VIVIEDIZIONI
Storia_arte_cultura e bellezza del Veneto Veneto Magazine N. 2 Maggio 2019
VENETO MAGAZINE
EVENTI MOSTRE MUSEI ASSOCIAZIONI TURISMO CULTURA IMMAGINI
© Giò Tarantini Fotografia d Antonio Tafuro
Pigafetta 500° - Mostre di Arte e Storia veneta Treviso Urbs Picta - Festival della cucina Veneta 500° Anniversario Viaggio Intorno al Mondo di Magellano
il vino di Galileo - il Museo di Altino - il Cammino Roi-Fogazzaro VIVIEDIZIONI - Pubblicazione distribuita prevalentemente ai soci - in edicola e libreria € 5,00
MAGAZINE#2
R I V I S T A D I C U LT U R A E I M M A G I N I D I V I C E N Z A D E L X X I s e c . - C O L L E Z I O N E A N N O 2 0 1 9
VENETOMAGAZINE
MAGGIO2019 V E N E T O M A G A Z I N E N. 1
VIVIEDIZIONI - Patrocinio Regione Veneto - Copia omaggio per soci e abbonati - In edicola 5 €
C U LT U R A & I M M A G I N I Pubblicazione dell’Associazione editrice VIVI VICENZA
INDICE
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EVENTI VENETI FESTIVAL CUCINA VENETA Albignasego 5-6-7 Luglio
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500° PIGAFETTA La spedizione di Magellano La vita di Antonio Pigafetta Relazione di Viaggio - Prima Parte La via delle spezie
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CITTA’ VENETE TREVISO URBS PICTA Le facciate affrescate di Treviso
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BELLEZZA VENETA NOTTURNI TREVIGIANI fotografie di Jacopo Trezzi
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CIVILTA’ VENETA ALTINO ROMANA Il porto strategico dei Veneti
VENETO MAGAZINE n.2 Giugno 2019 Hanno collaborato Associazione Pigafetta Michelangelo Muraro Antonio Di Lorenzo Associazione Cucina e Cultura Adriana Chemello Stefania Portinari Musei Bassano Museo Este Fotografi Stefano Maruzzo Antonio Tafuro Riccardo Contarin Tiziano Casanova Paolo Martini In copertina Calanal Grande foto di Antonio Tafuro
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IL PENSIERO SCIENTIFICO All’Università di Padova prende avvio l’era moderna
ASSOCIAZIONE CULTURALE
VIVI VICENZA Associazione culturale editrice Vivi Vicenza Corso Palladio, 179 0444.327976 Abbonamenti vivi@viviedizioni.org www.viviedizioni.org
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STORIE VENETE 1678 - la prima donna laureata è veneta 1600 - Costozza e il vino di Galileo
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MOSTRE VENETE LE INCISIONI DI A. DURER In mostra a Bassano la collezione Remondini TIEPOLO AD ESTE I protagonisti dell’incisione veneta
I M M A G I N I & C U LT U R A EVENTICULTURALI
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EVENTI VENETI
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FESTIVAL CUCINAVENETA
Per promuovere la conoscenza delle nostre tradizioni culinarie e sviluppare sinergie tra territorio, impresa e mondo della cultura
Il I° Festival della Cucina Veneta: una manifestazione che porterà la Città di Albignasego e la provincia di Padova ad essere la capitale regionale del gusto per tre giorni, a livello culturale, storico, scientifico ed economico. All’evento che si svolgerà i giorni 5,6,7 luglio 2019 parteciperanno grandi nomi della cucina, della cultura, della politica, dell’informazione e della divulgazione enogastronomica.
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EVENTICULTURALI
CULTURA E CUCINA
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Il Festival della Cucina Veneta è infatti il primo ed unico evento che si propone di rappresentare l’eccellenza della tradizione gastronomica ed enoculturale della nostra grande regione. Viviamo in un’epoca storica dove la complessità dello sviluppo economico richiede con forza maggiore una speciale attenzione e tutela delle esigenze del Territorio del Veneto. Il nostro obiettivo è quello di portare la Cucina Veneta all’attenzione della critica gastronomica nazionale ed internazionale e sviluppare conoscenza delle nostre tradizioni: un appuntamento destinato a diventare un momento rappresentativo per tutta la comunità economica e la società civile della regione. Abbiamo scelto la Città di Albignasego alle porte di Padova come luogo simbolico del carattere veneto e per la sua centralità geografica. Siamo – infatti – nel bel mezzo di un territorio che per 5 secoli fu la Repubblica Veneta della Serenissima. Il cuore pulsante dell’evento sarà la centralissima Piazza del Donatore di sangue: location ideale per appuntamenti di questa dimensione e qualità. Anche Villa Obizzi ed il suo Parco della Rimembranza saranno a disposizione per i vari talks e showcooking con i più noti chef del Veneto ed alcuni grandi ospiti internazionali.
LA CUCINA VENETA: PRIMA CUCINA ‘FUSION’ DELLA STORIA La storia della Repubblica Serenissima è tra le più affascinanti e ricche da narrare. Con la fuga dalle invasioni e saccheggi dei barbari del V secolo d.C. le genti venete trovarono riparo negli angusti territori lagunari. Nel 451 - data ‘mitica’ di fondazione - Venezia diventa l’estremo baluardo dell’Impero Romano d’Oriente. Eretta su isolotti protetti dalla barriera naturale della Laguna veneta, sin dagli albori, trovò nel commercio marittimo la propria vocazione. Affrancatasi da Costantinopoli e dalla sfera d’influenza dei Bizantini, il Ducato veneziano divenne autonomo nel 967 d.C. con l’elezione del primo doge Paoluccio Anafesto. Diventerà nei secoli un mirabile esempio di Metropoli multiculturale, crocevia di popoli e tradizioni differenti. La Storia di quella che diventerà la Repubblica di San Marco influenzerà in maniera determinante la nostra tradizione culinaria. La Cucina Veneta è – infatti - uno dei primi esempi di cucina internazionale della storia. I critici gastronomici utilizzano l’appellativo di cucina fusion per descrivere modelli di cucina dove l’integrazione di culture diverse e la contaminazione tra prodotti e tecniche di differenti paesi e tradizioni diventano elemento distintivo e caratterizzante. La storia di Venezia e del Veneto è per definizione un lungo viaggio nel tempo e nello spazio, dove prodotti, profumi e sapori si sono incrociati ed abbracciati innovando abitudini alimentari e sociali, creando un modello di Cucina unico al mondo. GLI ORGANIZZATORI Cultura & Cucina è un’associazione che si occupa di cultura e diffusione nel settore Food & Beverage, nata da un’idea ben precisa. Il Presidente dell’Associazione, l’eclettico chef Paolo Caratossidis – già inventore della avveniristica tecnica di cottura senza gas Zeocooking – non nasconde il suo entusiasmo: “Vogliamo contribuire attivamente a promuovere le vere ricchezze del nostro territorio: i prodotti enogastronomici e le nostre specialità culinarie. Il nostro scopo è quello di promuovere sinergie tra territorio, impresa e mondo della cultura coinvolgendo le istituzioni ed i più importanti media regionali ed anche nazionali.”
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FESTIVAL CUCINA VENETA
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I CONVEGNI Un prestigioso ciclo di 9 convegni ‘ Cucina e Cultura: talks & lectures’ si svolgeranno in Sala G. Verdi di Villa Obizzi con grandi ospiti ed interpreti del mondo della Cultura, dell’Impresa e delle Istituzioni Venerdì 5 luglio: h. 10 -12 / CUCINA & CULTURA La dimensione antropologica e culturale della cucina rappresenta un elemento inscindibile da quello prettamente eno-gastronomico; cosi come stretto è il legame tra determinati territori e le loro produzioni specifiche, come ben condensato nel concetto di terroir. Questa è la ragione per la quale si trovano elementi appartenenti ad entrambe le dimensioni (immateriale e territoriale) nelle Liste dei Patrimoni designati UNESCO: in particolare nella Lista del Patrimonio Immateriale e quella del Patrimonio Mondiale. In entrambe l’Italia ha promosso delle importanti candidature: la Dieta Mediterranea, l’Arte dei Pizzaiuoli Napoletani, la Coltivazione della Vite ad Alberello di Pantelleria e il Paesaggio Vitivinicolo delle Langhe Roero e Monferrato per citare i più noti. Si dibatterà su quali siano le implicazioni di una designazione culturale di rilievo internazionale sia dal punto di vista della comunicazione che della gestione. h.14 – 16 / IL PATRIMONIO DEL TERRITORIO: I SUOI PRODOTTI, LA SUA CULTURA Il Territorio è la parola chiave nella visione sostenibile di un’economia moderna capace di riflettere tra i propri obbiettivi il legame indissolubile con l’ambiente geografico ed umano nella sua molteplice complessità. Un Territorio non genera solamente dei prodotti per il mercato, non può essere considerato esclusivamente un mezzo di produzione, ma, un fine. La sua salvaguardia e tutela è il punto di partenza per qualsiasi progetto socio-economico e la difesa e promozione della sua Cultura rappresenta un Valore assoluto da cui non si può prescindere. 6
h. 16 -18 / LA CIVILTA’ DEL VINO NELLA STORIA DEL VENETO Il Vino è la ‘locomotiva’ del Veneto per quanto riguarda la produzione agroalimentare. La sua incidenza nell’export regionale è determinante e fa da volano a tutta l’economia regionale. Ma, dietro alle proiezioni numeriche ed ai bilanci, è ancorata nel profondo una cultura millenaria. Esiste un modello che fa del Veneto una ‘Francia in miniatura’: negli anni si è passati dall’autoproduzione agricola ad un affinamento del prodotto che è riuscito a far emergere i tratti distintivi di quella che – a tutti gli effetti – si è evoluta fino ad arrivare ad essere una vera e propria Civiltà del Vino. E se, il Veneto nel mondo è riconosciuto per alcuni vini che sono riusciti ad imporsi con determinazione sul mercato, esiste un universo meno noto di prodotti, vignaioli e cantine che tramandano con indiscussa professionalità la sapienza del Territorio. Sabato 6 Luglio h 10 – 12 / HERITAGE E UNESCO: IL VALORE DI UNA DESIGNAZIONE INTERNAZIONALE Una delle più belle parole in qualsiasi lingua la si traduca, connotata da un importante significato che trascende l’oggetto o il territorio a cui si riferisce, legando tradizioni, rituali, comunità e saperi. Il concetto di ‘patrimonio mondiale’ (world heritage), concepito in ambito UNESCO e riassunto nella Convenzione del Patrimonio Mondiale (1972) conferisce una dimensione di internazionalità a questo concetto. La Lista del Patrimonio Mondiale (che ad oggi conta 1092 siti) rappresenta una preziosa ‘collezione’ di luoghi di eccezionale valore universale alcuni dei quali designati proprio in relazione al loro significato nella produzione del cibo (es. dei paesaggi vitivinicoli, o a quelli agrari terrazzati). L’Italia è la nazione a detenere il maggior numero di siti inclusi nella lista dei patrimoni dell’umanità (54 siti), di cui 5 in Veneto; questo è un elemento di orgoglio ma anche di grande responsabilità.
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CULTURA E CUCINA
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h 14 – 16 / PER UNA CUCINA SOSTENIBILE E SALUBRE Nel 2001, l’UNESCO ha ampliato il concetto di sviluppo sostenibile: «...la diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura (...) la diversità culturale è una delle radici dello sviluppo inteso non solo come crescita economica, ma anche come un mezzo per condurre una esistenza più soddisfacente sul piano intellettuale, emozionale, morale e spirituale». (Art 1 e 3, Dichiarazione Universale sulla Diversità Culturale, UNESCO, 2001). La Cucina è l’attività umana dove, maggiormente, alcune riflessioni sulla sostenibilità devono trovare applicazione. Concetti come salvaguardia della salute, lotta allo spreco alimentare, consumo consapevole sono dei principi su cui non si potrà più derogare. La grande sfida alimentare del futuro attraverserà le nostre abitudini e tradizioni gastronomiche. h. 16 – 18 / IL MADE IN VENETO ALLA CONQUISTA DEL MONDO La capacità di esportazione del Veneto è in netta crescita: nei primi nove mesi del 2018 il volume delle esportazioni ‘made in Veneto’ ha superato del 2,9% il corrispondente periodo del pur brillante 2017. Le 28.864 imprese venete che esportano tra gennaio e settembre hanno venduto merci all’estero per un valore pari a 47 miliardi di euro, superando in prospettiva il consuntivo 2017 che attestò una capacità di esportare pari a 61,6 miliardi di euro, a sua volta in crescita del 5,6 per cento rispetto al 2016. Il Veneto è la seconda regione in Italia nella classifica dell’export tricolore, con una propensione all’export pari al 38 per cento del Pil e una quota di esportazioni pari al 14 per cento di quelle nazionali. Sono numeri che ci devono far riflettere: se – è vero – che il nostro export gode di ottima salute, è altrettanto assodato che abbiamo ulteriori incredibili margini di crescita. La sfida del presente è consolidare i punti di forza del nostro sistema sviluppando ulteriormente un modello virtuoso che si sta imponendo su scala internazionale. Domenica 7 luglio h. 10 – 12 / LA CUCINA VENETA: PRIMA CUCINA INTERNAZIONALE La Cucina Veneta è uno dei primi esempi di cucina internazionale della storia. I critici gastronomici utilizzano l’appellativo di cucina fusion per descrivere modelli di cucina dove l’integrazione di culture diverse e la contaminazione tra prodotti e tecniche di differenti paesi e tradizioni diventano elemento distintivo e caratterizzante. La storia della Repubblica della Serenissima è per definizione un lungo viaggio nel tempo e nello spazio dove prodotti, profumi e sapori si sono incrociati ed abbracciati innovando abitudini alimentari e sociali. h. 14 – 16 GENERAZIONE M@STERCHEF: LAVORO TRA MITO E RAPPRESENTAZIONE Il lavoro in cucina è uno dei mestieri più usuranti e sottovalutati della storia anche in Veneto. La diffusione di format televisivi mondiali come M@sterchef ha generaEVENTICULTURALI
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RADICI VENETE
VENETOMAGAZINE to una percezione edulcorata e poco attendibile della realtà. Tra le migliaia di giovani e meno giovani che si avvicinano al mestiere del cuoco non è – spesso – ben chiara l’idea di quali siano i pro ed i contro di un lavoro fatto di sacrifici e grandi rinunce. La formazione e la conoscenza devono essere alla base di ogni ragionamento sul tema. L’orientamento professionale deve essere preceduto da una solida formazione in aula ed in laboratorio, e lo stage deve essere l’inizio di un percorso professionale che coniughi sviluppo esperienziale e autodeterminazione economica. La sfida della realtà non deve atterrire, ma, imporre modelli virtuosi che generino equilibrio tra domanda/offerta e sappiano imporre rispetto e tutela del Lavoro in ogni sua forma h. 16 – 18 / LA CUCINA VENETA E’ VERAMENTE A RISCHIO ESTINZIONE? Soppa Coada, Risi e bisi, fegà aea venexiana, risi e fegadini… Sono tante le ricette e le lavorazioni che vanno via via scomparendo dalle nostre tavole per una serie complessa di fattori. La modernità della vita quotidiana impone consumi veloci per piatti veloci e cotture istantanee (se non riscaldamento). Alcuni piatti rappresentativi del nostro modo di essere, produrre e consumare sono divenuti rari, e la consapevolezza di quella che era definita ‘cucina povera’, oggi è riconosciuta a buon titolo una cucina ricca e preziosa. Ma, come sta cambiando la Cucina Veneta? E come sarà la cucina del Futuro? Salvaguardando la tradizione gastronomica del passato possiamo contribuire attivamente al recupero di una memoria storica che rappresenta un valore aggiunto per la vita di noi tutti. SHOWCOOKING Showcooking con i migliori chef veneti e altri grandi testimonials del mondo della Cucina ----------------------------------------------------------------------------------------------------CALENDARIO EVENTI 5 luglio LA CUCINA VENETA DEL PASSATO: UN VIAGGIO ALLE ORIGINI DELLA NOSTRA TRADIZIONE CULINARIA. 6 luglio LA CUCINA VENETA DEL PRESENTE: IL VALORE DEL TERRITORIO NELLE ABITUDINI ALIMENTARI DEL NOSTRO TEMPO 7 luglio LA CUCINA VENETA DEL FUTURO: COME TRADIZIONE ED INNOVAZIONE POSSONO INTEGRARSI NELLA CUCINA DEL MONDO CHE VERRA’. TEATRO Venerdì 5 luglio h. 21 Palco (Piazza del Donatore di Sangue) Le baruffe chiozzotte di Carlo Goldoni (Piccolo Teatro di Chioggia) Introduzione a cura dell’Academia de la Bona Creansa e dell’Academia de la Lengua Veneta
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EVENTICULTURALI
CULTURA E CUCINA
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FOLKLORE & CONFRATERNITE ENOGASTRONOMICHE Sabato 6 luglio h18.00-20.00 Sala G.Verdi di Villa Obizzi Incontro pubblico e tavola rotonda sulle confraternite e i circoli enogastronomici operativi in Veneto con la presenza della Regione Veneto Presentazione del libro “Viaggio tra le confraternite enogastronomiche d’Italia” di Michele Leone (ed. Odoya) con la partecipazione delle confraternite venete h. 20.00-22.00 Palco (Piazza del Donatore di sangue) Spettacolo folkloristico: Ruzzantini Pavani gruppo folkloristico dal 1928 e a seguire Festa di Radio Stereo Città IL DOCUMENTARIO #THISISVENETO In occasione del 1° grande Festival della Cucina Veneta, è stato ideato e sviluppato un programma strutturato ed ambizioso che possa sintetizzare l’eccellenza enogastronomica veneta con particolare attenzione agli elementi culturali, storico-geografici e sociali che caratterizzano l’identità veneta passata/presente/futura. Abbiamo concepito con il talentuoso videomaker Matteo Menapace (https://www.videoe20.net/) un progetto documentaristico che si articola nella produzione di 7 video promo teaser di 60/90 secondi ca. che andranno a descrivere 7 luoghi, ricette, storie, umanità legate al Veneto, ai suoi prodotti, alla sua eccezionale storia e cultura. Questi video (girati in tutte e 7 le province venete) serviranno come elemento strategico della comunicazione del Festival e verranno poi utilizzati nella costruzione di un più complesso docufilm che verrà presentato e proiettato in anteprima durante l’evento, e, che si chiamerà #thisisveneto, utilizzando l’hashtag e l’inglese come elemento innovativo ed accattivante, idoneo a descrivere la portentosa declinazione turistica ed internazionale del nostro Veneto. Questi video verranno diffusi attraverso il web ed i social per sviluppare condivisioni ed interazioni col grande pubblico (https:// www.facebook.com/festivalcucinaveneta/) #THISISVENETO è una grande operazione di ‘storytelling’: dal
Mercato Ittico all’ingrosso di Chioggia e la tradizione dell’asta del pesce all’orecchio, al Bacanal del gnoco a Verona e la maschera di Papà del Gnoco, dalla Confraternita del Bacalà alla Vicentina al Polesine e la sua magia, dalle colline del Prosecco fino ad arrivare a raccontare con immagini il duro mestiere del fornaio. IL VILLAGGIO DEI SAPORI All’interno del Festival sono previsti numerosi espositori selezionati e diversificati di prodotti tipici del territorio: formaggi, salumi, vini, prodotti d’eccellenza e rarità provenienti da tutto il Veneto. LABORATORI E WORKSHOP Ampio spazio a laboratori con appassionati, associazioni e famiglie: dal pane ai formaggi, dalla pasticceria alla macelleria, con le degustazioni dei grandi vini veneti e gli abbinamenti possibili. Una vera e propria esperienza gastronomica offerta al grande pubblico per raccontare la ricchezza del nostro territorio. UN MENU’ 100% VENETO Si preannuncia succulento e variegato: saranno servite specialità venete di tutte le 7 province della regione, con particolare attenzione alla stagionalità e alla ‘fedeltà’ alla ricetta tradizionale. A dirigere la brigata di cucina sarà lo Chef Marco Pesce Vice Presidente di Assocuochi FIC Veneto affiancato dai ragazzi dell’Istituto Alberghiero ‘Jacopo da Montagnana’. Il menù di venerdì 5 Luglio è dedicato al pesce e si chiamerà: ‘PESSE, LO SPOSALIZIO DEL MARE’ a ricordare il legame indissolubile tra il Veneto/Venezia ed il Mare Adriatico con baccalà(o bacalà) nelle sue due più importanti preparazioni – mantecato e alla vicentina -, sardee in saor, poenta e renga, pastisso del pesse, la ‘cassopipa’, risotto di nero e seppe, bigoli in salsa, bisatto etc. Sabato e domenica 6 e 7 Luglio daremo spazio ai ‘GRANDI CLASSICI DELLA CUCINA VENETA’ con: il prosciutto veneto berico euganeo, i formaggi delle montagne venete, la carne di cavallo e la straecca, il pastin bellunese, li Gnòchi de patate del Vèndri gnocolar, il risotto con i rovinassi, il Fegato alla veneziana - Figà àea Venessiana, la sópa coàda (“zuppa covata”) di Treviso etc.
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RADICI CULTURALI
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CAMMINI VENETI
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CELEBRAZIONI
PIGAFETTA 500°
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1519 -1522 La prima circumnavigazione intorno al mondo
ANTONIOPIGAFETTA CRONISTA DEL VIAGGIO DI MAGELLANO
Vicenza ha aderito derisce alla rete delle “città magellaniche” in vista del 2019, anno in cui ricorrerà il 500° anniversario della prima circumnavigazione del globo guidata dal navigatore portoghese. Con lui c’era un illustre vicentino, Antonio Pigafetta, che poi mise per iscritto quell’avventura: è questo l’anello di congiunzione che consente a Vicenza, unica italiana, di entrare nella rete a fianco di una decina di altre città del mondo tra le quali Siviglia, Lisbona, Rio de Janeiro, Buenos Aires, Montevideo
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LA SPEDIZIONE Ferdinando Magellano
VENETOMAGAZINE La Nave Vittorio
Carlo V° - Re di Spagna
© Gito Trevisan
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erdinando Magellano Sabrosa, (17 ottobre 1480 – Mactan, 27 aprile 1521) intraprese, pur senza portarla a termine perché ucciso nelle odierne Filippine nel 1521, quella che sarebbe diventata la prima circumnavigazione del globo al servizio della corona spagnola di Carlo V di Spagna. Fu infatti il primo a raggiungere, partendo dall’Europa verso ovest, le Indie e – attraverso il passaggio a ovest da lui scoperto e successivamente chiamato Stretto di Magellano – il primo europeo a navigare nell’oceano Pacifico. La storia del suo viaggio è pervenuta tramite gli appunti di un suo uomo d’arme, il vicentino Antonio Pigafetta, che si adoperò per il resto della sua vita a mantenere viva la memoria di Magellano e della sua impresa storica. La spedizione In Portogallo Magellano entrò in possesso di una carta geografica che ipotizzava un passaggio verso l’Oceano Pacifico poco più a sud del Río de la Plata. Si convinse di poter in questo modo trovare una via per l’Asia più breve di quella intorno all’Africa. Questo avrebbe permesso di scoprire un passaggio a sud-ovest di collegamento dell’Atlantico con il Pacifico. Di tale passaggio, ritenuto geograficamente probabile ma del quale nessuno aveva notizia attendibile, favoleggiavano da tempo i cartografi.
Ma il re portoghese Manuel, a cui Magellano si rivolse in un primo momento per effettuare il viaggio, rifiutò categoricamente la proposta. Come Colombo, il navigatore lasciò quindi Lisbona cercando maggior fortuna in Spagna, contando sul fatto che il Regno di Spagna aveva finanziato trentanni prima la spedizione di Colombo. In Spagna, lo scopo della spedizione assunse una valenza strategica in funzione anti-portoghese: si sarebbe infatti trattato di cercare una nuova via marittima per le Isole delle Spezie, nell’arcipelago Indonesiano delle Molucche, evitando l’aggiramento dell’Africa, i cui porti occidentali e meridionali erano tutti in mano al Portogallo. Se possibile, si sarebbe dovuto anche provare che le Molucche si trovavano effettivamente a ovest dell’antimeridiano della linea di demarcazione che, secondo i trattati, divideva le zone di influenza e possesso coloniale tra spagnoli e portoghesi. Naturalmente, non meno importante sarebbe stata l’eventuale scoperta di nuove terre da annettere al già immenso impero del re di Spagna. Convinto il diciannovenne Carlo V a finanziare l’impresa, invano re Manuel tentò di richiamare in patria Magellano promettendogli una spedizione sotto la bandiera portoghese. EVENTICULTURALI
La flotta di cinque navi e 237 uomini salpò il 20 settembre 1519 da Sanlúcar de Barrameda in Spagna dopo avere disceso il fiume Guadalquivir da Siviglia da cui era partita il 10 agosto, giorno di San Lorenzo. Il 28 novembre 1520, rimasto con tre sole navi dopo il naufragio di una e la diserzione dell’equipaggio della seconda, attraversò lo stretto, che da lui prese il nome, nell’attuale Cile e si inoltrò in un grande oceano sconosciuto agli occidentali che, per l’assenza delle tempeste che caratterizzavano invece l’Atlantico, Magellano battezzò Pacifico. Nel marzo del 1521 raggiunse le Isole Marianne e poi le Filippine, chiamate Isole di San Lazzaro, dove morì per mano degli indigeni. Nella sua cronaca della spedizione, Pigafetta racconta come nelle isole Filippine Magellano fosse riuscito a convertire il re dell’isola di Cebu, Ragià Humabon, sua moglie la regina e ottocento dei suoi sudditi al Cristianesimo e a far riconoscere Carlo V di Spagna come nuova autorità; a quella notizia scoppiò una rivolta sulla vicina isola di Mactan. Magellano decise di usare la forza per sedare la ribellione di Mactan e, per mostrare al re di Cebu la forza della Spagna, organizzò un’azione punitiva. Quando sbarcò la mattina del 27 aprile 1521 a Mactan, venne però ucciso insieme con alcuni dei suoi 11
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uomini dagli abitanti dell’isola. Il corpo di Magellano non fu mai restituito e non se ne conosce la sorte. Il viaggio si concluse con gravi perdite: ritornarono solo due navi, la prima (Victoria) nel 1522 e la seconda (Trinidad), che seguì una rotta diversa senza riuscire a circumnavigare il globo, solo nel 1525. Dei 234 tra soldati e marinai che formavano l’equipaggio iniziale soltanto 36 si salvarono: 18 sulla Victoria e 5 sulla Trinidad; 13 finirono nelle carceri portoghesi nelle Isole di Capo Verde. 12
La storia del viaggio è nota grazie agli appunti dell’uomo di fiducia (criado) di Magellano, il vicentino Antonio Pigafetta. Lo scopo del viaggio Scoprire un passaggio per le Indie che non fosse sotto il dominio del Portogallo sarebbe tornata utile alla Spagna, che era stata esclusa dalla corsa per le pregiate spezie del lontano oriente dopo il Trattato di Tordesillas. Il trattato aveva assegnato il controllo sull’emisfero orientale al
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Portogallo, che in questo modo rivendicava anche il possesso delle Molucche, le leggendarie Isole delle Spezie. L’occidente sapeva che lì si trovava la fonte delle più pregiate spezie, come la noce moscata o i chiodi di garofano. Tuttavia, solo il limite atlantico tra i due emisferi controllati da Spagna e Portogallo cominciava all’epoca a concretizzarsi dopo le sempre nuove scoperte nel Nuovo Mondo. Non essendo noto il perimetro del globo terrestre, nessuno sapeva dire se le Molucche rientravano ancora nei territori spettanti
ai portoghesi. Se possibile, si sarebbe quindi dovuto stabilire se le Molucche si trovassero effettivamente a ovest dell’antimeridiano della linea di demarcazione che, secondo i trattati, divideva le zone di influenza e possesso coloniale. La nuova via navale avrebbe anche permesso di evitare l’aggiramento dell’Africa, i cui porti occidentali e meridionali erano tutti in mano al Portogallo. Naturalmente, non meno importante sarebbe stata l’eventuale scoperta di nuove terre da annettere al già immenso impero del re di Spagna.
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La partenza da Siviglia - 10 Agosto 1519
Manuale sull’arte di navigare del 1550
Ricostruzione dela nave Victoria
Magellano, il quale era stato licenziato con disonore dalla corona portoghese, si disse convinto del fatto che le Molucche si trovassero nell’area spettante alla Spagna e, con il sostegno dell’astronomo Ruy Faleiro, anch’egli portoghese caduto in disgrazia in patria, si recò in Spagna per offrire i suoi servizi a re Carlo I (noto anche come imperatore Carlo V del Sacro Romano Impero). Cambiò anche il suo nome da Fernão de Magalhães in Fernando de Magallanes. In Spagna, Magellano riuscì a guadagnarsi la fiducia di uomini d’affari influenti che promossero i suoi piani. Il 22 marzo 1518, a Valladolid, siglò un contratto con Carlo I, che gli mise a disposizione cinque navi per trovare le Isole delle Spezie: a Magellano e a Ruy Faleiro sarebbe spettata la quinta parte dei proventi della spedizione, mentre i loro eredi sarebbero stati nominati governatori nelle terre scoperte. Inoltre il re garantì di non avallare un altro viaggio con lo stesso scopo per dieci anni a venire. La circumnavigazione del globo Il 10 agosto 1519 il viaggio ebbe inizio da Siviglia. La flotta di Magellano era composta da cinque navi: 1. Trinidad, 130 tonnellate, 55 uomini, capitano: Ferdinando Magellano 14
2. San Antonio, 130 tonnellate, 60 uomini, capitano: Juan de Cartagena 3. Concepción, 90 tonnellate, 45 uomini, capitano: Gaspar de Quesada 4. Victoria, 90 tonnellate, 42 uomini, capitano: Luis de Mendoza 5. Santiago, 60 tonnellate, 32 uomini capitano: Giovanni Serrano Tra i 234 uomini della spedizione figurarono 170 spagnoli, 40 portoghesi, 20 italiani e quattro interpreti africani ed asiatici. Le provviste erano formate da 7240 kg di pane biscottato, 194 kg di carne essiccata, 163 kg di olio, 381 kg di formaggio, 200 barili di sarde salate e 2856 pesci essiccati. I registri della spedizione sono conservati presso l’Archivo General de las Indias a Siviglia.Da Siviglia le navi seguirono il corso del Guadalquivir fino a Sanlúcar de Barrameda, dove furono costretti a fermarsi per cinque settimane, per le riluttanze delle locali autorità spagnole a far partire la spedizione sotto il comando di un ammiraglio portoghese. Solo il 20 settembre 1519 Magellano poté affrontare l’oceano. Ben presto si trovò inseguito da un gruppo di navi mandate da re Manuele I del Portogallo, deciso a sventare il tentativo spagnolo di trovare una via alternativa in Oriente.
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Passaggio dall’Atlantico al Pacifico
Atlantico e Sud America Magellano riuscì a raggiungere le Isole Canarie, appartenenti alla Spagna, senza farsi prendere dagli inseguitori. Dopo aver preso a bordo nuove provviste, prese la rotta del Brasile. Il 20 novembre la sua flotta attraversò l’equatore. Sull’Atlantico si trovò sfidato da un ammutinamento dei suoi ufficiali spagnoli, al quale pose fine mettendo in catena il primo ufficiale della San Antonio, capo degli ammutinati. Il 6 dicembre venne raggiunta la costa del Sud America, dove la flotta mise l’ancora nella baia di Rio de Janeiro. Gli indigeni credevano i bianchi degli dei, poiché avevano portato la prima pioggia da lungo tempo. Il trattamento riservato ai marinai fu di conseguenza oltre ogni aspettativa, un fatto che avrebbe ritardato la continuazione del viaggio. Ormai si stava avvicinando l’inverno australe e quando Magellano dopo settimane di ricerche dovette ammettere che il Rio de la Plata non nascondeva nessun passaggio verso il Pacifico, decise di svernare in una baia in Patagonia. A San Julián le provviste cominciarono a scarseggiare e si rese necessario un taglio delle razioni. Scoppiò un nuovo ammutinamento su tre delle cinque navi. La rivolta fu debellata e i capitani Luis de Mendoza della Victoria e Gaspare de Quesada della Concepción furono giustiziati; il capitano Juan de Cartagena della San Antonio
e un clerico che aveva capeggiato l’ammutinamento vennero abbandonati sulla costa. A maggio la Santiago venne spedita in avanscoperta, ma naufragò dopo poco tempo. Quasi tutto l’equipaggio riuscì a trarsi in salvo e a tornare via terra a Puerto San Julián. L’ammiraglio si rassegnò ad aspettare la fine dell’inverno nella baia di San Julián, che le quattro navi superstiti lasciarono ad ottobre. Tutte le baie e le bocche dei fiumi vennero esaminati, fino a raggiungere Cabo Vírgenes (Capo delle Vergini) il 21 ottobre. La Concepcion e la San Antonio furono mandate avanti e tornarono infine con l’agognata notizia di aver trovato il passaggio ad ovest. Prima di partire Magellano concedette agli altri capitani la scelta di seguirlo ancora o di far rotta per la Spagna. Inizialmente tutti declinarono l’offerta di tornare indietro, ma alcuni giorni dopo la San Antonio sotto il comando di Esteban Gómez lasciò la spedizione ed invertì la rotta dopo un nuovo ammutinamento a bordo. Tre navi attraversarono il passaggio che oggi è noto come Stretto di Magellano e raggiunsero l’Oceano Pacifico il 28 novembre 1520. Il Pacifico e la morte di Magellano Magellano a questo punto credette di poter arrivare alle Isole delle
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La battaglia di Mactan - Magellano viene ucciso sulla spiaggia.
Filippine - isola di Mactan- Monumento al capo dell’isola Lapu-Lapu
Spezie in non più di un mese. Ma passarono tre mesi e venti giorni in alto mare durante i quali si avvistarono solo due isolotti disabitati. La maggior parte degli uomini si ammalò di scorbuto: non erano rimasti altri viveri che pane biscottato pregno di salsedine, vermi ed escrementi di topi. Diciannove uomini morirono durante la traversata. Il 6 marzo 1521 la flottiglia raggiunse le Isole Marianne. Magellano le battezzò Islas de los Ladrones, quando su una isola (forse Guam) gli indigeni cercarono di impossessarsi di una delle scialuppe e di alcuni suppellettili delle navi. L’ammiraglio ne fece giustiziare alcuni e bruciò le loro case. Dopo essersi rifornite di nuove provviste, le navi di Magellano continuarono il viaggio fino alle Filippine, dove il 16 marzo raggiunsero Homonhon. In quel momento la spedizione era composta ancora da 150 uomini circa: rispetto ai 234 partiti, 2 erano stati giustiziati e 2 erano stati abbandonati in seguito ad ammutinamento, pochi individui erano morti nel naufragio della nave Santiago, 60 erano quelli a bordo della nave San Antonio rientrata in Spagna e 19 erano morti di scorbuto dopo il passaggio dello stretto. La lingua degli abitanti di Homonon era nota all’interprete di Magellano, Enrique di Molucca. Così si arrivò ad uno scambio di doni con il re di Limasawa, Rajah Kolambu. 16
Questi accompagnò gli Spagnoli fino all’isola di Cebu, dove riuscirono nell’intento di convertire il re, Raja Humabon e molti dei suoi sudditi al Cristianesimo. Quando Cebu si sottomise alla corona spagnola, scoppiò una rivolta sulla vicina isola di Mactan. Magellano decise di usare la forza per conquistare Mactan alla Spagna e al Cristianesimo. Quando sbarcò la mattina del 27 aprile 1521 a Mactan, venne ucciso dagli uomini del capo dell’isola Lapu-Lapu nella battaglia di Mactan. Dopo la morte di Magellano Poco dopo il Raja Humabon, re di Cebu rinnegò il Cristianesimo e ordinò un attacco agli Spagnoli. Quasi trenta fra questi persero la vita. Gli Spagnoli, ormai in numero troppo esiguo per governare tre navi, decisero di affondare la Concepción ed elessero Juan Sebastián Elcano capitano della Victoria. Con le due navi rimaste fuggirono verso il Borneo, rimanendo per 35 giorni nel Brunei. Il 6 novembre la spedizione raggiunse finalmente le Molucche. Sull’isola di Tidore il sultano locale si disse disposto a vendere loro finalmente le agognate spezie. A questo punto le sorti delle due navi superstiti si divisero definitivamente. La Victoria, al comando di Elcano, proseguì verso ovest. La Trinidad, invece, rimase bloccata per un’avaria. Imbarcava acqua e rimase ferma a Tidore con quasi metà degli uomini. Questi scelsero, in seguito, la strada del ritorno attraverso il Pacifico, ma furono intercettati da una flottiglia portoghese.
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LA SPEDIZIONE
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La nave fu catturata e il prezioso carico finì nelle mani dei Portoghesi. Il marinaio italiano Leon Pancaldo, fu condotto prigioniero a Malacca e poi in India a Cochin, ed infine in prigione a Lisbona. Con solo cinque uomini ancora in vita e dopo un’odissea durata più di quattro anni, la Trinidad sarebbe tornata in Spagna nel 1525, i quattro superstiti furono liberati, Leon Pancaldo rientrò a Savona sua città di origine solo nel 1527. Il viaggio della Victoria, al comando di Juan Sebastián Elcano, invece, si concluse il 6 settembre 1522 quando rientrò al porto di partenza dopo aver completato la prima circumnavigazione del globo in due anni, 11 mesi e 17 giorni. A bordo della piccola nave (solo 85 tonnellate di stazza), che ormai imbarcava acqua e aveva una velatura di fortuna, vi erano soltanto 18 uomini malmessi, ammalati e denutriti. Tra essi due italiani, Antonio Lombardo, detto il Pigafetta, colui che scriverà la storia della spedizione, e Martino de Judicibus.
Filippine - isola di Mactan- Torre commemorativa Ferdinando Magellano
Magellano con Pigafetta
Ritratto di Ferdinando Magellano EVENTICULTURALI
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ANTONIO PIGAFETTA Patrizio vicentino e cavalier de Rodi Biografia di uno spirito avventuroso
“Perché sono molti curiosi, Illustrissimo e Esellentissimo Signor, che non solamente se contentano de saperee intenderele grandi e ammirabili cose che Dio me ha concesso de vedere e patirene la infrascritta mia longa e pericolosa navigazione, ma ancora vogliono sapere li mezi e modi e vie che ho tenuto ad andarvi, non prestando quella integra fede a l’esito, se prima non hanno bona certeza de l’inizio, pertanto saperà Vostra Illustrissima Signoria che, ritrovandomi ne l’anno de la natività del Nostro Salvatore 1519 in Spagna, in la corte del Serenissimo Re de’ Romani, con el reverendo monsignor Francesco Chiericato, alora protonotario apostolico.....”
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LA VITA DI ANTONIO PIGAFETTA
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Ritratto che la tradizione vuole di Antonio Pigafetta (Biblioteca civica Bertoliana, Collezione Marasca, Vicenza), tratto da un busto conservato al Museo Civico di Vicenza, proveniente dalla chiesa di San Michele (dove i Pigafetta avevano una tomba di famiglia). In realtà rappresenterebbe un altro Pigafetta, Gio. Alberto di Gerolamo (m. 1562).
iglio di Giovanni di Antonino (ramo di Antonino di Antonio fu Sandro) e con ogni probabilità di Lucia Muzan. L’incertezza sul nome della madre è data dal fatto che il padre si sposò tre volte. La data di nascita di Pigafetta non è attestata da documenti ed è da porsi non prima della fine del 1492 o l’inizio del 1493, con ogni probabilità a Vicenza, dove viveva la famiglia. Ciò che si sa di lui è che è stato Cavaliere di Rodi, ovvero dell’Ordine di San Giovanni Battista di Gerusalemme, detto poi di Rodi e ora di Malta, rampollo di una delle più importanti famiglie nobili di Vicenza e studioso di matematica e astronomia. Nel 1519, si reca a Barcellona al seguito del vescovo e nunzio pontificio Francesco Chiericati, anch’egli vicentino, inviato come ambasciatore dal papa Leone X alla corte di Carlo V. In Spagna, Pigafetta segue Chiericati nei vari incontri presso la corte spagnola e viene colpito dalle discussioni che vi si tengono sulle scoperte geografiche fatte da spagnoli e portoghesi. Sentì parlare della spedizione che Ferdinando Magellano stava organizzando e, grazie alla raccomandazione del vescovo, Pigafetta ottenne da Carlo V il permesso di poter prendere parte al viaggio di Magellano come sobresaliente, vale a dire uomo d’arme, spinto dalla curiosità di visitare terre lontane. Imbarcatosi sulla nave ammiraglia Trinidad, inizialmente non fu bene accetto da Magellano ma seppe tuttavia conquistarne gradualmente la stima, tanto da diventare il suo criado (attendente), ovvero il marinaio addetto al servizio del comandante, aiutandolo nello svolgimento delle sue funzioni all’interno della nave. Nell’elenco dei marinai presenti sulle navi al momento della partenza, è registrato come Antonio Lombardo (sia durante il Medioevo sia all’inizio dell’Età moderna, il nome Lombardo era spesso usato per indicare le persone provenienti da un’area piuttosto ampia, corrispondente all’Italia settentrionale; in questo caso, EVENTICULTURALI
quindi, indica la sua provenienza); come parenti che, in caso di morte, avrebbero ereditato la paga che gli era stata promessa, sono citati il padre e la sua terza moglie (la madre di Pigafetta era morta nel 1510. Da ciò si deduce che Pigafetta non fosse sposato e non avesse figli quando si imbarcò. Il 27 aprile 1521 nella battaglia di Mactan, nelle attuali Filippine, un folto numero di indigeni capitanati dal re locale Lapu-Lapu uccise Magellano e alcuni suoi uomini e lo stesso Pigafetta rimase ferito. In conseguenza della scomparsa di Magellano, Pigafetta assunse ruoli di maggiore responsabilità nella flotta, in particolare gestendo le relazioni con le popolazioni indigene; la spedizione era allo stremo ed erano rimasti troppo pochi uomini per poter governare tre navi, quindi dovettero abbandonarne una (la Concepción che venne fatta affondare), prima di ripartire. Rimasti con due navi, la Victoria e la Trinidad, raggiunsero il Borneo e rimasero più di un mese nel Brunei. L’ammiraglia Trinidad però imbarcava acqua ed era troppo danneggiata per proseguire la navigazione perciò rimase bloccata per il tempo necessario alla riparazione, insieme con metà dell’equipaggio. Una volta sistemata l’imbarcazione, questi scelsero di tornare indietro e riattraversare il Pacifico, seguendo, in senso contrario, la rotta fatta fino a quel punto. L’ultima nave rimasta, la Victoria al comando di Juan Sebastián Elcano, attraversò l’Oceano Indiano e, dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza, giunse prima nelle Isole di Capo Verde (che erano un possedimento portoghese) e infine a San Lucar presso Siviglia il 6 settembre 1522 (quasi un anno e mezzo dopo la morte di Magellano e ben due anni, undici mesi e diciassette giorni dopo l’inizio dell’intera spedizione). Dei sessanta superstiti presenti sulla Victoria (che ormai imbarcava acqua ed aveva le velature danneggiate) quando era salpata dal Brunei, solo diciotto giunsero vivi a Siviglia, malmessi, denutriti e alcuni ammalati; tra loro Pigafetta, insieme 19
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© Paolo Martini
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LA VITA DI ANTONIO PIGAFETTA
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Monumento a Pigafetta a Cebu - Filippine
CASA PIGAFETTA Casa Pigafetta, sita in via Pigafetta a Vicenza, è un palazzo eretto nel 1440. Storia Nel Trecento la zona era abitata dai Pigafetta, famiglia di esuli guelfi fiorentini. Il palazzo fu rielaborato da Matteo Pigafetta nel 1481. L’edificio viene spesso erroneamente attribuito al famoso navigatore Antonio Pigafetta Il portale È un raro esempio di gotico fiorito, con singolari e piacevoli partiture decorative, incentrate sul motivo a torciglione. Le finestre del primo e secondo piano sono trilobate, in stile arabesco. Il portale, risalente al rinascimento, è affiancato da una scritta in francese antico: Il n’est rose, sans espine (in italiano, “non c’è rosa, senza spine”), alludendo allo stemma della casata dei Pigafetta. La facciata ospita un’iscrizione dedicata ad Antonio Pigafetta. Sulla facciata sono visibili cornucopie (simbolo di prosperità ed abbondanza) e alati grifoni; tra gli archi stemmi di aquile ad ali spiegate e insegne araldiche. L’esuberanza e la tipologia decorativa richiamano quelle di alcuni edifici monumentali in Lombardia: la Cappella Colleoni a Bergamo e la Certosa di Pavia.
ad un altro italiano, Martino de Judicibus. Leon Pancaldo, un savonese rimasto sulla Trinidad durante i lavori di riparazione, rientrò invece solo nel 1525. L’8 settembre 1522, a Siviglia, venne ricevuto a corte da Carlo V e donò al re il diario di bordo scritto durante il viaggio intorno al mondo; il diario, però, sparì nel nulla: la corte spagnola, infatti, era molto determinata a cancellare i meriti di Magellano, che era portoghese, nella prima navigazione intorno al mondo. Di conseguenza anche Antonio Pigafetta, testimone scomodo di quanto avvenuto durante la spedizione, fu frettolosamente congedato dall’Imperatore: ricevette la paga pattuita, ma nessuna gratifica aggiuntiva. La fama di Pigafetta aumentò velocemente: lasciata la Spagna, si spostò in Portogallo dove venne ricevuto dal re a cui raccontò le tante «cose vedute» durante la navigazione; andò quindi in Francia dove ottenne udienza dalla reggente Luisa di Savoia e raggiunse infine l’Italia nel gennaio o febbraio del 1523; fu ospitato in diverse corti italiane (Ferrara, Mantova, Venezia) e fu ricevuto anche da papa Clemente VII. Il 5 agosto 1524 il Senato della Repubblica di Venezia gli accordò il privilegio di stampa del suo Diario. Tra il 1524 e il 1525, Pigafetta scrisse (in una lingua mista italo-veneta con diverse parole spagnole) la Relazione del primo viaggio intorno al mondo con il Trattato di EVENTICULTURALI
Navigazione, le sue memorie sul viaggio, redatte a partire dai suoi minuziosi diari che aveva tenuto nei tre anni di viaggio: vi si trovano descrizioni dei popoli, dei paesi, dei prodotti e anche delle lingue che vi si parlavano, di cui il navigatore cercava di tracciare alcuni brevi glossari. Un’ipotesi sulla data della morte è riportata da Stefano Ebert nel suo libro su Pigafetta, e cioè che il viaggiatore sarebbe morto nel 1527, anno del sacco di Roma, durante una pestilenza a Monterosi (Viterbo), dove avevano sede temporanea i Cavalieri di Rodi al cui ordine apparteneva. Secondo una diversa ipotesi di Rita Pigafetta, citata da Michela Petrizzelli, sarebbe probabilmente caduto in combattimento al largo di Modone, Messenia, Grecia nel 1531, durante una battaglia navale tra i Cavalieri Ospitalieri dell’Ordine di San Giovanni, a cui Pigafetta apparteneva, e la flotta turca.
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MEMORIE DIVIAGGIO Relazione del primo viaggio intorno al mondo (1524 - 1525)
Tra il 1524 e il 1525, Pigafetta scrisse (in una lingua mista italo-veneta con diverse parole spagnole) la Relazione del primo viaggio intorno al mondo con il Trattato di Navigazione, le sue memorie sul viaggio, redatte a partire dai suoi minuziosi diari che aveva tenuto nei tre anni di viaggio: vi si trovano descrizioni dei popoli, dei paesi, dei prodotti e anche delle lingue che vi si parlavano, di cui il navigatore cercava di tracciare alcuni brevi glossari.
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RELAZIONE DI VIAGGIO - LIBRO PRIMO
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Antonio Pigafetta, Primo viaggio intorno al globo terracqueo ossia Ragguaglio della navigazione alle Indie orientali per la via d’occidente fatta dal cavaliere Antonio Pigafetta (...) sulla squadra del capitano Magaglianes negli anni 1519-1522 ora pubblicato per la prima volta, tratto da un codice ms. della Biblioteca Ambrosiana di Milano e corredato di note da Carlo Amoretti; con un transunto del Trattato di navigazione dello stesso autore. Milano - 1800
GLOSSARIO ALCUNI VOCABOLI DE QUESTI POPOLI DEL VERZIN Al miglio = maiz Alla farina = hui All’amo = pinda Al coltello = tacse Al pettine = chigap Alla forbice = pirame Al sonaglio = itanmaraca Buono più che buono = tum maragatum
ALLA PARTENZA DA SIVIGLIA, SINO ALL’USCITA DALLO STRETTO DI MAGAGLIENES Perchè sono molti curiosi, illustrissimo ed eccellentissimo signor, che non solamente se contentano de sapere e intendere le grandi ed ammirabili cose che Dio me ha concesso di vedere e patire ne la infrascritta mia longa e pericolosa navigazione, ma ancora vogliono sapere li mezzi e modi e vie che ho tenuto ad andarvi, non prestando quella integra fede a l’esito se prima non hanno bona certezza de l’inizio; pertanto saperà vostra illustrissima signoria, che, ritrovandomi nell’anno della natività del Nostro Salvatore 1519 in Spagna, in la corte del serenissimo re dei Romani con el reverendo monsignor Francesco Chieregato, allora protonotario apostolico e oratore de la santa memoria di papa Leone X, che per sua virtù dappoi è asceso a l’episcopato de Aprutino e principato de Teramo, avendo io avuto gran notizia per molti libri letti e per diverse persone, che praticavano con sua signoria, de le grandi e stupende cose del mare Oceano, deliberai, con bona grazia de la maestà cesarea e del prefato signor mio, far esperienzia di me e andare a vedere quelle cose, che potessero dare alcuna satisfazione a me medesimo e potessero partorirme qualche nome appresso la posterità. Avendo inteso che allora se era preparata una armata in la città di Siviglia, che era de cinque nave, per andare a scoprire la spezieria nelle isole di Maluco, de la quale era capitanio generale Fernando de Magaglianes, gentiluomo portoghese, ed era commendatore di Santo Jacobo de la Spada, [che] più volte con molte sue laudi aveva peregrato in diverse guise lo Mar Oceano, mi partii con molte lettere di favore da la città de Barsalonna dove allora resideva sua maestà, e sopra una nave passai sino Malega, onde, pigliando il cammino per terra, giunsi a Siviglia; ed ivi, essendo stato ben circa tre mesi, aspettando che la detta armata si ponesse in ordine per la partita, finalmente, come qui de sotto intenderà Vostra eccellentissima signoria, EVENTICULTURALI
con felicissimi auspizî incomensiammo la nostra navigazione: e perchè ne l’esser mio in Italia, quando andava a la santità de papa Clemente, quella per sua grazia a Monteroso verso di me si dimostrò assai benigna e umana e dissemi che li sarebbe grato li copiassi tutte quelle cose [che] aveva viste e passate nella navigazione, benchè io ne abbia avuta poca comodità, niente di meno, secondo il mio debil potere, li ho voluto satisfare. E così li offerisco in questo mio libretto tutte le vigilie, fatiche e peregrinazioni mie, pregandola, quando la vacherà dalle assidue cure rodiane, si degni trascorrerle; per il che mi parerà esser non poco rimunerato da vostra illustrissima signoria, a la cui bona grazia mi dono e raccomando. Avendo deliberato il capitano generale di fare così longa navigazione per lo mare Oceano, dove sempre sono impetuosi venti e fortune grandi, e non volendo manifestare a niuno de li suoi el viaggio che voleva fare, acciò non fosse smarrito in pensare de fare tanto grande e stupenda cosa, como fece con l’aiuto di Dio, (li capitani sui che menava in sua compagnia, lo odiavano molto non so perchè, se non perchè era Portughese ed essi Spagnoli), volendo dar fine a questo che promise con giuramento a lo imperatore don Carlo re di Spagna, acciò le navi ne le fortune e ne la notte non se separaseno una da l’altra, ordinò questo ordine e lo dette a tutti li piloti e maestri de le sue navi: lo qual era: Lui de notte sempre voleva andar innanzi de le altre navi ed elle seguitasseno la sua con una facella grande di legno, che la chiamano farol [il] quale portava sempre pendente da la poppa la sua nave. Questo segnale era a ciò [che] continuo lo seguitasseno. Se faceva uno altro fuoco con una lanterna o con un pezzo de corda de giunco, che la chiamano strengue, di sparto molto battuto ne l’acqua e poi seccato al sole ovvero al fumo, ottimo per simil cosa, gli rispondesseno, acciò sapesse per questo segnale che tutte venivano insieme. Se 23
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VENETOMAGAZINE faceva dui fuochi senza lo farol, virasseno, o voltasseno in altra banda quando el vento non era buono e al proposito per andar al nostro cammino, o quando voleva far poco viaggio. Se faceva tre fuochi, tollesseno via la bonetta, che è una parte di vela che se attacca da basso de la vela maggiore, quando fa bon tempo, per andar più: la se tol via acciò sia più facile a raccogliere la vela maggiore, quando si ammaina in pressa in un tempo subito. Se faceva quattro fuochi, ammainassero tutte le vele, facendo poi lui uno segnale di fuoco come stava fermo. Se faceva più fuochi, ovvero tirava alcuna bombarda, fosse segnale de terra o de bassi. Poi faceva quattro fuochi, quando voleva far alzare le vele in alto, acciò loro navigassero seguendo sempre per quella facella de poppa. Quando voleva far mettere la bonetta, faceva tre fuochi: quando voleva voltare in altra parte [ne] faceva due. Volendo poi sapere se tutte le navi lo seguitavano e venivano insieme, [ne] faceva uno, perchè così ogni nave facesse e gli rispondesse. Ogni notte se faceva tre guardie: la prima nel principio de la notte, la seconda, che la chiamano modoro nel mezzo, la terza nel fine [della notte]. Tutta la gente de la nave se (s)partiva in tre colonelli; il primo era del capitano, ovvero del contro maistro, mutandose ogni notte; lo secondo del pilota o nocchiero, il terzo del maestro.
Le mappe disegnate da Pigafetta
Luni a 10 agosto, giorno de santo Laurenzio, ne l’anno già detto, essendo la armata fornita di tutte le cose necessarie per mare e d’ogni sorte de gente (era[va]mo duecento e trentasette uomini) ne la mattina si feceno presti per partirse dal molo di Siviglia, e tirando artigliaria detteno il trinchetto al vento; e vennero abbasso del fiume Betis, al presente detto Gadalcavir, passando per uno luogo detto Gioan Dalfarax, che era già grande abitazione de Mori, per mezzo lo quale stava un ponte che pasava el ditto fiume per andare a Siviglia, del che è restato fin al presente nel fondo dell’acqua due colonne, che quando 24
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passano le navi hanno bisogno de uomini che sappiano ben lo loco delle colonne, perciò non desseno in esse, ed è bisogno passarle quando el fiume sta piú crescente, ed anche per molti altri luoghi del fiume, che non ha tanto fondo che basti per passare le navi cargate e [è bisogno che] quelle non siano troppo grandi. Poi venirono ad un altro [luogo], che se chiama Coria, passando per molti altri villaggi a lungo del fiume, tanto che giunseno ad uno castello del duca di Medina Cidonia, il quale se chiama S. Lucar, che è posto per entrare nel mare Oceano, levante ponente con il capo di Sant Vincent, che sta in 37 gradi di latitudine e lungi dal detto posto 10 leghe. Da Siviglia fin a qui per lo fiume gli sono 17 o 20 leghe. Da lì alquanti giorni venne el capitano generale con li altri capitani per lo fiume abbasso ne li battelli de le navi et ivi stessimo molti giorni per fornire l’armata di alcune cose [che] le mancavano; e ogni dí andavamo in terra ad aldir messa ad un loco che se chiama Nostra Donna di Baremeda, circa San Lucar. E avanti la partita lo capitano general volse [che] tutti se confessasseno e non consentitte [che] ninguna donna venisse ne l’armada per meglior rispetto. Marti a XX de settembre, nel medesimo anno, ne partissemo da questo loco, chiamato San Lucar, pigliando la via di garbin, e a 26 del detto mese arrivassemo a una isola de la Gran Canaria, che se dice Tenerife in 28 gradi di latitudine, per pigliar carne, acqua e legna. Stessemo ivi tre giorni e mezzo per fornire l’armata delle dette cose: poi andassemo a uno porto de la medesima isola, detto Monte Rosso, per pegola, tardando due giorni. Saperà Vostra illustrissima signoria che in quelle isole de la Gran Canaria c’è una in tra le altre, ne la quale non si trova pur una goccia de acqua che nasca, se non [che] nel mezodí [si vede] discendere una nebola dal cielo e circonda uno grande arbore che è nella detta isola, stillando dalle sue foglie e rami molta acqua; e al piede del detto arbore è addrizzata in guisa de fontana una fossa, ove casca l’acqua, de
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la quale li uomini abitanti e animali, cosí domestici come salvatici, ogni giorno de questa acqua e non de altra abbondantissimamente se saturano. Luni a tre d’ottobre a mezzanotte se dette le vele al cammino de l’austro, ingolfandose nel mare Oceano, passando tra Capo Verde e le sue isole in 14 gradi e mezzo; e cosí molti giorni navigassimo per la costa della Ghinea, ovvero Etiopia, (ne la quale ha una montagna, detta Sierra Leone, in 8 gradi di latitudine) con venti contrari, calme e piogge senza venti fino a la linea equinoziale, piovendo sessanta giorni di continuo contra la opinione de li antichi. Innanzi che giungessimo a la linea, 14 gradi, molte gropade da venti impetuosi e correnti de acqua ne assaltarono contra el viaggio. Non possendo spuntare innanzi, a ciò che le navi non pericolasseno, se calavano tutte le vele: ed a questa sorte andavano de mare in traverso finchè passava la gropada, perché veniva molto furiosa. Quando pioveva non era vento; quando faceva sole era bonaccia. Venivano al bordo de la nave certi pesci grandi, che se chiamano tiburoni, che hanno denti terribili e se trovano uomini nel mare li mangiano. Pigliavamo molti con ami de ferro, benché non sono buoni da mangiare, se non li piccoli, e anche loro mal boni.
La nave Victoria , l’unica nave superstite giunge a Siviglia con solo 18 marinai.
In queste fortune molte volte ne apparse il Corpo Santo, cioè Santo Elmo, in lume fra le altre in una oscurissima notte, di tal splendore, come è una facella ardente, in cima de la maggiore gabbia, e stiè circa due ore e piú con noi, consolandone che piangevamo. Quando questa benedetta luce si volse partire da noi, tanto grandissimo splendore dette ne li occhi nostri, che stettemo piú de mezzo quarto de ora tutti ciechi, chiamando misericordia, e veramente credendo esser morti. Il mare subito se aquietò. Vidi molte sorte di uccelli, tra le quali una che non aveva culo; un’altra, quando la femina vuol far li ovi, li fa sopra la schiena del maschio, e ivi si creano; non hanno EVENTICULTURALI
piedi e sempre vivono nel mare; un’altra sorte, che vivono del sterco de li altri uccelli e non di altro: sí come vidi molte volte questo uccello, qual chiamano cagassela, correr dietro ad altri uccelli, fin tanto [che] quelli sono costretti mandar fuora el sterco; subito lo piglia e lascia andare lo uccello. Ancora vidi molti pesci che volavano, e molti altri congregati insieme, che parevano una isola. Passato che avessimo la linea equinoziale, in verso el meridiano, perdessimo la tramontana, e cosí se navigò tra il mezzogiorno e il garbin fino in una terra, che si dice la terra del Verzin in 23 gradi 1/2 al polo antartico, che è terra del capo de Santo Agostino, che sta in 8 gradi al medesimo polo: dove pigliassemo gran rinfresco de galline, batate, pigne molto dolci, frutto in vero piú gentil che sia, carne de anta come vacca, canne dolci ed altre cose infinite, che lascio per non essere prolisso. Per un amo da pescare o uno cortello davano 5, o 6 galline: per uno pettine uno paro de occati; per uno specchio o una forbice, tanto pesce che avrebbe bastato a X uomini; per uno sonaglio o una stringa, uno cesto de batate; queste batate sono al mangiare come castagne e longhe come napi; e per uno re de danari, che è una carta da giocare, ne detteno 6 galline e pensavano ancora averne ingannati. Intrassemo in questo porto il giorno del Sancta Lucia e in quel dì avessimo il sole per zenit e patissimo più caldo quel giorno e li altri, quando avevamo il sole per zenit, che quando éramo sotto la linea equinoziale. Questa terra del Verzin è abbondantissima e più grande che la Spagna, Franza e Italia tutte insieme: è del re de Portugallo. Li popoli di questa terra non sono Cristiani e non adorano cosa alcuna; vivono secondo lo uso della natura e vivono centovincinque anni e cento quaranta; vanno nudi cosí uomini, come femmine; abitano in certe case lunghe che le chiamano boii e dormono in rete de bambaso, chiamate amache, legate ne le medesime case da un capo e da l’altro a legni grossi: fanno foco in fra essi in terra. (Continua) 25
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LA FAMA DI PIGAFETTA
Storia e fortuna della Relazione diViaggio di Adriana Chemello
“Il viaggio fatto per gli Spagnuoli intorno al Mondo è una delle più grandi e maravigliose cose che si siano intese a’ tempi nostri: e ancor che in molte cose noi superiamo gli antichi, pur questa passa di gran lungtutte l’altre insino a questo tempo ritrovate.” L’entusiasmo dello storico e del geografo Ramusio fa percepire l’ampiezza della risonanza che l’eccezionalità dell’impresa deve aver suscitato nell’Europa del tempo.
Carte nautiche ai tempi del Pigafetta conservate nella Biblioteca Bertoliana di Vicenza
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STORIA E FORTUNA DELLA RELAZIONE DI VIAGGIO
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a circumnavigatio globi compiuta dalla piccola flotta di Magellano [«nel qual viazo ho circundato tutto il mondo a torno», come si esprime Pigafetta] segna uno spartiacque tra due epoche della storia umana moderna, una rivoluzione che si riperquote in tutte le manifestazioni della vita politica, economica, culturale e spirituale. La nuova scoperta ha indotto mutamenti negli equilibri di potere tra gli stati europei, nella dinamica dei traffici commerciali e degli spostamenti di uomini e merci tra i continenti. Ma la novità più dirompente è la nuova coscienza del mondo che la scoperta di terre “incognite” ha determinato, costringendo a rivedere i paradigmi scientifici ed i sistemi chiusi delle discipline. Come scrive Marica Milanesi «la prima circumnavigazione ha unito i mari e le terre, prima isolati, dispersi su una superficie indefinita. Benché immensi, dilatati all’estremo dall’enorme quantità di tempo che occorre per superarli, gli spazi terrestri diventano finiti, e quindi accessibili e prevedibili».1 Negli anni in cui Pigafetta si muove sulla scena del mondo, possiamo dire che aveva raggiunto il suo apice il desiderio del mondo di «estrovertirsi», per usare una locuzione di Zumthor, il quale osserva come sul finire del Medioevo il mondo diventa «improvvisamente estroverso».2 Lo studioso Burckhardt, a sua volta, aveva indicato fra i caratteri originali della civiltà del Rinascimento proprio la forte tensione verso la «scoperta del mondo esteriore».3 Nei circoli degli uomini dotti, nelle corti europee, soprattutto in quelle spagnola e portoghese, le «scoperte» degli ultimi decenni avevano generato stupore e aperto nel contempo tanti interrogativi. Tutto ciò aveva dato incentivo e alimentato una forte volontà di conoscere e di comprendere il nuovo, ciò che è al di là dei «confini» e degli spazi noti. Il viaggio aveva pertanto acquisito un alto valore conoscitivo perché traeva impulso dal desiderio di «veder del mondo» o di «venir del mondo esperto», secondo la formula dantesca. Era uno degli strumenti per appagare la curiositas dell’umanista, per fare esperienza di ciò che si era appreso dai libri o che era stato riferito da persone autorevoli e degne di fede. Il viaggio di Pigafetta nasce proprio da questa curiosità di fare esperienza di mondo, di attraversare confini, di lanciarsi a scoprire “terre incognite”, per mare. Sono gli anni delle «scoperte», dell’«estrovertirsi», appunto. 1. M. Milanesi, Introduzione, a G.B. Ramusio, Navigazioni e Viaggi, vol. I, Torino, Einaudi, 1978, p. xxix. 2. P. Zumthor, La misura del mondo. La rappresentazione dello spazio nel Medio Evo, Bologna, Il Mulino, 1995, p. 30. 3. Cfr. C. Spila, Introduzione a Nuovi Mondi. Relazioni, diari e
EVENTICULTURALI
VENETOMAGAZINE Antonio Pigafetta arriva in Spagna nel dicembre 1518, al seguito del vescovo Francesco Chiericati, protonotario apostolico inviato dal papa Leone X alla corte di Carlo I; lì partecipa alle dotte riunioni a casa del nunzio pontificio ed ha occasione di frequentare la corte, dove viene catturato dalle dispute intorno alle scoperte che Spagnoli e Portoghesi stanno compiendo [«le grande e stupende cose del Mare Oceano»]. Chiede l’autorizzazione al vescovo e al re Carlo I per partecipare alla spedizione che Magellano sta preparando. Viene arruolato come criado (uomo di fiducia) di Magellano e salpa da Siviglia il 10 agosto 1519. Ritornato in Spagna dopo tre anni, Antonio Pigafetta è consapevole di essere stato testimone oculare di un’impresa irripetibile («Credo certamente non si farà mai più tal viaggio»4), e decide di farne una narrazione per far «sapere e intendere le grandi e ammirabili cose che Dio me ha concesso de vedere e patire ne la infrascritta mia longa e pericolosa navigazione».5 La curiosità del lettore rinascimentale potrà trovare soddisfazione perché chi scrive ha trasformato il viaggio da «esperienza mentale» ad esperienza fisica, è diventato soggetto patiens della propria curiositas: Avendo io avuto gran notizia per molti libri letti e per diverse persone, che praticavano con sua Signoria, de le grande e stupende cose del Mare Oceano, deliberai, con bona grazia de la Magestà Cesaria e del prefato signor mio, far esperienzia di me e andare a vedere quelle cose che potessero dare alguna satisfazione a me medesmo e potessero parturirmi qualche nome appresso la posterità6. Il vicentino dopo aver esperito la «longa e pericolosa navigazione» decide di «narrar altrui» perché non se ne perda la memoria che solo la scrittura può conservare, trasformando i «muti inchiostri» in «vive voci» presso la posterità. La stesura della relazione fa sì che l’«evento» si risolva in «ricordo», in memoria appunto. Una scrittura del ricordo, un recupero memoriale di un evento ormai concluso e passato, del quale è viva la consapevolezza di essere uno dei pochi testimoni superstiti. Dei «ducento e trentasete omini» partiti il 10 agosto 1519 dal porto di Siviglia avevano racconti di viaggio dal XIV al XVII secolo, a cura di C.S., Milano, RCS libri, 2010, p. 16 sgg. 4. A. Pigafetta, Il primo viaggio intorno al mondo, edizione a cura
di M. Pozzi, Vicenza, Neri Pozza, 1994, p. 112. 5. Ivi, p. 109. ---- 6. Ibid.
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fatto ritorno il 6 settembre 1522 «se non disdoto omini e la magior parte infermi»1. Nel congedare la trascrizione italiana della sua relazione di viaggio, dedicandola a Filippo de Villers L’Isle Adam, Pigafetta non si esime dall’informare di avere già consegnato il suo «diario di bordo» nelle mani dell’Imperatore Carlo V: Partendomi de Seviglia, andai a Vagliadolit, ove apresentai a la Sacra Magestà de Don Carlo non oro né argento ma cose da essere assai apresiate da un simil signore. Fra le altre cose li detti uno libro, scritto de mia mano, de tutte le cose passate de giorno in giorno nel viagio nostro. Me parti’ de lì al meglio puotì e andai in Portagalo e parlai al re Don Ioanni de le cose aveva vedute. Passando per la Spagna veni in Fransa e feci dono de algune cose de l’altro emisperio a la madre del Cristianissimo re Don Francisco, Madama la Regenta. Poi me venni ne la Italia, ove donai per sempre me medesimo e queste mie poche fatiche a lo inclito e illustrissimo signor Filipo de Villers L’Isle Adam, Gran Maestro de Rodi dignissimo. 2. Di questo prezioso testimone spagnolo si sono perse irrimediabilmente le tracce, ma anche il «libro» arrivato fino a noi è debitore ad un destino che sfugge alle intenzioni autoriali per imboccare strade impreviste. Ma far circolare le notizie e le scoperte di questi viaggi non sarebbe stato possibile senza l’apporto determinante dell’industria tipografica, soprattutto quella veneziana, perché Venezia era «diventata un centro di raccolta e di smistamento delle informazioni relative a ciò che avviene al di là dei mari».3 Lì editori e cartografi cooperavano nel produrre materiali (libri e opuscoli) adatti a diverse tipologie di pubblico. Nel contesto veneziano si muove Giovan Battista Ramusio, Segretario del Senato veneto, cultore esperto di cosmografia, geografia e storia, traduttore autorevole di greco e latino, al centro di una fitta rete di relazioni con uomini dotti da Bembo a Fracastoro, da Andrea Navagero a Bernardino Donato. Negli anni tra il 1530 e il 1550 Giovan Battista Ramusio fa incetta, spostandosi sovente per le sue funzioni di Segretario tra le diverse corti europee, di relazioni, lettere, discorsi sulle «navigazioni» realizzate tra fine Quattrocento e primo Cinquecento. Accorpando insieme tutte queste diverse testimonianze, dà forma ad un’opera monumentale in più volumi, che intitola Navigazioni e viaggi. È la risultante di una ricerca puntigliosa sulle fonti ma soprattutto di raccolta di 1. Ivi, pp. 111 e 190. 2. Ivi, p. 190. 3. M. Milanesi, Introduzione, a Navigazioni e viaggi, cit., p.
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resoconti e testimonianze di prima mano relative a ciò che sta avvenendo in mare in quegli anni. La raccolta di Ramusio si configura come una «biblioteca» settoriale, la summa di un nuovo genere rilanciato dall’epopea delle scoperte. È evidente la dinamica interconnessione tra i viaggi oceanici alla scoperta delle “terre incognite” e la tempestiva risposta della industria tipografica legata alle capacità imprenditoriali dei «grands imprimeurs» veneziani, che ne diventa un’efficace cassa di risonanza. Un’opera rivolta ad un pubblico selezionato di mercanti e di uomini dotti, desiderosi di aggiornarsi e di informarsi sulle nuove scoperte attraverso le relazioni disponibili all’estero ed ora rese disponibili anche in volgare italico. Nella editio princeps del primo volume delle Navigazioni e viaggi, uscita dai torchi della stamperia dei Giunti in Venezia nel 1550, Giovan Battista Ramusio dedica ampio spazio all’impresa di Magellano e dei suoi compagni, recuperandone ben due resoconti, che pubblica uno di seguito all’altro: l’Epistola di Massimiliano Transilvano, uno dei Segretari di Carlo V, che aveva sposato la nipote di uno dei promotori dell’impresa di Magellano (quindi molto ben informato sui fatti, anche perché aveva raccolto le testimonianze dirette dei reduci della spedizione),4 e il Viaggio di Antonio Pigafetta, entrambi introdotti da un breve Discorso sopra il viaggio fatto da gli Spagnuoli intorno al mondo a firma dello stesso Ramusio: Il viaggio fatto per gli Spagnuoli intorno al Mondo è una delle più grandi e maravigliose cose che si siano intese a’ tempi nostri: e ancor che in molte cose noi superiamo gli antichi, pur questa passa di gran lunga tutte l’altre insino a questo tempo ritrovate5. L’entusiasmo dello storico e geografo dà conto, seppur parzialmente, del rilievo e della profonda risonanza che l’eccezionalità dell’impresa deve aver suscitato nell’Europa del tempo. Lo studioso, sempre ben informato sui viaggi oceanici ed in grado di procurarsi fonti documentarie di prima mano, avanza una prima valutazione critica, misurando il valore della nuova impresa sulle conoscenze degli antichi e su quelle fino ad allora possedute dai suoi contemporanei. Ed il giudizio sul nuovo «viaggio» è che esso «passa di gran lunga tutte l’altre» ed anche i «gran filosofi antichi udendone ragionare, resteriano stupefatti et fuor di loro». 4. L’Epistola venne pubblicata in latino, col titolo De Moluccis Insulis nel 1523 (Colonia e Parigi), nel 1524 a Roma. Nel 1536 fu stampata in italiano a Venezia, con ogni probabilità a cura dello stesso Ramusio, insieme con la relazione di Pigafetta (Il viaggio fatto da gli Spagniuoli a torno a’l mondo, Zoppini), e ripresa poi nel 1550 nel primo volume delle Navigazioni. 5. Si cita dalla edizione moderna: G.B. Ramusio, Discorso sopra il viaggio fatto dagli Spagnuoli intorno al mondo, in Navigazioni e viaggi, a cura di M. Milanesi, Torino, Einaudi, 1979, vol. II, p. 837.
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STORIA E FORTUNA DELLA RELAZIONE DI VIAGGIO Un giudizio che riprende quello espresso da Massimiliano Transilvano in explicit alla sua Epistola, il primo testo a stampa a dare un resoconto, desunto dalle testimonianze dei superstiti, della «navigazion fatta» di «circondar tutto il mondo». Esaltandola come impresa «marvigliosa, né mai più trovata o conosciuta, né ancor tentata per altri», Massimiliano scrive: Marinai certamente più degni di esser celebrati con eterna memoria che non furono quelli che dagli antichi furon chiamati Argonauti, li quali navigarono con Iason […] ma la nostra, di fuora dello stretto di Gibilterra navigando per il mare Oceano verso mezzodì e polo antartico, e di lì poi voltandosi verso ponente, e tanto seguitando quello che, passando di sotto la circunferenza del mondo, se ne venne in levante, e di lì poi se ne ritornò in ponente a casa sua in Siviglia6. Ramusio, ha voluto accostare due diverse testimonianze dell’impresa di Magellano: quella di Massimiliano Transilvano, stesa sulla scorta dei racconti dei superstiti, quindi una testimonianza mediata dalla penna di colui che se ne fece trascrittore e interprete; a cui affianca «un libro molto particolare e copioso» di «un valoroso gentiluomo vicentino detto messer Antonio Pigafetta»7. Il libro «particolare e copioso» arrivato nelle mani di Ramusio non è però il manoscritto autografo o trascritto del cavaliere vicentino, che noi oggi leggiamo (e di cui abbiamo diverse edizioni moderne), bensì un resoconto di «seconda mano», la risultante di una ri-scrittura ottenuta «da libro a libro mutando e trascrivendo»8, secondo una pratica molto diffusa nel Cinquecento. Così mentre il manoscritto in volgare italico è rimasto ignorato, sepolto tra i polverosi palchetti di una biblioteca fino al 1800, la relazione del viaggio è tributaria della propria «fortuna» editoriale ad una scorciata trascrizione «du second main», arrivata a Venezia attraverso Parigi. Il «libro» recuperato da Ramusio ha infatti il proprio archetipo nell’extraict francese pubblicato senza data a Parigi presso Simon de Colines, sul quale è stata condotta la traduzione italiana uscita nel 1536 a Venezia presso lo Zoppini, con ogni probabilità curata dallo stesso Ramusio..
6. Epistola di Massimiliano Transilvano, secretario della maestà dello imperatore, scritta allo illustrissimo e reverendissimo signore il signore cardinal Salzuburgense, della ammirabile e stupenda navigazione fatta per gli Spagnuoli lo anno MDXIX attorno il mondi, ivi, p. 866. 7. G.B. Ramusio, Discorso, in Navigazioni e viaggi, cit., p. 838. 8. Il sintagma è ripreso dalla «lettera dedicatoria» a M. Ieronimo Fracastoro, ora in G.B. RAMUSIO, Navigazioni e viaggi, cit., vol. I, pp. 3-4.
VENETOMAGAZINE Il profilo della «fortuna» editoriale del libro pigafettiano e della sua circolazione cinquecentesca coincide con quello della monumentale opera di Ramusio che conobbe nel corso del secolo numerose edizioni e ristampe, nonché diverse traduzioni nelle principali lingue europee. Il «libro» di Pigafetta letto e conosciuto dai dotti, dai mercanti, dai letterati cinque-seicenteschi è appunto questo «sommario» di seconda mano ricavato dal francese. Il manoscritto della Relazione in volgare italico (conservato presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano) venne pubblicato per la prima volta da Carlo Amoretti, a Milano nel 1800; l’edizione più autorevole rimase a lungo quella di Andrea Da Mosto, pubblicata a Roma nel 1894. Per concludere vorrei riprendere l’omaggio che Ramusio tributa, in epilogo al suo Discorso, ad Antonio Pigafetta ed alla città che gli ha dato i natali, non senza una piccola postilla per ricordare, che il monumentum più imperituro è – a mio avviso – saper tramandare alle giovani generazioni il sensum culturale e umano di quella epocale impresa: Et la città di VICENZA si può gloriare fra tutte l’altre d’Italia che, oltre l’antica nobiltà e gentilezza sua, oltra molti eccellenti e rari ingegni, sì nelle lettere come nell’armi, abbia anche avuto un gentiluomo di tanto animo come il detto messer Antonio Pigafetta, che, avendo circondata tutta la balla del mondo, l’abbia descritta tanto particolarmente. E non è dubbio che dagli antichi, per una così stupenda impresa, gli saria stata fatta una statua di marmo, e posta in luogo onorato, per memoria e per esempio singulare a’ posteri della sua virtù9. Ma Ramusio aveva anche espresso un altro auspicio, a mio avviso ancora di estrema attualità: una delle più ammirabili e stupende operazioni che potessero far in vita loro i grandi príncipi saria il far conoscere insieme li uomini di questo nostro emisfero con quelli dell’altro opposto […].
9. G.B. Ramusio, Discorso, in Navigazioni e Viaggi, cit., vol. II, p. 838.
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LA LAVIA VIADELLE DELLESPEZIE SPEZIE Da a Pigafetta DaMarco MarcoPolo Polo a Pigafetta, Ilillungo delle spezie lungoviaggio viaggio delle spezie di Michelangelo Muraro
La via della Seta e delle spezie porta Marco Polo a percorrere con Matteo, suo padre, e lo zio Niccolò 10.000km in 24 anni dal 1271 al 1295 e scoprire le fonti di quei beni più preziosi dell‘oro che erano cannella, noce moscata e chiodi di garofano. Fino al XV secolo, le spezie viaggiavano via terra dall’Oriente, attraverso la Persia, la Turchia, l’Arabia, l’Egitto e la Spagna, tutte terre musulmane. Nel XV secolo, lo stimolo a trovare soluzioni meno costose spinse, tuttavia, uomini coraggiosi a cercare “una rotta delle spezie” diversa, via mare..........
Nato a Venezia il 15 settembre 1254, Marco Polo è considerato uno dei più grandi viaggiatori ed esploratori di tutti i tempi. Le cronache del viaggio e della sua permanenz in Estremo Oriente furono trascritte in francese antico da Rustichello da Pisa; raccolte sotto il titolo di “Divisiment dou monde”, le sue memorie di viaggio divennero note, in seguito, come “il Milione”.
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LA VIA DELLE SPEZIE
VENETOMAGAZINE VICENZAMAGAZINE Il mappamondo di Fra Mauro che Niccolò Da Conti contribuì a disegnare con i suoi resoconti di viaggio I viaggi di Niccolò de’ Conti, che circolarono inizialmente in forma manoscritta, si narra abbiano profondamente influenzato la comprensione geografica delle aree attorno all’Oceano Indiano nella metà del XV secolo. Il suo fu uno dei primi resoconti a descrivere le Isole della Sonda e le Isole delle Spezie, e contribuì a rivalutare l’opera di Marco Polo, alla quale prima di allora si dava poco credito. I suoi racconti probabilmente incoraggiarono i viaggi di esplorazione europei della fine del secolo.
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icorrono quest’anno, il 20 di settembre, i 500 anni dalla partenza del viaggio di Magellano per cercare la rotta ovest verso le Indie alla scoperta di una nuova via delle spezie. Di 5 caravelle partite con 265 uomini da San Lucar, vicino a Siviglia, giungeranno al punto di partenza, dopo 3 anni, solamente 18 uomini su una sola imbarcazione, la Vittoria. Fra loro Antonio Pigafetta che lascerà testimonianza documentata con dovizia di particolari di osservazioni geografiche, astronomiche, scientifiche, di cultura, di uomini coraggiosi oltre che di botanica, zoologia, medicina, cosmesi, religione. Secondo la Genesi le spezie crescevano nel Paradiso terrestre, un giardino posto a oriente, fra quattro fiumi, forse fra l’India e la Cina. Si sa, comunque, che l’uso delle spezie risale a migliaia di anni fa ed era ampiamente diffuso tra gli Egizi. L’archeologia gastronomica, assieme alla chimica, rivela che fra i resti dei cibi rimasti incorporati nel pentolame di coccio usato all’epoca, si trovano anche le spezie che venivano inserite nei pasti degli operai impiegati nella costruzione della piramide di Cheope, in quanto si riteneva che servissero a proteggerli dalle epidemie e mantenessero le maestranze in forze.
La via della Seta e delle spezie porta Marco Polo a percorrere con Matteo, suo padre, e lo zio Niccolò 10.000km in 24 anni dal 1271 al 1295 e scoprire le fonti di quei beni più preziosi dell‘oro che erano cannella, noce moscata e chiodi di garofano. Fino al XV secolo, le spezie viaggiavano via terra dall’Oriente, attraverso la Persia, la Turchia, l’Arabia, l’Egitto e la Spagna, tutte terre musulmane. I commercianti imponevano i loro balzelli, che facevano lievitare alle stelle il prezzo, già caro in partenza. I Paesi produttori, consci del loro tesoro, erano ben attenti che nulla uscisse dalle loro frontiere che potesse permettere ai Paesi consumatori di produrle in proprio. Nel XV secolo, lo stimolo a trovare soluzioni meno costose spinse, tuttavia, uomini coraggiosi a cercare “una rotta delle spezie” diversa, via mare, circumnavigando il Capo di Buona Speranza, per evitare tutti quei passaggi che gravavano non poco sul prezzo. Uno dei più straordinari, fu Niccolò dè Conti, navigatore veneziano, nato nel 1395. Andò a Bagdad e in Persia a studiare l’arabo e il persiano e poi, forte di queste conoscenze che lo facevano sembrare un musulmano, girò l’Oriente scoprendone con meraviglia la cultura, la civiltà e i tesori. Soggiornò un anno a Sumatra e ne
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VICENZAMAGAZINE VENETOMAGAZINE Con il viaggio di Bartolomeo Diaz del 1488 il re del Portogallo aveva ottenuto la prova che si poteva compiere una navigazione continua dall’Atlantico all’oceano Indiano. Si trattava ora di organizzare una grande spedizione che compisse l’intero percorso da Lisbona alle coste dell’India. Risolti i problemi di natura diplomatica con la Spagna con il Trattato di Tordesillas e alcuni problemi di carattere tecnico (la presenza dei monsoni), l’8 luglio 1497 sotto il comando di Vasco da Gama partì la flotta destinata a raggiungere l’India. Dopo aver fatto scalo alle isole del Capo Verde, si diresse verso il Capo di Buona Speranza che venne doppiato il 22 settembre. I portoghesi entrarono quindi in contatto con le città mercantili sulla costa orientale dell’Africa, fino a giungere a Calcutta. Dopo aver caricato le sue navi di tutte le spezie che fu in grado di acquistare, da Gama iniziò il viaggio di ritorno e il 29 settembre del 1499 delle quattro navi con cui era partito, solo una fece ritorno a Lisbona.
descrisse la ricchezza della quale facevano parte oro e spezie. i suoi viaggi furono molto importanti perché confermarono che era possibile andare oltre il Capo di Buona Speranza nell’oceano Atlantico e quindi si poteva circumnavigare l’Africa. Vasco da Gama, circa cento anni dopo, nel 1497, effettuerà per la prima volta quel viaggio ad est verso le Indie, ridisegnando le mappe del mondo medievale. Il capo di Buona Speranza è sempre stato un luogo dal forte significato simbolico, finis terrae, reso ancora più suggestivo dalla violenza dei due oceani che si incontravano, l’Atlantico e l’Indiano, tanto che, dieci anni prima, era stato chiamato “capo delle tempeste”. Sarà re Giovanni II° del Portogallo a ribattezzarlo Capo di Buona speranza, perché, con la sua circumnavigazione, nascevano speranze di interessanti prospettive commerciali. Anche Cristoforo Colombo si mosse alla ricerca di una nuova rotta per l’India, questa volta prendendo la direzione ovest; molti aiuti finanziari affluirono all’iniziativa, attratti dalla possibilità di avere nuove spezie da commerciare. In effetti, la scoperta di nuovi prodotti come il caffè, il cacao e la successiva coltivazione di canna da zucchero influiranno anche sul consumo delle spezie tradizionali facendone, però, diminuire l’interesse. Il fatto che durante la navigazione Colombo sia “inciampato” nelle Americhe, lo dobbiamo indirettamente alle spezie e, dunque, potremmo affermare che queste furono involontaria causa della fine del Medioevo e dell’inizio dell’era moderna. Sarà finalmente Magellano, con Pigafetta a ripetere il giro verso ovest ma superando questa volta l’ostacolo Americhe, per attraversare l’infinito oceano pacifico ed arrivare alle cosiddette Indie. 32 28
LE SPEZIE Se, fortunatamente, la Treccani spiega che, lessicalmente, spezie, droghe e coloniali sono sinonimi, anche se i due ultimi termini sono caduti in disuso, per cogliere in modo completo la differenza fra essi, può essere d’aiuto il linguaggio popolare, nel quale le erbe come il prezzemolo, il basilico, la menta, sono chiamate “odori” mentre il pepe, lo zafferano ecc. continuano a mantenere la loro denominazione di droga. I primi erano più vicini alla cultura contadina perché coltivati nell’orto dietro casa, mentre le seconde si acquistavano in drogheria in occasione di usi speciali come, per esempio, il pepe impiegato nella preparazione dei salumi. Le erbe aromatiche, inoltre, sono utilizzate per modificare il profumo di un cibo o di una pietanza, e generalmente se ne utilizzano le foglie fresche. Le spezie, invece, hanno la caratteristica di conferire gusto, rafforzare il sapore di un piatto e di renderlo più gradevole e sono ottenute da diverse parti delle piante, come bacche, semi, radici, che necessitano di trattamenti e lavorazioni per estrarre il loro particolare gusto. La cannella, per esempio, si ottiene essiccando gli arbusti; i chiodi di garofano sono i boccioli floreali essiccati e hanno un potere antiossidante 80 volte più potente della mela; il pepe nero viene prodotto dal frutto. La maggior parte delle spezie arriva ancora dai Paesi orientali, mentre lo zafferano è prodotto anche in Italia, ed è la spezia più costosa in assoluto: rientra, infatti, nell’elenco dei dieci cibi più cari del mondo. La sua coltura è una storia che passa dall’antico Egitto a Omero, che ne indica la presenza, assieme al loto e al giacinto, fra i fiori
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LA VIA DELLE SPEZIE
VICENZAMAGAZINE VENETOMAGAZINE le rotte dei quattro viaggi realizzati da Cristoforo Colombo tra il 1492 e il 1504.
che formavano il letto di Zeus. Portato dagli Arabi in Spagna, si diffuse nel Medioevo, forte anche della sua fama di possedere virtù farmacologiche, approdando sulla nostra terra verso la fine del XIII° secolo. In Italia, le coltivazioni tradizionali raggiungono l’eccellenza, concentrandosi soprattutto in Umbria, Abruzzo, Marche, Toscana e Sardegna, regioni che vantano produzione e certificazioni di qualità riconosciute in tutto il mondo. A Città della Pieve (Perugia) una tradizionale manifestazione autunnale festeggia il culmine della stagione di questa magica pianta dal bel fiore violetto, dagli stimmi di un rosso infuocato e da un colorante dal giallo splendente. Il motivo per cui le spezie erano chiamate droghe è dovuto al fatto che il loro uso non era destinato solo al condimento, alla conservazione del cibo o per nascondere il deterioramento degli alimenti, in particolare della carne, bensì anche ai rituali magici e alle cerimonie religiose, grazie agli effetti dopanti dovuti alla presenza di alcaloidi. In ogni epoca il costo è stato talmente alto che la loro presenza sulle tavole dei signori ne sottolineava l’importanza e la ricchezza, ma incrementava anche i guadagni dei Veneziani, che per molto tempo mantennero il monopolio delle rotte con l’Asia da dove importavano questi preziosi vegetali che, oltre agli impieghi descritti, costituivano anche una sorta di moneta di scambio. La varietà degli usi delle spezie faceva parte della loro preziosità. Per esempio, la curcuma, tra le sue 90 specie, ne ha una, di colore giallo vivace, che viene chiamata “zafferano delle indie” e una sua radice, appesa al collo della ragazza, fa parte del rito della pro-
messa matrimoniale. Pochi sanno che l’olio essenziale di cannella, unito all’acqua, è ottimo per il lavaggio dei piatti e delle pentole (argomento seriamente legato al post convivio) ed è utile per combattere virus e batteri. Ricercatori israeliani dell’università di Tel Aviv hanno scoperto che quell’estratto di cannella, preparato in soluzione acquosa e miscelato all’acqua bevuta da alcune cavie, sulle quali era stata iniettata una forma aggressiva di Alzheimer, aveva di molto rallentato lo sviluppo della malattia e anche la longevità degli animali era del tutto simile a quella dei topi sani. Se molte spezie di provenienza esotica sono usate in medicina, possiamo pensare, gustandole nelle più moderne ricette, che anche a tavola stiamo “curando” un po’ la nostra salute.
L’Università del Gusto di Creazzo (Esac) ha colto lo spunto dettato dall’Associazione Pigafetta 500 per inserire nel suo programma formativo un percorso dedicato alla creazione di un prodotto turistico esperienziale teso a valorizzare Pigafetta come patrimonio storico culturale del territorio. Laboratori per l’ideazione di percorsi esperienziali, tavoli per l’ideazione del nuovo prodotto turistico legato all’immaginario del Pigafetta e laboratori di comunicazione correlati, saranno la fucìna di idee che farà rivivere l’immaginario di Pigafetta dagli spunti della sua Relazione del primo viaggio intorno al mondo.
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TREVISO URBS PICTA
L’uso di abbellire le facciate trasformava le strade in una scena teatrale...
Posta ai piedi delle Prealpi, in zona di risorgive, lambita dalle acque del Sile che scorre “silente” a sud ed attraversata dai cinque rami del Botteniga e da meandri sotterranei, Treviso è cantata dai poeti e celebrata già negli Statuti medievali per il pullulare di fresche e purissime fonti. La città, tra le varie bellezze artistiche, architettoniche e paesaggistiche, è caratterizzata dalle variopinte facciate e murature degli edifici, tanto da vantare l’appellativo di Urbs picta
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TREVISO URBS PICTA
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ià all’inizio del ‘900, lo storico dell’arte trevigiano Luigi Coletti, in un fascicoletto pubblicato dall’Ente Nazionale per le industrie turistiche, presentando la sua città scrive: “…questa delle facciate affrescate che si trovano sparse per tutta la città, è una caratteristica della città di Treviso, del più alto interesse pel forestiero […] Danno un’idea di quale potesse essere la fastosità di questa decorazione che trasformava le strade in una mostra d’arte perenne e viva, o in una scena di teatro continuamente nuova dove si alternavano tavole sacre e profane, mitologia e paesaggi, statue ed architetture.” Treviso picta si presenta con una moltitudine di facciate affrescate che vivono dentro al meraviglioso disordine costituito dalla città medievale e rinascimentale, tra piccoli e modesti edifici e suntuosi palazzi. Sappiamo che l’uso di abbellire le proprie abitazioni, poi edifici pubblici e privati, ha origini antichissime ed è ampiamente diffuso, ma Treviso si distingue per la quantità di intonaci decorati ancora esistenti e la continuità con cui è testimoniato questo fenomeno: per ben otto secoli i trevigiani hanno continuato a dipingere i muri della loro città, realizzando in alcuni casi veri palinsesti di intonaco su intonaco rigorosamente decorato. È un’urbs picta che può dare ancora spazio a scoperte di meravigliosi affreschi celati da intonaci più recenti, che ha una storia intensa e vivace, fatta di committenti, artisti più o meno celebri, di cultori e difensori delle patrie memorie, di grandi restauratori e di tragiche distruzioni: se parliamo di Treviso non possiamo non ricordare i violenti bombardamenti del 1944 che provocarono la distruzione o danneggiamento di 3783 fabbricati, corrispondenti all’81%. L’interesse nei confronti della città dipinta, aspetto che caratterizza il centro storico di Treviso, e la consapevolezza del suo valore identitario, si è riacceso grazie ad una ricerca collettiva e pluriennale condotta da Fondazione Benetton Studi Ricerche, voluta dal direttore Marco Tamaro con la supervisione scientifica di Lionello Puppi e coordinata da Patrizia Boschiero, nel corso della quale
sono state catalogate tutte le facciate affrescate nel centro storico, esistenti e perdute. Il lavoro ha permesso così la creazione di una banca dati che conserva le informazioni raccolte attraverso sopraluoghi sul campo, ricerche bibliografiche e archivistiche e un’accurata campagna fotografica (realizzata da Arcangelo Piai e Corrado Piccoli), tutto consultabile liberamente online(https://trevisourbspicta.fbsr.it/ ). I collegamenti tra i dati acquisiti dalla ricerca e le numerose cartografie attuali e storiche che sono state inserite, consentono inoltre di interrogare il sistema e ottenere varie e interessanti “mappe tematiche” preziose per la conoscenza di questo patrimonio straordinario quanto precario. Altri aspetti della ricerca hanno invece portato alla pubblicazione del volume “Treviso urbs picta. Facciate affrescate della città dal XIII al XXI secolo: conoscenza e futuro di un bene comune” (a cura di Rossella Riscica e Chiara Voltarel, che raccoglie oltre ai saggi delle curatrici, quello di apertura di Lionello Puppi, contributi di Massimo Rossi, Andrea Bellieni, Patrizia Boschiero, e la postfazione di Eugenio Manzato, edito da Fondazione Benetton Studi Ricerche-Antiga Edizioni, Treviso 2017), in italiano e in edizione integrale inglese. Si apprende così che, ad oggi, oltre 600 edifici del centro storico, esistenti e non, sono o sono stati affrescati. La testimonianze più antiche ci portano nella Treviso medievale, al tempo della “Marca gioiosa et amorosa”, quando la città era un vivace luogo di cultura, meta di trovatori e cantori della lirica provenzale, come Uc de Saint Circ che qui vi soggiornò. Dai versi che inneggiano ad “amorose visioni” nascono le pitture, così il sottoportico di una casa duecentesca di via Manzoni mostra due coppie che amoreggiano, o una dama e un cavaliere colti in una romantica fuga a cavallo, affreschi che immortalano sul muro spaccati di vita della fine del Duecento, la moda dell’epoca con tanto di rapace al braccio ( foto 2) Poco lontano, restando in ambiente cavalleresco, s’innalza la Loggia dei Cavalieri ( foto 1), un vero gioiello, unica nel suo genere le
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CELEBRAZIONI CITTA’ VENETE
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cui murature esterne sono avvolte da una sorta di nastro decorato da un’incalzante sequenza della lunga cavalcata di coppie di cavalieri, una parata in divisa nei colori araldici bianco e nero (foto 3). All’interno, nella fascia del sottotetto, permangono frammenti delle raffigurazioni del Roman de Troie, ispirate alla letteratura francese e ai codici miniati che circolavano diffusamente nel XIII secolo; qui i protagonisti del ciclo bretone indossano le armi dei cavalieri contemporanei: i soldati sono armati di spade e scudo, in abiti medievali o in cotte di maglia. Le scene si sviluppano sulle pareti dove si distinguono i Greci che escono da Sparta e si imbarcano su galeoni, seguono le imbarcazioni che affrontano il mare per raggiungere Troia, fino alla scena conclusiva che illustra la fine del viaggio, quando i militi sbarcano con i loro cavalli lanciandosi in una battaglia enfatizzata dai caotici intrecci di spade. Sempre nel XIII secolo, viene eretto il Palazzo della Ragione, meglio conosciuto come Palazzo dei Trecento, con un ampio salone al primo piano e la Loggia del Popolo sottostante. Oggi restano solo poche tracce delle fasce con decorazione a tema cavalleresco, figure bizzarre o tratte dai bestiari, che correvano sotto la merlatura e sotto i davanzali delle finestre. Si sono invece conservati gli antichi paramenti a finta tappezzeria che rivestono i larghi intradossi delle arcate del portico. Il 36
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ricco campionario può rappresentare l’esempio tra i più antichi di decorazione a finta tappezzeria esistente in città. Questo genere decorativo, particolarmente diffuso, trova origine dall’uso di addobbare le vie del centro, in occasioni importanti, con drappi o tappeti esposti da davanzali o dai terrazzini degli edifici, apparati effimeri che presto vengono imitati con la pittura per rendere definitivo il vivace e ricercato volto della città “gioiosa”. Le decorazioni riprendono i moduli utilizzati per i tessuti in voga: più semplici sono quelli più antichi che presentano generalmente elementi di derivazione fitomorfa, foglie o fiorellini stilizzati che si ripetono creando una sorta di griglia, a questi si affiancano decorazioni a rotae imitanti i raffinatissimi e preziosi drappi di origine sassanide che circolavano all’epoca: alzando lo sguardo ai sottarchi del maestoso palazzo possiamo osservare grifoni, draghi, leonesse, uccelli racchiusi all’interno di rotae (foto 4 e 5) I paramenti murari seguono poi l’evolversi della moda: vediamo riprodotta una fantasia tessile diffusa all’inizio del XV secolo decorare Casa da Noal, definita da un’orditura a rombi lobati con al centro un fiore gotico. Notiamo poi un cambiamento del gusto che, pur sviluppando sempre elementi vegetali, è caratterizzato da una spinta verso rappresentazioni vivaci e realistiche, determinate dall’influenza dei manufatti prodotti nei laboratori tessili della vicina Venezia. EVENTICULTURALI
TREVISO URBS PICTA
VENETOMAGAZINE La Serenissima deteneva infatti il monopolio di velluti controtagliati e produceva un repertorio che riscosse enorme successo, sviluppando fantasie che utilizzavano l’immagine del fiore di cardo o il frutto del melograno, come quelle dipinte sulla facciata di una casa in via Riccati su cui sembra steso un prezioso velluto rosso damascato interamente operato con melagrane al centro di un fiordaliso che spunta tra due foglie. (foto 6). Se pensando a Treviso dobbiamo sempre tener presente l’indissolubile legame con Venezia e l’evidente influenza che la città lagunare detta sulla produzione artistica e culturale, possiamo anche osservare che nel Quattrocento si inserisce nell’ambiente culturale trevigiano anche una corrente umanistico-antiquaria che ha come punto di riferimento Padova, importante polo culturale e sede universitaria. L’amore per l’antico con facciate inquadrate e suddivise da fasce orizzontali ad imitazione di fregi scultorei che riprendono i motivi dei bassorilievi antichi - tritoni, sirene, putti, aquile, cornucopie, racemi, stemmi, vasi, nastri, festoni e grottesche - vengono accolti con entusiasmo tanto da diventare una presenza indiscussa. I documenti d’archivio registrano la presenza di varie botteghe di pittori e di artisti come i fratelli Pennacchi, o il tedesco Giovan Matteo Teutonico a cui verranno commissionate molte decorazioni di facciata. Fasce azzurre orizzontali, decorate con tritoni, sirene, putti, bucrani, aquile, delfini, vasi, stemmi, racemi, foglie d’acanto, cornucopie e nastri, imitanti la statuaria classica, in parte ancora persistono sulla facciata di palazzo Ravagnini Federici, meglio conosciuto come “casa di Girolamo”, sita in piazza Santa Maria Maggiore. Un’altra raffinatissima facciata con “ornati all’antica” è in vicolo Barberia e fregi di questa tipologia coronano molti altri edifici del centro, come palazzo Giovanelli in via Carlo Alberto , un’abitazione che si affaccia sul canale dei Buranelli (Foto 7), Palazzo Onigo in Corso del Popolo o ancora in diverse case che sorgono lungo via San Nicolò. La ripresa dell’antico suggerisce anche nuovi temi da cui prendono ispirazione le grandi scene di carattere mitologico o storico. Quelle citazioni dal mondo classico che gli artisti già proponevano sulle tele, escono dagli ambienti privati e vanno ad esibirsi sui muri esterni, come straordinari quadri, con tanto di finte cornici, che ostentano pubblicamente bellezza e agiatezza del committente. Le facciate rinascimentali sono ora popolate di figure collocate su aperti e lieti paesaggi che sembrano sfondare le pareti: chiunque, attraversando la via avrebbe dovuto alzare lo sguardo, incantato dalla bellezza delle figure che ingentilivano la facciata.
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STORIA URBANA Ed è così in via Sant’Agostino dove un paesaggio sfonda la facciata e fa da sfondo alla scena del Giudizio di Paride, che mostra il momento in cui il bellissimo troiano consegna il “pomo della discordia” ad Afrodite (foto 8); oppure in via Stangade dove una piccola casa presenta la facciata istoriata con episodi eroici che celebrano Enea dipinto nella parte centrale mentre fugge da Troia portando sulle spalle il padre Anchise, ai lati si riconoscono altre due scene virgiliane: Cleopatra, abbandonata da Antonio, che si fa pungere dall’aspide e Didone, abbandonata da Enea, che si trafigge (foto 9). Un altro bell’esempio è in via Pescatori dove Ludovico Fiumicelli dipinge una scena tutta in terretta gialla, con Apollo che armato di scudo e dardi, vola su un cielo carico di nubi e si appresta a trafiggere i sette figli di Niobe, che fuggono terrorizzati. A chiudere questa splendida stagione artistica, che ha visto all’opera sulle pareti trevigiane artisti come Tiziano e Pordenone, arriva il Pozzoserrato, pittore tardomanierista di origine fiamminga, che nel cuore del centro storico dipinge l’intera facciata di uno dei più alti palazzi trevigiani: Palazzo Zignoli. La parte meglio conservata e recentemente restaurata è la fascia del sottotetto che ospita l’allegoria dei quattro elementi incarnata da figure femminili dai caldi incarnati che si stagliano su paesaggi con cieli solcati da uccelli o albe infuocate. (Foto 10)
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Nel Cinquecento si raggiungono livelli di decorazione straordinari. La stagione artistica veneziana, che viene aperta da Giorgione quando all’inizio del secolo afferma sulle facciate degli edifici la sua “maniera moderna” rendendola in questo modo pubblica, è quasi scomparsa a causa dell’ambiente e del clima lagunare, ma è possibile rintracciarla sulle murature di Treviso. L’attuale urbs picta, pur sbiadita e mutilata rispetto ad un tempo, continua mostrare un’affascinante gioco di cromie che si rincorrono tra finte tappezzerie e fregi, continua a esibire finte architetture che “aprono” le mura e creano fantastiche ambientazioni dove si esibiscono scene figurate. 38
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TREVISO URBS PICTA
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BELLEZZA VENETA
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NOT/URNI TREVIGIANI
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ALTINO ROMANA
Da antico porto deiVeneti a città stato Il suo legame con Padova, l’acqua e la laguna
Le prime testimonianze dell’uomo nel territorio ai margini della laguna veneta risalgono al X millennio a.C., ma solo nell’XI secolo a.C. prende forma un insediamento stabile inserito in una rete di traffici lagunari e marittimi, ben collegati con l’entroterra veneto e i centri metalliferi alpini. Con la costruzione della via Annia attorno al 153 a.C. la strada consolare che collegava Aquileia ad una località posta a sud di Adria, forse Rimini, si avvia ad Altino il processo di romanizzazione.
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ALTINO PRIMA DI VENEZIA
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Nel corso dell’VIII secolo a.C., Altino diventa una città-emporio, principale porto strategico dei Veneti, aperto alla laguna e alle rotte mediterranee e ben collegato con l’entroterra, in particolare con Padova da una efficiente rete fluviale. La vocazione commerciale caratterizzerà l’antico centro e il cuore dei contatti e degli scambi con commercianti greci, magnogreci, etruschi e latini sarà il santuario dedicato al dio Altino, il dio eponimo, frequentato dal VI secolo a.C. all’età romana, affacciato sull’acqua di un canale che lo collegava alla laguna, e posto a sud est del centro abitato, laddove ora insiste il Museo Archeologico Nazionale. La città nella sua veste preromana, come poi in quella romana che la ricoprirà, si sviluppa entro l’ansa di un antico paleoalveo al centro di una rete di canali di collegamento tra il sistema fluviale del Sile e la laguna; un canale artificiale, il Rivo Alto, suddivideva poi la città in due quartieri con diversa destinazione funzionale. Il modello urbanistico è lo stesso di molte città del Veneto antico, le città-isole che tanto avevano colpito tra il I secolo a.C e il I. Secolo d. C. il geografo Strabone, dall’estensione tra i 70 e i 100 ha., entro vie d’acqua arginate a confine e difesa dell’abitato, con quartieri ben definiti e diversamente orientati per i condizionamenti fisici e idrografici. L’adesione a tale modello fa di Altino una città-stato, una delle poleis venete di cui parlano le fonti antiche, distinta da un forte rapporto con l’acqua, con le rotte adriatiche e per questo in relazione con Padova, la vicina capitale della regione, come testimoniato dall’archeologia. Studi recenti individuano infatti nell’ondulato e rilevato paesaggio che circonda Altino, il luogo in cui collocare la leggenda dello sbarco di Antenore, alla guida dei Veneti della Paflagonia, confermando uno stretto legame con Padova, non solo commerciale, ma anche politico istituzionale, con significativi risvolti culturali. La presenza ad Altino di patavini, gli abitanti dell’antica Padova,
è ricordato dal nome femminile Ostiala su un monumento funerario altinate, che richiama appunto la Ostiala Gallenia, titolare a Padova dell’ omonima nota stele. Ad accomunare i due centri è il termine venetico equpetars che ricorre in entrambi i monumenti con riferimento alla classe sociale dei cavalieri. Due fedeli dell’antica Padova un patavno e un patavinos sono inoltre i committenti, tra la seconda metà del VI e il V sec. a.C., delle eccezionali dediche in venetico al dio Altino, che ci restituiscono per la prima volta l’antico nome di Padova, Patava. Proprio l’ antica via di collegamento tra Patava, capitale del Veneto antico, e Altinum, il porto verso l’Adriatico e il Mediterraneo, la stessa poi ripercorsa dall’Annia romana, avrebbe portato Antenore, secondo il racconto di Virgilio, a fondare Padova. Con la costruzione della via Annia attorno al 153 a.C. la strada consolare che collegava Aquileia ad una località posta a sud di Adria, forse Rimini, si avvia ad Altino il processo di romanizzazione. Tra il 49 e il 42 a.C., Altino diventa municipio, ottenendo la cittadinanza romana con l’iscrizione alla gens Scaptia e avviando un programma di rinnovamento edilizio che lo avvicinava ai più importanti centri della regione. La città sarà nel I secolo d.C. uno dei maggiori scali altoadriatici, cui continuava a fare capo una ricca ed efficiente rete viaria, endolagunare e fluviale. In questo periodo la città è all’apice della floridezza e le principali notizie riportate dalle fonti antiche descrivono una singolare, straordinaria situazione idraulico-ambientale. L’anello di fiumi e di canali attorno alla città formava infatti un sistema idrico con la laguna, che garantiva, pur tra paludi e barene, il ricambio continuo delle acque e la salubrità tanto ammirata dagli antichi. Le stesse fonti latine ricordano una vivace economia cittadina basata oltre che sui commerci particolarmente intensi anche sul legame con la terra e con l’acqua.
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“Come vanno le tue piantagioni, le tue vigne , i tuoi seminativi e le tue pecore pregiatissime?, chiede Plinio il Giovane all’amico Arriano Maturo, da lui ritenuto il più nobile degli altinati. Terra fertile quella di Altino e pascolo oltre che per i famosi cavalli, vanto dei Veneti antichi, anche per le cevae, le vacche altinati, le pecore pregiatissime per una lana raffinata per il suo biancore. La laguna invece, alimento per la caccia, la pesca e la raccolta di gustosi molluschi ricordati dalle fonti, era al servizio del porto altinate, con infrastrutture come torrette, arginature ed approdi. Le merci in arrivo dal mare sulle grandi navi onerarie venivano scaricate in prossimità delle antiche bocche di porto su imbarcazioni a basso pescaggio, per raggiungere le banchine portuali come quelle rinvenute in località Torcello – Scanello. Da qui anfore, dolia e vasellame venivano smistati sia verso Altino sia in tutto il territorio lagunare attivo nella produzione del sale e nell’itticoltura. Anche nell’area urbana, come documentano le ricerche condotte dall’allora Soprintendenza per i beni Archeologici del Veneto e dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, erano presenti porte-approdo monumentali, banchine da ormeggio, installazioni portuali, magazzini porticati connessi a moli fluviali. L’irreversibile crisi che interessò nel II secolo d.C. tutte le città della Venetia, colpisce anche Altino e l’economia locale inizia a contrarsi, pur mantenendo una certa importanza tanto che la città diviene, nel IV secolo, sede episcopale per poi cadere, ma non soccombere, nel 452 sotto il flagello di Attila come Aquileia e Concordia. 44
Solo nel VII secolo, con la minaccia dei Longobardi, gli abitanti abbandonano la città e si rifugiano nella vicina isola di Torcello, avviando il processo storico che porterà alla nascita di Venezia. Quel che restava della ricca città diventa cava di materiale da costruzione per Venezia e per le isole della laguna. Altino non sarà più abitata, ritornando palude e acquitrino, fino agli inizi del ‘900 quando una sistematica bonifica ha reso abitabili le campagne custodi delle ricche testimonianze di un importante, lontano passato. Un passato che riaffiora grazie ai risultati congiunti della ricerca archeologica e dell’aerofotografia che hanno restituito l’immagine dell’antica Altino e dei suoi principali edifici, tuttora sepolti sotto una spessa coltre di terra. Ma come si presentava la forma urbana dell’antica Altinum? Come si può vedere dalla foto aerea, dalle ricostruzioni grafiche elaborate e dalla splendida foto di Altino dal cielo, in età romana, l’impianto urbano è composto da più orientamenti, gravitanti sui segmenti della via Annia, identificabile con il cardo maximus e diviso in due settori dal canale che attraversava la città da ovest a est, il cosiddetto Rivo Alto. Il centro politico-amministrativo ed i principali edifici pubblici sono ubicati nel settore settentrionale, mentre un esteso complesso termale è stato individuato più a sud. A nord immediatamente all’esterno della città, si localizza l’imponente anfiteatro, antistante la monumentale porta-approdo, ancora oggi visibile all’interno dell’area archeologica. Nei decenni finali del I secolo a.C. prende avvio l’espansione della
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città in direzione est, come documenta la pianificazione urbanistica del nuovo quartiere augusteo. A nord-ovest e a sud-est, in posizione diametralmente opposta, trovavano posto due santuari plurisecolari, l’uno aperto verso l’entroterra dedicato ad una divinità identificabile con il celtico Beleno, l’altro verso la laguna dedicato al dio Altino, la divinità poliadica. I materiali architettonici provenienti dall’area urbana benché pochi suggeriscono tuttavia programmi edilizi di grande impegno ed evidenziano la floridezza del municipio altinate per almeno tutto il I secolo d.C. Sfugge ancora la committenza di queste opere pubbliche, l’unica identificazione possibile è data da un’iscrizione su un’architrave, reimpiegata nel battistero di Torcello, che ricorda la donazione di templi, portici e giardini da parte di Tiberio, il futuro imperatore, ad un municipio con ogni probabilità, quello altinate. L’intensa attività edilizia coincide con un periodo particolarmente fiorente per Altino, che dal 15 a.C. era divenuta, grazie a Druso, fratello dello stesso Tiberio, il capolinea meridionale della via Claudia Augusta diretta oltralpe, al Danubio. I più importanti edifici pubblici erano ubicati nel settore settentrionale della città: il foro, di forma allungata (m 210 x 90), dominato sul lato ovest dal Capitolium, diviso dalla piazza dal percorso urbano dell’Annia, secondo un modello ricorrente nelle città della Cisalpina. Nell’isolato successivo il teatro e l’odeon, un teatro minore, prospicienti e divisi dall’Annia, caratterizzavano Altino come una città particolarmente colta e raffinata.
Il teatro si presentava imponente con un raggio di 60 metri e una lunghezza complessiva della fronte di 120 metri, il doppio circa dell’antistante odeon, sede di concerti e pubbliche letture. Alla decorazione del frontescena del teatro doveva appartenere uno dei rari resti pervenuti della grande architettura pubblica: un blocco di cornice a mensole, decorata da girali e foglie d’acanto, recuperato negli anni ’50 del secolo scorso nella località Campo Rialto ed ora visibile nel giardino all’esterno del Vecchio Museo Archeologico. La datazione della cornice, tra il 40 e il 20 a.C., pone il teatro altinate tra le prime realizzazioni del genere non solo nell’Italia settentrionale, ma più in generale in tutto l’ambito provinciale romano. A nord, subito all’esterno della città antica, si trova l’anfiteatro, i cui resti sepolti, modellano ancora oggi il paesaggio della campagna altinate, in questo punto particolarmente rilevato. L’edificio, il cui asse maggiore (m 150) si avvicina a quello di Verona (m 152) e superava quelli di Aquileia e di Padova, era quindi di dimensioni grandiose, adatto evidentemente ad ospitare un elevatissimo numero di spettatori e molteplici tipologie di spettacolo. Accanto agli edifici pubblici sorgevano gli edifici privati. Sontuose ville marittime punteggiavano il litorale altinate e sul finire del I secolo d.C. la loro fama viene celebrata dal poeta Marziale che le paragona a quelle di Baia, località campana ben nota per le sue spiagge dorate, con questi versi: Aemula Baianis Altini litora villis… vos eritis nostrae requies portusque senectae. Lidi di Altino dove le ville sono simili a quelle di Baia… voi sarete porto tranquillo della mia vecchiaia (Marziale, Epigrammi, 4, 25).
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La campagna altinate ha restituito diverse testimonianze di queste dimore aristocratiche, di cui si conservano pavimenti a mosaico e suppellettili preziose. Lungo il canale Sioncello è stata messa in luce una villa porticata dotata di ogni confort, con annessi impianti per la produzione di ceramica secondo un modello economico di villa residenziale e produttiva consueto nel mondo romano. In città invece sorgevano le domus, caratterizzate da ambienti aperti sull’atrio, un cortile porticato e lastricato. Sul decumano massimo si affacciava la domus “della pantera”, così chiamata dal mosaico del vano d’ingresso, con allusione forse ai culti dionisiaci praticati dai proprietari. Il mosaico accanto ai resti del decumanus accoglie ancor oggi i visitatori all’interno dell’area archeologica orientale. Ma resti di abitazioni con pavimenti a mosaico, intonaci dipinti, decorazioni in bronzo e arredi in marmo sono testimoniati in tutta l’area urbana e costituiscono un nucleo importante dell’esposizione del Museo Archeologico. Ma chi erano gli antichi altinati? Il Museo ne conserva i nomi e i ritratti. Marco Ponzio con la moglie Fuctiena, Donato, calzolaio ventenne, la schiava Cila, il fanciullo Lyras: questi i nomi di alcuni altinati sepolti nelle vaste aree cimiteriali poste lungo le grandi strade appena al di fuori del municipio di Altino. Dalla necropoli dell’Annia, la via più antica prescelta dalla classe dirigente e dalle famiglie più ricche per erigervi i propri monumenti funerari, provengono i ritratti di uomini donne e bambini a
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tutto tondo o raffigurati su stele, coperchi d’urna, altari cilindrici e clipei (cornici circolari a forma di scudo). I ritratti femminili sono caratterizzati da elaborate acconciature imitanti quelle delle imperatrici, come i lunghi boccoli alla moda di Agrippina Maior, mentre gli uomini portavano capelli corti pettinati in avanti, spesso per nascondere un’incipiente calvizie. Sono imagines databili per la maggior parte tra la fine del I secolo a.C. e il I secolo d.C. A indicarci il tenore di vita di queste élites altinati sono le numerose anfore e il vasellame di accompagno che fanno bella mostra di sé al museo Archeologico, destinati alle diverse qualità di vino, olio, salse di pesce ed altri generi alimentari da tutto il bacino del Mediterraneo. Tra i vini ricercati, dall’Oriente provenivano le note anfore di Coo ed il cosiddetto vinum passum di Creta, mentre dall’isola di Rodi i vini salsa diluiti con acqua di mare prima della fermentazione. Dalla Campania erano richiesti i pregiati Vesuvianum, Surrentinum, ma anche l’eccelso Falernum e Cecubo, i migliori per l’epoca. Di qualità inferiore erano invece i vini, ad eccezione della vitis raetica veronese, dei grandi produttori emiliano-veneti. Tra le anfore olearie quelle più attestate sono di produzione istriana, più limitate quelle dal Piceno, regione ricordata dalle fonti per la spiccata vocazione all’olivicoltura. A partire dal III secolo d.C. si intensificano i rapporti tra il centro altinate e l’Africa settentrionale che otterrà il controllo del mercato per l’approvvigionamento d’olio, salse e conserve di pesce (garum e salsamenta).
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Il Museo Archeologico Nazionale di Altino
Il nuovo museo, inaugurato nel 2015 all’interno di un tipico complesso rurale ristrutturato, è situato presso la vasta area archeologica in cui si svilupparono prima l’abitato preromano e poi la città romana di Altinum, ai marini della laguna. L’esposizione si snoda all’interno di due piani di una ex-risiera ottocentesca seguendo un itinerario crono-tematico: le sezioni dedicate alla preistoria del territorio e alla Altino predomina al piano terra e alla città romana nelle sue diverse espressioni della vita quotidiana ed economica al primo piano. Sono esposte per la prima volta le testimonianze preromane che documentano la nascita e lo sviluppo della città attraverso le sue necropoli, accanto alle ricostruzioni di importanti sepolture celtiche e di romanizzazione. Unica la sezione dedicata ai cavalli sepolti con le loro bardature a ricordare il valore che tali animali avevano presso i Veneti antichi. E’ suggestivo pensare alle campagne altinati come a terre per l’allevamento dei famosi cavalli da corsa, Strumenti della vita domestica, pregiato vasellame ceramico e vitreo, preziosi ornamenti, accanto alle testimonianze delle ricche e famose produzioni altinati e degli importanti monumenti cittadini illustrano la floridezza della città romana. Il percorso si completerà al terzo piano dell’edificio con la sezione dedicata agli usi e ai costumi funerari romani e all’età tardoanticaaltomedievele. Di eccezionale interesse sarà l’esposizione dedicata al santuario empirico rinvenuto durante i lavori per il museo, con le dediche al dio Altino, da parte di mercanti greci, etruschi, magnogreci, ma anche fedeli di altre città venete, a evidenziare l’importante ruolo di porto commerciale svolto dalla città predomina e romana.
ALTINO E PADOVA. MOSTRA AL PALAZZO DELLA RAGIONE DI PADOVA DAL
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IL PENSIERO SCIENTIFICO All’Università di Padova prende avvio la rivoluzione del pensiero moderno
Una mostra eccezionale che presenta oltre sessanta capolavori come l’Immacolata Concezione e La Verità svelata dal Tempo e la Morte di Didone di Giambattista Tiepolo e Olindo e Sofronia di Giovanni Battista Pittoni, ma anche le vedute di Canaletto e le fantasie architettoniche di Francesco Guardi, finalmente riunite.
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L’UNIVERSITA’ DI PADOVA
Dal II secolo d.C. alla fine del Medioevo, era un principio accettato che le scimmie avessero i meccanismi interni abbastanza simili a quelli dell’uomo. Questo era il punto di partenza anatomico stabilito dal medico greco del II secolo Claudius Galeno - comunemente indicato come Galeno che all’epoca era l’autorità su tutte le cose mediche in Europa occidentale e Bisanzio. Tuttavia, a causa di tabù religiosi, legali e culturali, non aveva mai sezionato sistematicamente corpi umani. Invece, i suoi scritti e dissezioni di scimmie, in particolare Barbary e macachi rhesus, guidarono lo sviluppo e la pratica della medicina per circa 1.400 anni. E poi è successo qualcosa di rivoluzionario. Una rivoluzione scientifica esplose attraverso i limiti autoimposti dell’antica conoscenza. Dopo che le dissezioni umane sono state disapprovate per centinaia di anni, nel XVI secolo un passaggio alla ricerca e all’osservazione scientifica ha permesso di emergere per la prima volta
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il quadro reale dell’anatomia umana, aprendo la strada alla pratica della medicina che vediamo oggi.In prima linea c’era una città italiana - Padova - e la sua università Padova ha un ricco patrimonio artistico, religioso e letterario. E ‘meglio conosciuto come l’ambientazione di La bisbetica domata di Shakespeare e dove l’artista italiano Giotto - riconosciuto come il padre del Rinascimento - affrescò la Cappella degli Scrovegni con scene bibliche piene di emozioni umane. La cosa più notevole di questa città del nord Italia, però, è che è la culla della medicina moderna. La medicina era stata studiata a Padova - una volta un comune libero - per molti secoli. Questa tradizione è stata confermata quando l’Università di Padova è stata fondata nel 1222. Un rinomato centro delle scienze, l’Università di Padova goduto di autonomia senza pari e la tolleranza religiosa anche dopo passò sotto il dominio della dinastia Carrara durante il EVENTICULTURALI
14 ° secolo. Quando Padova fu conquistata dalla Repubblica di Venezia nel 1405, i Veneziani mantennero l’università come il principale centro educativo della Repubblica e la gestirono sotto il motto di Libertas docendi et investigandi (Libertà di insegnare e ricercare). “La Repubblica della Serenissima aveva capito che l’università era un’opportunità fondamentale per promuovere una cultura che celebrava il governo di Venezia. I migliori professori venivano chiamati da tutta Europa, affascinati dalla garanzia della libertà di ricerca. La fama dei migliori professori attirava anche i migliori studenti locali e internazionali Di conseguenza, l’Università di Padova divenne il centro dela rivoluzione del pensiero moderno fondasto sulla discriminazione logica razionale dei diversi elementgi che compono l’analisi dela materia.
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Fondata nel 1222, l’Università di Padova era il principale centro educativo della Repubblica di Venezia Fondata nel 1222, l’Università di Padova era il principale centro educativo della Repubblica di Venezia. Questo è stato un momento di grandi cambiamenti. Mentre il Medioevo si basava su teologia e conoscenza acquisita attraverso la lettura di libri teorici, il periodo rinascimentale portò con sé un passaggio a un metodo scientifico basato su prove pratiche e sperimentazione. Durante il Rinascimento, Galileo insegnò matematica qui e diffuse il suo nuovo metodo quantitativo, che influenzò profondamente anche la medicina. William Harvey - che descrisse per primo il sistema circolatorio del sangue umano - era uno studente di medicina a Padova. Santorio Santorio - un professore all’università - ha inventato il termometro. Giovanni Battista Morgagni - un professore di anatomia qui - ha fondato la moderna patologia 50
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anatomica nel XVIII secolo. Il primo trapianto di cuore umano in Italia è stato eseguito a Padova nel 1985. Entrando nel monumentale cortile decorato con i variopinti stemmi araldici degli ex studenti, ci si ferma a ricordare che qui nel 16 ° secolo, Andreas Vesalius eseguì sistematiche dissezioni di corpi umani in un teatro anatomico temporaneo di fronte a folle di 500 persone o più. Molti famosi scienziati passarono attraverso l’Università dell’Università di Padova tra cui Galileo Galileoche vi insegno per 18 anni, dal 1596 al 1614, nel periodo più importante delle sue scoperte. Nel campo dela medicina il più importante è stato Vesalio. Nato a Bruxelles, Vesalio arrivò a Padova nel settembre 1537, dove completò un dottorato in medicina a dicembre dello stesso anno. Divenne immediatamente presidente del dipartimento di anatomia e chirurgia dell’università, carica che mantenne fino all’inizio degli anni Quaranta. EVENTICULTURALI
Durante la sua permanenza in Italia, Vesalius scrisse la sua opera rivoluzionaria De Humani Corporis Fabrica Libri Septem (Sul tessuto del corpo umano in sette libri), che fu pubblicata nel 1543. I sette libri spiegavano il funzionamento del nostro corpo in dettagli senza precedenti, con aiuto da meticolose illustrazioni eseguite dallo studio dell’artista Tiziano a Venezia sotto la stretta guida dello stesso Vesalio. I medici greci Erofilo ed Erasistrato eseguirono sistematiche dissezioni di corpi umani nella prima metà del III secolo aC nella Scuola di Medicina greca ad Alessandria, in Egitto. Tuttavia, gli scritti sulle loro scoperte furono persi nel grande incendio che devastò la biblioteca di Alessandria - l’ultimo centro scientifico e culturale del mondo antico. La dissoluzione umana cadde in disgrazia sia in Grecia che a Roma, diventando un tabù culturale del II secolo dopo Cristo che Galeno non ebbe altra scelta se non quella di sezionare gli animali nella sua ricerca
L’UNIVERSITA’ DI PADOVA
per comprendere il corpo umano. Ciò ha portato a diversi errori nelle sue scoperte, e poiché non esisteva un modo accettabile per confutarle, le ipotesi di Galen sono rimaste come conoscenze mediche per oltre 1.400 anni. Fu solo verso la fine del Medioevo che si sentì un vento di cambiamento. Dal 1300, le dissezioni umane furono introdotte come un prezioso esercizio di insegnamento per studenti di medicina. Tuttavia, le dissezioni non erano un evento comune, e gli anatomisti si limitavano a dirigere gli atti leggendo testualmente dai testi di Galeno, lasciando la vera dissezione a un chirurgo, fino a quando Vesalius ha veramente iniziato a mettere in discussione la conoscenza esistente del corpo umano. Vesalius ha rivoluzionato l’insegnamento dell’anatomia eseguendo personalmente la dissezione, mettendo così per la prima volta il corpo umano come il libro della natura al centro della ricerca anatomica. Ha anche rivoluzionato il contenuto
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dell’anatomia, dimostrando che Galeno non ha mai sezionato i corpi umani e che gli animali presentavano molte differenze anatomiche con l’uomo. I sette libri suscitarono molto scalpore nel mondo della medicina del 16 ° secolo, provocando una forte confutazione dai più illustri professori e professionisti medici dell’Europa occidentale che erano devoti galenisti. Vesalius si sentì ostracizzato e abbandonò la sua carriera accademica. Ma la sua partenza non fermò l’avanzata della scienza medica all’Università di Padova. Anatomici e medici come Gabriele Fallopio (che per primo descrisse le tube di Falloppio) e Bartolomeo Eustachi (che fu il primo a studiare con precisione l’anatomia dei denti) presero il bastone proverbiale e poi lo passarono sopra. Oggigiorno, i ritratti di questi luminari della medicina moderna adornano la Sala della Medicina a Palazzo Bo.
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CIVILTA’ VENETA
Poco più di 50 anni dopo che Vesalio eseguiva dissezioni, fu eretta, tra il 1594 e il 1595, all’interno del palazzo del Bo la prima struttura permanente del mondo progettata per le dissezioni anatomiche. Nella “cucina”, una stanza con pareti di colore scuro dove i cadaveri venivano preparati per le dissezioni, i corpi venivano trasportati e affollati proprio sotto il punto in cui si trovava il tavolo di dissezione. Nella penombra si intravedono i sei livelli stretti su cui si riunivano fino a 250 studenti di medicina e altri spettatori. Non c’erano posti a sedere, nessuno spazio per prendere appunti e, inizialmente, niente finestre. A forma di imbuto e meravigliosamente scolpito nel legno, i gradini concentrici, in graduale espansione, avevano balaustre altemente alte per garantire che gli spettatori, se svenivano, non potessero cadere e interrompere la dissezione. Studenti, professori, aristocratici, dignitari in visita e persino nobili signore partecipavano alle dissezioni a lume di candela. Un’orchestra di violino probabilmente suonavadal livello più alto per rendere 52
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l’atmosfera meno nauseabonda. Ogni corpo veniova sezionato in diversi giorni in inverno, tradizionalmente durante la stagione di Carnevale, un periodo licenzioso in cui i costumi sociali erano più rilassati e le dissezioni potevani essere eseguite nonostante la persistenza dei tabù.
Dopo aver visitato Palazzo Bo, di possono visitare un certo numero di altri siti che evidenziano l’influenza di Padova sulla medicina moderna. Il Museo di Storia della Medicina (MUSME), si basa su centinaia di manufatti e dozzine di display interattivi per raccontare la complessa storia di come siamo arrivati a comprendere e trattare il corpo umano. Da lì, passeggiando attraverso i portici di Padova e superata la Basilica di Sant’Antonio, si giunfgeal giardino botanico dell’università. Fondato nel 1545 e ora patrimonio mondiale dell’UNESCO, il giardino botanico era vitale per gli studi di botanica degli studenti di medicina, in particolare per il potere terapeutico e curativo delle EVENTICULTURALI
piante. Durante i secoli molte nuove specie botaniche sono state introdotte in Italia tra cui girasoli, patate e sesamo, oltre a gelsomino e lillà. Gli europei devono ringraziare l’orto botanico per il caffè. È un dato di fatto che la prima menzione in Europa del caffè è presente in De Medicina Aegyptiorum di Prospero Alpini, che era il direttore del giardino nel XVI sec.
Herbert Butterfield, professore di storia e vicecancelliere dell’Università di Cambridge, scrisse nel suo libro ”The Origins of Modern Science 1300-1800”, pubblicato nel 1959: “Se esiste un luogo che potrebbe rivendicare l’onore di essere la sede della rivoluzione scientifica, tale menzione deve appartenere a Padova “.
IL TRIONFO DEL COLORE
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STORIE VENETE
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LA PRIMA LAUREATA Elena Lucrezia Cornaro Piscopia si laurea a Padova il 25 Giugno 1678
Dal verbale di laurea di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, prima donna al mondo a conseguire una laurea.
tati della nobiltà e della cultura patavina e veneziana, accorsi a Padova per assistere e benedire l’evento. Cosicché la discussione della tesi può iniziare, come da verbale:
Sabato 25 giugno 1678, Convocato il Sacro collegio per l’esame di filosofia dell’illustrissima Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, per la moltitudine di gente e per l’angustia del solito luogo fu necessario portarsi nella cattedrale e riconvocare il collegio nel sacello della beatissima Vergine Maria davanti agli illustrissimi ed eccellentissimi rettori della città, il podestà Girolamo Basadonna e il capitano Alvise Mocenigo, il reverendissimo vicario Alessandro Mantovano e al generosissimo vicesindaco, nel quale erano presenti … E giù, una caterva di nomi, tra i più accredi54
E nel predetto sacello e in pieno collegio la suddetta illustrissima Elena Lucrezia Cornaro Piscopia recitò, more nobilium, i due punti di filosofia ieri mattina assegnatele per estrazione a sorte, nella spiegazione dei quali si condusse in maniera tanto egregia ed eccellente che, concluso l’esame della nobile giovane, che rappresentò una prova rara e ammirevole, furono portate come di consueto le urne al … Elena Lucrezia ha discusso i due puncta che le sono stati assegnati dopo un’estrazione a sorte tra diversi temi. Si tratta di due tesi di Aristotele, che la ragazza discuEVENTICULTURALI
te in maniera così magistrale da meritare per acclamazione il titolo di magistra et doctrix in philosophia. È la prima volta che questo titolo viene assegnato a una donna nella storia vecchia ormai di mezzo millennio delle università europee. Le furono pertanto consegnate le insegne del suo grado, del tutto simili a quelle dei colleghi maschi: il libro, simbolo della dottrina; l’anello per rappresentare le nozze con la scienza; il manto di ermellino, a indicare la dignità dottorale, e la corona d’alloro, contrassegno del trionfo. Dell’evento si parlò a lungo a Padova, a Venezia e in tutto il continente. E conviene ricostruirlo più in dettaglio, perché dovranno passare molti e molti decenni perché si possa ripetere. E dovranno passare quasi
LA PRIMA LAUREATA due secoli perché la laurea di una donna diventi un fatto normale, Elena Lucrezia ha 32 anni quando entra nel «sacello della beatissima Vergine Maria» per discutere la sua tesi di laurea. Figlia di Giovanni Battista Cornaro e di Zanetta Boni, era infatti nata nel 1646. Fin da piccola aveva mostrato un’inclinazione per lo studio, che la madre non aveva ostacolato e il padre decisamente incoraggiato. Superati i trent’anni, è nota ormai per la sua profonda conoscenza del greco, delle scienze, della filosofia e della teologia. Tra i suoi maestri c’è Carlo Rinaldini: autore di un apprezzatoDe resolutione et compositione matematicae, soprattutto docente di filosofia presso l’Università di Padova. Rinaldini ha servito due papi, ha insegnato a Pisa, reso edotto Cosimo III, Granduca di Toscana, e ha scritto un libro, Philosophia rationalis, atque entità naturalis, che lo ha reso oltremodo degno di salire sulla prestigiosa cattedra patavina. È lui, Carlo Rinaldini, che frequentando casa Cornaro a Venezia si convince prima e più di ogni altro, che è ora di farlo il gran passo e chiedere che Elena Lucrezia possa infrangere la tradizione e laurearsi a buon diritto in teologia. Rinaldini avanza dunque l’inedita proposta al Sacro Collegio dell’Università di Padova. Non è il solo. Concorda con lui un altro maestro che insegna – in realtà, che discute da pari a pari – con Elena Lucrezia: padre Felice Rotondi, che a Padova è docente di teologia. È lui, un teologo, l’unico che può tecnicamente presentare la domanda di laurea da parte di Lucrezia ai Riformatori. Ed è quello che padre Rotondi fa. Non sono certo la norma, Felice Rotondi e Carlo Rinaldini, tra i docenti delle università di Padova, d’Italia e d’Europa. Mostrano di avere un coraggio intellettuale non da poco proponendo, per la prima volta in quasi mezzo millennio, la laurea per una donna. Addirittura in teologia.
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Ma, anche loro, non sono fulmini in un cielo sereno. La cultura europea nel Seicento si sta rapidamente modificando e i due docenti ne rappresentano un’avanguardia. Certo, poi hanno incontrato una donna di eccezionale cultura e il loro coraggio è stato, per così dire, facilitato a esprimersi. Di qui l’inedita proposta. Ma, come scrive Patrizia Carrano, autrice di un libro, Illuminata, che è una biografia, a tratti romanzata, ma fedele nelle componenti essenziali della Cornaro Piscopia, l’iniziativa suscita «molto scalpore e alcune perplessità: mai alcuna donna era stata laureata in qualsivoglia università d’Europa, dunque del mondo. In più la richiesta riguarda il dottorato in teologia, considerata materia di esclusivo appannaggio del genere maschile. E questo ha «ulteriormente sorpreso i Riformatori dello Studio di Padova». Ma Rinaldini è ottimista. Lui conosce bene la macchina e i macchinisti dell’università di Padova. Compreso il cancelliere vicario dell’ateneo, Alessandro Mantovani. Confida che ogni ostacolo possa essere superato. E, infatti, i Riformatori nulla oppongono alla richiesta. L’iter per il conferimento della laurea procede spedito. Nessuno si oppone, neppure Mantovani. Che però, prima di dare il suo assenso definitivo, intende chiedere l’autorizzazione esplicita del cardinale Gregorio Giovanni Gaspare Barbarigo, che di Padova è il vescovo. E, dunque, la massima autorità religiosa. Il diniego del cardinale giunge come una doccia fredda, più per Carlo Rinaldini e Giovanni Battista Cornaro, che per Elena Lucrezia, la quale più che ai titoli formali è interessata ai contenuti culturali. No, nessuna donna può diventare teologo.
da Carlo Rinaldini. Ed è accettata senza ulteriori intoppi. Il cambio di laurea non fa diminuire, anzi fa aumentare lo stupore per l’inedito evento. Così a Padova, per quel 25 giugno 1678, accorrono per assistere da ogni parte e da ogni strato sociale. Sono in tanti che bisogna cambiare sede per l’esame. Elena Lucrezia discute i due punti di filosofia che le sono stati assegnati. Riguardano entrambi la dottrina di Aristotele. La dissertazione è brillante. Dopo averla pronunciata, la candidata avrebbe dovuto ritirarsi, per consentire alla commissione esaminatrice di discutere se e come approvarla. Ma, dopo una breve verifica con gli altri docenti, il presidente della commissione, Domenico Tessari, vicepriore del sacro Collegio, annuncia che la dissertazione di Elena Lucrezia è stata così chiara e completa e dotta da rendere del tutto superflua la discussione segreta tra i commissari. Alla candidata può essere conferita la laurea per acclamazione. Elena Lucrezia dissente. Non accetto deroghe alla prassi. Io mi accomodo fuori, dice. E fende la folla per andar via. Per nulla indispettito, Domenico Tessari non fa passare che pochi minuti. Poi la richiama e le annuncia che la prova è stata superata come meglio non si potesse aspettare. A quel punto, recita il verbale, Carlo Rinaldini si alzò prontamente e davanti a tutte le persone suddette con un’elegante ed erudita orazione lodò la nobiltà e la virtù della predetta valorosa giovane con sommo plauso degli uditori, e alla fine le cinse il capo della corona d’alloro, le porse i libri, le infilò l’anello e le coprì le spalle con un mantello di pelliccia. E il collegio fu sciolto.
Elena Lucrezia – concede il vescovo di Padova – può, però, laurearsi in filosofia. Così la ragazza modifica la sua domanda: ora chiede di laurearsi in filosofia. Questa volta la domanda ai Riformatori è proposta EVENTICULTURALI
E così a Padova il 25 giugno 1678, Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, prima donna al mondo, è diventata dottore.
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STORIE VENETE TURISMO CULTURALE
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ILVINO DI GALILEO
Il soggiorno dello scienziato a Costozza e la vicenda dello scherzo del 1593 di Antonio Di Lorenzo
“La scienza è come lo sport: non basta dire semplicemente «Io salto in alto due metri», bisogna dimostrarlo e accettare di sottoporsi a delle verifiche: bisogna, cioé, che ci sia una giuria che controlla il salto, qualcuno che misura il vento, un altro che posiziona l’asticella... Tutto questo è il metodo sperimentale, che è stato fondato da Galileo Galilei. Per questo gli dobbiamo essere riconoscenti. In fondo, la scienza è la forma più alta di buon senso”. (Piero Angela)
© Stefano Maruzzo
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IL VINO DI GALILEO
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Il cipresso di Galileo come l’abete di Freud: fanno ombra ai Grandi
I “ventidotti” di Costozza anticipano di quattro secoli l’aria condizionata
A Costozza di Longare, paese del Vicentino celebre da secoli per le sue uve, svetta su una collina “Il cipresso di Galileo”, all’ombra del quale si racconta che il Nostro abbia meditato mentre la notte, da una torre lì vicino, abbia osservato stelle e pianeti. Questo cipresso vicentino ha la stessa fama dell’ Avez del Prinzep sull’Altopiano di Lavarone: è uno dei più vecchi e grandi abeti d’Europa, (oggi abbattuto), con i suoi 220 anni, cinquanta metri di altezza e quattro di circonferenza. «Alla sua ombra – ha scritto Mario Rigoni Stern – amava sostare Sigmund Freud e certamente è stato ammirato anche da Robert Musil». Chissà se la rivoluzione della psicanalisi è stata concepita da Freud durante le sue vacanze a Lavarone, sotto il secolare abete bianco. E, in parallelo, chissà se la rivoluzione della Scienza abbia avuto come scenario le viti e il cipresso di Costozza. Nessuno lo può provare. È bello crederci, perché le coincidenze sono parecchie. Quella collina percorsa in lungo e largo dai passi del fondatore della Scienza moderna, oggi è coltivata a vite: e anche questa, come vedremo, è una coincidenza galileiana di non poco conto. Il luogo in cui sorge la torre è stato battezzato, guarda un po’, “La Specola”, a ricordo del Sommo e dell’osservatorio padovano. A differenza di quello, però, che è gelosamente conservato, restaurato e custodito dagli astronomi dell’università, la “Specola” di Costozza è formata solo da qualche rudere, che nel Terzo Millennio cerca ancora miglior fortuna.
A Costozza sono molto orgogliosi del cipresso e della “Specola”, perché sono una patente di nobiltà per un paese agricolo; così come sono anche fieri dei “ventidotti”, un ingegnoso sistema che produceva aria condizionata nelle ville del luogo quattrocento anni prima che Willis Carrier la inventasse negli Usa. E questo è il terzo – importante – indi zio galileiano che compone il mosaico di questa storia. Fermiamoci un attimo per capire di cosa si tratta. Attorno a Costozza, sei ville costruite in varie epoche (a partire dal 1550) sfruttano lo stesso sistema di raffreddamento. I locali interni degli edifici sono collegati a cavità e condotti sotterranei, naturali e in parte anche artificiali, chiamati còvoli, o grotte, che forniscono d’estate l’aria fredda necessaria a climatizzare l’ambiente. Queste grotte si trovano nelle 8 vicine colline, e sono anche sfruttate per la coltivazione di funghi. La temperatura dell’aria nei còvoli si aggira intorno agli 11 – 12 gradi centigradi durante tutto l’anno. I ventidotti, o canali di ventilazione, che collegano le grotte alle ville di Costozza, sono lunghi sino a qualche centinaio di metri, e vanno a sboccare nelle cantine. Da qui, l’aria fresca penetra nei locali d’abitazione attraverso rosoni di marmo traforati, posti nei pavimenti. (Ricordate bene questo rosone, sarà determinante nella storia di Galileo)
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Attraverso queste condutture, l’aria degli edifici si rinfresca di una decina di gradi, e in un caso si è misurata addirittura una temperatura interna di 16° quando l’aria esterna era a 33°. Un vero e proprio labirinto sotterraneo collega dunque tra loro villa Trento - Morlini, villa Trento - Carli, villa Aeolia, villa Trento da Schio, Ca’Molina - da Schio, Garzadori da Schio. L’aria che circola in queste ville, le trasforma in palazzi con uno spirito, con un’anima, se si vuol dare il significato greco di “pneuma” alla parola “soffio” o “aria”. Al di là di questa particolare sfumatura filosofica, il sistema di raffrescamento delle ville di Costozza era così famoso che persino il Palladio, nei suoi “Quattro Libri dell’Architettura”, ne parlò diffusamente: con una bella immagine, chiamò i ventidotti dell’Aeolia il “carcere dei venti”. E qui arriviamo al punto.
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STORIE VENETE
I tre indizi galileiani per ricostruire la verità sulla sua presenza a Costozza Già. I ventidotti a villa Aeolia sono il terzo indizio galileiano da raccogliere. Cominciamo con il dire che l’edificio è chiamato impropriamente “villa”, in quanto si tratta probabilmente dell’adiacenza di un edificio cinquecentesco dei conti Trento, andato poi distrutto. La sala Aeolia è adattata a taverna, mentre la sala superiore ha il soffitto affrescato dallo Zelotti e dal Maganza. Nel sedicesimo secolo un circolo accademi60
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co di studiosi si era stabilito a villa Aeolia. Era un’Accademia assai prestigiosa, che nel corso del tempo venne visitata da figure come Tasso, Ruzante, Palladio, d’Acquapendente, Bembo, Galilei, e altri noti umanisti. Ci siamo: abbiamo incrociato il nome di Galileo Galilei a Costozza. E siccome nella vita bisogna sempre distinguere la verità dalle leggende, partiamo da questa certezza per fare luce sulla sua presenza nel paese. E allora verifichiamo le leggende. Può darsi che dalla collina della “Specola”, EVENTICULTURALI
vicino al suo cipresso, il Nostro si sia soffermato davvero a guardare le stelle e abbia congetturato chissà che. È però assai difficile, come invece tramanda la voce popolare, che lo abbia fatto con il telescopio, di cui parla nel suo “Sidereus nuncius” pubblicato a Venezia solo nel 1610. Altra certezza: a Costozza, Galilei è ospite del conte Camillo Trento nella calda estate del 1593, un anno dopo aver avuto l’incarico di insegnare matematica a Padova. Èimprobabile che, diciassette anni prima di parlarne nel suo libro, si portasse a Co-
IL VINO DI GALILEO
VENETOMAGAZINE TOURISM EXPERIENCE “Cave, Ventidotti e Ville” a Costozza di Longare
stozza il telescopio come fosse un personal computer laptop. Un’altra certezza riguarda il vino. Galilei lo amava molto. Per lui il vino era uno strumento del sapere. Come ricorda il professor William Shea, lo definiva «luce impastata con il colore». Apriamo una parentesi per sottolineare una testimonianza preziosa. Chi è il professor Shea? È probabilmente il massimo esperto di Galileo al mondo. Il professore, canadese, è titolare della cattedra galileiana di “Storia della scienza” all’università di Padova, cui è stato chiamato “per chiara fama” (una procedura rarissima, che richiede il consenso dei due terzi dei docenti di prima fascia dell’Ateneo) e fa parte della Reale Accademia delle Scienze di Svezia, formata dai magnifici trecento che sono titolati ad assegnare i premi Nobel per fisica e chimica. Insomma, è un “vip” della scienza a livello mondiale. Una prova? L’Accademia delle Scienze di Svezia gli ha confezionato e assegnato un Premio Nobel su misura: siccome non ne esiste uno per la Storia della Scienza, alla cerimonia dei premi Nobel nel 2003, l’Accademia ha consegnato a William Shea un “riconoscimento” che ha il valore di un vero e proprio Nobel morale. Così è, anche se lui vorrebbe far finta di niente e minimizza la cosa.
Galileo e il vino: un amore che lascia tracce da Padova a Vicenza Qualche altro indizio su Galileo e il vino lo suggerisce proprio il professor Shea. Racconta, per esempio, che a Padova Galileo abitò per otto – nove anni in via dei Vignali, vicinoal Santo, in quella che oggi è stata ribattezzata, in onor suo, via Galilei. Ma “via dei Vignali” sta a indicare una sola cosa: che nel centro di Padova 400 anni fa il vino era di casa. E, infatti, Galielo nel suo giardino coltivava le viti e produceva vino. Era, diciamo così, anche un appassionato bevitore. Ci sono lettere delle sue figlie che si raccomandavano: «Papà, quando sei fuori a cena non bere tanto». E altre lettere dei suoi studenti padovani che si offrivano di andarlo a prendere, a fine cena, per portarlo a casa. Galileo Galilei aveva due amici vicentini: Camillo Trento e un altro conte, Marcantonio Bissaro, dell’omonima famigli. Quest’ultimo era stato uno dei suoi primissimi amici e corrispondenti. Si conoscevano dal 1588, anno del primo lavoro di Galileo. E il conte Bissaro fu tra i primi a congratularsi con lo studioso pisano per la sua prolusione all’anno accademico patavino del 1592. EVENTICULTURALI
L’escursione guidata “Cave, Ventidotti e Ville di Costozza” camminando nella storia della pietra tenera vicentina, organizzato dalla proloco di Costozza, si snoda su un percorso di 8 chilometri. Ritrovo in piazza Valaurie a Longare vicino all’ex casello ferroviario (adesso sede Pro Loco): al semaforo sulla provinciale si gira in via Europa e dopo 50 metri a sinistra. Dislivello: 250 metri di salita. Durata: 3 ore circa. Rientro per le 15. Dalle 9 alle 12 si visiteranno i vari luoghi privati aperti appositamente per l’escursione: la Scalinata della Santa Croce, il Carcere dei Venti di Villa Aeolia, la Chiesetta di S. Sofia con la Fontana e il Volto di Costozza, l’Antica Fornace, la Chiesetta di S. Antonio Abate, le Case Rupestri e la Specola di Galileo Galilei. In base alla tempistica delle soste sono possibili variazioni di programma. Le cave della pietra tenera vicentina e di Costozza erano già attive in epoca romana. Dalle cavità sotterranee partono i cosiddetti “ventidotti”, cuniculi artificiali, che per convenzione naturale incanalano aria a temperatura costante alle cantine e alle sale delle ville per assicurare temperatura più mite in inverno e più fresca d’estate.
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STORIE VENETE
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Lo scherzo di Costozza La sbronza di Galileo e l’aria fredda del rosone
L’aria, l’ira e l’artrite La leggenda di un malanno che lo perseguita a vita
Nell’estate del 1593, dunque, Galileo è ospite del conte Trento a Costozza e subisce quello che lo storico dell’arte Giuseppe Barbieri ha ricostruito come un vero e proprio scherzo. Vediamo cosa accade. Galileo si addormenta su un rosone dei ventidotti dopo cena, probabilmente dopo aver bevuto (anche troppo) i vini dei Trento, quei vini che già in passato avevano gustato Ruzante e Tasso. I padroni di casa decidono di giocargli uno scherzo e iservitori aprono il ventidotto: Galileo, nel dormiveglia, sente freddo. A quei tempi, in cui non ci sono antibiotici né aspirine, i brividi di freddo in piena estate potevano significare una cosa sola: «Mi sto ammalando. Morirò». Così pensa un Galileo terrorizzato. E sta male. Lo possiamo immaginare che si gira e si rigira nel letto, terrorizzato. Ma, dopo una notte d’inferno, finalmente arriva mattina. Ed è ancora vivo. I suoi ospiti di villa Aeolia lo sfottono: «Ha avuto freddo stanotte, professore?». Galileo capisce tutto. Esplode l’ira, come solo un toscano sanguigno può fare.
Dall’aria all’ira. E poi, per colpa di quell’aria, arriverà l’artrite, che tormenterà Galileo per tutta la vita. A testimoniare questa ricostruzione, ci sono due lettere dello stesso scienziato, il quale si lamenta dei dolori che s’è beccato durante la vacanza vicentina. Vero? Non vero? Fatto sta che questa vicenda ha talmente colpito la fantasia popolare che Pino Co- stalunga, attore vicentino, è stato protagonista dieci anni fa, con la compagnia “I Covoli” di una pièce teatrale dal titolo “Galileo e l’aria di Costozza”. Cosa sia successo quella sera a villa Aeolia esattamente non si sa: probabilmente si svolse una festa, alla quale parteciparono molte persone. Parecchi si ubriacarono, forse anche Galileo. Che sia stato uno scherzo o, più semplicemente, un modo per rinfrescare la sala e gli animi che si erano accaldati, per il vino e le libagioni, fatto sta che l’aria giunta dal “ventidotto” rovinò la festa a molti. Viviani parla di “due ore di vento artifizioso che provocò gravissime infermità” agli ospiti della villa. Roba seria, secondo questa fonte: “Uno morì in pochi giorni, l’altro perdette l’udito e Galileo ne covò la suddetta indisposizione da cui non potè mai liberarsi”.
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Altri indizi giungono dalle lettere dei figli di Galileo. Suor Maria Celeste Galilei ricorda che suo padre «fu tormentato da malanni acquistati dai ventidotti di Costozza». Vincenzo Galilei conferma che il padre «a 40 anni si ammalò di artrite». (Va detto che a Costozza Galilei aveva 30 anni, non quaranta. Il problema comunque non è l’età, ma la connessione tra i due fatti, che viene certificata autorevolmente, da una fonte di prima mano). Il professor William Shea conferma il fatto storico, anche se non ritiene che i ventidotti di Costozza siano una causa diretta della malattia. Piuttosto, sostiene, l’artrite è arrivata con l’età. Probabilmente le cose sono andate così: Galileo si ubriacò dai conti Trento, dormì al freddo – provocato dall’aria che giungeva dalle grotte di Costozza tramite i ventidotti - ed ebbe dei dolori muscolari al risveglio. Con il tempo, e la vecchiaia, collegò la sopravvenuta artrite al ricordo di quella dormita al freddo. Insomma, Costozza è assolta. E il vino prodotto ancora oggi nei luoghi galileiani continuiamo a berlo noi. Per fortuna. Certo, non è la stessa uva che cresceva in quel luogo quattro secoli fa: Galileo bevve, probabilmente, vino prodotto da uva “corvina”, che era la più diffusa nel Vicentino
IL VINO DI GALILEO La Storia diventa vino Lo conferma Galileo e anche Gino Veronelli E a proposito di Storia, un altro particolare sul rapporto tra Galileo e il vino è aggiunto da Luigi “Gino”Veronelli, il quale sosteneva che “il vino è quanto di più simile all’architettura possa esistere, perché stimola il pensiero”. A sostegno di questa affermazione, Veronelli citava proprio Galileo, il quale – quando era a Pisa – scrive a un amico per ringraziarlo di una damigiana di vino che gli aveva inviato: «Ti ringrazio per il vino – gli dice – che era buono e mi ha anche aiutato a risolvere un problema». Quale sia questo problema non lo svela, ma tanto basta per associare il vino alle scoperte scientifiche. E allora si può concludere con un interrogativo: vuoi vedere che se “Opportunity” è scesa sul suolo di Marte un po’ del merito va anche a quel vino bevuto da Galileo quasi 400 anni fa? Chi lo sa. Di sicuro – con l’aiuto o meno del vino - la Scienza moderna è stata fondata da Galileo. E a proposito del personaggio, vale la pena di soddisfare un’altra curiosità: quella frase “Eppur si muove”, simbolo della libertà di pensiero rispetto all’autorità opprimente, Galileo l’ha pronunicata oppure no di fronte ai cardinali romani che l’avevano convocato per abiurare le sue teorie? Risponde il professor Shea: «No, quella frase è un’invenzione. Nel Seicento nessuno ne parla. La prima citazione è del 1750, quando è passato un secolo dalla morte di Galileo, da parte di un autore francese che ne fa un ritratto. Nelle nostre ricerche, condotte con un gruppo di colleghi americani ed europei, non siamo riusciti a risalire più indietro nel tempo. In sostanza, credo che quella frase sia l’invenzione di un francese. Del resto, basta pensare alla situazione del tempo per comprendere che era impossibile che Galileo pronunciassequella frase».
VENETOMAGAZINE Vediamo perché, sempre sulla base delle ricerche del professor Shea. «Il processo dell’Inquisizione non s’è svolto come lo potremmo immaginare noi oggi: lui era seduto a un tavolo con due persone, l’Inquisitore e il notaio. Una volta raggiunto un compromesso e messo per iscritto (Galileo si impegnava ad abiurare le tesi di Copernico e a non insegnarle) poi si trovò di fronte ai cardinali. Inginocchiato, dovette leggere il testo preparato. Difficile immaginare che si alzasse e pronunciasse la frase “Eppur si muove”». A onor del vero, peraltro, c’è da dire che quella abiura (per la quale il papa Giovanni Paolo II ha chiesto scusa quattro secoli dopo) fu salutata con gioia da un gruppo di persone: i colleghi toscani di Galileo. Ricorda ancora il professor Shea: “Galileo aveva un brutto carattere. Diceva di sé più o meno così: ‘Solo a me Dio ha dato la possibilità di fare e scoprire grandi cose’. Non era certo un simpaticone. Però a Padova lavorò, studiò, fece ricerca. Ma quando andò a Pisa non si comportò così: rimase quindici anni all’università, sotto la protezione del Principe, ma non tenne lezione neanche per un’ora. Al principe serviva che lui parlasse, tenesse conferenze, e gli facesse fare bella figura. Dell’università gli importava poco. È chiaro che i colleghi di Galileo si arrabbiassero: tant’è che scrissero ben due volte al principe per lamentarsi della situazione. Ma le cose non cambiarono. Così, quando arrivò la condanna dell’Inquisizione, a Pisa i colleghi fecero festa”. Brindarono, in altre parole, anche se non c’era lo spumante né lo champagne. Però, perfidamente (ma con qualche ragione: siamo sinceri, chi non s’è mai arrabbiato per il collega che prende lo stipendio e lavora poco o nulla?) i colleghi brindarono.
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Galileo trascorre a Padova 18 anni, che saranno i più importanti per la sua vita e per la Scienza: «A Padova – spiega il professor Shea - Galileo compì tutte le sue scoperte più importanti: costruì il telescopio, scoprì i satelliti di Giove. E le deduzioni sono importanti nella scienza: se Giove ha i suoi satelliti, così come la Terra ha la Luna, allora la Terra può girare attorno al Sole. Chiaro, no? Poi arrivò alla legge sulla caduta dei gravi. Ancor oggi si fa fatica ad accettare l’idea che una palla di cento chili possa cadere con la stessa accelerazione di una palla da un chilogrammo. Questa legge, assieme alla traiettoria parabolica dei proiettili, sarà il punto di partenza per la ricerca di Newton, che lo porterà a definire la legge di gravitazione universale».
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Vedete che il vino e Galileo sono legati a doppio filo dalla Storia?
tratto dal libretto di Antonio Di Lorenzo “Il vino di Galileo e lo scherzo di Costozza” © 2004 Ergon Edizioni Vicenza
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LE INCISIONI DIDIDURER INCISIONI DURER A Palazzo Sturm di Bassano
In mostra a Palazzo Sturm di Bassano la collezione Remondini la integrale collezione integrale Remondini dal 20.4 al 30.9 Palazzo Sturm Dal 20.4 al 30.9.2019 Palazzo Sturm, Bassano del Grappa
La Città di Bassano del Grappa presenta l’evento più importante della programmazione artistica 2019, offrendo al pubblico, per la prima volta in modo integrale, il tesoro grafico del celebre Albrecht Dürer, massimo esponente del Rinascimento tedesco e insuperato maestro dell’incisione. Sede d’eccellenza è Palazzo Sturm, che si presenta in tutto il suo splendore a conclusione del delicato intervento di restauro grazie al quale sono state restituite tutte le settanta sale nei sette labirintici piani di questo gioiello di architettura.
Interno Palazzo Sturm
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LA COLLEZIONE REMONDINI BASSANO DAL 20.4 al 30.9.2019
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lbrecht Dürer. La collezione Remondini propone, per la prima volta in modo integrale, il tesoro grafico di Albrecht Dürer (1471-1528), patrimonio delle raccolte museali bassanesi. Un corpus di 214 incisioni che, per ampiezza e qualità, è classificato, insieme a quello conservato all’Albertina di Vienna, tra i più importanti e completi al mondo. Albrecht Dürer, considerato il massimo esponente del Rinascimento tedesco, iniziò la sua carriera come incisore di legni (xilografie) nel 1496. Dal 1512 e per i successivi sette anni lavorò per l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, per il quale realizzò L’Arco di Trionfo e La processione trionfale, quest’ultimo presente nella collezione di Bassano del Grappa. Molto probabilmente, nel primo dei suoi due viaggi in Italia (nota: alcuni sostengono che vi sia stato un solo viaggio, il secondo), datato 1494, passò per la città sul Brenta: lo si intuisce nei paesaggi e nelle vedute di sfondo di opere come La Grande Fortuna. I temi trattati da Dürer sono mitologici, religiosi, popolari, naturalistici, ritratti, paesaggi e nelle collezioni bassanesi sono incluse le serie complete dell’Apocalisse, della Grande Passione, della Piccola Passione e della Vita di Maria. Per l’imperatore Massimiliano I realizzò anche una delle sue incisioni più popolari, il celebre “Rinoceronte” che è per questa importante mostra l’immagine guida e il simbolo assoluto. Nel maggio del 1515 un rinoceronte indiano, allora animale sconosciuto in Europa, giunse a Lisbona come dono al re del Portogallo Manuele I. Destando grande curiosità agli occhi di tutti, l’anno successivo il re decise di inviarlo a Papa Leone X a Roma via mare. Purtroppo la nave affondò davanti alle coste liguri, e il rinoceronte, trattenuto a bordo da forti catene, non riuscì a salvarsi. Albrecht Dürer non vide mai questo magnifico esemplare dal vero ma ne lesse una descrizione contenuta in una lettera inviata da Lisbona a Norimberga e ne trasse così una xilografia. Una xilografia che oggi è patrimonio delle Collezioni Remondini. La collezione Remondini rimarrà aperta al pubblico fino al 30 settembre 2019, è curata da Chiara Casarin, direttore dei Musei Civici Bassanesi, e realizzata in collaborazione con Roberto Dalle Nogare. L’esposizione è accompagnata da un catalogo, edito da Marsilio, con testi di Chiara Casarin, Bernard Aikema, Giovanni Maria Fara, Elena Filippi e Andrea Polati. Il volume è la prima pubblicazione dedicata alla raccolta completa delle incisioni di Albrecht Dürer nelle Collezioni Remondini. Inoltre, la visita è accompagnata da un video di Oscar Parasiego in cui si rivive l’atelier di Dürer e si illustra la tecnica dell’incisione. ORARI Tutti i giorni, dalle 10:00 alle 19:00; chiuso il martedì TARIFFA Intero 7€ Ridotto 5€ CONTATTI Tel. +39 0424 519940 info@museibassano.it
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TIEPOLO A ESTE 36
domenica 17 marzo 2019
I protagonisti dell’incisione veneta del Settecento al Museo Atestino Dal 10 Marzo al 9 Giugno - Museo Nazionale Atestino di Este
SINDACO ROBERTA GALLANA: “PER ESTE IL TIEPOLO E’ IDENTITA’ E APPARTENENZA, MA E’ ANCHE IL NOSTRO AMBASCIATORE CULTURALE E TURISTICO” Inaugurata domenica 10 marzo al Museo Nazionale Atestino di Este la mostra “Giambattista Tiepolo e i protagonisti dell’incisione veneta del Settecento”. Oltre 1000 persone hanno partecipato all’inaugurazione, segno della grande attesa per il ritorno del grande capolavoro di Giambattista Tiepolo in Città, “Santa Tecla intercede per la liberazione della Città dalla peste”, che è inserita nel percorso espositivo. La tela del Duomo era infatti lontano da Este dal lontano 2012, quando è apparsa in mostra a Villa Manin di Passariano per poi essere sottoposta a restauro. “Finalmente – dichiara entusiasta ed emozionata il sindaco, Roberta Gallana – l’opera è tornata a casa e, come per un figlio che ritorna dopo un lungo viaggio, la gioia è tanta. Per Este la tela di Santa Tecla non è infatti solo un capolavoro artistico ma rappresenta ancor più un simbolo di identità e di appartenenza”. A Este si svolgerà ora l’ultima parte del restauro, che interessa il retro della tela, dando così l’occasione ai cittadini e ai visitatori di seguire in parte i lavori delle restauratrici in una sorta di “cantiere aperto”, in orari prestabiliti e fino al 9 giugno. La mostra di incisioni è quindi un omaggio a questo atteso ritorno e offre la possibilità di ammirare opere dei Tiepolo, Carlevarijs, Piazzetta, Bellotto, Ricci, Canaletto, fino all’estense Franchini. Quest’ultimo in particolare, noto soprattutto per la preziosa produzione di ceramiche e maioliche, realizzò una Pianta di Este di cui si è ritrovata, ed è esposta per la prima volta in mostra, la relativa matrice in rame. Realizzò inoltre i rami, che riprendono reperti archeologici esposti al Museo, realizzati per illustrare il volume (1772) di Isidoro Alessi sulla storia di Este: la ricerca nelle vetrine del museo dei reperti illustrati da Girolamo Franchini diventa così un ulteriore elemento di curiosità e novità della mostra che valorizza il contenitore espositivo. Arte, incisioni e archeologia, un connubio insolito e originale. “Abbiamo iniziato il mandato due anni fa – continua il sindaco Roberta Gallana – con la determinazione di far tornare la tela in tempi certi e brevi. Abbiamo quindi sensibilizzato e coinvolto la cittadinanza, anche attraverso progetti culturali, sotto il nome di “Aspettando il Tiepolo”, anche allo scopo di raccogliere fondi per il restauro del grande telero. Da ultimo siamo stati parte attiva, con Parrocchia ed Enti di tutela, per la definizione degli accordi legati al rientro. Come in una maratona, vediamo l’ultimo chilometro: entro fine anno tornerà nell’abside del Duomo per il quale il Tiepolo lo pensò e realizzò”. “L’invito è quindi a visitare la mostra d’incisioni e il ‘cantiere aperto’ ma di tornare ancora a Este per rivedere il telero nella sua sede naturale: nel Duomo di Santa Tecla”. 66
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PALLADIO E LE VILLE VENETE Andrea Palladio (1508 - 1580) è considerato il genio dell’architettura che per primo ha codificato i principi compositivi ispirati dall’architettura antica, lasciando in eredità un patrimonio di esperienza e conoscenza che si è diffuso in ogni parte del mondo nei tre secoli successivi. Ancora oggi non siamo pienamente consapevoli dell’influsso culturale che avuto la sua straordinaria avventura creativa , che non si limita a consacrare l’architettura come segno rappresentativo della società democratica fino al XIX sec. Gli edifici pubblici , le ville e le chiese realizzate dal genio veneto hanno contribuito, e lo fanno tuttora, allo sviluppo e all’esportazione di quella mentalità umanistica che divenne il segno inconfondibile della repubblica veneziana in tutta Europa. Palladio ha infatti materializzato nelle sue opere l’evoluzione dell’immaginazione creativa-razionale che matura nelle terre venete durante il Cinquecento grazie alla cultura umanistica che si diffonde prima negli studi dei notai, degli avvocati, dei medici e poi nei palazzi delle famiglie nobili inurbate, diventate ricchissime con la bachicoltura e il commercio della seta verso le regioni del Nord Europa. Palladio non sarebbe diventato architetto della repubblica di Venezia senza l’amicizia e la cultura dell’umanista vicentino Giangiorgio Trissino che lo educherà alla visione della divina proporzione racchiusa nell’arte greca-latina. E senza Palladio non ci sarebbe stata la proliferazione di uno stile architettonico che diventerà con la tipologia della villa di campagna, uno stile di vita e di decentramento delle attività di pensiero che sarà decisivo per affermare un evento rivoluzionario per la società europea sempre più permeata di dogmatismo religioso. In anticipo di almeno tre secoli sulla rivoluzione francese, il pensiero illuminista, la filosofia di Kant e di almeno 4 secoli sulla psicologia junghiana, la civiltà delle ville venete colloca la libertà individuale, la giustizia, l’eros, la psiche e la bellezza estetica al centro di ogni interesse creativo e curiosità intellettuale. I primi a registrare il cambiamento sono gli artisti chiamati dalle nobildonne a realizzare ritratti di famiglia, oppure ad affrescare le pareti e i soffitti dei palazzi e delle ville con motivi allegorici ispirati dalla mitologia greca. Tutto l’umanesimo di villa ruota attorno alla bellezza estetica e all’eros delle donne che diverranno il punto di riferimento per esplorare il mondo delle emozioni e delle intuizioni che non ha paragoni nella storia della cultura occidentale.
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