in un trionfo di vivacità, intraprendenza e soprattutto curiosità. Il suo equilibrio è tale da non scomporsi neanche quando all’improvviso quelli spariscono, senza lasciare tracce né macchie né spiegazioni plausibili. Se tendessimo a illustrare la realtà delle cose partendo dai concetti della natura e del comportamento umano, le leggi dell’universo, dell’essere e del conoscere non avrebbero misteri e io capirei meglio le ragioni per cui il mio gatto è diverso. Qualsiasi psichiatra direbbe che gli animali assimilano dai loro padroni contrassegni caratteriali, attitudinali ed esperenziali. Al telefono sembrerebbe una spiegazione razionale, ma poi un latrato angosciato ne svelerebbe la chiave; in quel momento sapremmo allora che ogni psichiatra ha un cane. O lo è, lui medesimo. VERDE

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Van Gogh Sonia Caporossi L’artista sta sempre, esemplarmente, sul discrimine invisibile che separa senso e non - senso, così come, non - esemplarmente, ci stiamo tutti. Emilio Garroni Ecco un’impressione. Mi sento ancora per quello che sono, ed è bello, finalmente. Ho il coraggio di passarmi una mano sul volto, fredda sul marmo, intenerita anche solo dal gesto che sta compiendo. Tuttavia, le carezze che queste mani mi recano, volente o nolente, non hanno l’auspicato effetto di rassicurarmi, o almeno non lo fanno come dovrebbero. Dovrei essere certo che sia proprio io ciò che percepisco al tatto? Dovrebbero appartenere proprio a me quella mano, quel palmo, quel polpastrello mutevolmente tattile che poco fa mi ha attraversato amorevolmente la superficie del viso? Mi fermo, mi limito ad osservare. È l’unica decisione che riesco a prendere, l’unica risolutezza di cui mi faccio forte. Solo, permane l’assenza di un complemento oggetto, di un’espansione diretta alla mia curiosa e penetrante attenzione. Che cosa diavolo dovrei guardare, nella galleria d’arte in cui ora mi trovo, ricolma di individui senza forma né contenuto, di cui vedo sempre e solo la nuca, silenziosamente rivolti di spalle, con il bavero alzato e le braccia conserte? Forse dovrei prestare attenzione a ciò che loro stessi stanno osservando? Perché sembrano tutti così spavaldamente attenti, sereni e sicuri? Gli unici volti affini che vedo, in questo corridoio di luci soffuse e di riflessi pavimentali, sono quelli delle tele, sono quelli dei ritratti: sono quelli non umani. All’improvviso il mio dito mignolo s’avventa sull’occhio destro e vi si intrattiene in muta conversazione. La soluzione istantanea del gesto coglie di sorpresa anche me, stupisce soprattutto me: occorreva un atto di coraggio mal cogitato per spezzare le corde tese dell’esitazione e della persistenza di quell’attimo irreale. VERDE

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Ah. Ahh. Ahhh. Non sento dolore. È entrato nella mia orbita fino alla falange intermedia. Ora sa tutto della mia vista, ora gioca in simbiosi con la cornea. Il sangue ex terrae factus cola fino alle narici. Ora sì, è lancinante, improvviso, un emergere sostanziale di costrizione coatta al dolore e al dilaniamento: ora sì, sento. Non mi occorre uno specchio per osservare il mio occhio cavato. Non importa. Mi sono semplicemente sentito. Ho percepito finalmente, magistralmente, l’attimo in cui scorro. Non so se esserne felice, o piangere di gioia, o disperarmi epidermicamente, ipocritamente, di dolore. Perché dovrei urlare ora? Del resto, perché non farlo? Do la precedenza alla casualità. Lascio passare prima l’attimo. Esso è scorso, non mi trattiene più, se n’è andato ancora una volta. Io vorrei rincorrerlo, ma non mi ci adopero perché è una banalità, perché lo fanno già tutti. E mentre esito, qualcosa intorno a me sta pur accadendo. Qualcosa è in mutamento. Qualcosa è in rivoluzione. Quante facce mi osservano da queste mura. Da un ritratto in una galleria non ci si può aspettare altro che uno sguardo passeggero. Ma con l’occhio sinistro… Ecco, posso vedere la gente che fugge urlando, scaraventandosi fuori dalla sala. Di che cosa hanno paura? Il mio occhio soffre in silenzio. Il mio occhio è affar mio. Un vecchio si avvicina, ha lo sguardo stralunato, tenta di porgermi aiuto. Lo allontano con gentilezza, scandendo calme parole di rassicurazione. Cristo, frigna come un vitello. Esita. Lo sento amico, mi guarda con occhi strabuzzati, vivi, dannatamente vivi. Invece, dei miei, uno è spento. L’altro, atrocemente acceso. Livido, paonazzo di scarlattina e di furore, nella tensione malsana e animale del senso. Passo davanti a uno specchio. Il mio occhio mi scruta. Poi scruta suo fratello. Fissa la mia pupilla morta, come se la desiderasse sua compagna. Il vecchio mi guarda. S’innamora anch’egli della mia pupilla sanguinante. Non


riesce a toglierle gli occhi di dosso. Sarà orbo come me? Gli sorrido. Ciao, compagno Ciclope. Nel mondo dei ciechi, recita un vecchio detto, i ciclopi sono Re. Vogliamo conquistare e dominare il mondo insieme? Vuoi essere mio amico? Vuoi essere mio padre? Il vecchio distoglie lo sguardo, si volta correndo via. Potrei estrarmi il bulbo con due dita e porgerglielo come un regalo. La ricompensa per un affetto strano. Un vano presente per il solito estraneo. Ma no. È già sparito. Nella sala, più nessuno. Posso girare indisturbato ad osservare i volti di crosta e colore che mi scrutano. Gli occhi vacui fissi nel nulla dietro di me, nel nulla davanti a me, senza il terrore di un ubriaco. Nessun suono, nessuna voce, nessun colloquio fra le mie tre dimensioni e la loro base e altezza. Il pi greco non li gratifica: sono oggetti di una geometria pura, letteralmente privi di spessore; neanche le croste obese di un Van Gogh, con i suoi stupidi ettogrammi inutili di colore ad olio impiastrato sulla tela, possono rendere quei colori umani. Non potrei rispondere loro con uno sguardo ugualmente pieno di opaca nullità. Non ne sarei capace. Del resto, tutto questo non importa. È

necessario che io non li veda più. Anche l’altro mignolo è insanguinato, ora. Sento accorrere della gente. Il loro scalpore scalpitante penetra come il frustino di un mandriano nel mio buio acceso. Non voglio far morire la mia percezione così presto. Mi inginocchio come Edipo, faccio grondare il sangue dalle mie cavità nell’amplesso asettico col pavimento di marmo. Tutto intorno a me è artefatto. Neanche fingendo potrei sposare dentro un Museo la nuda terra col mio sacrificio! Una sensazione uditiva. Un grido. Una sirena d’ambulanza. Il suono è l’ultima soglia del dolore da superare, senza neanche più il conforto di una singola dimensione. Il suono è quest’assoluto, puro nulla, senza ulteriore determinazione. L’antitesi completa di quest’essere curvo e malato che sono, il quale non si toglie e non si scioglie in divenire. Il suono, il puro suono: è l’ultima cosa che vedo, nel mio buio ora reale. Entrano. Qualcuno si preoccupa di me. Chissà se riuscirò a smacchiare il vestito, dopo. Chissà se riuscirò a salvarne i colori. Chissà se riuscirò a restaurare la tavolozza perfetta e compatta, solo graffiata e appena maculata dalla granatura rosso sangue, delle mie percezioni.

Sonia Caporossi (Tivoli, 1973) suona il basso nei Void Generator, con i quali ha all’attivo due album, Phantom Hell And Soar Angelic (Phonosphera 2010) e Collision EP (Phonosphera 2011). Ha diretto il sito Terra Di Poiesis, la cui esperienza è ormai chiusa. Ha pubblicato saggi di krautrock e kosmische musik per la rivista Musikbox, poesie sparse, racconti, saggi di critica letteraria, filosofica e storiografica in varie riviste. Attualmente, insieme ad Antonella Pierangeli, dirige il blog Critica Impura.

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Orsacchiotti Simone Ghelli Invece la porta è rimasta sempre chiusa. Soltanto il pianto di mia madre riesce tutt'oggi a farla vacillare, anche se la stanza non è cambiata da quando avevo dieci anni e non ci può più camminare per gli orsacchiotti, le paperelle e i coniglietti vari sparsi in giro. Per non parlare dei poster appesi al muro… ovunque mi giro ho sempre la sensazione di essere osservato da gnomi, fate e folletti, con quei loro visi tanto dolci e candidi che nascondono chissà quali sporchi pensieri. La mamma, però, non ha mai permesso che si toccasse qualcosa, poiché considera la casa un po' come il suo regno, anche se a me pare più un cimitero di ricordi. I mobili scoppiano per il peso insopportabile di tutti quei gingilli che richiedono più cure di un figlio, sempre bisognosi di essere accarezzati come tante lampade di Aladino. Ci sono i servizi di piatti e bicchieri di quando i miei si sono sposati, chiusi a chiave in vetrina e mai utilizzati, che con il loro candore privo di graffi testimoniano la purezza della sposa. E le bomboniere degli altri, messe tutte in fila davanti alle tazzine da caffè, oppure i vassoi dipinti a mano che gli amici e i parenti hanno riportato indietro da viaggi lontani, sempre descritti come favolosi, ma che a me sembrano tutti brutti e inutili allo stesso modo. Ciò non impedisce che la mamma, quando non trova qualcosa, diventi come le mosche che sbattono sui vetri delle finestre e si aggiri VERDE

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impazzita fra le stanze come se non riconoscesse più niente, con in mano una mappa senza simboli che non può più essere letta, incomprensibile da qualsiasi lato la si metta. Mia madre non ha avuto altro che questa soddisfazione dalla vita, così come mio padre con il suo povero orticello, entrambi ingannati da una tradizione che hanno accettato rinunciando a indagarne il passato. Così è e così sempre sarà, accada quel che accada, anche di avere un figlio snaturato come me, che poi lo si prende e lo si mette al sicuro, legato e imbavagliato, accudito e coccolato, meglio di un cane con il suo osso. Non c'è niente da biasimare, giacché delle cose brutte ci si dimentica e rimangono solo le belle a far sorridere negli album di famiglia, come i regali della prima comunione o il vestito degli sposi, il viaggio di nozze o la cena della vigilia. Io non ci entrerò mai dentro una di queste fotografie ben costruite, magari in bianco e nero, con tanto di effetti di composizione tipo sovraesposizione, sottoesposizione, flou e chissà che altro ancora. Io non sono come quel nostro ricco zio di famiglia che girava il mondo e ci spediva strane cartoline patinate in cui compariva sempre in dolce compagnia, ritagliato in un angolo di superficie al centro di un cuore o di un fiore. I miei pochi ritratti mi sorprendono invece in pose estemporanee, prese all'improvviso, la faccia sfigurata in qualche ghigno


contorto, con gli occhi chiusi o la lingua in fuori, magari che guardo da tutt'altra parte. Sono proprio io, amante dei paesaggi al naturale senza la presenza di esseri umani a dare un senso a un ordine indecifrabile, io che ho sempre parteggiato per i resti di un passato inesplicabile, come vecchi ruderi, monumenti, chiese, ville con piscine abbandonate, mura erose dal tempo, strade deserte, luna park sprangati e simili. Ho passato intere giornate con la mia vecchia macchina fotografica a tracolla, aggirandomi per il paese nelle ore più impensabili, cercando di sorprendere quella cosa che mi aspettavo dovesse nascere da un momento all'altro, non sapevo bene cosa, ma la sentivo. Eppure non

l'ho mai catturata. Mi rimangono una serie di tentativi falliti, sempre troppo presto o troppo tardi, a lato, appiccicati con la colla su diari che non aprirò più, l'ora e il giorno scritti a penna, un titolo come fanno i bambini con i loro disegni, tipo “Alberi al chiaro di luna”, “Casa con recinto”, “Nuvole di passaggio”. Questa mia passione per le forme la considero come una sensibilità superiore, molto più profonda di quella sbandierata dai cultori del contenuto. La storia in fondo ci ha già insegnato tutte le cose, basta prenderle dall'infinito repertorio delle citazioni come da un elenco telefonico, ma scegliere come dirle è tutta un'altra cosa. Nell'era del cervello non c'è nient'altro che conti al di fuori del nostro corpo, della nostra incapacità a riprendercelo per scagliarlo contro questo mondo di tristi simulacri. Altrimenti l'avrei già trovata l'immagine giusta, ma è probabile che invece non esista, che sia per sempre prigioniera di quell'infinitesimale frazione di tempo che occupa il gesto dello scatto. È là, capovolta nel gioco di lenti dove brucia come un negativo divorato dalla luce, che l'immagine ti fa l'occhiolino e t'invita a seguirla, come un sogno che scompare al risveglio e di cui non puoi far altro che avvertirne la traccia vaga e indefinita dietro a cui correrai inutilmente, fino a quando la notte calerà ancora una volta sugli occhi della verità… tratto dal romanzo L’albero in catene, NonSoloParole, 2003 VERDE

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Bile Marco Lupo Niente. Allora. Stefan Zweig si suicida con la sua seconda moglie. Guido Morselli si suicida con i suoi rifiuti editoriali. John Kennedy Toole si suicida con la sua macchina e con un tubo attaccato alla marmitta. Lo segue Anne Sexton, stessa terapia. Pierre Drieu La Rochelle non crede nel destino: gas aperto e fenobarbital. Franco Lucentini usa la tromba delle scale come uno scivolo per il paradiso. Certi dicono che ha seguito Levi. José Agustín Goytisolo ha scelto il balcone. Francesco Lomonaco era attratto dal Ticino. Carlo Michelstaedter ha fatto come Rigaut, pistola contro cuscino. Jacques Vaché si è ammazzato di oppio. Pamela Moore ha scelto la carabina. Marina Ivanovna Cretaeva si è impiccata. Aglaja Veterany ha fatto un bagno nel lago di Zurigo. Le acque svizzere sono propedeutiche al suicidio. Henry de Montherlant ha fatto come gli stoici. Si è stoicamente imbottito di veleno, stoicamente si è tagliato le vene dei polsi e stoicamente si è lacerato le vene nascoste dalle ginocchia. Poi ha fatto bagni di vapore per asciugare la vita. Alice Bradley Sheldon ha compiuto un’infamia. Prima il marito e poi se stessa. Tutto questo fa schifo. Chiediti se mi chiedo la stessa cosa che hanno pensato questi nomi elencati come prosciutti in offerta in un supermercato. Chiediti se ha un senso ridurre una vita a mezza frase. Se ha un senso credere a un motivo, a una causa. Dicono sempre, si è ammazzato perché soffriva. Si è uccisa perché non dormiva. Non sanno nulla della sua sofferenza, ignorano la sua insonnia. Chiediti perché tra i padri della chiesa, l’unico in grado di formulare un pensiero sul suicidio che non VERDE

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fosse una crosta sia stato sant’Agostino, filosofo algerino. Chiediti perché l’Africa ha significato molto in antropologia e nulla in economia. Chiediti, se non ti stai perdendo nell’idea che un racconto abbia bisogno di raccontare una storia che sia una, se il sapere arabo non sia stato cancellato dall’icona di un turbante in un aereo che sorvola una grande città americana. Chiediti se il nostro tempo è più saggio di quelli che lo hanno preceduto. Chiediti il valore della parola schiavitù. Chiediti se la crusca è al passo con i tempi. Chiediti se è vero che un semiologo è un marchettaro. Chiediti se non è vero che il trapasso ti spaventa, che non vuoi pensarci, che per non pensarci eviti di vivere, eviti di scegliere. Chiediti se molti, prima di te, non hanno preso la stessa strada. Chiediti cosa voleva dire Cervantes con la storia del vecchio pazzo. Chiediti cosa puoi immaginare da una terra in cui la polvere ricopre alcuni uomini e protegge gli altri con un muro. Chiediti se essere contemporaneo prevede una qualche forma di solidarietà con un tuo contemporaneo. Chiediti se le Prada calzavano bene a un contadino del XIV secolo. Chiediti se nutrirsi di carne ha ancora senso. Chiediti se investire senza investire in una banca ha senso. Chiediti se la guerra tra poveri non ti tocca. Chiediti perché ti piacciono le commedie americane. Chiediti perché tua madre non canta più le canzoni di Cocciante. Chiediti dove sono finite le parole che dispensavi a tutti. Chiediti perché crescendo non si diventa maturi. Chiediti qualcosa sull’eroina, prova a farlo. Qualcosa sul mutuo. Qualcosa sulla crisi. Chiediti qualcosa, insomma. Ti racconto una storia. Una vecchia si affaccia tutti i giorni dalla stessa finestra. Se vivi a Roma, se conosci il


Pigneto, se conosci la Circonvallazione Casilina, se conosci il bar Rosi, se rispetti il semaforo rosso e parti senza sfrecciare al verde, la vedi subito sulla tua destra, appena superato il semaforo. Dall’altra parte del finto canale, sul primo palazzo all’angolo, c’è quella finestra. La vecchia la vedo sempre con una veste logora. Sono miope, la vedo così. Da più di dieci anni la sento urlare dalla finestra. Urla contro il traffico, forse, contro un figlio che le ruba gli anelli, contro una sorella che la ignora, forse, contro una vita che si è sciolta male, contro la cinetica, contro i mortai che predicano senza essere alfabetizzati, forse, contro i puttani in divisa che leggono Pasolini e non capiscono i fondamenti. La merda. Contro i critichini che hanno spalle, cosce, culo, clavicole, naso, bocca, occhi coperti. Contro quelli che non conoscono il melodramma del centesimo, forse, contro quelli che ignorano l’umiliazione del furto, l’aberrazione dell’ascolto. Contro le storie di chi si flette riposato mentre una donna vomita e urla sugli scalini di un palazzo che non conosce il cuore. Contro parole come flessibilità, forse, contro i poeti che gareggiano con i poeti, contro i morti che

chiamano i vivi, contro il sale che suscita pressioni, contro le erezioni che provocano feti, contro i fumi che avvelenano il latte, contro i vivi che non fanno i vivi. Forse. Forse è per questo che la vecchia non si lancia dal suo quarto piano. Potrebbe farlo. Avrebbe tutte le carte in regola. Ma non lo fa. E tutto questo non significa niente, per la vecchia. Lo ignorerà per sempre. Così come il mondo ignorerà il suo viso. “Marco Lupo nasce in Germania, a Heidelberg. C'è una base della NATO, lì dove nasce, e impara presto la differenza tra le parole ‘muro’ e ‘prato’. Da piccolo volevo fare l'archeologo. C'era tutta quella polvere, nei musei. Mi piaceva. I custodi, soprattutto. Torna alla terza persona. Scrive racconti inutili per antologie diversamente utili. Pubblica diversi racconti su riviste, fanzine, carte da pacchi, frigoriferi vintage, finestre troppo piccole. Nel 2001 lavora come operaio in una fabbrica di bottoni. Da allora non ha mai smesso di scrivere. Redattore di TerraNullius, è uno dei direttori artistici del FLEP! (il primo Festival delle letterature popolari), creatore di “Mai Morti” (curato a quattro mani con Luca Moretti ed edito da Dissensi), sta scrivendo un romanzo su ciò che sa dell'immigrazione. Per il resto, ha un neo sul naso.”

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