Brigante febbraio 2014 x sito

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V E L E N ORD

MAGAZINE PER IL SUD DEL TERZO MILLENNIO

L’IMBOSCA ATTTA A

L’ INCHIESTTA A

ANNO 14 - N. 34 FEBBRAIO 2014 € 2,00

L’IDENTIITÀ

L’INTTERVENTO



FEBBRAIO 2014

VELENORD

l’Editoriale

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GINO GIAMMARINO

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uando abbiamo iniziato a parlare della Terra dei fuochi non avremmo mai immaginato cosa sarebbe diventata nel giro di pochi mesi, a maggior ragione se mettiamo in relazione il tutto all’immobilismo ed alla rassegnazione che ha circondato la materia ben oltre i venti anni canonici ai quali, oggi, chiunque parli del caso fa riferimento. Ho perso il conto di quanti articoli ho scritto su quando ci si avventurava nelle terre di Pianura o di Quarto, in provincia di Napoli, per fare motocross tra gli sterrati delimitati dai bidoni scoloriti di rifiuti tossici, ma non quello del tempo: quaranta anni fa!

tati”. Sicuramente, meglio di noi. Ci siamo dati la missione di andare a curiosare un po’ nella Padania avvelenata ed avvelenante che ci ha ispirato quel titolo, “Velenord” che unisce le parole veleno e nord in un abbraccio mortale dai fratelli d’Italia e della quale non si proferisce neanche una sillaba.

Abbiamo voluto ribaltare il copione affacciandoci nella “Padania dei fuochi” che esiste ma non si deve sapere. Sappiamo bene che quelli che si scandalizzeranno di più saranno proprio gli ascari meridionali, sempre pronti a vendere prima se stessi e poi la propria terra, all’invasore di Ci sembrava una cosa normale, scontata che turno. tra tutti i rifiuti solidi abbandonati lungo la Già serpeggia il senso di colpa, inculcato, strada ci spettasse quella ciliegina sulla torta: secondo il quale è colpa nostra, non lo dovetutti quei bidoni abbandonati ci sembravano vamo consentire perché “altrove” non lo quasi una nota di colore tra le terre, e non la avrebbero consentito… premessa di un futuro di dolore. E il Sud paga ancora. Perfino quando viene E’ la storia di ieri, la storia di oggi, la storia di saldato (in denaro) dagli imprenditori del sempre: Sud contro Sud, e dunque, senza Nord per ricevere lo scarto tossico dell’im- mai un vincitore, esclusi i non residenti. prenditoria settentrionale, finisce per pagare in natura. Morta. La battaglia per il riscatto del Mezzogiorno è lunga e dura, soprattutto perché la si combatMentre si progetta un riscatto fatto di prodotti te su due fronti: quello esterno, che sono gli tipici e gastronomia, turismo archeologico ed interessi costituiti del Nord e che hanno chi ambientale, la mannaia della stampa nordi- ben li difende; e poi c’è quello interno, quello sta, non contenta, si occupa della Terra dei dei meridionali che tradiscono, che si rassefuochi ma nasconde, sotto il tappeto della gnano e, non contenti, cercano di far rassemala informazione, quello che c’è in un Nord gnare anche gli altri. non meno inquinato. In centocinquant’anni è successo a tanti, Da qui è nata l’idea di questo numero, di una troppi… copertina che non guarda all’arte, ma riuni- Ma il tempo non passa invano, e, come disse sce le fabbriche padane inquinanti, i rifiuti Francesco II lasciando Gaeta nel Febbraio di ospitati dalla nostra terra ed il nostro mare quel maledetto 1861, “…le usurpazioni non che gli americani, passando da Gioia Tauro, sono eterne…”. si apprestano a riempire di veleni siriani “trat- Occhio, fratelli: il vento sta cambiando.


il Sommario

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in questo numero: L’IMBOSCATA

ANDREA RONCHI

il Brigante

SERVIZIO A PAGINA 6

ANNO 14 - NuMERO 34

www.ilbrigante.it - info@ilbrigante.com Tel. 081 19339716

MAGAzINE PER Il sud dEl tERzO MIllENNIO DIrETTOrE rESPONSAbILE GINO GIAMMARINO VICE DIrETTOrE sIMONA BuONAuRA

HANNO COLLAbOrATO A QuESTO NuMErO: ANNAlIsA CAstEllIttI GIulIANA CAlOMINO ANNAMARIA CERIO EttORE d’AlEssANdO dI PEsCOlANCIANO GABRIEllA dIlIBERtO uMBERtO FRANzEsE RICCARdO GIAMMARINO GERMANA GRAssO VAlENtINA GIuNGAtI MAuRIzIO MEROllA RItA NAPPI ROsI PAdOVANI RAFFAElE sANtIllO

IL FOCUS

TERRE DEI FUOCHI DA NORD A SUD SERVIZIO A PAGINA 8

IL DISASTRO

EDITOrE Piazza Stazione Centrale

Piazza Garibaldi, 136 - 80142 Napoli

PrOGETTO GrAFICO FRANCEsCO GAllO FOTOGrAFO C. ANdREOttI STAMPA

ARtI GRAFIChE NAPOlItANO - NOLA (NA) La rivista è stata chiusa il giorno 04 Febbraio 2014 alle ore 13:00

Autorizzazione tribunale Napoli n. 5159 decreto 22/11/2000

ARMI SIRIANE NEL MARE NOSTRUM SERVIZIO A PAGINA 14


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il Sommario

L’IMPRESA

ENODELTA SERVIZIO A PAGINA 18

IL CONFRONTO LAZZARI, BRIGANTI L’INTERVENTO

BRIGANTI IN SENATO

& CAMORRISTI SERVIZIO A PAGINA 27

SERVIZIO A PAGINA 21

L’ARTE LA GROTTA DI MARIA CRISTINA DI SAVOIA L’IDENTITà

SERVIZIO A PAGINA 29

NAPOLI BORBONICA NOBILE PER UN GIORNO SERVIZIO A PAGINA 22

LA STORIA DINASTIA DEI BORBONE ARRIVA LA FIRMA SERVIZIO A PAGINA 39


l’Imboscata

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PARLA ANDREA RONCHI: “MENO FABBRICHE E PIÙ CULTURA” GINO GIAMMARINO

n un momento tanto particolare come quello che si sta attraversando, va certamente seguita con attenzione l’iniziativa promossa da Azione Meridionale e dal Movimento unitario Giornalisti Campania per cercare di indicare strade e soluzioni ai problemi che attanagliano la città, la regione Campania e l’intero Mezzogiorno. Di

questa serie di appuntamenti, imperniati sullo stimolante tema “Il riscatto di Napoli e della Campania, la rinascita del Mezzogiorno” parleremo più avanti nella foliazione insieme al presidente Domenico Falco. In queste righe, invece, per la consueta “Imboscata” di questo numero, ci confrontiamo con l’ospite del terzo incontro, l’On. Andrea ronchi, già Ministro per le Politiche Europee ed attualmente Presidente dell’associazione “Insieme per l’Italia”.

Per il nostro sud, a tutt’oggi, l’Europa non sembra aver dato un contributo degno di nota al suo sviluppo economico… «Certamente l’Europa deve essere coinvolta maggiormente ed in una maniera completamente diversa da come lo si è fatto fino ad ora. Il problema riguarda segnatamente il Sud, ma si estende a tutta l’Italia, sempre ultima nelle più svariate classifiche, dall’utilizzo dei fondi allo sviluppo ed alla carenza di infrastrutture, che dovrebbero testimoniare del grado di evoluzione raggiunto dai singoli Paesi partners. Proprio nel paragone con gli altri membri si nota la loro capacità di intercettare le risorse di bruxelles per investirle proprio nelle infrastrutture e nella ricerca, mentre in Italia si sono persi, contemporaneamente, tempo ed occasioni, ed oggi siamo nella condizione, sempre più difficile, di dover attuare una gigantesca inversione di rotta».

Il Mezzogiorno è sinonimo di eccellenze gastronomiche, ambientali, artistiche e culturali. Eppure il tutti questi anni si è pensato, in maniera centralistica (e

più che altro verbale), ad un suo sviluppo più industriale che turistico, come la sua vocazione avrebbe invece consigliato. Possiamo dire che l’arretratezza del nostro sviluppo è dipeso anche da una serie di scelte politiche e progettuali sbagliate? «Lei ha perfettamente ragione, turismo e ambiente sono il nostro petrolio: non comprenderlo è una follia, e non lo si è compreso. Si è pensato di fare i ministeri e cose del genere, si sono spesi miliardi, centinaia di migliaia di euro, in giro per il mondo con delegazioni regionali e folli spese votate all’immagine e non alla sostanza. Sono stati tutti soldi buttati via! Oggi l’Italia ed il Sud costituiscono una straordinaria occasione, Napoli in particolare è un patrimonio enorme, infinito; basta soltanto sfruttarlo nella maniera più intelligente per creare tanti nuovi posti di lavoro e sviluppo economico del territorio puntando sulla cultura. Ecco, noi chiediamo un grande sforzo per riprendere l’enorme discorso culturale del turismo, che non va limitato alle strutture alberghiere ma ampliato e diretto verso la valorizzazione del grandissimo patrimonio culturale archeologico e storico che il Signore ci ha dato». In fondo sarebbe bastato poco, ma quel poco è mancato soprattutto nella proposta politica… «Assolutamente si. Si è pensato in piccolo anziché in grande: dobbiamo cominciare a pensare in grande».

Certo, ma si è pensato anche di omologare ed unificare le scelte di sviluppo senza tener conto proprio delle differenze tra i territori del Nord e quelli del sud: alla fine pensare al Mezzogiorno come insediamento di industrie in provetta non solo è stato fallimentare per il tessuto imprenditoriale, ma ha finito per penalizzare anche la risorsa ambiente e dunque il turismo… «E’ stato un grande errore! bisognava armonizzare le esigenze e la struttura economica del Nord con questo

grande patrimonio culturale del Sud. Ma io direi che tutta l’Italia in generale rappresenta un grandissimo bacino


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culturale, un grandissimo bacino turistico, e un grande rilancio si può rendere possibile solo con un enorme cambio di mentalità. L’aggettivo da adoperare è “manageriale”, mentre la missione da compiere è quella di portare questo petrolio, che nessuno al mondo possiede in una simile misura, ad una grande valorizzazione. Meno fabbriche e più cultura sarebbe stata la grande scelta per l’Italia».

Ma il sud sconta anche campagne mediatiche sfavorevoli, non ultima la vicenda della terra dei fuochi, da parte dello stesso Nord del paese…

«Si, ma la colpa non è dei mezzi di informazione, la colpa è di chi ha lasciato -colpevolmente- che avvenisse quello scempio».

Certamente è vero anche questo. Ma è innegabile che esista una “Padania dei fuochi”, un Nord non meno inquinato ed inquinante, sul quale però i mezzi della grande stampa nazionale, i cui interessi e le proprietà sono collocati proprio nel profondo settentrione, calano una vera e propria cortina di ferro a base di silenzi ed omertà. Altro che camorra… «Si, ma…Io non sono per questa discrasia tra Nord e Sud, ecco! Per me l’Italia è una, non c’è né Nord, né Sud: c’è l’Italia. E al Nord, al Centro ed al Sud, chi ha sottaciuto, chi ha permesso, chi ha consentito la Terra dei fuochi, che sia una o siano mille, è colpevole e mi auguro che venga punito nella maniera più severa possibile».


il Focus

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TERRA DEI FUOCHI: UN ECOCIDIO NON SOLO CAMPANO 8

VALENTINA GIuNGAtI

opo la pubblicazione dei verbali della Commissione ecomafie, è esploso un caso mediatico sulla Terra dei Fuochi. L’ex boss della camorra Carmine Schiavone, raccontava di un traffico illecito di rifiuti iniziato nel 1988: ordinari, speciali, radioattivi disseminati nel sottosuolo campano, soprattutto nelle aree tra

Caserta e Napoli. I clan si dividevano le zone e seppellivano i rifiuti provenienti non solo dal Nord Italia ma soprattutto dall’Europa; la rete è molto più fitta e ampia di quello che si possa credere, le aree interessate arrivano fino al Lazio, alla Sicilia, alla Puglia. Questo sistema permetteva alla camorra di gestire un traffico illecito senza eguali, con introiti fino a 600/700 milioni al mese. Eppure, il problema non è solo di queste aree, bensì una falla dell’Italia intera. Il dissesto ecologico italiano è una delle tematiche di cui si dibatte da anni. Dopo la batosta per l’agroalimentare in Campania, i produttori del Nord hanno inneggiato una guerra contro il Sud, per salvaguardare i consumatori.

In particolare, molte sono state le polemiche sulla campagna di comunicazione della nota azienda di conserve e pomodoro, Pomì. La società infatti, proprio a cavallo del disastro venuto fuori, ha sottolineato attraverso i social media, la coltivazione di pomodori provenienti esclusivamente dalla Pianura Padana. I recenti scandali di carattere etico/ambientale che coinvolgo produttori ed operatori nel mondo dell’industria conserviera stanno muovendo l’opinione pubblica, generando disorientamento nei consumatori verso questa categoria merceologica. Il Consorzio Casalasco del Pomodoro e il brand Pomì sono da sempre contrari e totalmente estranei a pratiche simili, privilegiando una comunicazione chiara e diretta con il consumatore. Per questo motivo l’azienda comunicherà sui principali quotidiani nazionali e locali, ribadendo i suoi valori e la sua posizione in questa vicenda. Si tratta di un atto dovuto non soltanto nei confronti dei consumatori, ma anche nel rispetto delle aziende agricole socie, del personale dipendente e di tutti gli stakeholders che da sempre collaborano per ottenere la massima qualità nel rispetto delle persone e dell’ambiente. Non è tardata la risposta del pizzaiolo Gino Sorbillo, il quale ha creato una piccola campagna “No Pomì” per boicottare i prodotti della società e per sottolineare come l’emergenza inquinamento non sia solo una questione meridionale. Da quanto emerge dai dati della Cafe (Clean Air For Europe)l’allarme, soprattutto per le polveri sottili, riguarda proprio la Pianura Padana, che ha ricevuto la maglia nera per l’inquinamento. Il Nord Italia è pieno di rifiuti interrati, le risaie del Varcellese e Pordenone, scarti addirittura risalenti al 1987. Proprio in quelle aree vi sono infatti oltre il 90% delle scorie radioattive prodotte in Italia, a ridosso dei campi destinati alla coltiva-


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zione. Lo stesso dicasi per Porto Marghera, tra le zone più inquinate d’Europa, o Ispra, dove sorgeva una piccola centrale nucleare, le cui scorie finivano direttamente nelle acque del lago e poi il Friuli Venezia Giulia, dove gli idrocarburi rinvenuti nelle acque e la radioattività cinque volte superiore al limite consentito, sono la tangibile dimostrazione di come questo sia un problema dell’Italia intera. Il triangolo della morte, mette in luce una serie di scandali di carattere etico ambientale, per questo motivo abbiamo voluto ascoltare rossella Muroni, direttore generale di Legambiente. Emergenza terra dei Fuochi: cosa pensa sull’ecocidio in atto in Campania? «Si tratta del peggiore e meglio riuscito esperimento di criminalità ambientale commesso in Italia e uno dei peg-

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il Focus

giori al mondo. un fenomeno che Legambiente denuncia da più di vent’anni. Nel 1994 Legambiente pubblicò il suo primo rapporto Ecomafia, scritto insieme all’Arma dei carabinieri, proprio per denunciare con nomi e cognomi i responsabili dei traffici illeciti di rifiuti che dal centro e nord Italia finivano nelle campagne delle province di Napoli e Caserta. Grazie, ovviamente, al ruolo chiave della camorra, spalleggiati da imprenditori, colletti bianchi e funzionari pubblici. Il fenomeno della Terra dei

fuochi ha quindi origini lontane e responsabilità chiare sin dall’inizio». un problema non solo campano. dove altro sono presenti situazioni similari? «L’Italia intera è disseminata di bombe ecologiche causate sia da attività legali che illegali; queste ultime sono sicuramente quelle meno conosciute e più rischiose per le comunità che vivono a ridosso. Purtroppo non passa giorno senza che le forze dell’ordine – alle volte anche su segnalazione dei nostri circoli, di associazioni o singoli cittadini – non scoprano discariche illegali di rifiuti, alcune anche di enormi dimensioni, in ogni angolo del Paese». Come si è impegnata legambiente ed i suoi rappresentanti sulla questione? «Legambiente è impegnata ogni giorno con i suoi circoli a difendere l’ambiente e i territori. Lo fa attraverso le molteplici attività di denuncia dei fenomeno illegali, ma anche promuovendo buone pratiche e buone politiche di difesa e valorizzazione del territorio. L’ambiente lo si salvaguardia soprattutto con la prevenzione, che fa rima con esatta conoscenza dei problemi e dei modi migliori per risolverli». Cosa si può realmente fare, soprattutto a livello pubblico, per salvaguardare le nostre terre? «bisogna cambiare politica, ai suoi diversi livelli, e modelli comportamentali, cioè con azioni promosse sia dall’alto che dal basso. Cambiare politica significa considerare veramente l’ambiente e la bellezza come un valore, quindi da proteggere, e non più sacrificabile per fini i più diversi. Cambiare modelli comportamentali significa fare scelte sempre più sostenibili dal punto di vista ambientale, rifuggendo da un consumismo impattante. Alla base di tutto ciò la formazione e l’informazione rivestono un ruolo fondamentale, con le università e le scuole chiamate alla cruciale sfida di formare le nuove generazioni sotto le insegne di un mondo “diverso” e possibile».

Il grillo parlante ha proferito ancora. Non ci riferiamo al leader del Movimento 5 Stelle bensì al pentito di mafia Carmine Schiavone che dopo aver fatto luce sulla sciagura della cosiddetta Terra dei Fuochi campana ha rilasciato nuove dichiarazioni in cui afferma che gli scarichi illegali di rifiuti sono avvenuti anche al Nord. In particolare in Liguria e Lombardia. Nell’intervista rilasciata al quotidiano Secolo XIX Schiavone ha parlato di «armi caricate dai servizi segreti, cocaina nascosta anche dentro le palme in arrivo dal Sud America, rifiuti tossici e nucleari dal Nord, movimentati da Licio Gelli e dall’avvocato Cipriano Chianese, transitavano dalla Liguria, nei porti di Genova, e Spezia». Le città erano scelte per la presenza del mare che permetteva alle navi di raggiungerle in modo facile ma anche per la presenza di discariche. Ecco perché invita le istituzioni: "Scavate anche in Liguria, a Genova, o in altri siti del nord dove ci sono discariche" anche perché si chiede se alcuni rifiuti li hanno sotterrati nelle Alpi quelli in Lombardia o in Piemonte o nella zona industriale di Genova o a La Spezia dove sono stati occultati? Da qui la sua convinzione che si trovano nelle discariche non solo del sud ma anche del nord. Ecco cosa ha dichiarato nello specifico: "Io lavoravo nel-

la mia zona e posso dire con certezza dove sono interrati i rifiuti campani". Ma lungo la filiera dell'illegalità si intrecciano e si propagano anche altre relazioni tra Stato e malavita. Poi aggiunge: "E' da 60 anni che le mafie stanno al Nord, come a Milano così a Genova. Controllate Genova". Esistono forme di mafie istituzionalizzate: le istituzioni e i servizi dell'epoca ad esempio permettevano di scaricare i rifiuti tossici ma non solo – ed ancora- noi lavoravamo con Eurocem a Napoli, Salerno e Gaeta, dei traffici in quei luoghi ne sono sicuro... ma sapevo che stavano anche ai porti del nord e all'estero attraverso navi". Spartacus, questo il nome di Schiavone da pentito, parla anche di traffici di droga per i quali “le istituzioni facevano finta di non vedere mentre "dentro le palme dal Sud America c'erano quintali di cocaina". Quello che ne esce fuori è una triste verità ovvero che mentre ora si fanno perizie su perizie fra 15 anni quando le falde acquifere saranno tutte inquinate e la gente morirà quella verità non servirà più a nessuno. Conclude dicendo "Io ho una responsabilità quella di essere stato un mafioso - ribadisce -, ma la colpa è dei padri che hanno chiuso gli occhi mentre mangiavano soldi".(s.b.)

SCHIAVONE : “BISOGNA SCAVARE ANCHE AL NORD”


QUEL FIUME IN PIENA CHE LOTTA PER IL SUD

l’Ambiente

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MAurIZIO MEROllA

iume In Piena è la sigla che il 16 novembre è riuscita a riunire ben 100.000 persone in uno storico corteo di protesta contro l'avvelenamento delle terre campane, il cosiddetto “biocidio”. Oltre all’importantissima manifestazione, attraverso la quale hanno lanciato delle proposte alle istituzioni per far sì che si muovessero i primi passi verso la risoluzione del disastro ecologico perpetratoci, #fiumeinpiena prova a mettere ancora oggi il fiato sul collo a chi avrebbe il dovere di dare spiegazioni e soluzioni riguardo la ormai famosa Terra dei Fuochi. Esempi sono la con-

testazione a Giorgio Napolitano, che tante polemiche ha suscitato, e quella al Presidente della regione Campania, Stefano Caldoro. Incontriamo raniero Madonna, attivista del movimento, per approfondire le iniziative e le proposte di chi, insieme a tantissime altre realtà presenti sul territorio da anni, hanno contribuito a creare attenzione su un problema che vede tutti coinvolti:

Cos’è Fiume in Piena / stop Biocidio e quali sono i vostri obiettivi?

«Fiume-in-piena - stop biocidio” sono fondamentalmente gli slogan che hanno riunito e riuniscono la maggior parte dei comitati campani attivi sulle tematiche ambientali e sociali. #fiumeinpiena è un movimento pacifico ed apartitico, fondato e formato da giovani e costituisce il vero punto di contatto tra i vari comitati e le varie associazioni del napoletano e della provincia. Stop biocidio è solo uno dei suoi tanti obiettivi: un traguardo che non si limita alle mire localistiche o regionali; un traguardo di ampio respiro che vuole riunire sotto la stessa bandiera non solo la Campania ma l’Italia

intera. Per quanto riguarda gli obiettivi si può fare riferimento alla piattaforma del 16 novembre che nasce come tentativo di sintesi tra le vertenze dei vari comitati attivi in Campania: “basta sversamenti; basta roghi tossici. Sì ad una politica assennata e condivisa di bonifica; no a questo piano gestione dei rifiuti, scelto senza il consenso dei cittadini. No agli Inceneritori”».

tantissime le sigle campane è un passo importante dunque riuscire a riunirle...

«Dietro il tentativo di fare sintesi tra le varie voci campane c'è l'obiettivo di avere una voce quanto più forte e compatta possibile per evitare che le singole vertenze frutto di lunghi lavori possano disperdersi. Da queste riflessioni nasce ancora un altro stimolo che abbiamo fatto nostro come movimento. Quello di fare in modo che i temi che ci troviamo ad affrontare sui territori e le loro relative soluzioni diventino obiettivo primario per le accademie campane».

Avete portato 100.000 persone in piazza, ma le istituzioni come hanno risposto?

«Le istituzioni hanno risposto come temevamo: un decreto che risponde perfettamente alle esigenze, però esclusivamente mediatiche, di un'emergenza che ormai era troppo evidente per essere ignorata. Ancora oggi le istituzioni interpellano le tante realtà di attivisti che lavorano sui territori solo dopo aver redatto il decreto, chiaro esempio di come ancora non ci si ponga seriamente il problema della democrazia reale, e questo purtroppo non riguarda solo i temi ambientali».


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siete apparsi in diverse trasmissioni televisive e in ognuna di queste avete dovuto difendere il popolo campano, imputato di essere la principale causa del problema “terra dei Fuochi”. Come mai?

«Si tratta indubbiamente di una ricostruzione dei fatti strumentalizzata da media deviati. Tutto ciò nel tentativo, vano, di assolvere le alte cariche dello stato e i grandi poteri economici italiani, mafiosi e non. A questo dobbiamo aggiun-

gere un'ignoranza sul tema molto diffusa. E' inoltre evidente, a nostro parere, che la Campania e i suoi cittadini molto spesso siano vittime di razzismo non solo ambientale ed economico ma anche culturale».

Considerando le enormi perdite nel settore agroalimentare, quanto pensi sia giustificato l’invito più o meno implicito a non consumare prodotti provenienti dalla Campania?

«Più che un implicito invito si tratta di una vera e propria propaganda. Tutto fa pensare ad una misura studiata ad hoc per agevolare e favorire le grandi distribuzioni. Sono molti gli agricoltori che raccontano di come i loro prodotti vengano venduti molto spesso a prezzi bassissimi per poi essere portati nei mercati di altre regioni con certificati di provenienza falsi. Il discorso sui limiti normativi rispetto alla presenza di sostanze inquinanti nei suoli, nelle acque e nei prodotti è poi un discorso molto delicato. Si pensi che per alcuni di questi le acque in bottiglia presentano limiti di concentrazione superiore alle acque potabili e a quelle per uso irriguo (che non hanno una normativa specifica ma devono rispettare i limiti per quelle potabili). Inoltre i limiti per le concentrazione nei suoli non tengono conto della natura degli stessi e dell'effettiva biodisponibilità dell'inquinante in relazione al tipo di coltivazione sull'appezzamento; questo ha portato al sequestro di ettari ed ettari di terreno sui quali si coltiva prodotto sano e certificato (gli agricoltori stessi si sono rivolti autonomamente ai laboratori del Dipartimento di Agraria della Federico II per le analisi) o che magari presentavano valori fuori norma semplicemente perché si trattava di terreni vulcanici che hanno già naturalmente valori molto alti di alcuni minerali. E' quindi evidente la necessità di partire subito con una mappatura seria dei terreni che faccia riferimento a parametri stabiliti in maniera attenta e tenendo conto della complessità della situazione; questo può essere uno dei primi passi per poi partire con un rilancio dell'eccellente settore agroalimentare campano, senza poi dimenticare di inte-

il Territorio

grarsi rispetto alla necessità di una forma di risarcimento per coloro che sono stati penalizzati in maniera molto forte da questa situazione anche sotto l'aspetto lavorativo».

Pochi giorni fa il procuratore de Raho ipotizzava un uso di discariche abusive per sotterrare rifiuti speciali anche in Calabria. Non è quindi un problema solo campano?

«Decisamente no. Siamo convinti e abbiamo sempre visto il problema del biocidio campano come la punta di un iceberg. La problematica della produzione e del relativo smaltimento di rifiuti, ma in generale della devastazione ambientale e sociale, è estesa a livello mondiale. Il Sud, in Italia, così come molti dei Paesi sottosviluppati rispetto alle grandi potenze economiche mondiali, fanno da ammortizzatori dei costi ambientali, sanitari e sociali dell'insensato sviluppo industriale dei paesi maggiormente avanzati dal punto di vista economico. Inoltre nella dinamica che ha portato al biocidio campano è centrale il ruolo della mancanza di democrazia e dell'impossibilità, da parte di chi vive i territori, di poter decidere del destino degli stessi. Questo è un problema che si riproduce ancora in tutta Italia e in tutti gli altri Paesi; quindi siamo avanguardia, ma ribadisco il problema è di tutti».

le istituzioni, colpevolmente assenti, hanno fatto sempre troppo poco. un suo rappresentante però non ha mai abbandonato questa lotta, che poi gli è costata la vita. Mi riferisco al vigile urbano di Acerra, Michele liguori, morto il 21 gennaio a causa di ben due tumori. Cosa ne pensi ?

«Molti dei personaggi che hanno occupato incarichi istituzionali o di dirigenza dei maggiori partiti politici in Campania in questi decenni sono complici di biocidio. Chi colpevolmente non ha visto, chi sapeva e non parlava, chi ha lucrato ed è diventato pedina importante nella scacchiera degli attori del business della devastazione dell'ambiente in Campania e così via. Per fortuna però, qualcuno ha preso parte ed è stato in prima fila nel tentativo di opposizione a questo scempio e

Michele era uno di quelli. E' uno di quelli che con l'esempio ha fatto in modo che molti altri scendessero in campo in questa battaglia per la vita e per la dignità. Purtroppo o per fortuna però, Michele, pur facendo parte dei vigili urbani di Acerra non era in uno di quei posti da cui si può cambiare l'andamento delle cose da soli Troppo spesso infatti, persone come lui vengono isolate e lasciate sole, lavorando in contesti estremamente malati».


l’Analisi

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STEFANO MONTANARI LANCIA IL SUO ANATEMA: “SARÀ IMPOSSIBILE RIAVERE INDIETRO LA CAMPANIA FELIX”

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GAbrIELLA isale al 2007 lo studio condotto dall’ormai noto ricercatore Stefano Montanari e da sua moglie Antonietta Gatti, in base al quale è stata dimostrata la presenza di pericolose particelle di metalli pesanti altamente cancerogene in cibi messi normalmente in commercio in Italia e all’estero ed abitualmente consumati sulle nostre tavole. Montanari, infatti, direttore scientifico nell’azienda modenese Nanodiagnostics, è da sempre molto attivo nei settori della medicina, dell’industria e dell’ecologia ed è impegnato nella ricerca sulle patologie causate dalla presenza di nanoparticelle di metalli pesanti e altri materiali patogeni all’interno del corpo umano. relativamente alla scoperta di alimenti contaminati che aumentano il rischio di cancro, è consultabile in rete una lista di cibi e, quindi, di marche anche molto note, da evitare. È fondamentale segnalare che l’elenco diffuso in rete, mezzo ormai adoperato da tutti e proprio per questo ricco di trappole e non sempre attendibile, è stato definito una “bufala” dallo stesso Montanari, che abbiamo sentito in merito alle analisi fatte riuscendo a sciogliere, una volta per tutte, qualsiasi tipo di dubbio. “Abbiamo analizzato, a spese nostre, campioni di cibo acquistati al supermercato – ha chiarito Stefano Montanari -, come biscotti, pane in cassetta e integratori, e rilevato tracce di polveri solide inorganiche dannose per l’organismo. Probabilmente, se avessimo analizzato altri campioni dello stesso prodotto, avremmo trovato cibi sani o diversamente contaminati. Sulla base di questi elementi, quindi, non si possono mettere all’indice prodotti o marche specifiche, perché non abbiamo una fotografia esatta e dettagliata della situazione, ma solo un dato molto parziale”. Il ricercatore bolognese e sua moglie hanno voluto dimostrare che può capitare a chiunque di consumare cibi pericolosi senza saperlo, in quanto non c’è un controllo adeguato né una legge che protegga la nostra alimentazione e dunque la nostra salute. La tossicità si riscontra nelle materie prime utilizzate per realizzare il prodotto e la loro provenienza è spesso diversa. Sono tante le cause delle contaminazioni, ma la responsabilità maggiore è da attribuirsi ai processi di combustione. Come ha spiegato lo stesso Montanari, è possibile farsi un’idea di cosa contenga il fumo di una fonderia mentre è ben più difficile capire cosa produca la combustione dei rifiuti poiché si tratta dei materiali più disparati. Gli inceneritori, quindi, più di altri impianti generano grandi quantità di sostanze nocive con effetti disastrosi. Considerati questi aspetti, diventa inevitabile pensare ai roghi di rifiuti della ben nota “Terra dei fuochi” e alle conseguenze probabilmente irreversibili che riguardano un’area territoriale molto vasta su cui il dottor Montanari ha espres-

dIlIBERtO so la sua opinione: “Paradossalmente, l’unica persona che ha detto la verità su questa questione è Carmine Schiavone. Sarà impossibile riavere indietro la Campania Felix in quanto quella terra, ormai intrisa di veleni, è condannata per sempre. Sono stati stanziati 900 milioni – ha proseguito Montanari - per tentare un’opera di bonifica e cercare di risolvere il problema, ma la verità è che nessuno ne ha fatto menzione perché nessuno dei politici e degli addetti ai lavori interverrà realmente e i soldi finiranno nelle tasche dei soliti noti”. In realtà, come certificato da molti documenti, non tutti i campi della cosiddetta “Terra dei fuochi” sono contaminati. Infatti, in alcuni di essi, i metalli pesanti risultano essere ben al di sotto dei limiti di legge e si evincono gli stessi dati per le diossine. Gli agricoltori delle terre non avvelenate pagano, ingiustamente, un prezzo molto alto, ossia corrono il serio rischio di veder fallire la propria attività. Le risorse alimentari campane, infatti, iniziano ad essere rifiutate da alcune note aziende, come la Findus Italia che ha comunicato ai fornitori nuove disposizioni su patate e altri ortaggi, sospendendo precauzionalmente l’acquisto di prodotti da surgelare nell’aria definita a rischio. Gli imprenditori agricoli, per rispettare le nuove direttive e riuscire, così, a vendere le proprie forniture, sono costretti a sostenere spese onerose. Tutto questo va ad indebolire ulteriormente l’economia di un territorio da sempre penalizzato che, invece di subire i danni di una cattiva informazione, dovrebbe essere aiutato. Ad un’attenta analisi, il resto dello stivale, compreso il Nord d’Italia, non sembra godere di condizioni ambientali miglio-


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ri. Le nanoparticelle scoperte dal dottor Montanari, particelle ultrafini di particolato più piccole di un capello e, quindi, anche delle famigerate polveri sottili, insidiano fortemente anche il territorio della pianura padana come rilevato dal Progetto upupa (ultrafine Particles in urban Piacenza Area) del Laboratorio di Energia e Ambiente di Piacenza

l’Analisi

(Leap) in seguito a una lunga e attenta campagna di campionamento dell’aria portata a termine con sofisticati macchinari. Le postazioni fisse in diversi luoghi di città e provincia, infatti, insieme ai rilevamenti ottenuti in movimento per le strade cittadine, hanno portato alla luce che la quantità e la concentrazione di queste componenti dannose varia a seconda del contesto e della stagione. Michele Giugliano, direttore delle ricerche e docente d’inquinamento atmosferico del Politecnico di Milano, ha spiegato, ad esempio, come riportato dal Corriere della Sera, che l’inverno offre le condizioni ottimali per il moltiplicarsi delle polveri ultrafini che trovano nel traffico, nelle emissioni industriali e nei sistemi di riscaldamento i complici ideali per la propria diffusione. È di circa un mese fa un altro preoccupante allarme che arriva dalla provincia di Lecco. una donna di Olginate ha denunciato ai carabinieri di aver acquistato in un supermercato della zona una confezione di carciofi freschi e che uno degli ortaggi, tagliandolo, sarebbe successivamente esploso a casa sua. L’episodio, che ha avuto dei precedenti in Italia sia nel 2003 che nel 2008, potrebbe essere stato causato da una reazione chimica legata a un fertilizzante usato nella coltivazione. In seguito all’accaduto, Carabinieri e Asl hanno avviato le indagini. Alla luce di questi inquietanti avvenimenti, è giusto operare massicci controlli sull’intero territorio nazionale e, soprattutto, combattere l’atteggiamento discriminatorio e omertoso di un certo tipo di informazione per arrivare a conoscere il reale stato delle cose.


il Disastro

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GIOIA TAURO, ARMI CHIMICHE SIRIANE CALAMITÀ AUTORIZZATE DALLE ISTITUZIONI rAFFAELE sANtIllO

erra dei fuochi: tre tra le parole più pronunciate in tutto il territorio nazionale negli ultimi mesi. Purtroppo, per svariati anni, nulla si è fatto per cercare di arginare il fenomeno della sepoltura di rifiuti pericolosi e speciali da

i quali hanno costituito un movimento (nato anche su Facebook) denominato ‘Diciamo no alle armi chimiche nel porto di Gioia Tauro’. Per saperne di più, abbiamo rivolto alcune domande ad uno degli attivisti del gruppo, Giuseppe Spino-

parte della malavita organizzata in Campania, nonostante, come dichiarato dal pentito dei Casalesi Carmine Schiavone, tutti sapessero quanto di orrendo stesse accadendo tra le province di Napoli e Caserta. Insomma, un disastro annunciato ma che ha colto di sorpresa tutti, anche quando la gente in Campania ha iniziato a morire per malattie, come il cancro, con un tasso spesso due volte superiore rispetto al resto d’Italia. A pochi chilometri di distanza, sempre nel martoriato Sud, in provincia di reggio Calabria, precisamente a Gioia Tauro, tra non molto si potrebbe consumare una nuova catastrofe ambientale, questa volta autorizzata dalle istituzioni. Il governo italiano, infatti, ha dato il via libera al trasbordo, da una nave all’altra, di container e bidoni contenenti armi siriane, a base di gas nervino, utilizzate per la distruzione di massa. Tutto questo avverrà, non si sa con precisione quando, proprio nel porto di Gioia Tauro. Si tratta di un’operazione ad altissimo rischio, tanto è vero che altre nazioni europee, che spesso in passato si sono occupate di attività di smaltimento di questo tipo, hanno rifiutato categoricamente l’incarico. Ci riferiamo alla Germania, Francia, Albania e ad altre regioni d’Italia come la Puglia, Sardegna e Liguria. Inevitabile è scoppiata la rabbia dei residenti di tutta la Piana,

so, il quale ha affermato: «Come un fulmine a ciel sereno, siamo stati travolti da questa terribile notizia. Anche i nostri politici hanno riferito di non sapere nulla e di aver appreso la novità solamente dai telegiornali».


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In cosa consiste l’operazione militare che avrà luogo nel porto di Gioia tauro? «Ci sarà un trasbordo, da una nave all’altra, di armi siriane, contenente gas nervino, utilizzate per la distruzione di massa. Da quello che sappiamo i container non toccheranno terra, ma saranno trasferiti in una nuova nave che successivamente provvederà a smaltire il materiale in diversi punti del Mediterraneo». Perché è stato scelto proprio il mar Mediterraneo? «Gli esperti dicono che in questo modo si rende l’operazione più sicura. Infatti, trattandosi di un mare chiuso, in caso di imprevisto, i danni sarebbero contenuti, rispetto a se accadesse nel mezzo di un Oceano». Quali possono essere i danni provocati da un imprevisto? «Disastrosi. Non lo dico io ma esperti in materia. Nel caso in cui dovesse esplodere l’intero carico, verrebbe contaminata un’area di 180mila chilometri quadrati. Se un solo bidone contenente armi al gas nervino dovesse cadere in mare, provocherebbe la morte di pesci per decine di chilometri. Se un essere umano dovesse respirare gas gli resterebbero appena venti minuti di vita». Quanto tempo durerà l’operazione di trasbordo? «Dalle 8 alle 24 ore». Nei giorni scorsi avete organizzato una manifestazione di protesta. Ce ne saranno altre? «Ovviamente. C’è un sit in permanente al porto e il prossimo primo febbraio ci sarà una grande manifestazione a Gioia Tauro per dire ‘no’ alle armi chimiche siriane. Siamo pronti a bloccare il porto via mare per non far avvicinare nessuna nave». l’operazione quando avrà luogo? «Non si sa nulla di preciso. Si tratta di un’operazione militare e quindi c’è il più stretto riserbo sia sulle modalità d’azione che sulla tempistica». Nel frattempo, il Pentagono ha diffuso la notizia che la Mv Cape ray, la nave cargo militare statunitense attrezzata per la distruzione delle armi chimiche siriane più pericolose, è salpata già dal suo porto base di Norfolk, negli Stati uniti, in

il Disastro direzione di Gioia Tauro. La nave dovrebbe arrivare nel porto calabrese tra due o tre settimane. Dunque, inizia ad esserci una delimitazione temporale: tutto dovrebbe avvenire intorno alla metà di febbraio. uno dei politici calabresi più attivi è rocco Sciarrone che, al fianco dei movimenti popolari, dice ‘no’ al trasbordo delle armi a Gioia Tauro. “La decisione – ha afferma l’esponente del Movimento Social Popolare in una sua recente conferenza stampa– di far arrivare queste navi in Calabria è stata della politica, nella fattispecie del presidente del Consiglio dei Ministri. I nostri rappresentanti, che hanno avuto un incontro a roma proprio con Letta, non hanno ottenuto nulla. Il governatore della regione Calabria, Vincenzo Scopelliti, ha barattato l’arrivo delle armi con una potenziale ‘Zona Franca’, che da venti anni ci viene promessa. Tutto questo è vergognoso. I sindaci della Piana devono intervenire assolutamente. Il primo cittadino di Gioia Tauro, con un’apposita ordinanza, deve provvedere alla chiusura del porto, affinché nessuna nave si avvicini alle nostre coste.

Le istituzioni hanno scelto la Calabria per effettuare questa pericolosissima operazione perché siamo un popolo gestibile, che non protesta. Ma questa volta diciamo basta. La gente non vuole più essere seviziata dallo Stato Italiano”. Anche la Confindustria calabrese si schiera con il ‘no’ secco: “un’operazione – fanno sapere gli industriali - del genere, aldilà della sicurezza tutta da dimostrare e per la quale esiste il problema dell’errore umano, nuoce all’ambiente imprenditoriale segnalando problemi ambientali gravi ai turisti che pensano di venire a trascorrere le vacanze in zona”. romeo, coordinatore del tavolo tecnico di tutela ambientale, ribadisce che aldilà della violazione delle convenzioni internazionali le quali stabiliscono l’intransitabilità di armi chimiche in qualsiasi territorio, esiste un problema nel metodo dello smaltimento delle armi chimiche: l’elettrolisi, anche in mare, porterebbe a disastri ambientali di grandi proporzioni, soprattutto nel Mediterraneo. Insomma, l’operazione ‘armi chimiche in Calabria’ sembra essere una vera e propria violazione delle più elementari regole di rispetto della democrazia. una gaffe del governo centrale alla quale, si spera, qualcuno ponga un immediato rimedio.


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IL “GIGANTE” MARSILI È ATTIVO

lo Studio

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L’OPINIONE DEGLI ESPERTI SULLA PERICOLOSITÀ DEL VULCANO

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ANNALISA CAstEllIttI

’Italia ha un’antica tradizione vulcanologica, risalente ai tempi di Plinio il Giovane, il quale nella lettera a Tacito definisce l’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. come la «notte più nera e più fitta di qualsiasi notte, quantunque fosse mitigata da numerose fiaccole e da

luci di varia provenienza». Non è un caso che l’Osservatorio Vesuviano, nato nel 1841 ed attuale sezione di Napoli dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, sia stato il primo osservatorio vulcanologico al mondo. Secondo il dati dell’INGV, sul territorio Italiano esistono almeno dieci vulcani attivi che hanno dato manifestazioni negli ultimi 10.000 anni: Colli Albani, Campi Flegrei (la cui ultima eruzione risale al 1538), Vesuvio (1944), Ischia (1302), Stromboli, Lipari (VIII sec. d.C), Vulcano (1888-1890), Etna, Pantelleria (1891) e Isola Ferdinandea (1831), ma solo Etna e Stromboli sono in attività persistente. Negli anni venti del secolo scorso è stato scoperto il vulcano Marsili, che prende il nome dallo scienziato italiano Luigi Ferdinando Marsili. Il vulcano è stato inserito,

insieme al Magnaghi (che si trova 220 km a sud-est di Napoli), al Vavilov (a 160 chilometri a sud ovest del golfo di Napoli) e al Palinuro (che dista appena sessantacinque chilometri dalla costa cilentana), fra i vulcani sottomarini pericolosi del Mar Tirreno.

Non è da escludere che il Marsili, il più grande vulcano d’Europa e del Mediterraneo, venga inserito nella lista dei vulcani italiani attivi. Il famoso vulcano sottomarino, lungo 70 chilometri e con una larghezza di oltre 30, si estende sui fondali del Mar Tirreno, tra Calabria e Sicilia. Il monte si eleva per circa 3000 metri dal fondo marino, raggiungendo con la sommità la quota di circa 450 metri al di sotto della superficie del mare. Il Marsili, dicono gli esperti, potrebbe ancora eruttare. A stabilirlo, con un recente lavoro pubblicato su “Gondwana research”, è stato un gruppo di ricerca internazionale che comprende l’Istituto per l’ambiente marino costiero del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli (Iamc-Cnr) e l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia di roma (Ingv). una campagna di esplorazione, cominciata nel 2006 a bordo della nave oceanografica “universitatis”, ha fatto un punto di chiarezza scientifica sulla natura di questo vulcano sottomarino, della cui potenziale pericolosità si discute molto, poiché è nota da tempo la sua attività sismica e idrotermale. «L’ipotesi più accreditata dagli studiosi – ha affermato Mattia Vallefuoco dell’Iamc-Cnr – era quella che considerava cessata, all’incirca 100.000 anni fa, l’attività eruttiva del vulcano». Tuttavia – ha precisato l’esperto – «nel corso della missione, finalizzata ad acquisire nuovi dati sui prodotti emessi dal Marsili e sulla loro età, è stata prelevata ad una profondità di 839 metri una colonna di sedimento che ha evidenziato due livelli di ceneri vulcaniche dello spessore di 15 e 60 centimetri, la cui composizione chimica risulta coerente con quella delle lave del vulcano». A quale età risalgono gli strati di questa “carota” di ceneri? «Le due analisi ese-


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guite sui gusci di organismi fossili contenuti nei sedimenti hanno fornito rispettivamente età di 3000 e 5000 anni», ha sottolineato Guido Ventura, ricercatore Ingv. I risultati

della ricerca, alla quale hanno collaborato anche l’università Gabriele d’Annunzio di Chieti, la Schlumberger Information Solutions di Madrid, la Leibniz university di Hannover e la società Eurobuilding Spa di Servigliano, è una prova del fatto che il vulcano ha eruttato in tempi storici. Sono quindi necessarie nuove ricerche per implementare un sistema di monitoraggio in grado di valutare la reale pericolosità di questo vulcano ancora attivo.

Ma quali conseguenze avrebbe una possibile eruzione del Marsili? Dopo i primi studi, iniziati nel 2005 nell’ambito di progetti strategici del CNr per mezzo di un sistema “multibeam” e di reti integrate di monitoraggio per osservazioni oceaniche, nel febbraio 2010 la nave oceanografica urania, del CNr, ha iniziato le ricerche sul vulcano sommerso. Sono stati rilevati rischi di crolli potenzialmente pericolosi che testimoniano una notevole instabilità. una regione significativamente grande della sommità del Marsili risulta inoltre costituita da rocce di bassa densità, fortemente indebolite da fenomeni di alterazione idrotermale; cosa che farebbe prevedere un evento di collasso di grandi dimensioni, a tal punto da scatenare un potente tsunami che investirebbe le coste della Campania, della Calabria e della Sicilia. Nello stesso anno il sismologo Enzo boschi, presidente dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia ha dichiarato che «il vulcano non è strutturalmente solido, le sue pareti sono fragili, la camera magmatica è di dimensioni considerevoli. Tutto ciò indica che il vulcano è attivo e potrebbe entrare in eruzione in qualsiasi momento. Il cedimento delle pareti muoverebbe milioni di metri cubi di materiale, che sarebbe capace di generare un’onda di grande potenza. Gli indizi raccolti ora sono precisi, ma non si possono fare previsioni. Il rischio è reale e di difficile valutazione. Quello che serve è un sistema continuo di monitoraggio, per garantire attendibilità».

In seguito al terremoto dell’Emilia del 2012 e allo sciame sismico che nello stesso periodo ha interessato Calabria e basilicata, Franco Ortolani, ordinario di Geologia e Direttore del Dipartimento di Pianificazione e Scienza del

lo Studio

Territorio ha lanciato l’allarme: «bisogna al più presto organizzare sistemi di difesa dei litorali». Ma essendo il Marsili sommerso tutte le operazioni si complicano e diventano molto costose. Infatti – ha osservato Giuseppe D’Anna dell’INGV – per il monitoraggio di un vulcano sottomarino «ci vogliono 10 volte gli investimenti rispetto a uno a terra» e questo vulcano «è più esteso dell’Etna, è su ben 70 km di lunghezza, non è un punto fisico». Ma c’è anche chi pensa al vulcano marino come possibile fonte geotermica. È questo infatti l’obiettivo del progetto italiano “Marsili Project Eurobuilding”, che si propone di «realizzare una centrale geotermica a mare sfruttando l’enorme giacimento di fluidi geotermici del vulcano sottomarino Marsili».

Il tema dei cataclismi nel Sud Italia, e del cosiddetto «anello di fuoco» che comprende tutti i vulcani mediterranei (il Vesuvio, l’Etna e i vulcani delle isole Eolie), è stato affrontato nella trasmissione televisiva “Mistero” (30 gennaio 2014), nella quale il Marsili è stato definito come «una bomba ad orologeria pronta a scoppiare». Molti gli interrogativi sugli effetti devastanti di un’imminente catastrofe: ma ci sono reali segnali della possibile ripresa dell’attività vulcanica al Sud? La notte tra il 13 e il 14 gennaio 2014 si è avvertita una scossa di magnitudo 4.0 nelle isole Eolie, mentre il 29 dicembre 2013 una forte di terremoto (di magnitudo 4.9) si è sentito a Napoli e in tutte le città circostanti con epicentro tra Campania e Molise. Secondo Sabrina Mugnos, geologa e scrittrice,

«un’eruzione sottomarina potrebbe alterare delle grosse porzioni di roccia che sono in equilibrio e queste potrebbero franare sotto il mare, creando quindi delle perturbazioni che provocherebbero onde di tsunami». Alcuni esperti, tra cui Giampaolo Giuliani, il quale aveva previsto il violento terremoto de L’Aquila del 2009, hanno ipotizzato che sul Meridione, e precisamente nella zona compresa tra la Sicilia orientale e la Calabria meridionale, si abbatterà un sisma di magnitudo 7.5 della scala richter. Ma è possibile prevedere i danni dei terremoti? Qualunque sia la risposta dei geologi, quello che conta è prepararsi ad affrontare ogni eventualità.


l’Impresa

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I VINI DELLA ENODELTA, UNA FAMIGLIA E UNA PASSIONE. BORBONICA

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GErMANA GRAssO

il richiamo della terra che ha indotto Antonio Caputo a recuperare le sorti dell’antica azienda di famiglia, fondata dal nonno ed in seguito abbandonata. Oggi l’azienda vitivinicola campana Enodelta produce Falaghina, Aglianico, Fiano di Avellino, Lacryma Christi, prestigiosi vini che portano nei calici il sospiro di una terra nobile e ferita dalla storia e dall’attualità. Neoborbonico della primissima ora, Caputo veicola con i suoi prodotti l’identità del Sud, dedicando i suoi vini ai borbone ed adottando lo stemma della r.C. borbonica come marchio aziendale. L’ultimo nato, lo spumante Extra Dry da uve Falanghina, è “esportato anche nella patria dello champagne”, afferma Caputo soddisfatto, pronto alla nuova sfida di spumantizzare l’Asprinio, “quello vinificato dal nonno”.

da imprenditore meridionale quali sono, secondo lei, le maggiori difficoltà da affrontare al sud? «bisogna triplicare le difficoltà burocratiche comuni a tutta l’Italia. La burocrazia spesso opera contro le piccole imprese a causa del potere discrezionale dei funzionari pubblici. E se l’imprenditore cerca di far valere i suoi diritti, sa che va incontro a percorsi lunghi ed onerosi e, quindi, spesso desiste. Al Nord è più radicata la concezione che l’impresa porti benessere e sviluppo».

lei si confronta sia con il mercato interno che con il mercato estero. Quali sono le differenze? «Quello locale è un mercato ristretto e difficile, soprattutto ora in tempo di crisi. All’estero c’è più serietà. Ad esempio se qualcuno non tiene fede ad un pagamento, c’è una maggior certezza della pena. Comunque non è semplice creare una clientela internazionale, soprattutto negli ultimi tempi in cui la concorrenza è aumentata. Noi ci siamo affermati all’estero grazie alla partecipazione a fiere internazionali per trent’anni».

Quali conoscenze bisognerebbe importare dall’estero? «Probabilmente dovremmo importare la cura del marketing, la costruzione dell’immagine, che è utile soprattutto

quando ci si rivolge a nuovi mercati, dove c’è poca conoscenza del prodotto, come in Cina. In Francia, invece, dove c’è una maggiore consapevolezza del mondo vitivinicolo, si apprezza il prodotto piuttosto che il packaging. Il vino campano, nel panorama vitivinicolo italiano all’estero, rappresenta ancora la Cenerentola. La fanno da padrone i veneti, i piemontesi, i toscani, i siciliani, ma i vini campani hanno un potenziale di esportazione ampio. bisognerebbe investire seriamente in promozione all’estero, magari anche con il sostegno delle istituzioni».

Nei suoi prodotti c’è sempre riferimento ai Borbone ed a ciò che hanno rappresentato per il Mezzogiorno d’Italia. lei si definisce “borbonico della primissima ora”. In che senso? «Cito il mio amico, il professore riccardo Pazzaglia, uno dei fondatori del movimento neoborbonico, che si definiva neoborbonico repubblicano. Sembra un controsenso, ma in realtà entrambi ci rifacciamo ad un periodo storico in cui grazie anche all’opera dei borbone come statisti, il Sud riuscì a diventare una potenza economica. Grazie a loro noi siamo stati per la prima ed ultima volta indipendenti, dopo c’è stata la colonizzazione piemontese. Personalmente ero neo-borbonico prima ancora della nascita del movimento, poiché più di 25 anni fa aderii alla Lega Sud e ne divenni anche il segretario provincia-


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l’Impresa

le. Ho adottato lo stemma borbonico come marchio aziendale per comunicare che la nostra terra non è sempre stata inquinata e che potrebbe diventare nuovamente quel territorio paradisiaco di una volta. Per me quel vessillo è un simbolo. Venti anni fa quando iniziai ad esporre la bandiera borbonica negli stand alle fiere, nes-

ma non è nata come tale. Alle spalle ci sono interessi forti che mirano ai fondi per la bonifica. Si tratta delle stesse persone che hanno inquinato. Intanto l’immagine dell’agroalimentare campano sta ricevendo un danno irreversibile. E così si fanno anche gli interessi delle industrie del Nord».

suno sapeva che fosse il simbolo del più grande stato preunitario italiano. Ora la mia soddisfazione è che il mio vino è diventato un veicolo della nostra identità. Ci tengo a sottolineare che quando feci questa scelta commerciale, non mi convenne, poiché eravamo classificati come nostalgici di Franceschiello».

Quindi lei pensa che ci sia una speculazione dietro alla problematica della terra dei fuochi? «Sì. Al Sud non pensiamo alle conseguenze. In questo siamo molto più italiani di quelli del Nord, che difendono i loro prodotti. Qui non si riesce ad acquisire la coscienza dell’importanza dei prodotti per l’economia meridionale. I nostri problemi sono nati quando ci siamo rassegnati a diventare italiani, sebbene a parer mio non lo siamo mai diventati».

Vuole condividere con i nostri lettori alcuni aneddoti legati alla sua fede borbonica? «Stavo andando al Vinitaly con un concorrente, che aveva caricato i suoi vini nel bagagliaio della mia auto. Non sapevo che alla sua nuova linea di vini aveva apposto lo stemma di casa Savoia, e quando vidi quel vessillo accanto a quello dei borbone sulle mie bottiglie, gli intimai di scendere. È come mettere insieme il diavolo e l’acqua santa (ride). Abbiamo continuato il viaggio insieme: non potevo abbandonarlo sulla autostrada! un altro evento, che ebbe eco anche sui giornali, fu quando gettai in acqua un quadro, esposto nella Casina vanvitelliana, raffigurante Vittorio Emanuele. Volevo far notare alcune incongruenze storiche. Del resto questo personaggio è stato ritenuto tra i responsabili del tradimento della patria durante la seconda guerra mondiale, quindi non ha senso esporre la sua immagine in un edificio appartenuto a Ferdinando IV di borbone».

Recentemente si parla tanto di inquinamento tossico nella terra dei fuochi, che sta penalizzando l’immagine della produzione agroalimentare campana. secondo alcuni si tratta di una campagna mediatica contro il sud. lei cosa ne pensa? «Secondo me è una campagna mediatica contro il Sud,



L’EPISODIO DI BACOLI APPRODA IN SENATO

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l’Intervento

SIMONA BuONAuRA

el numero scorso de Il brigante vi abbiamo parlato della incresciosa vicenda che si è verificata al comune di bacoli in cui alcuni esponenti di Pd e PDL in occasione della preparazione del bicentenario

della nascita dell’Arma dei Carabinieri paragonava i briganti, che hanno lottato per il proprio territorio, ai camorristi, che distruggono il loro territorio per inseguire denaro e potere, in quell’occasione solo i consiglieri Adele Schiavo e Josi Gerardo Della ragione, che è stato vittima nei giorni scorsi di un incendio doloso avvenuto nella salumeria di famiglia, avevano difeso l’impresa eroica dei briganti. Il vergognoso episodio ha sollevato polemiche che grazie all’intervento del Senatore Sergio Puglia del M5S sono arrivate in Senato al duplice scopo di accendere i riflettori a livello nazionale di questo episodio e di porre fine a questa campagna informativa distorta. Ecco l’intervento di Sergio Puglia in Senato durante la 178ª seduta pubblica (pomeridiana) di Mercoledì 29 gennaio 2014: Sulle iniziative per il bicentenario della fondazione dell’Arma dei carabinieri: “Signor Presidente, il 5 giugno 2014 ricorrerà il bicentenario della fondazione dell’Arma dei carabinieri, una ricorrenza di profonda e significativa rilevanza storica per tutta la collettività nazionale, che

riconosce nell’Arma una delle istituzioni più solide del Paese. Tuttavia, c’è da rilevare una cosa. L’ANCI, l’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia, ha lanciato un’iniziativa chiedendo ai Comuni di organizzare qualcosa proprio in riferimento a questo giorno. bene. Però c’è una piccola particolarità. Mi è stato segnalato che in alcuni Comuni, quando si ringrazia l’Arma ed è giusto che venga ringraziata – lo si faccia per la lotta alla mafia (ed è giusto che sia così) ma anche per la lotta alle bande di briganti. Ora, signor Presidente, storicamente la definizione di briganti viene data a gruppi di persone che stavano difendendo il proprio territorio. Quindi, la decisione di questi Comuni di introdurre questa definizione assimilandola a quella della camorra è totalmente sbagliata perché il titolo che viene dato a queste persone che difendevano la loro terra è un titolo dispregiativo, e non è corretto: bisogna, infatti, riaprire alcune pagine della storia, senza nulla togliere a quello che oggi siamo (perché siamo una grande Nazione unita, e questa è una cosa fondamentale), per sottolineare semplicemente che quelle persone stavano lì per difendere la loro terra, il loro territorio, da un assetto politico

che stravolgeva quello esistente. Va detto che finalmente qualcosa comincia a muoversi in questo senso, il senatore Puglia lo scorso Agosto aveva fatto un altro intervento relativo a questa tematica prendendo la parola in Senato per ricordare la strage avvenuta a Pietrarsa il 6 agosto del 1863 in cui sotto i colpo della baionetta dei bersaglieri di stanza a Portici morirono 7 operai mentre altri 20 riportarono ferite più o meno gravi. Ancora una volta ci troviamo a sottolineare l’importanza di rendere alla storia la realtà oggettiva di quanto accaduto perché per andare avanti bisogna essere coscienti degli sbagli del passato ed allo stesso tempo bisogna rendere omaggio ed offrire alle nuove leve una corretta collocazione storica a coloro che condussero la loro battaglia contro un’ invasione che ha condotto il sud verso il baratro della incertezza.


l’Identità

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LA BEATIFICAZIONE DI MARIA CRISTINA DI SAVOIA INTERVISTA A CARLO DI BORBONE GINO GIAMMARINO

Per capire cosa si è vissuto sabato 25 febbraio 2014 nella basilica di Santa Chiara a Napoli bisogna esserci stati. Sottratta per un giorno ai nuovi barbari del centro storico,

Castro, e da SAr il Principe Don Pedro di borbone-Due Sicilie, Duca di Noto, in rappresentanza di suo padre S.A.r. l’Infante Don Carlos

quindicenni annoiati e ineducati armati di cellulare e bomboletta di vernice spray con le quali violentare le testimonianze del nostro passato e rovinare il loro futuro, la costruzione offriva lo spettacolo di una nobiltà ritrovata per una città che nobile lo fu sul serio. Tanto sorvegliata fuori, tanto sovraffollata all’interno, nonostante il severo limite degli inviti. Ma una volta varcata la soglia, si veniva catapultati in un’antica fiaba, con le teste coronate d’Europa intervenute per celebrare la beatificazione di Maria Cristina di Savoia, la reginella Santa, che ha compiuto il nuovo miracolo di riappacificare i due rami della real Casa di borbone, da anni lacerati da contrasti interni sulla legittimità della successione e dei titoli.

di borbone-Due Sicilie, Duca di Calabria a Napoli il 25 gennaio 2014, proprio nel giorno della beatificazione della regina Maria Cristina delle Due Sicilie. La lungamente attesa beatificazione è stata resa possibile dalla inarrestabile volontà di Papa Francesco, al cui indirizzo di pace si sono uniformati anche i discendenti di entrambi i rami della real Casa che si sono dichiarati “…fermamente intenzionati a superare tutti gli ostacoli che si frappongono alla pace e all’armonia familiare”. Non ci soffermiamo sul gossip e sui presenti, tanto in Santa Chiara quanto nelle varie cene tenutesi in città: non è questa la testata più adatta per un genere giornalistico di si occupa solo occasionalmente della nostra storia. Ma va sottolineato come, alla luce di questi ultimi accordi, il riferimento borbonico attuale diventa il Duca di Noto

L’accordo è stato firmato da SAr il Principe Don Carlo di borbone delle Due Sicilie, Duca di


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in luogo del Duca di Castro, familiarmente chiamato “Carlo” per l’affetto che fino ad oggi gli hanno tributato i napoletani. Con lui abbiamo fatto una breve chiacchierata negli stupendi vialetti del Chiostro, per un giorno tornati ai fasti di una capitale europea…

l’Identità

Che effetto le ha fatto rivedere Napoli, almeno per un giorno, nuovamente capitale tra le monarchie europee, soprattutto in un momento in cui l’Europa è così discussa?

«Ma sa, Napoli per me rappresenta sempre una città estremamente accogliente nei miei confronti, nei confronti della mia famiglia…Dunque, è sempre con immensa gioia che torno qui. A maggior ragione, oggi, in questa splendida occasione».

Visto che la sua famiglia ha questo legame così solido con la città, ci sono programmi per un prossimo eventuale trasferimento da parte sua? «beh, in effetti non siamo lontanissimi, roma è a sole due ore di distanza, è questo ci consente di venire abbastanza spesso. Cercheremo di venire ancora più spesso».

Quel’è stato il senso di questa giornata qui nella Basilica di santa Chiara?

«Per noi è stata una cerimonia molto bella e per noi una giornata bellissima, molto gioiosa. Per noi famiglia, ma penso anche per la città di Napoli. Tra l’altro il Cardinale Sepe, con la sua bella omelia, ci ha ricordato le doti di Maria Cristina, conosciuta qui come “La reginella Santa”, e siamo veramente molto felici che finalmente, dopo tanti anni di attesa, oggi sia diventata beata».


i Resti

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rITA NAPPI

no dei simboli più significativi della repubblica Partenopea è senz’altro il Forte di Vigliena. Questo monumento nazionale si trova a San Giovanni a Teduccio nei pressi della centrale elettrica, oggi zona di degrado. Il forte fu costruito intorno al XVIII sec. Per volere dell’allora Viceré Juan Manuel Pacheco y Zuniga, marchese di Villena, da cui prese il nome. Alto 6 metri e

con un fossato largo 9 metri e profondo 6, esso aveva un ruolo importantissimo per fronteggiare le navi nemiche e difendere le mura del regno delle Due Sicilie. Costruito con pietre di tufo e pietra vesuviana, aveva ai lati frontali alcuni cannoni e numerose feritoie dove vi si posizionavano i fucilieri. Ebbene, fu teatro di eventi decisivi per la nascita futura della repubblica Napoletana. L’11 e il 12 giugno 1799, il Forte fu assediato dai sanfedisti, i quali erano per lo più calabresi, assoldati dal Cardinale ruffo.

Egli, dopo essere stato respinto dalle truppe navali di Francesco Caracciolo, il 13 giugno 1799 riuscì a circondare le mura del Forte. Sicché il comandante ed abate Antonio Toscano, fedelissimo al re Ferdinando I di borbone e patriota del regno di Napoli, visto l’accerchiamento e la cruenta battaglia, ordinò di sparare alle polveri commettendo un vero e proprio attacco kamikaze. All’epoca Dumas dichiarava quanto segue: “ In quel punto, s'intese una spaventevole detonazione, ed il molo fu scosso come da un terremoto; nel tempo istesso l'aria si oscurò con una nuvola di polvere, e, come se un cratere si fosse aperto al piede del Vesuvio, pietre, travi, rottami, membra umane in pezzi, ricaddero sopra larga circonferenza.” Successivamente, questo avamposto, diventato ormai

un cumulo di macerie, venne rivalorizzato da Mattero renato Imbriani nel 1891 nominandolo, dopo avere presentato una proposta di legge, come monumento nazionale. Oggi, in via Marina dei Gigli, chiamata anche Strada Vigliena, non resta altro che una cinta di mura crollate, circondate da cumuli di monnezza e cadaveri di cani. Eppure, dovrebbe essere un monumento Nazionale: di solito i monumenti vengono tutelati, riqualificati; ma basti pensare a ciò che sta accadendo a Pompei per rendersi conto che tutto sommato, le opere pubbliche non hanno

il giusto valore. Strada Vigliena potrebbe diventare un polo turistico d’eccezione, grazie anche alla vicinanza del porto, ma evidentemente non ci sono fondi ( forse la volontà) per bonificare e per rendere quel luogo, un tempo fiore all’occhiello del regno delle due Sicilie ed ora cimitero cinofilo e rifugio dei clochard, un punto focale per la rinascita della zona di Napoli Est. L’ennesimo colpo mancato da parte dello Stato Italiano per migliorare ed incentivare il turismo nella nostra città. Il sacrificio di quegl’uomini dev’essere commemorato. Essi sono martiri ed al tempo stesso eroi; ragion per cui, abbiamo l’obbligo ed il dovere di diffondere la verità e

riscrivere un pezzo di storia, che spesso viene omesso. Ahimè, potrebbe essere il primo attacco kamikaze della storia, seguito dal famoso Pearl Harbour e quello dell’11 settembre 2011. un triste ed obliato primato. A buon rendere!


PARTE DA NAPOLI LA RINASCITA DEL MEZZOGIORNO

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ANNAMArIA CERIO

giunta al terzo appuntamento l’iniziativa dal tema “Il riscatto di Napoli e della Campania, la rinascita del Mezzogiorno”, promossa da Azione Meridionale, unitamente al Movimento unitario Giornalisti Campania, Associazione studi e ricerche economiche Kom-

petere, MODAVI Federazione Provinciale di Napoli ONLuS, e l’Associazione unione per Tutela Diritti del Cittadino. Il dibattito del 27 Gennaio ha visto nella figura dell’Onorevole Andrea ronchi, ex Ministro per le Politiche Europee, l’invitato al centro del meeting tenutosi all’Istituto Denza a Capo Posillipo. Moderato da Massimiliano Musto – presidente dell’Associazione KOMPETErE – e presieduto da Mimmo Falco – Presidente di Azione Meridionale –, il dibattito ha come sempre riscosso gran successo, richiamando un auditorium attento e presente nonostante un temporale il blackout che ha paralizzato buona parte della città per circa mezz’ora. Il benvenuto ha avuto luogo con una breve introduzione di Mimmo Falco sullo scopo

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l’Incontro

degli incontri, e sulle difficoltà di Napoli, accentuate dal maltempo che ne ha ulteriormente intaccato la già tanto maledetta viabilità. ricollegandosi a tale input, è stata la volta dell’infervorato intervento dell’Onorevole ronchi, basato sulla necessità di una formazione idonea a creare una futura (e più degna) classe dirigente; sull’economia, in corrispondenza con la cattiva gestione degl’innumerevoli attrattori turistici che costellano il belpaese; e sulla risorsa dei fondi destinati all’Italia dall’unione Europea, e il corretto impiego degli stessi nella creazione d’infrastrutture, di centri di ricerca, e contestualmente di opportunità di lavoro. Particolare rilievo ha assunto anche la questione della crisi economica – con i suoi sviluppi relativi alla condizione dei giovani e delle imprese. L’eccezionale desiderio di rivincita, nonché l’anelito a costruire una società più giusta ed efficiente sono giunti però ad essere palpabili nel momento a chiusura del dibattito, dedicato alle domande formulate da un’autorevole quanto variegata platea. A interfacciarsi con ronchi si sono susseguiti Don Michele barone – specializzato

MIMMO FALCO: IL BILANCIO

nche in questo appuntamento si è parlato animatamente di sud e di sviluppo, di riscatto e di ambiente: facciamo il bilancio di questa serata? «beh, guardi, se tutti noi non cambiamo il metodo di fare politica, non andremo molto lontano. I partiti non ci devono interessare, la società civile deve diventare la coscienza critica della politica meridionale. Dobbiamo essere noi a dire ai politici cosa hanno fatto di buono e cosa “non” hanno fatto, ma soprattutto cosa c’è da fare ancora per sviluppare il mezzogiorno. Questa è la nostra missione, quello che ci deve animare e che dobbiamo mettere in campo».

sono passate meno di quarantotto ore da quando tante teste coronate d’Europa sono tornate a Napoli a sancire un accordo con il quale i due rami della

Real Casa di Borbone si sono riuniti… «Io direi che il lavoro che stiamo svolgendo noi va nella stessa direzione, quella dell’unità».

Infatti nei vostri appuntamenti possiamo testimoniare di come e con quanta voglia di fare tanti soggetti diversi vengono riuniti e messi a confronto con una finalità ed un riscontro di partecipazione veramente encomiabili… «Ma io ritengo che questa sia più che importante, fondamentale per quel cambiamento di mentalità di cui parlavamo prima. Le teste coronate, lo ricordiamo, sono venute qui per partecipare alla beatificazione di una regina napoletana, borbone, che è un onore per il Mezzogiorno d’Italia». (g.g.)



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LAZZARI, BRIGANTI & CAMORRISTI: UN DISPREZZO FIGLIO DELL’IGNORANZA

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il Confronto

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rICCArDO GIAMMARINO

a consapevolezza di un passato di gloria, andato in frantumi con l'unità d'Italia, va purtroppo di pari passo con la confusione che offusca spesso le dinamiche di un altro periodo storico per il sud molto importante, ossia il 1799. Sebbene la figura del brigante sia oggi riconosciuta dai più come quella di un eroe, le origini dello sprezzante appellativo nascono proprio nel '99, quando il popolo, lazzaro che non capì la rivoluzione borghese che istituì la repubblica partenopea, fu definito dai padroni francesi brigans. Ma ad oggi i lazzari che scacciarono l'invasore francese nessuno li ricorda e spesso il loro nome continua ad essere infangato anche dagli intellettuali del meridionalismo. Ma qual è attualmente la differenza tra i lazzari del '99 ed i briganti?

I lazzari costituiscono la prova che il pensiero unico dei giacobini può essere sconfitto: non a caso, instaurata la repubblica partenopea, la borghesia che scacciò il re, ma che delle abitudini del popolo non conosceva granchè, non fu capace di dare risposte alle sue esigenze, riempiendolo di tasse e parlandogli in francese dalle pagine de Il Monitore. Quando questo capì la natura della rivoluzione di corte ed insorse, i nuovi padroni furono costretti ad abbandonare il Castel Sant'Elmo in cui si erano rinchiusi, sparando cannonate sul popolo e giustificando il proprio fallimento colpevolizzando il napolitano, lazzaro ed ignorante, incapace di intendere gli "alti" principi della rivoluzione. Giusto per ricordarlo, gli stessi che oggi spingono gli americani a democratizzare il mondo. Ma le vicende che vedono protagonisti i lazzari insegnano alla storia che le sommosse popolari possono avere esito positivo e ricordare un sud vincente.

La natura del brigante è la stessa del lazzaro, un combattente del sud, ma sulla sua immagine gravita un fattore che gli consente di essere ricordato in maniera quasi inoffensiva. Il brigante del 1861 ha perso la propria guerra, è stato disintegrato ed a distanza di 153 anni la sua figura non risplende di luce propria, ma di luce riflessa, poichè si è sviluppata un'immagine mitologica, anzi romantica e cioè quella di un eroe che da la vita per la sua terra. E' vero, ma la sua sconfitta militare gli permette di essere ricordato non per il suo spirito guerriero o

per l'attaccamento alla terra, ma per il semplice fattore emotivo. Per le vittime del fascino romantico che trasmette è più facile ricordare la sua fiera immagine che non il fine per cui il brigante ha dato la vita. Di tutt'altra natura è ovviamente la matrice che muove l'esistenza del camorrista così come lo conosciamo oggi. Sia “lazzari” che “briganti” sono degli aggettivi usati come dispregiativi, e per molti, quindi, da assimilare ai camorristi del loro tempo. Ma se i primi due personaggi erano guerrieri, eroi e combattenti, i camorristi certamente non possono essere accomunati a dei patrioti che si sono immolati per la propria terra. Quella che chiamano trattativa Stato-mafia nasce con l’unità d’Italia, quando i piemontesi crearono una forza corrotta territoriale per riuscire a governare la loro colonia. Tutt’oggi la camorra non è altro che il braccio armato dello Stato, come hanno più volte dichiarato gli stessi pentiti, con l’ultimo caso in cui Schiavone ha

affermato che senza lo Stato la camorra non esisterebbe: si potrebbe parlare tuttalpiù di banditi di strada. Insomma in ottica militare i camorristi sono i kapo d’Italia, i figli dei generali piemontesi che deportavano i meridionali nel lager di Fenestrelle nel 1861 e che oggi sono autori del genocidio della Terra dei fuochi, sono devoti al dio denaro e non agiscono se non per convenienza. Insomma, per capirci, se fossero ribelli combatterebbero lo Stato, non per lo Stato.



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LA GROTTA DI MARIA CRISTINA DI SAVOIA

l’Arte

GIuLIANA CAlOMINO

n un punto nascosto del bosco di Capodimonte, attraverso un sinuoso e scosceso percorso, circondato da alti alberi e vivace vegetazione, c'è un luogo suggestivo, che sa di storia antica e misticismo. È una caverna, conosciuta da tutti come “la grotta di Maria Cristina”. un'antica cava, che servì per lungo tempo per l'estrazione del prezioso ed economico materiale giallo, il tufo, con cui è stata costruita gran parte della città di Napoli e che all'epoca fu usato per erigere la vicina reggia. In seguito, nell'Ottocento il sito fu riadattato ad imitazione di una catacomba, quasi un richiamo al cimitero di San Gennaro, che si trova nei pressi, o ai sepolcri romani, che all’epoca, erano, seppur in minima parte, ancora

presenti lungo alcune strade di Capodimonte. un esempio di questa ispirazione fu infatti il mausoleo della Conocchia, abbattuto però negli anni Settanta del Novecento. La grotta di Maria Cristina fu modificata con esattezza nel 1834, e, guardandosi intorno, emerge lampante l'ispirazione della struttura alle catacombe romane. Furono costruiti veri e propri colombai, atti a contenere le ceneri dei defunti e ancora oggi al suo interno, lungo le pareti, si possono vedere resti di loculi, edicole votive e decorazioni pittoriche. Inoltre sulla via che conduce al sito, e in prossimità del suo accesso, erano sistemati anche mausolei di pietra, che simulavano la Via dei Sepolcri. I borbone qui fecero inserire riproduzioni di reperti greci e romani. Maria Cristina di Savoia, prima moglie di Ferdinando II di borbone, fu una regina d'una bellezza seria e soave: alta di statura, bianca di carnagione, ma sfortunata. Morì non ancora ventiquattrenne per i postumi del parto, nel dare alla luce l'unico figlio, Francesco, che sarebbe salito al trono e sarebbe stato l'ultimo re del regno delle Due Sicilie. Francesco sarebbe poi stato educato nel culto di sua madre, chiamata la regina Santa. Era infatti una donna molto devota e si dice che amasse raccogliersi nella grotta in solitaria preghiera. In effetti la caverna è un'oasi di tranquillità. Lontana dal trambusto del centro e immersa nel verde, è il luogo ideale per chi voglia raccogliersi in solitudine. Ma attorno ad essa da sempre circolano leggende. È la sorte di tutti i luoghi suggestivi e avvolti da un aurea di mistero, che si rafforza in una città come Napoli, così ricca di miti. Da sempre la grotta ha alimentato le fantasie dei ragazzini che qui si sfidavano in prove di coraggio, e

per farsi paura si raccontavano che qui Maria Cristina era solita trascorrere le giornate non solo per pregare, ma anche per incontrare i suoi amanti, che, come una mantide religiosa, ammazzava buttandoli dall'alto nella cava. Così si spiegavano il cumulo di terra in corrispondenza dell'apertura. Storielle piene di fantasia che solo un luogo pieno di fascino può suscitare. Sono difatti noti i sentimenti religiosissimi ed estremamente devoti di Maria Cristina: cristiana fervente, si trovò a vivere in una corte il cui stile di vita era molto lontano dalla sua sensibilità. Nonostante l'esuberanza del marito, ella riuscì a ingentilirne, se non i costumi, perlomeno la politica, rendendola più democratica. Nei pochi anni in cui fu regina riuscì a impedire l'esecuzione di tutte le condanne capitali, e finché ella

visse tutti i condannati a morte furono graziati. Non ebbe comunque l'opportunità di avventurarsi in altre ingerenze politiche: si dedicò prevalentemente ad azioni di bontà verso i poveri e i malati. Da tutti i napoletani era così conosciuta come la "reginella Santa"e si narra che insieme al marito recitava il rosario tutta la notte per prendere decisioni sullo stato il giorno dopo. una virtù tale da essere confermata dalla recente beatificazione, ultimo atto di una regnante di grande integrità.


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CARNEVALE AL PROFUMO DI MARE

la Gastronomia

a cura di rOSI PAdOVANI

…e piove! Ecco qua. Questo febbraio corto e amaro si presenta già male: polare, ghiacciato, “Invernale”. A noi, che ci piace il sole e non ci piace di stare chiusi in casa, non ci piace il freddo, e siamo tutti meteoropatici, che - nun mi cuntrariate, oggi sto’ già nervosa, ‘sta jurnata è schiarata malamente...Eppure anche quest’anno torna il Carnevale. Vado in cucina. Quasi quasi metto su un caffè, o mi faccio una camomilla? Ma già l’altra dimensione s’impossessa della mia mente, decollo nella macchina del tempo, shuttle degli affetti, luna park delle emozioni, vago con la fantasia, sogno l’azzurro del mare. Luccichii vibranti si poggiano sull’ indaco di questo immenso tappeto di sogno, abissi di coste increspate incastrate tra saggi uliveti senza tempo. Il Cilento, quello almeno non

ingredienti Ripieno

250 g. mazzancolle 250 g polpa di salmone 250 g calamaretti 500 g cozze una carota uno scalogno un gambo di sedano prezzemolo uno spicchio di aglio 4 cucchiai olio di oliva 1/2 bicchiere vino bianco Salsa al fumetto

100 g farina 100 g burro 5 dl latte 5 dl fumetto di pesce 100 g parmigiano

è ancora inquinato.

E se invece della solita lasagna al ragù, ( per carità, tanto di cappello alla regina della cucina partenopea!) preparassi una bella lasagna di mare? Onore e merito alla Dieta Mediterranea, Patrimonio Culturale dell’umanità, per prevenire tumori e malattie cardiovascolari, grazie ai fosfolipidi del pesce, agli acidi monoinsaturi dell'olio d'oliva, alle fibre e vitamine di frutta e verdura. Mi decido coraggiosa a prendere di petto il mio “Guarracino”, e con gesti meticolosi spello, taglio e affetto sardelle, seppie, cozze, e calamari, alternativi pesci chic e snob crostacei che invece di far parte di quella sonora e divertente guerra cantata dall’indimenticabile roberto Murolo, finiscono saporiti nella mia lasagna, all’insegna della Dieta Mediterranea!

Preparate il fumetto di pesce con tutti i ritagli e le lische del pesce (senza pelle, branchie e pinne) e le teste e carapaci delle mazzancolle, un piccolo scalogno, una costa di sedano e una carota, prezzemolo, timo, alloro, 5-6 grani di pepe nero, 2 litri di acqua, un cucchiaio di succo di limone, 2 dl di vino bianco. Cuocete tutto insieme a fuoco moderato, 30 minuti schiumando. Non salate, filtrate prima di utilizzare. Fate sciogliere 100 g di burro con 100 g di farina, tostate per due minuti ed aggiungete 5 dl di latte e 5 di fumetto di pesce. Mescolate con una frusta e portate lentamente ad ebollizione, per 10 minuti. Aggiustate di sale e pepe. Spegnete la fiamma e aggiungete 100 g di parmigiano grattugiato.

Preparazione

Pulite il pesce e tagliatelo a pezzetti (le cozze in un tegame coperto sul fuoco a fiamma moderata fino all'apertura delle valve per estrarre il mollusco). In un tegame soffriggete dolcemente il trito di odori (scalogno, sedano, carota e uno spicchio d'aglio) in un velo di olio. Aggiungete tutto il pesce, e mescolate a fiamma vivace con 1/2 bicchiere di vino bianco che lasciate evaporare, salate, pepate e coprite lasciando cuocere a fuoco moderato per 10 minuti; unite le cozze poco prima di fine cottura e cospargete con prezzemolo tritato. ungete una pirofila da forno con poca salsa al fumetto, disponete una sfoglia di lasagna all’uovo precotta, spalmarvi sopra uno strato di salsa, coprite con il pesce e ripetete queste operazioni fino ad esaurimento degli ingredienti finendo con la salsa. Passare in forno preriscaldato a 180° per circa 20 minuti, senza farla seccare, ma solo dorare. Servite guarnita di mazzancolle dorate. .

CIBO & ChAt La posta di rosi rosi@ilbrigante.com


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il Cinema

…e la camorra in piazzetta

itorniamo a parlare di un attivissimo rocco Papaleo, dopo l’incontro-intervista di qualche mese fa, a causa dell’ultimo film che lo vede protagonista assieme a Paola Cortellesi, “un boss in salotto”, appena uscito nelle sale cinematografiche (rimaste). Il testo è opera della penna del regista Luca Miniero (in collaborazione con quella di Federica Pontremoli), già autore dei due “benvenuti” (prima al Sud e poi al Nord) campioni d’incassi quanto

più a Nord perfino di una Milano o di una Torino, non consente facili ricorsi agli stereotipi. La Cortellesi è Cristina, madre e ferrea formatrice di una famiglia tutta ispirata alla perfezione: bella, benestante e inserita nei ritmi ossessivi della nuova modernità montana. un bel marito e due figli, uno per sesso, perfettamente a loro agio nella stucchevole ed intoccabile casa perfetta dove tutto è misurato al posto giusto. E’ la “resurrezione” del povero zio

abbondantemente infarciti di luoghi comuni sugli uni e sugli altri, ma con il punto di vista -tutto romano- del “… volemose bene…”. In questo caso, però, le cose vanno meglio in quanto l’opera non deve scopiazzare nessun cugino francese, proponendo una storia meno oleografica e più vicina alla realtà del momento. Già lo scenario altoatesino in cui si muovono i personaggi,

Ciro (appunto Papaleo), materializzatosi dal paesino campano da cui come la sorella Carmela (e non Cristina)- proviene per godere degli arresti domiciliari fino al processo che lo vedrà imputato come “boss” di un clan camorristico, a rimescolare tutte le carte del mazzo che finiscono disordinatamente in giro. A questo punto saltano tutti gli schemi: Cristina scopre che essere Car-

mela non è poi così male, la piccola Fortuna si innamora letteralmente di questo zio in tuta fluorescente, canottiera traforata e qualche chilo di catene d’oro addosso, il fratellino maggiore Vittorio trova in lui il punto di riferimento forte che un padre troppo debole non sa essere, e lo stesso padre riesce a capire che il mondo non si muove attraverso un trenino chiuso dentro una stanza. Ma il messaggio più originale e dirompente è quello della disponibilità dell’imprenditore-padrone del paesino, il Manetti, ad accogliere a braccia aperte i capitali della camorra: zio “boss” Ciro diventa il VIP della piccola comunità montana, un po’ come il Totò imperatore di Capri, finendo per imporre stili di vita e modi di essere che tutti vogliono copiare, respirando la sua aria, bevendo la sua acqua…proprio come Cristina amava dire del modello Manetti. Alla fine, l’imprenditore edile del Nord e il boss “Ciro” sono due facce della stessa camorra. Insomma, il denaro, anche se “sporco”, non è mai “terrone”, soprattutto in momenti di crisi come questo. E siccome il boss viene addirittura assolto in quanto scagionato dalle divertentissime testimonianze-gag dei Ditelo Voi, il vero delinquente organizzato resta il Manetti. Te capì?


EDDY NAPOLI E FRANCESCA SCHIAVO IN-CANTANO NAPOLI

la Musica

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rICCArDO GIAMMARINO

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a venerdì 24 gennaio a domenica 26 si sono esibiti i due interpreti della canzone napoletana al Teatro Cilea di Napoli con lo spettacolo Anema&Core – una storia da raccontare. Nello scorso numero abbiamo parlato dell’evento in anteprima con l’intervista alle due voci fuoriuscite dall’Orchestra italiana di Arbore, annunciando che la Giammarino Editore sta lavorando per presentare verso Pasqua un elegante cofanetto composto da DVD, CD audio ed Instant book dell’evento. Anema&Core evoca sentimenti puliti ed armonia come gran parte dei classici, ed i sentimenti veri, espressi in musica, sono un modo di contrastare l’omologazione conservando la nostra identità che va quindi preservata, come gli stessi artisti hanno ribadito dal palco. Tanta nostalgia di una musica che rispecchia chiaramente una Napoli estinta traspare dai tre giorni di pienone al Cilea. Eddy Napoli e Francesca Schiavo hanno messo le proprie voci al servizio della musica che è stata protagonista indiscussa delle serate, tanto da far sembrare qualsiasi parola o spiegazione superflua. Così proprio da Anema&Core parte il viaggio musicale nella canzone napoletana, ripercorrendo i vari contesti storici che le

hanno dato la possibilità di esistere come le serenate degli emigranti o alcune delle canzoni nate nel dopoguerra dalla penna di renato Carosone. Le strade dei due artisti hanno numerosi punti di congiunzione tra cui il luogo di nascita: sia Eddy che Francesca nascono a roma e, dunque, l’omaggio alla città che ha dato i natali ai due artisti era d’obbligo. Così, “roma non fa la stupida stasera” è stata l’unica canzone straniera interpretata sul palco. Subito dopo, un omaggio a Napoli lo era altrettanto, per cui si è passati all’inedito e struggente “Napoli”, in cui l’artista partenopeo descrive l’amore per la propria città.

La platea per tutte le tre serate ha abbandonato il teatro a malincuore emotivamente colpiti e riscaldati, visto il maltempo, dalle calde voci dei due grandi artisti che hanno riportato alla memoria dei più il significato del bello oggettivo. I tanti spettatori avrebbero voluto che il concerto durasse ben più delle due ore, volate in un batter d’occhio, ed il bis è stato acclamato a gran voce. Così, dopo i ringraziamenti, sulle note de ‘O surdato ‘nnammurato si è concluso lo spettacolo, lasciando uscire gli spettatori canticchianti sulla scia delle voci dei due artisti.


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la Musica

LA CANZONE NAPOLETANA E SUE CONTAMINAZIONI

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uMbErTO FRANzEsE a canzone napoletana non invecchia, ma neppure per costruzione, meticcia da restarne talvolta sofisticata. gode ottima salute. Se non invecchia è perché al E i suoni, grazie ad una esplicita standardizzazione, hansuo attivo conta giovani e agguerriti cantori. Avreb- no subito un rigoroso imprimatur. Esiste un filtro che be, però, bisogno di dare spazio e fiato alle nuove pro- genera un uso strutturato e netto. Viene respinta l’immomesse, ma fin quando sulla scena vengono proposte bilità e la cristallizzazione e neppure vanno favoriti l’imvecchie cariatidi passate di moda, inefficaci, c’è poco da bastardimento e la semplificazione. stare allegri. Dalla canzone popolare alla canzone più vasta di significati attraverso processi rivalutativi e senza perdere di vista la matrice identitaria. Poesia e musica, musica e poesia, l’intento è, con libertà e proprietà di linguaggio competere degnamente con tutte le altre arti. Napoli era come Parigi, come Vienna, come New Orleans. Napoli è mediterranea, Napoli in rosa, Napoli ai piedi del Monte. Come Parigi e Vienna città di grandi tradizioni musicali. Da Parigi e come Parigi, con l’Ottocento il Café Chantant e sale di concerto, sale da ballo e caffè Concerto. La villanella e l’opera buffa o più verosimilmente la melocommedia, come sostiene Gennaro borrelli. Il dialetto napoletano come lingua ufficiale del regno sin dal periodo aragonese, fonte di vitalità artistica. Napoli “Largo ai giovan!” è una bestemmia. “Fare squadra” è dei grandi poeti e musicisti: Goethe , Lamartine, Stenpiù che peggio, è pura finzione. La fortuna e la grandez- dhal, Metastasio, Auber, Haydn, bellini, rossini, Doniza della canzone napoletana e dei suoi interpreti nasce zetti. Napoli città d’arte scelta come terra d’elezione. alla scuola di grandi maestri se non addirittura fra le Napoli come New Orleans, città del Sud, città portuale, mura dei Conservatori. A quelli che hanno la fortuna di spagnola e francese, calda e musicalmente apparecpassare una o più volte in TV, il successo è assicurato. chiata. E se si tiene conto che per lo più in TV passa il peggio Napoli mediterranea, araba, sanguigna, popolare, senza del peggio, cosa c’è da sperare? I migliori non sono controllo, estemporanea. Napoli ai piedi del Monte, tra quelli che possono contare più presenze in Tv e cavalca- tradizione e innovazione, con l’autorità dei migliori comre le piazze. Sono, viceversa, al di fuori delle operazioni affaristiche e mercantili. Vengono forgiati attraverso i recital, le atmosfere di laboratorio, le sperimentazioni, le proposte colte e raffinate delle composizioni d’autore. C’è un’attenta e continua ricerca di studio e di lavoro fermentato anche grazie ad un raffinato gusto personale La canzone napoletana ha avuto modo d’imporsi e durare nonostante il mutare di mode e l’evolversi della lingua e degli schemi musicali. Quando si è stati tentati di esprimersi cambiando le radici e i contorni del suo sviluppo e ciò, in parte è avvenuto, si è dovuto risciacquare i propri panni nelle bollenti acque ai piedi del Vesuvio. Pure le soluzioni trovate non affondano più nel classicismo otto- positori ed esecutori: Girolamo De Simone, Max centesco, bensì in categorie innovatrici, irregolari e per- Fuschetto, Vincenzo romaniello, sacerdoti di moderni sino imprevedibili. Irregolari ma non estranee e lontane misteri. dalla matrice di ceppo antico. Napoli in rosa, tra il nascere della notte e del giorno, con Ciò che appartiene al patrimonio comune può trovare motivazioni e alternanze altrettanto vere e diverse: Fioappigli diversi, reti più ampie, ma non improprie, snatu- renza Calogero, Francesca bellofatto, Consiglia Licciarrate. buon gusto, sensibilità artistica, diversità stilistiche, di, Antonella Morea, pervicaci, esigenti nella ricerca e costituiscono la forza di una maggiore nitidezza espres- nella sperimentazione. siva. realtà diverse, accadimenti diversi. Taluni compiutaLa lingua napoletana è altro oggi, perché provvista di mente e straordinariamente venuti fuori nelle Prime di varietà autonome. Tutto il contesto è cambiato per una concerti da camera o al Premio Masaniello o, come è serie di ragioni storiche e culturali. Meno passato e più accaduto di recente, nel Convegno Spettacolo “La Canpresente prossimo. zone napoletana e sue contaminazioni” nel corso degli Per certi versi la lingua, originale per purezza, è meticcia Stati Generali della Musica al Trianon – Viviani.


la Cultura

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IL NAPOLETANO È UNA LINGUA? 34

SIMONA BuONAuRA

a alcuni giorni in rete, purtroppo unica fonte di notizie per molte persone, circola nuovamente la notizia che l’unesco con l’intento di salvaguardare il dialetto napoletano lo ha promosso a seconda lingua italiana. L’avverbio “nuovamente” utilizzato nel periodo precedente non era casuale, infatti tale notizia, è questa la fonte della perplessità che ci ha invaso, circo-

lava anche nel 2010 poi nel 2012 con più o meno gli stessi concetti. L’analisi va fatta su due livelli ed a parere di chi scrive dovrebbe essere esaminata in modo approfondito e non essere sottovalutata, perché ne va di mezzo l’informazione reale e la diffusione di notizie che non hanno fondamento. In questa occasione, però, ci soffermeremo sulla questione linguistica chiedendo al professore Nicola De blasi, Accademico corrispondente dell'Accademia della Crusca e professore ordinario di Linguistica italiana nell'università di Napoli "Federico II" di provare a fare chiarezza in tanto marasma: Professore ha letto gli articoli che circolano in rete in merito alla promozione del napoletano a lingua? «Sì e devo dire che la cosa lascia perplesso anche me. Tra l’altro già due anni fa sono stato consultato da un quotidiano per intervenire sulla medesima notizia. A parte le modalità di diffusione della notizia che circola in rete, c’è un altro punto che suscita perplessità: si dice che il Napoletano è parlato in Campania, Puglia, Calabria, Molise. Non sappiamo da dove provenga questa

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idea, ma non occorre essere un dialettologo per verificare e per sapere che a bari o a reggio Calabria certamente non parlano in Napoletano. Anche questo aspetto dimostra che questa notizia deriva da un'impostazione che non tiene conto della vicenda storica dei dialetti italiani. Volendo offrire un mio parere sull’eventuale scelta dell’unesco di tutelare il patrimonio linguistico napoletano, penso che l'attenzione verso certi temi è senz'altro positiva ma occorre anche considerare che in Italia esiste da secoli una tradizione di attenzione verso i dialetti. Se ci si preoccupa della sopravvivenza delle lingue si dovrebbe poi anche tener presente che la realtà linguistica non si modifica per via legislativa, né attraverso direttive che provengono da Internet, né con una visione impressionistica delle cose. uscendo dall’impasse della diffusione di informazioni giuste o sbagliate che siano, tecnicamente il napoletano può essere definito una lingua? «Sì e no. Nei discorsi scientifici le cose sono sempre da sfumare e da capire meglio. Dobbiamo chiarire di cosa si parla. L’idea di dialetto che abbiamo noi in Italia e in parte dell'Europa è diversa da quella diffusa nella tradizione angloamericana a cui probabilmente si ispira l’unesco. Semplificando: per l'unesco forse il dialetto è ritenuto una deformazione della lingua standard; per gli studiosi italiani non è assolutamente così e dialetto significa «lingua di un certo luogo» diversa da quella di altri luoghi. Il dialetto per un linguista non corrisponde a una qualifica negativa; non è una deformazione dell’italiano in quanto ha un suo autonomo sistema linguistico. Ciò vale per il napoletano, il bolognese, il bergamasco ecc.; non esiste insomma una gerarchia tra i dialetti, anche se si può capire che ognuno sia particolarmente affezionato al proprio». Abbiamo a che fare dunque con una terminologica complessa… « Sì, ma anche ben distinta: il dialetto è lingua materna che sancisce solo una differenza, etimologicamente è una parola di origine greca utilizzata dal '500 per indicare la differenza geografica nei modi di parlare in Italia.


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Quindi in un panorama geografico si distinguono differenze linguistiche. Per cui va bene parlarne, perché vuol dire che suscita curiosità, ma anche in questo caso non bisogna stravolgere criteri e metodi degli studi scientifici». Esistono dei punti fermi che distinguono una lingua da un dialetto? «Ci sono requisiti che li rendono differenti dal punto di vista dell'uso e in rapporto alla diffusione. Per esempio i dialetti non sono usati per scrivere le leggi, i moduli burocratici, il contratto dell'assicurazione, le ricette mediche

eccetera. Per chiarire questo punto uso spesso il paragone tra le lingue ed i mezzi di locomozione: con alcuni percorriamo distanze di migliaia di chilometri, con altri ci muoviamo in ambiti meno vasti; non possiamo usare sempre l'utilitaria o la bicicletta, ma nemmeno sempre l'aereo». Come si spiega allora che la canzone napoletana ha varcato tutti i palchi del mondo incontrando l’approvazione di un pubblico vastissimo rispetto ad altri dialetti che rimangono ancorati nelle loro regioni? «Continuando nel paragone, possiamo dire che esistono le biciclette sportive, da competizione, ma per usarle con successo bisogna essere proprio bravi, così come ci sono automobili che raggiungono i 300 km all'ora, ma non sono uguali a quelle con cui andiamo a fare la spesa. Insomma in questo caso si esce da una questione linguistica e si entra in una sfera diversa. un modulo espressivo può essere promosso in alcuni ambiti, semmai in base ad un gusto condiviso anche in diverse parti del mondo. Questi sono anche aspetti affascinanti della storia linguistica italiana e bisogna stare attenti ad evitare le contrapposizioni; l’effetto più negativo di un discorso come quello dell’unesco o similari è la contrapposizione; non dobbiamo pensare ad una storia in cui c’è una lotta tra le lingue. Questo non è mai avvenuto in Italia: c’è anzi una caratteristica molto importante e da valorizzare, ovvero che quasi tutti gli italiani da secoli parlano due lingue e questa appunto è una risorsa». Cosa ne pensa dell’istituzione di una cattedra di lingua e letteratura napoletana? «Io sarei favorevole, ma forse questo è un processo da

la Cultura

innescare a partire dai finanziamenti, soprattutto se si pensa a nuove denominazioni. Anche in questo caso però bisogna fare delle distinzioni. Nell'università, e non solo a Napoli, il napoletano è studiato con la complessità che necessariamente contraddistingue gli studi universitari, che non sono studi di carattere elementare. All'università si studiano le caratteristiche, la storia del dialetto e la sua letteratura. Ciò avviene nell'ambito delle cattedre di Dialettologia italiana e di Storia della lingua italiana, ma un conto è studiare i metodi e i contenuti scientifici, e un altro conto è insegnare l'abc o dettare regole di comportamento linguistico; all'università non si apprendono le nozioni primarie della lingua, ma si studiano contenuti complessi e specialistici, così come per esempio le materie economiche non servono a insegnare come si conta il resto al supermercato. Ma in virtù della salvaguardia del napoletano puro non sarebbe una cosa positiva quella di istituire un corso ad hoc? «Ci sono due punti da sottolineare: uno che la purezza in termini linguistici è un concetto abbandonato da tempo. Le lingue vivono in quanto si mescolano e cambiano. E’ chiaro che il napoletano di oggi è diverso da quello di 100 anni fa. Non possiamo fissare un modello da museo; se succedesse, sarebbe il segnale di una morte già avvenuta. Il paragone tra le lingue e gli organismi viventi calza a pennello perché se c’è immobilità c’è morte, quindi ben venga la mobilità. Gli studi linguistici infatti si occupano molto proprio del cambiamento. Inoltre il napoletano è da decenni oggetto di studio universitario, anche in diverse discipline, quindi è continuamente osservato, descritto, valorizzato dal punto di vista scientifico, come mostrano tante pubblicazioni specialistiche sul napoletano, purtroppo non sempre note a tutti». A proposito di voci che girano, si dice che nel Regno delle due sicilie il "napoletano" fosse la lingua ufficiale scelta dai Borbone cosa può dirci a questo proposito? «Di questo argomento ho fatto cenno in un libro dal titolo “Storia linguistica di Napoli” e rispetto a questa idea posso dire che non è così, in quanto i codici, le leggi e gli avvisi pubblici dell’epoca erano scritti in un italiano un po’ “burocratico”, ma comunque italiano. Nelle zone di Port'Alba e di Piazza Carità ci sono delle iscrizioni e lapidi murarie che contengono degli editti e delle norme di comportamento risalenti al ‘700 che sono in italiano o in latino. Di usi ufficiali del napoletano non si hanno prove documentarie. Che poi il re amasse il napoletano e che lo utilizzasse nella conversazione comune è un’altra questione».


la Lettura

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MARIA CRISTINA DI SAVOIA UN LIBRO RIPERCORRE LA SUA VITA ILArIA MuGGIANu sCANO, MArIO FAddA

«I santi normalmente generano altri santi e la vicinanza alle loro persone, oppure soltanto alle loro orme, è sempre salutare: depura ed eleva la mente, apre il cuore all’amore verso Dio e i fratelli. La santità semina gioia e speranza, risponde alla sete di felicità che gli uomini, anche oggi avvertono». Le parole di benedetto XVI nel suo Discorso ai postulatori della Congregazione delle cause dei Santi” (17 dicembre 2007), esprimono in maniera onnicomprensiva il movente che spinge il nostro lavoro di riflessione sulla vita, breve ma pregna di santità, della Venerabile Maria Cristina di Savoia regina delle Due Sicilie. «Se si canonizzassero i Santi come una volta, a furor di popolo, Maria Cristina sarebbe già venerata sugli altari» diceva Padre Terzi, padre spirituale della regina, con una eco che ancor oggi inesausta risuona alla soglia del bicentenario della sua nascita nella città di Cagliari, città con la quale mantenne sempre un solido legame tramite profonde e perpetue amicizie.

Ogni epoca stabilisce un’originalità di lettura della storia e nostro proposito non è tanto risignificare i fatti legati alla figura della beata, non è negare il carattere poeticamente agiografico della letteratura concernente Maria Cristina Efisia di Savoia per difenderla dall’accusa di un anacronismo voluto da categorie stilistiche del passato, talvolta dal taglio marcatamente devozionale talaltra da biografie di carattere superficialmente indiscreto e fantasioso: ogni fonte gode per noi di un’autorevolezza da non ignorare, tanto più che per andare dentro la storia occorre conoscere ogni aspetto di essa. Sarà bensì la giustapposizione delle riletture del passato e del presente sulla vita della Venerabile ad arricchire il deposito della sua memoria nel tentativo di porgere al lettore quelle categorie che correndo trasversalmente da un lato all’altro della storia possano offrirne una lettura, il più possibile, completa senza tuttavia pretendere in alcun modo l’esaustività. La nostra riflessione cartacea “Maria Cristina di Savoia. Figlia del regno di Sardegna, regina delle Due Sicilie” (Arkadia Editore), coincidente con il bicentenario dell’augusta nascita, si concentrerà prevalentemente sulle origini della beata, sugli anni nel capoluogo dell’Isola e il suo imperituro legame con la Sardegna.

Il desiderio recondito della nostra riflessione, attraverso il lavoro di ricerca storica, è poter rendere eloquente per il senso d’oggi quello squarcio storico in cui la

principessa sabauda riuscì a dimostrarsi autentico strumento di Dio. Possiamo ben dire che Maria Cristina di Savoia ha anticipato i santi sociali dell’Ottocento con la sua costante opera d’impulso a opifici e laboratori artigiani (famosa soprattutto la manifattura di San Leucio per la seta). La beata , infatti, credeva nel lavoro come mezzo di promozione umana e spirituale. “La politica della fede”, così venne chiamata la gestione della cosa pubblica da parte della regina, non venne attenuata dalla distruzione del suo sogno monacale da parte del tutore Carlo Alberto, che indusse la Venerabile al matrimonio con Ferdinando II re delle Due Sicilie. È negli anni napoletani che si gusta l’esplodere della sapienza combinatoria di Maria Cristina; sbocciano in lei le tante donne che è diventata: al chiuso poetessa e mistica, all’aperto regina e sagace imprenditrice, catalizzatrice di tante istanze sociali. Circonda Ferdinando di affetto delicato. La fama della sua intelligenza sembra coprire il rumore della pigrizia del consorte, anche se le loro conversazioni pubbliche paiono scambi arguti tra affiatati coniugi novelli. Intransigente nel suo pacifico rigore.

Approfondendo la conoscenza di Maria Cristina di Savoia si scopre con sorpresa che le è del tutto estraneo quel senso di dipendenza di cui l’accusano tante opere biografiche in cui la venerabile è dipinta come una donna che ha vissuto al di sotto delle proprie capacità, scegliendo un limbo del proprio operare, attribuendo alle grande fede della fanciulla l’assenza di ambizioni e una situazione conflittuale di perenne paura con il conseguente desiderio di essere salvata. Così non doveva essere perché Maria Cristina mai si appoggiò ad una figura maschile, né cercò di emularne i gesti nella patetica esibizione d’emancipazione, come usava ai tempi tra le dame salottiere del pieno romanticismo italiano. Cercò piuttosto di approfondire le discipline scientifiche, all’epoca prettamente maschili, semplicemente perché detestava reprimere le sue conoscenze nell’incertezza del dilettantismo. Cristina sa di economia, di matematica e scienze naturali, cosa non comune in una donna di quell’epoca, ha spiccate doti intellettive e mette su, autonomamente, un progetto che concretizza un po’ tutte le sue convinzioni religiose e sociali. Che mette in crisi le sue finanze private e, secondo il principe Pignatelli, anche del re Ferdinando, ma recupera tutta una “fascia debole” del regno. Nessuno nel-


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la corte borbonica avrebbe potuto fare altrettanto. Alla sua morte, morirà anche San Leucio, lentamente ma inesorabilmente. Il modello sociale di San Leucio, tuttavia, non fu un’esperienza imprenditoriale isolata per Maria Cristina. A soli ventuno anni, con la stessa logica guidò i laboratori di cucito, maglieria e falegnameria che allestì intorno a molte chiese e monasteri di Napo-

la Lettura

connettivo dove è la dimensione spirituale l’unico tramite che permette di interpretare a fondo la figura di Maria Cristina di Savoia, nelle sue esperienze sovrapposte, è la fede cristiana, il suo credo inoppugnabile. È questa la lettura che può, infatti, offrire maggiori garanzie di veridicità, descrittiva e informativa, senza cedere alla suggestione drammaturgica e storico ideologica. L’equilibrio spirituale della beata dovrebbe essere il nucleo di ogni rievocazione biografica, attenta ai risvolti politici sociali ma ancor prima a quelli psicologici della Venerabile. La fede è parte integrante dell’azione esistenziale di Maria Cristina, che stempera e vitalizza la concezione penitente dello schematismo religioso di Maria Teresa d’Asburgo, con un credo che sarà lettura non solo estetica della realtà. Tutto il regno, vicini e lontani dall’entourage di Ferdinando II, erano concordi nell’appellare Cristina la reginella santa, tanto che quasi nessuno la chiamava col suo nome anagrafico, ma il suo riverbero sul piano sociale è talmente incisivo che non mancherà chi ravvisa nel comportamento della regina gli stilemi di una politica reazionaria

Maria Cristina era in anticipo sui tempi il suo netto rifiuto della pena di morte, rifiuto che l’ha portata a chiedere ed ottenere la grazia per tutti i condannati a morte del suo regno. Coordinando sapientemente la vita di

li, nonché una serie di iniziative che incoraggiò in altre provincie del regno1, anche in Sicilia dove le opere di utilità sociale partirono dalle categorie più sfortunate. La reginella santerella, come la acclamarono trionfamente i sudditi di Palermo, inaugurò assieme al re, l’istituto per sordomuti, in tutto simile a quello che fece istituire a Napoli. Ma il ricordo più caro fu sempre per la rediviva San Leucio, dove venne concepito l’unigenito di Cristina.

L’isolamento domestico e l’angustia d’esperienza sociale sono le tematiche più frequenti alla faretra dei detrattori processuali. Attorno a lei una giostra di personaggi onesti, semi onesti e disonesti, in un tessuto

corte con le ore dedicate alla preghiera, con i continui impegni di regina, Maria Cristina di Savoia ci dà un esempio di santità nella normalità della vita, risponde alla “vocazione laicale alla santità” la cui cifra evocativa risiede nel letto di morte, che raggiunse la reginella alla giovane età di ventiquattro anni, quando straziata dal dolore per lasciare il bambino nato da pochi giorni trovò la pace proclamando: « Credo in Dio, Spero in Dio, Amo Dio».


il Libro

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TOTÒ, L’ULTIMO SIPARIO IL PRINCIPE DELLA RISATA SCONFIGGE IL BUIO

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SIMONA BuONAuRA

el principe della risata Antonio De Curtis, in arte Totò, sono state dette e raccontate tante cose, in questo libro, edito dalla Nuova Ipsa Editore, Giuseppe bagnati prova a dare testimonianza sull’attore di teatro piuttosto che cinematografico in partico-

lare sulla sua ultima esperienza teatrale a Palermo con la rivista “A prescindere” che dovette poi interrompere a causa dei suoi problemi agli occhi. A proposito del suo rapporto col palcoscenico Totò affermava: «Il teatro è diverso dal cinema. Quando lavoro in teatro sono eccitato, inebriato. Il calore del pubblico, la comunicazione col pubblico: si diventa una sola cosa col pubblico. Quando facevo teatro volevo molta luce perché mi piaceva vedere la sala, vedere che il pubblico faceva le facce a seconda della faccia che facevo io». Quella luce in sala che poi gli sarà negata a causa dei problemi che aveva agli occhi e che dovette rifuggire con occhiali da sole per evitare l’esposizione prolungata. L’autore ripercorre le tappe che hanno portato l’attore a fare i conti con la sua malattia che lo renderà quasi totalmente cieco. Il volume va letto su due livelli: da una parte l’aspetto pratico della sua malattia che lo vede criticato da impresari e che mina la sua amicizia di lunga data con remigio Paone in quanto Domenica 5 Maggio del 1957 Totò è costretto ad interrompere la tourneè di “A prescindere” e purtroppo la sua carriera teatrale a causa di una grave forma catarrale all’occhio destro. Questo spettacolo vedeva il suo ritorno in palcoscenico dopo 7 anni di digiuno in cui si era dedicato al cinema e aveva fatto ben sperare in altri grandi successi in

giro per l’Italia, come d'altronde stava accadendo. Nelle pagine inoltre si può leggere la testimonianza del dott. Giuseppe Cascio che visitò Totò e che a distanza di più di 50 anni continua a mantenere il segreto professionale ma si apre solo per raccontare di alcuni impresari teatrali di Caltagirone, dove Totò avrebbe dovuto esibirsi dopo la data di Palermo, che gli chiesero di alleggerire la gravità della malattia del Principe in modo che il riposo assoluto richiesto nel certificato medico non fosse più valido offrendo in cambio molto denaro. Il medico gentilmente li inviata ad uscire dal suo studio ricordando che un professionista non può venire meno ai suo doveri! L’altro punto di vista che emerge nel volume è la grande umanità di Totò che offre pranzi di matrimonio alle ballerine della rivista, regala al piccolo figlio del medico una radio-cambiadischi della radio Allocchi bacchini, non lesina le mance ai camerieri anche molto generose e cerca di non mostrare al pubblico le ansie che

sta vivendo per il problema agli occhi. C’è poi anche un aspetto più affascinante che dimostra l’amore che Totò aveva per il suo lavoro, nel libro si legge la testimonianza di Federico Fellini che un giorno si trovava negli studi di Cinecittà e vide Totò scortato da due persone perché non ci vedeva ed indossava dei grossi occhiali da sole; incuriosito raggiunge la location dove si girava la scena del film in preparazione e lì avvenne il miracolo: appena dopo il ciak del regista Totò toglie gli occhiali e recita come se vedesse, non ha bisogno di appoggiarsi e riesce a muoversi sulla scena con leggiadria. Questa è la magia della recitazione e la testimonianza di un grade attore che che non si è fatto fermare nei suoi pizzi e lazzi dalla cecità.


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BORBONE DI SPAGNA E DI NAPOLI, DUE REGNI UN’UNICA DINASTIA ETTOrE D’ALESSANDrO dI PEsCOlANCIANO

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’infante Don Carlos III di borbone (1716-1788), figlio di D.Filippo(1683-1746) re di Spagna e di Elisabetta Farnese duchessa di Parma, fu il primo sovrano borbonico dell’illustre dinastia napoletana.Detto re Carlo III, quale capostipite dei borbone di Napoli, discendeva dal ceppo principale dei borbone di Spagna, che fu riconosciuto nella persona di re Filippo V duca d’Angiò dall’accordo internazionale, il trattato d’utrecht, sottoscritto nel marzo-aprile 1713 dalle monarchie di Francia, Gran bretagna,Portogallo,Savoia, Spagna e Paesi bassi.Vincolo di detto accordo fu la legge di Fondazione (legge Saulica), promulgata dallo stesso re Filippo V il 10 maggio 1713 per regolamentare la successione al trono spagnolo dei soli principi di Casa borbone, escludendo l’ascendenza dinastica femminile e loro imparentamento con dinastie straniere, nonché rinunciando ad ogni pretesa sul regno di Francia anche per la figliolanza. Nel 1731 il suddetto infante D.Carlo sbarcò a Livorno passando da Firenze, ospite prediletto di Gian Gastone de’Medici e candidato alla sua successione, per prendere possesso a nome di Carlo I del regno di Parma e Piacenza col titolo di 9°

duca, come da disposizioni concordate nel trattato di Vienna del 1725. Lasciato nel 1736 tale ducato alla reggente madre Farnese e poi al fratello D.Filippo (capostipite del ramo borbonico parmense dal 1748), raggiunse Napoli per governarla fino al 1759 con il titolo di re Carlo VII. Difatti, dopo 25 anni di regnanza siculo-napoletana,per disposizione testamentaria del defunto padre, D.Carlo rientrò in Spagna, assumendone la corona degli scomparsi fratellastri, i principi delle Asturie D.Luigi I e D.Ferdinando VI (figli di re Filippo e della prima consorte Maria Luisa Gabriella di Savoia), morti senza discendenza. re Carlo III,memore della tradizione dinastica di Casa borbone, emanò il 6 ottobre 1759 la “Prammatica” sulla successione della real famiglia ai regni di Napoli e Spagna. Detta “legge fondamentale”, riconfermata anche dai successivi sovrani napoletani, confermò il principio ispiratore del “Trattato di Napoli” del 3 ottobre 1759, specie per l’art.2, ove si stabilì che “il regno di Spagna e delle Indie non potrà essere unito con quello delle Due Sicilie nella persona dello stesso monarca”, sancendo così l’obbligo di divisione dei due Stati.


la Storia

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Ne seguì, quindi, la nomina a re di Napoli del suo giovane terzogenito, l’infante spagnolo D.Ferdinando di borbone(1751-1825) per la “quiete di Europa”,garantendo così la “divisione della Potenza Spagnuola dall’Italiana”.Nel suddetto documento regale fu anche fissata la regola successoria della discendenza monarchica bor-

bonica,basata sulla primogenitura mascolina. Così, a partire da re Ferdinando IV(poi I) fu stabilito che “la successione sia regolata a forma de primogenitura col diritto di rappresentazione nella discendenza mascolina di maschio in maschio”. Nel caso,poi, di estinzione di una linea familiare diretta, sarebbe succeduto il primogenito maschio della successiva linea collaterale al regnante e via fino all’ultimo esponente maschio (con la “femmina del sangue” subentrante nel caso di totale mancanza di maschi).

Inoltre, fu decretato il trasferimento degli “stati e beni e ragioni e Diritti, e Titoli e Azioni Italiane” al medesimo figlio Ferdinando, mentre al secondo figlio D.Carlo (nato a Portici,1747-1819, con nome Carlo IV) spettò la corona di Spagna nel 1788. Dall’arrivo di Carlo III (1736) fino alla morte di re Francesco II (1894),la citata legge dinastica fu sempre applicata nel regno delle Due Sicilie ed in quelli borbonici, così come dal 1817, regnando re Francesco I borbone Due Sicilie(1777-1830), fu ufficializzato l’uso dei titoli reali di duca di Calabria per il sovrano regnante e di duca di Noto per il primogenito pretendente.L’Atto Sovrano di re Ferdinando I Due Sicilie del 4 gennaio 1817 così indicava: “art.1 il Figliuolo primogenito e re del regno delle Due Sicilie, immediato erede della Corona,giusta la legge di successione del re Carlo III, da noi confermata con la legge del dì 8 di dicembre 1816, porterà il titolo di Duca di Calabria; art.2 il Figliuolo primogenito del Duca di Calabria assumerà sempre il titolo di Duca di Noto”.Seppur la successione dinastica rimase sempre condizionata dai dettami della Prammatica del 1759, la famiglia borbone mantenne alto l’interesse unitario sulla legittimità dei troni acquisiti dai vari rami, cercando di salvaguardarne i diritti da ingerenze politiche esterne.

E’ il caso della protesta di re Ferdinando IV elevata contro il “Trattato funesto alla Nostra Famiglia”,siglato nel 1808 tra l’imperatore Napoleone e re Carlo IV sulla cessione di tutti i diritti dinastici sulla Spagna (“Abdicazione

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di bayona”). Il borbone di Napoli rivendicò la difesa della successione familiare sul trono spagnolo, asserendo che “Noi, come chiamati per innegabile diritto in caso di mancanza qualunque del Primogenito nostro Fratello, e de’ suoi Figliuoli maschi alla successione delle Spagne” (“Atto solenne di re Ferdinando,Palermo 9 giugno 1808”).Seguirono altri atti di protesta sulla questione dinastica spagnola, come le lettere del 10-26 settembre 1830 di re Francesco I Due Sicilie contro la “Prammatica sanzione” di re Ferdinando VII di Spagna del 29 marzo 1830, annullatrice della legge salica successoria di re Filippo V con il principio di concessione dei diritti alla discendenza femminile.Anche re Ferdinando II Due Sicilie(1810-1859) protestò con atto del 18 maggio 1833 contro la Prammatica sanzione, che consentì all’infanta D.Maria Isabella di essere nominata erede al trono spagnolo.D.Carlo X, re di Francia, sollevò analoga obiezione.La dinastia dei borbone Napoli fu, quindi,accorta a far rispettare la legge successoria della primogenitura mascolina sul fedecommesso monarchico e conseguentemente su quello legato al Gran Magistero degli ordini dinastici duosiciliani (Costantiniano di S.Giorgio, S.Gennaro),sia nello stato di Napoli che di Spagna.Del resto anche per la successione di re Francesco II(18361894)a regno ormai perso (per la cui difesa giunsero segretamente in aiuto forze e risorse spagnole),essendo senza eredi, fu richiamato il tradizionale principio successorio nel testamento del defunto sovrano, con il quale si riconobbe legittimo capo della Casata, pretendente al trono ed ai Gran Magisteri cavallereschi, il fratellastro D.Alfonso,conte di Caserta(1841-1934).


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Inoltre, lo stesso re Francesco II,prima di morire, con lettera d’istruzione del 18 novembre 1887, da Arco esortò il suddetto fratello Alfonso a far proseguire la tradizione dei titoli successori familiari di duca di Calabria e di Noto, riservati ai legittimi pretendenti primogeniti maschi della Casa reale Due Sicilie(“che il tuo primogenito prendesse subito quello che gli appartiene di Duca di Calabria e

quando questi avrà un figlio, quello di Duca di Noto”), ricordando comunque l’esistenza del titolo familiare di duca di Castro (“ricordati che quello di Duca di Castro è nostro familiare”).D.Ferdinando Pio borbone Due Sicilie(1869-1960), primogenito del conte Alfonso di Caserta ereditò, così, il titolo di duca di Noto nel 1894, allorquando con il padre (dal 1874 arruolato nel regio esercito spagnolo come colonnello d’artiglieria) e vari fratelli trovarono accoglienza residenziale presso la corte Madrilena.A fine ‘800, pertanto,le due dinastie di principi borbone Napoli e Spagna si ritrovarono riunite in uno stesso regno,tanto che la regina Maria Cristina di Spagna ammise i principi napoletani D.Ferdinando Pio ed il fratello D.Carlo nelle scuole militari spagnole,facendoli combattere da infanti per la nazione.Altri figli del conte di Caserta acquisirono nazionalità spagnola ed incarichi militari, come il principe Gabriele M.(1897-1975), il principe Filippo(1885-1949) ed il principe ranieri(18831973), che entrò come ufficiale nella cavalleria spagnola. A fine ‘800 ed inizi del ‘900, il conte di Caserta, pur auspicando un evento politico a favore della causa legittimista per l’ex regno delle Due Sicilie, cercò di portare nuovo prestigio al suo ramo dei borbone Napoli, sia evidenziandosi con la brillante carriera militare nell’esercito spagnolo sia tramite i figli e rispettivi matrimoni.Difatti, mentre il suo primogenito duca di Calabria, D.Ferdinan-

la Storia

do Pio, sposò Maria Ludovica di baviera, il secondogenito infante D.Carlo(1870-1949) si unì in matrimonio con l’infanta Maria della Mercede, principessa delle Asturie, con fastosa cerimonia tenuta a palazzo reale di Madrid il 14 febbraio 1901.

Poiché D.Maria della Mercede era sorella maggiore del giovane re Alfonso XIII di Spagna, all’epoca ancora senza eredi, si ritenne la coppia di sposi candidabile alla corona spagnola, tanto da indurre D.Carlo a firmare un atto privato intra-familiare (“Atto di Cannes”) di natura successoria, in cui si stabilì che “il entend renoncer et renonce solennellement, par le present Acte, por Lui et pour ses Heritiers et Successeurs, a tous les droits et raison a la Succession eventuelle a la Couronne des Deux Sicilies et a tous les biens de la Maison royale se trouvant en Italie et ailleurs”.Nonostante la natura giuridico familiare e non sovrana-nazionale dell’atto di rinuncia alla corona duosiciliana da parte di D.Carlo, che comunque non era titolare di tali diritti successori per l’esistenza in vita del padre D.Alfonso e del fratello maggiore D.Ferdinando Pio, nonché la nullità del patto successorio in quanto vietato dai Codici Civili italiano(1865),francese(1806) e duosiciliano,l’infante D.Alfonso borbone Due Sicilie(1901-1964) primogenito di D.Carlo si trovò in disputa dinastica con lo zio principe D.ranieri (quintogenito maschio del conte di Caserta) quando morì nel 1960 D.Ferdinando Pio, senza eredi maschi(l’unico figlio ruggiero morì fanciullo nel 1914).L’infante di Spagna D.Alfonso,estraneo alla rinuncia paterna, acquisì così il titolo di duca di Calabria,poi passato al figlio l’infante D.Carlos(n.1938),il cui figlio D.Pedro(n.1968) è divenuto duca di noto (ed il primogenito D.Jaime,1993, è duca di Capua),mantenendo i Gran Magisteri degli ordini dinastici del ramo ispano-napoletano.Il principe D.ranieri borbone Due Sicilie,invece, for-

temente sostenuto negli anni 60-70 dal folcloristico Di Lorenzo,mantenne il titolo di duca di Castro, passato al figlio D.Ferdinando(1926-2008)e poi succeduto al di lui figlio D.Charles(n.1963),i quali hanno mantenuto i Gran Magisteri degli ordini dinastici del ramo franco-napoletano. A Napoli, il 24 gennaio del 2014, i rappresentanti dei due rami si sono incontrati per firmare un atto di riconciliazione familiare, riconoscente dei rispettivi titoli acquisiti dell’unica Casa borbone Due Sicilie.


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APPUNTAMENTI DEL MERIDIONALISTA

l’Agenda

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l Mondus, via San Geronimo alle Monache 23/24, 80134 Napoli, tutti i Venerdì fino al 17 Marzo si terrà la raccolta fondi per finanziare le contro-celebrazioni dell’unità d’Italia. La manifestazione del 17 sarà un banco di prova per dare dimostrazione di vera unità e coesione identitaria tra i movimenti meridionalisti. dei 5,00 € del drink, 3 andranno al locale ospitante e 2 alla tesoreria del comitato. E’ inoltre previsto un abbondante buffet omaggio.

Galleria del Mare di Napoli giovedì 13 Febbraio dalle ore 18.00. Saranno presenti l’autore, l’editore e lo storico Vincenzo D’Amico.

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al 14 al 16 Febbraio a Gaeta si svolgerà il XXIII Convegno Nazionale Tradizionalista della Fedelissima Città di Gaeta dal titolo “La donna del sud. Protagoniste della storia”

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ioiosa Ionica (rC) - Convegno su Nicola ZitaraSabato 1 Marzo a partire dalle 16:00 presso Palazzo Amaduri l'Ass. Due Sicilie - Nicola Zitara organizza un convegno di studio sui vari aspetti della figura di Nicola Zitara. Indirizzo di saluto del Sindaco Salvatore Fuda, Introduzione dell'avv. Pasquale Zavagia. Moderati dal direttore de Il brigante Gino Giammarino, interverrano come relatori Gennaro De Crescenzo, Lorenzo Terzi, Furio Pellicano, Mariolina Spadaro, Salvatore Zurzolo, Pasquale Sciammarella. Saranno, inoltre, presenti le telecamere del "brigantiggì" per una puntata interamente dedicata all'evento.

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oma. Lunedì 24 Febbraio alle ore 16.00 presso il campidoglio verrà presentato ufficialmente il libro l’amore prima di tutto del prof. roberto Della ragione. Con l’autore e l’editore Gino Giammarino, saranno presenti gli onorevoli Domenico Gramazio, Stefano De Lillo, Giovanni Quarzo moderati da Maria bruni

La storia appassionata, di due ragazzi del sud e del loro modo di affrontare le avversità della vita saranno lo spunto per le domande da rivolgere all'autore. e chissà che nella vigilia di san valentino ci possano aiutare a riflettere. L’opera verrà anche presentata presso il salotto culturale Argenio alla



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