protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 11 anno II aprile 2013
Nico Piancastelli - https://it-it.facebook.com/nicopiancastelli
Pierluca D'Antuono Alda Teodorani Bruno Ballardini Luigi Bonaro Simone Lucciola Federica Lemme S.H. Palmer Luca Carelli Nico Piancastelli
dove siamo editoriale
Quando l’abitudine comincia a logorare e le ambizioni si affievoliscono, e il risentimento è tanto alto da frenare ogni emozione, è in quel momento che la lettura mi riconcilia alla scrittura. Allora, come poesia fatale, una nuova direzione si impone ad aprire le porte di quell’universo privilegiato che fino a ieri mi era precluso, e che non credevo di meritare. Saltata ogni barriera, finisce anche l’attesa di una guida che mi prenda per mano, per non lasciarmi mai più. Mai terra fu più dissetata. Mai cuore fu tanto amato. Mai VERDE fu più nuovo dell’erba. Le illustrazioni di VERDE 11 sono opera di Nico Piancastelli, artista di Bagnara di Romagna scomparso nei primi anni Ottanta, “che si è dedicato allo studio e all’esecuzione della pittura astratta su vari tipi di materiale di tutti i generi, preferendo i più poveri, per manipolarli ed estraniarli dalla loro prima e reale natura.” Questo numero è dedicato al nostro amico e collaboratore Giulio “Rigetto” Ciancamerla.Ti siamo vicini.
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p.2 Editoriale p.3 TI ODIO POESIA #10: Oggi in piazza non c’è più bisogno di occhiali da sole (Pierluca D’Antuono) p.4 Napoli, casello dell’autostrada (Alda Teodorani) p.6 Ultimo viaggio (Bruno Ballardini) p.8 Welcome home… Condominium (Luigi Bonaro) p.10 SEMIAUTOMATICA #4 (Simone Lucciola) p.11 PIRATERIA SERIALE #3: The Borgias (Alda Teodorani) p.12 FICTIOTEQUE #7: Calci (Federica Lemme) p.13 BLITZRECENZION #16: Una vita violenta (S.H. Palmer) p.14 STORIE NERE #6: Sonia (Luca Carelli)
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PARTNERS IN CRIME
Ogni tanto devo tornare a casa per rinnovare il mio sense of horror.
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for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY
VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono e Alda Teodorani. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (http://issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) http://issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista http://verderivista.blogspot.it
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Pierluca D’Antuono
Oggi In piazza Non c’è più bisogno di Occhiali da sole Abbiamo chiuso gli occhi di vetro Immersi nel verde Di un vento bagnato Lasciarli asciugare sarà Senza dubbio un tormento La descrizione di un giorno in cui Non saremo passati mai più in un momento. 218bre2mila8
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TI ODIO POESIA
Oggi in piazza non c’è più bisogno di occhiali da sole
Napoli, casello dell’autostrada Alda Teodorani Ci siamo visti come al solito al casello di Napoli. Stavolta c’era molto traffico e ci siamo scambiati un bacio frettoloso. Poi, al parcheggio, l’ho abbracciato e l’ho tenuto stretto a lungo. Siamo saliti sulla sua macchina, mette in moto e parte mentre allaccio la cintura. Lo guardo fisso, lui invece è impegnato a immettersi nella statale, e la felicità di averlo nuovamente vicino è tanta che tutto è ovattato, perfino i rumori dei camion che passano, perfino la luce di luglio, tutto sa d’incanto e di sogno. Cerco di non pensare al tempo – devo andarmente tra un’ora – e gli accarezzo la nuca, passando le dita sotto i riccioli neri. Lui si gira, mi guarda, mi prende la mano e me la bacia. Stiamo in silenzio per un po’, osservando la zona industriale, la strada, le case, come fossimo turisti e avessimo tutto il tempo del mondo, con la macchina che procede pigra anche lei. Appoggio la testa alla sua spalla, cerco di percepire il suo respiro sotto il ronzio dell’aria condizionata, fisso ogni particolare del suo viso. Nemmeno oggi ho portato con me la macchina fotografica. Vorrei fotografarlo prima o poi perché quando mi allontano da lui non so mai dopo quanto tempo lo rivedrò. Nel corso delle settimane, cerco di ricordare il suo viso ma non ci riesco. Non riesco a metterne a fuoco i particolari. Allora comincio a pensare a lui, a com’è quando arriva in auto ai nostri appuntamenti. Me ne figuro gli abiti, la posizione del corpo. Sta a testa leggermente china mentre mi guarda aspettando che lo raggiunga, indolente. Ha un paio di occhiali diverso ogni volta, e poi... e poi i capelli, che porta sempre VERDE
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lunghi almeno fino alle spalle, e gli occhi grandi, verdi. Ecco, è questa costruzione che mi porta finalmente a ricordare il suo viso. Ma ora non ce n’è bisogno, ora è qui accanto a me. Gli faccio un paio di domande sul lavoro, mi racconta dell’ultima pubblicità che sta preparando, il trailer di un film. «Sì, perché questo regista vuole paragonare Napoli ad Harlem – dice ridendo e incespicando leggermente sulle parole, con quelle pause lunghe che fa sempre quando parla con me – be’, insomma, a uno di quei quartieri neri delle metropoli statunitensi, e vuole che tutto il trailer sia un flash blues.» Una delle sue solite frasi nonsense, rido, e lui ride con me. Allunga la mano sul mio ginocchio, gliela stringo in un gesto complice, come se stessimo dividendo chissà quale segreto. Si ferma e accosta a lato della strada. È una piazzola di parcheggio talmente piccola che ci sta a malapena la sua auto. Non c’è tempo per cercare un albergo e nemmeno tempo per fare l’amore. «Ti amo» gli dico e questa parola sembra un po’ inadeguata, giganteggia nell’abitacolo e poi si scioglie lentamente, come l’espressione emozionata che gli leggo ora in faccia; mi prometto che non glielo dirò più mentre assaggio ancora la sua bocca e lo ritrovo, come sempre nel corso di questi ultimi anni. Mi sistemo meglio sul sedile e mi appoggio con la testa sopra le sue gambe, mentre lui si china su di me soffoco la voglia di slacciargli i pantaloni, di mordergli la pancia e poi di baciargli il sesso e farlo venire così, di fianco alla strada. «Come sta Luisa?» gli chiedo. «Bene, bene...» Non trova niente altro da
fumo di sigarette, per testare nuovi farmaci, farmaci sicuri, che superino in fretta i test sull’uomo, una volta che verranno sperimentati negli ospedali. Uno di questi scienziati ha confessato tutto: bambini extracomunitari venduti dai genitori. Dopo i test vengono uccisi, buttati nel fiume, oppure fatti a pezzi e dati in pasto ai cani. I più piccoli sono stati chiusi in congelatori, per vedere quanto resistono al freddo. E loro, gli studiosi, lo trovavano divertente, gli facevano le foto coi cellulari per riguardarsele.» Rabbrivisco pensandoci ma le immagini nemmeno arrivano al cervello. «A quali punti di abiezione può arrivare la mente umana...» dice e la voce gli trema. Lo fisso con le pupille dilatate, che accolgono troppa luce. La sua figura giganteggia sopra di me, non riesco a metterlo a fuoco. So quanto sta soffrendo, in quella sua mente anche lei bambina, che non trova meglio da fare che cercare di colmare l’incolmabile, di dare felicità a un figlio suo. Restiamo così, nella macchina che lentamente si surriscalda. A fissare il sole che cala e contare i minuti che restano da passare insieme. Nico Piancastelli - https://it-it.facebook.com/nicopiancastelli
dirmi, quindi cambia argomento. «Sai… stiamo pensando di fare un figlio.» La mia mente compie un mezzo giro su se stessa in pochi millesimi di secondo, che lui voglia un figlio dopo tutti gli anni di reportage dal Medio Oriente, dopo i servizi che ha girato in Africa e dopo il film sull’India non mi sembra un’ipotesi verosimile, è troppo spaventosa l’idea di mettere al mondo un figlio adesso, per come vanno le cose, poi passo ad analizzare la mia vita, me stessa, mi chiedo per un attimo quanto ci si potrebbe vedere con i miei impegni, i suoi e ora pure un figlio e poi ancora se abbia preso in affido un bambino come fanno certuni e devo aver fatto una faccia perché lui sta zitto, non mi guarda più, fissa un punto lontanissimo, poi dopo un po’ decide e dice: «Tutte quelle storie di bambini maltrattati, i traffici di organi, espiantati così a cuore battente e poi quest’ultima che mi ha riferito un amico giornalista e non comparirà sui giornali per quanto è truce…» Lo guardo muta, so che me lo racconterà: «E quando l’ho detto a Luisa piangevamo tutti e due, bambini impiegati come cavie da laboratorio, riempiti di agenti cancerogeni, chiusi in stanze piene di
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L’ultimo viaggio Bruno Ballardini Ridley si adagiò stanca sulla piattaforma operativa di prua. Sebbene fosse quella la postazione di lavoro su cui trascorreva più ore al giorno, era anche il posto più comodo della nave dove spesso si fermava per recuperare. Ma la sua giornata non era ancora finita. Indossò il casco con il visore. Il velivolo senza equipaggio che doveva condurre sull’obiettivo sembrava lontano anni luce, eppure nel visore era come se l’avesse davanti a sé. Infilò le mani nei due joystick. Uno scatto metallico e i cinturini dei controller si chiusero automaticamente attorno ai polsi. I led si accesero a intermittenza per un rapido checkup. Tutto era in ordine. Digitò i comandi in uno stato di dormiveglia. Joystick sinistro: pulsante nero, dito medio, sblocco del sistema; pulsante giallo, dito indice due volte, annullamento della forza gravitazionale virtuale che all’interno della nave permetteva di simulare la gravità terrestre; pulsante rosso, premendo a lungo con il pollice, posizionamento dell’operatore a mezz’aria. Ridley scelse la posizione più comoda manovrando il joystick nelle quattro direzioni, fino a trovarsi a galleggiare morbidamente nel vuoto a pancia in sotto. Ripeteva automaticamente le stesse operazioni fatte migliaia di volte. Joystick destro: pulsante nero, dito medio, apertura dell’alloggiamento del minuscolo veicolo di servizio che doveva far levare in volo; pulsante bianco, dito indice, accensione del propulsore magnetico. Infine pulsante rosso. Lo scintillio dei led e un ronzio leggero in sala confermavano che l’apparecchio rispondeva docilmente ai comandi di Ridley e si stava staccando dal suo alloggiamento su una delle pareti della nave. “Maledetto il giorno in cui ho accettato questo lavoro” disse fra sé e sé. Ridley era l’unico pilota e unica responsabile di una nave-guida di nuova generazione completamente automatizzata. In genere, una nave-guida appartiene alla classe Asterion ed ha, al suo seguito, una flottiglia VERDE
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di navi robot capaci di atterrare da sole sui pianeti in cui si estrae il berillio riportando poi il carico alla nave principale. A sua volta, la nave-guida ha il compito di trasportare periodicamente il raccolto fino agli immensi cargo delle compagnie minerarie, navi di classe Pterion parcheggiate tutte al largo di Cygnus. La nave di Ridley però aveva dotazioni sperimentali per il lungo raggio che dovevano essere ancora testate e per questo occorreva un pilota esperto oltre che disponibile a un lavoro extra che non rientrava in nessuna job description della Compagnia. Ridley faceva tutto questo da sola. Erano ormai cinque anni che viveva così, completamente sola nello spazio, dopo il suo divorzio. Una storia come tante, iniziata inutilmente, finita inutilmente. Tanto inutilmente da farle venir voglia di andare il più lontano possibile per lasciarsi la vecchia vita alle spalle. Cinque lunghissimi anni. Ma aveva di che riempire tutto quel tempo: operazioni ordinarie per la ricerca dei minerali, scavo con le navi robot, trasporto alla nave madre, verifica della qualità del metallo, stoccaggio e smaltimento degli scarti. Un andirivieni senza sosta. “Sono poco più di un minatore” si ripeteva nei momenti di sconforto “ma almeno mi pagano più di quell’idiota di Jeff.” Jeff era stato il suo comandante in capo su Deneb e, incidentalmente, anche suo marito. Ora Ridley lavorava per una major dell’estrazione mineraria interstellare, dopo aver svenduto una brillante carriera al comando di flotte militari. Era soltanto una mercenaria di lusso al soldo dei “capitalisti dello spazio”, come venivano definiti. Ma poi chi se ne frega dei principi, ormai aveva dato un calcio ai suoi gradi. Un senso di ribellione alla divisa e a quanto le ricordava del passato portava Ridley a girare per la nave e a lavorare completamente nuda. L’atmosfera interna e il grado di umidità erano perfetti, la nave reagiva alle esigenze termiche del suo corpo come se fosse una
sua estensione. Era veramente la “sua” nave. Ancora un anno di quella vita e sarebbe tornata imbottita di soldi, avrebbe comprato una piccola casa vicino al lago e l’avrebbe riempita di cani e di gatti. Nelle sue fantasie, avrebbe aggiunto volentieri anche una scimmia di Deneb se quelle bestiacce non avessero il maledetto vizio di sgranocchiare le batterie biologiche dei computer. Mentre rimuginava quei pensieri, il piccolo velivolo dalla forma liscia e affusolata che Ridley stava azionando si era fermato in attesa di ricevere comandi. Sembrava un giocattolo ma era frutto della ricerca più avanzata: estremamente versatile e facile da manovrare, aveva un sistema di annullamento della forza gravitazionale che permetteva l’atterraggio in qualsiasi condizione. E si guidava con due dita. Ora stava scivolando lentamente in uno spazio buio e indefinito fra una parete della nave e la postazione di lavoro in cui si trovava Ridley. Improvvisamente una chiamata radio la distolse dalla guida. Il dispositivo rimase a galleggiare nel vuoto, immobile. E anche Ridley, da un’altra parte, galleggiava nuda. «Qui base a Ridley» chiese una voce femminile «Hai finito le operazioni di oggi?» «Non ancora, base.» «Quando pensi di chiudere?» «Devo farmi l’ultimo giro col velivolo sperimentale.» «Non l’hai già testato?» «Non completamente, base» “Non come vorrei.” «Ok, fammi sapere se funziona.» «Grazie cara, ti mando un report completo. Chiudo.» Ridley riprese i comandi. I propulsori tornarono a regime. A quella velocità di crociera il velivolo avrebbe raggiunto l’obiettivo in pochi attimi. Ma un’interferenza nel segnale in ricezione impedì un corretto funzionamento. La navicella cominciò a volare fuori asse. Ridley schiacciava nervosamente i tasti del joystick ma il velivolo non rispondeva. La sua posizione era pericolosamente obliqua rispetto alla rotta che avrebbe condotto sull’obiettivo tracciata nel visore. “Cazzo!” pensò “Devo riallinearlo subito altrimenti il viaggio andrà a vuoto.” Ci riuscì per un pelo. In quel momento comparve quella che doveva essere la destinazione finale. Ciò che i sensori del dispositivo percepivano e rimandavano al visore sotto forma di immagine era un enorme buco nero che si spalancava davanti
ad esso. Il velivolo si fermò per trasmettere immagini più nitide. La voragine si apriva e richiudeva ritmicamente come un fiore carnoso. Il dispositivo intanto sembrava riprendere a spostarsi in modo impercettibile o forse era il buco nero che lo stava attirando inesorabilmente. Poi all’improvviso si lanciò in avanti con perfetta sincronia durante una di quelle aperture. Ridley ebbe un moto di soddisfazione ma la delicata operazione non era ancora terminata. Stava sudando. Con il joystick sinistro azionò immediatamente il secondo stadio. Tre colpi sul pulsante giallo, poi pulsante rosso. La capsula si staccò dal retro e si infilò in una seconda piega dello spazio. Il buio venne illuminato ripetutamente da violenti lampi rossi. Poi, nel punto in cui era stato inghiottito il velivolo, sgorgò una cascata di fuoco. Lo spazio intero sembrava scosso da una vibrazione profonda. I lampi aumentarono, la vibrazione divenne un terremoto e la cascata di fuoco si trasformò nell’esplosione di una supernova. Quell’esperienza sconvolgente durò ancora per qualche minuto. Per Ridley sembrò un’eternità. Sentiva che stava per perdere i sensi. Riuscì a premere due volte il pulsante rosso del joystick di sinistra. I polsi si liberarono subito e le due parti della navicella riemersero dal buco nero e dalla piega nello spazio riunendosi automaticamente in un corpo unico che tornò a librare nel vuoto attendendo ulteriori comandi. Il vibratore telecomandato di ultima generazione planò infine nel suo alloggiamento e il portello si richiuse, mentre Ridley piombava di colpo sulla piattaforma operativa che si trovava un metro al di sotto di lei, accoccolandosi sulla sua superficie morbida dopo l’orgasmo. «Niente male questi gingilli» sussurrò prima di addormentarsi «davvero niente male.» Sognò la sua casa sul lago, i cani, i gatti, la scimmia di Deneb che, maledizione, sgranocchiava le batterie del suo computer, e un uomo che tornava a casa da lei dopo il suo ultimo viaggio. Bruno Ballardini è nato a Venezia nel 1954. Dopo essere stato copywriter, docente universitario e saggista, è approdato alla fantascienza. Tra i suoi ultimi saggi, Gesù e i saldi di fine stagione (Piemme, 2011) e La morte della pubblicità (Lupetti, 2012).
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Welcome Home... Condominium «…le loro vite erano entrate in una dimensione chiaramente più sinistra.» James Graham Ballard, Condominium
Lo so. Sono lì che mi spiano. Maledetti condomini. È tutta una congiura. Silenzio per favore! Potrebbero sentirvi. Ho distrutto il telefono. Aveva un codice a barre sul lato. Pensate che sia pazzo, non è vero? Non tutti sanno che Woodland e Silver, gli inventori del codice a barre, erano due ibridi umano-alieni. L’ho scoperto visionando accuratamente un episodio di X-Files. Non è un caso che nel 1992, Woodland abbia ricevuto dal presidente George H. W. Bush la medaglia per la Tecnologia. Loro, gli alieni, utilizzano i codici per schedarci, controllarci, possedere le nostre coscienze. E gli abitanti del mio palazzo sono tutti posseduti.
Luigi Bonaro Prima fra tutti la signora Zawistowska, quella dannata vecchia. Proprio l’altro ieri, l’ho spiata dalle persiane ed ecco ciò che ho visto. La vecchia polacca tornava dall’alimentari con in mano i sacchetti della spesa. Indovinate che cosa c’era a lato delle busta? Codici a barre. Dice che fa la badante, la maledetta. Lo so io che cosa fa! E gli altri? Vanno a trovarla, le affidano i bambini, capite? Non diventerò come loro. Mi sono barricato in casa. Maledetti alieni, pensate che provavano a chiamarmi sul telefonino. La settimana scorsa, il cellulare squillava emettendo uno strano suono. Ho svitato il coperchio posteriore e indovinate
che cosa ho trovato all’interno? C’erano dei transistor piccolissimi, ciascuno con un barcode impresso al di sopra. Ho dovuto distruggerlo. La mia ex moglie dice che sono ossessionato. Secondo lei dovrei trovarmi una donna e cambiare vita. Insomma, smetterla con questa ossessione ridicola. Come dite? No. State tranquilli. È talmente ripugnante che anche gli extraterrestri avrebbero dei seri problemi a collocarla in un qualsiasi punto di un’astronave. Da quando ci sono gli alieni, la mia vita, qui nel palazzo, sta diventando insostenibile. Certo, ognuno ha il suo incubo personale, un’insofferenza che innervosisce e spesso porta alla lite. Sotto la facciata della tolleranza reciproca, sotto quell’apparenza pacifica, non di rado, si nascondono scontento e disagio. Le difficili relazioni condominiali portano spesso a un senso di frustrazione. Il più delle volte ci si adegua a malincuore a decisioni prese da altri, pensando di non avere spazio per esprimere i propri bisogni. In verità, per quanto sia datato, è il Codice Civile che stabilisce le regole di condominio. Ho chiesto una convocazione dell’assemblea perché ci hanno sostituito i contatori e al posto dei classici piombini ho trovato dei sigilli con dei codici a barre. Ebbene, i condomini mi hanno ignorato. Poco male, mi sono fatto giustizia da solo. Ma una delle cause di scontro condominiale, in genere più frequente, è il rumore, che può diventare molesto quando è ripetuto e costante. Ad esempio, il mio dirimpettaio, Isi Badmotorfinger, ascolta quella chiassosa musica infernale a volume alto, oppure la signorina Maria Pompadoro che urla e fa rumore camminando con quegli zoccoli nelle ore più insolite. Certo, non mi lamenterei mai con quella poverina. Come? Non conoscete la signorina Pompadoro? È quella che vive nell’appartamento sopra il mio. La chiamano Dirty Mary. Insomma, di notte, sento sempre una voce metallica, lei che parla al citofono, il suo passo pesante, la porta d’ingresso che si apre e, quasi subito dopo, il cigolio delle molle della rete del letto. Poi, inizia il supplizio. Inizia a lamentarsi. I gemiti diventano sempre più intensi per fermarsi di colpo. Dopo un poco ricomincia, voce metallica, passo pesante e così via. Questo succede ogni notte. So cosa state pensando. È straziante.
Sono Loro, gli alieni che la torturano. Fanno su di lei tutti quegli esperimenti. Pensate che l’altra volta l’ho incontrata sul pianerottolo e le ho chiesto il perché del rumore e me lo ha detto. Fidatevi, è l’unica persona onesta del palazzo. Mi ha riferito proprio queste testuali parole: «Mi dispiace ma loro mi fanno visita e io non riesco a resistergli». Capito? Quella povera ragazza rappresenta una testimonianza vivente di possessione aliena. E tutti gli altri condomini? Sanno e non parlano. Sono spietati, sentono le urla e alzano il volume della televisione. In definitiva, sono tutti d’accordo. Eh, ma le ho detto di resistere e di bruciare, come ho fatto io, tutti i codici a barre presenti in casa. Mi ha guardato interdetta. Povera Mary. Tutto ciò è pietoso. Scusate, non mi sono ancora presentato. Sono Robert Laing e nell’altro condominio facevo il medico. Adesso lavoro come assistente mortuario presso il cimitero del paese. Sono in aspettativa e vivo qui, confinato nel mio appartamento. L’altro ieri mi è arrivata una notifica da parte del deposito giudiziario. Hanno rimosso il mio Lupetto dal piazzale perché dovevano dipingere delle strisce pedonali. Tutte stupidaggini. Sì, amici. Questo è ciò che Loro vogliono farvi credere. Ma prendete l’ascensore e andate sulle vostre terrazze. Conoscerete la verità. Quelle strisce sono enormi barcode che trasmettono codici in continuazione. Ieri mi è arrivata una raccomandata. L’alieno che me l’ha consegnata era travestito da postino. Aveva in mano una pistola laser ma gliel’ho distrutta. Continuava a dirmi che doveva sparare il codice della busta quando ho tirato fuori la mia Smith & Wesson e gliel’ho puntata in faccia: «Dammi lentamente quella pistola» gli ho detto. Non ha fiatato. Mi ha dato l’infernale marchingegno. Si è accorto che sapevo. Ho scaraventato quel maledetto spara codici per terra e ho fatto fuoco su di esso facendolo in mille pezzi. L’alieno è scappato. È un volgare complotto. Pensate che la raccomandata parlava di un’ingiunzione del tribunale per manomissione delle apparecchiature della società elettrica. Il mio appartamento è l’ultimo presidio contro gli alieni. Ora, Loro sono dietro la mia porta travestiti da carabinieri. Sto per aprire. Stringo forte la mia sputa fuoco. Venderò cara la pelle.
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Zot! Presi una schicchera tra le giunture di lavatrice del coin-op. Ti spalmo la crema e Vamos a la playa eternamente nel juke-box. Cercavo lo Squalo Blu che non c’era mai, magnatevi un Piedone che è uguale. Ogni tanto un puttino avvoltolato in una bandiera, una minestra salata tra le dune peste. Lido La Perla: Asteroids e Space Invaders. Risorgimento: Gun Smoke. Aurora: Ghosts and Goblins e Dig Dug. Serapide: Trojan. Oriente: Wonder Boy. Di Double Dragon ancora nemmeno l’ombra. Ma sono entrato davvero in quel portone in pieno centro, con quel conoscente incontrato per caso due minuti prima? Dentro c’era qualche buca delle lettere e un muro sporco che, girato l’angolo, dava su un vecchio corridoio non intonacato. Abbiamo camminato per un bel pezzo tra i mattoni nudi, tenuti insieme in malo modo da una rasatura improvvisata, prima di incrociare gli ingressi di appartamenti dirimpettai. Il passaggio era così angusto che riuscivamo a malapena a procedere fianco a fianco, e la luce esterna sprofondava nella penombra man mano che avanzavamo in fondo al tunnel. Il corridoio si torceva su se stesso come una Girella, e da qualche altra parte del labirinto ci giungevano delle voci ovattate. Perché stavamo andando a casa del diavolo alle sei del pomeriggio? Cosa stavamo cercando, esattamente? Lui prima mi aveva detto che doveva vedere un amico, o forse lasciargli
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un’ambasciata di qualche tipo, ma il pavimento adesso era praticamente di terra battuta, e qualche lampadina volante aggrappata alle pareti come un’edera faceva luce sugli usci mancanti di alcuni stanzoni, da cui provenivano urla di bambini e odore di verdura cotta. Ogni tanto delle Anne Magnani in vestaglia s’affacciavano da quei pertugi rettangolari, e c’erano degli zingari seduti all’esterno, la schiena contro i muri del corridoio, che fumavano in silenzio e ci costringevano quasi a scavalcarli per procedere. Mi venne in mente che forse, molto plausibilmente, eravamo lì per comprare un pezzo di qualcosa. Poi il mio amico-conoscente si fermò davanti a una tenda da cui faceva capolino una donna in grembiule blu, corpulenta, sulla cinquantina, tutto sommato d’aspetto rassicurante. La salutò educatamente dandole del lei e le chiese dove fosse… e qui fece un nome che non ricordo, ma capii che questa signora in pratica era la madre della persona che stavamo cercando e che naturalmente era assente, o forse era assente sempre. Insomma ci congedammo e quindi uscimmo a riveder le stelle, senza che mi riuscisse di intercettare alcuno scambio di merci né messaggi. Non seguirono commenti, perché lui sembrava o pretendeva di essere perfettamente a suo agio e io tenni per me le mie confuse impressioni parlando d’altro. In piazza ci separammo. Ognuno di noi prese la sua birra e se la andò a bere per conto suo, com’era nell’ordine naturale delle cose. È successo più di dieci anni fa, e ancora non riesco a definire con chiarezza se è un frammento reale o un paradosso onirico. Non ho intenzione di chiedere all’altro di farci mente locale: dieci a uno che mi riderebbe in faccia, anche perché a quei tempi ero sotto spirito fino alla buzzonaglia.
PIRATERIA
SERIALE Se c’è una cosa che non sopporto è la storia. Lo so che la nostra vita si basa su quello che siamo stati e sulla storia del nostro paese ma mi pare così retorica e priva di sostanza. E poi, cambierebbe veramente qualcosa nella nostra esistenza anche se non fossimo consapevoli di cosa è successo nei tempi andati? Sì lo confesso, toglierei proprio la storia dalle materie scolastiche. Tanto non capiterà mai. Questa premessa era necessaria perché sapeste con quale diffidenza mi avvicino (sarebbe più corretto dire mi allontano) ai libri storici, ai film storici e quindi alle serie televisive storiche. È stata la curiosità verso la celebre famiglia dei Borgia – in Romagna se ne parla ancora, ogni rocca visitata, ogni pozzo dei rasoi visto all’interno delle antiche mura, è un pretesto per rievocarla – e verso di lei, la crudele Lucrezia, che mi ha fatto decidere. Inoltre, come resistere al fascino tenebroso di uno dei miei attori di culto, Jeremy Irons, specie se interpreta la parte di Papa Alessandro VI? Ci tengo
a precisare che le recenti vicende avvenute in Vaticano, da me seguite di riflesso e con scarso interesse, non hanno costituito una molla. Ma il papa Jeremy era da vedere. La dolce e velenosa Lucrezia pure. Così mi sono sparata la prima stagione di THE BORGIAS e ora sto vedendo la seconda. Grazie agli amicieroi di italiansubs.net la posso guardare sottotitolata, ed è un bene: un’amica che segue la serie sui canonici canali televisivi mi dice che la versione italiana è tagliata, e assai impietosamente. Prendetevi dunque il link gentilmente offerto ancora una volta da SERIETVSUBITA.ORG e godetene tutti. La serie è bella da vedere, crudele e sanguinaria, a tratti divertente, magistralmente diretta. I personaggi sono tutti credibili, gli attori tutti bravi, si tratta di un grande affresco corale che fa parteggiare per i terribili Borgia e fa venir voglia di guardare un’altra puntata, ancora e ancora. Alda Teodorani serietvsubita sito VERDE
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STORIE NERE BOUTIQUE DI CRONACHE CINELETTERARIE
federlca Lemme
GERMINAZIONE DI UN FAGIOLO: I CALCI DI OLGA ZBOROWSKI Nano Video, 2013, 12 € Nessun nome di persona. Solamente una donna e una ragazza in una storia da perdizione. Calci è un mediometraggio polacco della fine degli anni Settanta. Di recente restaurato, conduce sotto le luci della ribalta la dimenticata autrice Olga Zborowski. In una piscina vuota e tinta d’azzurro desolato, sgranato, la storia di un mattino e della sua luce fredda viene raccontata con una regia al femminile che ricorda Germanie Dulac in La conchiglia e l’ecclesiastico. In una non storia ambientata tra sporcizia chiara e riflessa d’argento ritornano gli ingranaggi del cinema come poesia. Immagini pure, integrali. Sul trampolino di lancio della piscina è posato un cubo di Rubik. Una donna dai lunghi capelli che soffiano nella nebbia incolore sale sul trampolino. Prende il cubo tra le mani. Inizia a giocarci. Una ragazza è immersa nella piscina vuota e beve con una cannuccia il sangue di un animale morto. Si sciacqua la bocca in una pozzanghera putrida all’interno della piscina. Chiude gli occhi. Si siede sul pavimento della piscina. Sgretola nella mano foglie secche. Le uccide. Muove la bocca. Canta ad occhi chiusi. Inquadrature strette sopra gli occhi della ragazza e della donna. Verso l’alto. Poi le mani. I piedi. Senza sequenzialità narrativa e temporale, tutto diviene asimmetrico. Nessun movimento è sincronico. Una cacofonia visiva. Le riprese sono sempre più sgranate. Sovraimpressioni ossessive. Frammenti e laconiche dissolvenze in cui appare la scritta: La realtà non è un sogno lucido. La ragazza che canta ad occhi chiusi sepolta sul fondo della piscina vuota viene colpita dal cubo lanciato con un calcio dalla donna sul trampolino. La ragazza che siede come cadavere sul fondo piscina si sveglia. Smette di cantare. Si rialza. Cammina. Passa accanto all’animale morto. Non lo vede. Non vede più il suo sangue. Non vuole più il suo sangue. Non esiste nessun animale morto. Il cubo di Rubik giace esanime. Non tutti i giochi si risolvono con incastri. Libera dalle catene della logica, la ragazza procede verso le scalette della piscina. E’ ora di andare... Via. Infatti, oggi, Olga Zborowski non risiede più nelle sue terre d’origine, ma vive e lavora a Roma, dove collabora con giovani cineasti sperimentali. Presto si potrà ammirare sugli schermi un videoclip indipendente che vanta la regia di questa eclettica regista sempre di nero vestita. Anche ad un’età che è impedito svelare, questa signora resta una delle più grandi esponenti della trasgressione femminista di matrice anarco-surrealista.
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BLITZRECENZION
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S. H. Palmer
BLITZRECENZION
Una vita violenta
A volte l’unico modo sembra essere tradire la propria natura. Spesso l’unica via è rituffarsi implodendo all’interno del proprio cuore. Leccarsi i lividi, pulirsi le ferite... con un ghigno soddisfatto, sempre.
(shanduziopalmer.tumblr.com)
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storie nere
STORIE NERE Luca Carelli
Ogni volta che sento parlare di Perugia mi viene da morire. Poi ricordo che morta lo sono già, e allora vomito. Perugia la torbida, Perugia misteriosa, Perugia la tossica, Perugia l’ignota: c’è qualcuno che conosce davvero questa città? Prendi ad esempio una storia a caso, quella dell’americana, del barese e dell’inglese: pensi subito a una barzelletta alla Pingitore più che a una saga alla Strade Perdute, a meno che non ci sia di mezzo la televisione. Il tempo di realizzarlo, magari non te lo aspettavi, ed è in quel preciso momento che resti deluso. Non ho mai capito, neanche da quaggiù, quali sono i criteri che rendono mediatica una sparizione. Mentre mia sorella, come in un film di Salvatores, si trasferiva da Roma a Perugia per scoprire la verità – io, per carità, non lo avrei mai fatto: se una città è pericolosa, nessuno è al riparo dalle sue ombre – la mia storia affondava nell’oscurità residuale di una scheda on-line mai aggiornata sul sito della principale trasmissione saprofaga della televisione italiana. Sono passati i giorni, i mesi e poi gli anni, fino a quando la saga per eccellenza della perdizione perugina è esplosa, colonizzando un immaginario che non vuole essere informato, ma deve essere intrattenuto. Quale sarebbe, d’altronde, il grado di informazione da veicolare attorno a una vicenda come la mia? Come svanire completamente è un esercizio che gioca il suo fascino perché è un tema condiviso e universale: blandire rabbia e fallimenti con la pretesa di pace e verità è una strategia vincente perché non verificabile e di conseguenza incontestabile. La terra degli scomparsi la chiamano in tivvù,
con quell’accezione di carità prostrata nei confronti di chi resta, non di chi se n’è andato. Che poi andarsene, altra bella parola: a me, ad esempio, mi ci hanno portata. Così mi sembra almeno, perché quaggiù, tra le altre cose, la memoria svanisce e il ricordo torna sulla stiva di un presente che non è un divenire ma è un frammento congelato. In eterno, penserà qualcuno sbagliando, supponendo uno schema – dal vago richiamo cartesiano – di mobilità matematicolineare che non è, non è mai stato e mai sarà fondato. Gli ultimi istanti sono sempre i primi, intesi come secondi, quelli che conto in ogni momento e per ogni azione di coscienza. Perugia segreta, Perugia tenebrosa: ma chi la conosce davvero questa città? C’è qualcuno che ha mai abitato sul serio tra le sue strade? Io sono scomparsa una sera di novembre del 2006. Mi sono volatilizzata nella mia camera. Sono venuti a cercarmi la mattina dopo e la porta era chiusa a chiave: dentro non c’era nessuno e le stanze erano piene di gas. Dov’ero e perché non c’ero non l’hanno mai scoperto e io di certo sarò l’ultima a saperlo. All’epoca Perugia era solo un po’ strana: un anno dopo sarebbe diventata la torbida Gomorra dell’eroina – mille dosi spacciate ogni giorno – e della gente svanita (io non so come leggere e valutare certi dati, ve li passo così come me li hanno riferiti: a partire dal 1974 – l’anno della storica promozione in A – da questa città sono scomparse, all’improvviso, milleduecento persone; di 130 di loro, me compresa, non si hanno più notizie. Le altre
sonia
VERDE
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Nico Piancastelli - https://it-it.facebook.com/nicopiancastelli
sono morte, o ci hanno ripensato e sono tornate indietro per poi morire, presto o tardi, giorni, mesi o anni dopo). Ho avuto tante storie, ma non mi sono mai innamorata; c’era sempre qualcuno nei miei pensieri, ma non mi sono mai sentita parte di un Noi condiviso da sognare la notte. Forse, prima di scomparire, sono stata violentata nella segreteria della Scuola di Teologia dove lavoravo e probabilmente ero incinta, prima di consumarmi al buio di una fredda luna calante di metà novembre, a causa di un fardello che era un’incombenza per la parte di quel Noi intorpidito. La verità è che non mi sono mai sentita bella e ho sempre odiato questa città che anche ora, sopra la mia testa, mi perseguita come uno di quei ricordi inemendabili che solo il dottor Mierzwiak potrebbe lenire. Eppure, a ben vedere, questo non è un ricordo, ma solo il peso del mondo, che divido con i miei sodali svaniti, perugini e non, mentre passeggio nelle viscere sotterrane di questa splendida città segreta. Si chiama Rocca Paolina, e dicono che un giorno, secoli fa, è sparita in profondità. Proprio come noi.
Sonia Marra, 25 anni, studentessa pugliese di medicina, scompare il 16 novembre 2006 dalla sua abitazione di Perugia. Quella sera, verso le 20, riceve la visita di un misterioso “uomo in nero”, che qualche ora dopo esce dall’appartamento senza di lei. La mattina dopo la casa, chiusa dall’interno, è satura di gas e di Sonia non ci sono tracce. Da quel giorno non si hanno più notizie della ragazza, che al momento della scomparsa era probabilmente incinta del suo compagno di allora, l’uomo in nero oggi a processo per omicidio volontario e soppressione di cadavere. Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito. È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. Notizie di Sonia Marra da Umbria24 Scheda di Chi l’ha visto?
Ogni tanto devo tornare a casa per rinnovare il mio sense of horror.