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BACKTEE La voce del silenzio

La voce delSILENZIO

Marco Dal Fior OLTRE A QUELLO ATMOSFERICO, ESISTE UN’ALTRA FORMA DI INQUINAMENTO: IL RUMORE. IN QUESTO PERIODO LE CITTÀ DESERTE CI RISPARMIAMO I DECIBEL ECCESSIVI. E CI RICORDANO LA MERAVIGLIOSA COLONNA SONORA CHE SIAMO ABITUATI AD ASCOLTARE SU UN CAMPO DI GOLF

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Ci hanno spiegato che il lungo periodo passato agli arresti domiciliari, prigionieri del Covid 19 e dei rischi connessi, ci ha sì rotto all’inverosimile i cabasisi, ma ha anche dato una bella ripulita all’ambiente. Le meduse a spasso nei canali di Venezia, i canguri saltellanti per le città australiane, i cerbiatti a caccia di cibo nei giardini di paesi e città sono stati un effetto secondario ma niente affatto spiacevole della quarantena. A sentire gli studiosi, anche i livelli di inquinamento sono precipitati a livelli quasi accettabili. A Pechino girare in bici, oggi, non è più una pedalata nella camera a gas.

Quando pensiamo all’inquinamento, di solito, fermiamo l’attenzione su quello atmosferico. Ci concentriamo su ossido di carbonio, polveri sottili, ozono e loro derivati. Ma esiste anche un’altra forma di ammorbamento dell’ambiente: il rumore. Quando gli storici del quarto millennio dovranno definire i tempi nei quali navighiamo con fatica, potrebbero scegliere come definizione proprio “civiltà del rumore”. Mai è capitato, nei secoli che ci hanno preceduto, di vivere con un brusio di fondo come succede in questi tempi. È’ vero: già i nostri padri e i nostri nonni, abbandonata la quiete dei campi, hanno dovuto fare i conti con la civiltà industriale e lo sferragliare operoso di telai e macchine sempre più sofisticate e autonome. Ma siamo noi quelli della televisione sempre accesa, delle interminabili e rombanti code ai semafori, dei motorini in furiosa impennata, dei telefoni perennemente connessi e inesorabilmente trillanti. E siamo sempre noi quelli degli iPod a palla con cuffietta ben calcata sulle orecchie per mettere una barriera di musica tra noi e il mondo che ci circonda. Per non parlare delle autoradio oltre il muro del suono, capaci di far pulsare le portiere della turbo e di contagiare con il tum-tum-tum della techno music anche il distratto taxista in attesa del verde.

Dovremo confessarcelo un giorno o l’altro: abbiamo paura del silenzio, di questo vuoto di stimoli che stuzzica i pensieri, accende i ragionamenti, spinge i neuroni fino a quell’acrobatica panoramica su noi stessi che i vecchi catechisti dell’oratorio chiamavano “esame di coscienza”. Il silenzio spinge a riflettere, a pensare, ad analizzare. E non sempre il risultato di queste introspezioni è esaltante. Meglio allora accendere la tv e seguire le peripezie dei finti famosi sugli atolli di cartapesta o i mercanteggiamenti dei pacchi con milione incorporato.

La reclusione da Coronavirus ci ha in parte liberato, oltre che dai gas, anche dal rumore. Città silenziose, nelle quali si è potuto dialogare da un balcone all’altro, caos calmo senza acuti, effetto sordina sulla civiltà del frastuono. Perfino le metropoli sono diventate silenziosamente accoglienti come un campo da golf. Perché è l’assenza di rumori che fa – o dovrebbe fare - da colonna sonora al nostro sport. Silenzio che non significa una regola monacale per cui non ci deve scambiare neppure mezza parola in fairway. Ma indica la quiete nella quale possiamo dare sfogo in libertà ai nostri swing.

Un’oasi muta nella quale il tambureggiare del picchio sulla corteccia di un abete diventa un assolo da applausi. O il cinguettio di chissà quale volatile sottolinea il nostro peregrinare tra i green con la stessa intensa enfasi di una colonna sonora di Ennio Morricone. Una splendida immersione nel silenzio, ma con l’aggiunta di un salvagente geniale: se i pensieri, per caso, diventassero troppo prepotenti e spingessero verso conclusioni inopportune, la pallina consente sempre repentini cambi di direzione. Basta lasciare che i ragionamenti si avvitino in gorghi inestricabili e, mentre ci si avvicina al prossimo colpo, concentrarsi di nuovo sullo swing e sui suoi misteri.

Un silenzio, si direbbe oggi, “on demand”. Vi pare poco? (mdalfior@alice.it)

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