Il canto della notte di Camilla Morgan-Davis

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Camilla Morgan-Davis Camilla Morgan-Davis

destinati, sin da bambini, ad avere un legame profondo e viscerale. Non possono amarsi, i loro corpi troppo vicini li renderebbero più deboli e troppo esposti alla furia di Seimo. I loro cuori, però, non conoscono le regole dell’invulnerabilità.

Il Canto della notte

Camilla Morgan-Davis, con Il canto della Notte, ricalca Leggende antiche e Miti ispirati ai lupi per mettere su carta un emozionante Urban Fantasy che – citando il celeberrimo George R. R. Martin - “parla a quel bambino che sognava di cacciare di notte nelle foreste, di festeggiare al di sotto di cave e colline, e di trovare un amore che sarebbe durato per sempre, in qualche luogo tra il sud di Oz e il nord di Shangri-La.”

Camilla Morgan-Davis (Sanremo, 1982) allo scoccare della mezzanotte inizia a scrivere seduta alla scrivania, chiusa in un appartamento ricavato da un vecchio monastero abbandonato. Di giorno si occupa di scienze sociali e letteratura on line. Il canto della notte è il suo debutto nella letteratura fantasy.

In copertina foto: © Sivali D´Lirium Grafica: zero91 s.r.l.

Canto del l a otte Il

N

ISBN 978-889538118-3

www.zero 91 .com

€ 0

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788895 381183

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Il Canto della Notte è la voce della Luna che scivola tra gli alberi, accarezza il fiore Orchimola, soffia tra le Creature dei boschi e raggiunge il cuore di ogni Licantropo. È una voce morbida che grida nel cuore di Maila, una diciottenne a cui la Luna ha serbato un dono speciale, il cui riflesso può restituire il volto di una ragazza fragile o la forza incontenibile di una lupa bianca. Maila è senza famiglia e vive ad Amadriade con Victor e Lisaika, quei genitori adottivi che si prendono cura, con coraggio, di una giovane comunità di muta-forme. Quando il Canto della Notte, quel suono che gli Umani non percepiscono, le riempirà la testa, l’avvicinerà al momento in cui scoprirà di essere la Prescelta. La Luna farà il suo nome affidandole il compito di sconfiggere gli Artigli Rossi, licantropi senza scrupoli che, per raggiungere l’immortalità, devono cibarsi della carne della Prescelta. Per sopravvivere e per salvare sia gli umani che i muta-forme, Maila dovrà decapitare Seimo, il più spietato degli Artigli Rossi, e portare la sua testa al cospetto della Monaca Bianca, nel Regno di Ayta. Solo così riuscirà a intrappolare i licantropi assassini nel Non Dove e a liberare il mondo dalla loro violenza distruttrice. Maila, durante il suo viaggio verso il destino, sarà guidata dal canto della notte e dall’amore di Ren, un Othar, un Lupo cacciatore addestrato da guerriero a morire per lei. La Prescelta e il suo Othar. Metà dello stesso cerchio,



Camilla Morgan-Davis

Il canto della notte romanzo

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IL CANTO DELLA NOTTE Copyright © 2010 Camilla Morgan-Davis Copyright © 2010 zero91 s.r.l. Viale Molise 51 20137 – Milano Stampato in Italia Prima edizione: ottobre 2010 ISBN 978–88–95381–18–3

Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il logo FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo i rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council.

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A Luca con Fantasia e Amore.



PRIMA PARTE



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Appena un quarto di Luna Nuova fece capolino nel cielo notturno, una ragazza dai lunghi capelli neri uscì di nascosto, saltando giù con un balzo dalla finestra della sua camera. Nel bosco, che apparve come una corte di cristallo raggelata dall’inverno, preferiva restare da sola. Non le piaceva condividere quei momenti con qualcuno. Se i suoi genitori adottivi l’avessero scoperta, sicuramente non le avrebbero risparmiato rimproveri e la solita ramanzina. Era pericoloso, lo ripetevano sempre. Ma la ragazza dai lunghi capelli neri di poche cose aveva paura, e né la notte né il bosco rientravano fra queste. La Luna, per quanto incapace di riscaldare come il sole, illuminava gli alberi con netti contrasti e la sua debole luce permise alla ragazza di avanzare con decisione. Il buio tentò di prenderla come se possedesse mani e palmi di cera pronti a sfiorare, toccare e forse rapire. Una falce con la gobba rivolta a destra sfavillò fra le nuvole grigie quanto il piombo e la ragazza sollevò la testa, scrutandola, e vi riconobbe un’amica a cui essere devota. La neve brillava sprigionando una polvere azzurrina, simile alla Luna stessa quando cambia il tempo. Avvolti dalle sue spire, i contorni degli alberi e i ghiaccioli sui rami sembravano fluttuare. La ragazza li sfiorò correndo, tagliando il vento con il suo corpo, diventato simile a una lama.


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Si fermò soltanto quando fiutò una preda frusciare tra i cespugli, ma la lasciò scomparire fra le ombre. Raccolse radici oramai morte di fiori selvatici ai piedi di una quercia profumata. Una sorgente d’acqua ricoperta da uno strato di ghiaccio gorgogliava non lontano. La raggiunse, si fermò a bere e ricominciò a correre. Le gambe, forti e sicure, la indussero a pensare che correndo avrebbe potuto raggiungere ogni luogo, arrivare ovunque desiderasse, anche se ignorava i labirinti del mondo, le sue vie, i suoi rifugi, i pericoli. Anche se non sapeva cosa avrebbe potuto o dovuto desiderare. Perdersi senza dover chiedere scusa, questo sì. Per il tempo necessario, non un minuto di più. Respirare su un volto disegnato nella neve. Immaginare qualcuno, simile a lei, in grado di respingere i suoi timori tenendola per mano. Si guardò intorno. Nessuno accanto. Né oggi né ieri, forse mai. Nessuno ad asciugarle le lacrime gelate. Urla sommesse nella gola si confusero con il fiato come danze malinconiche. “Sono sola fin dal principio. Di quale buonsenso parlano gli altri, se io non so chi sono?”, si domandò riprendendo a correre. Si lasciò travolgere dal silenzio, dalla distesa di erba e campanelle blu coperte dalla neve e infine dal vento, colui che, si racconta, ci ha donato la vita. Le linee che portiamo incise sui palmi delle mani sono i mille sentieri in cui ha vagato, e da esse è possibile capire in che direzione soffiava il giorno in cui nacquero i nostri avi. La ragazza avrebbe voluto urlare, non reprimere la sua voce, ma preferì tacere, evitando il rischio che a casa potessero accorgersi della sua uscita, di nuovo, da sola, di notte. Senza permesso. Non lontano dal bosco, qualcuno stava andando incontro alla morte, ferito senza onore, barbaramente, ma questo lei non poteva saperlo. Non udì delle grida, non sentì l’odore del san-


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gue umano, non riuscì a cogliere alcuna supplica disperata. La ragazza continuò a correre percependo il freddo della sua anima ostinata. Soltanto. Impronte di un lupo sul suo cammino. Quelle notti erano forse le più gelide dell’anno, i cervi si nascondevano nelle grotte e agli uccelli in volo si congelavano le ali. Alla ragazza dai lunghi capelli neri quelle notti piacevano proprio per questo. Un alito di vento spinse gli odori lontano, e furono numerosi quelli che non riconobbe immediatamente. La Luna iniziò a calare e a breve sarebbe sorto il sole. Il buio fu screziato dalle prime luci color arancio e rosa scuro e la ragazza intuì che era giunto il momento di ritornare ad Amadriade, la sua casa.

Il sonno sfiorò in modo gentile Amadriade, ma non raggiunse ogni anima nello stesso modo. Alcuni corpi vennero toccati lievemente dalla notte, altri divorati da una lingua famelica che, strisciando nell’addome, passandovi attraverso, poté raggiungere gli occhi. Lisaika e Victor stavano dormendo quando qualcosa giunse a turbarli. Lisaika si rigirò nel letto scalciando con irruenza. Victor, svegliandosi, la osservò, non riuscendo a capire se la sua compagna, la sua sposa, dormisse oppure no. Un presagio lo assalì, confermato da un urlo che rimbombò nella stanza. Lisaika scoprì il volto che era nascosto sotto il lenzuolo e si rizzò a sedere, mostrando gocce di sangue che le zampillavano repentine dagli occhi bianchi per la cecità, scivolavano sulle guance e sul collo, cadevano sulle gambe raccolte contro la pancia.


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«Stanno per scegliere. Manca poco. È pericoloso. Loro vogliono solo lei. Solo lei» genette portandosi le mani agli occhi. Il sangue le bruciava più del fuoco. Il cuore iniziò a battere accelerando il suo ritmo nel petto, come un tamburo che sancisce l’inizio di una battaglia a cui si è obbligati a partecipare. Il respiro divenne affannoso mentre il sangue continuava a scorrerle sul volto. «Lo vedo chiaramente. Vogliono lei...» ripeté, mescolando il timore alla sanguinosa e lugubre visione. Victor leccò a una a una le lacrime sul viso della sua amata. Cercava di rassicurarla ma aveva compreso a cosa si riferiva Lisaika. Il momento tanto temuto stava per arrivare.


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La ragazza rientrò nella sua stanza da una grande finestra che si affacciava sul bosco. Alberi di castagno e abete ospitavano non solo i nidi di falchi pellegrini, ma anche le domande e tutto quello che non voleva e non poteva permettere che si sedimentasse dentro di sé. Dedicò al vento il suo primo saluto ringraziandolo di averle concesso una notte di libertà e solitudine fra i boschi. Ma il suo cenno si tramutò in un gesto impercettibile che nessuno poté cogliere. La ragazza si osservò allo specchio. Si stropicciò gli occhi in modo nervoso, veloce, così come le orecchie. Con quel movimento avrebbe voluto allontanare quei gemiti che, ormai da tempo, le riecheggiavano dentro. Di nuovo. Per anni era riuscita a domarli. come una ballerina indiana col serpente che intende ipnotizzare. Lei non ballò naturalmente, mantenne gli occhi fissi, senza sbattere le ciglia, ma restò un’eco. Una specie di effetto collaterale del suo destino. I capelli neri le cadevano lisci sulle spalle. Gli occhi rossi osservarono allo specchio le gengive ritrarre le zanne lucide e affilate. Attese che la peluria bianca scomparisse del tutto dalle mani e dal collo. La ragazza si guardò riflessa ancora una volta, mosse il capo verso destra e poi verso sinistra. Respirò sulla superficie di vetro formando con il fiato un alone su cui, con gli artigli ancora tesi, scrisse il suo nome: Maila.


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Lo ripeté con un sussurro. Maila. Si sdraiò sul letto. Entro meno di un’ora avrebbe dovuto presentarsi a lezione. Si distese più per noia che per stanchezza e, senza accorgersene, si addormentò. Avrebbe potuto dire di aver sognato, ma non fu effettivamente così. Provò la sensazione di essere trasportata al centro del bosco, nella radura, vicino alla casetta di legno abbandonata e utilizzata tempo addietro dai cacciatori del paese. Il sole era molto caldo. Gli occhi di Maila brillarono scintillando di rosso. Scrutò qualcosa dietro agli alberi, avvertì un odore particolare che non aveva mai sentito. Si diresse verso quel profumo, andando incontro a qualcosa che si muoveva dietro il tronco di un abete. Delle ombre le girarono intorno attirando la sua attenzione. Non sembravano pericolose anche se si allungavano verso di lei. Le ombre si proiettarono dagli alberi, dai loro rami spogli. Girarono vorticosamente e Maila, seguendone i movimenti, fu costretta ad appoggiarsi contro un tronco perché per un attimo le girò la testa. I rumori continuarono a ripetersi. Il profumo si fece ancora più intenso e l’avvolse totalmente posandosi sulla sua pelle. Le ombre si arrestarono, poi strisciarono lentamente sulla neve formando dei sottili sentieri neri, aggrovigliandosi alle sue caviglie come possenti lacci. L’odore. Quell’odore. Fece un passo in avanti. Si voltò, scrutando nuovamente la casetta di legno abbandonata. Dei rumori nel corridoio la svegliarono di soprassalto. Si strofinò gli occhi. Venne scossa da una strana sensazione. Respirava a fatica. Si alzò dal letto. La testa continuava a girarle. Sotto la soglia della porta qualcuno, probabilmente Soul, infilò il quotidiano del paese.


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Maila lo prese fra le mani, leggendo la notizia che in neretto, a caratteri cubitali, occupava la prima pagina. Inizialmente non vide bene. Non riusciva a mantenere lo sguardo fermo su niente perché nulla, le sembrò, restava immobile per più di un secondo. Si strofinò gli occhi una seconda volta e lesse. “Il lupo attacca ancora: una nuova aggressione. La terza in pochi giorni. Ha creato sconcerto l’attacco di due grossi lupi, si dice di notevoli dimensioni, a un uomo del paese. La vittima rischia di perdere l’uso di entrambe le gambe, attualmente è ricoverata in condizioni gravi presso l’ospedale.” L’articolo proseguiva descrivendo particolari e ipotizzando spiegazioni plausibili per interpretare l’accaduto. Una nuova sensazione fece rabbrividire la ragazza, sovrastandola come un triste presagio. Presero forma nella sua mente il corpo dilaniato dai morsi e l’odore metallico del sangue, nonché i segni lasciati sulla terra e sull’asfalto, vicino all’abitazione della vittima. Ebbe una vertigine immaginando il sapore del sangue umano. Un’altra ancora e si accasciò contro il muro.



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Maila scese in sala studio e il brusio delle chiacchiere la raggiunse fin dalle scale. A ogni passo avvertiva un male intenso e acuto trapassarle la carne, come se una lama di vetro stesse mettendo radici nei muscoli, sotto la pelle. Non comprendeva che cosa fosse. Strinse i denti cercando di controllare l’avanzata del dolore. Trovò gli altri ragazzi intenti nella lettura del giornale. Discutendo animatamente, ognuno esprimeva la propria opinione su quanto accaduto. Fecero cenno al patto obbligatorio che da sempre accomunava tutti loro, i Toron Isil, licantropi fedeli alla Luna; un branco che non attaccava se non per difesa e che non mangiava l’uomo, nonostante l’odore del suo sangue fosse per loro simile al canto di suadenti sirene in un oceano color rubino. Cibarsi di carne umana avrebbe aumentato la forza dei licantropi, ma una volta assaggiata sarebbe stato impossibile ritornare a uno stato di equilibro fra la ferocia e la ragione, fra l’innocenza e la colpa. Maila rivolse uno sguardo distratto ai suoi compagni. Sembravano normali. Non li aveva mai visti indossare mantelli di velluto o vestiti da film horror, e le zanne divenivano palesi solo quando mutavano l’aspetto. Akim, seduto nel banco vicino a quello di Maila, quella mattina sembrava particolarmente strano e, all’improvviso, delle


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sue ciocche di capelli biondi si sostituirono in fretta alla folta pelliccia. Lei lo guardò severamente e lui subito si giustificò: «È l’influenza, quando ho la febbre alta mi trasformo senza preavviso» disse starnutendo. «Non potevi startene in camera tua?» Maila arretrò di un passo scacciando i potenziali microbi con le mani. Akim non rispose e si limitò a soffiarsi il naso, mentre lei si sedeva al banco. Maila posò lo sguardo sugli alti soffitti da cui pendevano lampadari in ferro battuto, sulle travi in legno, sulla libreria in fondo alla stanza con volumi catalogati in base al titolo, e poi guardò il pavimento e la grossa vetrata che dava sull’esterno. La neve ricopriva ogni cosa, dando la sensazione di essere all’interno di un quadro bianco. La carne del suo petto incominciò a comprimersi in modo straziante, ma trattenne il dolore per sé. Victor si apprestava a raggiungere i ragazzi nell’aula studio. Prima di superare la soglia si augurò che Lisaika, la notte precedente, avesse interpretato male la sua visione, ma si rese conto che quel pensiero non poteva che essere illusorio. Lisaika possedeva il dono di vedere al di là del visibile, oltre l’adesso e il tangibile. Le sue premonizioni si dimostravano sempre precise. Era Dolore che mostra il Vero attraverso il potere chiamato Wacan, la capacità di toccare l’invisibile e il lontano. Victor entrò in aula. Guardò i suoi ragazzi, uno a uno, così differenti fra loro e tutti così vulnerabili: Soul, il più piccolo del branco e il più curioso, Sabaita, vanitosa e fragile, Mikolai, con l’ambizione di diventare un capo branco, Akim, l’ultimo arrivato, e infine Maila, la più grande e la prima ad aver fatto parte della sua famiglia, con un carattere forte e ribelle e uno sguardo graffiato da triste e dolente rabbia. Cinque ragazzi e cinque lupi diversi, nell’aspetto e nella natura. I suoi figli adottivi. La sua famiglia. Gli unici a vivere ad Amadriade, piccola comunità che


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esisteva da decenni vicino al paese di Robilante. Era stato Antenor a fondarla, un vecchio licantropo custode del bosco, anni e anni addietro, prima ancora che sorgesse Robilante. Antenor aveva perso un figlio e la moglie era morta dal dolore. Solo e anziano aveva incontrato Victor e gli aveva raccontato il suo sogno: accudire i piccoli licantropi perché potessero convivere con gli uomini. Il figlio era morto per una trasformazione inopportuna, davanti a gente impaurita. Non cattiva, solo impaurita. Victor era giovanissimo ma aveva già sposato Lisaika. La natura non li aveva ancora premiati con dei figli e i due innamorati avevano capito che mai sarebbero arrivati. Avevano capito che il loro ruolo, nel mondo, era quello di fare da genitori a figli che non ne avevano, figli orfani, a cui qualcuno aveva portato via le origini e il futuro. Amadriade era per tutti loro una vera casa. Facendo proprio il sogno di Antenor, Victor e la sua compagna Lisaika aiutavano i giovani orfani mutaforma ad accettare e gestire la loro natura, solo per metà umana, per insegnar loro a difendersi e per permettere loro di convivere col genere umano rispettandone valori e paure. Gli abitanti di Robilante non ne conoscevano la reale identità, forse la supponevano, e questo aveva determinato parecchi pregiudizi e pettegolezzi. Gli umani ritenevano strano che una famiglia con cinque figli decidesse di vivere in una vecchia casa sperduta, dopo aver acquistato gli ettari di terra più remoti del paese, fino a possedere buona parte dell’intero bosco. Giudicavano strani gli atteggiamenti solitari dei cinque ragazzi, nonché la quantità di carne comprata presso i macellai. L’esistenza dei mutaforma, in fondo, rappresentava un pensiero che gli umani allontanavano istintivamente, lasciando ai Disincarnati il peso e la preoccupazione di stanarli e ucciderli. I ragazzi-lupo conoscevano bene i Disincarnati. Umani folli e visionari. I peggiori nemici da secoli. Fra i pochi a essere a conoscenza della loro presenza sulla terra, i soli convinti che i


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licantropi fossero l’incarnazione di tutti i mali, generati da un patto con il diavolo. Victor strattonò con la mano la tasca all’interno dei pantaloni riducendola in brandelli. Iniziò da subito a parlare cercando di non manifestare la preoccupazione che albergava nella sua mente. «Oramai siamo certi. Conosciamo il nome del nemico. Ad uccidere gli umani non sono lupi, ma licantropi.» I ragazzi si scambiarono sguardi interrogativi e Victor continuò a spiegare. «Non appartengono ai Toron Isil. Sono Artigli Rossi.» «E chi sono gli Artigli Rossi?» domandò Soul non pago della precisazione. Non ne aveva mai sentito parlare. Ne era certo. Altrimenti non li avrebbe dimenticati. La voce di Victor divenne ancora più seria e profonda di quanto lo fosse normalmente. «Sono fra i più spaventosi predatori che mai abbiano calcato la terra. E sono Dormienti: licantropi che si cibano dell’uomo. Noi Toron Isil li abbiamo allontanati da tempo, ma ora sono ritornati.» Victor si accorse degli sguardi indagatori dei ragazzi e proseguì. «Tempo addietro siamo riusciti a intrappolare gli Artigli Rossi in un limbo protetto da magneti, un luogo infernale adatto alla loro natura: il Non Dove. Ma ogni decimo anno il limbo si indebolisce. Approfittando di ciò, gli Artigli Rossi sono riusciti ad aprirsi un varco e a disperdersi nel mondo, guidati dal loro capo, Seimo. Hanno iniziato la loro guerra. Reclutando nuovi seguaci a cui affidare i lavori più pericolosi, aggrediscono e mangiano gli uomini così da accumulare la forza necessaria per combattere e vincere.» «Ma contro chi devono combattere? Cosa vogliono?» Fu Akim a parlare in uno starnuto, quasi infastidito dalla storia raccontata da Victor.


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«Contro di noi, contro chiunque voglia fermarli e imprigionarli di nuovo nel Non Dove. Sanno che la Luna sta cercando il Prescelto. Vogliono la sua carne... Se il loro capo, Seimo, riuscirà a mangiare la carne del Prescelto, gli Artigli Rossi diventeranno immortali e, pertanto, invincibili, per sempre liberi...» I ragazzi conoscevano il ruolo del Prescelto, Victor gliene aveva parlato nelle sue lezioni, ma, fino a quel momento, tutti loro avevano considerato quelle nozioni come leggende, favole antiche, che studiavano solo perché erano obbligati a farlo. Storie tramandate dai tempi antichi e nulla più. «Ed è per mano del Prescelto che Seimo deve morire» precisò Soul. «Mi ricordo la storia del Prescelto e del suo Othar, lo “scudo”. Giusto?» bisbigliò poi verso Maila, ma Maila non capì a cosa si riferiva. Durante le lezioni era spesso distratta. Sapeva solo che la Luna, da secoli, attraverso la voce del Regno Sotterraneo, sceglieva un licantropo che diventava il Prescelto. La scelta dipendeva dalla fase Lunare durante la quale il mutaforma sarebbe andato incontro alla prima muta, a meno che non fosse nato nella forma ferina, ma questo rappresentava un evento di assoluta rarità, una pura eccezione. Il Prescelto sarebbe stato la voce dei licantropi, colui a cui forza e saggezza avrebbero permesso di aggirare ogni ostacolo, superare i pericoli presenti nel mondo visibile e quelli nascosti negli angoli bui, come la mente o la fine del mondo. Il suo sangue e la sua carne sarebbero diventati fra i più nobili della terra. Soul, però, si riferiva anche ad altro: a ogni Prescelto era destinato un Othar, uno scudo in carne e ossa, un licantropo cacciatore che avrebbe avuto il compito di proteggerlo e accompagnarlo attraverso gli inevitabili combattimenti. Una coppia immutabile, un duo complementare, due parti di un intero. «Tu sai sempre tutto» borbottò Akim rivolgendosi a Soul. Maila istintivamente si voltò verso Akim e mostrò i denti ringhiando, in difesa del suo piccolo amico.


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Victor riprese a parlare, ottenendo la loro attenzione lanciando uno sguardo che, se fossero stati nella forma animale, li avrebbe indotti a far scivolare la coda sulla pancia. «Per il Prescelto, tutto avrà inizio con un segno Lunare che rappresenta il legame con la Madre Luna, un segno marchierà la carne...» «E quando verrà scelto?» domandò Sabaita. «Molto presto. Domani, forse. Prima che gli Artigli Rossi raggiungano ogni angolo della Terra.» «Victor, io vorrei propormi come Prescelta. Sono sicura che sarei la migliore. Migliore di chiunque altro. Posso farlo? Oppure possiamo organizzare una gara fra branchi. Voglio vincerla.» Maila trovò irritante l’atteggiamento sfacciato di Sabaita. A fatica sopportava la compagnia dei suoi fratelli adottivi, fatta eccezione per Soul. Le sembravano tutti eccessivamente sicuri di sé. Nessuno di loro, escluso Soul, si poneva domande sulla propria natura. Solo una volta Maila provò a domandare che cosa pensassero sulla loro origine, e lo sguardo che ricevette le bastò per non riproporre più l’argomento. Forse loro non pensavano mai nulla al riguardo. La testa vuota permette di essere riempita da ogni futilità, mentre la sua era sempre più affollata di ombre. E per quanto in natura le ombre non avessero peso, nella sua mente diventavano gravose e opprimenti. Tanto da lasciare poco spazio per tutto il resto. «Non funziona così. Se fossi stata attenta, avresti sentito che è la Luna a scegliere. Non puoi proporti. Potrebbe essere uno di voi, oppure un licantropo appartenente ad altri branchi.» Sabaita apparve delusa, sbuffò appoggiandosi le mani sui fianchi. Gli altri allontanarono del tutto l’ipotesi che qualcuno fra di loro potesse essere scelto. Immaginarono il Prescelto come un possente e temibile lupo alfa, non certo un giovane licantropo come loro. Di questo erano convinti e ne furono tutti sollevati.


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«Fate attenzione, ragazzi. Siamo circondati dagli Artigli Rossi, abili simulatori, capaci di irretirvi... ma anche i Disincarnati potrebbero intuire che le aggressioni ai loro simili sono opera di licantropi... e loro non fanno distinzioni, per loro siamo tutti uguali, tutti le stesse bestie maledette.» Victor pretese che i ragazzi fossero attenti, che comprendessero il pericolo incombente. Non si trattava di un gioco, era giunto il momento di crescere e di farlo in fretta. Di fare una scelta. Il capo branco terminò di parlare e dalle sue parole trapelò distintamente la sua preoccupazione, l’incertezza, il timore di non essere abbastanza forte per proteggere i suoi ragazzi.


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destinati, sin da bambini, ad avere un legame profondo e viscerale. Non possono amarsi, i loro corpi troppo vicini li renderebbero più deboli e troppo esposti alla furia di Seimo. I loro cuori, però, non conoscono le regole dell’invulnerabilità.

Il Canto della notte

Camilla Morgan-Davis, con Il canto della Notte, ricalca Leggende antiche e Miti ispirati ai lupi per mettere su carta un emozionante Urban Fantasy che – citando il celeberrimo George R. R. Martin - “parla a quel bambino che sognava di cacciare di notte nelle foreste, di festeggiare al di sotto di cave e colline, e di trovare un amore che sarebbe durato per sempre, in qualche luogo tra il sud di Oz e il nord di Shangri-La.”

Camilla Morgan-Davis (Sanremo, 1982) allo scoccare della mezzanotte inizia a scrivere seduta alla scrivania, chiusa in un appartamento ricavato da un vecchio monastero abbandonato. Di giorno si occupa di scienze sociali e letteratura on line. Il canto della notte è il suo debutto nella letteratura fantasy.

In copertina foto: © Sivali D´Lirium Grafica: zero91 s.r.l.

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