ZABAIONE
Intervista AL fondatore di Pizzaut
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Intervista a Barbara schiavulli
Intervista a nello scavo
NUMERO 7 ANNO XVII GIORNALISMO INDIPENDENTE AL PARINI DAL 2006 MAGGIO MMXXIIIntervista AL fondatore di Pizzaut
Intervista a Barbara schiavulli
Intervista a nello scavo
NUMERO 7 ANNO XVII GIORNALISMO INDIPENDENTE AL PARINI DAL 2006 MAGGIO MMXXIIVisto il tema in copertina e lo spazio che gli abbiamo dedicato in Attualità credo che, ad un mese ormai dal CISS, sia giusto dare qualche informazione in più.
Avrete visto sul nostro Instagram (se ve le siete perse c’è la cartella!) le storie-diario sul gruppo di intrepidi, qui in copertina, che ha partecipato al CISS.
Ma cos’è questo CISS, vi chiederete, forse non per la prima volta. Un convegno – Convegno Italiano della Stampa Studentesca – certo, ma quest’informazione non dà molti dettagli in più.
Io, che l’ho organizzato, sinceramente non ho saputo cosa fosse fino a cinque minuti dopo aver aperto i lavori.
Il CISS è stato fondato (credo) nel 2008 dall’allora redazione di Zabaione, ma il resto è avvolto nel mistero. Dai tempi della mia quarta ginnasio talvolta udivo voci di corridoio su questo mistico CISS, che a quanto ne sapevo era un momento per far sì che tante redazioni d'Italia si trovassero, dessero un’occhiata alle conferenze del Festival Internazionale del Giornalismo (IJF), nelle cui date il CISS viene appositamente organizzato, e con la scusa dello stesso talvolta rimediassero un’intervista. Forse avrei saputo di più a riguardo se il covid non ci avesse costretto a interrompere questa sana tradizione. Quando però, lo scorso giugno, a pandemia formalmente finita, io e il vicedirettore pensavamo a cosa avremmo voluto portare al giornale nel nostro anno di regno ci siamo ricordate dell’esistenza del CISS, e con questa nebulosissima idea all’i-
nizio di quest’anno mi accingevo ad organizzarlo, con il provvidenziale aiuto di uno dei direttori del Giornalotto del Liceo Volta.
Cinque minuti dopo l’inizio dei lavori di cui sopra ho capito che, in sintesi, quel che avevo sentito dalle voci di corridoio era vero: avremmo presentato i nostri giornali, avremmo fatto un salto all’IJF e avremmo fatto due interviste, a Nello Scavo e Barbara Schiavulli.
Quel che non potevo aspettarmi è l’atmosfera incredibile che si è creata sin da subito, di stima reciproca e apertura al dialogo e allo scambio (soprattutto allo scambio e allo spudorato “scopiazzamento”, com’è stato altrove definito), senza rivalità di sorta. Così si è venuti in contatto con realtà molto diverse dalla propria, e tutti siamo tornati dal CISS con la volontà di continuare a collaborare.
Una collaborazione che è cominciata già durante il convegno, preparando insieme le due interviste di cui trovate alcune domande scelte nelle prossime pagine.
Abbiamo avuto il piacere di avere con noi Nello Scavo, da anni giornalista d’inchiesta che negli ultimi tempi ha effettuato reportage sulla tratta di immigrazione clandestina tra Nordafrica e Sicilia, e che ha condiviso con noi aspetti interessantissimi della sua esperienza; e Barbara Schiavulli, giornalista di guerra da poco tornata (e non per la prima volta) dall’Afghanistan, che ha fatto chiarezza su aspetti che i media mainstream tendono a ignorare. Colgo l’occasione per ringraziare entrambi di aver risposto al nostro invito con tanta gentile disponibilità – en-
trambe le interviste hanno infatti superato l’ora.
Ringrazio oltretutto la redazione di Articolo 21 del liceo Aristotele di Roma, che ci ha dato modo di sperimentare immediatamente dopo il CISS l’esperienza che il CISS stesso è volto a rendere possibile, ovvero una collaborazione tra giornalini diversissimi e lontani anche geograficamente.
Sono certa che a breve avrete modo di saggiare altri prodotti delle collaborazioni che nasceranno adesso che si è ristabilita una rete tra i giornalini italiani.
Non dimenticate di leggere sul sito entrambe le interviste del CISS in versione integrale!
Pizzaut: L'inclusione è un fatto culturale................PAG. 3
Turchia: Elezioni
a Barbara
Nico Acampora, fondatore di Pizzaut, ci racconta della nascita del suo progetto e approfondisce il tema dell’inclusione culturale e sociale.
Potrebbe spiegare com’è nato il progetto Pizzaut e di cosa si tratta?
Pizzaut è il primo ristorante in Europa gestito completamente da persone autistiche.
L’idea nasce dal fatto che io ho un figlio autistico e quindi mi sono spesso interrogato sul suo futuro. Secondo i dati del 2019, in Italia ci sono 600.000 persone autistiche e quelle che accedono al mondo del lavoro sono praticamente lo 0.01%: mio figlio non è ancora in età da lavoro, ma pensando al suo futuro mi sono imbattuto nel presente di molti ragazzi.
Io non ho mai fatto il ristoratore, però, quando abbiamo invitato gente a casa nostra, mia moglie ha cucinato sempre la pizza, e spesso Leo ha giocato con lei, aiutandola. Vedendolo allora ho pensato: “Se riesce a cucinare un bambino piccolo con un autismo severo, probabilmente riusciranno anche ragazzi più grandi con lo stesso problema”.
Così ho cominciato a scrivere questo progetto: ho ideato il nome, “PizzAut”, l’ho registrato in camera di commercio, ho inventato il claim “Nutriamo l’inclusione” e ho coin-
volto alcuni ragazzi.
All’inizio non ci credeva nessuno: su Facebook della gente mi scrisse “Acampora, lei è più handicappato dei suoi ragazzi se pensa di riuscirci” e una neuropsichiatra mi disse “Acampora, lei è il solito padre frustrato che non si arrende alla disabilità di suo figlio e si inventa progetti irrealizzabili che danno false speranze alle altre famiglie”. Da questa frase abbiamo cucinato 200.000 pizze e aperto due ristoranti, uno dei quali è stato inaugurato il 2 aprile a Monza.
Quando dice che “L’inclusione è un fatto culturale”, cosa intende?
Le persone autistiche sono escluse non tanto per le loro caratteristiche, come la fatica a relazionarsi con gli altri o la loro misura sociale, ma piuttosto perché il mondo intorno a loro non predispone degli strumenti inclusivi. Pizzaut ne è la prova: tutti credevano che non fosse possibile che dei ragazzi autistici gestissero un ristorante e in realtà possono farlo bene! Certo, ci sono accorgimenti particolari: il soffitto insonorizzato, la policromia eliminata per togliere colori fastidiosi, il potenziamento delle cappe da aspirazione per evitare stimoli olfattivi sgradevoli. Sono accorgimenti che mettono i ragazzi in una situazione di comfort maggiore, ma dove stanno meglio loro, stanno meglio tutti: se, ad esempio, il soffitto è insonorizzato, c’è meno casino per le persone autistiche ma c’è anche meno confusione per tutti.
L’inclusione è un fatto culturale perché noi siamo abituati alle disabilità fisiche, quelle che possiamo vedere; quindi, ci impegnano ad abbattere le barriere architettoniche, ma non siamo abituati per niente alle disabilità cognitivo-relazionali e ad un modo diverso di vivere il mondo, di percepire le cose.
Le barriere sociali e culturali sono spesso invisibili, ci mettono in discussione, e perciò facciamo più fatica ad accettarle. Le persone autistiche faticano a capire i doppi
sensi e le battute e a dire le bugie: ditemi se l’incapacità di mentire può essere considerato un handicap nel 2023…
Guardando all’inclusione da un punto di vista più ampio, cosa fa e cosa non fa lo Stato italiano?
Sinceramente lo Stato italiano fa poco o niente. Il 2 aprile è la giornata mondiale sull’autismo: le istituzioni italiane illuminano i loro palazzi di blu, ma questo non serve a niente, perché il 3 aprile lo Stato italiano ancora non ha gli insegnanti di sostegno, quindi “nega” il diritto all'istruzione alle persone autistiche e disabili; il 3 aprile ancora non ci sono diagnosi adeguate e sufficienti, in quanto i centri pubblici che fanno diagnosi sono scarsissimi; il 3 aprile, quando le luci blu si spengono, i nostri figli ancora non sono presi in carico perché le terapie sono spesso a pagamento e molte famiglie si indebitano o non riescono a pagarle.
Il nostro Stato è disattento. Pizzaut sta facendo un grosso lavoro di sensibilizzazione e sta portando ad un’attenzione maggiore, ma non possiamo limitarci o accontentarci.
Il 2 aprile abbiamo inaugurato il ristorante a Monza ed è venuto come ospite il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: egli è sicuramente la dimostrazione della volontà di puntare l’attenzione su questa questione.
Tuttavia, oltre all’attenzione ci vanno i fatti, che nel caso dello Stato vuol dire metterci risorse economiche, perché i terapisti vanno pagati, gli insegnanti di sostegno vanno preparati e quindi lo Stato deve investire risorse su questo tema.
Un ragazzo in comunità costa allo Stato tra i 50 e i 200 mila euro
l’anno e questi posti non sempre sono il meglio per loro. Un ragazzo che invece lavora da me, allo Stato non costa niente e per di più, dal momento che io lo assumo, inizia a pagare le tasse: passa da essere assistito dallo Stato a esserne contribuente per la creazione, ad esempio, di università per studenti neurotipici.
Pizzaut ha cambiato qualcosa e di questo sono molto contento. Però non voglio essere troppo ottimista perché questa è una battaglia e quindi va combattuta sempre con grande convinzione.
Cosa vuole dire, per lei, occuparsi di PizzAut?
Questo progetto è meraviglioso ma è per me anche faticosissimo: ogni tanto ho dei ripensamenti e dei dubbi, poiché per portare avanti Pizzaut sono costretto a trascurare mio figlio, la persona per cui tutto è nato.
Mi arrabbio con lo Stato italiano, perché non era mio dovere realizzare un progetto tale: io avrei dovuto stare con mio figlio.
Ci sono quindi anche per me momenti di sconforto, ma poi i ragazzi mi abbracciano e mi passa tutto, perché penso che fino a poco tempo fa non toccavano nessuno.
È una fatica, ma il grosso del
lavoro, in realtà, l'hanno fatto loro, costruendosi le condizioni per cui poter crescere, avere un futuro ed essere autonomi.
Qual è il prossimo obiettivo di Pizzaut?
Vorrei realizzare un franchising, una catena di ristorazione sociale, la prima in tutto il mondo. Abbiamo richieste da tutta Italia, dall’Europa e pure dagli Stati Uniti, dove nasce un bambino autistico ogni 54 che quando cresce non è in nessun modo assistito. Una signora – anche lei con un figlio autistico –è partita da Melbourne, Australia, ed è venuta a trovarci perché vorrebbe replicare la forma di Pizzaut a Melbourne. Fare un franchising è molto difficile, soprattutto se mette al centro l’uomo e non il profitto, però questa è la prossima sfida.
I ragazzi adorano rapportarsi con altri della loro età, e per questo vi ringrazio per quest’intervista e mi auguro che qualcuno dei vostri compagni di scuola, leggendola, decida di venire a trovare i ragazzi, perché siete voi che potete fare la differenza, essere degli eroi, invitando un ragazzo autistico a mangiare un gelato, ad andare al cinema insieme o a uscire la sera: cose semplici che cambiano la vita dei nostri ragazzi.
In questi giorni la tensione in Turchia si taglia col coltello. Provate ad immaginarvi la situazione: le strade di Istambul sono ghermite di cittadini, che, lentamente, si mettono in coda alle urne, è un’elezione cruciale che potrebbe cambiare il destino di un intero paese, fa caldo, il tempo scorre e tutti aspettano i risultati.
Così il 14 maggio è iniziata la lotta elettorale tra Erdogan, l’ormai storico presidente turco salito al potere nel 2014, e Kemal Kilicdaroglu, fondatore del Republican People’s Party – CHP – celebre per aver guidato una manifestazione da Ankara ad Istambul nel 2017 contro l’imprigionamento di migliaia di persone, tra cui civili, attivisti e giornalisti. Fino ad ora l’importanza determinante delle elezioni, riconosciuta dalla quasi totalità dei cittadini, ha causato un’affluenza record. Circa il 90% della popolazione si è infatti recata ai seggi pronta per dire la sua, fatto che in Turchia non capitava da almeno vent’anni. Lo spoglio ha però rilevato una quasi parità di consensi: entrambi gli sfidanti si aggirano attorno al 40% con Erdogan leggermente in testa, senza che nessuno dei due raggiunga la maggioranza del 50% necessaria per vincere le elezioni. Nonostante in tanti, soprattutto tra i giovani, pensassero che questa sarebbe stata la volta buona per scegliere il cambiamento, quello che sembra aver intimorito i più sarebbe una mancanza di opposizione – a noi italiani potrebbe ricordare qualcosa. Il rivale di Erdogan infatti
è il rappresentante di una coalizione di ben sei partiti, che a molti dei cittadini pare sembrare instabile e disorganizzata.
Per questo i turchi dovranno aspettare almeno fino al 28 maggio, giorno del ballottaggio, per poter applaudire il loro nuovo presidente. Nel frattempo è in corso una battaglia senza esclusione di colpi per far cambiare idea agli indecisi, trascinandoli da una parte piuttosto che dall’altra. Erdogan, che in ogni caso ha promesso che rispetterà gli esiti delle urne, ha infatti accusato gli oppositori di essere collusi con i terroristi e di sostenere i diritti LGBTQ+, che vede come una vera minaccia ai valori tradizionali della famiglia musulmana. Dall’altra parte, però, non sono da meno: Kilicdaroglu ha più volte sottolineato che, non appena eletto, farà rimpatriare i dieci milioni di rifugiati a cui Erdogan avrebbe venduto la cit-
Di Alessia Petreratadinanza in cambio di voti. A questo punto lo scontro sembra essere dunque tra il meno peggio, quello leggermente più democratico.
Oltre ai giovani studenti turchi, anche in Occidente molti si augurano la caduta dell’odierno presidente. Senza di lui al potere Putin perderebbe un importante alleato nel panorama politico mondiale, dato che Erdogan ha recentemente dichiarato che non imporrà sanzioni sulla Russia, non essendo egli vincolato alle decisioni degli altri Paesi, aprendo così nuove porte all’evoluzione del conflitto.
Gli interessi in gioco dunque sono tanti, così come gli occhi puntati in questo momento sulla Turchia e sugli equilibri politici in gioco. Purtroppo però non ci resta che aspettare pazientemente un risultato difficile da prevedere, magari bevendo un raki e sperando che tutto si risolva per il meglio.
Cosa la spinge a raggiungere dei luoghi così carichi di tensione, che possono risultare anche molto pericolosi?
Inizialmente, probabilmente, era il voler raccontare la storia e gli eventi che accadevano nel mondo. Oggi ritengo che questo lavoro sia un privilegio, perché mi permette di andare e raccontare le persone, riconoscere chi ha bisogno, rendere giustizia a queste persone, assicurarsi che non vengano dimenticate. Questo lavoro mi consente di far sì che le persone qui sappiano cosa succede da un'altra parte e far sì che si possa vivere in un mondo più inclusivo e più giusto, perché stiamo andando politicamente alla deriva: c'è una mancanza di speranza, una paura verso l'altro. Io ho la possibilità di recarmi in luoghi dove ad altri non è permesso, alcuni di noi sono fatti per fare questo mestiere quindi sarebbe ingiusto non farlo, e cerco di rendere giustizia a queste persone, nella speranza che poi chi mi ascolta, mi legge o mi vede, in qualche modo apprenda qualcosa.
Come è cambiata la situazione in Afghanistan dopo il ritiro americano? Quali sono le differenze rispetto a come viene raccontata la situazione qui?
In Afghanistan si è passati da cinquanta anni di guerra ad una situazione di limbo. Il male e la violenza causati dai Talebani, se possibile, sono addirittura peggiori del vivere in guerra. Le Nazioni Unite in questo periodo stanno discutendo riguardo alla possibilità di lasciare
il Paese: loro danno venti milioni di pasti a persone che non se li possono permettere e, qualora andassero via, questa gente morirebbe di fame, di freddo, morirebbe di depressione. Le Nazioni Unite potrebbero decidere di andarsene perché i Talebani hanno vietato persino alle donne della ONG e delle Nazioni Unite stesse di lavorare. Questo causa grandi problematiche, in quanto alcune mansioni non possono essere svolte solo da uomini: un uomo non può portare, ad esempio, un pacco alimentare ad una donna, o una donna afghana non può andare da un medico maschio; quindi, le donne che avranno bisogno di aiuto non riceveranno assistenza. Inoltre, se le donne non possono più studiare, non si potranno laureare e non ci sarà quel cambio generazionale che avviene in ogni Paese.
Una donna può uscire solo se accompagnata da un uomo: come faranno quindi le vedove con tanti figli, che, soprattutto dopo la guerra, stanno diventando sempre di più? Oggi, queste madri permettono ad alcuni figli maschi di andare a scuola, ma la maggior parte, in particolar modo se sono piccoli, li mandano a chiedere l’elemosina per le strade o nella discarica a raccogliere la plastica, mentre le bambine devono stare in casa. Molti figli di gente povera sono orfani e la povertà al momento affligge il 97% della popolazione.
L’unico modo per combattere questa situazione critica è raccontarla, non chiudere gli occhi su quello che sta accadendo e cercare di coinvolgere sempre di più i giovani.
Molti ragazzi afghani sono riusciti a mettersi in salvo, grazie ai corridoi umanitari, alle evacuazioni, o affidandosi ai trafficanti, poiché, quando l'alternativa è non sopravvivere al proprio paese, l’unica possibilità è andarsene, pagando una fortuna per farsi portare in Europa da trafficanti. Dopo l’evacuazione del 2021, sono arrivate moltissime ragazze che hanno potuto riprendere la scuola, trovare un lavoro, fare sport - perché anche quello è ormai vietato dai Talebani. Queste persone possono ricominciare a svolgere diverse attività, ma hanno dovuto lasciare tutto, il ruolo che ricoprivano nel loro paese, le loro famiglie, tutto quello che conoscevano, per arrivare qui ed essere guardate in modo strano per la loro povertà, o per la loro difficoltà a comunicare, o perché sono traumatizzati da quello che hanno vissuto. Però sono qua, intorno a noi, e hanno avuto la forza di resistere, quindi dobbiamo cercare di cogliere l’occasione e di interagire con questa società civile che siamo riusciti a salvare e che rappresenta il cuore di un paese, nella speranza che possano, qualora lo desiderino, tornarci presto, riprendendo a vivere come in precedenza, perché ora in Afghanistan le ragazze non studiano più, i maschi in pochi perché sono gli unici che possono lavorare e, tra qualche generazione, se i Talebani avranno ancora potere, tutte queste persone che non sanno né leggere né scrivere non solo saranno ignoranti, ma soprattutto saranno più facilmente manipolabili.
Secondo lei come dovrebbe accostarsi il mondo al conflitto israelo-palestinese e quale potrebbe essere la risoluzione a questo conflitto che va avanti da decenni?
Questo è un conflitto molto complesso. La situazione a Israele è quella di un governo di estrema destra che ha fatto di tutto per trovarsi nella situazione in cui si trova ora. Israeliani e palestinesi non si parlano in colloqui e negoziati ufficiali da almeno dieci anni.
Quando io arrivai per la prima volta nel ’97, fu subito dopo gli accordi di Oslo e tutto era diverso. Gli accordi sarebbero dovuti durare dieci anni, ma non sono stati rispettati, Israele ha fatto si che la situazione peggiorasse di giorno in giorno, non osservando gli impegni presi e causando una vera e propria apartheid nel territorio.
Tutti sono a conoscenza di questo conflitto, ma nessuno riesce a fare in modo che i rispettivi rappresentanti si siedano a un tavolo e negozino. Ai tempi di Oslo, invece, palestinesi e israeliani erano stati chiusi insieme in un palazzo. In una stanza negoziavano, poi uscivano e i rappresentanti dei due schieramenti discutevano tra loro dei risultati della giornata parola per parola e se uno di loro diceva no, si strappava tutto e si ricominciava. Dormirono tutti insieme e mangiarono tutti insieme per giorni, finché non riuscirono a raggiungere un accordo. La differenza era che nel ’97 la gente credeva davvero che fosse possibile trovare un accordo, oggi invece la fiducia si è persa e per questo molti se ne sono andati. La realtà è quella di due paesi che non riescono a trovare un compromesso, perché la gente non ne può più, è pronta, ma se la politica non vuole provarci davvero, tutto diventa più difficile. La politica è quel-
la che decide la pace, se non c’è una spinta non si può. In questo caso c’è, il problema è che gli israeliani hanno dietro gli americani ed altri interessi vari che compromettono la pace. Però io credo che se c’è la volontà, si può fare tutto.
L’Italia ad Aprile 2023 era 58° nell’indice di libertà di stampa mondiale. Lei è d’accordo con questa percezione e come si sente a riguardo?
L’Italia innanzitutto ha un grosso problema di giornalisti che seguono la maggioranza senza essere fastidiosi. Poi c’è il problema delle denunce, soprattutto verso i freelance. Facendo un’intervista si può essere accusati di diffamazione per svariati milioni, che ovviamente il freelance, senza una testata alle spalle, non ha. Questo diventa un modo per limitare la libertà di parola, obbligando all’ autocensura i giornalisti. Ci sono anche tanti che pur non avendo le competenze millantano di fare i professionisti, che io chiamo giornalisti da Concordia, ossia quelli che vanno a farsi il selfie con la nave che affonda, solo per dire di essere stati lì. Il giornalista è un mestiere in cui si deve imparare, studiare, come qualsiasi altro lavoro specializzato, per garan-
tire che quello che si dice non abbia come fonti Facebook o TikTok, ma che siano state fatte le verifiche del caso. È successo che venissero date notizie, poi rivelatesi false, ma senza che sia mai stata data una smentita. In quei casi il pubblico continua a recepirle come vere, anche perché una volta che un’informazione arriva, è difficile sradicarla. Ad esempio, con la cattura di Bin Laden, ci fu una grande differenza tra la narrazione dei giornalisti di inchiesta internazionali e quelli americani. Come fai a contrastare un colosso come quello americano con la tua sola voce? Sta tutto nella fiducia che costruisci nel tempo col pubblico. Adesso è anche più facile, grazie a internet e ai cellulari, smentire presto anche le grandi testate in caso di falsa informazione. D’altra parte però con la bulimia di notizie che subiamo, è complicato verificare tutte le informazioni, e ci si affida più che ai giornali, ai singoli giornalisti. Ormai i quotidiani sono alla loro fine, in quanto riprendono storie vecchie al momento della pubblicazione, e per fare la differenza dovrebbero utilizzare approfondimenti, reportage, inchieste, che non puoi trovare in due minuti sui social.
Per iniziare, quali sono i tuoi metodi di indagine e come riesci a raggiungere sempre luoghi così “caldi” dal punto di vista politico?
Premetto che sono un giornalista fortunato, perché ho cominciato a fare questo mestiere molto presto, a diciannove anni, nel giornale della mia scuola in provincia di Catania.
Tuttavia, non avevo mai detto a nessuno che avrei voluto fare il giornalista, perché a Catania nel 1990 era più facile intraprendere la carriera di rapinatore.
Quindi è cominciato tutto così, e dopo un po’ di anni di precariato, nel 2001 ho ottenuto un lavoro in una testata stabile.
Dunque, si decide insieme al giornale – al direttore e ai caporedattori – dove andare e soprattutto ho le spese di viaggio tutte pagate, mentre per i primi anni non erano garantite.
Non sempre vado dove vorrei, si decidono le mete a seconda di diversi criteri non sempre dipendenti dal mio volere. Ad esempio, l’evento che mi ha impegnato di più nell’ultimo anno, la guerra in Ucraina, non è stato una mia scelta: il 19 di febbraio del 2022, il caporedattore centrale mi ha chiesto di andare a dare un’occhiata in Ucraina perché l’aria si stava scaldando molto e quindi il 21 febbraio sono arrivato a Kiev.
Quando posso scegliere dove andare, lo faccio in base alle notizie che ci sono o che si stanno sviluppando, perché a un giornale preme di raccontare qualcosa che interessi il pubblico: la notizia, infatti, è
quel fatto che ha una relazione con il pubblico e più questa relazione è profonda, più persone coinvolge, e dunque anche più lettori e acquirenti, perché dobbiamo anche rifarci alle leggi del mercato.
Allora la sfida che ogni volta mi pongo è quella di cercare di anticipare la notizia, di arrivare prima che le cose accadano: può sembrare una scommessa spericolata, e talvolta la perdo anche, perché magari vado verso un luogo che mi sembra “caldo” e poi non succede nulla di quanto aspettato. Ma se si è giornalisti molto curiosi, e appassionati per questo mestiere, anche quando non si verifica lo scoop previsto, si riescono a trovare dei dettagli, una notizia, qualcuno da intervistare ovunque si vada.
In conclusione, nel mio lavoro mi occupo principalmente delle crisi umanitarie: sono impropriamente definito un corrispondente di guerra, perché è vero che spesso mi trovo in zone di guerra, ma lo faccio per seguire le crisi umanitarie e, nel decidere dove andare, cerco sempre di capire prima se in una certa area si stanno verificando dei processi e dei meccanismi che rischiano di provocare queste crisi.
Vorremmo continuare parlando del tema dell’immigrazione: dopo dieci anni di sbarchi, può essere ancora trattata come un’emergenza?
Dieci anni di sbarchi ve lo perdono perché siete giovani e vi siete accorti dopo – beati voi. Allora, a noi giornalisti piace lo scoop, ci
piace trovare la notizia che nessuno ha scovato, meglio ancora se si tratta di un’informazione riservata o di un documento segreto. Tuttavia non capita spesso: molte volte la notizia è sotto il nostro naso, solo che la bulimia e il bombardamento informativo ci portano ad essere talmente martellati dalla quantità di informazioni che non riusciamo poi a fare una selezione. A questo punto il giornalista deve unire i puntini: deve scavare in profondità, nelle viscere delle cose, grattare la superficie per vedere cosa c’è sotto per provare, dentro a questa massa di puntini, a definire l’immagine. La crisi migratoria è esattamente questo. Per tanto tempo ci siamo occupati della migrazione raccontando dei barconi che arrivano, del problema degli scafisti, di chi sono e di che cosa fanno a bordo. Poi però abbiamo iniziato a chiederci: chi organizza i viaggi? Da che cosa scappano? Come mai hanno un certo tipo di ferite addosso? Allora ho cominciato a ragionare sulla necessità di approfondire di più su questo grande traffico di esseri umani. Non tutti sanno che il numero di migranti nel mondo, in questo momento, è di 250 milioni. Bisogna poi aggiungere i profughi di guerra che, prima della guerra in Ucraina, erano 88 milioni; oggi sono 100 milioni. Quindi, se 12 milioni sono gli ucraini, gli altri 88 chi sono? L’Alto Commissario ONU per i rifugiati, Filippo Grandi, precisa che questo numero è il più alto mai registrato da quando si prende nota di questi dati, perciò dalle guerre settecentesche in poi. Allora, se 100
milioni sono i profughi di guerra, ed è un numero superiore addirittura a quello della Seconda Guerra Mondiale, perché non percepiamo un’emergenza? Perché la guerra è macerie, polvere, bombardamenti: è il grande inganno dentro al martellamento informativo, ossia quello di farci indirettamente credere che, tutto sommato, noi viviamo in un mondo pacificato, in quella parte del globo dove la guerra più vicina è quella in Ucraina. Invece i conflit-
Yemen si alterano i flussi migratori: all’incirca 150mila africani del Corno d’Africa si trasferivano ogni anno nella penisola araba prima del conflitto. La guerra dello Yemen, considerata dalle Nazioni Unite la peggiore crisi umanitaria del nostro tempo, chiude questa porta d’accesso, e il numero di migranti si riduce a 30mila all’anno. Naturalmente, i trafficanti di esseri umani sfruttano i nuovi flussi migratori dovuti a questa situazione, che causa oltre 50mila
La difficoltà del giornalismo moderno è questa, ossia riuscire ad arrivare in fondo alle storie e trovare persone interessate a volerle leggere.
Che ruolo ha l’Italia rispetto ai flussi migratori? Si dice sempre che tutti i migranti arrivano in Italia e non vengono distribuiti nei vari Stati, ma qual è la situazione reale?
ti in Libia, in Yemen e in molti altri Paesi sono vicinissimi. Nel 2015 abbiamo scoperto, con un’inchiesta giornalistica ripresa dal New York Times e da altre testate internazionali, che il principale esportatore di bombe aeree utilizzate dalla Coalizione Saudita, alleanza che combatte nello Yemen, è l’Italia, e che lo è stata fino a circa un anno e mezzo fa. E le armi, come saprete, devono essere esportate con l’autorizzazione dei governi. I governi italiani di ogni colore hanno sempre autorizzato le esportazioni, fin quando è scoppiato questo scandalo: ma nessuno sapeva chi avesse firmato l’autorizzazione, ovviamente. Questa faccenda è importante perché nel caso dello
migranti di ritorno dallo Yemen. Il flusso ricade soprattutto sulla Libia, il grande inferno dell’Africa Settentrionale per i migranti. Questo inevitabilmente ha fatto aumentare la pressione migratoria sui Paesi come l’Italia. C’è una correlazione diretta tra l’economia di guerra, lo spostamento dei migranti e come le persone decidano di proseguire su una rotta oppure sceglierne un’altra in funzione dei conflitti. La situazione è molto complessa, e l’opinione pubblica, insieme alla politica, spesso cerca di affrontarla in modo semplice: è facile dire “chiudiamo i porti”, “aiutiamoli a casa loro”; ma che cosa c’è dietro questo sistema d’interessi e che cosa sta accadendo realmente?
Ho sempre considerato questo tema come la più grande arma di distrazione di massa, perché nonostante abbiamo attraversato una serie di difficoltà, si è deciso di far ricadere la colpa su specifiche persone. Penso che l’Europa abbia agito molto male: l’Unione Europea è composta da più di 400 milioni di abitanti in 27 Paesi, l’Europa geografica da oltre 700milioni. Quindi, quando arrivano 50mila persone, pensate davvero che “non si trovi posto”? Su 27 Paesi capite che è un numero sopportabilissimo. Nel frattempo, questo tema è diventato divisivo, perché “ci rubano il lavoro”, “la nostra identità è minacciata”, perché sono portatori di una religione diversa dalla nostra. Il numero complessivo di stranieri in Italia è di circa 5 milioni, si parla del 10% della popolazione italiana. Delle volte, quando leggo i giornali sembra che la proporzione sia al contrario: vediamo tutto molto sproporzionato. Ciò non vuol dire che il problema non esista, anzi.
Sappiamo che in Libia ci sono campi di prigionia statali, pensate che, nel 2017, ci sono stati degli accordi tra le autorità italiane ed esponenti della mafia libica, accordi che siamo riusciti a documentare solo due anni dopo, attraverso foto ottenute da alcune fonti riservate. Inizialmente, sembrava che nessuno sapesse niente. L’impegno chiesto a
questi signori era di trattenere i migranti in Libia in cambio di denaro. Noi li finanziamo, e, da un Paese che ha firmato la Convenzione di Ginevra sui diritti dell’uomo, ci si aspetterebbe che richieda per i migranti un trattamento dignitoso, cosa che non è avvenuta.
Succede che nel 2017 viene uccisa a Malta con un’autobomba Daphne Caruana Galizia, giornalista e blogger maltese, perché aveva capito che i personaggi coinvolti nel traffico di esseri umani in Libia erano coinvolti anche nel contrabbando di petrolio dalla Libia verso l’Europa, e stavano lavorando con esponenti politici e dell’alta finanza maltese e internazionale. All’inizio non si era capito il motivo di tale omicidio, dopodiché si è preso il presunto mandante ancora sotto processo, e, quando ci siamo messi a lavorare sui personaggi libici, siamo arrivati agli assassini di Daphne Caruana Galizia. Daphne viene uccisa perché sola, perché nessuno condivideva con lei quella parte del lavoro che stava svolgendo.
L'errore che noi abbiamo cercato di non commettere è proprio questo: nel 2019 ho pubblicato la notizia di questo negoziato tra Italia e Libia, ricevendo dei messaggi poco amichevoli, che ho tenuto per me senza informare nessuno. A casa però ho trovato la Digos, che mi ha annunciato che da quel momento sarei stato sotto scorta. È avvenuto in modo naturale, poi, la creazione di una sorta di network internazionale tra giornalisti per cui, quando acquisisco un’informazione rinuncio, delle volte, allo scoop e condivido coi colleghi la notizia, e lo stesso fanno i colleghi con me. Questa cosa mette effettivamente in difficoltà questi gruppi mafiosi, poiché, anche se toccano me, non hanno comun-
que concluso niente.
Noi ovviamente percepiamo una grande tensione, però sappiamo di non essere soli. Come diceva il giudice Giovanni Flacone, le mafie usano un metodo sempre uguale: prima ti isolano, poi ti screditano e in qualche modo convincono l’opinione pubblica che sei pazzo o poco autorevole. È ciò che è accaduto a Daphne Caruana Galizia.
Per noi oggi il giornalismo è soprattutto condivisione, per cui, se trovo uno scoop, è meglio che lo porti avanti insieme ad altri colleghi, perché non conta la mia notorietà, ma quella della notizia. Torna il principio essenziale iniziale: se io credo davvero che la notizia abbia una relazione così importante con il pubblico devo essere disposto anche a trovare dei canali d'informazione più ampi possibili, affinché io vada più in profondità nella comunicazione e provi anche a salvarmi la vita.
Un discorso altrettanto complicato è quello della figura dello scafista: sono davvero loro il problema o sono il capro espiatorio?
Lo scafista è l’ultima ruota del carro. Il punto è che molto spesso non sa chi sia il capo dei capi, perché le organizzazioni criminali lavorano per compartimenti stagni in modo che l’ultimo non sappia chi è che comanda.
Lo scafista va perseguito? Sì, non c’è dubbio - però attenzione: c’è lo scafista turco che sta sul veliero, lo dirige verso le coste italiane e si fa pagare, e c’è il ragazzo somalo a cui magari dicono “tu non hai soldi per pagarti il viaggio, quindi prendi il controllo del gommone e ti dirigi verso nord; questo è il percorso da evitare, questa è la bussola”. Perciò gli scafisti altroché se
vanno perseguiti, tutti, indistintamente; ma bisogna risalire a quelli che dirigono il traffico di esseri umani, altrimenti la faranno sempre franca.
Allora il problema diventa un altro: Come puoi mobilitare sulle coste libiche o su quelle tunisine dieci barche a settimana senza che nessuno se ne accorga? Chi sono i fornitori, per esempio, dei motori?
E i produttori?
Una volta abbiamo fatto un’inchiesta, poiché alcuni ragazzi erano arrivati dalla Libia a Pozzallo, in Sicilia, con un motore diverso da quello iniziale. Noi siamo risaliti al fornitore e al venditore del motore, un sito cinese. Perché un’indagine di giornalisti in una settimana riesce a risalire a venditori e acquirenti e le forze di polizia no? Evidentemente conviene tenere coperto tutto questo traffico. Allora noi continueremo a litigare su quelli che arrivano, “li arrestiamo”, “sono cattivi”, “si comportano male” e tutte queste cose qui, e io invece continuerò a raccontare che cosa succede alle loro spalle.
Questo perché mi pongo il problema “democrazia”: sappiamo che la mafia libica in questo momento può decidere come spostare l’elettorato italiano; perché se decide di far partire un numero esponenziale di barconi, e un politico ha promesso che con il suo governo sarebbero diminuite le partenze dalla Libia, i suoi elettori si indigneranno. E allora dovrà pagare di più per convincere i trafficanti a non fargli fare brutta figura. In fin dei conti, quindi, è messa in discussione la salute della democrazia, perché, tra l’altro, se ai giornalisti è impedito di fare il proprio lavoro, si sta impedendo a un certo numero di elettori di essere informati, e questo è il problema più grave.
Miaoka è un Cat caffè in zona Paolo Sarpi, ma non essendo al centro della via il clima è più tranquillo e il locale mai esageratamente pieno. L’atmosfera è piacevole grazie anche al sistema di prenotazione e all'ottima organizzazione del personale: il bar infatti è diviso in due locali principali, la zona bar, dove le cameriere ricevono le ordinazioni, e la seconda stanza. L’area è luminosa e dai colori chiari, con pochi tavolini e delle strutture in cui possono giocare i nostri amici gatti. I mici sono cinque, di differente razza ma tutti molto puliti,
data la cura da parte del personale, come del resto per tutto lo spazio, il quale è minimal e accogliente, con un velo delle caratteristiche dei locali giapponesi. La consumazione minima per accedervi è di circa dieci euro e il tempo di permanenza è differente a seconda del pasto che si vuole consumare. Le ragazze che gestiscono il caffè sono disponibili e molto attente alla cura del luogo e al benessere del cliente e degli animali stessi.
Per quanto riguarda il punto di vista gastronomico, la cucina offre un menù abbastanza vasto che va dalle tipiche colazioni in-
glesi e americane, come uova, bacon e waffles, alle tradizioni orientali, ad esempio i ravioli. La sezione riservata ai dolci ne comprende di ogni tipo, come biscotti, ciambelle e ovviamente torte. Come non nominare le bevande, infine: il caffè infatti offre un’ampia scelta di bubble tea, senza dimenticare le classiche bevande calde e le immancabili bibite homemade. Nel complesso è un luogo carino dove, senza spendere troppo, si può tranquillamente passare il tempo tra amici, ma anche con la sola compagnia dei gattini.
La recensione di oggi riguarda il megalitico sforzo di un collettivo di scrittori che preferisce restare anonimo, e che propone come sua prima e unica opera il libro antologico pretenziosamente chiamato Bibbia (βιβλία).
Giunto alla conclusione, mi è sembrato interessante, ma non abbastanza focalizzato. Decenni di sperimentazione stilistica e narrativa sembrano aver portato alla stesura della raccolta: la prima sezione è forte, piena degli elementi che fanno vendere i romanzi contemporanei: drama ,
misticismo, finzione storica, e sesso (tantissimo). I personaggi, in questa prima parte, sono molto forti e sfaccettati, dal tragico Caino all’idealista Giuseppe, se escludiamo le donne, fin troppo piatte per il panorama contemporaneo, e la mancata esplicitazione di rapporti omosessuali come quello tra Noè e Cam.
Successivamente, però, i capitoli si fanno molto più brevi, ma anche più contorti, fino al punto che la maggior parte del volume contiene poesie e poemetti francamente aridi, lamentevoli e noiosi. Alla fine di que -
sto deserto, però, il lettore trova un momento di ricompensa per aver superato la sezione dei Profeti, seppur insufficiente a compensarne la ripetitività. Non ve lo rivelerò per mantenere la sorpresa, anche se non sono sicuro ne valga la pena, perché l’ultimo capitolo ritorna al labirinto di simbologie deprimenti di cui si è ormai stanchi. In conclusione, mi sento di consigliare al pubblico di affrontare almeno i primi 5 capitoli, che trovo meritevoli, ma di lasciar stare il resto. Non credo che questo libro diventerà mai il fenomeno mediatico sperato dall’editore.
Il meraviglioso è sempre bello, tutto ciò che è meraviglioso è bello, in effetti solo il meraviglioso è bello. Questa frase di André Breton nel Manifesto del Surrealismo apre la nuova mostra “Dalì, Magritte, Man Ray e il Surrealismo”.
L’esibizione, realizzata nel Museo Boijmans Van Beuningen di Rotterdam, è disponibile al Mudec di Milano fino al 30 luglio e riassume in 180 opere la meraviglia del Surrealismo.
il rapporto del Surrealismo col colonialismo e con le culture diverse. Passiamo per le menti dei principali esponenti del movimento attraverso i loro libri, i loro appunti e le loro tecniche, in un’immersione attenta e completa in questo mondo.
Inevitabile durante la visita è il senso di sconvolgimento e rivoluzione che porta l’irrazionalità del Surrealismo, con opere che devono essere vissute e consumate con l’inconscio. Osservando da vicino e poi da lontano, su grandi schermi e piccole tele, contemplando nel silenzio della propria mente le riflessioni che i grandi artisti surrealisti ci hanno voluto lasciare sotto forma di opere d’arte.
(Viola Pilo e Jessica Stefanini, immagini di Lucia Vercelloni)
Entrando, lo spettatore è catapultato in un viaggio onirico attraverso una delle correnti artistiche e letterarie più rivoluzionarie del Novecento, la cui vastità è racchiusa egregiamente da tutte le installazioni che presenta, divise in sei sezioni che comprendono i più differenti generi d’arte, dai dipinti alle sculture.
Anche le sale partecipano alla creazione dell’effetto finale, lasciandosi modellare dalle opere che ospitano e adattandosi ai diversi temi che offrono. Partono da una citazione, da un concetto chiave, per poi abbandonare lo spettatore in mano al fascino dell’irrazionale. Visitiamo lo stravolgimento del Dadaismo, l’esperienza del sogno e l’ebbrezza di un nuovo modello di bellezza. Attraversiamo le pulsioni del desiderio,
Arieti, vedete di calmare i nervi! Quest’ultimo mese è – per fortuna – quasi finito, ma avete bisogno di concentrazione per arrivare al termine. Sappiamo che avete ancora tanta energia: vi consigliamo di concentrarla tutta quanta sulle vostre priorità.
Che cosa è successo ai buoni propositi d’inizio anno? Qualcuno li ha più rivisti? Voi di certo no, considerati questi ultimi mesi… Ma non disperate, siete ancora in tempo per quelli di metà anno: vi serve qualcosa che sia nettamente in contrasto con la vostra cronica pigrizia, ad esempio un po’ di yoga ogni mattina, che non vi farebbe poi tanto male.
Cari Gemelli, questo mese vi ha sfiniti e il vostro continuo piangervi addosso non è stato d’aiuto. Avete tirato fuori il vostro io intellettuale e le vostre capacità accademiche, dimostrando chi siete davvero. Maggio però non è ancora finito, e nemmeno le insidie che porta: attenti alle pugnalate a tradimento dei prof!
Curioso ma vero, maggio non vi sta sembrando particolarmente gravoso: forse perché avete gettato la spugna a marzo. Eppure, non dubitiamo che saprete – stranamente – muovervi con fluidità fra tutti i problemi che il cosiddetto rush finale comporta e, con un po’ di fortuna, ne uscirete indenni –avete letto bene: non prevediamo debiti per voi.
Dov’è andata a finire la vostra tenacia? Si vede sin da lontano che siete prossimi all’esaurimento –come potremmo biasimarvi. Maggio non è ancora giunto al termine, ma non abbattetevi. Arriverà il momento in cui la vostra indole fiera, caratteristica dei segni di fuoco, si risolleverà!
Per voi, cari Vergini, questo mese è stato finora un gioco da ragazzi grazie alla vostra razionalità e, soprattutto, al vostro metodo. Attenzione però a non lasciarsi troppo andare e ad adagiarsi sugli allori, in particolar modo in questo periodo: l’interrogazione è sempre dietro l’angolo!
Lo sappiamo, siete molto turbati dall’esito dell’ultima verifica di Matematica e dal disastro dell’ultima versione di Greco, ma guardate il lato positivo: un’estate passata a studiare non può che farvi bene, dopo i guai combinati nel corso di quest’anno…
A seguito delle dure settimane trascorse, penserete di aver finalmente modo di rilassarvi, cari Scorpioni, ma ci spiace contraddirvi. Mentre sognate la vostra futura love story estiva, la strada verso l’otto giugno sembra non passare più. Se volete uscirne vittoriosi, applicatevi a scuola con lo stesso zelo che utilizzate per programmare le vacanze.
Sagittari, ringraziate gli astri! Le vostre fatiche sembrano starsi finalmente concludendo nel mi-
gliore dei modi: il vostro impegno costante vi ripagherà, vedrete. Intanto, è tempo di pensare alle cose importanti: lasciatevi prendere dal sogno ad occhi aperti di un cocktail in riva al mare, hit estive e beachvibes. Già vi vediamo ridacchiare ostentando tutto questo ai vostri amici Scorpioni…
Cari Capricorni, già vi vediamo tentare vanamente di alzare le medie gli ultimi giorni di scuola. Aprite gli occhi e riflettete sull’opzione che il vostro final sprint dovrà iniziare, prima o poi. E, per la cronaca, tutta colpa degli astri se quella persona che stalkerate da dicembre non vi ha ancora scritto in DM… Oppure del fatto che si sta preparando all’esame di maturità. #fuoridallatuaportata #berealistic.
Sappiamo che il solo pensiero del caldo lancinante vi abbatte e prosciuga tutte le vostre energie: almeno sotto questo punto di vista, maggio non è stato poi così insostenibile. Tuttavia, presto dovrete fare i conti con l’aumento improvviso delle temperature: iniziate a smettere di rimuginare sulle copertine pelose invernali.
Va bene lo stile all’insegna della vida loca, ma c’è un limite a tutto: se vuoi evitare disastri di misure catastrofiche quanto l’asteroide che ha estinto i dinosauri non andare alla festa solo per vendicarti di noi-sappiamo-chi: non ne vale la pena.
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OAELLTTEERM!
di Viola Pilo
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