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Aprire il carcere

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Ultimo tratto

Ultimo tratto

Nell’immaginario collettivo il carcere è il luogo della negazione di ogni relazione. Ma perché l’istituzione carceraria possa davvero svolgere la sua funzione costituzionale, il recupero sociale del detenuto, ha bisogno di valorizzare tutte le relazioni che la aprono verso l’esterno: con i territori, le istituzioni, il mondo della cultura e delle imprese. E con le reti familiari, affettive e sociali che accompagnano chi sta in carcere nel percorso di reintegrazione.

Testo Gloria Manzelli Immagini Stefano Vaja

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A P R I R E I L C A R C E R E

Parlare di relazioni in carcere introduce una prospettiva nuova, quasi provocatoria per un argomento, quello della pena, che da sempre soffre delle piú profonde contraddizioni, e dei molti pregiudizi dovuti spesso alla scarsa conoscenza che si ha del sistema penitenziario italiano, dei principi ispiratori sanciti dalla costituzione, delle norme che lo regolano e della piú ampia cornice normativa europea.

La dimensione relazionale potrebbe sembrare incompatibile con l’ambiente carcerario, luogo chiuso per definizione, circoscritto e protetto da un muro di cinta, quasi a sancirne pubblicamente l’inaccessibilità. Nell’immaginario collettivo il carcere è una sorta di girone infernale che non lascia spazio alla dignità del detenuto, che ne annienta la personalità, dove i rapporti tra i pari sono di tipo esclusivamente criminoso e violento, difficilmente annoverabili tra le relazioni.

L’articolo 27 della Costituzione italiana chiarisce contenuto e funzione della pena: le condanne “non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, e “devono tendere alla rieducazione del condannato”. È inoltre stabilito a livello costituzionale il principio di presunzione di innocenza per l’imputato sino a sentenza definitiva di condanna. Al centro della norma è il singolo individuo, imputato o condannato, non la popolazione detenuta nella sua generalità. L’Assemblea costituente ha tracciato un percorso molto chiaro per il legislatore: il perno su cui deve ruotare l’intero sistema è l’individuo, l’autore del reato, chi ha violato il patto sociale. Logico corollario è il principio della personale responsabilità penale, che può essere attribuita solo a colui che ha infranto le regole, colpevole acclarato di un reato specifico con sentenza passata in giudicato, non ai suoi familiari, alla sua rete amicale, affettiva e sociale. Il legislatore del 1975 nel definire le modalità di intervento sul condannato ha stabilito che “il trattamento individuale deve rispondere ai particolari bisogni di ciascun individuo […] per ciascun condannato e internato […] sono formulate le indicazioni in merito al trattamento rieducativo” che ne favoriscano la responsabilizzazione.

La “rieducazione” del condannato in termini concreti e operativi consiste nel suo rientro proficuo e graduale, al termine della pena, nel contesto sociale, supportato da strumenti personali, lavorativi, affettivi. È evidente come, oltre alla presenza di presupposti oggettivi, la volontà del condannato assuma un ruolo centrale per la riuscita del progetto di risocializzazione e per il definitivo affrancamento dalle logiche delinquenziali. In questa fase il detenuto è e deve essere coinvolto attivamente; un atteggiamento passivo, rassegnato o di adesione solo apparente rischia di compromettere l’esito del programma di recupero.

Mai come in questa fase dell’esecuzione penale la personalità del condannato assume un ruolo centrale. La determinazione a costruire già all’interno del carcere un percorso virtuoso che lo sostenga in uno stile di vita rispettoso delle norme è imprescindibile. Il cambiamento di rotta non può essere imposto dall’alto e l’istituzione in questo senso è tenuta a promuovere nella persona una riflessione profonda e una rivisitazione critica del vissuto, accompagnando e supportando la scelta di legalità, che tuttavia può arrivare solo dalla persona interessata.

La funzione rieducativa della pena è un compito arduo, e non può che passare attraverso lo snodo cruciale di una svolta culturale trasversale a tutte le componenti sociali, che porti a considerare la popolazione detenuta una possibile risorsa per il sistema paese, e le carceri quartieri della città di cui i servizi pubblici devono farsi carico. Ecco la prima, fondamentale relazione. Il carcere si deve rapportare con il territorio, con tutte le componenti istituzionali, sociali, civili, culturali e produttive del contesto di riferimento. In questo vi è un obbligo di reciprocità perché il territorio a sua volta non deve essere impermeabile ma inclusivo.

Il principio per cui il carcere non può mai essere considerato estraneo al contesto territoriale, alle sue fragilità e alle sue risorse, costituisce un elemento fondamentale per una concreta, efficace integrazione e per il superamento dei pregiudizi. La funzione della pena, la prevenzione dei reati non è, e non può essere, una competenza esclusiva dell’amministrazione penitenziaria, ma deve necessariamente chiamare in causa tutti

gli attori istituzionali e i servizi preposti perché il cittadino detenuto sia portatore di diritti e di doveri analoghi a quelli riconosciuti e richiesti al libero cittadino. Il successo o il fallimento di un percorso di recupero coinvolgono tutte le istituzioni e i servizi pubblici di cui il sistema penitenziario non è che un segmento. Con lungimiranza il legislatore del 1975 ha previsto il principio per cui la società esterna – privati, istituzioni, associazioni – deve partecipare all’azione rieducativa del condannato, anche entrando in carcere per farsi parte attiva di questa delicata e difficile vicenda. Viceversa, il carcere deve aprirsi e diventare tutt’uno con il territorio di riferimento. Alla società civile devono affiancarsi le forze produttrici del paese, l’impresa deve guardare alla manodopera detenuta come a una reale risorsa produttiva; gli investimenti in carcere sono da sempre un valore aggiunto nella qualità degli interventi per il recupero delle persone detenute. Il lavoro è il tema centrale di ogni percorso di reinserimento sociale. Il lavoro conferisce dignità, autonomia e crea le basi per il progressivo sviluppo della persona. Un lavoro e una casa dignitosi sono troppo spesso una chimera per l’ex detenuto, soprattutto nei periodi storici travagliati da crisi economiche e insicurezza sociale.

Negli ultimi decenni si sono registrati risultati importanti in questa direzione. Si sono avviati, con successo, laboratori teatrali, musicali, di pittura, attività sportive di ogni genere e soprattutto corsi scolastici, dall’alfabetizzazione di base all’istruzione universitaria. Sono stati aperti istituti penitenziari a vocazione trattamentale avanzata, concepiti già in sede di progettazione con spazi e accessi adeguati all’allestimento di impianti produttivi anche di una certa complessità, nei quali le imprese hanno potuto allestire le proprie lavorazioni. Si sono aperti call center interamente gestiti da detenuti, sartorie e laboratori di tessitura, produzioni alimentari e ristoranti fruibili da clienti esterni, compagnie teatrali che si esibiscono in teatri esterni a beneficio di un pubblico di non detenuti.

La sinergia tra istituzioni e realtà produttive è risultata una carta vincente. Laddove il tessuto sociale si è reso permeabile e sensibile e gli istituti penitenziari hanno saputo interagire con il territorio cogliendo le opportunità, si sono realizzati importanti e consolidati risultati di integrazione e reinserimento. Le diverse attività produttive intramurarie non hanno assunto una connotazione assistenziale, e si sono rivelate altamente competitive. I prodotti, immessi sul mercato, sono concorrenziali rispetto alla filiera produttiva esterna. In questi casi gli imprenditori si sono lanciati nella sfida di avviare all’interno delle carceri veri e propri rami d’azienda o fasi produttive, affidandoli alla manodopera detenuta, assunta direttamente. Il rapporto è quello datore di lavoro/dipendente, e questa scelta ha l’ulteriore vantaggio di trasferire ai detenuti professionalità e specializzazione, spendibili anche successivamente, a condanna scontata. Il tema della professionalizzazione delle attività lavorative è cruciale. Il mercato del lavoro, come quello produttivo, si è trasformato e globalizzato; formazione e specializzazione professionale sono un valore aggiunto e una garanzia nella costruzione di un percorso di reintegrazione sociale stabile.

La formazione professionale dei detenuti di competenza degli enti locali deve diventare una delle priorità nell’agenda delle istituzioni. Investire nella creazione di posti di lavoro anche per detenuti significa investire in sicurezza sociale, in modo piú efficace e duraturo di qualsiasi investimento nell’edilizia penitenziaria per la creazione di nuove carceri. La prevenzione deve essere declinata principalmente sul territorio, nel tessuto sociale, economico e culturale del paese,

LADDOVE IL TESSUTO SOCIALE SI È RESO PERMEABILE E SENSIBILE E GLI ISTITUTI PENITENZIARI HANNO SAPUTO INTERAGIRE CON IL TERRITORIO, SI SONO REALIZZATI IMPORTANTI E CONSOLIDATI RISULTATI DI INTEGRAZIONE E REINSERIMENTO.

Stefano Vaja è un fotografo di teatro, reportage ed etnografia. Da ventidue anni è il fotografo della Compagnia della Fortezza. Con Nicola Scaldaferri ha pubblicato Nel paese dei cupa cupa (Squilibri, 2005), Santi, animali e suoni (Nota, 2005) e Il suono dell’albero, (Nota, 2012, When the trees resounded è la versione inglese del 2019), tutti sulle feste rituali in Basilicata. Realizza video e documentari.

e risultare dalla sinergia di tutte le forze sociali. Vale la pena riportare testualmente il 1° comma dell’articolo 17 dell’Ordinamento penitenziario, che sancisce il principio di responsabilità sociale in relazione alla funzione della pena: “La finalità di reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando e organizzando la partecipazione di privati e di istituzioni o associazioni pubbliche e private all’azione rieducativa”.

Le eccellenze del sistema che abbiamo citato, tuttavia, non sono ancora patrimonio comune di tutti gli istituti penitenziari, essendo numerosi i contesti in cui sono ancora scarse la sensibilità e l’attenzione verso il tema dell’espiazione della pena, e della necessità e opportunità di partecipare fattivamente all’azione di reinserimento sociale dei cittadini detenuti. Un atteggiamento che non è limitato ad alcune aree del paese ritenute storicamente “a rischio”, ma si manifesta anche in aree piú solide. Per questo una svolta culturale è fondamentale per rimuovere i pregiudizi.

Finora abbiamo descritto la relazione tra istituzioni e servizi pubblici dei quali deve far parte anche il carcere. Tuttavia la persona reclusa non è solo un nome su un fascicolo, un elenco di norme violate, una condanna in espiazione, una data di fine pena. È anche un padre o una madre, marito, moglie, figlio, figlia, sorella, fratello, lavoratore, amico. Proviene da un contesto sociale, familiare, lavorativo che è necessario conoscere ed esplorare per comprendere se può essere considerato una risorsa su cui contare, o viceversa un fattore di rischio. Ecco introdotto il delicatissimo tema delle relazioni personali dei detenuti.

L’evento carcerazione segna una frattura insanabile non solo nella vita di colui che è privato della libertà personale, ma ha ripercussioni inevitabili anche nell’ambito della cerchia familiare piú intima, piú ristretta, e piú in generale nella rete sociale di appartenenza. L’istituzione penitenziaria italiana è lontana da meccanismi di spoiler degli affetti e dei legami indissolubili nella vita delle persone, anche per il piú pericoloso cri-

PER IL SUCCESSO DI UN PERCORSO RIEDUCATIVO È DETERMINANTE LA PRESENZA E IL SOSTEGNO DI UNA RETE DI RELAZIONI AFFETTIVE CHE, IN COLLABORAZIONE CON LE ISTITUZIONI, CONTRIBUISCA AL PROCESSO RIABILITATIVO.

minale. Nei casi in cui sono presenti figli minori, l’obiettivo è farli diventare un valido sostegno valoriale con cui costruire un concreto ed efficace programma di recupero del condannato. Prima ancora del dato normativo, è l’esperienza maturata sul campo a insegnare quanto sia determinante per il successo di un percorso rieducativo la presenza e il sostegno di una rete di relazioni affettive che, in collaborazione con le istituzioni, contribuisca al processo riabilitativo. Non solo, ma il mantenimento dei legami affettivi gioca un ruolo fondamentale durante la carcerazione, alleviandone in qualche modo il peso, favorendo anche la resilienza del carcerato durante le fasi processuali sino alla pronuncia della sentenza di condanna.

I rapporti con i familiari costituiscono uno snodo cruciale dell’intero percorso detentivo, su cui gli operatori focalizzano l’attenzione e l’approfondimento sin dai primissimi interventi di presa in carico della persona arrestata. A questi aspetti l’ordinamento italiano dedica molta attenzione. La direzione del carcere è tenuta a segnalare al centro di servizio sociale i detenuti che non mantengono rapporti con i propri familiari, perché l’isolamento affettivo costituisce un fattore di rischio che deve essere monitorato. Nel corso della detenzione i rapporti con familiari, conviventi e amici sono coltivati attraverso i colloqui visivi e la corrispondenza telefonica ed epistolare, anche se quest’ultima, in carcere come all’esterno, è da considerarsi ormai retaggio d’altri tempi.

Naturalmente le modalità dei rapporti con familiari o terze persone non sono lasciate alla autodeterminazione del detenuto e/o del congiunto, ma sono regolamentate da specifiche norme di legge che, pur riconoscendone la rilevanza, pongono delle limitazioni funzionali all’armonizzazione di esigenze diverse. Da una parte la salvaguardia dei rapporti affettivi ma, dall’altra, l’altrettanto pregnante necessità di tutela della sicurezza e dell’attività investigativa. Sia i colloqui visivi sia la corrispondenza telefonica sono sottoposti, quindi, alla preventiva autorizzazione da parte delle autorità. La norma tuttavia, anche in presenza dell’autorizzazione, prevede un limite quantitativo e temporale dei rapporti con familiari e terze persone. I detenuti e gli internati usufruiscono di sei colloqui al mese di un’ora ciascuno, con alcune restrizioni per chi è stato condannato per reati piú gravi. Su quest’ultimo aspetto il legislatore italiano, anche nei piú recenti interventi, non ha voluto superare un approccio difensivistico al delicato tema dei rapporti familiari, subordinandone la centralità al giudizio di pericolosità sociale.

Un’attenzione particolare va dedicata ai bambini che entrano in contatto, direttamente o indirettamente, con il carcere, e che purtroppo sono numerosi. Alla data del 31 ottobre 2019 a fronte di 60.985 detenuti, di cui 2.676 donne, risultavano detenute 49 madri con figli al seguito (di cui 28 straniere) e 52 minori (di cui 29 stranieri). Complessivamente i detenuti genitori sono circa il 50% del totale e nel corso del mese di settembre 2019, su 107.504 colloqui, 33.154 sono stati quelli con almeno un familiare minore (pari al 30,8%); dei 105.355 familiari ammessi ai colloqui, 24.354 erano minori (pari al 23,1%). Il tema dei minori nel circuito penitenziario italiano è di dimensioni rilevanti, non solo per l’aspetto quantitativo, ma soprattutto per le implicazioni nello sviluppo di bambini e ragazzi.

La relazione affettiva è sostenuta anche attraverso l’istituto dei permessi, autorizzazioni a uscire dal carcere in occasione di eventi particolari che attengono la sfera familiare e affettiva. I permessi sono concessi anche in caso di pericolo di vita di un familiare o di un convivente o in si-

tuazioni di particolare gravità e rilevanza per il nucleo di appartenenza del detenuto. Con l’istituto giuridico dei permessi premio i condannati che hanno tenuto una condotta regolare possono essere autorizzati dal magistrato di sorveglianza a trascorrere dei periodi fuori dal carcere per coltivare interessi affettivi, culturali e di lavoro. A differenza dei permessi concessi per gravi motivi, i permessi premio sono il risultato di un percorso di adesione alle regole intramurarie e di rivisitazione critica del trascorso delinquenziale; questa esperienza è parte integrante del programma di trattamento del singolo detenuto, e deve essere seguita da educatori e assistenti sociali in collaborazione con gli operatori del territorio.

L’insieme di questi provvedimenti rivela come l’ordinamento penitenziario italiano ritenga quello delle relazioni un fattore cruciale per il raggiungimento degli obiettivi che la Costituzione italiana assegna al sistema delle pene. Relazioni che sottraggono il detenuto all’isolamento, e si irradiano a partire dal suo contesto ambientale e affettivo di riferimento fino a coinvolgere tutti gli attori istituzionali e sociali. ◊

“Sono piú di trent’anni che mi chiudo ogni giorno in questa stanza. Per la prima volta, oggi, mi è sembrata una cosa enorme. Gli inizi sono sempre prossimi alla fine, quando cominci pensi che tutto possa finire un attimo dopo”. Invece in quella stanza del carcere di Volterra in cui è entrato per la prima volta nel 1988, Armando Punzo ci torna ogni giorno da allora, per fare teatro con i detenuti-attori della sua Compagnia della Fortezza. “Se ho scelto di fare il mio teatro in questa stanza – ha detto – non è perché mi interessi il carcere. Anzi. A me interessa solo chi riesce a sentirsi libero in un carcere, chi riesce a decrescere, depotenziarsi, sminuirsi, farsi talmente piccolo da passare come pensiero altro attraverso le sbarre della prigione. Il carcere reale è metafora concreta di un carcere piú ampio in cui tutti viviamo. Entrare qui dentro significa varcare un limite che esiste anche nel mondo fuori, ma che in carcere è visibile, evidente. Il teatro diventa uno strumento perfetto per straniarlo. Perché quel limite altro non è che l’uomo. Sono io. In carcere il male diventa trasparente”. Nella sua ricerca concreta e circoscritta sul rapporto tra limiti e resistenza, in oltre trent’anni di spettacoli nati in una cella di tre metri per nove e presentati nel cortile assolato della prigione medicea, il regista, drammaturgo e attore ha ottenuto i massimi premi e riconoscimenti italiani ed europei, facendo della Fortezza un riferimento imprescindibile nella storia del teatro contemporaneo, una compagnia che attira migliaia di spettatori a ogni nuovo debutto e calca i piú prestigiosi palcoscenici del Paese. Le foto dello spettacolo Naturae, regia e drammaturgia di Armando Punzo, sono di Stefano Vaja.

Armando Punzo, Un’idea piú grande di me. Conversazioni con Rossella Menna, Luca Sossella editore, nuova edizione 2020.

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