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protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze - mensile gratuito numero 1 anno I giugno 2012

Deny Everything Distro 2.0 Sergio Gilles Lacavalla Fabrizio Manuguerra Stefano Di Marino Simone Ghelli

S. H. Palmer Luca Carelli Alda Teodorani Francesco Tentori

verde


editoriale

«Finalmente una bella rivista color verde vomito!», ci ha scritto via mail un nostro amico, un complimento che a noi di VERDE ha fatto molto piacere. Il vomito è un’arma per la sopravvivenza che ci protegge dalle intossicazioni eliminando i veleni. Il rigetto, il vomito associato all’ebbrezza e al rifiuto è una delle chiavi della nostra idea di contenuto. Come la copertina del numero 1, un braccio insanguinato e ridotto all’osso che stringe un libro e la mano scarnificata che indica la testata: il simbolo della trasmissione tra quel che leggiamo e ciò che scriviamo. A oggi, il numero zero di VERDE, dopo trenta giorni on-line, ha totalizzato più di mille visualizzazioni e tanti sono stati i riscontri positivi che in questo primo mese abbiamo ricevuto. Anche per questo, riproponiamo il mini-cd del numero pilota (già distribuito il mese scorso a Roma) abbinato ad alcune copie del numero 1 di giugno in versione cartacea, il nostro battesimo della stampa impreziosito dalla presenza di alcuni autori di prestigio che hanno creduto a questo progetto. Protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze: non è che un inizio… LEGGETE,CONDIVIDETE,SCARICATE,DIFFONDETE!

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p.2 Editoriale p.3 TI ODIO POESIA #2: Il tenero del verde (Francesco Tentori) p.4 Spaccaginocchia (Stefano Di Marino) p. 5 La signora delle torture (Alda Teodorani) p.6 Le ritorsioni. Un lontano volo (Simone Ghelli) p.8 Escuadron de la muerte (Sergio Gilles Lacavalla) p.10 Apocalyptical Marshmellow Crunchers – Cap. V (S.H. Palmer) p.12 IN-DISTRO #2 (Deny Everything Distro 2.0) p.13 BLITZRECENZION #8: Bigmouth colpisce ancora (S.H. Palmer) p.14 STORIE NERE #2: Ida (Luca Carelli) Immagine di copertina: G. Bidloo Colorazione elettronica: Elena Bortolini

indizi

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ci sono momenti per recitare poesie e momenti per fare a pugni

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for ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY

VERDE è un mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze a cura di Pierluca D’Antuono. Contiene poesie, racconti brevi, racconti lunghi, rubriche, musica, illustrazioni, fotografie e grafica. Ogni mese on-line (issuu.com/verderivista) e cartaceo a Roma. Progetto grafico e impaginazione di Elena Bortolini. Per info distribuzione e invio materiale: verderivista@gmail.com (lunghezza e formato da concordare) issuu.com/verderivista www.facebook.com/verderivista twitter.com/verderivista


TI ODIO POESIA

Il tenero del verde

Francesco Tentori

Il tenero del verde che in ondate costanti si rinnova alle sponde del treno, la presenza, oltre i colli, d’altre vette invisibili ancora, quest’aria che il crepuscolo già incrina, dicono all’anima: se tu ritorni noi riappariamo; la vita ha la forma che le presta la vostra fedeltà, riassume in un istante le sembianze note, se il cuore appena le rianima. Così tra sguardo e memoria un dialogo incessante s’intesse, s’infittisce e le parvenze non sono che i pegni d’un vivere più fondo: nulla è reale, se non il succedersi degli addii, dei richiami, dei ritorni.

Di ascendenza veneta, Francesco Tentori è nato nel 1924 a Roma, dove ebbe inizio la sua formazione, che tuttavia trovò a Firenze, negli anni 50, il terreno congeniale per la maturazione. Dedicatosi, fin dalla tesi di laurea, alla letteratura spagnola e ispanoamericana, ha soggiornato per lunghi periodi in Spagna, Nuovo Messico, Messico e Nicaragua. Poeta cui non sono mancati l’attenzione critica e i riconoscimenti, Tentori ha operato in oltre trent’anni di intensa attività di traduttore, un vero e proprio confronto col meglio della lirica spagnola (Machado, Jimenez, Cernuda, Aleixandre) e ispanoamericana (Borges, Diego, Friol, Quadra) del Novecento. A quest’ultima ha dedicato tre antologie (Guanda, ERI, Bompiani). Tra coloro che si sono interessati alla sua poesia si rammentano in particolare Mario Luzi, Giorgio Caproni, Oreste Macrì, Silvio Ramat. E’ scomparso improvvisamente a Roma, nel 1995. VERDE 3


paccaginocchia

Spaccaginocchia

© Stefano Di Marino

Mi chiamano Spaccaginocchia. Non ne vado fiero. Per uno che sognava il titolo mondiale il recupero crediti non è esattamente un onore. Ma la Boxe è uno sport duro e oggi le occasioni sono poche. Soprattutto se uno ha troppa passione e poco talento. I pugni più dolorosi sono quelli che ti dà la vita e spezzare le gambe a un vecchietto con un mazzuolo perché è in ritardo con i pagamenti fa male davvero. Ma devo vivere anche io e prima o poi, se l’impresario è contento, un incontro buono me lo trova. E allora... ma sino a quel momento giù botte a chi non paga. Una notte dopo l’altra. Per il lavoro di oggi mi hanno dato un compagno. Tommaso, Tommy nel “giro”. Grande e grosso, poca tecnica e tanta cattiveria. Vive in un monolocale di Bruzzano con il sacco appeso al soffitto. Quando finisce la palestra o il “lavoro” spara tutto orgoglioso: «Adesso vado dalla mia donna e ci dico: inginocchiati e prega.» Lo fa sempre ridere quella frase. La sua vita è così e siccome a pestare i creditori morosi è più bravo e più freddo di me, è lui il capo. Non è un lavoro facile. Un tizio ha fatto fortuna e s’è messo in testa di non pagare. Gira con il SUV blindato e il Bodyguard. Sta in un palazzone di corso Venezia. Cancello elettronico con fotocellula. Sta lì il trucco. Lo dobbiamo beccare mentre si sente sicuro e uscire prima che si blocchi il cancello. Neanche li dobbiamo chiedere i soldi, dice Tommy. Una lezione esemplare. Ha già un piano. Lui che è la mente del colpo. Il SUV sguscia attraverso il cancello elettrificato. Noi gli siamo dietro, di corsa

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dal nostro punto di appostamento, cattivi e pieni di rabbia. Chewing Gum sulla fotocellula. È un’ora che mastichiamo, l’impasto dovrebbe tenere. Eccolo lì il dottore che esce. Si volta e ci guarda per niente spaventato. Ci aspettava. Di pagare proprio non ha intenzione. Vuole mandarlo lui il messaggio. Lui e i suoi scagnozzi con i bastoni telescopici in fibra di carbonio. Tommy si becca una pioggia di fendenti e da duro che è rotola a terra gemente. Meglio telare, altro che piano. Giusto. La “cicca” non ha tenuto. Il cancello si chiude

con uno schianto. Tra me e la salvezza c’è un muro di tre metri, edera e metallo. Nessuno d’accorgerà di niente. Neanche una riga in cronaca ma nell’ambiente si saprà. Sono solo e loro in tre coi bastoni. Questa volta le ginocchia le spaccano a me... Stefano Di Marino, 1961, vive e lavora a Milano. Narratore, traduttore, consulente editoriale, appassionato di cinema e letteratura di genere. Ha pubblicato più di 70 romanzi e da 17 anni firma con lo pseudonimo Stephen Gunn la serie di spionaggio più venduta in Italia: Il Professionista. Foto: Hard Boiled di John Woo (1992)


La signora delle torture

Alda Teodorani

Ti ho visto per la prima volta sul palcoscenico di quel teatro in periferia e ho subito pensato che la tua nudità doveva per forza nascondere qualcosa. Non ho proprio pensato a quali fossero i meccanismi che ci avrebbero legati, quali sofferenze e quanto amore ci avrebbero uniti. Ho visto solo il tuo corpo nudo e i suoi segreti nascosti sotto la tua bella pelle lucente, levigata. Ho desiderato aprirla, trovare quei segreti e divorarli, in modo da farti mio. Non mi sono chiesta nemmeno quale istinto avrebbe guidato la mia mano e dopo lo spettacolo sono venuta da te. Ti sei lasciato portare via come fossi consapevole del nostro destino. La verità, ora lo so, è che sei un inguaribile sentimentale sempre pronto a innamorarsi: pure se l’amore dovesse voler dire morte. In fin dei conti sono due parole tanto simili, molto più in italiano che in molte altre lingue, compreso il greco. Ti ho frustato a lungo in quell’hotel vicino alla stazione, dove ti eri fatto condurre con il batticuore, l’ansia di sapere che cosa sarebbe successo tra di noi perché non eri affatto sicuro che mi avresti posseduta. Mentre io sapevo benissimo che non l’avremmo fatto. Ti ho lasciato così, pieno di lividi, da solo in un letto freddo. Non ti ho più cercato. Sapevo che lo avresti fatto tu. Il cazzo ti pulsava di desiderio, la volta dopo. Eravamo nello stesso albergo vicino alla stazione e come al solito non ci avevano nemmeno chiesto i documenti. T’ho detto di sdraiarti e mi sono seduta a osservare il tuo corpo. I segni delle frustate si distinguevano ancora sulla tua pelle che riluceva nella penombra della camera. Il cazzo era ancora eretto come prima, quando ti avevo spogliato, facendoti rabbrividire al tocco delle mie mani ghiacciate. Mi sono tolta lentamente la gonna, con te che mi guardavi. E in un attimo ti è comparsa sul volto quell’espressione da bambino, il desiderio profondo e l’incertezza della soddisfazione. In calze e reggiseno, con gli stivali dal tacco a punta ancora ai piedi, mi sono avvicinata al letto e mi sono messa a cavalcioni su di te, poi seduta sulla

tua pancia ho lasciato che il mio sesso godesse di quel contatto. Hai socchiuso gli occhi sopraffatto dall’emozione e hai fatto esattamente quel che volevo: non ti sei mosso. Sono stata io, invece, a scivolare su di te. Poi, sicura che altrimenti avresti urlato, mi sono alzata ma solo per un attimo, per prendere la tua sciarpa di seta nera che avevo gettato a terra prima, mentre ti spogliavo. Hai lasciato fare, hai lasciato che ti imbavagliassi. Non ti ho legato, sapevo che era inutile. Ho cercato una a una le tue ferite, le ho leccate, prima solo con la punta della lingua, e poi, rincorrendone il percorso, ho iniziato a leccarle sempre più voracemente. L’amore è anche sofferenza, voglio che tu lo sappia. Tu, che hai sempre temuto di soffrire e hai nascosto la tua paura nel tuo esibizionismo da palcoscenico. Nudo di fronte al tuo pubblico dicevi: non mi ferire, vedi come sono indifeso? Ora hai trovato chi ti farà vivere, e vivere veramente. Ho cominciato a morderti. I segni delle frustate sono stati cancellati dal sangue che scorreva limpido a lavare la tua pelle. Te l’ho strappata a brandelli, t’ho mangiato. Ti ho preso in me con la tua sofferenza, mentre mugolavi di piacere. O di orrore. Ma il tuo cazzo restava così, proteso, aspettando il mio sesso. E non avevi fatto un movimento, nemmeno il minimo cenno, per toccarmi. Quando mi sono fermata avevi gli occhi velati di lacrime. Ma quando ti ho tolto la sciarpa dalla bocca mi hai sorriso. Mi sono rivestita e ti ho lasciato là, nel tuo letto di sangue. Sicura che non mi avresti più cercata. Sono tornata a teatro due sere dopo. Tu eri là, nudo, sul palcoscenico, con il segno del mio amore addosso. Esibivi la tua pelle martoriata. Sono rimasta in fondo alla sala a osservarti, e in quel momento ho capito che mi avresti chiamata ancora. Questa volta non nascondevi più nulla e c’era una nuova forza nella tua recitazione, una nuova consapevolezza. Il nostro amore non finirà mai.

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le ritorsioni. un lontano vol

Le ritorsioni. Un lontano volo

Simone Ghelli

Non successe tutto d’un tratto, ma fu come. I mesi che erano passati lenti, disseminati di discussioni, di piccole ritorsioni e d’inganni: dov’erano finite tutte quelle settimane spremute dall’attesa di un cambiamento? I corpi e i discorsi erano ancora adagiati tra la notte e il giorno, quando lui si girò tra le lenzuola calde; e fu una rotazione lenta, che sembrò non finire mai, e che la sua bocca masticò in un attimo: «Oggi prendo le mie cose e vado da Umberto.» Finalmente eccoli qua, pensò, tutti quei giorni punteggiati d’interrogativi: e la risposta era una sola, non poteva che esser quella. Enora combatté tra il sentimento di liberazione e il senso di sconfitta, e contò le ferite come gocce che ticchettavano sul tetto, in quel primo mattino che era una notte di nuvole; ma il tempo non le fu sufficiente: Jacopo aveva già drizzato la schiena, senza porre un attimo tra due pensieri, e la sua ombra dominava il buio Simone Ghelli è scrittore e critico cinematografico. Nel dicembre del 2008 ha dato vita, insieme ad altri scrittori, al collettivo “Scrittori precari”. A settembre 2012 uscirà il suo terzo romanzo, per l’editore Caratteri Mobili.

Foto: Elsker dig for evigt di Susanne Bier (2002)

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nella posizione eretta, a sedere su quel materasso che da tempo non ospitava più gli amplessi. Da seduto la sua voce prese un che di definitivo, che era traccia di un passato già certificato: «Hai ragione tu,» le disse, «non continuiamo a prenderci in giro.» I minuti seguenti, Enora li passò nel tentativo insensato di una sintesi: balbettò frasi ed eseguì capriole concettuali sperando di trasfigurare la realtà, dalla quale per istinto era portata a fuggire. «Non dici più niente?» le chiese. Un piccione – il solito – volò sbattendo contro la tettoia non appena Jacopo aprì le imposte. Rimasero delle piume a galleggiare nell’aria fredda, bianche contro il cielo ancora scuro, mentre di lontano si sentiva avanzare il camion dei rifiuti, che sbatteva cassonetti sull’asfalto. Enora gli prese una mano, da dietro: «No che non ho ragione.» Dal tetto di fronte – da un’ombra appollaiata su un’antenna – si alzò un grido primordiale che non trovò risposta.


Se tutto questo fosse una petroliera Fabrizio Manuguerra Se tutto questo fosse una petroliera, allora il preservare del mio amore e del tempo, per cambiare gli orologi dal fraseggio circoscritto dai battiti dell’articolo 18, servirebbe a tracciare prospettive di insicurezza dai cantieri navali di queste nostre paure per il binomio borotalco-plastica facciale. Le emissioni delle sfaccettature finanziarie si propagano per le circonvallazioni brulicanti di fiere e congressi, sui parametri arricchiti all’occhio del magnate, iniziando a diramare singulti perentori sugli apoftegmi delle speranze dilaniate, fra le persecuzioni degli avvenimenti e degli antibiotici somministrati con cautela da zelanti lanciatori di fresbee. I movimenti autoctoni delle sorprese parodistiche possono fungere da maquillage rigenerante per la scarsa inventiva dello smaltimento degli agrumi e dei tir in sosta per la richiesta di rimozione forzata. Se il calcolo della cilindrata della nostra anima potesse esser scaricato sui contributi, allora i dipendenti delle industrie di collaudo, privilegiati da tanta concessione, potrebbero possedere legittimamente la proprietà e la cognizione di prevedere il divincolarsi delle arterie cementificate, al fine di impedire la restaurazione della corruzione fra le retroguardie economiche e non. Lo scarico merci dell’ ipersidis esalta il prezzo della benzina, che gravita attorno al nostro disfare incessante sull’epidermide di un dirigibile, sovraccaricato dalle caramelle haribo e di un’intera squadra di giocatori di sudoku.Quando Berlino desiderà affittare una papera di gomma per non farci annaspare nelle acque marce della spiaggia di Capoportiere, solo allora ci avvieremmo ad innalzare i nostri bunker abusivi ed aprirli con cadenza al bussare dei timori e

dei bambini europei. Decidemmo d’abbandonare la filigrana degli amori interinali, sdraiandoci sugli atolli parlamentari che restituirono con lenta e parsimoniosa negligenza i pannelli solari, invadendo i nostri ascensori, promettendoci che i coccodrilli fiscali verrano a reclamare la loro pregiata fobia dichiarata. Nonostante il repentino cambio di rotta, promuoviamo ancora di aiutare quelle miserie danzanti di fronte al nostro egoismo, destinando il nostro impegno di qualsivoglia natura ad ampliare i parcheggi a pagamento delle aree di servizio, sperdute su un satellite svedese. Cosa poteva volere un coccodrillo dai nostri resoconti bancari? Chi poteva distinguere gli immobili e le aringhe cloridriche da quelle procedure orgiastiche, fra lo scartabellare delle pagine bianche e l’ultimo libro di Pupo? Partendo dal presupposto che la petroliera è in fase di attrazione scatologica, deponiamo la verità di celluloide, fotografando gli ombrelloni degli stabilimenti balneari ancora chiusi, aspettando la nuova stagione per la diminuzione nociva del nostro metanodotto faringeo. Tutto quello che potevamo pretendere era la foto di un capodoglio incravattato, incastrato dal New York Times e da Vanity Fair, mentre stringeva accordi, quantificando raccordi, con un petroliere nostrano, tirati a lucido per il Tour de France. Fabrizio Manuguerra, classe 1989, vive e lavora fra Venere-non-più-feconda-ma-fetida, Capoportiere e Bordeaux. Fin dalla tenera età appassionato di crema Nivea e ingegneria ambientale, laureandosi a pieni voti all’Accademia della Crusca. Gioca nella nazionale professionista di cricket tunisina, per via del doppio passaporto.

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Escuadron de la muerte Sergio Gilles Lacavalla

Era stato uno scontro duro. Iniziato con un agguato all’ingresso del sobborgo e proseguito nei vicoli. Tre morti e alcuni feriti nel loro squadrone. Quante fossero le vittime nemiche non lo sapevano. Appena uno cadeva, gli altri lo portavano via facendolo sparire nelle stradine. Poi scomparvero tutti com’erano arrivati. Ogni volta era così. Al punto che alla fine si chiedevano se non avessero combattuto con dei fantasmi. L’unica prova erano le ferite. Soprattutto quelle mortali. Loro due però non si erano fatti niente: soltanto qualche graffio sui corpi del capitano Philippe Mathieu e del tenente Louise Arditi per il rimbalzo di alcuni proiettili o lo strusciare sui muri delle baracche coperti dai vetri per proteggere la zona o per non sapevano cosa. Però erano sporchi della sabbia che soffiava continua dal deserto – forse l’aria era fatta di quella sabbia – e della polvere appiccicosa del suburbio, sudicio per la miseria che lo affliggeva quanto le truppe d’occupazione. Nello spogliatoio della caserma – in realtà il comando non era che un vecchio edificio un tempo residenza di una qualche nobile famiglia di coloni ridotto oggi a una palazzina fatiscente – nella grande sala all’epoca adibita a palestra con sauna VERDE

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e docce, Philippe si è tolto la mimetica e ora è nudo davanti a lei. Come lei spogliato dell’uniforme, della paura e del coraggio, dell’odio e dell’istinto di sopravvivenza. Dinanzi a Louise con un diverso grado ma la stessa pelle rivelata nel sudore e nei brividi del sentirsi nudi l’uno di fronte all’altra. Louise lascia andare anche il basco col teschio sulla panca vicino a quello di lui, si tira indietro i capelli fradici, fissando il pavimento illuminato dai neon (dei lampadari in stile liberty erano rimasti solo i buchi sul soffitto scrostato) e lo sporco tra le dita dei suoi piedi. Una striscia di sangue diluito a sudore le riga un seno finendo sul capezzolo turgido. Lui ha un graffio sull’addome, ma non sanguina più, essiccato dalla sabbia. Louise alza lo sguardo e gli si avvicina. Vorrebbe toccare quel corpo da soldato costruito per battersi, i suoi muscoli tesi dopo la battaglia. Fa per sfiorarlo con la mano – le unghie sotto nere. Il petto, l’addome, il sesso, duri e velati di terra straniera, vorrebbe toccarli. Avvertendo che lui donerebbe la sua vita per quella carezza. Non vuole morire in un agguato o in un’azione di polizia, ma


per la carezza di lei morirebbe di certo. Louise ne è convinta e desidera tanto accarezzarlo, non si erano mai toccati, sentendo tutto quello che lui prova nei suoi confronti sulla pelle. Tutto quello che prova lei. Allora la pelle sarebbe pulita dalla guerra. Placata in una pace ormai impossibile. Philippe la guarda negli occhi, poi abbassa lo sguardo sul suo piccolo seno col sudore che le traccia l’epidermide, la pancia accenna i muscoli addominali, più scuri di polvere grigio-rossa tra le pieghe, anche le gambe sono scurite dall’aria della regione e dal sole che le colpisce quando indossa i calzoncini corti, i peli del pube, invece, sono puliti, anche se attaccati dal sudore per il caldo e la paura e un po’ di pipì non trattenuta quando ha sparato a un guerrigliero che stava per pugnalarla spuntato all’improvviso da un portone con la puzza di cadaveri e sangue. Lo sguardo sui suoi piedi sporchi degli anfibi e del combattimento. Il sesso di Philippe è eretto. Durissimo e curvo leggermente verso sinistra. Colmo di vitalità, malgrado tutta quella morte. E solo: in attesa perenne e insoddisfatta. Il suo sguardo buio si confonde con quello chiaro di lei. Louise avvicina di più la mano a quel corpo in attesa, indecisa, poi, d’un tratto, la lascia andare giù sfinita e arresa – come mai lo sarebbe stata impugnando una pistola o un coltello nell’esercizio dei suoi compiti – senza neanche sfiorarlo. Lui la guarda deluso (eppure se l’aspettava). Perso come lei non l’aveva mai visto, neanche nello scontro più cruento e privo di apparente via d’uscita, neanche davanti agli ordini insensati e suicidi dei superiori. Lui prende la rivoltella lasciata sulla panca sopra il suo corpetto per porgergliela. Lei l’afferra, lui le alza la mano rivolgendosi l’arma sulle labbra e apre la bocca, ma lei fa no con gli occhi che si stanno riempiendo di lacrime e scuote la testa. Lui le abbassa il revolver sul suo petto: lì dove c’è protetto il cuore che nessun corpetto antiproiettile potrebbe riparare – ormai. Louise volta il viso e piange, un pianto irrefrenabile, a singhiozzi, che le riga il volto rivelandone

la pelle pura, un pianto come non le era ancora capitato in tutta la missione – ormai protratta da due anni, forse tre, o cinque, il tempo aveva perso ogni oggettività – mentre butta con la rabbia che le rimane la pistola sul muro scheggiandone l’intonaco già spaccato qua e là. Colpisce la parete col pugno ferendosi la mano che comincia a sanguinare copiosa. Invece di toccare dolcemente Philippe: adesso non più capitano degli squadroni della morte in quella disperata nudità. Lo specchio riflette i loro corpi nudi e bellissimi. E così incapaci di comunicare. Così lontani e soli in quel riverbero dolce e malinconico. Il cazzo eretto di Philippe ha una piccolissima goccia sulla punta del glande. Il sesso di Louise sta gocciando tra le labbra, su una coscia e il pavimento. Le sue lacrime si mischiano alla pioggia che ritorna in un ricordo mai vissuto insieme nella loro città di provenienza, nell’Europa con le strade lucide e la vegetazione dei parchi imperlata, la pioggia che li bagna sotto la doccia che non riesce a essere fresca dopo la battaglia e lava i loro orgasmi mai avvenuti. Bagna quel corpo in attesa come il suo sesso rigido. Un’attesa che sembra non avere fine e spezza il respiro. Li distrugge dentro peggio di ogni guerra rendendoli lontani e senza speranza. Il mio cuore sta annaspando, cantano i Goo Goo Dolls mandati da una radio del distretto. Philippe piange masturbandosi sotto l’acqua che lo sferza dall’alto, mischiando il suo sperma alle gocce. Curva la schiena in avanti, quasi a nascondersi in quell’azione. Intanto che Louise si lascia andare debolmente sulla panca e continua a guardarlo portando la mano ferita sul proprio pube bagnato di pioggia e di quella carezza distrutta. Sergio Gilles Lacavalla. Scrittore, giornalista, drammaturgo e regista. Il suo ultimo dramma è †De Par le Roi du Ciel†; il suo ultimo libro, Rockriminal Murder Ballads Storie di Rock Balordo e Maledetto. https://www.facebook.com/sergio.gilles.lacavalla Foto: Damage, di Louis Malle, 1992

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pocalyptical marshmellow crunchers

Capitolo V *Clocwork Cocoon*

S.H. Palmer

RIASSUNTO DELLE PUNTATE PRECEDENTI L’ultima guerra contro il nulla ha distrutto il mondo, i desideri e la memoria di ogni cosa: gli unici sopravvissuti sono i Randagi del Macello, bambini mangiatori di libri antichi, detentori della saggezza storica predestinati alla rieducazione futura del popolo, e un gruppo di masticatori di tabacco inumidito di benzina, che coadiuvano la realizzazione del “progetto”: la ricostruzione del passato dimenticato, una grande opera di recupero della memoria della civiltà (o della barbarie) perduta.

Da cosa ci si accorgesse che le stagioni cambiavano ancora non saprei dirlo, eppure qualcuno o qualcosa decise ad un certo punto della nostra storia personale di indire un concorso per la più bella rappresentazione della primavera. I randagi del Macello sembrano degli enormi punti interrogativi e ciò è tanto tenero quanto malinconico. Di primavere anagrafiche ne hanno poche per ricordare le primavere meteorologiche che mai hanno conosciuto né annusato. È una sfida stupefacente. Mi torna in mente il periodo di Arles (dovrei avere dei ritagli da qualche parte): voglio mostrare loro un fiore di mandorlo, perché possano focalizzare l’attenzione su quel che c’era nel mondo e su quel che era il mondo. Un modo per seminare in loro il germe di un’idea svanita. Gli scavi proseguono ogni giorno. In questa atmosfera vagamente bipolare ci riuniamo ogni notte (Q**, S**, H**, la signora P** e io), seduti in cerchio sotto l’occhio spalancato di Nummù, supervisore truculento, per proposte e lamentele. Ognuno di noi avrebbe utilizzato al meglio qualità sopite ed impolverate da decenni per riportare a galla sensazioni perdute dal fondo dei cassetti più arrugginiti e profondi della propria coordinazione occhio-mano-cervello-cuore, da regalare poi a M** e a tutti gli altri compagni e compagne di stanza, di viaggio, di sventura e di vita. Per loro ho deciso di costruire un grande fiore pallido con i brandelli di una sottana: butto all’aria tutti i nostri stracci per trovare la maledetta sottoveste e rovistando con la coda del cervello cerco le stampe dei mandorli di Arles. Il risultato dell’estremo progetto (o il risultato estremo del progetto) consisterà in un giardino pieno dei simboli che tanto abbiamo amato nel corso delle nostre vite. Il tutto sarà condito da versi composti per l’occasione dal caro H** e recitati dalla scioglievole S**. Q**, intriso di studi classici, ha tirannizzato l’amato catorcio per trasformarlo in un gigantesco fondale dall’aspetto che ricorda, a chi può averne mai percepito la presenza nel mondo, quelli di Botticelli. In questo momento ho enormi aspettative che sicuramente verranno tradite. Con abiti rosa pallidi, gerarchizzo le priorità della scena, e mi sento totalmente preraffaellita. S** sarà bellissima in mezzo a questi cenci metaforici. Un tripudio di morbidezza che ricorda orribili spot pubblicitari di cui, per fortuna, abbiamo poca memoria. Miriadi di rondini invadono la scena, ritagliate da vecchie giarrettiere e reggicalze comprati a prezzi stracciati da una povera starlette in rovina, finita a esercitare la sua professione di reginetta del burlesque davanti a quello che un tempo era un palazzo dell’amministrazione comunale. A dire la verità la carriera della sventurata non decollò mai, ma la Guerra le permise di avere una scusa con se stessa per il mancato riconoscimento del suo presunto talento. È insomma una di quelli ai quali non avere niente oggi ha dato l’illusione e la speranza di poter essere qualcosa di reale e perfetto in un universo di cui non sapremo mai nulla; e VERDE

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la cosa triste e divertente insieme è che l’incertezza di questo presunto fallimento viene letta come il segno di un successo definitivo, lugubre, nostalgico e vigliacco. H** imita Y** alla perfezione. E pur essendo un uomo è molto più aggraziato e raffinato di lei. Anche se a dire il vero la sua imitazione mi rende sempre un po’ triste, benché rida a crepapelle. Continuo a ricamare e ricambiare e sferruzzare incupita. Nummù se ne accorge e richiama Q** con un guaito silente, mentre volto e rivolto su loro stessi brandelli di seta e rose di Francia da incastonare nelle coroncine per le piccole orchidee selvagge del Macello. «Vuoi una mano con quelle ciambelle?», mi prende in giro Q**. (Sono fiori stupendi, lo sa anche lui). «Lo so, lo vedo. È più bello pensare che siano ciambelle però; non credi?» Lo credo anch’io e come sempre Q** mi conquista strappandomi un sorriso stupefacente, l’ennesimo da quando ho memoria di lui. Sono costretta ad ammetterlo. Il dolce ammasso di ferraglia amico era commovente. Non me ne ero accorta fino a quel momento, ma solo perché non avevo ancora alzato lo sguardo verso gli altri, concentrata ed accoccolata sui preziosi tesori del giardino non troppo segreto. Solo lui avrebbe potuto realizzare quel lavoro straordinario. Dove aveva trovato oggetti di quei colori delicati, fogliame senza spine insetti mortali? Ovviamente non mi interessa chiederglielo, non interessa a nessuno di noi. Sappiamo bene che Q** ci stupirà ancora perché la sorpresa di oggi possa ergersi a fatto speciale nelle nostre vite. Eppure sentiamo quanto quella di oggi sia davvero unica. Per la prima volta dopo tanto tempo ha affondato nella memoria e nel suo sterno le dita, per attingere a piene mani da se stesso. E ci è riuscito egregiamente, come solo lui sa fare. Il giorno dopo eccoci lì pronti per la parata. Nessuno può immaginare lo squallore nei nostri occhi quando realizziamo che gli sforzi sono stati, per il resto del mondo rattrappito, completamente inutili. I Randagi non sono stati invitati, pur essendo gli unici a meritarlo. Non solo: è stato esplicitamente proibito loro di avvicinarsi ai festeggiamenti. Nummù non guaisce più, palesemente irritato. Ci scambiamo rapidi sguardi d’intesa.Tutti e cinque, sbattuti i tacchi tre volte, saltiamo sul catorcio in festa e raggiungiamo la dimora dei piccoli mangiatori di libri. La cucciola O** dai sensi acutissimi si accorge del nostro arrivo prima degli altri e Nummù le corre incontro per farsi cavalcare come in una favola. Alla vista di questo spettacolo inaspettato, tutti gli altri sgranano gli occhi increduli e alcuni di loro già piangono lacrime di uguaglianza. È Q** a rompere il silenzio: «Non avrete pensato di festeggiare qui da soli, scimmiette che non siete altro, lasciando a noi quella noiosissima parata?» Quelli che fino a pochi attimi prima sedevano silenziosi come giunchi su pietre e vecchi rottami, cominciano a saltare da una parte all’altra del catorcio tirato a lucido, mentre S** ed H** li aiutano ad indossare fiori e scegliere ricchi premi e cotillons. M** sorride in piedi su un vecchio barile: «spero solo che la primavera che ci avete portato non venga distrutta come il giardino che Ottilie amava», mi dice. «Ti chiami M**, mica Luciane tu, o sbaglio?», rispondo con la pipa tra le labbra, guardando con la coda dell’occhio la linea dell’orizzonte. M** annuisce sorridendo. In pochi istanti ci ritroviamo a ballare intorno al nostro giardino. Tutti insieme, senza segreti. (Traduzione dall’inglese di Sonia Manduzio) Nata a Brentwood il 3 febbraio 1971, S.H. Palmer è la più giovane e significativa esponente dei DISTRUZIONISTI, oscura avanguardia romana di fine anni'80, nata in seno agli ambienti di estrema destra della capitale, dove Palmer si trasferisce nel 1985. Poetessa, narratrice, autrice di numerosi testi teatrali e di romanzi dai temi controversi (su tutti APOCALYPTICAL MARSHMELLOW CRUNCHERS, la sua opera maggiore), dopo aver a lungo lottato contro una insidiosa depressione post-disintossicazione, muore a San Severo il 27 dicembre del 2004, a soli 33 anni. VERDE 11


in-distro in-distro

Deny Everything Distro 2.0 Secondo squillo di tromba per In-Distro e stavolta è il turno di un’etichetta e distribuzione romana tanto underground quanto fondamentale: Sometimes Records. Non ci sono parole per descrivere l’importanza del lavoro svolto con le ristampe di dischi davvero “necessari” e da troppo tempo irraggiungibili perché inediti o parcheggiati nelle grinfie di collezionisti vampiri. Starfuckers (prima stampa su cd del seminale mini album della svolta noise rock Brodo di cagne strategico, influenza - dichiarata - per i Massimo Volume, del loro capolavoro Sinistri + 2 pezzi da compilation + 1 inedito), Detonazione (doverosa ristampa per il gruppo no wave di Udine, influenze Crass records, PIL e Contorsions, il cd contiene i primi due 7’’, il mini lp Riflessi conseguenti e due inediti da compilations), Tac (primo nastro della storica band exp/industrial qui ancora alle prese con un aspro e schizzato avant rock/noise + live 1982), Rivolta dell’Odio (doppio cd con l’intera discografia + live della storica band anarcopunk anconetana che disco dopo disco ha aggiunto elementi ‘goth’ al caratteristico suono influenzato da Crass e certa no wave spigolosa), sono solo alcune delle band che dal 2010 la Sometimes ha stampato su cd e diffuso per il globo, non prima di aver accuratamente messo mano ai master dei dischetti in questione che ora suonano magnificamente. Perché è vero, siamo tutti punk e ci piace il rancido... però certe cose vanno sentite come si deve. Un passo indietro: «Sometimes records è nata tre anni fa come distro di materiale anarco punk, post punk, industrial, noise e affini, dopo circa un anno è iniziato il lavoro dell’etichetta, con la finalità di indagare gli ANOTHER PART OF THE WORLDWIDE D.I.Y. CONSPIRACY www.myspace.com/denyeverythingdistro denyeverythingdistro.blogspot.com denydistro@gmail.com

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stessi territori e principalmente ristampare a prezzo accessibile materiale raro/fuori catalogo.» Per capire di cosa stiamo parlando basta fare un salto sulla pagina bandcamp dell’etichetta dove è possibile ascoltare (quasi) tutti i dischi stampati (al momento è in fase di aggiornamento). Oltre all’encomiabile lavoro di etichetta, d.i.y. nello spirito e professionale nei risultati, e alla distro fornitissima, vorrei segnalare la pagina facebook della Sometimes, imprescindibile per la tonnellata di segnalazioni, link e informazioni di cui è impregnata: un vero manuale di musica del sottosuolo. Ultime righe per sottolineare le prossime uscite in lavorazione: AntiGenesi, Maurizio Bianchi, Parboiled, Eva Braun, No Jap, Mondo Teeno, Im Namen Des Volkes. Contatti: sometimesrecords.com sometimesrecords.bandcamp.com


BLITZRECENZION

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BLITZRECENZION

S. H. Palmer Bigmouth colpisce ancora “Stanotte mi ficcavo un braccio in gola e affondavo le mani nel fango dei miei demoni, la parte più profonda di me. Forse non era un incubo, era solo un’altra canzone.” (shanduziopalmer.tumblr.com)

h t t p : / / w w w. y o u t u b e . c o m / w a t c h ? v = F g x E J O i 6 G t A

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storie nere

STORIE NERE Luca Carelli

«Che hai fatto?», gridava mia madre, mentre Ida moriva piangendo e il suo cranio esplodeva spargendo sul mio pallore lacrime dense. Lo scalpello sfondava la testa, ma non c’era dolore nella sconfitta della pelle che cedeva come marmo sotto i miei colpi violenti. «Che hai fatto?», gridavo a mia madre, mentre il sangue colava sulle sue vesti e le sue mani malate brandivano la lama fredda che benediceva la povera carne di Ida. «Vi amo entrambe», ho gridato piangendo. Mia madre ha fulminato i suoi occhi sulle mie labbra angosciate e tremanti e la saliva riempiva la bocca di un gusto amaro di rancore. I miei occhi avrebbero potuto dimenticare quella notte. Le mie mani avrebbero dovuto. Quando sono tornato a casa sembravano passate poche ore. La polvere affogava come un cappio spinato i mobili del salone vuoto e le pareti della cucina erano nere come l’inizio di un tempo violento. Era una giornata calda e non riuscivo a respirare, i pensieri premevano sulle mie tempie sudate e allora mi sono steso per terra, vicino al frigorifero spento. Ho chiuso gli occhi e quando ho guardato di nuovo un ragno aveva intrecciato la sua tela attorno alle mie mani, fino alla maniglia della porta. Ho gridato ma era notte e nessuno è venuto a salvarmi. La mia testa girava, avevo fame e paura di vomitare, ma era la solitudine a dividermi di nuovo, come una crisalide. Ho cercato le voci dei dottori ma ormai ero guarito ed ero libero, nella mia casa. Quella stessa casa. Tredici anni dopo. «Lasciala stare», gridava mia madre, mentre un colpo stendeva Ida e le sue urla morivano in gola. «Lasciala stare», gridavo a mia madre, e le lacrime rigavano il volto di Ida, mentre io sommergevo il suo viso di estuari di

stupore e impotenza, in un dolore senza rabbia che le partiva dal labbro e prendeva forma di una parola – una sola – debole e fioca, un punto di domanda balbettato senza risposta, un perché indecente che incendiava e demoliva la mia calma. Quando i genitori di Ida sono morti, il sentimento ha sfondato le porte che ci tenevano separati e l’amore è esploso così violentemente da piangere e soffiare terrore sui nostri volti bagnati, per seccare le lacrime incerte di giorni migliori. La differenza di età non è mai stata un problema: lei aveva bisogno di una guida e io di una presenza sincera al mio fianco. Era il 1976, attorno a noi tutto esplodeva e crollava ma quando eravamo insieme il silenzio regnava placido e immobile. Lavoravo tutto il giorno e pensavo a lei. Giorno dopo giorno il nostro amore cresceva, senza parole né gesti, forte di sguardi e sospiri profondi. Ida aveva voglia di studiare e appena poté si iscrisse all’accademia. La sua arte era giovane e onesta, alimentata da un sorriso di ottone che brillava come platino e bruciava gli occhi come un sole. I mesi passavano e io sentivo il suo nome crescere dentro di me. Era la prima volta che sperimentavo da solo un’emozione tanto forte e squarciante. Non avevo idea di come gestirla ma sapevo che mia madre doveva restarne fuori, per preservare il nuovo mondo che io e Ida stavamo costruendo, lontano da sguardi e parole crudeli. Non avevo più paura e sapevo che quel che volevo era quanto stava accadendo. «Lasciala andare», gridava mia madre, mentre il fuoco anneriva il suo volto e il fumo bagnava di lacrime le sue gote

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deformi e bruciate. Ida moriva tossendo e la mia bocca esplodeva di riso come un tumore marcito che resiste allo specchio, una esasperazione mortale che arde di vita. «Lasciala andare», gridavo a mia madre, mentre il cranio di Ida cedeva sotto colpi precisi e fendenti degli spilli che entravano ovunque e bucavano la sua testa coperta di sangue nero e denso. Mia madre colpiva con rabbia e gli aghi in uscita vomitavano resti turgidi e spessi di cuoio capelluto e materia cerebrale. Come una fontana il sangue schizzava dappertutto e mia madre sorrideva, in un silenzio violento che non riuscivo a sopportare, ma non potevo reagire. Lo sapevo da tempo, non c’era altro verso. A sera rientravo stanco e depresso, ma non era il lavoro a pesarmi. A scuotermi era la mancanza di Ida. Lavoravo tutti i giorni e lei studiava, avevamo per noi solo il fine settimana. La distanza fisica divaricava la mia sofferenza e il desiderio è presto diventato una ridondanza ossessiva. È stato allora che tutto è cambiato e ha avuto inizio la nostra fine. Vivere con la mia famiglia non aveva più senso per me se la mia famiglia era diventata Ida (aspettavamo un bambino). Mio padre, costretto dalla guerra sulla sedia a rotelle, cieco e immobilizzato, era un fantasma oscuro e di pietra che aleggiava sulla nostra casa, ristretto com’era nella sua camera buia e fredda, accudito con cupo furore da mia madre, che intanto aveva deciso di aprire la nostra casa al suo amante, che con cupidigia ci costrinse a reinventare un equilibrio che da quel momento prese forma di un miraggio anafilattico; un equilibrio contorto e ridimensionato, che aveva perso senso e spazio e ora perdeva il mio apporto, quando decisi che il mio equilibrio era Ida e lo sarebbe stato lì dentro. Ida venne a vivere da noi, con me, contro di noi, nella casa della mia infanzia, la casa della mia vita. La casa della sua morte e della nostra fine. «Perché?», gridava mia madre, mentre spogliavo Ida e per prime tranciavo le gambe, imbevute di alcool e benzina. Nel suo sangue immergevo le dita e le mie mani non pativano il freddo dell’orrore che benediceva la nostra fine. Le urla della sega coprivano appena gli strilli isterici di mia madre, che taceva soltanto quando i lacerti caldi di carne di Ida la colpivano mulinando,

e il vomito le esplodeva in gola e spingeva con terrore su, nel naso, giù, nel delirio. «L’ho fatto per noi mamma. Un giorno capirai», sussurravo alla sega. «Perché?», gridavo a mia madre, mentre il suo uomo riempiva i sacchi neri di quel che restava di Ida, e lei non mostrava pietà neanche per l’oscenità di quegli avanzi scarnificati e negletti. Imbevuta di sangue e di morte, mi fissava con malizia e un sorriso oscuro. Le mie parole le scivolavano addosso e al mio pianto sordo e disperato rispose puntandomi la stessa sega che aveva usato contro Ida: «L’ho fatto per noi, amore. Un giorno capirai.» Ida Pischedda, 23 anni, viene ritrovata carbonizzata e mutilata la mattina del 14 gennaio 1977 in un campo abbandonato di Monte Sacro, a Roma. I primi sospetti ricadono sul suo fidanzato, che respinge ogni addebito per accusare sua madre e l’amante di lei. Dopo la morte improvvisa e misteriosa di quest’ultimo, madre e figlio continuano a lungo ad incolparsi a vicenda, fino a dichiararsi entrambi innocenti. Nel 1990 vengono assolti definitivamente e ottengono un indennizzo milionario per la carcerazione preventiva subita. L’autopsia sul corpo di Ida stabilì tra le altre cose che la ragazza era incinta. http://archivio.unita.it/risric.php?key=ida+pische dda&ed=&ddstart=12&mmstart=01&yystart=19 77&ddstop=22&mmstop=05&yystop=2008 http://mostrodifirenze.forumup.it/about5360-asc-30-mostrodifirenze.html («Fiammiferi lunghi e scalpello da scultore», tredicesimo post, utente Bervus, fonte: B. Lattanzi,V. Maimone, «Cento volte ingiustizia - Innocenti in manette», Mursia 1996)

Luca Carelli nasce a Bologna nel 1960. Negli anni ’80 scrive alcuni romanzetti gialli che per un fortuito errore di stampa cromatico vengono accolti dalla critica come noir. Nel 1986 viene condannato a 25 anni di carcere per banda armata e terrorismo. Non si è mai dissociato né pentito. È stato scarcerato nell’agosto del 2011. Per VERDE scrive brevi racconti ispirati a fatti recenti di cronaca nera. lucacarelli60@gmail.com

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E MOMENTI PER FARE A PUGNI

CI SONO MOMENTI PER RECITARE POESIE


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