La magia dei petali sparsi di Amy Greene

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Titolo originale: Bloodroot Traduzione dall’inglese di Romina Valenza Copyright © 2010 by Amy Greene TUTTI I DIRITTI RISERVATI

First American edition published by Alfred A. Knopf, a division of Random House, Inc., New York, and in Canada by Random House of Canada Limited, Toronto

© 2011 zero91 s.r.l., Milano Published by arrangement with Luigi Bernabò Associates, Milano Prima edizione: giugno 2011 Copertina © Susan Fox/Arcangel Images ISBN 978–88–95381–36–7 La riproduzione di parti di questo testo, con qualsiasi mezzo e in qualsiasi forma senza autorizzazione scritta è severamente vietata, fatta eccezione per brevi citazioni in articoli o saggi. Questo libro è opera di fantasia. Personaggi, fatti e luoghi citati sono inventati dall’autore o sono utilizzati a scopo narrativo. Ogni riferimento a fatti, luoghi e persone, vive o defunte, è puramente casuale.

Stampato in Italia nel mese di giugno 2011 presso GECA S.p.A. – Cesano Boscone (MI) www.gecaonline.it

Questo libro è stampato su carta FSC amica delle foreste. Il logo FSC identifica prodotti che contengono carta proveniente da foreste gestite secondo i rigorosi standard ambientali, economici e sociali definiti dal Forest Stewardship Council.

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AMY GREENE

LA MAGIA DEI PETALI SPARSI

ROMANZO

traduzione di Romina Valenza

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LA MAGIA DEI PETALI SPARSI



UNO


BYRDIE LAMB E DOUGLAS COTTER

BYRDIE

Myra somiglia a sua madre, ma è più bella perché in lei si mescolano anche i tratti di suo padre. È la giusta sintesi di entrambi. La parte migliore del padre di Myra erano i suoi occhi, azzurri come il cielo. Ti trafiggevano. Myra ha ereditato gli stessi stupendi occhi azzurri. Ho sempre pensato che fosse troppo bella e poi è arrivato John Odom. Adesso morirò sola. Non che io abbia paura di restare da sola con questa montagna. L’amo come si ama un’altra persona. Però mia nipote mi manca. Io e la madre di Myra non eravamo molto legate. Clio mi teneva poco in considerazione e di Macon non si curava affatto. Myra è la figlia che ho sempre desiderato avere. All’inizio non trovai nulla di sbagliato in John Odom, ma, anche se avessi visto il serpente annidato dentro al suo cuore, non avrei cercato di fermare Myra. Dai suoi occhi, avevo capito che doveva averlo, comunque fosse andata a finire. Adesso so che non si è trattato di una storia a lieto fine. Questa mattina sono andata a trovarla e mi ha spaccato il cuore in due. Non riesco a sopportare l’idea di quello che lui possa farle laggiù, accanto ai binari della ferrovia. Gli 6


anni mi hanno reso più dura di un nodo di pino, ma qualcosa della vecchiaia mi ha comunque addolcita. Senza Myra qui con me, con cui parlare, in questo giorni mi sono resa conto di avere troppo tempo per rimuginare sui miei problemi. Avrei dovuto capire quello che stava accadendo già quella volta che era tornata tardi dalla biblioteca. In teoria avrebbe dovuto studiare con una delle sue compagne di scuola. Ma avevo colto un bagliore curioso nei suoi occhi. «Cosa hai combinato?» le avevo chiesto. Andò al lavandino e prese un bicchiere d’acqua, lo mandò giù come se fosse arrivata di corsa. Si voltò e le sue guance sembravano roventi. Sorrise mentre l’acqua le imperlava le labbra. «Te lo dirò più tardi, nonna, lo prometto. Per il momento voglio tenerlo per me.» «Che sciocca» avevo detto, ma il modo in cui i suoi occhi brillavano mi rendeva nervosa. Poi mi ero lasciata prendere dalla pulizia della cucina prima di andare a dormire e di dimenticarmi tutto quanto. Quando finalmente mi misi a letto, mi addormentai non appena la mia testa toccò il cuscino. Ripensandoci, si trattava di un sonno innaturale, come se avessi preso un sonnifero. Sognai di essere su un ponte sgangherato, sovrastante acque melmose. Il fragore dell’acqua era così violento che non riuscivo a sentire null’altro. A un tratto mi accorsi di alcuni oggetti che venivano trascinati verso le rapide. Erano pezzi della nostra casa di Bloodroot Mountain. La gamba della mia sedia preferita. La trapunta che avevo fatto per Myra quando era piccola. Un cassetto del nostro mobile della cucina. Una bambola con cui Myra giocava sempre. Alcune tavole del pavimento, delle scandole e persino la porta d’ingresso mi passarono di fianco. All’improvviso una spaccatura e il mio piede affondò tra le assi di quel vecchio ponte. Iniziò ad aprirsi, pezzi frastagliati che cadevano e venivano spazzati via, finché non 7


rimasi appesa a un frammento di legno marcio, i miei piedi penzolanti sull’acqua. Se fossi caduta, sarei stata spazzata via anche io. Alla fine, non riuscii più a resistere. Proprio mentre stavo per precipitare, mi svegliai sobbalzando, madida di sudore. Mi misi a sedere sul bordo del letto, con il cuore che mi martellava così violentemente che temevo che mi avrebbe abbandonata. Avrei dovuto capirlo già allora. Nonna Ruth diceva sempre che sognare di acque melmose è segno di sventura.

DOUG

La notte scorsa avevo chiuso la porta dell’affumicatoio dove la sanguinaria è conservata in scatole di cartone, lontana da topi e insetti. Stavo in piedi con la schiena appoggiata alla porta, scrutando il prato. La casa era buia con i miei genitori che dormivano e tutti i miei fratelli che se ne erano andati. Oltre il filo spinato, il pascolo aveva creato una catena di collinette illuminate dalle stelle. Portai la musetta, appesantita dalla biada, fino al fienile, con le gambe tremanti. Le mucche erano già state vendute e il campo era silenzioso, ma dal fienile giungevano dei colpi irregolari. Era Wild Rose, che non dorme mai. Papà ha dovuto sistemarla lì perché scappava sempre più spesso. E io credo di sapere il perché. Myra Lamb se ne è andata da casa sua e dalla montagna e Rose va a cercarla. Mi avvicinai all’apertura buia del fienile e accesi la mia torcia. I colpi si fermarono all’improvviso. Sentivo che Wild Rose mi aspettava nascosta nell’oscurità della sua stalla. L’odore di letame e fieno umido mi rivoltava lo stomaco. Addentrandomi nel fienile, vidi lo splendore riflesso nei suoi vitrei occhi azzurri e pensai di tornare indietro. «Rose, ti ho portato qualcosa di buono da mangiare.» 8


Mentre mi avvicinavo lungo il corridoio, la cavalla non mosse un muscolo, come se sapesse quello che stavo per fare. Non le è mai piaciuto essere toccata, ma di solito lascia che le agganci la musetta. Ho sperato che il sapore dolce del grano potesse nascondere quello amaro di ciò che avevo usato per correggerlo. «Hai fame?» facevo fatica a sentire la mia voce coperta dal battito del mio cuore. Una parte di me non riusciva a credere a ciò che stavo per fare. Forse mi trovavo ancora a letto, in pieno sonno. Wild Rose fece qualche passo in avanti. Riuscivo a sentire il suo respiro farsi strada a fatica attraverso i canali umidi delle sue froge. In un qualche modo, prima ancora che caricasse, sapevo che mi aveva scoperto. Schizzò fuori dalla porta del suo box nello stesso modo in cui era fuggita fuori dal traino la prima volta che l’avevo vista, in una tempesta di schegge e zoccoli scalpitanti, con un nitrito che minacciava di spaccarmi la testa in due. Lasciai cadere la musetta e la torcia e serrai le mani alle orecchie. Sentii il passaggio caldo del suo corpo come un treno merci che sfreccia nell’oscurità, la sua forza era capace di atterrarmi. Poi svanì nel nulla, attraverso la porta del fienile e su per le colline, lasciandomi a terra in una marea di cereali e sanguinaria.

BYRDIE

Quand’ero ragazza vivevo oltre un’altra montagna in un posto chiamato Chickweed Holler. Fino all’età di dieci anni, mamma e io abitavamo con la nonna, e due delle sue sorelle, Della e Myrtle. Ero solita rannicchiarmi in braccio alla nonna per studiare il suo volto e seguirne i lineamenti con il dito. Fu una donna snella ed energica fino al giorno in cui morì di ictus, mentre tornava a piedi verso casa dopo aver 9


aiutato a far nascere il bambino di qualcuno. Myrtle aveva capelli soffici e bianchi come la peluria di un soffione, che mi lasciava pettinare e arricciare per lei. Erano tutte donne attraenti, ma Della era certamente la più bella. I suoi capelli rimasero neri fino alla fine della sua esistenza, e non aveva tante rughe come la nonna. Forse perché non aveva mai dovuto lavorare duramente sotto il sole. Era la più giovane e Myrtle e la nonna la coccolavano ancora, nonostante fosse anziana come loro. Dopo la morte di mio padre, c’eravamo soltanto io a la mamma, così la nonna ci prese con sé. Vivevamo in una piccola baracca con un portico adagiato su dei paletti. Mi piaceva giocarci sotto, dove tenevano vasi di vetro per le conserve, i grovigli di fili elettrici arrugginiti e tutto quel genere di lerciume in cui potevo sguazzare. Chickweed Holler era un posto selvaggio, esteso, circondato da montagne che si ergevano ripide. Dalla porta della nonna si potevano vedere, in lontananza, campi di fiori selvaggi che ondeggiavano quando la brezza estiva li accarezzava. Quella terra apparteneva alla nostra famiglia da generazioni, e la nonna e le mie prozie l’amavano come avrebbero amato qualsiasi altro membro della famiglia. Tutto il vicinato conosceva il mondo della nonna e delle sue sorelle. Rappresentavano ciò che chiamareste “le anziane”, e gli abitanti di Chickweed Holler si rivolgevano a loro per qualsiasi genere di aiuto a cui si possa pensare. Ciascuna di loro aveva doni diversi. Myrtle era ciò che, così mi capitò di sentire, viene definita una rabdomante. Era in grado di trovare una falda acquifera nei terreni di chiunque con l’aiuto della sua forcella. Le persone venivano a cercarla da lontano. A volte venivano a prenderla, lei imbracciava il rametto biforcuto che teneva sotto il letto e saltava sulla loro macchina. Poteva star via per giorni interi ogni volta, a seconda di quanto difficoltoso fosse il suo viaggio. Della 10


invece era la migliore a creare rimedi curativi. Era in grado di dare un nome a qualsiasi radice o erba che le venisse indicata. Era anche molto brava a guarire gli animali. Poteva sistemare la gamba rotta del cane da caccia più irascibile senza nemmeno essere morsa. Un giorno la vidi in giardino china sul lavatoio, intenta a strofinare, e un uccellino si posò sulla sua spalla. Vi rimase a lungo. Se se n’era accorta, non lo dava a vedere. Rimasi lì ferma immobile, cercando di non farlo spaventare. Quando più tardi lo dissi alla nonna, lei rispose che gli animali sono attratti dalle persone come noi, e così lo sono quelli come noi. Ammiccò e disse: «Non sorprenderti se il ragazzo che sposerai possiede il dono. Le persone con il dono si attraggono a vicenda.» Ho sempre ricordato le sue parole, ma non penso che Macon abbia avuto nessuno dei doni che la nonna e le sue sorelle avevano. Nemmeno io. È singolare come il tocco si muova all’interno di una famiglia. Non si può mai dire chi sarà la persona ad averlo. La nonna però aveva il dono più bello. Diceva di poter mandare il suo spirito fuori dal corpo. Diceva: «Potresti chiudermi in una prigione o seppellirmi viva. Non ha importanza dove sia questo vecchio corpo. La mia anima volerebbe fuori ovunque io volessi.» Mi raccontava di quando una volta, da bambina, cadde in un crepaccio e non riuscì più a risalire. Si era allontanata da casa e sapeva che mamma e papà non avrebbero potuto sentire le sua grida. Aveva guardato il sole tra le radici penzolanti come capelli sporchi e aveva desiderato così ardentemente di volare fuori da lì che il suo spirito si era staccato, innalzato e aveva iniziato a librarsi verso la sua piccola casa nella vallata. Fu allora che si rese conto di quale fosse il suo dono. Quel giorno, non ricordava di essere rimasta intrappolata in una buca. Ricordava solo di aver visto sua madre mentre stendeva l’impasto per i biscotti, giocava con il suo cucciolo e raccoglieva margherite per intrecciare 11


una corona. La nonna non stava nemmeno urlando quando un cacciatore arrivò dov’era lei e il suo cane la trovò. Ecco il dono che io vorrei avere. Tornerei a Chickweed Holler ora per vedere se tutto è rimasto uguale.

DOUG

Non serve poi così tanto veleno per uccidere un cavallo, contrariamente a quello che la gente pensa. Basta soltanto sapere cosa dargli. Qualche foglia di oleandro, un po’ di sorgo, un pizzico di fiordaliso giallo e un cavallo soffoca ancora prima che il veterinario riesca a vederlo. Lega il tuo cavallo a una robinia o a una pianta di Prunus virginiana e lo vedrai morire nel giro di qualche minuto. Anche la sanguinaria è pericolosa per i cavalli. Quando arriva la primavera, ne abbiamo un intero tappeto che cresce lungo il pendio della nostra montagna e che rifiorisce sotto la volta ombrosa degli alberi proprio sopra casa nostra. Bisogna camminare un po’, ogni anno, prima di trovarla. Papà dice che, adesso, una tale abbondanza è piuttosto rara. Mio fratello Mark, papà e io avevamo l’abitudine di andare a cercarla muniti di vanghe e di un sacco, con i nasi rossi per gli ultimi strascichi d’inverno. La sanguinaria può essere raccolta anche in autunno, ma le foglie in quel periodo sono già cadute, e quindi diventa difficile riconoscere dove sono le piante. Ecco perché ci mettiamo in cammino all’inizio della primavera, quando i fiori sono sparsi per le pendici come lo strascico di un abito da sposa. Dovevamo stare attenti però a non rovinarne le radici. Quando Mark e io eravamo piccoli, papà ci rimproverava se eravamo troppo bruschi. «State gettando via del denaro!» Ci insegnava a liberare le radici dal terreno che vi era rimasto attaccato e a spazzolare via le cimici e staccare ogni erbaccia che vi era rimasta ingarbugliata. Poi dovevamo fare in fretta, 12


perché la sanguinaria ammuffisce facilmente. Tornavamo giù dalla montagna con le nostre sacche, pronti a innaffiare le radici con la canna dell’acqua attaccata al rubinetto del pozzo, per lavare via tutta la terra. Una volta che le radici erano pulite le mettevamo per una settimana ad asciugare in un affumicatoio. Il papà o uno di noi controllava di tanto in tanto che non ci fossero tracce di muffa, e quando si rompevano senza piegarsi, allora voleva dire che erano abbastanza secche per essere messe via. A volte riuscivamo a venderle fino a dieci dollari alla libbra. Ho sentito dire che la sanguinaria è ottima per curare la laringite difterica e viene anche utilizzata per trattare alcuni tipi di cancro. Ne teniamo un po’ per noi, da utilizzare per neutralizzare l’edera e curare le verruche. So che la sanguinaria può conservarsi sino a due anni se mantenuta in un luogo buio e fresco. E so che può uccidere un cavallo. Papà me lo disse la scorsa primavera, l’ultima volta che andammo sulla montagna per raccoglierla. Era il mese di marzo e faceva ancora abbastanza freddo da riuscire a vedere il nostro respiro fumare. Papà si trascinava pesantemente al mio fianco mentre Mark ci precedeva perché, anche se ormai siamo entrambi cresciuti, deve sempre essere il primo. Udimmo i colpi degli zoccoli di Wild Rose ancora prima di vederla. «Maledetto cavallo» disse Mark. Si alzò arrampicandosi su una lastra di roccia con l’aiuto di un alberello. «È scappata di nuovo.» Papà scosse il capo ma vidi un abbozzo di ghigno sotto la sua barba. La sua amata Rose non poteva sbagliarsi. Non lontano sulla montagna vedemmo la sanguinaria, una macchia di pizzo bianco ricoperto di foglie morte. Wild Rose sbucò fuori dagli alberi vicino a quella manciata di fiori e si fermò per guardarci, scudisciando la coda. La sua bellezza mi lasciò senza fiato. 13


«Credo di non averla mai vista così lontano da casa» disse Mark. «Deve essere in cerca di qualcosa da mangiare quassù che non riesce a trovare giù al pascolo. Credi che abbia bisogno di vitamine, papà?» Wild Rose ci scrutò con indifferenza per un altro secondo o due, poi chinò il capo per pascolare l’erba vellutata accanto al fazzoletto di terra coperto di sanguinaria. All’improvviso papà balzò in avanti e alzò in aria le braccia. «Via Rose!» urlò. «Va’ via!» Wild Rose si voltò e fuggì in mezzo agli alberi con la coda alta. «Dannazione papà» disse Mark. «Mi hai spaventato a morte.» «Non ci vuole molta di quella sanguinaria per uccidere un cavallo» disse papà. Si raddrizzò il berretto a calza e raccolse il sacco che aveva lasciato cadere. Andò avanti con Mark, ma io rimasi fermo a lungo a seguire Rose con lo sguardo. «Questo è un lavoro da fare in tre, Douglas» mi chiamò alla fine papà. Li raggiunsi e mi inginocchiai con loro tra i fiori.

BYRDIE

C’erano altre persone in famiglia che possedevano il dono, ma alcune non lo utilizzavano per buoni propositi. La nonna diceva sempre che possono capitare cose spiacevoli se non si è onesti con il Signore. Ogni volta che parlava in quel modo, mi immaginavo che si riferisse a sua cugina, Lou Ann. Molti pensavano che Lou Ann non ci stesse del tutto con la testa, ma non c’era alcuna giustificazione per il suo essere così insopportabile. Anche lei era una donna anziana, ma la maggior parte dei suoi vicini non andava da lei a meno che non si vergognassero di andare anche dalla nonna, da Della e da Myrtle. Capitava a volte che una ragazza andasse da 14


Lou Ann per liberarsi di una gravidanza indesiderata. Lou Ann sapeva quale tipo di radice utilizzare. E non si rifiutava nemmeno di operare un maleficio su qualcuno. Quando il mio bisnonno morì, lasciò il miglior appezzamento di terra alla nonna e alle sue sorelle. La cosa fece quasi impazzire di rabbia Lou Ann. Disse alla nonna che avrebbe gettato un maleficio su di loro e che non sarebbe stato spezzato fino a quando, nella nostra famiglia, non fosse nato qualcuno con gli occhi color celeste.1 Il celeste è una tonalità particolare che scaccia gli spiriti maligni e interrompe i malefici. La nonna disse: «Quel vecchio demonio sa bene che all’interno della nostra famiglia per generazioni non è nato nessuno con gli occhi celesti.» Era vero, tutti noi avevamo occhi castani o verdi. Lou Ann si spinse fino alla casa della nonna per pronunciare il suo maleficio, poi risalì la collina e chiuse la porta della sua piccola baracca appollaiata su una sporgenza e non parlò mai più con la nonna o con le prozie. A volte la vedevo seduta sulla sua veranda e anche se non riuscivo a distinguerne i lineamenti così da lontano, avevo la sensazione che i suoi occhi malvagi mi perforassero. Dopo che ebbe pronunciato il suo maleficio, così disse la nonna, cose orribili iniziarono a capitare a lei e alle sue sorelle. La nonna, Myrtle e Della persero i loro mariti in tempi ravvicinati, e due dei figli di Della nacquero morti. La casa di Myrtle bruciò dall’altra parte della valle, ed ecco il motivo per cui venne a stare con 1 Nel testo originale: haint blue. Non si tratta di una sfumatura specifica ma al contrario la somma di una gamma di sfumature. La tonalità prevalente è l’indaco. In tutto il mondo pare sia usanza comune che un’intensa tonalità di azzurro sia simbolo di protezione. I Maya dipingevano le lo loro mura di un colore azzurro intenso. La leggenda narra che questo colore sia stato portato negli Stati Uniti dagli schiavi che credevano avesse la capacità di tenere a bada gli spiriti maligni. Nel Sud degli Stati Uniti infatti, haint significa spirito, come derivazione del termine haunt. Ecco perché ancora oggi molte abitazioni hanno le porte, le finestre o anche semplicemente i profili colorati di azzurro. Non essendo un colore specifico, viene tradotto con celeste, perché è il colore del cielo all’orizzonte in una giornata tersa. [N.d.T.]

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la nonna. Sebbene io abbia perso tutti i miei cinque figli, non credo nei malefici. Ma fui comunque felice la prima volta che vidi Myra aprire quei grandi occhioni celesti per guardarmi. Dopo la morte di Lou Ann, la nonna e le prozie dipinsero le porte e i davanzali della casa di celeste, per tenere lontano il suo vecchio spirito malvagio. Ogni volta che quel colore iniziava a sbiadire per via delle intemperie, tiravano fuori il barattolo di vernice e davano una ripassata. Mamma diceva che lo mantennero vivo fino a quando l’ultima di loro, Myrtle, passò a miglior vita all’età di novantadue anni, dopo che, molto tempo prima, io avevo sposato Macon e mi ero trasferita a Bloodroot Mountain.

DOUG

Papà pensa di conoscere quel cavallo meglio di chiunque altro, soltanto perché l’ama più di tutti. Ma nessuno conosce Wild Rose meglio di me e, a volte, penso di odiarla. Ormai la studio da anni. Molte volte ho cercato di entrare nel suo corpo, desiderando di sapere come fare per entrare in quello di Myra Lamb. Sono rimasto attaccato al recinto e ho osservato Wild Rose pascolare per la montagna, una sagoma scura contro il cielo pallido poco prima del tramonto, e ho mandato il mio animo attraverso quel verde mare ondulato in cerca di una breccia, fosse anche attraverso i condotti lacrimali di quegli occhi blu vitrei, anche attraverso i canali rumorosi del suo naso ricoperto di peli, oppure attraverso l’erba che strappa dal suolo e che macina tra i suoi enormi denti squadrati. Per la maggior parte del tempo Wild Rose resta lontana qualche metro a capo chino, e mi guarda. La sua coda è sempre in movimento, scaccia le mosche, ma so che sono io ciò su cui si sta concentrando. Da tempo sa che sto progettando qualcosa, da prima dello scherzo della scorsa 16


notte con la sanguinaria, ossia da quando ho avuto la certezza che Myra si era sposata. Credo di aver voluto avvelenare Wild Rose sin dal giorno in cui la vidi ferma accanto alla macchia coperta di sanguinaria. Lei probabilmente capisce tutto di me, guardandomi semplicemente in faccia. Scommetto che ha notato come non sorrido o parlo molto a causa del mio dente davanti, rotto e annerito dalla carie. Papà non ha mai avuto i soldi per portarci dal dentista quando eravamo bambini, e da quando sono adulto, non ci sono mai andato. La verità è che questo dente mi mette a disagio, ma sarei comunque più imbarazzato a farlo rimettere a posto. I miei fratelli direbbero che sto cercando di farmi più bello per trovarmi una fidanzata. Una buona parte di me è stata felice quando, uno dopo l’altro, sono andati via di casa. Quattro di loro si sono diretti a nord per lavorare nelle fabbriche, due si sono arruolati nella guerra in Vietnam. Per molto tempo restammo soltanto Mark e io, fino a quando si è arruolato anche lui. Adesso la casa è malinconica, ma almeno non sono più lo zimbello dei miei fratelli. Il mio dente si ruppe quando avevo sette anni. Successe un sabato durante il quale io e papà eravamo andati a Millertown in cerca di lacci per le scarpe. Ci andavamo ogni settimana, nel caso in cui avessimo più o meno bisogno di qualcosa. Papà era più loquace durante quelle gite del sabato che negli altri giorni della settimana. Fischiettava e tamburellava sul volante del furgone per tutta la strada che conduceva giù dalla montagna. Ripensandoci adesso, forse aveva bisogno di quel momento di lontananza dalla fattoria e da tutte quelle preoccupazioni che ne derivavano. Non lascerà mai Bloodroot Mountain perché i Cotter ci hanno vissuto per intere generazioni, ma mi domando se abbia mai desiderato liberarsi veramente di questo posto e andare avanti. 17


Prima di andare a Knoxville con papà una volta per comprare una lavatrice, Millertown allora per me rappresentava la grande città. Adesso la vedo per ciò che realmente è, una cittadina di campagna con vecchie case e appezzamenti cosparsi di vetro e le ciminiere di fabbriche dall’aspetto lurido che sovrastano tutto quanto. Gli edifici di Main Street stanno cadendo in rovina, ma hanno ancora una certa peculiarità, con quelle finestre lunghe e mattoni dipinti e accessi ad arco. Persino nel 1963, quando avevo sette anni, poche persone ormai facevano compere lì. Dopo che fu costruita Millertown Plaza, con un supermercato e un grande magazzino, il centro iniziò a sembrare decadente. C’era soltanto il negozio di ferramenta degli Odom, un negozio di prodotti scadenti, il droghiere, un negozio di scarpe, un negozio per la riparazione dei televisori e un ristorante malridotto dove gli scarafaggi zampettavano lungo i bordi dei laceri separé in vinile. Ci sono persone che pensano ancora che Main Street però sia il cuore della città. C’è un gruppo di signore dai capelli azzurrati che si impegna nel mantenimento di quella che loro definiscono la parte storica. Papà faceva ancora compere laggiù quand’ero ragazzino, perché era abituato così. È sempre stato piuttosto abitudinario e ci volle un po’ di tempo prima che la Plaza lo persuadesse. Il sabato in cui il mio dente si ruppe, saltammo sul camion e ci dirigemmo fuori come al solito. Normalmente Mark sarebbe venuto con noi, ma quel giorno si trovava in castigo per essersi comportato male in chiesa. Papà e io eravamo stati al negozio di prodotti a buon mercato alla ricerca di lacci per le scarpe e stavamo superando il ferramenta degli Odom per andare a pranzo, quando vidi un cartello in vetrina che pubblicizzava la vendita di un catorcio. Papà si fermò per osservare il cartello e decise di fermarsi per dare un’occhiata all’auto. Disse che forse gli sarebbe tornata utile per dei pezzi di ricambio. Lui è fatto così. Gira per tutta la campagna a 18


mercanteggiare con gli altri uomini che sono come lui, silenziosi e burberi con in testa berretti unti e cicche di tabacco infilate in bocca. Non importa quanto mamma si agiti, lui guida da un capo all’altro del Tennessee in cerca di rottami o, se fiuta qualche affare, persino fuori dallo stato. Una volta su due torna con cose di cui non abbiamo bisogno e che non possiamo utilizzare. Una volta tornò con una scatola di martelli, un’altra volta ancora, tornato a casa, scaricò dal camion un vecchio monociclo. Quella volta mamma andò veramente su tutte le furie. Aspettammo fino a dopo pranzo per vedere la macchina. Papà si prese tutto il suo tempo e bevve due tazze di caffè. Io invece bevvi un milkshake al cioccolato. Usciti dal ristorante, Main Street era deserta perché il sabato tutti quanti chiudevano presto. Fui sopraffatto da una sensazione di vuoto. Saltammo sul camion e ci dirigemmo verso una casa dalle finestre superiori scure e con mobili vecchi sistemati sulla veranda. Avrebbe anche potuto essere di prestigio se non avesse avuto un’aspetto così fatiscente. Quando papà suonò il campanello, un uomo venne fuori e disse che l’auto si trovava nel giardino sul retro. Chiamò papà per nome come se già si conoscessero, ma io non riuscii a dare un nome al volto di quell’uomo. Girammo attorno alla casa e vedemmo l’auto con il cofano spalancato sollevata su dei blocchi in mezzo a una massa incolta di erbacce. Papà attraversò il giardino dietro l’uomo, per poter dare un’occhiata più da vicino. Io invece rimasi a bighellonare attorno con le mani in tasca, augurandomi che si mettessero subito a trattare. C’erano dei giocattoli sul prato ma nessuna traccia dei bambini a cui appartenevano. Era un posto triste e volevo soltanto andarmene a casa. Vagavo lungo il limite del prato curiosando nell’appezzamento del vicino. Era cosparso di immondizia quasi come una vera discarica. Indugiai per un po’, sognando a occhi aperti e persi nel vuoto. 19


A un tratto la zanzariera della porta di servizio della casa si aprì e poi si chiuse di colpo. Mi voltai e vidi un ragazzo che scendeva i gradini di cemento con un pallone da basket sotto il braccio. Era più grosso di me, alto, con i capelli scuri e la pelle bianca. Palleggiò un paio di volte su un punto scosceso del terreno prima di accorgersi di me. Quando mi vide al limite del giardino, si bloccò e mi guardò con occhi sospettosi. Io non sapevo come parlare con altri bambini che non fossero i miei fratelli, così sperai che tornasse a giocare per i fatti suoi. Il mio cuore si fermò quando si avvicinò e mi rivolse la parola. «Ehi» disse, e fece rimbalzare la palla tra noi un paio di volte. «Ehi.» Mi guardò per un minuto, così intensamente che sentii le mie orecchie avvampare. «Vuoi vedere una cosa?» domandò il ragazzo infine. «Cosa?» «Uno scheletro.» Non risposi. Pensai si stesse prendendo gioco di me. «Non uno scheletro umano, scemo. Quello di un cane.» «Ah.» «Lo vuoi vedere o no?» «Dove sta?» «Laggiù.» Indicò con la testa verso una zona ricoperta di erbacce. «Okay.» Lanciò di nuovo la palla in giardino mentre io la guardavo rimbalzare un po’ prima di fermarsi vicino a un’altalena arrugginita. Ancora oggi, non so perché io l’abbia seguito. Ebbi un brutto presentimento sin dal primo istante in cui mi studiò con i suoi occhi perfidi. Ci avventurammo tra le erbacce e più ci allontanavamo dalla casa più cresceva in me la sensazione di ansia. Guardai alle mie spalle verso papà e l’altro signore, chini sotto il cofano della macchina. 20


«Voglio tornare indietro» dissi al ragazzo. «Andiamo. È proprio qui sopra» insistette. Mi afferrò per il braccio e mi trascinò giù per un sentiero cosparso di vetri, dopo un ammasso di pattume bruciacchiato e un vecchio materasso da cui fuoriusciva parte dell’imbottitura. Alla fine arrivammo al confine del terreno, dove alberi scuri si ammassavano accanto a una recinzione sgangherata. Volevo piangere, ma riuscii a trattenermi. C’erano delle ossa davanti a me, che risaltavano bianche in un groviglio di rampicanti verdi. Il ragazzo mi guidò afferrandomi per le spalle, fino a quando lo scheletro non fu ai miei piedi. Voleva spaventarmi, ma le ossa del cane non erano così terribili una volta viste più da vicino. Erano avvolte da una cortina di ipomoea e i fiori le rendevano quasi belle. Ma un cane morto non era la cosa più interessante che giaceva in quella macchia erbosa. Quando mi inginocchiai per dare un’occhiata allo scheletro più da vicino, qualcosa di luccicante attirò il mio sguardo. Scintillante tra le erbacce accanto al teschio del cane, vidi la punta di una pietra che, come una lapide, faceva capolino dalla terra. Immediatamente, mi disinteressai delle ossa e mi allungai per toccare la pietra. A quel tempo, Mark e io collezionavamo quarzo. Chiamavamo i pezzi brillanti che trovavamo “diamanti di campo”, e quello era indubbiamente il più grosso che avessi mai visto. Il diamante di campo era sepolto per metà e all’inizio non voleva saperne di muoversi. Il ragazzo si inginocchiò per vedere cosa stessi facendo e subito mi aiutò a dissotterrare la pietra con le dita. Iniziai a temere che potesse reclamare la proprietà di quel tesoro dal momento che aveva svolto parte del lavoro, così fui determinato a essere io a tirarla fuori. Diedi un ultimo strattone e improvvisamente mi ritrovai il quarzo tra le mani. Spazzai via la terra rossiccia e restammo a guardarlo, il ragazzo si chinò sopra la mia spalla. Avevo 21


sempre desiderato qualcosa di prezioso soltanto per me. Da quanto potevo ricordare, Mark aveva sempre ottenuto tutto grazie alla sua voce insistente, più latte, più caramelle, più giocattoli. Era di due anni più grande di me ma si comportava come un poppante, sempre a sbraitare fino a quando non otteneva quello che voleva. Per la maggior parte delle volte, io ne facevo volentieri a meno piuttosto che essere come lui. Ma questa volta, volevo il premio tutto per me. «Fammelo vedere» disse il ragazzo. Non appena aprì la bocca, lo capii. Lo avrebbe rubato e sarebbe corso via come avrebbe fatto Mark, e io non l’avrei mai più rivisto. Nonostante il ragazzo mi incutesse un certo timore, bloccai la mia mano su quel pezzo sporco di qualcosa di speciale e dissi: «È mio.» «Dammelo» disse il ragazzo. La sua voce era abbastanza calma, ma riesco ancora a vedere l’espressione terribile del suo volto. Le mie budella si trasformarono in gelatina. Avrei dovuto lasciare la mia pietra, ma non ne fui capace. Cercò di aprirmi le dita forzandole, ma riuscii a liberare il pugno e fuggii. Lo udii rincorrermi e, prima di rendermi conto di quello che stava succedendo, il ragazzo mi aveva già atterrato. La mia testa rimbalzò sul terreno come aveva fatto la sua palla da basket e tutto il fiato mi rantolò fuori dai polmoni. Mi accorsi a malapena del male che faceva. Tutto quello che feci in tempo a sentire fu la pietra che volava fuori dalle mie mani. Rotolai e cercai di trovarla tra l’erba, ma il ragazzo l’aveva già afferrata. Avrebbe potuto prenderla e andarsene via. Ero troppo spaventato per lottare. Gliel’avrei data. Ma il ragazzo non fu soddisfatto dal rubarmela semplicemente. Si mise a cavalcioni su di me e fu allora che vidi qualcosa di inquietante nei suoi occhi, qualcosa di più che semplice cattiveria. Indietreggiò appena con il pezzo di quarzo e me lo scaraventò sulla bocca. Ci fu un lampo di acuto dolore e devo anche aver gridato 22


perché ricordo che i nostri papà accorsero. Ci volle un’eternità prima che ci raggiungessero. Il ragazzo disse che ero caduto e che avevo sbattuto la bocca su una roccia. Non smentii la sua storia fondamentalmente perché la mia bocca frantumata doleva troppo per parlare. Non so se papà e l’altro signore gli abbiano creduto. Sembravano più preoccupati per il sangue che sgorgava sulla mia maglietta. Non mi ero accorto, fino a quando non fummo in macchina per andare dal dottore, che il mio dente si era rotto. Forse fu allora che mi resi conto, in un qualche angolo del mio intimo, che non era il mio destino avere qualcosa di selvaggio e prezioso come quel diamante di campo tutto per me. E anche se avessi potuto comprarlo, come papà comprò Wild Rose anni dopo, non sarebbe mai stato veramente mio.

BYRDIE

Vorrei potermi ricordare meglio di Chickweed Holler, ma di certo accaddero certe cose che non potrò mai dimenticare. Mi piaceva andare in cerca di acqua con Myrtle e la sua forcella. Talvolta, quando doveva spostarsi a piedi verso un luogo non troppo lontano, potevo lasciare la vallata per un po’ e vedere qualcosa di nuovo. La pianta dei miei piedi era solita prudere la notte e Myrtle diceva sempre che voleva dire che i miei piedi un giorno avrebbero camminato su una terra sconosciuta. Ecco come mai mi portava con sé. Pensava che io dovessi viaggiare. Una volta mamma mi lasciò andare nella contea vicina con Myrtle e dovemmo accamparci per la notte. La mamma era preoccupata ma Myrtle disse: «Vedrai, ci divertiremo un sacco.» Al calar del sole ci fermammo per riposarci sotto un albero solitario in un campo aperto. Per tutto il giorno avevamo camminato e parlato. A Myrtle era facile fare domande, per23


ché parlava allo stesso modo con chiunque, non le importava che età avesse il suo interlocutore. Per tutta la giornata fu proprio come Myrtle aveva detto alla mamma. Ci stavamo divertendo un mondo. Ma quando ci fermammo per la notte in quell’enorme campo solitario, nessuna casa in vista nel raggio di miglia, iniziai a sentire la mancanza della nonna e della mamma. Myrtle doveva aver capito che stavo per mettermi a piangere. Disse «Vieni, piccola Byrdie. Accendiamo un fuoco. Ho portato alcune castagne da arrostire.» L’idea delle caldarroste servì a sollevarmi un po’ il morale, e raccogliere rametti distolse la mia mente dalla nostalgia di casa. Ben presto avevamo acceso un bel focherello. Ci mettemmo a fissare le fiamme mentre il buio iniziava lentamente a coprire la coltre erbosa. Era difficile distogliere lo sguardo dalla sua luce, anche se gli occhi dolevano. Poco dopo, Myrtle iniziò a rovistare nella tasca del suo vestito. Pensavo che tenesse delle castagne là dentro, invece estrasse un rametto di qualcosa di fronzuto. Lo sollevò affinché potessi vederlo alla luce del falò. «Che cos’è?» domandai. «Questa è la mia erba preferita» disse. «E sai perché?» Quando sorrideva la sua bocca le scopriva le gengive prive di denti. I suoi occhi riflettevano le fiamme e iniziai ad avere un po’ di timore. Volevo mia madre più che mai. «Si chiama mirto, proprio come il mio nome.» «Oh» dissi. «Ma dove sono le castagne?» «Ancora un minuto, piccola Byrdie. Voglio mostrarti una cosa. Se getti questo mirto nel fuoco, il volto di chi sei destinata a sposare si materializzerà nel fumo.» Dapprima la guardai. Non volevo vedere una faccia dentro al fumo, ma non volevo neppure deludere la mia prozia Myrtle. Andava sempre in giro a vantarsi di quanto grande e intelligente fossi. Mi porse il ramoscello e dopo un minuto lo afferrai. Guardai le fiamme che evocavano nella mia men24


te l’immagine di serpenti arancioni danzanti. Il mio cuore iniziò a battere forte. Gettai il mirto nelle fiamme prima di potermi tirare indietro e il fuoco si ridusse quasi a nulla. Io e Myrtle restammo a fissarlo come in preda a un incantesimo, in attesa che succedesse qualcosa. Inizialmente il fumo prese a salire, lento, denso e nero. Dapprima non riuscii a distinguere nulla, ma poi lo vidi. C’erano un paio di occhi neri che mi guardavano. Volevo indietreggiare dal fuoco ma le mie gambe non erano di alcun aiuto. Dal fuoco poi si formarono un naso dritto, una bocca sottile e alcune ciocche fluttuanti di capelli neri corvini. Ero così spaventata da non riuscire a respirare. Quando finalmente ripresi il controllo delle mie gambe, mi allontanai dal falò e iniziai a correre. Abbassai le brache e mi accovacciai per fare pipì sull’erba prima di farmela addosso. Myrtle venne a controllare come stavo e io cercai di non piangere mentre tornavamo verso il fuoco. Non disse nulla ma sapevo che si sentiva in colpa per avermi spaventata in quel modo. Mi attirò a sé e mi strinse forte prima che ci addormentassimo per la notte. Mi dimenticai completamente di quel volto per anni, fino a quando vidi John Odom per la prima volta. Non era il viso del mio futuro marito quello che si era materializzato dal fuoco e che mi guardava. Era il marito di mia nipote Myra.

DOUG

Avevo dodici anni quando Wild Rose arrivò a casa a bordo di un rimorchio. Papà aprì il portellone e lei scappò fuori come un baleno. Di fronte a una tale potente creatura di Dio, restai impalato in un timore reverenziale. Era facile intuire come Lui l’avesse creata con amore, intagliando le sue froge vellutate con il Suo strumento più delicato, scolpendo ogni 25



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