gratuit numéro 37 - février 2014
INCHIESTA
VIAGGIO
Une passione Matsuri, giorno autentica pag. 4 di festa pag. 28
gratuito - numero 1 - febbraio - maggio 2016
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Benvenuti in Giappone
Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
ZOOM EDITORIALE
Dopo aver lanciato sei anni fa ZOOM Japon in Francia e ZOOM Japan in Inghilterra nel 2012, siamo lieti di invitarvi a scoprire il primo numero italiano del nostro magazine. Zoom è gratuito e ha l’ambizione di aprirvi le porte del mondo giapponese offrendovi una vasta scelta di articoli vari e originali sui diversi aspetti della società nipponica e della sua cultura. Forte della sua anima indipendente, ZOOM Giappone ha un obiettivo: suggerirvi approfondimenti e nuove chiavi di lettura per comprendere meglio il Giappone, senza rinunciare alla distanza critica necessaria per garantire una pubblicazione di qualità. Composto da giornalisti e fotografi professionisti, lo staff di ZOOM Giappone vi dà il benvenuto e vi augura buona lettura !
LA REDAZIONE redazione@zoomgiappone.info
L o SGUARdo dI ERIc REchStEINER Quartiere di Shibuya, Tokyo
© Eric Rechsteiner
Benvenuti
Nonostante il baseball rimanga uno sport molto popolare, il football suscita un vero entusiasmo, in particolare fra i giovani. In questa mattina soleggiata di dicembre 2015, si sta giocando una partita su un terreno riservato a chi risiede a Shibuya, uno dei quartieri più centrali della capitale. Gli abitanti possono affittare il terreno per 7000 yen (54,9 euro) l’ora. Una tariffa tutto sommato alta, ma incapace di scoraggiare gli appassionati di pallone.
Copertina : Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
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Passione autentica L’interesse degli Italiani verso il Giappone e quello dei Giapponesi verso l’Italia vanta remote e profonde radici storiche.
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e gli Europei nutrono un profondo interesse verso il Giappone, la colpa va senza dubbio attribuita a Marco Polo! Il mercante veneziano, dopo aver esplorato per più di vent’anni l’Oriente seguendo itinerari rimasti in parte velati dal mistero, ha tratteggiato un’immagine talmente affascinante dell’arcipelago che per secoli gli Europei hanno desiderato scoprire le sue
preziose meraviglie. Diversi manuscritti originali del suo celebre Milione, redatto a Genova nel 1298, sono giunti fino a noi : Marco Polo riferisce che il Giappone era ricco di oro e di tesori. Probabilmente, Polo stesso aveva subito l’influenza del geografo persiano Ibn Khordadbeh, che aveva evocato, fin dall’886, l’esistenza del paese dei «Wakwak, talmente ricchi che gli abitanti utilizzano l’oro per fabbricare le catene dei cani e i collari per le scimmie». Il veneziano non parla del paese dei Wakwak, ma impiega il termine Cipango, che sarà utilizzato per
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lungo tempo dai cartografi, a partire dal momento in cui inserirono il Giappone nelle loro mappe. La parola deriva dal cinese Jih-pen-kuo (Paese del Sol Levante) che il mercante ha poi ritrascritto a sua maniera e imposto al resto del mondo per secoli. Nonostante non abbia avuto la fortuna di andarci, la descrizione che Marco Polo fa del Giappone suscitò numerose brame di conquista. Bisogna attendere circa due secoli perché il genovese Cristoforo Colombo lasci le coste meridionali spagnole nel 1492, verso ovest, alla ricerca dei tesori della leggendaria Cipango. Sappiamo che non raggiunse mai il Giappone, ma che scoprì il Nuovo Mondo. «E così non arriverò mai a Cipango e alle sue isole d’oro e di neve che scorgo là, a portata di mano» gli farà dire il poeta francese Paul Claudel, sottolineando in questo modo come il vero obiettivo di Colombo fosse il Giappone. Il navigatore veniva da contrade dove Cipango aveva fatto sognare generazioni di mercanti e di viaggiatori. Se Marco Polo o Colombo fossero giunti sul suolo giapponese prima dei Portoghesi nel 1542, avrebbero senza dubbio trovato numerosi punti in comune tra il Giappone e quei territori che non costituivano ancora l’Italia ma sarebbero diventati italiani di lì a qualche secolo, seguendo il fluire della storia. La prima cosa che li avrebbe colpiti sarebbe stato il Monte Fuji, simile al suo alter ego nella penisola italica, l’Etna. Questo, d’altra parte, non sfuggì all’orientalista Fosco Maraini (vedi pp. 6 a 8) che, nel suo formidabile Ore giapponesi (1957) si avventurò in un interessante paragone tra i due vulcani. «Entrambe sono formazioni recenti ma l’Etna ha l’aria di un vecchio; il Fuji è l’immagine stessa della gioventù, le sue linee suggeriscono il movimento, lo slancio. L’Etna è potente, fa pensare a un gigante pieno di saggezza, talvolta incute timore, come il prigioniero di un destino oscuro. Il monte Fuji è flessuoso, fiero e impettito come una spada, invita all’audacia», scriveva. Maraini aggiungeva che «l’Etna è il tempo popolato da ombre senza fine. I suoi emblemi sono l’olivo, il castagno, la ginestra, tutte piante legate alla storia delle civiltà e ai sogni dei poeti, poi la vigna, che dispensa agli uomini dolci languori. L’Etna appartiene da sempre profondamente a questo mondo. Al Fuji sono più consoni i pini selvatici del Kinokai, la cenere o la neve. Il Fuji, come la poesia, aspira al cielo e non si sa mai con certezza se appartenga a questo mondo o a quell’altro, forse si tratta di un misterioso kami (dio)?» Questi due potenti vulcani incarnano perfettamente l’animo dei loro rispettivi Paesi. È una fra le ragioni per cui i Giapponesi hanno sviluppato un interesse per l’Italia, della quale hanno imparato progressivamente ad apprezzare la cultura e la storia antica. La civiltà romana suscita la loro ammirazione, manifestano verso di essa una sincera curiosità. Esistono numerose opere sulla Roma antica e, in questi ultimi anni, il successo di diversi manga ispirati a questo
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Per molto tempo, il Giappone ha fatto sognare i navigatori attirati dalle sue ricchezze. La colpa fu di un certo Marco Polo.
periodo storico hanno confermato l’infatuazione del pubblico nipponico per l’Italia e per il suo passato. Oltre a Thermae Romae di Yamazaki Mari (vedi pp. 9 a 11) che ha conquistato un pubblico estremamente vasto, si può citare Cesare di Soryo Fuyumi, il cui lavoro sui Borgia ha valso all’autore un successo internazionale. Il Rinascimento è ugualmente un momento importante per i Giapponesi, oggi sempre più interessati a questa epoca. Nel corso di questo periodo gli Italiani hanno sognato le meraviglie di Cipango raccontate da Colombo. L’amore dei Giapponesi per la raffinatezza fa sì che il Rinascimento e l’arte italiana in generale siano sovente al centro delle loro passioni culturali. Questo interesse trova le sue radici storiche in una data precisa : il 1579, con l’arrivo del gesuita Alessandro Valignano. Una delle iniziative più importanti del missionario consisté nell’inviare in Europa quattro giovani cristiani giapponesi, originari di Nagasaki, tra il 1582 e il 1590. Questi ebbero l’occasione di frequentare diversi artisti e di portare con sé al ritorno il gusto e l’interesse per l’arte rinascimentale, che da allora non si è mai spento. A tal punto che la presenza della Monna Lisa, capolavoro del Da Vinci,
al Museo nazionale di Ueno dal 20 aprile al 10 giugno 1974 creò un incredibile clamore. Più di un milione e mezzo di persone si misero in coda per scoprire il sorriso misterioso della Gioconda, operastar di una mostra entrata nella storia. I Giapponesi sono anche appassionati di musica classica e di opera. Fra le opere che hanno inciso sui rapporti con l’Italia figura evidentemente Madama Butterfly di Giacomo Puccini. L’opera si è imposta a lungo come il riflesso della condizione della donna giapponese, sottomessa e pronta a suicidarsi per ripicca. Mito femminile a parte, Madama Butterfly è il frutto di un importante lavoro di ricerca da parte del compositore. Puccini ha interrogato diversi specialisti della cultura nipponica e ha trascritto melodie inviate da una sua amica in Oriente, la moglie dell’ambasciatore italiano a Tokyo. Il risultato è stato un trionfo e ha contribuito a rafforzare i legami tra Oriente e Occidente, come testimonia il manifesto italiano del 1904 (vedi pag. 4). Al piacere della vista e a quello dell’udito, si è aggiunto gradualmente quello del palato. Se i Giapponesi sono celebri per essere fini buongustai e per aver privilegiato a lungo la cucina francese, giudicata più esclusiva e
raffinata, in questi ultimi anni, crisi oblige, nel Paese del Sol Levante hanno cominciato a trascurare les tables in favore dell’itameshi, la cucina italiana. Questa si è rivelata più adatta al Giappone degli anni 1990-2000, meno elaborata e sinonimo di «convivialità, calore e…prezzi ragionevoli» . Gli spaghetti hanno trovato il loro posto nei menù dei caffè fin dagli anni Venti, ma è durante l’occupazione americana dopo il 1945 che i GI di origini italiane hanno reso popolare la salsa di pomodoro di cui i Giapponesi sono ghiotti. L’amore verso la cucina mediterranea è talmente forte che il numero dei ristoranti italiani è in costante aumento da una decina d’anni. Nel 2014, se ne contavano 7917 contro 6348 nel 2005. La tendenza non è reciproca poiché venivano recensiti soltanto 630 ristoranti giapponesi in Italia nel 2014. Tuttavia, la storia delle relazioni dimostra che esistono molteplici punti in comune fra i due Paesi. In molti continuano ad alimentare questa passione. L’oro di Marco Polo si è trasformato in una ricchezza ancora più grande, rappresentata dalla profonda amicizia che lega i due popoli. ODAIRA NAMIHEI
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Le mie ore giapponesi
Dacia Maraini ricorda l'infanzia passata in Giappone e il forte rapporto che lega la sua famiglia al Paese del Sol Levante.
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C ’è stato un periodo, tanti anni fa, in cui Dacia Maraini parlava correntemente giapponese avendo passato più di dieci anni in Giappone, da bambina. Questa esperienza, sotto molti aspetti così straordinaria, ha segnato indelebilmente la sua vita. La scrittrice ha ricordato per Zoom Giappone alcuni degli episodi felici e drammatici che l’hanno legata così strettamente a quel Paese.
Come è nato l’interesse di suo padre, Fosco Maraini, per il Giappone? Dacia Maraini: Mio padre da ragazzo era molto interessato all'Oriente in generale. La sua prima esperienza orientale l'ha fatta in Tibet. Poi ha avuto la fortuna di vincere una borsa di studio per il Giappone messa a disposizone dalla Kokusai Gakuyu-kai, un’agenzia del governo giapponese, ed è partito.
La borsa di studio vinta da suo padre richiedeva un lungo soggiorno in Giappone. Sua madre come visse questa decisione? In fin dei conti si trattava di abbandonare l’Italia per qualche anno e andare all’avventura in un paese sconosciuto.
BIOGRAFIA FIGLIA DELL’ETNOLOGO toscano Fosco Maraini e della principessa e pittrice siciliana Topazia Alliata, Dacia Maraini è nata nel 1936. Fra il 1939 e il 1946 vive in Giappone, passando gli ultimi tre anni in campo di concentramento. Al ritorno in Italia, dopo la separazione dei genitori, va a vivere a Roma con il padre. È qui che comincia a scrivere e che riscuote il suo primo successo con il romanzo La vacanza (1962). Fra i suoi maggiori successi, Isolina (1985, Premio Fregene), La lunga vita di Marianna Ucrìa (1990, Premio Campiello), Bagheria (1993), e la raccolta di racconti Buio (1999, Premio Strega). Nel 2001 esce La nave per Kobe in cui ricorda attraverso il diario della madre l’esperienza familiare in Giappone.
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Quella di andare in Giappone alla fine del 1938 è stata una sua scelta precisa oppure un’opportunità nata per caso? D. M.: Fosco voleva andare via dall'Italia fascista che non amava. Ha colto l'occasione della borsa di studio per partire, per allontanarsi anche dal padre con cui aveva litigato, sempre per ragioni politiche (il padre, Antonio, scultore, sosteneva il regime fascista e avrebbe voluto che il figlio lo seguisse nelle sue idee).
Dacia Maraini ha conservato numerosi ricordi del suo passaggio in Giappone
D. M.: Mia madre era giovane e coraggiosa. Sebbene avesse una bambina di appena un anno, ha deciso, senza tentennamenti, di seguire il giovane marito, di cui condivideva lo spirito di avventura, la gioia di viaggiare, e anche la profonda antipatia per il fascismo. Quali sono i suoi primi ricordi del Giappone? D. M.: Sono ricordi molto belli. Mio padre aveva l'incarico di studiare una popolazione del nord del Giappone, gli Ainu – svolse una serie di ricerche sulla loro arte e religione tradizionali i cui risultati sono stati pubblicati a Tokyo nel 1942 in un’importante monografia – e così abbiamo passato il primo periodo in Hokkaido. Mi ricordo la piccola casa di legno nella città di Sapporo, il calore di una famiglia unita e amo-
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revole, i tanti amici giapponesi, la bellezza della neve e del paesaggio. Sono ricordi che ancora mi commuovono. Com’era la vita quotidiana in Hokkaido? Mi può dare un esempio di una sua giornata tipo? D. M.: Io andavo all'asilo, su uno slittino di legno, tirato da mia madre. Ho anche una foto di noi due sulla neve. Un'altra foto mi ritrae con mio padre che mi aiuta a infilare un paio di piccoli sci e stiamo uscendo dalla finestra perché la porta era sepolta sotto la neve. Nevicate così non ne ho viste più. Avevo una tata giapponese, Masako Morioka, detta Okachan. Parlavamo giapponese anche in casa. Io ho presto imparato a esprimermi in dialetto. Mangiavamo alla giapponese, vestivamo alla giapponese. Mio padre
ZOOM INCHIESTA voleva che ci integrassimo. E come si usa in Giappone, facevamo anche il bagno tutti insieme nelle grandi vasche di legno piene di acqua bollente. Com’erano i suoi rapporti con i Giapponesi? D. M.: Ottimi, come ho già detto. Okachan, poi, era una piccola seconda mamma per me.
dacia Maraini
Questa è una breve citazione da un’intervista rilasciata da sua madre: «a Nord, non lontano da Sapporo, la nostra vita scorreva lenta e prevedibile. Ricordo inverni freddissimi». Sicuramente la vista di tanta neve avrà fatto una grande impressione su di lei. D. M.: Non solo su di me. Infatti quando è nata mia sorella l’hanno chiamata Yuki che vuol dire “neve”. La neve riempiva veramente la mia vita, ma non in senso negativo. Ho imparato allora ad amarla e la amo ancora. Per me la neve ha qualcosa di poetico e magico. Mi piace come copre le cose rendendole dolci e morbide. Mi piace il silenzio che crea. Mi piace la luce che spande.
Mieko Namiki Maraini
Dopo l'8 settembre del 1943 il governo giapponese chiese agli Italiani che erano in Giappone di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò e tutti quelli che rifiutarono – compresi i suoi genitori – furono messi in un campo di concentramento. Questa parte della sua vita è già piuttosto nota ai lettori, ma mi piacerebbe sapere come avete vissuto – lei e sua sorella Yuki – questa esperienza. Come fanno due bambine di 7 e 4 anni ad adattarsi ad una simile situazione? D. M.: È stata un'esperienza traumatica. Ricordo che mi stupivo ogni sera di essere ancora viva. Siamo rimasti in campo di concentramento due anni, prima a Tenpaku, nella città di Nagoya, e poi nel tempio di Kosaiji, in campagna. Eravamo un piccolo gruppo formato da una quindicina di Italiani. La nostra famiglia nel frattempo era cresciuta perché nel 1941 era nata la mia seconda sorella, Toni. Soffrivamo la fame, fino al delirio. Pare che il governo giapponese mandasse abbastanza da mangiare per i prigionieri ma i guardiani del campo sequestravano e rubavano quello che toccava a noi, facendoci vivere ai limiti della morte. Fra l'altro per noi bambine
dacia Maraini
Presumo che lei essendo ancora piccola partecipasse poco alla vita mondana dei suoi genitori. Ha dei ricordi particolari? D. M.: I miei genitori non facevano vita mondana. Frequentavano prevalentemente gente dell'università. La sera si riunivano con studenti e giovani intellettuali. C’era anche qualche straniero, come un medico francese che aveva un figlio della mia età con cui giocavo.
Dacia Maraini in compagnia della sua baby sitter giapponese e circondata da amici per i suoi 3 anni. La scrittrice ha scoperto il Paese che aveva profondamente conquistato il padre Fosco. febbraio - maggio 2016 Anno I - N. 1 ZOOM GIAPPONE 7
dacia Maraini
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Tempaku, l’universo nel quale ha vissuto Dacia Maraini.
non era previsto proprio niente. I guardiani costringevano gli altri prigionieri a dare un cucchiaino di riso a noi bambine. Mia madre ci teneva a dire che lei e noi figlie eravamo internate perché, separatamente da mio padre, anche lei aveva deciso di non aderire alla Repubblica di Salò. Quindi fame, parassiti interni ed esterni, freddo. E poi i maltrattamenti: per esempio era proibito ai prigionieri appoggiarsi al muro. Per noi, che eravamo terribilmente indeboliti dalla scarsa nutrizione, era una tortura non poterci appoggiare alla parete o allo schienale di un sedile. Provavamo a sostenerci appoggiandoci gli uni agli altri, ma anche questo era proibito dai sadici guardiani. A Tenpaku siamo rimasti fino a quando i bombardamenti si sono fatti più frequenti e letali e la casa in cui stavamo è quasi crollata. Poi ci hanno trasferito nel tempio di Kosaiji in campagna. Lì siamo rimasti fino alla fine della guerra.
tando. Ricordo le filastrocche giapponesi e Okachan che ci portava ai giardini raccontando storie di fantasmi. Dopo la guerra invece ricordo sopratutto le macerie. A Tokyo non c’era nulla, nemmeno una casa in piedi. Si vedeva da una parte all’altra della città. E poi il senso di felicità per la libertà conquistata, la gioia di non dovere continuamente scappare dalle bombe, di non dovere stare tutto il tempo a schiacciare le pulci e di potere riempire lo stomaco rattrappito dalla fame. Io fra le macerie ci giocavo, tanto che una volta io mi sono anche ferita cadendo. Suo padre è tornato più volte in Giappone dopo la guerra, e questa fu una delle cause della separazione da sua madre. Che cosa lo attirava maggiormente di quel Paese? Che tipo di rapporto lo legava così strettamente alla società e alla cultura giapponesi? D. M.: Fosco era molto affezionato al Giappone, tanto da studiare a fondo la lingua e la cultura, tanto da sposare una giapponese. Lo considerava una seconda patria.
Com’erano i vostri rapporti con gli altri prigionieri? Il senso di solidarietà è sopravvissuto agli stenti e alla durezza della prigionia? D. M.: I rapporti con gli altri prigionieri erano buoni, salvo qualche momento di tensione. Si era creata una forma di solidarietà intensa, che poteva essere disturbata da qualche bisticcio (uno degli anziani, che soffriva di più, tendeva a rimproverare i giovani, e questo suscitava qualche battibecco) ma niente di più. C'era molta compattezza fra i prigionieri che cercavano in tutti i modi di procurarsi qualche resto, rubato nell'immondizia, o di ascoltare le notizie alla radio calandosi dalla finestra di notte.
Le faccio questa domanda anche perché dalle foto che ho visto e da quello che ho letto di suo padre, sembrava essere una persona solare, molto aperta, anticonformista e allergico all’autorità – in altre parole molto diversa da tanti Giapponesi. D. M.: Non sempre ci si innamora di chi ci assomiglia. Lui amava forse proprio la diversità della cultura giapponese, così portata al tragico, così seria e profonda.
Quali sono i suoi ricordi di Tokyo prima della prigionia e dopo la liberazione? D. M.: Prima della prigionia non ricordo molto perché ero una bambina piccola. Ricordo una scuola inglese, e io che imparavo l'alfabeto can-
Negli ultimi anni – soprattutto l’anno scorso che è stato il settantesimo anniversario della fine della guerra – alcuni dei veterani alleati, all’epoca prigionieri dei Giapponesi, hanno partecipato a cerimonie commemorative in
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Giappone. Ancora oggi alcuni di loro fanno fatica a perdonare i Giapponesi per quello che avevano subito. In una recente intervista lei ha dichiarato che «le offese, la durezza, i traumi sono stati una parte tutt'altro che trascurabile della mia infanzia» e penso che si riferisse anche, forse soprattutto, al periodo trascorso in campo di concentramento. Ciononostante mi sembra che in seguito lei sia riuscita a separare questa esperienza dal giudizio sul popolo giapponese in generale. Che cosa mi può dire in proposito? D. M.: Io ho imparato proprio nel campo di concentramento che una cosa erano le guardie e un'altra cosa la popolazione giapponese che con noi è sempre stata gentile e affettuosa, cominciando da Morioka-san che è venuta a trovarci al campo sfidando le proibizioni e i maltrattamenti dei militari. Io, quando potevo, mi infilavo fra i fili spinati e andavo a lavorare presso i contadini dei dintorni che poi mi compensavano con una patata o un uovo. Per noi erano doni preziosi. Comunque ho sempre trovato persone gentili e generose che non mi hanno mai denunciata alle guardie e la mia impressione è che fossero tutti stufi della guerra e anelassero alla pace. A che livello è rimasta legata al Giappone nell’età adulta? È più tornata in Giappone dopo la guerra? D. M.: Certo, sono tornata molte volte e sempre con piacere. Hanno tradotto alcuni miei libri. Hanno rappresentato un mio testo teatrale che ha avuto molto successo. Si tratta di Maria Stuarda che è stata tradotta e rappresentata per anni di seguito. I diritti sono stati comprati dall’Agenzia internazionale Tuttle Mori. Anche quest'anno mi hanno scritto che hanno rimesso in scena il testo teatrale. INTERVISTA DI GIANNI SIMONE
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Giapponese per caso
Yamazaki Mari racconta le sue picaresche (dis)avventure fra Italia e Giappone.
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a quando Thermae Romae è diventato un best seller internazionale, la fumettista Yamazaki Mari conduce una doppia vita: in Italia se ne sta sempre chiusa in casa lavorando freneticamente a tutti i suoi progetti, mentre ogni qual volta torna in Giappone ha l’agenda piena di impegni (interviste, incontri con le scuole e apparizioni in TV). Fortunatamente ha trovato il tempo di parlare anche con Zoom Giappone. Il suo ufficio di rappresentanza è nascosto in un tranquillo quartiere della periferia di Tokyo, non lontano da Shibuya, ed è lì che l’abbiamo incontrata alla vigilia di Capodanno. Come ammette lei stessa con uno sguardo furbo, «quest’anno sono riuscita a scappare dall’Italia e da tutte le feste e gli obblighi di fine anno». Mi parli un po’ di questa sua famiglia così particolare. Yamazaki Mari: Direi molto particolare. Mio nonno ha lavorato in America per circa dieci anni e mia madre – che è poi diventata musicista classica – è cresciuta con una mentalità un po’ filo-occidentale. È cattolica e io stessa sono stata battezzata. Lei avrebbe voluto studiare all’estero e forse ha realizzato in me il suo vecchio sogno. A quanto pare anche il suo bisnonno era piuttosto eccentrico. Y. M.: Infatti. Essendo un signore feudale non aveva bisogno di lavorare e passava il tempo coltivando i suoi interessi per la cultura occidentale. In seguito, dopo l’apertura del porto di Yokohama (dove viveva la mia famiglia) nell’epoca Meiji (1868-1912) ha addirittura assunto un italiano perché gli insegnasse la musica classica. Quindi io sono la degna figlia di questa strana famiglia. Mia madre si è accorta presto che ero così diversa
e mi ha consigliato di vivere all’estero: secondo lei ero troppo “strana” per adattarmi a vivere in Giappone, che per molti versi è una società molto rigida e conformista. Da bambina è mai stata presa di mira dai compagni di scuola per questo motivo? Y. M.: In realtà no, perché gli altri mi vedevano come una straniera o un’aliena. Ero cioè così diversa da essere completamente al di fuori del loro mondo. È per questo che ogni volta che mi invitano a parlare in una scuola io dico agli studenti: «se per qualche motivo avete problemi ad integrarvi nel gruppo (cosa molto importante in Giappone) allora tanto vale sviluppare fino in fondo le vostre particolarità».
In altre interviste lei ha raccontato di come la sua avventura italiana sia cominciata a 14 anni quando, durante una vacanza in Europa, ha incontrato un signore italiano che le ha cambiato la vita. Però non tutti sanno che questo rapporto è continuato negli anni e ha avuto interessanti ramificazioni... Y. M.: È vero. Questo signor Marco che ho incontrato in treno non riusciva a capacitarsi di come una madre potesse mandare la sua figlia quattordicenne in vacanza da sola all’estero. Fra l’altro agli occhi di un Italiano, una Giapponese di 14 anni ne dimostra 10. E così ha voluto che
al mio ritorno in Giappone mia madre gli scrivesse per confermare che ero tornata a casa sana e salva. Da qui è nata un’amicizia fra loro due (anche Marco era musicista) e si sono messi d’accordo per farmi studiare in Italia. Tutto questo quasi senza chiedere il mio parere. Il fatto che io sia finita in Italia è quindi una pura coincidenza. A 17 anni sono andata a casa sua, a Bassano del Grappa, per poi trasferirmi definitivamente a Firenze l’anno dopo. Immagino che sia rimasta in contatto con questo signore. Y. M.: Con lui e con la sua famiglia – sempre però tramite mia madre – tanto è vero che diversi anni dopo avrei sposato suo nipote, molto più giovane di me (all’epoca del mio arrivo a Firenze aveva solo due o tre anni). Mia madre me ne parlava spesso, mi diceva che come me era un tipo molto strano (guarda caso anche lui grande appassionato di epoca romana) e che eravamo fatti l’una per l’altro. Quindi in un certo senso è stato un matrimonio combinato (ride). All’inizio ha avuto problemi di ambientamento? Come si è adattata alla vita in Italia? Y. M.: Per i primi 11 anni trascorsi a Firenze (prima di tornare momentaneamente in Giappone) è stato un problema dall’inizio alla fine. Per qualsiasi cosa era una lotta continua. Non conoscevo nessuno e all’epoca a Firenze ci saranno stati sì e no una ventina di Giapponesi. Anche economicamente mia madre non poteva aiutarmi molto, perciò ho dovuto sempre lavorare per mantenermi agli studi. Ho fatto la guida turistica, la commessa in una gioielleria, addirittura la ritrattista per strada. Poi c’erano i miei problemi personali: stavo con un ragazzo che si considerava un poeta e in quanto tale era allergico al lavoro – al suo, non al mio. Per il resto però era un ambiente molto stimolante, molto diverso dalle scuole d’arte giapponesi che sono ancora relativamente chiuse. Si parlava apertamente di politica e di tante altre cose. Pensi che il primo film che mi hanno portato a vedere è stato Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini!
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ZOOM INCHIESTA Se ho capito bene dall’età di 17 anni ha vissuto quasi sempre all’estero. Y. M.: Più o meno sì, a parte i cinque anni in cui sono tornata in Giappone. Quando sono rimasta incinta ho deciso di tenere il bambino, ma allo stesso tempo ho lasciato il mio ragazzo e sono tornata a casa di mia madre. Erano gli anni ’90 e ho notato subito che l’Italia era molto di moda fra i Giapponesi. Quindi il lavoro non mi è mai mancato. C’era chi mi chiedeva di insegnare italiano o di parlare dell’Italia, fino a quando mi hanno chiesto di fare dei fumetti sull’Italia. La cosa interessante è che sempre in quel periodo ho lavorato per una televisione locale. Il mio lavoro consisteva nel visitare ogni settimana un diverso bagno termale nel nord del paese. Per me era un lavoro da sogno perché amo le terme e a Firenze avevo sempre vissuto in case che avevano solo la doccia. Tutte le esperienze accumulate con questo lavoro mi sarebbero servite nella stesura di Thermae Romae.
Effettivamente anche in Giappone, nonostante l’industria del fumetto sia enorme, sono pochi quelli che ce la fanno. Y. M.: Infatti dei cinque finalisti a quel primo concorso a cui ho partecipato solo io ho continuato. In parte mi ha aiutato il fatto che fino ad allora non avevo mai letto fumetti, non avevo nessun modello a cui ispirarmi, così le mie storie e il mio stile sono sempre stati molto particolari. In Italia finora oltre a Thermae Romae è uscito solo PIL che è molto diverso sia come tema che come stile. PIL può essere considerato almeno in parte una storia autobiografica? Y. M.: Sicuramente. Al liceo mi piaceva veramente il punk, mi ero rasata la testa e volevo diventare una musicista. L’idea è partita dal mio redattore che pensava che questa storia avrebbe potuto incoraggiare tanti giovani Giapponesi che si sentono diversi a essere se stessi infischiandosene di quello che pensa la gente. Sinceramente non so perché la Rizzoli abbia deciso di tradurre proprio questa
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Quando Thermae Romae è uscito, da quanto tempo lavorava come fumettista? Y. M.: Ho iniziato a 28 anni, quando sono tornata in Giappone. La pittura ad olio che avevo studiato in Italia non è un lavoro molto remunerativo e un mio compagno di Accademia mi consigliò di provare a fare fumetti. Così ho partecipato ad un concorso per nuovi talenti in Giappone e sono arrivata in finale. Visto che avevo vissuto a Firenze ho scelto una storia ambientata in Italia. Forse mi hanno scelta anche per questo motivo. Però per diversi anni ho dovuto fare anche altri lavori, come ho già detto, e ho cominciato a dedicarmi seriamente al fumetto solo dopo essermi trasferita a Lisbona con mio marito.
La cultura italiana non é mai troppo distante da Yamazaki Mari.
storia. Personalmente preferirei che la gente leggesse altre mie cose. Lei in realtà voleva diventare una musicista, non un’artista. Che rapporto ha mantenuto con la musica? Y. M.: Anche a mia madre sarebbe piaciuto, ma naturalmente non una musicista rock! Anche adesso ogni tanto suono con il mio collaboratore, Tori Miki. Abbiamo scoperto di avere gli stessi gusti e due o tre volte all’anno facciamo dei concerti a Tokyo, più che altro per divertimento.
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Ho letto con molto divertimento Italia Kazoku Furin Kazan [lett. “Famiglia italiana. Vento, foresta, fuoco, montagna”, abbreviazione del motto scritto sullo stendardo che il signore feudale Takeda Shingen usava in battaglia], uno dei due libri che ha dedicato alla sua famiglia italiana. Quanto è fedele alla sua vita privata? Y. M.: È tutto vero (ride) anche perché alla fine la realtà è sempre più interessante della finzione e la famiglia di mio marito è veramente stravagante. La cosa divertente è che quando mia suocera è venuta a sapere di questo libro (nonostante io
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Adesso che vive di nuovo in Italia, come si sente ogni volta che torna in Giappone? Y. M.: Questa è una domanda interessante perché è vero che il Giappone ancora oggi, nonostante la superficiale internazionalizzazione, vive in un certo senso in uno stato di isolamento. Spesso mi chiamano per rilasciare delle interviste o mi invitano a dei programmi perché sono una persona che in qualche modo riesce a vedere il proprio paese dall’esterno, in modo più oggettivo. L’altro giorno, ad esempio, ero in TV alla NHK e il tema era “perché in famiglia non si parla mai di politica? Perché le donne non parlano di politica?”. In Italia è una cosa normale ma in Giappone è ancora un tabù. Un’altra cosa che mi spaventa è come di recente stiano proliferando programmi TV che celebrano il Giappone soprattutto in opposizione agli altri paesi. Lo stesso Thermae Romae è stato visto da molti lettori come una sorta di autocelebrazione del Giappone e della sua tecnologia. Questo non era affatto il senso che volevo dare alla storia, anzi. Probabilmente se il pubblico avesse saputo cosa intendevo fare, ossia una presa in giro dei Giapponesi, non avrebbe venduto così tanto. Sempre sul tema di Roma antica lei ha collaborato con Tori Miki, famoso autore di fu-
Mario Battaglia per Zoom Giappone
avessi fatto di tutto per tenerlo nascosto) mi ha chiesto di tradurglielo pagina per pagina. Io mi sono sentita morire, perché nel libro la prendo spesso in giro. Così abbiamo letto insieme tutti questi episodi della nostra vita familiare – tutti veri, ripeto – ma alla fine lei mi ha guardato e mi ha detto con una certa gravità, «eh sì, ci sono davvero delle persone così». Non si è proprio riconosciuta in quel personaggio – per fortuna. Mio marito ha capito tutto subito, naturalmente. Devo comunque dire che oggi anche in Giappone le mamme più giovani mostrano maggiormente il loro attaccamento ai figli. Non è più come una volta.
Nel suo ufficio di Tokyo, i riferimenti alla Roma antica sono numerosi.
metti, alla creazione di Plinius [Plinio il Vecchio]. Come è andata questa collaborazione? Y. M.: In realtà collaboravamo già dal sesto e ultimo volume di Thermae Romae, quando avevo capito che non riuscivo più a fare tutto da sola e rispettare le scadenze mensili della rivista era diventato quasi impossibile. Così lui si è offerto di aiutarmi. Per me è stata una liberazione anche perché sapevo che lui era bravissimo. Da allora in poi io mi sono concentrata sulla sceneggiatura e i personaggi mentre lui ha curato gli sfondi e le scenografie. Il problema è che lui è talmente preciso che quando mi manda le sue pagine mi tocca correggere tutti i miei disegni perché non si integrano bene con i suoi sfondi. Invece di farmi risparmiare tempo a volte mi fa lavorare di più.
Mi può parlare del suo ultimo progetto sul Rinascimento? Y. M.: È nato come una raccolta di saggi ma adesso sto lavorando anche alla versione a fumetti, sempre con Tori Miki. Il Rinascimento è il mio campo di specializzazione, è un tema che sento molto vicino, e volevo un po’ sfatare l’immagine dell’artista rinascimentale che si ha in Giappone – quella di un genio dalle qualità quasi divine. In fin dei conti queste persone erano degli artigiani che lavoravano sempre con l’assillo di produrre qualcosa, magari su commissione, un po’ come i fumettisti. Queste storie usciranno su una rivista d’arte, non di fumetti. INTERVISTA DI MARIO BATTAGLIA
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Un italiano sulla via dello Zen
Alberto Daijo Pitozzi medita sulle scelte che l'hanno condotto alla vita monastica in Giappone.
I
l distretto di Tsurumi, incastrato nell’angolo nord-orientale di Yokohama, non è esattamente una bella zona. Distrutto più volte dai terremoti e dai raid aerei americani, è diventato dopo la guerra il maggiore centro industriale della metropoli giapponese. Ma se ci si allontana di circa mezzo chilometro dalla stazione omonima si scopre uno stupendo esempio di architettura buddhista che è allo stesso tempo uno dei maggiori centri religiosi del Giappone. Sojiji è uno dei due templi principali della scuola buddhista Zen Soto. All’interno del suo vasto complesso (un quadrilatero irregolare di 3,3 chilometri quadrati) sorgono sette edifici secondo la tradizionale struttura shichido garan. In origine Sojiji era stato costruito nella prefettura di Ishikawa, sulla costa occidentale del Giappone. Alla fine dell’800 un incendio lo distrusse quasi completamente e l’abate dell’epoca colse l’occasione per trasferire il tempio a Yokohama e diffondere l’insegnamento della scuola Zen Soto. Oggi è la principale scuola buddhista in Giappone con ben 17.000 templi diffusi in tutto il paese. Chiunque ha libero accesso al tempio e infatti molti vengono qui per godersi la quiete e la serenità del posto. È in questa singolare oasi di pace che incontro Alberto Pitozzi, un bresciano che un anno fa è diventato monaco buddhista. Alberto – che è stato ribattezzato Daijo – mi racconta la sua vita mentre mi guida attraverso il corridoio lungo 164 metri che collega gli edifici del Sojiji. Ogni tanto interrompe la nostra conversazione per salutare altri monaci che vengono dalla direzione opposta. «Ho lasciato Brescia per Milano dove mi sono iscritto al Politecnico per studiare design industriale. Ho incontrato però subito una persona che mi ha aperto le porte dell’attività teatrale, che era poi quello che volevo fare veramente. Così dopo soli sei mesi ho lasciato l’università. Dopo quattro anni ho conosciuto il grande mimo francese Marcel Marceau quando ha ricevuto a Mantova l’Arlecchino d’Oro. Quella è stata una grande rivelazione tant’è vero che un mese dopo sono partito per Parigi dove mi sono diplomato alla scuola di Marceau e per i successivi dieci anni ho vissuto lì facendo spettacoli». Mi pare che la tua vita sia stata plasmata e influenzata da tutta una serie di incontri. Alberto Pitozzi: È vero, è stata una successione di avvenimenti che improvvisamente hanno cambiato la mia vita. Solo dopo mi sono accorto che questa
cosa è molto vicina al concetto buddhista di goen: nel corso della tua vita ci sono dei momenti chiave e sta a te innanzitutto riconoscerli e poi decidere se questi momenti devono essere un’occasione di cambiamento oppure no. Ognuno di questi segni mi ha gradualmente indicato una strada, che era quella di diventare monaco e che, come ho capito alla fine, era la risposta alla domanda che mi ero fatto tutta la vita, cioè perché sono venuto al mondo. Tutte le mie esperienze passate (il teatro, la fotografia, ecc.) sono state modi diversi per rispondere a quella domanda, e ogni volta mi sono accorto che erano risposte insufficienti. In Italia ti eri già avvicinato al buddhismo? A. P.: Sì, avevo già fatto zazen (meditazione in posizione seduta) ma non in maniera sistematica. La prima volta addirittura a 16 anni (non mi ricordo nemmeno come ho saputo di questa cosa). Comunque secondo la leggenda (ride), dato che a scuola non andavo molto bene, la mattina mi sedevo sul letto a meditare sperando di potenziare la mia forza di concentrazione. Si può dire che c’è stata una sorta di attrazione inconsapevole. Dopo di che, anche negli anni successivi mi si è presentata più volte l’opportunità di “sedermi”. Procedendo lungo il corridoio, arriviamo alla Sodo (Sala di meditazione). È qui che tutti fanno zazen, consumano i pasti e dormono. La cosa che si nota immediatamente è il freddo intenso. Le sottili pareti in legno che separano l’interno dall’esterno è come se non esistessero e, come spiega Daijo, il calore umano è l’unica forma di riscaldamento. «In estate», aggiunge Alberto, «in compenso si muore dal caldo». Solo allora noto che la mia guida cammina in un paio di pantofole ma è senza calze. «La nostra vita è a piedi nudi, in qualsiasi condizione climatica. Come dicono i Giapponesi, shikata ga nai (pazienza, non c’è niente da fare). I piedi fanno male, anche adesso sono mezzi congelati (ride), ma a un certo punto ti ci abitui». Come spiega Daijo, «nella scuola Soto Zen il satori (illuminazione) non è un obiettivo e non c’è una pratica progressiva. Sedere in zazen per fare meditazione è già la realizzazione del satori. Non c’è niente da cercare perché in quella posizione c’è già tutto ciò di cui abbiamo bisogno; è un modo per liberarci progressivamente di tutti i filtri
INFORMAZIONI PRATICHE Sojiji offre tour guidati e sessioni di meditazione Zen in inglese, oltre a Shakyo (riproduzione a mano dei Sutra) e altri eventi. Per informazioni : 0081-45-581-6086 http://sojiji.jp/zenen/sanpai/zazen-english.html
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(l’ego, la cultura, le passioni, ecc.) che ci impediscono di vedere la realtà per quella che è. Non c’è niente di magico o di nascosto. È tutto già di fronte a noi. Sta solo a noi aprire gli occhi e vedere». Cosa si prova all’inizio a fare zazen? A. P.: All’inizio è un inferno perchè ti ritrovi seduto faccia al muro per 40-45 minuti e senti dolori dappertutto – le gambe, la schiena, le spalle. Cominci a maledire tutti quelli che ti stanno attorno e a chiederti perché lo stai facendo. Ma nessuno si muove e quindi anche tu cerchi orgogliosamente di resistere. Ci sono volte in cui l’unica cosa che ti sta davanti è il dolore. Poi però pian piano impari a lasciarti andare, fisicamente e spiritualmente. Un importante insegnamento che ho ricevuto è che devi aprire le mani, sia letteralmente che metaforicamente. Devi cioè essere sempre pronto a ricevere e accettare tutto quello che ti viene dato, per poi magari ripassarlo a tua volta. Questa apertura totale, questo “lasciarsi fare”, è la cosa più difficile da accettare. La nostra passeggiata ci porta all’edificio più vecchio del tempio, chiamato Hokodo (Sala delle luci splendenti). Gli edifici del Sojiji sono stati ricostruiti ex-novo nel 1911 (quando il tempio è stato trasferito a Yokohama) ma l’Hokodo è stato trasportato pezzo per pezzo dalla sua sede originale e rimontato qui. È in questa sala che Daijo lavora attualmente, seguendo un sistema secondo cui le mansioni vengono redistribuite ogni tre mesi. L’Hokodo è usato prevalentemente per le cerimonie commemorative e infatti la parete di fondo è piena di tavolette funebri di persone che hanno fatto una donazione al tempio. «Arriviamo a fare anche 12 cerimonie al giorno, sei al mattino e sei al pomeriggio», puntualizza Daijo. Il buddhismo come è entrato a far parte della tua vita? A. P.: Il primo incontro è avvenuto a 6-7 anni. Ero nel laboratorio di mio padre, nel tardo pomeriggio, e un Hare Krishna è entrato, tutto vestito di arancione, e mi ha dato una copia del Bhagavadgītā, il loro testo sacro. Io non avevo mai visto una persona simile e sono rimasto molto colpito ma la cosa è finita li. Ho cercato di leggere il libro ma naturalmente non ci ho capito niente. Saltando invece al passato recente, la pratica quotidiana l’ho iniziata nel 2014 in Italia, al Fudenji che è un tempio vicino a Parma, a Salsomaggiore. Sono stato lì 11 mesi praticando come laico perché non ero ancora stato ordinato monaco. Ci sono alcune diversità con il Sojiji perché ogni tempio è leggermente diverso dagli altri. Lo Zen non è una scatola chiusa. Al contrario è come il vento: si
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Per il monaco Alberto Daijo Pitozzi e i suoi confratelli, la giornata è ritmata da diversi momenti dedicati alla preghiera.
muove e si adatta a ogni circostanza. Ci sono naturalmente delle regole comuni ma i dettagli vengono plasmati dalla pratica quotidiana – cioè dalla vita stessa. La tua prima esperienza giapponese però risale a diversi anni prima, vero? A. P.: Sì, in Francia avevo sposato una Giapponese e nel 2002 siamo andati a vivere nell’isola di Sado, al largo della costa occidentale del Giappone, con lo scopo di entrare a far parte di Kodo, il famoso gruppo di percussioni giapponesi. Sado è una località in cui senti fortemente la presenza della natura. È un ambiente sotto certi aspetti estremo che ti mette alla prova. Le mie vicissitudini personali unite all’ambiente in cui mi trovavo mi hanno portato sull’orlo del suicidio e alla separazione da mia moglie. Era come se il dolore che provavo mi portasse verso l’autodistruzione. Anche in questo caso è stata la mia frequentazione dei templi buddhisti che mi ha fatto capire l’errore che stavo facendo. E allo stesso tempo mi ha offerto la soluzione: fare il monaco come modo per vivere non per me stesso ma per rivelare il pensiero del Buddha e trasmettere la mia esperienza a chi ne ha bisogno. Studiare la Via del Buddha significa studiare se stessi. E a sua volta studiare se stessi significa dimenticare se stessi.
Il tratto sotterraneo del corridoio ci porta al Butsuden che è il cuore del tempio poiché ospita il Buddha. È un posto molto bello e suggestivo. Tuttavia i visitatori non sono ammessi e anche i monaci (eccetto coloro che a turno vanno a fare le pulizie) possono entrarci solo in occasione di particolari cerimonie. Si dice che lo stile architettonico sia ispirato al tempio cinese in cui Dogen Zenji (il primo grande maestro Zen) ha incontrato il suo maestro e dove ha raggiunto l’illuminazione. È stato lì che ha trovato il vero buddhismo che poi ha deciso di diffondere in Giappone. La tappa successiva è la Daisodo (Grande sala dei fondatori), un’architettura mista in legno e cemento costruita nel 1966. Alta 36 metri e con un pavimento di 1000 tatami, il maestoso edificio è probabilmente una delle sale da cerimonia più grandi del Giappone. Siamo arrivati quasi alla fine del nostro giro e la storia di Daijo ci porta ai nostri giorni. «Nel novembre del 2014 sono tornato in Giappone dopo avere ultimato l’esperienza di Parma e sono andato a porgere i miei rispetti ad un tempio Zen da cui parte un sentiero storicamente famoso perché Gasan, abate di Sojiji nel Quattordicesimo secolo, lo percorreva quotidianamente. Sono arrivato a Yokoji e lì ho incontrato l’abate del tempio. In quel momento ero completamente libero, non avevo nessun legame, e parlando con lui gli ho
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chiesto di diventare mio maestro. Lui all’inizio ha avuto qualche dubbio ma alla fine l’ho convinto. Così mi sono fermato lì e il 3 febbraio dell’anno scorso mi ha ordinato monaco». I tuoi genitori come hanno preso questa cosa? A. P.: All’inizio ovviamente erano molto stupiti e soprattutto preoccupati perché avevano davanti l’immagine della clausura. Per loro io andavo a rinchiudermi in un monastero, ciò che gli sembrava incomprensibile, soprattutto conoscendo la mia precedente vita da nomade. Invece per me è tutto l’opposto: è una liberazione dalle costrizioni che impone la società. Io non potevo più accettarle e me ne sono tirato fuori. È stato anche il bisogno di rinascere a una vita più semplice e per me più autentica. E infatti la cerimonia di ordinazione del monaco è quasi un funerale, perché equivale a lasciarti dietro la tua vita precedente prima di rinascere con un nuovo nome. Quando sei stato ordinato monaco vivevi nella prefettura di Ishikawa ma adesso ti trovi qui per un periodo di studi e di formazione. Come è stata finora la tua vita al Sojiji? A. P.: Dopo la mia entrata formale sono stato una settimana a imparare le formalità del posto (ad es. come mangiare, come rispondere, ecc.). I
ZOOM INCHIESTA successivi tre mesi sono stati i più duri perché sono dovuto entrare nei ritmi di vita del tempio. Non avevo soldi perché avevo dovuto consegnare il mio portafoglio; non potevo comunicare con l’esterno perché non avevo il telefono; potevo mangiare solo quello che offriva la cucina del tempio (all’inizio ho perso dieci chili); e poi lavori in continuazione. Per noi dedicarci alla pulizia equivale a purificare il cuore dall’egoismo. Prendi ad esempio il corridoio che abbiamo percorso. È lungo 750 metri e dobbiamo pulirlo a lucido due volte al giorno. È proprio in questi primi tre mesi di formazione che capisci quanto tutti noi siamo dipendenti l’uno dall’altro perché arrivi ad un punto in cui la tua sola forza e determinazione non bastano più. È quando hai raggiunto i tuoi limiti che inizia la pratica vera e propria. Non solo questo: fra le altre cose noi siamo una specie di consiglieri spirituali per le persone con dei problemi. Quindi dobbiamo essere in grado di ricevere il peso degli altri. Come possiamo ricevere le sofferenze altrui se prima non le sperimentiamo di persona? È anche per questo che la nostra pratica a volte è così dura. All’inizio Daijo doveva rimanere al Sojiji fino alla fine di gennaio. Tuttavia l’amministratore del tempio ha chiesto al suo maestro di lasciarlo qui per un altro anno. «La cosa mi ha fatto molto piacere perché vuol dire che sono soddisfatti di me, anche se vivere qui è molto più impegnativo che a Ishikawa, soprattutto dal punto di vista fisico. In fin dei conti qui l’età media dei monaci in formazione è di 22 anni mentre io ne ho 42. Probabilmente verso la fine della mia permanenza entrerò nel dipartimento più duro – quello che si occupa della Grande sala delle cerimonie – perché ci si alza ogni giorno alle 2:30 e non si va a letto fino alle 23:00 o mezzanotte. In più, durante le cerimonie bisogna portare i libri dei Sutra. Ogni pacchetto di libri pesa dieci chili e i monaci adibiti a quel compito ne portano tre, a volte anche quattro».
Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
Uno dei tre principi fondamentali dello Zen Soto è la “non azione”. Tuttavia mi sembra che la vostra vita quotidiana sia una lunga serie di attività e cerimonie. Hai mai del tempo libero o uno spazio solo per te stesso oppure il concetto stesso di tempo libero non fa parte della vita di un monaco Zen? A. P.: Ti potrei rispondere dicendo che io sono libero per 24 ore al giorno; libero di fare quello che mi chiedono di fare. Nella pratica Zen non distinguiamo fra lavoro e non lavoro perché in realtà il nostro non è un lavoro genericamente inteso. È la nostra vita, e tu non puoi riposarti dalla vita. Nel momento in cui lo fai, muori. INTERVISTA DI JEAN DEROME
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ZOOM CULTURA FUMEttI Il
mal di Giappone di Igort
FILM Vecchi
Igort (al secolo Igor Tuveri) è l’unico autore italiano di fumetti ad avere collaborato in modo continuativo con Kodansha, il gigante editoriale dei manga. Questo gli conferisce automaticamente credibilità e lo stato di semidio fra gli appassionati del genere. In questi raffinati quaderni di viaggio e di memorie l’autore ci ricorda anche che essere accettato nel mondo dei fumetti giapponesi vuol dire talvolta subire i loro metodi di lavoro (una volta il suo editore lo costrinse a produrre 16 pagine al giorno per due settimane di fila per una storia che poi non venne nemmeno pubblicata). Disavventure editoriali a parte, questo libro è nello stesso tempo un viaggio nel Sol Levante e nella continua evoluzione stilistica di Igort, affascinato sia dalle stampe giapponesi che dall’immaginario futurista. Il tutto sintetizzato in un volume elegante e curato nei dettagli. Igort, Quaderni giapponesi. Un viaggio nell’impero dei segni, Coconino Press, 19 euro
Fino al 15 aprile il Centro di Cultura Giapponese di Milano organizza un ciclo di film che esplora in modo originale l’eredità del cinema giapponese. Intitolata Anime sulla strada, la rassegna non ha niente a che fare con l’animazione. In compenso i film sono tutti interessanti. Si va da pellicole recenti (La piccola casa dal tetto rosso di Yamada Yoji) a classici degli anni ’60.
L’arte culinaria giapponese a Genova
MoStRE
Fino al 26 giugno il Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova organizza TABEMONO NO BI Bellezza, gusto e immagine della tavola giapponese. Incentrata su sapori, riti e tradizioni della cucina nipponica, la mostra comprende circa 150 dipinti, stampe, porcellane, lacche e bronzi provenienti dalla collezione del museo. www.museidigenova.it/it/content/museodarte-orientale
e nuovi classici a Milano
Il programma include inoltre un paio di opere straniere (ad es. Hiroshima mon amour di Alain Resnais) e quattro cortometraggi horror originariamente trasmessi dalla televisione giapponese. Tutti i film vengono proiettati di venerdì, alle ore 19.00. Attenzione: l’ingresso è riservato ai soci del Centro. Centro di Cultura Giapponese, via Lovanio 8, Milano, ore 19.00. Per prenotare: 338.1642282
cINEMA Blue
Minimo Murakami per appassionati insaziabili Per chi non ha la pazienza di aspettare il prossimo romanzone di Murakami haruki, Einaudi ha pubblicato questa smilza novella (solo 73 pagine) che risale al 2008. Illustrata da Lorenzo ceccotti, la storia di un ragazzino che si ritrova prigioniero di una labirintica biblioteca (vuoi mettere quanto è più facile procurarsi i libri su Kindle) è una favola dai toni grotteschi che si trasforma in un viaggio di formazione e autoconoscenza. come al solito la vicenda è piena di personaggi atipici – a cominciare dall’inquietante bibliotecario e da un altrettanto surreale uomo-pecora – ma la simbologia questa volta è più ovvia del solito (un feroce cane nero è l’incubo ricorrente del protagonista). consigliato ai tuttologi e completisti di Murakami, sebbene il formato ridotto metta in luce, oltre ai pregi, anche il fatto che l’arte di questo autore ha bisogno delle maratone letterarie per sviluppare appieno i suoi temi. Murakami Haruki, La strana biblioteca, Einaudi, traduzione di A. Pastore, 15 euro
Ray Ozu
La Tucker film di Udine (da anni attiva nel diffondere il cinema asiatico attraverso il Far East Film Festival) ne ha combinata un’altra delle sue. Questa volta però hanno proprio voluto
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LIBRo dEL tRIMEStRE
esagerare, mettendo insieme sei dei migliori film di Ozu Yasujiro, completamente restaurati, in un bel cofanetto contenente fra l’altro un libro sull’opera del grande
regista. Tutti i film sono in edizione originale giapponese con sottotitoli italiani. Perchè insomma, non se ne può più degli orridi film doppiati. www.tuckerfilm.com Ozu Yasujiro Collection, 89,99 euro
ZOOM CULTURA cINEMA
Bulli, pupe, pistole e fantasmi
Mark Schilling spiega perché il Far East Film Festival è l’evento cinematografico più eccitante dell’anno.
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al 1999 il Far East Film Festival (FEFF) di Udine rappresenta una delle poche occasioni che il pubblico italiano ed europeo hanno di scoprire un lato diverso delle cinematografie asiatiche: quello dei cosiddetti film di genere (azione, horror, commedia, fantascienza, ecc.), generalmente snobbati dagli altri festival. Fin dall’inizio il critico e giornalista americano Mark Schilling ha lavorato come consulente per la sezione giapponese condividendo il punto di vista del comitato organizzatore secondo cui non esiste un prodotto alto o basso ma solo film più o meno belli nei quali il pubblico può riconoscersi. Zoom Giappone ha incontrato Schilling in un caffè di Tokyo per parlare della sua lunga collaborazione con il festival della città friulana. Allora com’è andata la recente visita di Sabrina Baracetti [fondatrice e direttrice artistica del FEFF]? Mark Schilling: Sabrina è venuta per vedere il Tokyo International Film Festival (TIFF) e il Filmex e in più ne abbiamo approfittato per fare una visita al Kawakita Memorial Film Institute, un’istituzione privata il cui scopo principale è quello di dare una mano ai vari festival del cinema che sono a caccia di pellicole giapponesi. In particolare ci hanno organizzato delle proiezioni e anche degli incontri con alcune case cinematografiche. Quindi fra una cosa e l’altra sono stati giorni molto impegnativi. Tu collabori al FEFF dalla seconda edizione del 2000. Che cambiamenti hai notato nel festival e, in particolare, nella selezione giapponese in questi 15 anni? M. S.: Quando abbiamo cominciato era una cosa molto piccola a livello locale. Avevamo un solo teatro a disposizione e nessuno ci conosceva. Credo che ci fossero solo due o tre film giapponesi in cartellone. L’anno scorso in confronto ne abbiamo portati ben 12 anche grazie al fatto che adesso abbiamo due altri locali a disposizione compreso il Visionario, un centro culturale con una sala da 300 posti. La cosa più importante è che il festival ormai gode di un’ottima reputazione sia fra gli appassionati
INFORMAZIONI PRATICHE LA PROSSIMA EDIZIONE del Far East Film Festival si svolgerà dal 22 al 30 aprile 2016. Per conoscere il programma, consultate il sito www.fareastfilm.com
Grazie a successi quali Kabukicho Love Hotel di Hiroki Ryuichi, il giovane cinema giapponese è ben rappresentato.
che fra gli addetti ai lavori. Negli ultimi anni il numero di film che proiettiamo non è cresciuto molto – per nostra scelta – ma in compenso il programma è più diversificato e comprende anche documentari e cortometraggi. La nostra filosofia rimane comunque sempre la stessa: presentare in Europa film popolari dell’Asia orientale. C’è chi li chiama film di genere, ed è vero che la maggior parte di essi può essere etichettata in questo modo, ma se trovo un buon film drammatico che secondo me può avere successo a Udine non mi tiro certo indietro. La nostra programmazione non si limita ai film di recente uscita. Ci piace anche tornare indietro nel tempo e scavare negli archivi alla ricerca di qualche perla del passato ancora inedita fuori dal Giappone. Quando ad esempio ho preparato il programma dei film d’azione della Nikkatsu, ho scoperto che la maggior parte delle persone conoscevano già Suzuki Seijun ma non avevano sentito parlare di nessun altro regista. Quindi per molti è stata un’importante scoperta. Immagino che mettere insieme la selezione ogni anno, sotto certi aspetti, sia molto stressante, eppure sono già 15 anni che lo fai. Cosa ti piace di questo lavoro? M. S.: È vero che dobbiamo sempre affrontare un sacco di problemi. Nel 2003, ad esempio, abbiamo mostrato otto opere del genere ero-guro (eroticogrottesco) che il “re del cult” Ishii Teruo aveva girato fra il 1968 e il 1973 e riuscire a trovarli è stato molto difficile – specialmente il suo capolavoro, Horror of the Malformed Men (1969), un film così controverso che anche in Giappone non è disponibile nel formato video. Poi nel 2005 la retrospettiva sul
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cinema d’azione della Nikkatsu comprendeva ben 15 film di cui però solo uno era provvisto di sottotitoli. Quindi abbiamo dovuto prima ottenere i dialoghi dal distributore per poi tradurli e preparare i sottotitoli in modo che potessero essere sovraimposti al film durante la proiezione. È stato un lavoro enorme e dispendioso, reso possibile solo da una donazione della Japan Foundation. Queste cose richiedono un sacco di tempo e di denaro e non possiamo certo farle tutti gli anni. Un altro problema che incontravamo spesso negli anni passati (e a volte anche adesso) era che molte case cinematografiche giapponesi non capivano il perché volessimo mostrare i loro film all’estero. Secondo loro, cioè, si trattava di opere che il pubblico straniero non avrebbe mai apprezzato. Perciò abbiamo dovuto fare una vera e propria opera di educazione, dimostrando loro che avevano tutto da guadagnare da simili progetti. C’è voluto del tempo ma alla fine li abbiamo convinti che questa era una grande opportunità per fare conoscere i loro film all’estero. Quindi per rispondere alla tua domanda, sono contento quando film vecchi e nuovi raggiungono un pubblico più vasto. Alcuni di essi trovano anche un distributore. La retrospettiva sulla Nikkatsu, per esempio, ha fatto il giro del Nord America per due anni dopo essere passata da Udine e la Criterion Collection ne ha pure comprati alcuni. Tu hai anche collaborato al Tokyo International Film Festival (TIFF). In passato il TIFF ha subito diverse critiche per una serie di scelte di programma un po’ discutibili. Secondo te che cosa potrebbe imparare dal festival di Udine? M. S.: È un po’ difficile paragonare questi due
ZOOM CULTURA festival perché hanno dimensioni e finalità molto diverse. Il TIFF è decisamente migliorato con gli anni anche se gli organizzatori sembrano ancora sacrificare la qualità alla quantità (ci sono troppe sezioni, alcune delle quali sono francamente inutili) per non parlare del fatto che si lasciano sfuggire alcuni eccellenti film giapponesi che vengono invece presentati in altre manifestazioni come a Pusan in Corea. Voglio dire, i Coreani non permetterebbero mai una cosa del genere. Poi naturalmente hanno questa abitudine di presentare come prime assolute dei film stranieri di secondo livello che sono stati rifiutati da tutti gli altri festival (ride). D’altra parte, però, ci sono anche molti aspetti positivi a cominciare dal Japanese Cinema Splash, una sezione che offre l’opportunità di far conoscere registi ancora poco noti che meritano di essere sostenuti e incoraggiati. Quando sei a Udine hai il tempo di vedere anche film non giapponesi? M. S.: Sì, riesco sempre a vederne qualcuno. Naturalmente vista la natura del festival penso che ogni selezione nazionale sia molto varia in termini di storie e contenuti. Trovi che il programma giapponese si distingua in qualche modo dagli altri? M. S.: Beh ad esempio, se prendi i film coreani, è chiaro che hanno una mentalità più hollywoodiana: spesso le loro storie sono molto facili da seguire, anche un po’ semplicistiche se vogliamo, e per questo piacciono ad un pubblico più vasto, anche internazionale. Gli stessi Italiani hanno dimostrato di apprezzare molto queste storie tanto è vero che l’anno scorso le pellicole coreane hanno vinto i tre premi maggiori. I film giapponesi, al confronto, hanno spesso metodi narrativi diversi, a volte un po’ particolari, e possono essere più introspettivi. C’è anche da dire che il mercato cinematografico coreano è molto più piccolo di quello giapponese e i produttori devono per forza di cose creare prodotti da esportazione. È una semplice questione di sopravvivenza.
Nel 2014 Eien no Zero (The Eternal Zero) ha vinto il primo premio al FEFF. La cosa ti ha sorpreso? E personalmente cosa ne pensi di questo film? M. S.: Ebberne sì, devo dire che la cosa mi ha sorpreso molto anche perché, come ricorderai, in Giappone questa storia di kamikaze durante la Guerra del Pacifico ha suscitato molte polemiche ed è stata stroncata da una parte del pubblico e della critica. Perciò quando il film è stato proiettato a Udine ero molto preoccupato. E invece ha avuto un incredibile successo. Sicuramente è fatto molto bene, ha degli eccellenti effetti speciali e soprattutto è una storia che parla ai sentimenti. Mi ricordo che alla fine della proiezione piangevano tutti. Credo che a volte per un pubblico straniero sia più facile sentirsi in sintonia con un film proprio perché non è condizionato dai filtri ideologici e dal clima culturale del paese d’origine. È difficile accogliere ogni volta tutti gli ospiti che vengono dal Giappone? M. S.: No, non credo proprio. Udine è una bella città, facile da girare e con poca criminalità. Ci sono tante cose da fare e da vedere nei dintorni, e la cucina poi è buonissima. Devo dire che ci prendiamo molta cura dei nostri ospiti: stanno in ottimi hotel e hanno sempre un interprete a disposizione per qualunque cosa. Il programma del festival, poi, non è così faticoso e così possono anche fare qualche giro nei paraggi. Non ho mai sentito uno di loro lamentarsi o dire che si annoiava o che voleva tornare in Giappone. Anzi, di solito ci chiedono «quando posso venire di nuovo?» (ride). Puoi fare qualche anticipazione su questa edizione? Di che cosa stai andando a caccia questa volta? M. S.: La retrospettiva di quest’anno sarà dedicata alla fantascienza giapponese e come al solito trovare queste vecchie pellicole della Toho è stata un gran fatica. A volte di un certo film non hanno nemmeno una copia a 35 mm e i formati che ci offrono non
sono di una qualità sufficiente per essere proiettati su grande schermo. Perciò credo che questa volta useremo spesso il Visionario che ha uno schermo più piccolo. Per quanto riguarda il resto, ci sono ancora tante cose da fare. Una volta bastava fare una telefonata per concludere un affare. Adesso invece è tutto molto più complicato. Rispetto a quando abbiamo cominciato ci sono molte più manifestazioni dedicate al cinema asiatico (a Rotterdam, Francoforte, Helsinki, New York, ecc.) il che si traduce in una maggiore competizione per ottenere i titoli migliori. Poi naturalmente i registi più famosi, come Kitano Takeshi, Koreeda Hirokazu o Miike Takashi, scelgono sempre i festival più grandi e prestigiosi come Venezia, Berlino e Cannes (che fra l’altro comincia subito dopo il FEFF). Le cose stanno così e noi le accettiamo. Allo stesso tempo, però, è nostra politica presentare solo anteprime europee – o in certi casi italiane, se proprio non possiamo fare di meglio. Così siamo sempre costretti a fare delle modifiche al nostro programma, a volte anche all’ultimo minuto. Quando ripensi alla tua lunga collaborazione con il FEFF, c’è qualcosa di cui vai particolarmente fiero? M. S.: Sono contento perché siamo riusciti a presentare molti attori e registi che meritavano di essere conosciuti fuori dal Giappone. Più in generale abbiamo fatto conoscere una vasta gamma di film asiatici, mostrando al pubblico europeo che le pellicole presentate a Cannes o a Venezia non sono assolutamente rappresentative della scena cinematografica di quei paesi. C’è molto snobismo nel circuito dei festival e certi generi vengono completamente ignorati perché non hanno pretese intellettuali. Eppure ci sono molti lavori che meritano di essere visti. Si tratta solo di cercarli. Noi continuiamo per la nostra strada e credo che dopo tanti anni siamo stati ripagati dei nostri sforzi. Guarda adesso come tutti ci rubano le idee (ride)! INTERVISTA DI JEAN DEROME
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ZOOM CUCINA GUIdA
Le gioie del Washoku
Uno sguardo eloquente sulla storia e sulla cultura giapponesi attraverso la cucina nel paese del Sol Levante.
cultura della dieta tradizionale del Giappone) è stato riconosciuto dall’Unesco come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Tutto bene, quindi? Sembrerebbe di sì, se non
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l mio primo incontro con la cucina giapponese risale al 1984, quando per la prima volta andai a Parigi. I miei amici ed io avevamo voglia di fare follie e per una banda di adolescenti cresciuti nella provincia italiana il sushi era il massimo dell’esotismo culinario. Quando ce lo portarono su un vassoio di legno notammo una specie di maionese verde che, concludemmo, andava sicuramente spalmata sul pesce crudo. Il primo boccone fu un’esperienza indimenticable: cominciai a lacrimare e a tossire mentre il naso sembrava sul punto di esplodere. Solo più tardi scoprii che quella maionese verde era wasabi, una pasta molto piccante che viene fatta con il ravanello giapponese – anche se nel mio caso a causare le fitte al naso era stato probabilmente del comune rafano colorato che viene spesso usato come sostituto, visto che il wasabi autentico è molto caro. Se trent’anni fa per molti occidentali la cucina del Sol Levante era ancora avvolta nel mistero, oggi ci sono più di 50.000 ristoranti giapponesi nel mondo e mangiare pesce crudo, tempura o soba non è più visto come un viaggio ai confini dell’universo culinario. Il riconoscimento definitivo è arrivato nel 2014 quando il Washoku (la
INFORMAZIONI PRATICHE Introduzione alla cucina giapponese. Natura, storia e cultura Shuhari Initiative, Tokyo, 2015 216 p., 75 euro
fosse che molti cuochi e ristoratori giapponesi continuano a preoccuparsi che il resto del mondo venga in contatto col vero Washoku. A Tokyo e Osaka gli chef locali saranno anche liberi di creare fantasiose versioni della cucina straniera (avete mai provato gli spaghetti con uova di merluzzo e alghe o la pizza al pollo in agrodolce e salsa tartara?) ma basta sussurrare le magiche parole “California roll” (o altre variazioni atipiche di sushi) nell’orecchio di un Giapponese per fargli venire le convulsioni.
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Murata Yoshihiro è uno di questi puristi che nel 2004 ha fondato un’organizzazione non-profit, l’Accademia della Cucina Giapponese (JCA), allo scopo di sviluppare e divulgare l’autentico Washoku sia fra i cuochi che fra i gourmet stranieri. Questo libro, fra l’altro, è solo il primo passo dell’ambizioso progetto della JCA. Altri volumi sono in preparazione ma per il momento questa Introduzione è un’ottima occasione per familiarizzare con il mondo della cucina giapponese. L’opera va ben al di là delle semplici nozioni di cucina e fornisce informazioni su natura, clima, storia e cultura del Paese, spiegando poi le tecniche di base per la sua preparazione. Quindi non si tratta tanto di un comune manuale di cucina (anche se alla fine del libro trovate 27 pagine di ricette) quanto di un approccio totale al tema gastronomico, con spiegazioni storiche e scientifiche su tutto quello che circonda la cucina giapponese. Al di là dei piatti che sono diventati popolari a livello internazionale, la cultura culinaria di questo Paese si basa su ingredienti freschi, locali e stagionali (ad esempio germogli di bambù in primavera o castagne in autunno) che vengono preparati senza l’aggiunta di troppi condimenti e con metodi di cottura (al vapore, alla piastra o alla griglia) che consentono di conservare i sapori e gli aromi naturali. Gli chef e le casalinghe giap-
ponesi hanno a disposizone una grande varietà di pesce, verdure e piante selvatiche commestibili per preparare piatti che si distinguono per la scarsissima quantità di grassi. Uno dei fattori che hanno contribuito al riconoscimento del Washoku da parte dell’Unesco è l’uso sostenibile delle risorse naturali che contraddistingue la cucina tradizionale e che si riassumono nel termine mottainai (vietato sprecare). Uno dei punti forti del libro (illustrato dall’inizio alla fine con bellissime fotografie a colori) è la parte dedicata alla tradizione kaiseki, un termine che nel sedicesimo secolo indicava i piatti semplici che si consumavano dopo la cerimonia del tè. Successivamente, il termine è invece servito a definire la cucina altamente sofisticata sviluppatasi alla corte imperiale di Kyoto. Un pasto kaiseki è caratterizzato da un menù fisso in cui ogni piatto è preparato secondo una tecnica diversa – in salamoia, crudo, alla griglia, fritto, al vapore – ma senza eccessive manipolazioni o aggiunte stravaganti, per cui si ha il modo di apprezzare i sottili sapori degli ingredienti originali. Il piacere della cucina non si ferma nemmemo all’aspetto gustativo o olfattivo perché il cibo è meticolosamente preparato e disposto su ogni piatto secondo i principi wabi-sabi di un’estetica allo stesso tempo semplice e raffinata. Ogni elemento, dai colori degli ingredienti alle stoviglie usate, viene scelto con cura in modo da ottenere il giusto equilibrio e da soddisfare sia il palato che l’occhio dei commensali. Ironicamente, il riconoscimento internazionale del Washoku viene in un periodo in cui la cucina giapponese sta passando un momento di crisi proprio nel paese d’origine. Innanzi tutto sta diventando sempre più difficile mettere le mani su quegli ingredienti che sono così importanti per la buona riuscita del Washoku. Una delle ragioni è che durante la Bolla Economica degli anni ’80 i pescatori giapponesi hanno fatto man bassa di pesci, finendo con l’esaurire le riserve di pesca più vicine all’arcipelago. Probabilmente ancora più
odaira Namihei
ZOOM CUCINA
importante è il fatto che negli ultimi cinque o sei anni quelle stesse riserve di pesca si sono gradualmente spostate a nord, verso la Russia, in parte come conseguenza del riscaldamento globale e in parte a causa dello tsunami del 2011 che ha disastrato l’industria ittica del Tohoku. Sotto certi aspetti ancora più grave è che secondo recenti statistiche, a parità di spesa i giovani giapponesi spesso preferiscono andare al ristorante francese e italiano oppure, se vogliono spendere meno, possono scegliere fra una vasta gamma di cucine asiatiche. Come se non bastasse, adesso cominciano a scarseggiare persino i cuochi. Al momento attuale, infatti, solo circa il 10% degli studenti di
cucina si specializzano in Washoku. A quanto pare tutti vogliono diventare pasticcieri (un campo in cui il Giappone ha raggiunto livelli di assoluta eccellenza) o lavorare in un ristorante italiano o francese – il che, viste le ricerche di mercato sopracitate, ha sicuramente senso. Visto sotto questa luce, il libro e l’intero progetto della JCA acquistano un’importanza particolare, come un tentativo non solo di attirare l’interesse straniero ma anche di rinnovare quello degli appassionati locali. Il primo passo è sicuramente azzeccato e merita un posto privilegiato nella biblioteca gastronomica di ogni gourmet. GIANNI SIMONE
febbraio - maggio 2016 Anno I - N. 1 ZOOM GIAPPONE 23
ZOOM CUCINA I manga al servizio della cucina Come ricorda Chihiro Masui nell’introduzione di questo libro, «ovunque nel mondo - Giappone escluso, ovviamente - la parola sushi evoca la pallina di riso ricoperta da una sottile fetta di pesce crudo. In realtà, in Giappone, qualunque cosa può essere definita sushi purché venga realizzata con del riso per sushi». Imbattersi in questa verità è piuttosto raro: ecco quindi un’ottima ragione per considerare Sushi Manga una guida degna di fiducia per tutti coloro che vogliano cimentarsi nella preparazione di questa specialità di cui il mondo intero è sempre più ghiotto. L’ottima impressione maturata nell’istante stesso in cui si sfoglia il libro per la prima volta, è confermata successivamente da una lettura attenta dello stesso. Basandosi sui preziosi consigli di Karasuyama Masao, un’autentica eccellenza in materia di sushi come si può constatare nel suo ristorante Benkay a Parigi, l’autore ha voluto mettere tutte le chances dalla sua parte. Puntando sull’originalità della presentazione che unisce disegni e fotografie, da leggere rigorosamente come un manga, Chihiro Masui è riuscito nell’intento di invitare il lettore a lanciarsi nella preparazione del sushi. Bisogna tuttavia riconoscere che leggere l’opera è più facile che mettersi all’opera! Sushi Manga di chihiro Masui, illustrazioni di Shusaku Nakata, edizioni Mondadori Electa, 16,90 €.
L A RIcEttA dI hARUYo
TAKOMESHI (Polipo su letto di riso)
PREPARAZIONE 1 - Risciacquare il riso fino a ottenere un’acqua limpida 2 - Aggiungere lo zenzero, la salsa di soia, il sakè, il sale e l’alga. 3 - versare l’acqua fino a ricoprire il tutto. 4 - Aggiungere il polipo tagliato a rondelle.
5 - cuocere il tutto come un riso bollito. 6 - Aggiungere a fine cottura il sesamo e il prezzemolo tritato. Mescolare. 7 - Servire ben caldo. Oppure : Si può sostituire il polipo con dei calamari. L’erba cipollina o il coriandolo possono sostituire il prezzemolo.
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INGREDIENTI 300 gr di riso 45 cl d’acqua Polipo cotto circa 3 pezzi (400 gr) 30 gr di zenzero Salsa di soia Sakè Sale Alga Kombu, 1 foglia di 10 cm² 10 gr di sesamo nero 5 gr di prezzemolo
Alla scoperta del Giappone tropicale Spiagge bianchissime e mare da sogno: il sud dell’arcipelago del Sol Levante è un paradiso naturale, meta ideale per la luna di miele e per romantiche vacanze di relax.
Mare trasparente, spiagge bianche e una barriera corallina tra le più belle del pianeta: l’anima tropicale del Giappone si trova nel sud dell’arcipelago, nella prefettura di Okinawa. Si tratta di un gruppo di isole calde, allegre e colorate sparse nell’Oceano Pacifico, che guardano verso Taiwan. L’antico regno di Ryukyu (così si chiamava una volta Okinawa) è un vero e proprio paradiso terreste che attira sempre più giovani in luna di miele e turisti europei in cerca di luoghi rilassanti ed esotici. Grazie alla sua posizione strategica, Okinawa è stata per secoli crocevia di antiche civiltà. Rimasta indipendente fino al 1609, venne sottomessa al Giappone dal signore feudale di Satsuma, ma il Regno di Ryukyu continuò a pagare tributi anche alla Cina fino a dopo la metà dell’800. Una delle testimonianze storiche più importanti di questo periodo è il castello Shuri-jo, la residenza del re a Naha, il capoluogo della prefettura e tappa obbligata per chiunque decida di arrivare da queste parti. L’aeroporto di Naha collega Okinawa con le città del Giappone e con le principali capitali asiatiche dalle quali arrivano ogni stagione turisti provenienti da Taiwan, Cina, Corea e Hong Kong. NAHA E IL KERAMA SHOTO Trascorrere un po’ di tempo a Naha è il modo migliore per iniziare a conoscere l’originale cultura di Okinawa che mescola
elementi cinesi, giapponesi e autoctoni. Uno dei luoghi più interessanti è senza dubbio il mercato locale di Makishiki, il regno dell’umami, il gusto dal nome giapponese ma che appartiene al mondo. Nella vicina Heiwa-dori è invece facile trovare qualche souvenir originale, ma il cuore della città si sviluppa lungo Kokusaidori, la strada principale di Naha, costellata di caffè, ristoranti e negozi di kariyushi, la tipica stampa di Okinawa simile a quella hawaiana. Kokusai-dori è una lunga strada incorniciata di palme e dalla quale si sente il rumore del mare. L’Oceano Pacifico, da sempre principale risorsa per questo gruppo di isole, è poco lontano e da qui bastano 35 minuti di battello per arrivare all’isola di Tokashiki, nel centro del Kerama Shoto, il parco nazionale che per la bellezza del suo mare trasparente e della sua natura incontaminata è stato inserito nella Michelin Green Guide con il massimo delle stelle. D’altra parte chi arriva a Okinawa lo fa soprattutto per fare snorkeling ed immersioni in un mare blu da sogno. Quello di queste zone è addirittura così bello da aver dato il nome ad un colore, il Kerama Blue. Qui si possono fare immersioni tutto l’anno e se l’alta stagione va da aprile a ottobre, febbraio è il mese ideale per fare escursioni e vedere le balene che passano vicino all’isola di Zamami. Immergersi in
queste acque dà anche la possibilità di vedere straordinarie specie migratorie come i tonni, le razze o le tartarughe di mare, nonché una miriade di pesci dai colori straordinari. Le spiagge a Okinawa aprono in aprile e chiudono in autunno, quando la temperatura diurna si aggira tra i 25 e i 27 gradi. Il mare di Okinawa rimane però un’attrazione per tutto l’anno dato che nemmeno in dicembre la temperatura scende sotto i 17 gradi e i turisti dei paesi nordici fanno il bagno anche in quel periodo. Naha è il capoluogo della prefettura di Okinawa. Vi si arriva in aereo dalle principali capitali asiatiche a da tutte le città del Giappone. Kerama Shoto – il parco nazionale di Kerama - si trova a 35 minuti di battello da Naha.
/////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////// Speciale Okinawa // Testo: Stefania Viti ///////////
I l g o ya , i l c e t r io l o d i l u n g a v i t a Okinawa è famosa anche per la sua cucina salutare. Nel nord dell’isola di Okinawa si trova il villaggio di Ogimi, conosciuto anche col nome di “villaggio della longevità” perché è popolato da un gran numero di centenari. Si dice che uno degli elisir di lunga vita della dieta di Okinawa sia il goya, un cetriolo molto amaro che da queste parti mettono un po’ dappertutto. Il piatto locale più famoso è il Goya Champuru, una insalatona a base di tofu, uova, verdure e appunto goya, che si accompagna spesso con l’awamori, il sakè locale.
Okinawa Churaumi Aquarium Il nord dell’isola di Okinawa offre numerosi luoghi d’interesse turistico, compreso uno dei più grandi acquari del mondo, lo Okinawa Churaumi Acquarium. Grazie alla sua struttura all’avanguardia visitare questo acquario è come tuffarsi nel mare blu cobalto e arrivare negli abissi dell’Oceano. L’enorme vasca centrale Kuroshio contiene ben 7500m3 di acqua di mare dove vivono i giganteschi squali balena e le mante che possiamo ammirare mentre nuotano sopra la nostra testa. Questa vasca detiene vari record mondiali, tra cui quello di ospitare per il periodo più lungo i grandi pesci in catti-
vità e quello di aver dato i natali ai primi cuccioli di manta nati sempre in cattività. L’acquario sta inoltre cercando di battere un nuovo record: far nascere i primi squali balena in cattività. Tornando verso la città di Naha vale la pena fare una sosta anche al Coral Farm, vicino al villaggio di Yomitan, dove è possibile vedere come vengono restaurati i coralli. Poco lontano vi attende anche un’ultima meraviglia che vale la pensa di visitare: i resti del castello di Zakimi. http://oki-churaumi.jp/en/index.html
Bashofu, un tessuto tutto naturale Sempre nel nord dell’isola di Okinawa, poco lontano dal villaggio di Ogimi si trova il piccolo centro di Kijioka, famoso per ospitare il Bashofu Museum, uno dei tesori nazionali del Giappone. In questo museo si può ammirare l’antica arte della tessitura del filo di banano con cui ancora oggi vengono prodotti resistenti e costosissimi kimono. Custode di questa antica arte è l’ottuagenaria TAIRA Toshiko, alla quale nel 2000 è stato conferito il titolo di “Living National Treasure”. Da qualche anno Taira-san insieme a un gruppo locale di donne si è dedicata alla creazione del museo al fine di preservare l’antica tecnica di lavorazione del filo di banano. La creazione di questo tessuto, tutto naturale, è molto particolare e utilizza un metodo speciale detto ikat, in cui il filo è tinto prima di essere tessuto con un metodo manuale di rilegatura.
Ocean Expo Park / Okinawa Churaumi Aquarium
Miyako, Ishigaki, Taketomi e Iriomote – le isole del sud
Taketomi conserva delle case tipiche dell'isola.
Le isole più a sud dell’arcipelago sono famose per la bellezza del mare incontaminato e per la natura selvaggia. Le spiagge bianche di Miyako unite alla natura intatta ne fanno un’isola da sogno mentre Ishigaki è famosa per la barriera corallina. A Taketomi è possibile visitare ancora un antico villaggio okinawaiano mentre la natura incontaminata di Iriomote permette l’incontro con rare e selvagge creature. Info pratiche: le isole più remote di Miyako, Ishigaki e Iriomote sono raggiungibili con un volo interno partendo da Naha.
Miyako è il paradiso dei sub.
/////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////////// Per avere più informazioni su Okinawa
http://en.okinawastory.jp/ Col sostegno di : Okinawa Convention & visitors Bureau
Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
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Il Sanja Matsuri, a Tokyo, uno dei più importanti festival shinto del Paese, si svolge in onore della dea Kannon.
Matsuri, giorno di festa Ovunque e in ogni stagione, in Giappone c’è sempre un matsuri da scoprire. Breve visita guidata
N
on pensate di andare in Giappone senza vivere l’esperienza matsuri. Così vengono definite le numerose feste tradizionali che costellano la vita dei Giapponesi nel corso dell’anno. Non pensate poi che ci si debba recare negli angoli più sperduti del Paese per approfittarne. I matsuri vengono organizzati dappertutto nell’arcipelago, nei villaggi minuscoli come nella capitale. Fanno parte degli elementi che costituiscono lo spirito giapponese e ogni abitante non perde occasione per assistervi e/o participarvi. La gran parte dei matsuri corrisponde a un momento particolare del calendario ed è legato alla religione. La celebrazione del trapianto del riso in primavera è all’origine di feste come quelle dell’isola di Oshima, nella prefettura di Ehime, dove si organizza un combattimento di
sumo tra un lottatore e la divinità, dopo che il prete shintoista ha benedetto le risaie. In estate, un buon numero di queste festività è legato ai rituali per scongiurare le epidemie e le catastrofi naturali, oppure è l’occasione per ottenere la grazia degli dei perché proteggano i pescatori e concedano loro una pesca ricca e abbondante. In autunno, i matsuri sono organizzati al fine di ringraziare gli dei per aver permesso delle buone raccolte, mentre in inverno le feste hanno lo scopo di rinforzare i legami fra le comunità. Nella penisola di Oga, a nord-ovest del Paese, il 31 dicembre si tiene la festa dei mostri che fanno visita ai bambini per raccomandare loro di essere buoni e obbedienti coi propri genitori. Tutte queste feste, direte voi, somigliano a quelle che conosciamo in Europa. Nelle campagne del Vecchio Continente, esistono - o piuttosto esistevano - eventi simili. Le feste della raccolta erano una consuetudine. Esse sono via via cadute nell’oblío mentre in Giappone, i matsuri hanno
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conservato tutta la loro forza e la loro effervescenza. Questi appuntamenti non sono unicamente celebrazioni religiose, sono profondamente legati al territorio, alla tradizione locale con la quale i Giapponesi hanno un legame stretto e unico al mondo. Con i matsuri si perpetua il concetto di kokyo, la “terra natale”, che costituisce un aspetto fondamentale dell’identità nipponica, anche per chi vive nelle grandi città. C’è l’elemento festivo poi, che non si può dissociare dalla mentalità giapponese. Contrariamente ai pregiudizi sul loro conto, i Giapponesi adorano divertirsi e i matsuri rappresentano un momento privilegiato per esprimere la loro gioia di vivere. L’atmosfera da fiera che regna in prossimità delle feste, con le numerose bancarelle di yakisoba (spaghetti saltati), takoyaki (polpette fritte di polipo) e altri stuzzichini veloci da gustare al momento, ricorda poi che si tratta di un evento popolare, dove tutti si ritrovano con semplicità e senza distinzioni sociali. ODAIRA NAMIHEI
ZOOM VIAGGIO
L’impero delle feste Selezione dei matsuri più interessanti dell’arcipelago Stagione Takaoka mikurumayama matsuri
Primavera Estate Autunno
Jidai matsuri
Inverno
Aoi matsuri 15 maggio
Gion matsuri Dal 1° al 31 luglio
Takaoka mikurumayama matsuri
Kyoto gosan okuribi
Takaoka
16 agosto
1° maggio
Jidai matsuri
Owara kaze no bon
Dal 15 al 23 ottobre
Toyama Dal 1° al 3 settembre
Senteisai
Takayama matsuri
Fude matsuri
Shimonoseki
14 e 15 aprile
Kumano
Dal 2 al 4 maggio
23 settembre
Takayama matsuri 9 e 10 ottobre
Hakata gion yamagasa
Nada no kenka matsuri
Kangensai
Fukuoka
Himeji
Hatsukaichi
Dal 1° al 15 luglio
14 e 15 ottobre
17 giugno
KYOTO
Kyûshû
Nagasaki
Yamaga
Shikoku
15 e 16 agosto
Dal 7 al 9 ottobre
Yosakoi matsuri Kochi
Takachiho no yokagura
Gujo Da metà luglio a inizio settembre
Yamaga toro matsuri Nagasaki Kunchi
Gujo odori
Awa odori
Omizutori
Tokushima
Nara
Dal 12 al 15 agosto
Dal 1° al 14 marzo
Dal 9 al 12 agosto
Takachiho
Ise omatsuri
22 e 23 novembre
Ise
Kishiwada danjiri matsuri
Da fine settembre a inizio ottobre
Kishiwada 17 e 18 settembre
Tenjin matsuri Osaka
Awa odori
24 e 25 luglio
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ZOOM VIAGGIO
Yuki matsuri Sapporo
Akita kanto matsuri
Yuki matsuri
Inizio febbraio
H o k k a i d o
Goshogawara tachineputa Goshogawara Dal 4 all’8 agosto
Nebuta matsuri Aomori Dal 2 al 7 agosto
Hirosaki sakura matsuri
Namahage matsuri
Hirosaki
Oga
Dal 23 aprile al 5 maggio
31 dicembre
Chagu chagu Umakko
Akita kanto matsuri
Takazawa
Akita
Dal 3 al 6 agosto
Nishimonai bon odori
Nanao
Morioka
Nishimonai
Primo sabato di agosto
Dal 1° al 4 agosto
Dal 16 al 18 agosto
Soma noma oi
Ishizaki hotosai
Secondo sabato di giugno
Morioka sansa odori
Abare matsuri Notocho Primo week-end di luglio
Hanagasa matsuri
Sendai tanabata matsuri
Yamagata
Sendai
Dal 5 al 7 agosto
Dal 4 all’8 agosto
Dosojin matsuri Nozawa onsen Dal 13 al 15 gennaio
Honshû
Soma noma oi Soma
Chichibu yomatsuri
Dal 30 luglio al 1° agosto
Dal 1° al 6 dicembre
Onbashira matsuri
Yama age matsuri
Suwa
Nasu karasuyama
A cadenza settennale, previsto per il 2016. Aprile-giugno
Yoshida no himatsuri
Dal 22 al 24 luglio
Sanno matsuri
Chichibu
TAKAYAMA
TOKYO
Naritasan setsubunkai
Fujiyoshida
Narita
26-27 agosto
Okinawa
3 febbraio
Kanamara matsuri Kawasaki Prima domenica d’aprile
Naha matsuri
Enshu Yokosuka mikumano jinja taisai Kakegawa Primo week end d’aprile
Kanda matsuri
Secondo lunedì d’ottobre
Metà maggio
Sanja matsuri Dal 13 al 15 maggio
Sanno matsuri
Itoman hari Itoman 4 maggio
Da inizio a metà giugno
Sumidagawa hanabi taikai 31 luglio 150 km
Cartografia: Aurélie Boissière, www.boiteacartes.fr
Naha
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Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
ZOOM VIAGGIO
Nel corso di tre giornate torride, i cavalieri viaggiano nel tempo e trasportano il pubblico in un universo scomparso.
StoRIA
Alla ricerca dello spirito samurai
Come il Palio di Siena, il Nomaoi è l’appuntamento imperdibile dei cavalieri che difendono con fierezza i propri colori.
L
a giornata comincia presto al santuario di Nakamura. Kazuhiko Ito si precipita nella scuderia dove lo attende il suo cavallo per la corsa annuale di Nomaoi. Pompon di velluto, sella in cuoio nero e oro, staffe laccate, niente è troppo elegante per questa festa straordinaria che celebra i mille anni di storia del clan Soma, nella città omonima, all’interno della prefettura di Fukushima. Nomaoi significa “l’inseguimento dei cavalli selvaggi”; le sue origini risalgono all’era Sengoku, quando i samurai catturavano in segreto orde di cavalli selvaggi per offrirli agli dei shinto. «Se avete visto L’ultimo samurai, dovreste sapere che quegli uomini appartenevano al clan Soma» afferma con orgoglio Kazuhiko, carezzando il dorso del suo destriero. Nativo della città portuale di Soma, il giovane ha trentun anni e partecipa per la prima volta alla grande corsa di Shinki Sodatsuen. Si prepara all’evento da ben dieci anni. Da lontano, arriva il frinire delle cicale che si intensifica man mano che il sole si alza nel cielo. Tra poco, il caldo
si farà soffocante. Per il momento, il santuario è ancora un’oasi di pace dove i cavalieri possono vivere un momento di armonia e comunione col loro animale, lontano dalla folla. «Abbiamo pregato gli dei affinché ridiano a questa festa tutto il suo splendore e affinché Soma venga ricostruita rapidamente» spiega Makoto Takahashi che si occupa dell’organizzazione del Nomaoi a MinamiSoma, la città vicina. La tripla catastrofe dell’11 marzo 2011 ha lasciato tracce indelebili in questa regione costiera che viveva di pesca. L’incidente nucleare della centrale di Fukushima Dai-ichi, lontana appena venti chilmometri, ha causato l’esilio di 160.000 abitanti provenienti da diversi villaggi vicini, designati come zona proibita. In molti si sono rifugiati a Soma e a Minami-Soma e vivono ancora oggi in alloggi provvisori. Malgrado ciò, persino nel 2011, il Nomaoi non ha mancato al suo appuntamento annuale. La festa comincia la vigilia con una processione di cavalieri nella città di Soma e attira centinaia di persone fin dalle prime luci del mattino. La folla aumenta e si dirige verso il santuario di Ota a Minami Soma per la partenza di un’altra processione. Intorno ai tre santuari di Nakamura, Ota e
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Odaka, il Nomaoi ricostituisce cronologicamente durante tre giornate i riti guerrieri dei samurai. Immerso in un paesaggio splendido di risaie incorniciate dalle montagne, il corteo avanza con solennità, al ritmo dei tamburi e dei corni, evocando in maniera fedele le scene dei rotoli dipinti medievali. Dietro al comandante in capo sfilano monaci, portatori di palanchini, palafrenieri, guerrieri e bambini agghindati come principi, in un’atmosfera solenne e placida al tempo stesso. I cavalieri, dall’alto delle loro montature, non esitano a salutare e a scherzare con gli spettatori pigiati lungo le risaie, intenti ad agitare i ventagli e a maledire il caldo. Come tutti i matsuri, le feste tradizionali giapponesi, il Nomaoi é un momento ideale per ritrovare famigliari e amici. Per qualcuno è anche l’occasione per esprimere la propria passione per l’equitazione. «Vengo da Fukushima, sono appassionata di cavalli e partecipo al mio primo Nomaoi quest’anno» confida emozionata Marumatsu Fumie, la ragazza alla quale gli organizzatori hanno appena chiesto di riportare i cavalieri al passo. Diversi cavalli nitriscono e si dibattono, innervositi dalla folla e dal ritmo lento della processione. Nel passato, i cavalli di Soma erano celebri in tutto il Giappone; ora sono tras-
curati a beneficio di una razza più robusta e più grande. «Abbiamo dovuto adattare i nostri cavalli alla taglia dei Giapponesi di oggi. I nostri antenati non superavano il metro e sessanta!», fa notare Kazuhiko. Ha comprato il suo cavallo sei mesi fa, giusto in tempo per cominciare l’allenamento. «Il Nomaoi è una festa a parte» spiega il giovane. «Anche se si desidera partecipare, spesso non si può. Bisogna trovare il buon cavallo e non è semplice, non è una macchina, non basta possedere del denaro». Sfortunatamente, arrivato all’ippodromo di Hibarigahara dove si svolge la prima corsa di Nomaoi, Kazuhiko cade da cavallo. Ambulanza e poi ospedale. La ferita non è grave, ma il medico preferisce tenerlo in osservazione. Torniamo senza di lui al Mihosushi, il ristorante dei suoi genitori a Soma, autentico museo in miniatura dedicato al Nomaoi. Con un gentile sorriso, Ichiko, la mamma, ci serve sull’ampio tatami piatti di tempura e sashimi, in attesa del ritorno del figlio. «Qualche anno fa ho cominciato a fare ricerche sulle origini dei miei antenati e ho scoperto che si trattava di samurai. È per questo che Kazuhiko ha deciso di partecipare al Nomaoi. È necessario portare il blasone di una famiglia di samurai per essere ammessi» spiega, mostrando lo stemma degli Ito, un fiore di genziana, troneggiante su una montagna di bottiglie di sakè offerte dagli amici. Finalmente, Kazuhiko torna a casa, accompagnato da due cari amici. In seguito alla caduta, l’umore è un po’ fosco: dopo uno spuntino si dilegua nelle sue stanze al primo piano, annunciando prima di congedarsi che parteciperà come previsto alla grande corsa dell’indomani. I famigliari non esprimono alcun commento. Kazuhiko si allena da sei mesi, uscendo a mezzanotte dopo il lavoro per correre in sella al suo cavallo. Nel passato, il destino ha riservato loro momenti ben più preoccupanti: il ristorante è stato semidistrutto dal terremoto, la loro cognata proveniente da Namie, villaggio a tre chimoetri dalla centrale, è ormai una “rifugiata nucleare” e l’amico di famiglia Tadano Akio, che nella centrale ci lavorava, ha perso la madre e la sorella, uccise dallo tsunami. Per gli Ito, la partecipazione del figlio al Nomaoi è una questione di salvaguardia della tradizione. Su circa cinquecento partecipanti, questa festa definita patrimonio materiale della cultura popolare giapponese conta ormai solo un piccolo numero di giovani cavalieri, fra i quali Kazuhiko. Sono le dieci. Il caldo si fa torrido, la famiglia Ito al gran completo tenta faticosamente di infilare trenta chili di armatura addosso al giovane. L’equipaggiamento è impressionante : guanti, ghette, corazze, cotta di maglia, dettagli di cuoio, lana e seta, rammendati con amore dalla mamma. «Abbiamo comprato tutto a Kyoto, in uno stato pietoso! Alcuni accessori risalgono al periodo delle guerre di Momoyama, prima dell’era di Edo!»,
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Ito Kazuhiko ha acquistato la sua armatura a Kyoto.
racconta Ichiko stringendo un foulard bianco attorno alla fronte del figlio. «Le armature giapponesi sono diverse da quelle occidentali. Non coprono tutto il corpo ma soltanto alcuni punti sensibili: il cuore, il collo, le cosce. Il codice d’onore pretendeva infatti che ci si battesse uno di fronte all’altro, non si poteva venire colpiti di spalle», precisa Kazuhiko. Tutt’attorno, altre famiglie procedono allo stesso rituale, circondando il figlio, il marito o il fratello che in questo giorno speciale rappresenta gli antenati. «Diversi cavalieri utilizzano ancora le armature dei loro avi, che hanno avuto la fortuna di ereditare», commenta Kazuhiko infilando l’elmo di
setole di cinghiale ornato da corni. Finalmente pronto, si dirige con passo pesante verso la stazione di servizio trasformata per l’occasione in scuderia medievale, coi cavalli che si aggirano fra le pompe di benzina e file di guerrieri tranquillamente seduti - katana saldamente legata alla cintola - in attesa della partenza della processione. Tre chilometri separano dall’ippodromo di Hibarigahara dove si terrà la corsa. «Attenzione! Indietro!» gridano gli altoparlanti mentre il corteo si avvicina. La città non è altro ormai che un vasto ingorgo dove ognuno si ingegna come può per avvicinarsi allo stadio. Entriamo con la famiglia Ito sul prato al centro dell’ippodromo : seduti sull’erba, le famiglie
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Nei giorni della corsa, l’afa terribile mette alla prova i cavalieri e i loro destrieri.
Jérémie Souteyrat per Zoom Giappone
terminano il pranzo, strette sotto gli ombrelloni, mentre i cavalieri fumano una sigaretta prima della corsa. Tutto attorno, migliaia di persone hanno preso d’assalto i gradini, protette sotto i cappelli. «Idratatevi! Idratatevi!», ruggiscono gli altoparlanti. Di lì a poco la tribuna comincia a chiamare i primi concorrenti con il tono più marziale possibile di cui la lingua giapponese è capace. Avan-
I preparativi sono lunghi e coinvolgono ogni generazione.
zando a due a due, i samurai tentano di tenere a bada i cavalli prima del segnale di partenza. Il percorso è di mille metri, una distanza molto lunga se si considera la canicola di questo mese di luglio che si avvicina ai 45°C. Uno dei cavalli sta per svenire in preda alle vertigini. Viene portato vicino a una roulotte che serve da infermeria. Una donna gli tampona la fronte con del ghiaccio mentre due uomini lo costringono a ingoiare manciate di sale. «È per forzarlo a bere! I cavalli possono morire d’insolazione con questo caldo tremendo», esclama uno di loro. Il festival tradizionalmente aveva luogo il 25, 26 e 27 maggio, poi è stato spostato progressivamente fino a fine luglio. «In passato eravamo tutti contadini, e il festival rispettava il calendario shinto che scandiva la coltivazione del riso. Oggi a partecipare sono soprattutto degli impiegati e abbiamo dovuto abbandonare lentamente l’aspetto sacro del Nomaoi per trasformarlo in una festa estiva che coincida con il week end», spiega un anziano. Ogni anno, dei cavalli muoiono a causa del caldo, ma, svolgendosi in estate, il Nomaoi attira molti più turisti. Una manna economica non trascurabile, afferma Takahashi Makoto. Quest’ultimo ricorda che grazie alla nuova autostrada che collega Iwaki a Soma, il Nomaoi può accogliere oggi 210.000 visitatori provenienti da tutto il Giappone. La corsa sta per finire. In fondo al prato, scorgiamo Kazuhiko che va avanti e indietro sul suo cavallo, irrequieto. Non
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ha vinto la corsa ma rimane l’ultima prova, la più importante: l’Hatatori. Si tratta di afferrare al volo una quarantina di stendardi . Nel fragore simile a quello di un fuoco d’artificio, le bandiere sono lanciate ad una ad una verso il cielo, seguiti dallo sguardo attento dei samurai che si precipitano per accaparrarsele. D’improvviso, non hanno più l’aspetto docile e solenne di poc’anzi : si trasformano in un’orda di guerrieri che urlano e si insultano, pronti ad affrontarsi ad ogni lancio di stendardo. Quando l’ultimo suono di corno annuncia il termine della festa, Kazuhiko si getta nella mischia e conquista una bandiera all’ultimo momento. Invaso dall’emozione, va verso la tribuna per ricevere le congratulazioni della giuria. Niente è più importante del trofeo che stringe fra le mani. «È il più bel regalo che possa fare a mia moglie incinta e alla memoria dei miei antenati. Sono il più giovane della mia dinastia ad aver conquistato uno stendardo!» esclama stringendo al petto quello del santuario di Nakamura, nella sua amata città di Soma.
COME ARRIVARE PARTENDO DA TOKYO, si prende il treno ad alta velocità Tohoku shinkansen fino a Sendai. Bisogna calcolare due ore circa. Si cambia poi sulla linea che da Joban va a Haranomachi, distante circa 100 Km a sud. Una navetta gratuita conduce i passeggeri fino alla sede del festival. L‘appuntamento per il 2016 sarà dal 30 luglio al 1 agosto.
JR Kyûshû
ZOOM VIAGGIO
Il Nanatsuboshi Seven Stars, a Kyushu, è la punta di diamante dei treni giapponesi. È considerato l’equivalente dell’Orient Express (pag. 38)
ScoPERtA
I nuovi treni giapponesi
I treni speciali si sono sviluppati soprattutto sull’isola di Kyushu. Ma ora si moltiplicano nel resto dell’arcipelago.
P
rendere il treno in Giappone è un vero piacere. Possiamo regolarmente apprezzarne la puntualità, la pulizia e il comfort. Il treno vi porta ovunque, inclusi quei posti dove non esiste altro mezzo di trasporto. Ormai, prendere il treno in Giappone, soprattutto in certe regioni, equivale a vivere viaggi eccezionali. Da qualche anno, le ferrovie, confrontate a un calo dei passeggeri su certe linee, hanno riflettuto sulla possibilità di rilanciarle con la creazione di treni speciali. Anziché limitarsi a condannare linee poco sfruttate sebbene utili alla popolazione locale, i responsabili delle ferrovie hanno pensato a strategie efficaci per attirare nuovi viaggiatori. La loro idea è stata essenzialmente quella di promuovere il turismo locale nelle regioni interessanti tanto per le loro bellezze naturali, quanto per la loro dimensione storica. La società JR Kyushu è all’avanguardia in questo cambiamento strategico che comincia a portare i suoi frutti e a motivare così altre
società ferroviarie spingendole a seguire lo stesso esempio. Disponendo di una rete assai estesa, ma contando su una popolazione troppo poco numerosa per renderla redditizia e per permettere di gestirla adeguatamente, JR Kyushu si è lanciata nello sviluppo di questi treni il cui nome, spesso, è già tutto un programma. Yufuin No Mori (la foresta di Yufuin), Aso Boy (gioco di parole tra il verbo giocare - asobu - e il monte Aso) Hayato No Kaze (il vento di Hayato) o ancora il Nanatsuboshi in Kyushu (le sette stelle di Kyushu) solo per citarne alcuni, sono treni dall’identità forte, legata a quella della regione attraversata. Per il presidente Karaike Koji, è fondamentale saper conquistare una nuova clientela, stranieri in particolare. Fino ad oggi, la scommessa è vinta poiché il numero di turisti dall’estero è in forte aumento da qualche anno. Perlopiù asiatici, in particolare Coreani grazie al collegamento marittimo tra Fukuoka e Pusan, i viaggiatori apprezzano il comfort di questi treni e il punto di vista esclusivo che offrono sui paesaggi che attraversano. La maggior parte dei convogli hanno infatti grandi finestrini panoramici che permettono ai passeggeri di godere delle vedute
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esterne. Altri, come l’Orenji Shokudo (Ristorante Orange), entrato in servizio nel corso della primavera 2013, puntano su un altro aspetto rilevante della cultura locale: la cucina. Tra Sendai e ShinYatsushiro, i passeggeri possono sia degustare piatti deliziosi che approfittare di una vista impareggiabile sulla costa. Nell’arco di un solo anno, questo treno ha accolto più di 10.000 passeggeri. Oggi, JR Kyushu vorrebbe incrementare il numero dei viaggiatori europei. L’apertura della tratta aerea diretta Amsterdam-Fukuoka (4 voli alla settimana grazie a KLM) è un primo elemento a favore. La compagnia ha quindi deciso di riservare alcuni posti sul treno-star Nanatsuboshi per i clienti stranieri. Questo poiché la domanda da parte degli utenti giapponesi si è rivelata talmente importante da rendere impossibile ottenere una cabina prima di un anno d’attesa. Altre imprese del settore cominciano a imitare questa strategia competitiva. JR East ha recentemente annunciato l’intenzione di promuovere un treno-crociera simile al Nanatsuboshi. Ha creato inoltre il Tohoku Emotion, un convoglio ispirato all’Orenji Shokudo. ODAIRA NAMIHEI
ZOOM VIAGGIO tRENI
L’originalità fa la forza Koshino ShuKura
Hanayome Noren
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Giappone prima di raggiungere Nanao e poi Wakura Onsen, uno dei siti termali più importanti dell’arcipelago, l’Hanayome Noren propone più formule per i diversi momenti della giornata. Dal pranzo giapponese (2500 yen) alle dolci golosità del pasticciere Tsujiguchi Hironobu (2000 yen) servite in contenitori finemente decorati, i passeggeri sperimentano sia la gioia del palato che quella della vista. Tanto da suscitare il desiderio di risalire sul treno subito dopo aver assaporato l’esperienza di un bagno caldo nei Wakura Onsen. O. N.
n servizio attivo da maggio 2014, questo nuovo treno ha un nome che è già tutto un programma. “Shu” significa sakè. L’asterisco fa pensare all’ideogramma cinese che definisce il riso, mentre “Kura” vuol dire magazzino o fa riferimento al laboratorio dove si lavora il sakè. Il viaggio è dunque tutto centrato sulle caratteristiche di questa regione celebre per la coltivazione del riso, tra Takada e Tokomachi (linea Iiyama). Assaporando serenamente il proprio sakè scelto
JR East
odaira Namihei
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anazawa è raggiungibile da Tokyo in poco più di due ore in seguito all’estensione della linea ad alta velocità Hokuriku. La compagnia JR WEST ha colto l’occasione per inaugurare il treno Hanayome Noren, il cui obiettivo è quello di procurare puri momenti di gioia a tutti coloro che si offriranno un biglietto. Per riuscire nell’intento, bisogna riconoscere che i promotori non hanno risparmiato sui mezzi. Il convoglio circola quattro volte al giorno, da due a sei giorni alla settimana a seconda della stagione, tra Kanazawa e Wakura Onsen nella penisola di Noto. Nell’allestimento dei vagoni, l’accento è stato posto sulla raffinatezza dell’artigianato locale. In effetti, gran parte degli artigiani che hanno decorato il palazzo di Kyoto sono originari di questa regione. È opera loro questa lacca di straordinaria bellezza, frutto di una tradizione dalle profonde radici. Seguendo la linea costiera sul mare del
Tohuku Emotion
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er promuovere il ritorno dei turisti nelle regioni sinistrate, JR EAST ha inaugurato nella primavera 2014 questo treno-ristorante tra Hachinohe e Kuji, nel nordest dell’arcipelago. Come per l’Orenji Shokudo sull’isola di Kyushu, si tratta anche qui di valorizzare splendidi paesaggi, soprattutto lungo la costa del Pacifico, e di promuovere la tradizione gastronomica locale. I vagoni sono pensati per permettere ai passeggeri di godere delle vedute
I pasti sono serviti in stoviglie create da artigiani locali: una vera soddisfazione per i rappresentanti delle diverse attività economiche della regione, duramente colpiti dalla catastrofe dell’11 marzo 2011. Come suggerisce il nome stesso, questo treno suscita emozioni autentiche sia nell’animo dei viaggiatori che fra gli abitanti, felici del ritorno dei turisti. O. N.
fra i migliori della regione, i viaggiatori potranno godere della vista sul mare del Giappone assistendo a un concerto jazz dal vivo. Attraverseranno Oumigawa, la stazione più vicina al mare, e gusteranno la cucina locale servita a bordo. Tutte le stazioni toccate da questo nuovo treno sono state restaurate e rimodernate per accogliere i passeggeri in un ambiente gradevole e armonioso. Un’andata-ritorno costa 13.600 yen. O. N.
SL Ginga
migliori, gustando al tempo stesso delizie culinarie di alto livello. All’andata (partenza: 11.05) il pranzo è servito fino a Kuji (12.52). Al ritorno invece, (partenza: 14.20) il buffet dei dolci si può assaporare fino a Hachinohe (16.05). Il treno circola nei week end e nei giorni festivi. Per vivere l’esperienza, bisogna calcolare circa 11.300 yen tra andata e ritorno. È consigliato prenotare il prima possibile: i posti vanno letteralmente a ruba. Si può prendere il treno tanto quanto lo si desidera visto che il menù cambia ogni tre mesi, per adattarsi ai prodotti di stagione.
oro contrastano in maniera suggestiva con il paesaggio verdeggiante o innevato, a seconda del momento scelto per il viaggio. Chi volesse partecipare a questa esperienza deve prenotare
odaira Namihei
JR East
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l 12 aprile 2014, una settimana dopo la ripresa del servizio delle linee Kita Riasu e Minami Riasu, gestite dalla piccola società Sanriku Tetsudo nelle zone costiere più flagellate dallo tsunami, JR EAST ha inaugurato questo treno speciale ispirato al mondo di Miyazawa Kenji e alla sua opera Una notte sul treno della Via Lattea (Edizioni Marsilio). La compagnia deve farsi perdonare per aver tergiversato a lungo prima di riaprire alcune linee danneggiate. Ha il merito però di aver creato un treno straordinario che percorre i 90, 2 km tra Hanamaki e Kamaishi in 4h30, con uno stop di 70 minuti a Tono. Questa città è famosa perché si dice che ospiti i kappa, delle piccole creature birichine sempre pronte a fare scherzi. L’atmosfera retrò del treno, ricorda lo stile fine anni Venti, è particolarmente riuscita e permette di immergersi nel mondo di questo autore molto conosciuto in Giappone. All’esterno, i vagoni blu decorati da motivi color
uno dei 176 posti disponibili. Circola il week end e nei giorni festivi. Il treno ispirato a Miyazawa sta avendo un grande successo fra i turisti e fra gli appassionati di treni. O. N.
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ZOOM VIAGGIO LUSSo
L’Orient Express made in Japan
Dal mese di ottobre 2013 è possibile scoprire l’isola di Kyushu a bordo di un treno d’eccezione firmato Mitooka Eiji.
odaira Namihei
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el corso degli ultimi dieci anni, l’isola di Kyushu è diventata una sorta di paradiso per gli appassionati di treno in Giappone. È in questa regione che i treni speciali hanno conosciuto via via il successo. Dietro a questo fenomeno c’è il nome di Mitooka Eiji. Il designer ha ottenuto numerosi riconoscimenti per il suo lavoro con JR Kyushu, fra le quali i prestigiosi premi Brunel e Blue Ribbon attribuiti alle migliori opere ferroviarie. «JR Kyushu è stata capace di creare treni turistici in grado di valorizzare la bellezza dell’isola e di permettere a certe linee minacciate di chiusura, di continuare a esistere», spiega. Il suo gioiello è il Nanatsuboshi- Seven Stars in Kyushu, un “treno da crociera” talmente lussuoso che lo si può paragonare a un hotel a sette stelle. «Il suo nome si ispira alle sette stelle nella costellazione dell’Orsa Minore», racconta. «Secondo la tradizione, queste stelle aiutavano i marinai ad attravrsare l’oceano. Il nostro treno aiuta le persone a scoprire un nuovo modo di vivere. Sette è anche il numero delle prefetture di Kyushu, nonché il numero delle attrazioni principali dell’isola: la natura, le sorgenti termali, la cultura storica, i siti religiosi, la cucina, l’accoglienza e, ovviamente, i treni» aggiunge, ridendo. Quando si evoca il lusso, Mitooka spiega come mai il treno contenga tanti elementi preziosi. «Gli utenti ordinari passano in media meno di un’ora all’interno di un treno e un tipico viaggio dura al massimo qualche ora. Un percorso sul Nanatsuboshi può durare fino a quattro giorni. È un viaggio dispendioso, questo significa che la nostra clientela è particolarmente esigente. Non possiamo permetterci di deluderla. Potete starne
certi, i nostri clienti osservano tutto nei minimi dettagli, dal rubinetto della doccia ad ogni cassetto, vanno alla ricerca di ogni più piccolo difetto! (ride) Vogliono semplicemente essere sicuri che il loro denaro sia stato ben speso». Ma il treno da solo non è sufficiente per soddisfare tutte le esigenze e le aspettative dei passeggeri. È qui che il servizio entra in scena. «Il mio lavoro di designer consiste nel creare una storia nella quale ognuno interpreta il suo ruolo. Una volta che la scena è stata allestita, non si può cambiare subito. Se è stata ben concepita, il personale potrà lavorarci in maniera corretta. Ciò è di importanza vitale poiché poco importa cosa io abbia realizzato, se il personale non si trova a suo agio. È solo grazie alla sinergia tra un buon progetto e un eccellente servizio se i passeggeri che saranno protagonisti del viaggio si sentiranno bene nel loro ruolo. Ad esempio, due altri treni di mia concezione, lo Yufuin No Mori e il treno a vapore Hitoyoshi, dispongono di un buffet. I passeggeri
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possono bere qualcosa discutendo con il personale. È un particolare di cui si ricorderanno una volta scesi dal treno», afferma. Un viaggio nella suite deluxe del Nanatsuboshi costa più di un milione di yen per una coppia. Qualcuno può chiedersi come mai un viaggio così costoso conosca un tale successo in un Paese appena uscito dalla recessione. «All’inizio nutrivamo qualche dubbio, certo, ma i risultati hanno confermato che avevamo visto giusto. Oggi, ottenere un posto sul Nanatsuboshi rappresenta un’autentica sfida» confida, soddisfatto. Secondo il suo ideatore, il Nanatsuboshi non è così caro. «Non lo è se si ragiona in termini di qualità. Secondo i miei calcoli, la JR Kyushu non guadagna molto denaro con questo treno (ride). La compagnia lo considera soprattutto come un simbolo, un motivo di orgoglio. È un modo per mostrare al resto del mondo ciò che la JR Kyushu è capace di realizzare. Da parte mia, l’intenzione era quella di creare qualcosa che incontrasse i favori della maggior parte delle persone. Se creiamo un bene rivolto al pubblico seguendo criteri di qualità, è possibile ottenere un prodotto di alto livello compatibile con la natura. L’estetica e l’etica possono procedere di pari passo. Noi adulti abbiamo il dovere di creare cose meravigliose per i nostri figli, e loro hanno il diritto di godersele». JEAN DEROME
INFORMAZIONI PRATICHE QUESTO TRENO-CROCIERA propone due formule (4 giorni-3 notti oppure 2 giorni-1 notte) che permettono di scoprire il fascino e le bellezze di questa parte meridionale del Giappone. I prezzi vanno da 300.000 yen a 635.000 yen per la formula 2 giorni-1 notte, a seconda della cabina scelta, e da 650.000 yen a 1,4 milioni di yen per la formula 4 giorni-3 notti. www.cruisetrain-sevenstars.com