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TERAPIA
TERAPIA LLA Ph+
Leucemia linfoblastica acuta Ph+, storia di un successo (italiano)
Oggi, anche grazie al contributo della ricerca italiana, una malattia un tempo caratterizzata da prognosi nefasta può essere curata con successo e fa meno paura. Servono altri studi nel contesto pediatrico per ottimizzare i risultati
a cura di ALESSIA DE CHIARA Quella della leucemia linfoblastica acuta Philadelphia positiva, indicata anche con la sigla LLA Ph+, è una storia lunga e non ancora conclusa, ma costellata da molti successi e nella quale la ricerca italiana ha ricoperto e tutt’ora ricopre un ruolo da protagonista. Negli ultimi decenni sono stati compiuti notevoli passi in avanti nel trattamento di questa malattia ematologica. “Risultati positivi raggiunti grazie ai fi nanziamenti alla ricerca di base, molti dei quali arrivati da Fondazione AIRC. Non è un caso isolato: le scoperte fatte in laboratorio hanno permesso in tante malattie di fare passi in avanti nell’ambito clinico, ma la storia della LLA Ph+ ne è un esempio emblematico” afferma Robin Foà, professore emerito di ematologia presso il Dipartimento di medicina traslazionale e di precisione alla Università La Sapienza di Roma, che in un recente articolo pubblicato sulla prestigiosa rivista New England Journal of Medicine ricostruisce, in collaborazione con Sabina Chiaretti, professore associato nella stessa università, i progressi compiuti nella cura di questa malattia.
LA SCOPERTA
Il primo capitolo di questa storia è stato scritto oltre 60 anni orsono a Philadelphia, dove nel 1960, con un’analisi citogenetica (lo studio dei cromosomi nelle cellule), si individuò una particolare alterazione cromosomica nella leucemia mieloide cronica (LMC), denominata appunto cromosoma Philadelphia (Ph). “Si tratta della prima alterazione citogenetica trovata in un tumore umano” afferma Foà, sottolineando l’importanza della scoperta, poiché ha dimostrato in pratica come un’anomalia a livello del genoma possa causare un tumore.
Il cromosoma Ph è frutto di una sorta di scambio tra due cromosomi (9 e 22), defi nito “traslocazione” in gergo scientifi co, in cui una porzione del primo prende il posto di una porzione del secondo e viceversa. Il processo determina la formazione di un gene (BCR-ABL1) che produce una proteina di fatto responsabile della moltiplicazione incontrollata delle cellule, e quindi della malattia.
A partire da quella iniziale scoperta, la ricerca ha permesso di ottenere informazioni sempre più dettagliate portando, agli inizi degli anni 2000, allo sviluppo della prima molecola in grado di contrastare l’anomalia nella LMC. Oggi siamo alla terza generazione di questa tipologia di farmaci, somministrati per via orale e noti come inibitori tirosinchinasici (TKI), il cui avvento ha rivoluzionato il decorso della malattia, con i pazienti che presentano un’aspettativa di vita simile a quella delle persone senza leucemia.
L’anomalia genetica (Ph) è presente anche nella LLA, più raramente nel bambino, mentre viene ritrovata sempre più spesso con l’avanzare dell’età dei pazienti e, in pratica, nella metà di coloro che hanno superato i 50-60 anni. In questi casi si parla appunto di LLA Ph+.
UNA MALATTIA CHE FA MENO PAURA
“Prima dell’uso dei TKI, la LLA Ph+ era la peggior neoplasia in ematologia, se non addirittura in oncologia. Era una malattia devastante con una prognosi infausta. L’unica
Il ricercatore AIRC Robin Foà
possibilità di cura era portare il paziente al trapianto di cellule staminali, ma per farlo è necessario che il paziente abbia risposto alle terapie, cosa difficile soprattutto nell’anziano. Inoltre, la probabilità di poter effettuare un trapianto è inversamente proporzionale all’età” dice Foà.
Mentre prima nei pazienti anziani ci si orientava spesso verso una terapia di supporto, anche per le loro difficoltà nel sopportare la chemioterapia, oggi con i TKI lo scenario è completamente cambiato.
In principio i TKI venivano somministrati in aggiunta alla chemioterapia. Grazie proprio agli studi italiani, si dimostrò che si poteva evitare di ricorrere alla chemio fin dalla fase iniziale delle cure, alla luce dei risultati ottenuti nella LMC.
“Pensare di utilizzare il primo TKI esistente da solo nei pazienti sopra i 60 anni senza limite massimo di età era eticamente accettabile, vista la loro pessima prognosi. E la sorpresa fu che tutti i pazienti coinvolti risposero al trattamento” spiega Foà, ricordando il primo studio, i cui risultati furono pubblicati nel 2007.
Altre ricerche condotte in Italia con altri TKI hanno proseguito su questa strada, fino ad arrivare all’ultimo studio clinico in cui, dopo una prima fase di terapia con un TKI (induzione), il trattamento è stato associato a un farmaco immunoterapico come consolidamento. E i risultati, pubblicati a fine 2020 sul New England Journal of Medicine, sono decisamente positivi. “Sta avvenendo una rivoluzione nell’approccio terapeutico da un lato, e nella prognosi dall’altro. È un
ricerca di base leucemia linfoblastica acuta cromosoma Philadelphia
cambiamento epocale” afferma Foà.
PAROLA D’ORDINE: INTERAZIONE
“Per la gestione ottimale della LLA Ph+ e di tutte le leucemie acute, e direi nell’ematologia in generale, il ruolo del laboratorio è fondamentale. Serve una stretta interazione tra i diversi tipi di laboratorio e la clinica. Questo fin dal principio, perché prima di somministrare un TKI bisogna dimostrare nei primi 7 giorni dalla diagnosi che il paziente ha una specifica lesione genetica. Il che vuol dire poter disporre di un laboratorio attrezzato per farlo” dice Foà. “In Italia, dove l’ematologia è molto avanzata, non è un problema. Abbiamo una rete di gruppi che cooperano in ambito sia pediatrico (AIEOP, Associazione italiana di ematologia e oncologia pediatrica) sia adulto (GIMEMA, Gruppo italiano malattie ematologiche dell’adulto), e che permette di trattare i pazienti sempre allo stesso modo e con le terapie più avanzate. I campioni sono gestiti in maniera centralizzata e sempre in laboratori certificati e con procedure standardizzate. Tutto ciò rappresenta una garanzia. Capita da noi e in altri Stati europei, come pure in America, Canada, Australia e in altri Paesi ancora, ma il mondo è molto vasto e in diverse zone tutto questo non esiste” afferma Foà, descrivendo i vantaggi che potrebbero ottenere i Paesi con meno risorse dall’uso dei TKI nelle LLA Ph+. Trattare con questi farmaci pazienti di tutte le età, quando identificati precocemente, significa fornire loro una terapia orale che permette di ridurre gli accessi in ospedale così come il numero e i tempi di ricovero, un aspetto da non sottovalutare anche in tempi di pandemia da Covid-19.
IL FUTURO È GIÀ QUI
La storia della LLA Ph+ non è terminata. “Riteniamo che una quota di pazienti possa essere curata senza essere sottoposta a chemioterapia o a trapianto, anche quando c’è un donatore compatibile, ma dobbiamo provarlo” afferma l’esperto. “È già in corso in Italia uno studio, il primo al mondo, che mira a dimostrarlo in modo inequivocabile.” Il trapianto rimane tuttavia necessario in alcune categorie di pazienti, per esempio in chi presenta lesioni genetiche aggiuntive alla diagnosi oppure una malattia minima persistente.
Il trattamento chemio-free, e cioè che non prevede chemioterapia (né trapianto), è ora possibile per i pazienti di qualsiasi età ma comunque adulti. E per i più piccoli? “I bambini vengono curati con protocolli disegnati per l’età pediatrica che, in genere, sebbene dipenda dai singoli Paesi, arriva ai 18 anni. In ambiente pediatrico si tende ancora a somministrare la chemioterapia, sempre però associata a un TKI. I bambini tollerano la chemioterapia molto meglio degli adulti e hanno in generale una prognosi più favorevole, per cui al momento ci sono meno motivi per cambiare approccio. È un aspetto dibattuto ed è possibile che nel tempo la situazione vari, ma per il momento non si è ancora arrivati a ricorrere all’approccio utilizzato negli adulti” conclude Foà.