La Parola ai giovani SUPPLEMENTO A LA VOCE DEI BERICI NUMERO 41 DEL 23 OTTOBRE 2011
Input “Cari amici, ora ritornerete nei vostri luoghi di dimora abituale. I vostri amici vorranno sapere che cosa è cambiato in voi dopo essere stati in questa nobile Città con il Papa e centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo: che cosa direte loro? Vi invito a dare un’audace testimonianza di vita cristiana davanti agli altri. Così sarete lievito di nuovi cristiani e farete sì che la Chiesa riemerga con vigore nel cuore di molti. Quanto ho pensato in questi giorni a quei giovani che attendono il vostro ritorno! Trasmettete loro il mio affetto, in particolare ai più sfortunati, e anche alle vostre famiglie e alle comunità di vita cristiana alle quali appartenete. Vi confesso che sono veramente colpito dal numero così significativo di Vescovi e Sacerdoti presenti in questa Giornata. Ringrazio tutti dal profondo dell’anima, incoraggiandoli, allo stesso tempo, a continuare coltivando la pastorale giovanile con entusiasmo e dedizione”. (Saluto finale di Papa Benedetto XVI all’aeroporto “Cuatro Vientos” di Madrid, prima della recita dell’Angelus, XXVI Giornata Mondiale della Gioventù). Con l’ultimo messaggio di papa Benedetto XVI alla GMG di Madrid inizia la nuova stagione dell’inserto “La Parola ai giovani” curato dall’Ufficio diocesano per i Giovani. Lo strumento - nella sua semplicità - viene offerto a tutti coloro che nelle parrocchie, nelle associazioni, nei gruppi, nei movimenti sono coinvolti più o meno direttamente nella pastorale giovanile: preti, religiosi, religiose, animatori, capi scout, catechisti, insegnanti, genitori... Il tema che fa da filo conduttore alle pagine che seguono è l’ascolto. Siamo capaci come comunità cristiana di metterci in ascolto dei giovani? Cosa significa ascoltare le nuove generazioni? Con quale tipo di “adulto” o di fratello maggiore si confidano e si raccontano i più giovani? Cosa lasciano intendere certe espressioni sempre più frequenti quali “adulto significativo” o “adulto credibile”? Sono interrogativi che rimangono aperti, che scavano dentro di noi e ci costringono a verificare l’autenticità del nostro essere discepoli e fratelli. Don Andrea Guglielmi
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In ascolto
SABATO 5 NOVEMBRE A SAN BONIFACIO Festa Giovani dell’Azione Cattolica con Marco e Pippo Matteo De Benedittis Agnese Moro inizio alle 16 tutte le info su www.acvicenza.it
Il graffio
di Francesco Lorenzi
Alba Ecco il primo raggio di sole del mattino, ecco il dono del giorno, ecco la pace dal chiarore che irradia lo spazio all’orizzonte! La divina presenza si manifesta a noi con grazia danzante, attraverso il ritorno quotidiano della Luce. Per questa ragione nella contemplazione dell’alba si riceve più di un messaggio illuminato: in cambio di una docile disposizione d’animo e di un accogliente ascolto, si fa spazio nel Cuore un sentimento di gratitudine e d’incanto per il miracolo della vita che si rinnova. Questa emozione porta con sé una energia capace di cambiare le sorti della giornata, dei rapporti, dei pensieri e di tutto ciò che ci si troverà a vivere. Dopo il sonno notturno, l’udito interiore ed esteriore si desta nuovamente vergine, perciò è pronto ad accogliere con massima attenzione e stupore, ciò che il Divino sceglie di elargire all’ascoltatore disponibile. Materia e Spirito si uniscono rigenerati in un respiro comune; quale migliore momento, quindi, per ascoltare e sperimentare con tutti i sensi la benevolenza e la fiducia che regge l’universo tutto? Come era abitudine in un passato lontano, è quindi da promuovere nuovamente il porsi in ascolto come primo atto d’amore quotidiano, e s’intenda che si tratta più di amor proprio che d’amor per il buon Gesù e per lo Spirito Santo, giacché si riceve sempre - e concretamente - molto più di quanto si dà. www.francescolorenzi.it www.thesun.it
SABATO 19 NOVEMBRE A BASSANO Esperienza di Evangelizzazione di Strada inizio alle 22 tutte le info su www.vigiova.it
La Parola ai giovani 2
L’esperienza: un “corso” di direzione spirituale a San Bonifacio
Animatori parrocchiali allenati all’accompagnamento personale Quando si è educatori in una parrocchia, in cui i giovani sono parte fondante della comunità, è sempre difficile testimoniare valori come il discernimento. Già: per proporre ad un ragazzo di 18 anni un accompagnamento spirituale, occorre partire proprio da lì. Cosa significa, dunque, discernere? A partire da questo abbiamo
Discernimento significa separare ciò che può andar bene dal suo contrario, come un setaccio divide la farina migliore dalle sue impurità
lavorato, nella parrocchia di San Bonifacio, attraverso degli incontri con un paio di “don”; abbiamo cercato di sviscerare questo valore, per poter far poi comprendere ai nostri educandi l’importanza proprio del discernimento nei contesti di vita. All’inizio, le idee emerse su questo termine, sono state le più varie, ma il succo del discorso è stato: il discernimento è il separare ciò che può andar bene dal suo contrario, come un setaccio divide la farina migliore dalle sue impurità. Da qui il passo successivo: come si fa a prendere una decisione? Chi ci aiuta? Come si sce-
glie cosa è bene per sé stessi? Quindi la riflessione si è spostata sul come fare un buon discernimento. Attraverso testi di vari autori, quali M.I. Rupnik, A. Louf, S. Weil e le Lettere di San Paolo, siamo giunti a comprendere che una scelta va fatta alla luce dei vari input esterni, su tutti la Parola di Dio e lo Spirito che da essa soffia su di noi; non da meno sono poi, ovviamente, il contesto sociale in cui si vive, le testimonianze di protagonisti della nostra storia, soprattutto associativa, gli incontri con la propria guida spirituale, se la si ha. Ma che ruolo ha la guida spirituale? Qual è il suo compito? Questo è stato il passaggio finale delle nostre riflessioni. Tutti pensano che sia un compito riservato ai sacerdoti “per ministero”, in realtà ogni laico (sacerdote “per battesimo”) può fungere da guida spirituale per qualcuno. Tra le cose fondamentali apprese, rientrano l’ascolto dell’altro, cosa ormai rara; il confronto, che comporta il mettersi sullo stesso piano di chi ascoltiamo; il consigliare, non obbligare, la scelta che si ritiene più idonea per chi si accompagna, in relazione al suo vissuto, non certo al nostro; l’indicare inoltre quali fonti (passi biblici, personaggi, letture) potrebbero aiutare il nostro “assistito” a ben discernere le sue questioni. Per imparare questo, abbiamo effettuato delle prove “pratiche” a partire da situazioni inventate, ma
Strumenti Amici nella fede. Per la vita
plausibili: con l’aiuto di alcune domande guida, abbiamo cercato di analizzare bene il caso e di porci in relazione con esso; infine abbiamo provato a dare una soluzione alla domanda posta, motivando con il nostro essere la risposta. I risultati di questo lavoro? A mio avviso è stato fondamentale effettuare un “corso” di questo tipo: in una società che tempesta di input positivi o meno i nostri ragazzi, è sempre più importante che ci siano nuovi punti di riferimento per loro: dati alla mano, le ordinazioni presbiterali sono in calo, ma sulla scia del Concilio Vaticano II abbiamo a disposizione una forza nuova, quella dei laici, che va sempre più formata in questa direzione, oserei dire, “spirituale”. Stefano Ferrarese
Walk in progress è il sussidio pensato dall'Azione cattolica italiana per gli educatori che si occupano della formazione dei giovanissimi (15-18 anni) per l'anno 2011-2012. Quest’anno, assieme alla guida, si può trovare in allegato Amici per la fede. Per la vita, un testo sull’accompagnamento spirituale dei giovani e dei giovanissimi curato dal Settore Giovani dell’Azione Cattolica di Vicenza. Walk in progress è formato da sei moduli formativi, attraverso cui declinare nel corso dell'anno, il tema della vocazione a partire da alcuni brani del Vangelo di Marco. Il testo include anche tre dossier per la formazione dell'educatore sulla vocazione educativa, su giovanissimi, educatori e assistenti e su giovanissimi e mondo del lavoro. In allegato si trova anche un dvd con i commenti a brani di Vangelo utilizzati nel testo, un cortometraggio di presentazione del tema, video di testimonianze ed esperienze e molti materiali utili per le attività.
Appunti per una relazione educativa
Come strumenti nelle mani di Dio La progressione personale nello scoutismo Tutto il cammino scout, dal giorno in cui il Lupetto e la Coccinella iniziano il loro cammino, all’ultimo giorno di Clan, è un percorso verso la scelta della Partenza, cioè verso la decisione di vivere come strumenti nelle mani di Dio, come buoni cristiani e buoni cittadini. “La strada verso il successo”, per usare un’espressione cara a BadenPowell, fondatore dello Scoutismo, si sviluppa con la Progressione Personale, un cammino in cui capo e ragazzo camminano assieme, dandosi delle mete e di momenti di confronto. Per parlare di progressione personale, non si può prescindere dalla relazione educativa tra capo e ragazzo: sembrerà una banalità, ma il capo non può rinunciare al proprio ruolo educativo, perché c’è una persona che crede in lui e si fida di lui; proprio la fiducia è il collante immancabile di ogni relazione educativa che sia veramente efficace ed emotivamente coinvolgente. Educare deriva dal latino “ex-ducere”, che significa “condurre fuori”,
portare alla luce ciò che è già dentro al ragazzo; educare vuol dire far venire alla luce la personalità, non plasmarla. Ecco che si comprende come non si possa fare educazione in serie, perché ognuno è unico e la bravura dell’educatore non sta nel proporre “formule educative”, ma nel cercare di leggere e comprendere la storia di chi ci viene affidato, accettando di mettersi in strada assieme: conosciamo Pierino che abbiamo in gruppo? Baden-Powell raffigurava il rapporto capo-ragazzo nell’immagine del “fratello maggiore” perché è autorevole ma non autoritario, favorisce l’esercizio dell’iniziativa e il diritto di fare nuove esperienze. [..] vorrei smentire il diffuso preconcetto che, per essere un buon capo, un uomo debba essere un individuo perfetto o un pozzo di scienza. [..] Egli deve essere un “uomo-ragazzo”; cioè 1) deve avere in se stesso lo spirito del ragazzo, e deve essere in grado di porsi fin dall’inizio sul piano giusto rispetto ai ragazzi; 2) deve rendersi conto delle esigenze, delle pro-
spettive e dei desideri delle differenti età della vita del ragazzo; 3) deve occuparsi di ciascuno dei suoi ragazzi individualmente, piuttosto che nella massa; 4) infine, per ottenere i migliori risultati, è necessario che faccia nascere uno spirito di corpo nelle singole individualità dei suoi ragazzi. Per quanto concerne il primo punto, non è richiesto che il capo sia un maestro di scuola, né un ufficiale di truppa, né un sacerdote, né un pre-
cettore. Tutto ciò che gli si chiede è di trovare piacere nella vita all’aperto, di penetrare nelle aspirazioni dei suoi ragazzi [..]. È necessario che il capo si ponga nella posizione di un fratello maggiore, cioè che veda le cose dal punto di vista dei ragazzi, li guidi, li diriga e dia loro entusiasmo nella giusta direzione. Come il vero fratello maggiore, egli deve comprendere le tradizioni di famiglia e curare che vengano osservate[..] (da “Il libro
dei capi” - Baden-Powell ) In tutto il Cammino scout i ragazzi sono accompagnati dai loro “fratelli maggiori” nell’imparare a guidare da soli la propria canoa in un cammino di progressione personale che si sviluppa in tre momenti: la fase della Scoperta (“vedo”, i Lupetti-Coccinelle, dagli 8 anni agli 11-12), quella della Competenza (“acquisisco delle competenze”, gli Esploratori-Guide, dagli 11-12 anni ai 16) e quella dell’assunzione di Responsabilità (“agisco”, i Rover-Scolte, dai 16 anni ai 20-21) “Nel viaggio della vita, devi spingere la tua canoa con la pagaia, non remare come in una barca. La differenza è che, nel primo caso, tu guardi davanti a te e vai sempre avanti, mentre nel secondo non puoi guardare dove vai e devi affidarti ad altri che reggono il timone, col risultato che puoi cozzare contro qualche scoglio prima di rendertene conto. Molta gente tenta di remare attraverso la vita in questo modo” (da “La strada verso il successo” - Baden-Powell) Solo se insegneremo questo ai nostri ragazzi avremo fatto un buon lavoro, perché avremo mostrato loro la “Strada verso il successo”. Samuele Accordini Responsabile Agesci zona “Vicenza-Berica”
La Parola ai giovani 3
Educazione sessuale
a cura di Manola Tasinato e Giampietro Borsato
La storia: guardare ma non taggare La prospettiva adulta e non adulta della sessualità Desiderando riflettere sull'importanza di una buona educazione alla sessualità, ci lasceremo provocare dalla narrazione di un fatto realmente accaduto, e accaduto molte più volte e a molte più persone di quanto si possa immaginare. Il racconto, che pubblicheremo in due episodi, cerca di descrivere la collisione tra la prospettiva adulta e quella non adulta della sessualità. Lo sguardo adolescente, proprio in virtù della rapidità e dell'incisività con cui il corpo si trasforma tra i dieci e i vent’anni, tende a cogliere soprattutto - e talvolta esclusivamente - la dimensione biologica della sessualità. Per molti ragazzi e ragazze sessualità è un sinonimo di genitalità. Ed è giusto che sia così. Diventare adulti, però, comporta il raggiungimento di una consapevolezza tale da cogliere le molte dimensioni dell'essere e della sessualità: biologica, storico-culturale, etico-morale, ludica, riproduttivoprocreativa, relazionale, affettiva e - perché no? molte altre ancora. Le due prospettive (adulta e non adulta) si legittimano reciprocamente e attraverso un sapiente veicolamento dell’energia prodotta dal loro scontro o – per meglio dire - dal loro incontro, è possibile rendere più forte il legame tra realtà adulta e adolescenza e più efficace la relazione educativa.
Giuseppe e Maria hanno fatto parecchia strada, sono arrivati ad estinguere un mutuo ventennale, festeggiando le nozze di cristallo in quella che finalmente è proprio casa loro. Hanno un solo figlio, un diciassettenne ben allenato a resistere alle pressioni di genitori senz’altri figli all’infuori di lui e sorprendentemente abile nella contrattazione: l’arte con cui noi, genitori d’oggi, abbiamo sostituito la severità. Maria cerca di tenere d’occhio il suo ragazzo come può e Facebook le offre una miniera di informazioni sul figlio e sulle sue amicizie: è così che intuì, l’anno scorso, che Giorgio aveva una fidanzatina, poté vederla e sapere di Sofia, con un clic, più di quanto Giorgio le avrebbe mai confidato... Un mese fa, però, lesse nella bacheca del figlio una frase che la sorprese: era una citazione tratta da Gola Profonda, un film pornografico, che lei conosceva non per averlo guardato, poiché non aveva mai guardato film del genere, ma per la fama del titolo. «Guarda un po’ tuo figlio», Maria invitò Giuseppe alla finestra che dal loro studio si affaccia sul web. Giuseppe posò lo sguardo accanto all’indice di Maria, lesse la citazione e disse: «Sì, beh, non vuol dire niente. Sai come sono i ragazzi». Lo sguardo di Maria si fece interrogativo. «Sì, cioè - continuò l’uomo - con il telefonino si passano un sacco di stupidaggini. Non possiamo mica mettergli i paraocchi!». «D’accordo, ma perché ha riportato a caratteri cubitali quella frase?», chiese Maria piuttosto irritata. «Domandaglielo», disse Giuseppe. «Sì, e lui secondo te me lo spiega - Maria sospirò - è peggio di te quando si tratta di affrontare un discorso serio». Giuseppe alzò un po’ la voce: «Cosa ti aspetti? Che ti venga a dire “sai mamma, io guardo i film porno”?». «Perché -
chiese Maria - sarebbe così assurdo?». «Guardare film porno alla sua età - precisò Giuseppe sarebbe più normale che dire alla mamma che lo si fa!». «E a me non sta bene!», disse Maria incrociando le braccia. Poi, cercando di controllare il tono della voce, continuò: «Perché non provi a parlarci tu, Giuseppe? Forse tra uomini è più facile...». Giuseppe, grattandosi la testa, disse: «Cosa ne pensi se prima di farne un affare di stato, controllo se Giorgio ha film a luci rosse nel disco rigido in cui tiene tutte le sue cose?». «Va bene, mi sembra una buona idea», concluse Maria piegando leggermente le spalle in avanti. Giorgio era uscito. Giuseppe e Maria decisero di agire subito. Era la cosa giusta? Forse no, ma il bisogno di sapere la verità vinse le resistenze della loro “etica genitoriale”. Esplorarono per più di un’ora i contenuti del disco e alla fine trovarono molto più di quello che cercavano. In una cartella denominata con le sue iniziali Giorgio aveva tentato di mimetizzare alcuni video con un trucchetto da principianti. Una volta superato
l’ostacolo con il supporto della rete, Giuseppe e Maria assistettero (controvoglia, contrariati, contriti, conturbati, contratti e contro ogni aspettativa) alla proiezione di un video che Giorgio aveva ripreso con il proprio telefonino mentre lui e la Sofia si comportavano come i protagonisti di Gola Profonda. E se capitasse a me? Mettiamoci nei panni dei personaggi di questa storia: cosa abbiamo provato quando la nostra prospettiva non adulta della sessualità si è schiantata contro la solidità della consapevolezza adulta? Quali sono e che radici hanno le emozioni che attraversano un genitore, un educatore, un adulto insomma, quando la sua visione del mondo si scontra così violentemente con quella degli adolescenti con cui si relaziona? Dopo la rabbia, la delusione, dopo il dolore causato dallo scontro, vorremmo avere il coraggio e la forza di trasformare in incontro la più violenta collisione.
Gli autori Manola Tasinato e Giampietro Borsato sono una coppia di sposi della Diocesi di Padova. Manola è medico, ha cominciato ad occuparsi di educazione alla sessualita` quando, dieci anni fa, frequentando il pronto soccorso ostetrico dell’Ospedale di Padova, ha potuto constatare quanto fosse alta la richiesta di “pillola del giorno dopo” da parte di ragazze tra i 14 e i 18 anni. Giampietro è insegnante di lettere. Come coppia di sposi sono impegnati in numerosi progetti formativi per la Pastorale famigliare della Diocesi di Padova. Hanno collaborato in diverse occasioni anche con la Diocesi di Vicenza. Assieme al duo comico “Marco&Pippo” propongono il progetto di educazione alla sessualità Mutatis mutandis. Per informazioni scrivere a: letiziapura@gmail.com.
Pro-vocazione
C’è lo sguardo di Gesù in chi ti accompagna «Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa...». «Io sono responsabile della mia rosa...» ripetè il Piccolo Principe per ricordarselo. Pensando a cosa ha significato per me in questi anni essere stata accompagnata e aver trovato ascolto in alcune persone “più grandi”, mi è subito venuto in mente il bel rapporto tra il Piccolo Principe e la sua rosa. Credo che ognuno di noi in fondo si senta un po’ come quel fiore: abbiamo bisogno di cure, di qualcuno che si accorga di noi e che ci spinga oltre. Abbiamo bisogno di sentirci “custoditi”. La parola custodia mi è sempre piaciuta un sacco: dà la percezione che chi ci è di fronte è abitato, che porta un tesoro nascosto dentro di sé... Ecco, io penso di essere stata proprio fortunata ad aver incontrato persone che mi hanno aiutato a disseppellire piano piano e un po’ alla volta i desideri, le paure, le domande e le speranze più profonde che erano dentro di
me, ma che non riuscivo o non volevo vedere! La parola tecnica è “guida spirituale: so che può fare paura o sembrare qualcosa per gente troppo seria, ma in realtà altro non è che il tirare le fila di quello che succede nella nostra Vita, alla luce della Parola... Già, perché spesso due occhi soli non bastano! Soprattutto quando si ha a che fare con il desiderio, scritto dentro ad ognuno di noi, di una Vita piena e felice. Forse in questi tempi noi giovani rischiamo di sentirci un po’ soli: abbiamo la sensazione di non essere ascoltati veramente, di non essere interrogati sui sogni ma di dovere sempre stare al passo con una certa immagine che altri pretendono da noi. E allora o fuggiamo o ci mettiamo una maschera che nasconde il nostro volto, la bellezza ma anche la debolezza del nostro vero volto. È un peccato! Per questo diventa prezioso trovare qualcuno che ti ascolta e ti vuole bene così come sei e non come dovresti essere, qualcuno a cui poter davvero raccontarsi svelando se stessi senza vergogna e a cui affidare quello che “si muove dentro lo stomaco”:
i pensieri, i sentimenti e le fragilità che magari non riusciamo a mostrare ad altri perchè non vogliamo passare per degli sfigati... E te ne accorgi subito: attraverso lo sguardo di chi ti accompagna intravedi lo sguardo di Gesù nei tuoi confronti! È uno sguardo capace di vedere in ciascuno un tesoro sepolto e generosità che nemmeno noi pensiamo di avere, uno sguardo che non giudica, e perciò libera, va dritto al cuore e interpella la parte migliore di ognuno di noi! «Io sono responsabile della mia rosa» ripetè il Piccolo Principe...
La Parola ai giovani 4
Connecting the dots a cura di Andrea Frison
Politica, l’ascolto che non c’è «È stato un grande produttore di idee e di manufatti». Steve Jobs? No. Per una volta non si parla del fondatore della Apple, ma di un genio “nostrano”: Adriano Olivetti. Il patron dell’azienda di Ivrea era uno che ci vedeva lungo. Oltre alla famosa macchina da scrivere “Lettera 22”, la Olivetti, negli anni ‘60, aveva cominciato a “sfornare” i primi calcolatori elettronici. I computer. Ed era un’azienda d’avanguardia nel panorama industriale italiano. Talmente d’avanguardia che chi, allora, ci vedeva corto (industriali e politici) misero i bastoni tra le ruote e la divisione elettronica della Olivetti venne venduta alla General Electrics. C’è da mangiarsi le mani, oggi, se si pensa che Ivrea (l’Italia) avrebbe potuto essere un polo importante dell’industria informatica. Questo è il primo puntino. Il secondo puntino è lui, Steve Jobs. Uno come Steve Jobs non spunta a caso, non cala dall’alto, non si improvvisa. Uno come il fondatore della Apple è risultato di un talento personale e di un territorio, un contesto (la Silicon Valley), che ha permesso a questo talento di esprimersi. E il risultato, oggi, è sotto gli occhi di tutti. Steve Jobs non è stato un genio “da solo”: ha capitalizzato al meglio ciò che la Silicon Valley era capace di attrarre negli anni ruggenti dello sviluppo dell’industria informatica. Arriviamo al terzo puntino. Un vicentino, Federico Faggin. Si può dire che ha inventato lui il microprocessore. Un’invenzione paragonabile a quella della ruota. Il microprocessore, oggi, è al centro di moltissime attività umane, dal
Collegando i puntini, “connecting the dots” si scopre il disegno e si tracciano percorsi. Collegando i puntini si diventa consapevoli di ciò che ci circonda e in che contesto siamo inseriti. Collegando i puntini ci si fa un’idea di come vanno le cose.
I puntini sulle “i” Vedere queste scene non mi fa arrabbiare, mi fa piangere. Non sopporto più questa violenza gratuita, questo desiderio di chiudere la bocca a chi desidera semplicemente esprimere ciò che pensa con libertà e rispetto verso il prossimo. Di fronte a tutto questo rimango solamente basita. Elisa, su Facebook 17 ottobre 2011 tempo libero al lavoro, alla comunicazione. Faggin, nato del ‘41, sul finire degli anni ‘60 è finito a Palo Alto, in California, nella Silicon Valley. Dove ha sede la Apple. Non aveva ancora trent’anni. Come non aveva ancora trent’anni Steve Jobs quando nel garage dei genitori, assieme all’amico Steve Wozniak assemblò il suo primo computer. Faggin aveva iniziato la sua carriera lavorando all’Olivetti. E qui il cerchio si chiude. Arriviamo ai giorni nostri. Non è da ieri che l’Italia ha disperso i suoi talenti in giro per il mondo. L’incapacità di offrire opportunità di sviluppo e innovazione per tracciare strade nuove, ha portato alla situazione che, in questi giorni, abbiamo davanti agli occhi: migliaia di giovani che protestano perchè davanti a loro non vedono futuro. Sono giovani che possono contare su una scolarizzazione mi-
Tre puntini: Adriano Olivetti, Steve Jobs, Federico Faggin
Metodologia di conduzione dei gruppi
a cura di Mirco Paoletto
In ascolto del “vuoto spinto” Diventiamo ciò che ascoltiamo Normalmente quando si parla di ascolto nell’educazione si è portati a concentrarsi sugli aspetti più “alti” di questa dimensione fondamentale della relazione tra animatore e animato. In questi appunti di metodologia si propone un’attività di gruppo sull’ascolto del “vuoto spinto”.
duare i messaggi più ridondanti (ricorrenti), lanciati nell’arco di una giornata o di una settimana. Lo si può fare in gruppo (portando giornali, un PC collegato ad internet o una TV accesa per 20 minuti facendo zapping su canali diversi), oppure assegnando un “compito per casa” nel corso della settimana.
Il concetto teorico di base è che noi diventiamo anche ciò che ascoltiamo. Partendo da questa consapevolezza, sarebbe interessante analizzare cosa normalmente siamo indotti ad ascoltare nella nostra giornata-tipo.
Step Two Una volta individuati i messaggi più ricorrenti si elencano in un cartellone e ci si chiede: 1) Come plasmano la nostra personalità questi messaggi? 2) A quali comportamenti siamo indotti da questi messaggi?
Step One Possiamo invitare il gruppo a considerare i contenuti (quindi la parte logica dei messaggi, cioè il testo) delle più ricorrenti situazioni di ascolto: la relazione interpersonale, l’esposizione ai media, la dimensione interiore. La proposta è di concentrarsi sull’esposizione ai media. Per media intendiamo TV, giornali e internet. Possiamo chiedere al nostro gruppo di indivi-
15 ottobre, violenza a Roma
Sarà interessante poter far riflettere i giovani/giovanissimi sul fatto che la mancanza di consapevolezza sui contenuti ai quali distrattamente e con superficialità ci lasciamo esporre, rischia di farci diventare ciò che non scegliamo di essere. Tutto questo può portare ad un vuoto di significati e di senso in quello che facciamo, il “vuoto spinto” appunto.
Upgrade Per i gruppi più sensibili o maturi, lo stesso esercizio può essere fatto anche per la parte analogica del messaggio (il meta-messaggio, cioè tutto ciò che non è parola). In questo caso la chiave di lettura sono gli atteggiamenti, il tono di voce, le ambientazioni, il look... Anche in questo caso i messaggi potranno essere riletti negli effetti che potrebbero avere sui nostri modi di essere. Se consideriamo che normalmente già a scuola ci abituiamo ad imparare ascoltando senza interesse, possiamo immaginare quanto di ciò che sentiamo distrattamente nella nostra quotidianità, plasma il nostro diventare persone. Lavorare su questo può essere una sfida molto interessante per qualsiasi gruppo che voglia dirsi veramente educativo. È possibile discutere e contribuire all’argomento sul forum di www.animattivi.it.
gliore di quella delle generazioni precedenti. Girano il mondo come niente fosse, parlano due lingue, hanno dimestichezza con le nuove tecnologie. Eppure, questo “capitale” sociale, in Italia, sembra non contare. All’estero sì. E, infatti, molti partono. Non si tratta solo di “cervelloni”. Si tratta di giovani “normali” che all’estero hanno maggiori possibilità di trovare lavoro, maggiori possibilità di avviare un’attività, maggiori possibilità di fare qualcosa che non sia guardarsi intorno con sconforto in un Paese dove tutto è bloccato. A partire dal rinnovo della classe politica, ma non solo. Questa mancanza di ascolto toglie spazio ai giovani “migliori”, ai quali non resta che la piazza per esprimere il proprio disagio. In piazza, però, come è avvenuto a Roma nei giorni scorsi, rischiano di trovarsi in balìa dei gruppi di
violenti, bravissimi a sfruttare le debolezze (o il mancato interesse) dello Stato nel garantire la sicurezza di una manifestazione. Mario Draghi, che tra pochi giorni assumerà la guida della Bce, nei giorni scorsi aveva espresso simpatia per i giovani che, civilmente, sarebbero scesi in piazza a protestare. E non è la prima volta che l’ex governatore della Banca d’Italia manifesta le sue preoccupazioni per le nuove generazioni: «Nel nostro paese - ha sottolineato Draghi in un convegno ad inizio ottobre - le prospettive di reddito delle nuove generazioni sono più che mai incerte; il loro contributo alla crescita è frenato in vario modo dai nodi strutturali che strozzano la nostra economia. Si stanno sprecando risorse preziose stiamo mettendo a repentaglio non solo il loro futuro ma quello del Paese intero».
La Parola ai giovani 5
Liturgia
a cura di don Gaetano Comiati
Ascolta!
Non ti chiedo di chiudere la bocca e spalancare le orecchie. Ti chiedo di metterti in cammino.
A
scolta! Ti chiedo di ascoltare. Non cedere alla tentazione di chiudere subito la bocca, né di spalancare violentemente le orecchie. No, prima esci di casa e mettiti in cammino. Conta i tuoi passi, scandisci il percorso, ritma la strada. Arriva nei pressi della chiesa, sosta un istante. È domenica, molte persone arrivano dalle loro case. Osserva il loro volto, le loro mani. Entrano per la preghiera comune. Sorridi quanto
Laboratorio della fede
vuoi, ma fidati di quello che sto per dire: l’ascolto inizia dai tuoi piedi. Dai piedi di chi accetta l’invito a diventare parte di una storia di fede, solidarizzando con il presente e il passato della comunità cristiana, dell’assemblea credente. Non c’è ascolto senza questa immersione, senza questo volontario e responsabile ingresso, compromettendosi nella vicenda attuale del popolo di Dio. Con la gente, tra la gente, senza fuggire la maglia complessa delle relazioni alle quali il Signore si consegna e ci consegna. Il “cuore ascoltante” fiorisce dal piede di un pellegrino. Hai lasciato la tua casa alle spalle, come Abramo lasciò quella del padre e Israele quelle d’Egitto. È un allontanamento che racconta liberazione. Se sei arrivato alle porte della chiesa e ora sali il gradino che immette nell’aula liturgica, questo ulteriore movimento ha il sapore della decisione, ti schiera. Stai scegliendo quale Dio servire, e lo scegli mettendoti per strada con altri fratelli. Cammina dunque! Cammina! perché il Si-
gnore compie liberazione con la polvere alzata dai sandali: sentirai il fuoco e il gelo, patirai il dubbio e la paura, ma imparerai a gustare e testimoniare la tua appartenenza a Dio nella comunità di quanti lui chiama. Voglio insomma dirti: un ascolto vero è possibile solo nella condivisione reale della vita ecclesiale perché, tra te e le Scritture, c’è sempre l’assemblea liturgica dei credenti. Guarda infatti l’ambone, il leggio rialzato da dove si proclama la Parola. Ti sta davanti, di fronte a te e a tutte le altre persone. Osserva come i lettori vi si avvicinano, come si alternano attorno ad esso. Ci hai mai pensato? Se vuoi essere alleato di Dio, devi confrontati con lui sempre di petto e mai da solo. Nell’ambone è posto il Lezionario, il grosso e pesante libro che raccoglie i brani biblici. Guardalo, se puoi, toccalo, pagine e pagine adagiate l’una sopra l’altra, leggere e fragili singolarmente, massicce e forti tutte unite. È lì a dirti che la conoscenza di Dio, del suo mistero
d’amore, ben lontano dall’improvvisazione estemporanea e sporadica, è stata preparata e intessuta nella paziente trama della storia. Ti precede, ti attende, ti accoglie e ti è consegnata dalla comunità cristiana che ha custodito per te, fino a questo momento, il “vino buono”. Ma tutta questa potenza è poca cosa, è un nulla, se nella comunità qualcuno non si alzasse per dare suono e vita a quei caratteri impressi con l’inchiostro. Sono i fratelli a mostrarti Lui ancor prima che tu possa ascoltarlo. Il loro viso è i gesti da loro compiuti sono la pagina iniziale di ogni profezia, di ogni vangelo. Mentre ti racconto queste cose la tue mente scorre una grande varietà di immagini, di movimenti, di oggetti. Guarda l’assemblea riunita, guarda il Libro preparato, vedi che Dio parla per formare un Popolo, vedi che solo il popolo può custodirne la Parola. Dopo i tuoi piedi, ad aprirsi all’ascolto, sono stati i tuoi occhi. Questo è l’inizio di ogni prodigio, di ogni dialogo!
a cura di don Andrea Guglielmi
Gesù, un uomo capace di ascolto La pastorale giovanile si rimette in moto tutte le volte in cui tra la comunità cristiana e le nuove generazioni si crea un clima di ascolto. Per imparare ad ascoltare dobbiamo ricollocarci dietro a Gesù e fare strada con lui da discepoli, per essere contagiati dal suo stile. Scorrendo le pagine dei vangeli si nota la sua disponibilità costante a dare la parola all’altro, a entrare in sintonia con gli stati d’animo, con i desideri, con le aspettative e le domande profonde, che abitano nel cuore di ciascuno. Qualche esempio? Se apriamo il vangelo di Giovanni, le prime parole che Gesù pronuncia sono una domanda rivolta ai primi discepoli: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38). La domanda ritorna alla fine del vangelo, rivolta a Maria di Magdala: “Chi cerchi?” (Gv 20,15). Nel tragitto tra Gerusalemme ed Emmaus (Luca 24,13ss), Gesù parte anche lì da una domanda per entrare in dialogo con i due discepoli (Lc 24,17). Nel vangelo di Matteo, mentre escono da Gerico, due ciechi gridano la loro disperazione mentre Gesù sta passando; la folla chiede a loro di fare silenzio, Gesù al contrario si ferma, vuole incontrarli, li fa parlare, chiede che cosa vogliono da lui, prova compassione, li tocca e li guarisce (Mt 20,29-34). E la lista degli esempi
verso Dio, il rifiuto di ogni delirio di onnipotenza, l’assurda pretesa di metterci al posto di Dio e di assolutizzare la nostra volontà, i nostri punti di vista. L’umiltà di Gesù è il suo riconoscersi figlio di Dio, mettersi in atteggiamento di ascolto e di obbedienza, la sua costante ricerca della volontà del Padre.
L’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus nel mosaico di Ivan Rupnik
potrebbe dilungarsi parecchio. Sarebbe interessante ripercorrere i vangeli per notare la tendenza di Gesù a fare domande, che è il segnale più chiaro della sua volontà di ascoltare. Gesù è un uomo capace di ascolto perché ha scelto di essere il Messia mite e umile di cuore Perché Gesù sapeva ascoltare? Che cosa c’è alla radice di questa sua costante disponibilità? Riapriamo il vangelo di Matteo al cap. 11 e ascoltiamo questi versetti: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono
mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11,28-30). In questo breve passaggio Gesù ci offre la sua carta d’identità: “Mite e umile di cuore”. Il primo aggettivo - “mite” - chiarisce lo stile con cui Gesù entra in relazione con le persone: da uomo disarmato, privo di qualsiasi violenza o aggressività, carico di rispetto e delicatezza verso chi gli è di fronte. Il secondo aggettivo invece - “umile di cuore” - è l’equivalente della prima beatitudine, laddove Gesù dice “Beati i poveri in Spirito”; è l’interiore atteggiamento di umiltà
Per queste sue caratteristiche, Gesù offre alle persone che incontra una speciale e squisita ospitalità. Incontrare Gesù significa trovare “ristoro”. È l’uomo che accoglie, che vive una costante apertura all’altro. Anche il modo con cui Gesù decide di entrare a Gerusalemme è significativo (cfr. Mt 21,1-9). L’evangelista Matteo vi legge sullo sfondo la profezia di Zaccaria (Zc 9,9-10), che annuncia l’arrivo di un Messia umile, completamente disarmato, mite, seduto su un’asina e non in groppa a un focoso e potente destriero. Gesù accetta di essere identificato come il Messia atteso dal popolo ebraico e ampia-
mente annunciato dai profeti; però ha sempre avuto paura di essere frainteso; la preoccupazione costante di Gesù è precisare lo stile della sua missione: non usa la violenza, non vuole ferire nessuno. Si identifica nelle figure del Messia povero e mite, il Servo Sofferente che paga di persona il prezzo delle colpe e dei peccati di tutti; un Messia che si offre come vittima al posto nostro. Per lavorare in gruppo All’interno di un gruppo giovani o in una serata di formazione tra animatori o capi-scout, si potrebbero ripercorrere i brani dei vangeli che sono stati citati. Una volta precisato qual era lo stile relazionale di Gesù, può nascere un confronto in gruppo a partire da alcune domande: * Nella nostra parrocchia quali possibilità concrete ha un ragazzo o un giovane di trovare accoglienza e ascolto? * Qual è il clima che si respira nella comunità? C’è un’aria pesante a livello di rapporti umani? Si notano di più le aperture o le conflittualità? * Quali passi si potrebbero fare perché la comunità cristiana nel suo insieme possa avvicinarsi sempre di più allo stile di vita di Gesù, “mite e umile di cuore”?
La Parola ai giovani 6
I
film in genere si guardano e, se piacciono, si consigliano come “da vedere”. Considerando però il tema scelto per queste pagine di pastorale giovanile di ottobre, proponiamo due film che forse sono soprattutto da ascoltare o che, comunque, possono farci intuire qualcosa di più dell’arte e della bellezza dell’ascolto. Si tratta di due pellicole per certi versi problematiche, ma d’altra parte ascoltare significa lasciare essere l’altro e la realtà per quello che sono, accettando il rischio della diversità, senza preoccuparci subito di esprimere pareri e valutazioni. Una voce nella notte di Patrick Stettner, Usa 2007 Interpreta il personaggio principale il bravissimo Robin Williams, questa volta nei panni di uno scrittore e conduttore radiofonico di successo. Ogni notte Gabriel Noone - questo il nome del protagonista - narra con passione e coinvolgimento le storie dei suoi ascoltatori, dando la possibilità a tante persone di raccontarsi, rassicurati dalla sua voce avvolgente e dal suo spirito comprensivo. In realtà Gabriel vive, però, un momento di profonda crisi personale:
Buio in sala
a cura di Alessio Graziani
Due film... da ascoltare Deejay Robin Williams in una scena del film Una voce della notte (Usa 2007), dove interpreta un conduttore radiofonico il suo giovane compagno omosessuale lo ha abbandonato e la vena creativa, che lo aveva portato al successo letterario, sembra essersi del tutto inaridita. Anche mentre parla con i suoi radioascoltatori non sembra più essere capace di ascoltarli realmente, ripiegandosi comunque sulla pro-
pria esperienza, sul proprio vissuto, interpretando tutto a partire da sé stesso. Le cose cambiano nel momento in cui telefona in radio un quindicenne, con una storia molto pesante da raccontare... . Il film è stato definito un thriller psicologico, in un climax emotivo che porterà il protago-
Il grande silenzio di Philip Groning, Germania 2005 Questo film più che parlarci dell’ascolto, ci obbliga a viverlo, in quello che potrebbe risultare a molti un esercizio faticoso, ma sicuramente interessante. Il film di Philip Groning è una sorta di documentario che descrive la vita alla Grande Certosa di Grenoble, sulle Alpi Francesi. La macchina da presa, entrata con discrezione tra le mura dell’antico monastero fortezza, ritrae la vita dei monaci certosini nei diversi momenti delle loro giornate e di un anno intero di vita claustrale, da una primavera all’altra. Il film, apparentemente immobile e privo di
Monaci Un’immagine tratta dal film Il grande silenzio (Germania 2005), girato alla certosa di Grenoble in Francia
“E nella luce nuda vidi diecimila persone, forse più, gente che comunicava senza parlare, gente che sentiva senza ascoltare, gente che scriveva canzoni che nessuna voce avrebbe mai cantato e nessuno osava disturbare il suono del silenzio”. The Sound of Silence, Simon & Garfunkel. “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.” Genesi 1, 2-3. “Il nostro udito moderno si è fatto carezzare dall’alta precisione degli impianti stereo, stordire dalle amplificazioni delle sale sa ballo e dai rumori meccanici più assordanti mai percepiti prima da orecchio umano. Il silenzio, oggi, è un disturbo dell’udito. Dio avrebbe grandi difficoltà a procurarsi ascolto, se volesse, ma non vuole. Ha già lasciato la sua voce scritta nel libro che si chiama Bibbia. Lì, con un po’ di fortuna e una vertigine di silenzio, dentro di sé più che intorno, ognuno può ascoltare il frammento che gli illumini il giorno.” Alzaia Erri De Luca (Feltrinelli 1997, p. 18)
nista soprattutto al vero ascolto di sé stesso, all’incontro con le paure e le realtà più profonde del proprio cuore. La notte, spazio radiofonico intimo e invitante al racconto, diviene così simbolo di una condizione che rende possibile il vero ascolto di sé e dell’altro perché libero dai mille rumori e dalle normali pre-occupazioni del giorno.
uno sviluppo narrativo, trova invece un suo modo straordinario di procedere inserendo un dialogo muto tra l’uomo e la natura, scandito fuori dal monastero dalle stagioni e dentro le mura, vecchie di quattro secoli, dalla rigorosa liturgia dei monaci. Il coinvolgimento dello spettatore è affidato unicamente alle immagini, che non si aggrappano quasi mai a un suono, a una voce esplicativa fuori campo, a una musica applicata alla pellicola, a una parola, se non a quella di Dio. I salmi e le preghiere, sgranate come un rosario e costantemente ripetute, sono l’unico linguaggio concesso, lo strumento verbale alto per pensare il divino, per comunicare con Lui. Ma l’ascoltatore attento coglierà anche i rumori del disgelo, i passi felpati dei monaci, il miagolio dei gatti e il cinguettio degli uccelli: suoni quotidiani a cui raramente si presta attenzione. E come Elia, nell’ascolto del silenzio, scoprirà sorpreso la presenza di quella Voce che continua a parlare al cuore degli uomini.
Dallo Staff di Radio Vigiova
Noi siamo la razza umana e ascoltiamo le canzoni In radio, ogni volta che si accende la scritta ON AIR e stai sentendo il silenzio che precede la tua parola, senti tutta la responsabilità che ti è richiesta: colmare il vuoto accogliente dell’orecchio disposto all’ascolto. E Radio Vigiova cerca di farlo con lo stile del servo inutile, del medium vero, uno strumento che amplifica; con lo stesso stile inaugura questa rubrica, per suggerire canzoni, testi, film a tema. Cominciamo dall’ascolto. Due scene nella mente, che ci insegnano prima di tutto ad ascol-
tare quelli che abbiamo vicino e più ci amano, della cui presenza spesso neppure ci accorgiamo. La prima è la sequenza iniziale de La mia fine è il mio inizio (Jo Baier, 2011), film ispirato al libro di Tiziano Terzani, in cui il saggio giornalista ritiratosi alle pendici dell’Himalaia intavola un dialogo col figlio sul senso della vita: «E se io e te ci mettessimo ogni giorno sotto la pergola per un’ora e io parlassi a ruota libera di tutto quello che mi sta a cuore, dalla storia della mia famiglia a quella del grande viaggio della vita, un dialogo tra padre e figlio... così diversi e così uguali?». La seconda il finale di Big Fish di Tim Burton (2003): un padre in fin di vita chiede di raccontare la storia della sua fine al figlio, che spesso ha trascurato, illuso e deluso; e il figlio inizia a narrare e, mentre ascolta, il padre se ne va, come un grande pesce nel fiume, col sorriso sulle labbra. Nel racconto Silmarillion di Tolkien (Bompiani 2000, pp. 3537) la Creazione avviene a partire
dall’ascolto di una musica grandiosa e perfetta, i cui suoni costruiscono il mondo... Nel 2003 esce una versione rimasterizzata del primo disco del gruppo funkrock Red Hot Chili Peppers, che include un inedito What it is, solo voce, silenzio e basso: «Ascolta bene, espone una voce dentro me: “Noi siamo la razza umana e ascoltiamo le canzoni” Sì, consegniamo la verità ai nostri parti musicali, un suono che sconvolge l’anima, con cui elettrifica la Terra, la gente deve sapere che i soldi non c’entrano, la moneta non è la via per riempire di luce la nostra vita, non ce n’è bisogno se hai il seme nell’anima; amore, vita e pace possono iniziare solo quando sai che nel tuo cuore c’è il cambiamento. Ama tutti i tuoi fratelli, ama tutte le tue sorelle»... Un altro sfogo rock è quello di Kid Rock in Only God knows: «Sto seduto qui provando a trovare me stesso (...) Ho bisogno (...) di ascoltarmi in sottofondo. Dicono che ogni uomo sanguina proprio come me, e mi sento il numero uno eppure sono l’ultimo. Così sento
Anthony Kiedis, voce dei Red Hot Chili Peppers che continuerò a camminare con le mani giunte verso l’alto, continuerò a muovermi e solo Dio sa perché». Un’eco da tre grandi voci femminili: per la colonna sonora del film “Dreamgirls” Beyonce canta Listen: «Ascolta il suono dal profondo di me, sta appena iniziando a trovare uno sfogo, è venuto il momento per i miei sogni di essere ascoltati, non saranno messi da parte e trasformati nei tuoi e solo perché tu non ascolti...». Fiorella Mannoia in Ascolta l’infinito: «Com’ è difficile dire tutto quello che sento, tutte le piccole grandi verità ed ogni movimento che mi cambierà e camminare così nell’infinito che ho dentro, che si modifica e cerca libertà e chiede di capire quello che sarà; se parli piano puoi sentirlo già: ascolta l’infinito»; le fa eco Elisa in Luce (tramonti a Nordest) chiudendo con le parole ripetute sfumando: «Ascoltami, ascoltati...».
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Coffee break
quattro chiacchiere con Valentina, 27 anni, maestra
La fede che cresce in una comunità povera Un caffè d’orzo e un gingerino, una piazza gremita all’ora dell’aperitivo, luce radente e un’atmosfera che concilia bene il raccontarsi. Valentina ha ventisette anni, è maestra d’asilo in una scuola materna parrocchiale, sostiene un progetto per i bambini della Colombia. Crede nell’amore, nel rispetto, nel valore di non giudicare. È energica, impegnata, paziente. Le piace ascoltare: ascoltare i suggerimenti di un’amica che le consiglia un’esperienza ad Assisi, di un laico che parla di Dio, ascoltare con il cuore la condivisione nella comunità. E parlare di fede, sgorga naturale. «Con la fede ho un rapporto un po’ contrastante: un po’ come tutti, sono cresciuta in una famiglia cristiana, i miei genitori sono praticanti, ma non hanno mai premuto, non ho mai fatto parte di gruppi giovanili. Durante l’adolescenza, a messa andavo e non andavo. Crescendo, ho iniziato a farmi delle domande: o senti di essere credente per davvero oppure puoi anche lasciare e rompere. Quando sono stata in Erasmus a Parigi ho iniziato ad andare a messa nella parrocchia in cui c’era un giovane prete scalabriniano italiano. Sono andata lì per la necessità di trovare aiuto, anche per vincere la solitudine. Lì ho iniziato per la prima volta a far parte di un gruppo: abbiamo preparato insieme la Pasqua. Tornata a casa ho seguito un corso per il volontariato a Bassano,
«Se avrò una famiglia mi auguro che ci sia la fede, quel di più che la fede dà alle coppie unite anche in questo» dagli Scalabriniani. Una ragazza mi ha suggerito di andare ad Assisi, in quel mio momento di ricerca. Ho trascorso dalle suore francescane una settimana e lì ho scoperto che cosa voleva dire essere cristiana: ho vissuto la reli-
gione come forma di liberazione e di amore e non più come senso del dovere e del peccato. Pensa che da piccola per una settimana prima della confessione pensavo e ripensavo a che peccato dovevo confessare. E finiva che dicevo: “Ho dato le botte a mia sorella”! Da un paio d’anni ho iniziato a leggere il Vangelo e mi sono innamorata dell’esempio di Cristo: fino a prima non ero riuscita a vederlo così». Valentina, se capisco bene, la tua fede è cresciuta più fuori che dentro la parrocchia. Non ti manca la comunità? Il senso di Chiesa che hai provato a Parigi?
Chiesa come istituzione vivo grossi contrasti: è fatta di uomini e mi sembra non sia sempre sull’esempio di Cristo. La fede è una cosa intima, tua. Ma è bello anche avere una comunità. I momenti belli in una comunità li ho vissuti quando ho sentito che non c’era niente di pomposo; dei francescani mi è piaciuta la povertà, perché con loro ho visto che non c’è niente di più bello e semplice del pregare».
«Invidio molto chi può vivere il senso di comunità nel quotidiano, sì. Un po’ per pigrizia non mi sono mai interessata alla comunità, un po’ per gli spostamenti sono stata fuori dalla mia parrocchia. Penso che la comunità mi sia mancata anche quando ero piccola. La comunità per me è anche un ente educante importante. Con la
A proposito di educare alla fede: ci sono state, ci sono delle figure per te significative? «Non penso ai miei genitori. Penso a una suora che ho incontrato ad Assisi, penso ai missionari, a quei laici che sono stati grandi esempi di fede. Penso a un’amica, che mi ha insegnato a prendere in mano il vangelo, mettendosi alla pari con me. Sono esempi illuminanti di che cosa vuol dire credere. Neanche la persona più innamorata che ho visto nella mia vita aveva gli occhi della suora innamorata di Cristo che ho incontrato ad Assisi: mai avevo incontrato una persona che mi trasmettesse una scelta di vita con quell’amore. Ho conosciuto dei preti che mi hanno avvicinata, affascinata, altri che mi hanno trasmesso poco. Quest’anno ho seguito un corso di
Sarà il fatto che mi sono sfogata con lei e mi ricordo che il suo abbraccio, il modo in cui mi ha abbracciata, non era un abbraccio qualunque, che ti fa un amico che ti vuole bene, era l’abbraccio di una sconosciuta, che mi trasmetteva tutto l’amore gratuito che una persona può darti. E lì ho capito che alla fine non ero da sola. Mi ha scosso ancor di più, quindi mi sono venuti ancora più dubbi. È stata una cosa che mi ha portato a dire: “...ok, o fai qualcosa o resti sempre nell’insicurezza”. Poi, ho conosciuto un’altra persona. E parlare con lei era come avere di fronte Gesù. Però i suoi occhi... mi hanno colpito, io restavo ammaliata dai suoi occhi, dal suo sorriso, dal suo sguardo. E lì, piano piano, nel senso: “Che bello, scopriamo la religione!”. È stata una cosa abbastanza sofferta. Una volta sono scoppiata a piangere di gioia. Ero così felice, e scossa nello stesso tempo, ho pianto di gioia. Poi ho conosciuto il mio attuale migliore amico, abbiamo avuto un’esperienza talmente forte, un’amicizia che è pazzesca, e pur conoscendoci da non molto tempo, avendo avuto esperienze molto forti questa amicizia ci accompagna. La mia base, il mio cammino cristiano lo faccio anche con lui». (dai Focus Group)
Abbiamo passato una mezz’ora insieme, parlando e cammindando Ero a [citta universitaria], dovevo fare un esame per provare ad entrare all’università. Ero appena arrivato, dormivo in un appartamento da una ragazza che non c’era, e la sera sono uscito a mangiare, mi sono fermato e ho chiesto indicazioni a un cappuccino e questo non era di [citta universitaria], però lì ci siamo messi a parlare e abbiamo fatto una buona mezz’ora insieme camminando, parlando. E questa è stata un’esperienza, proprio perché inaspettata, molto piacevole e che mi ha stupito. Sono le cose più belle quando incontri qualcuno che non conosci e, proprio perché non lo conosci e sai che non lo ri-
«Dei francescani mi è piaciuta la povertà, con loro ho visto che non c’è niente di più bello del pregare»
counseling su logoterapia e senso, che mi era stato proposto in ambiente lavorativo: il messaggio che arrivava era che se ti metti in ascolto puoi trovare tante risposte nel Vangelo, più che se andassi da uno psicologo. Mi ha colpito come potesse parlare di fede una persona laica, in un contesto laico». Valentina, ti invito a concludere con un pensiero al futuro. «Mi auguro che nella mia famiglia futura, se e quando ce ne sarà una, ci sia della fede. Vorrei che ci fosse quel di più, dato dalla fede, che vedo nelle coppie unite anche in questo. Fede è anche fede nella vita. Non è lo stesso non averla. Non è lo stesso vivere da fatalisti. Essere innamorati di Gesù Cristo per me è essere innamorati della vita». E con questa stessa fiducia, con questa stessa fede, ci salutiamo, condividendo quest’ultimo pensiero: “C’è la strada in cui credi, e il coraggio di andare”. Margherita Scarello
Sfogliando le pagine di “C’è campo?” C’è Campo? Govani, spiritualità, religione è il titolo del volume che raccoglie i risultati dell’indagine condotta dall’Osservatorio socioreligioso del Triveneto nella Diocesi di Vicenza. L’indagine ha analizzato i sentimenti spirituali dei giovani tra i 18 e i 29 anni. Ne è uscito un quadro variegato: a 72 interviste, realizzate con giovani”vicini” e “lontani” dal mondo ecclesiale, corrispondono 72 diversi modi di concepire e vivere la spiritualità, la fede e l’appartenenza alla Chiesa. Il volume C’è campo? è edito da Marcianum Press. In questa rubrica ne vengono pubblicati alcuni estratti.
La copertina dell’indagine
Rimango sempre affascinata dalle persone che credono «Vado a periodi, il rapporto con la religione è una cosa che ho costruito con difficoltà, anche se dalla mia famiglia ho avuto una base, una buona educazione cristiana. Poi però arrivi al punto che ti fai le domande, e, o cerchi le risposte o lasci perdere. Io sono al punto che le risposte le ho cercate, con abbastanza difficoltà. Ne ho trovate alcune, e quindi mi rendo conto che indietro non posso tornare e sono convinta delle cose in cui credo, delle persone in cui credo, indietro non torno. Però è difficile, non è una cosa semplice, infatti, io rimango sempre affascinata dalle persone che credono, perché lo sguardo di quelle persone è diverso. Io sono cresciuta in una famiglia cristiana. In terza superiore, però mi è morto uno zio. A me non ha sconvolto il fatto che sia morto, ma la domanda se la vita ha un senso. Io mi sentivo vuota e sono arrivata in quinta superiore, nel passaggio tra le superiori e l’università, non sapevo che cosa fare. Ho poi messo in discussione un sacco di cose che davo per scontate. Mi chiedevo il senso, vedevo il muro, il vuoto... il nero. “Che senso ha?”. “Sì, io credo che sia esistito Dio, però che senso ha?”. E allora, in quinta, siamo andati ad Assisi e lì ho incontrato una suora, sr ***.
vedrai più, puoi tranquillamente parlare liberamente e, se sei fortunato, puoi trovare la persona che sicuramente è diversa da te, però in qualche modo ti capisce. Io so di aver fatto un tratto di strada insieme con questo cappuccino; io e lui abbiamo esperienze diversissime, ha fatto una vita diversa dalla mia. Io sono molto giovane, ma in quel momento sono stato felice di aver fatto questo incontro. Adesso mi è venuto in mente, parlando del dialogo, perché ho dialogato con questa persona. (Enea, esterno) Da C’è campo? Giovani, spiritualità, religione, Osservatorio Socio-Religioso Triveneto, Marcianum Press, Venezia 2010, Pagg. 272-273.
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Per continuare a riflettere Dal documento finale del Sinodo dei giovani
Educare, amare ed esserci Quando ci è stato chiesto di scrivere qualcosa sulla nostra esperienza di docenti di religione, abbiamo subito pensato alla difficoltà di esprimere il senso di un’attività che assomiglia più ad una passione che ad un lavoro. Potevamo partire da alcune riflessioni generali: la collocazione di tale disciplina nell’ambito della formazione dello studente; il fatto che la conoscenza religiosa rientri di diritto fra quei saperi fondamentali, di cui la persona necessita per crescere e svilupparsi nella sua integrità; oppure si poteva insistere sulle difficoltà che incontriamo per far capire l’importanza della proposta che quotidianamente portiamo avanti. Quella che proponiamo, invece, vuole essere solo una breve testimonianza da parte di chi, da circa venti anni, ha il privilegio di svolgere questo insegnamento. E per iniziare ci sembra davvero appropriata questa citazione di Charles Moller: “Quando si hanno di fronte per parecchie ore al giorno venticinque volti di ragazzi dai 15 ai 18 anni, che si vendicano spietatamente quando si è noiosi nelle lezioni, ma che vi fissano con i loro occhi di chiarezza, talvolta di tenerezza, quando nel silenzio profondo di un’ora mattinale un riflesso del bello e del vero li illumina, è impossibile non porsi e riporsi senza posa le questioni eterne che sono tutta la vita d’un uomo; ed è impossibile non rispondervi, perché la gioventù è impaziente. I libri allora non bastano più. La risposta deve essere data immediatamente, e deve essere vera, cioè totale, perché nessuno può ingannare la giovinezza. Bisogna allora chiudere i libri, senza però dimenticarli, bisogna guardare in faccia questi giovani, bisogna soprattutto interrogare se stessi e rispondere alle questioni sparse nei testi, imbrattati di inchiostro, dei nostri autori...”. Con un po’ di presunzione possiamo dire che questo è quanto ci sforziamo di fare, perché l’insegnante non può non interrogare se stesso sul significato del proprio essere docente/educatore. Siamo convinti che una scuola “a misura d’uomo” (di studente ma anche di insegnante) dovrebbe preoccuparsi prima di tutto di assicurare a ciascuno la possibilità di esprimere potenzialità e differenze, per valorizzare l’originalità dei percorsi didattici e l’atipicità dei ritmi e dei sistemi di apprendimento. E noi, ancora oggi dopo 20 anni, abbiamo in comune con il viaggiatore l’emozione per l’imprevisto, per quel tanto di miste-
Antonio e Giuliano, insegnanti di religione di due licei di Vicenza raccontano la loro esperienza rioso che nessuno è in grado di anticipare e individuare. Ma l’imprevisto è il sale di ogni viaggio: lo complica ma proprio per questo lo rende irripetibile. Questo a dire che l’insegnante e in particolare il docente di religione non è quella figura che spesso molti hanno nella mente. L’insegnante non è un burocrate, cioè qualcuno preoccupato innanzitutto delle proprie “carte”: è persona, è anima, è cuore. Non è solo colui o colei che siede dietro una cattedra, perché io, come insegnante, non mi identifico con la cattedra, con il registro, con un voto, anche se la valutazione è fondamentale per aiutare lo studente a maturare sul piano culturale. Con un’espressione forte ci viene da dire che l’insegnante è
stra attività dobbiamo rapportarci con centinaia di ragazzi diversi l’uno dall’altro, con decine di colleghi ciascuno con la propria visione della vita. È una rete vastissima di rapporti che costantemente ci interpella e talvolta ci sfianca; è un’avventura umana che si rinnova giorno per giorno, che lascia delle tracce profonde nella nostra vita, perché i giovani non vogliono innanzitutto informazioni, ma formazione. Vogliono affidarsi a qualcuno di affidabile. È emozionante cogliere la loro curiosità durante le lezioni, il loro interesse, la voglia di capire meglio e approfondire una questione. Si allarga il cuore se esprimono a parole o con lo sguardo il piacere di una lezione che ha mosso dentro di loro qualcosa di profondo, che
li ha fatti sentire vivi e protagonisti della loro vita. Forse mai come oggi, educare è diventato un imperativo vitale per la società nel suo complesso. In questi anni abbiamo imparato a non giudicare mai un ragazzo in via definitiva e a non dare mai per scontato o acquisito nulla. Anche nella sofferenza o nell’errore, bisogna essere sempre decisi a cogliere il positivo nell’altro che ci è affidato, in modo da saper autorevolmente indicare la direzione verso cui dirigersi per migliorare. Ed essere disposti a percorrere insieme a lui questa strada. Testimonianza tratta dal documento finale del Sinodo dei Giovani, pagg. 25-27
Per approfondire
Adulti rispettabili: è possibile? Se gli adulti vogliono essere rispettati è necessario che facciano o dicano qualcosa di interessante qui e ora, nella diretta interazione con l’adolescente e il suo gruppo. Ottengono rispetto e confidenza solo se hanno saputo dimostrare di conoscere il loro mestiere e di sapere spiegare bene cosa serve la loro funzione. Che si tratti di un genitore o di un insegnante, di un poliziotto o di un medico, di un educatore o di un allenatore, il fatto che abbia l’età che ha e indossi quel ruolo, o eserciti quell’arte o quel mestiere non gli regala alcuna importanza particolare agli occhi dell’attuale spavalderia adolescenziale. Gli adolescenti sono portati a dare del tu a chiunque, convinti che non sono le differenze visibili quelle che contano, ma le competenze relazionali. Se poi un poliziotto o un prete, un allenatore o un assistente sociale dimostra sul campo
Direttore responsabile: Inserto realizzato da: Contributi a cura di: Settimanale di informazione della Diocesi di Vicenza
colui che ama i suoi ragazzi e condivide l’esperienza del crescere insieme a loro. È quella col pensiero rivolto a quelli che sono germogli destinati a divenire pianta; è colui o colei che li aiuta a crescere, a trovare la propria strada, che li sa ascoltare (e poi valutare); è quella persona che c’è. È colui o colei su cui ogni alunno sa di poter contare, è quello o quella che sa esserci per i suoi ragazzi. Insegnare religione significa essere messi (con forza e a volte con brutalità) a contatto con gli affascinanti e delicati mondi degli studenti che ci sono stati affidati. Non si può stare a guardare; ci si deve buttare anche se le acque a volte sembrano agitate, soprattutto se si considera che nella no-
di essere competente, allora si aprono trattative molto interessanti e gli spavaldi sono disponibilissimi all’ascolto. Sarebbe interessante riuscire a capire le caratteristiche che deve
avere un adulto per essere ritenuto «competente» dagli spavaldi. [...] Sembra che l’amore che un insegnante manifesta per la propria materia sia molto apprezzato, anche se smodato e caricaturale, purché comunichi la convinzione quasi delirante che quella disciplina sia fondamentale per la crescita e la realizzazione piena di sé: a queste condizioni viene posta la premessa, affinché quell’insegnante sia ammesso al concorso per l’elezione al ruolo educativo di adulto competente. [...] Anche un certo livello di curiosità da parte del docente è generalmente molto apprezzato, purché sia fine a se stesso e sincero, non intrusivo e pettegolo. Agli spavaldi piace che il loro insegnante dimostri interesse per certe piccole vicende della loro vita, per alcuni incomprensibili riti della loro generazione, a cospetto dei quali gli adulti generalmente provano totale disinteresse.
L’adulto competente, invece, se chiede, è perché vuole capire, e quindi ammette di non sapere. È chiaro che non pretende di sapere ancor prima di avere chiesto delucidazioni. Se la domanda è pertinente, e documenta un certo rispetto per gli usi e costumi generazionali, allora gli spavaldi raccontano e spiegano bene, aprendo uno spazio e un tempo di confronto educativo sulla quotidianità di enorme interesse ed utilità. [...] Una volta deciso che hanno di fronte un adulto competente, gli adolescenti fragili e spavaldi ne fanno un uso intensivo, dimostrando quanto sia reale e profonda la loro motivazione ad attrezzare una relazione funzionale col mondo adulto e come sia cruciale per loro sentirsi in relazione. Tratto da G.P. Charmet, Fragile e spavaldo. Ritratto dell’adolescente di oggi, Laterza, Bari 2008, pp. 116-118.
Lauro Paoletto Andrea Frison Ufficio Diocesano per i Giovani Piazza Duomo n. 2 - 36100 Vicenza - telefono 0444-226556 e-mail: giovani@vicenza.chiesacattolica.it sito internet: www.vigiova.it Aperto da lunedì a venerdì, dalle 9 alle 12.30 e dalle 14 alle 17.30; sabato dalle 9 alle 12.30