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Mettersi in mezzo

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Ultimo tratto

Ultimo tratto

È come se il Covid-19 avesse messo a nudo le strutture implicite della nostra società, disseminata di dispositivi che ci rendono invisibili gli uni agli altri. Anche prima della pandemia, infatti, cercavamo di renderci immuni dall’incontro con l’altro, e rifuggivamo il coinvolgimento nella communitas. Gli smottamenti creati dall’emergenza hanno però denunciato la fragilità dei luoghi svuotati dall’economia dei fl ussi, e quindi la necessità di ricostruire i tessuti: politici, sociali, culturali. Per sostituire fi nalmente alla chiusura immunitaria l’apertura comunitaria. Mettersi in mezzo.

Testo Aldo Bonomi Immagini Roger Ballen

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Blinded, 2005.

nel secondo novecento ci eravamo abituati ad associare all’invisibilità sociale un insieme di fenomeni che rimandavano a condizioni di marginalità ed esclusione, a contesti connotati da arretratezza o ritardo rispetto a un ampio processo di sviluppo tutto sommato inclusivo. Oggi l’invisibilità riguarda invece il corpo centrale della società, come una nebbia che si estende dai margini della città per arrivare al centro, a sua volta diventato convenientemente invisibile; sollevato, potremmo dire, al di sopra dell’indistinto sociale, illuminato e talvolta accecato come una falena dalla luminosità delle promesse del progresso tecnologico. Questa immagine, che può apparire apocalittica, ci dice anche qualcos’altro. L’invisibilità sta tanto nella dimensione orizzontale di chi è immerso nella nebbia e non riesce a distinguere e riconoscere il simile a sé, quanto nella dimensione verticale di chi dall’alto non vede altro che una coltre grigia uniforme. Una cortina che non è certo un fenomeno naturale, è semmai il prodotto di un vasto processo sociale generato da una spinta verticale alla modernizzazione che fa fatica a tradursi in civilizzazione diffusa. E determina quel grande disallineamento tra le traiettorie accelerate del progresso tecnico-scientifico e delle relative tecnostrutture funzionali, che si colloca nella dimensione dei “flussi”, e la lenta metabolizzazione politica, sociale e antropologica radicata nei luoghi. Traiettorie sulle quali si è interrogato anche un grande storico come Aldo Schiavone, nel suo breve saggio sul senso della nozione di progresso.

All’interno di questa cornice sistemica la connotazione sociale dell’invisibilità rimanda a una dimensione critica della relazionalità umana, rispetto alla quale mi è sempre sembrato utile ricorrere alla categorizzazione elaborata da Roberto Esposito e giocata sulla dicotomia Immunitas-Communitas. In altre parole, se l’invisibilità, a partire dalla dimensione micro, è in prevalenza il prodotto dell’incapacità di vedere o della mancanza di volontà di guardare all’altro, è perché il nostro sguardo è guidato da una razionalità “immunitaria”. Cosa significa? Significa fondamentalmente che lo sguardo rifugge da ciò che ci “accomuna” in quanto persone, esseri umani, alla collettività dei quali eravamo, in un tempo remoto, gratuitamente vincolati in un meccanismo di reciprocità. Ed è invece attratto da ciò che libera da questa responsabilità grazie a pervasivi dispositivi di mediazione e di regolazione “terzi” (le norme, il diritto, la razionalità economica, i vincoli esterni ecc.) che ci immunizzano dal destino altrui, inibendo i neuroni specchio dell’empatia, e ci permettono di coltivare le nostre microeconomie identitarie ed emotive, costruite sulla fantasmagoria delle precarie distintività di status già descritte da Bourdieu.

L’immunità che produce invisibilità, nonché le varie sindromi a essa connesse, è perciò il propellente di una società sovrabbondante di mezzi funzionali alla costruzione di identità prive di un senso di appartenenza a una qualche direzione collettiva della storia. Tutto ciò è, a mio modo di vedere, ancora piú evidente se pensiamo alla rete digitale che, nella mutazione post-Covid-19, è diventata prerequisito tecnico della visibilità, imponendo però una condizione essenziale, ricordata da Marco Bracconi nelle sue riflessioni in presa diretta sulle accelerazioni digitali indotte dalla pandemia: “fare spazio tra le persone e riempirlo di connessioni per le quali poi risultare indispensabile”.

Lo spazio tra le persone è quello di una nuova intermediazione (non certo di una semplice e comoda disintermediazione che rende tutto e tutti visibili!) intorno alla quale si ristrutturano i dispositivi di visibilità e invisibilità sociale, a cominciare da quei corpi sociali che nella tradizione del secolo scorso erano deputati a “rappresentare” le passioni e gli interessi delle persone all’interno di un meccanismo ancora in gran parte di matrice comunitaria o di classe, dando voce e consistenza politica pluralistica agli invisibili del lavoro, della piccola impresa, della cooperazione, dei ceti popolari, dei ceti medi, delle comunità locali lungo la filiera istituzionale ecc.

Roger Ballen è nato a New York, ma da trent'anni vive e lavora in Sud Africa dove, da geologo, ha cominciato a fotografare paesaggi e villaggi, prima di spostare il proprio obiettivo all’interno delle case. Considerato uno degli artisti fotografici piú influenti del ventunesimo secolo, i suoi lavori estremi e stranianti costringono lo spettatore a intraprendere scomodi percorsi introspettivi, chiamandolo a un confronto inevitabile con la verità dell’immagine. Ha esposto in tutto il mondo.

Headless, 2006.

Lo sguardo rifugge da ciò che ci accomuna in quanto persone, esseri umani, alla collettività, ed è invece attratto da ciò che libera da questa responsabilità.

Quella microfi sica dei poteri promuoveva e facilitava la visibilità sociale diff usa, ne strutturava i rapporti orizzontali e verticali, ne organizzava le istanze confl ittuali producendo forme di solidarietà e senso comune.

Oggi il grande meccanismo immunitario e l’egemonia esercitata dalla dimensione dei flussi, insieme a un’intrinseca diffi coltà al rinnovamento interno, ha confi nato la microfi sica dei poteri al ridotto della difesa corporativa, mentre ancora non si vedono all’orizzonte nuovi soggetti capaci di rappresentare i nuovi invisibili, che sono tuttavia aumentati enormemente per quantità e varietà sociale. D’altro canto l’onda invisibile da immunità connota la polverizzazione del sistema ordinatorio delle classi in quella moltitudine indistinta e frammentata indotta a ricercare micro appartenenze comunitarie che agiscano da dispositivi sociali di protezione dallo spaesamento, dall’anomia e dalla penuria di fi ducia nei ceti dirigenti. I quali appaiono “sollevati” dalla moltitudine e non hanno quasi nemmeno piú la necessità di coltivare processi di legittimazione pubblica. In questo contesto la ricerca di comunità tende piú facilmente ad assumere caratteri deteriori, ovvero a costituirsi in ambiti chiusi, esclusivi, rancorosi, regressivi, con pretese sovraniste. Del resto non può forse essere altrimenti quando la comunità è espressione di una pura “reazione” alla potenza dei fl ussi immunitari, cioè quando privilegia l’identità soggettiva rispetto all’identità costruita in relazione, per riprendere la distinzione di Emmanuel Lévinas. E questo mi pare molto evidente se osserviamo le dinamiche di territorio, dove emergono tante faglie di invisibilità rispetto alle quali occorre costruire soglie. Occorre colmare la faglia sempre piú profonda che non solo nella società, ma anche nei territori separa élite e popoli. Per capire, oltre alla geografi a, vale la pena guardare, come per il luddismo, alla storia, scomodando la memoria tra passato e presente.

Territorio è parola dura e antica sin dalle origini. Nell’Italia dei Comuni incorporava il legame stretto tra spazio e politica. Appare agli albori della modernità nel conflitto tra il riformatore Lutero, alleato dei Principi, e i contadini di Thomas Müntzer, che come ci insegna Max Weber sta a fondamento dell’etica del capitalismo. Anche oggi tira aria da Riforma/Controriforma nel contrasto tra l’Europa del gotico e quella del barocco. Tra i sostenitori della Kultur e quelli della Zivilisation, nelle lunghe derive del moderno che si sono tradotte in un confl itto tra fl ussi e luoghi. Territorio è parola pesante che rimanda alla terra, al suolo e allo spazio di posizione degli attori sociali. È anche costruzione sociale e forma di rappresentazione del legame tra spazio e politica.

Puntualmente, al di là dei teorici dei fl ussi secondo i quali saremmo nell’epoca della politica senza territorio, ritroviamo questa parola pesante che s’invola e s’incunea dentro le questioni politiche ed economiche facendosi geopolitica. Si fa geoeconomia, produce rifl essioni tardive sull’austerity, preoccupazioni su rallentamenti, stagnazione, recessione e diventa questione sociale, con forme di luddismo agite dai territori del margine contro il centro, sull’antico asse città/contado. Tema che ho evocato per i gilet gialli e che induce a scomporre e ricomporre quella moltitudine gialla, la quale ci appare indistinta senza piú il sistema ordinatorio delle classi e delle rappresentanze sociopolitiche tradizionali.

Ora, l’irruzione del Covid-19 in questo contesto ha in qualche modo rimescolato le carte, aprendo qualche fi nestra di opportunità oltre la retorica della comunità nazionale sotto attacco pandemico. La pandemia ha reso evidente che la tenuta sociale nelle città e nei territori non esiste senza i saperi sociali in grado di percorrere l’ultimo miglio della fi liera degli invisibili. Non ha retto né il fantasma del welfare state del novecento né la retorica del welfare aziendale, entrambi in-

centrati su una sussidiarietà dall’alto che delegava al basso, quando non privatizzava esternalizzazioni caritatevoli al terzo settore. L’impianto piramidale dei flussi, che impattano nei luoghi desertificando le reti sociali e del lavoro, con in mezzo uno Stato ancillare piú che regolatore, provoca una gara verso l’alto per pochi e per tanti il precipitare verso il basso dove sono delegati agli uomini dei sussurri della comunità di cura. Che deve prendere voce ricostruendo welfare dal basso, case della salute, non ghetti per anziani o per il disagio psichico in una società della competizione, assieme alla medicina di territorio e di fabbrica, mai cosí attuale. Mettendosi in relazione con le reti territoriali che sono beni collettivi, come la scuola e i servizi nelle città e nei piccoli comuni. Rovesciando la filiera che parte dall’economia, attraversa lo Stato e impatta nei luoghi, nel suo opposto: dalle comunità di luogo alla statualità che fa rete territoriale sino a cambiare le economie in metamorfosi dentro la crisi ecologica e il salto tecnologico.

Sono deboli tracce di comunità di cura e di operosità che fanno oasi piú che società nella loro resilienza: le fondazioni di comunità per il welfare locale, la rete Caritas o Casa della carità. Ci sono anche imprese responsabili che, facendo green economy, incorporano il concetto di limite ambientale e sociale, e firmano il Manifesto di Assisi di Symbola. Ci sono i “ritornanti” che si fanno agrigiani, nuovi contadini artigiani della terra. E testimonianze piú radicali, che rinnovano l’interrogativo del novecentesco “mondo dei vinti”, ricostruendo i paesi abbandonati come a Paralup, o facendosi ricettori dei flussi migratori come nell’esperienza del comune di Riace. Destinate a rimanere oasi se non diventano comunità larga per attraversare il deserto, facendo società e dando una risposta alla domanda su “quale Stato”.

Certo con le sole comunità si fa testimonianza, non società, se non iniziamo a tessere e ritessere almeno un’idea di società in grado di mettersi in mezzo tra flussi e luoghi con l’obiettivo di ridisegnare statualità. Per attraversare il deserto che ci pare “la fine di un mondo” andando verso l’altrove potremmo usare la metafora di Enea che si carica sulle spalle Anchise, citata in un’intervista da Papa Francesco, e laicamente adattarla alle rappresentanze delle imprese e dei lavori sperando possano diventare Enea adeguati ai tempi.

Vale per Confindustria che sembra guardare all’indietro, al partito del Pil, ignorando la necessità di incorporare il Bes (Benessere equo e sostenibile) per andare altrove. Per le rappresentanze del capitalismo molecolare falcidiato dal lockdown e in affanno nel ripartire. Per il commercio con la sua prossimità allo stesso tempo rivalutata e negata dalle astronavi simil-Amazon, e in affanno nel ridisegnare servizi nelle città, sul territorio e per il turismo. Per le rappresentanze dell’agricoltura nei campi e del lavoro nelle filiere, in rapporto con la grande distribuzione. E vale per il sindacato, che questa volta si trova a cogestire l’introduzione di tecnologia in alto, a negoziare, si spera, con i padroni dell’algoritmo, a dar voce alla frammentazione dei lavori dentro le mura, sul territorio e nelle case del lavoro a distanza, facendosi anche sindacato delle comunità di cura per gli invisibili. Marco Revelli mi ha fatto giustamente notare quanto sia debole questo mio disegnare una comunità larga tra gli uomini e le donne delle oasi e le forze sociali del novecento che ho appena tratteggiato; questa speranza che possa emergere una società di mezzo e che si metta in mezzo portando una voce interrogante e conflittuale nella metamorfosi che ci aspetta. Come dargli torto, vedendo l’eterno ritorno dei tanti pronti a saltare sulle spalle di un Anchise barcollante. Ma qui siamo e qui ci tocca ricominciare ad andare verso un altrove, sperando di riuscire a metterci in comune.

Chiediamoci, nell’incertezza in cui siamo immersi, se il virus genererà apertura o rinserramento, se produrrà solidarietà o rabbia rancorosa, comunità o solitudine, nuova energia o isolamento. Siamo in una forbice, tra rancore che può farsi rabbia alla ricerca del capro espiatorio in cima alla piramide, o nella prossimità orizzontale delle differenze. Altrimenti si può, come sostiene De Rita, contare ancora sull’antropologia adattiva della società italiana.

Covid-19 pare sbatterci in faccia un futuro senza avvenire e la contraddizione tra una solitudine da immunitas e la voglia di comunità per un futuro da communitas. Come suggerisce Roberto Esposito, la “voglia di comunità” non è buona in

Mimicry, 2005.

sé. Da qui il nostro teorizzare la comunità di cura e la comunità operosa come alternativa possibile. Anche oggi, nel labirinto della paura della pandemia, non saprei evocare che queste due polarità per ritrovare il filo di Arianna. Per non passare per inguaribile buonista, preciso che oltre all’angoscia della solitudine ci salverà l’interesse a metterci in comune. Non è stato forse anche per interesse, nella pandemia, che abbiamo riscoperto la comunità stretta della cura di infermieri e medici, cui ci siamo affidati? Per poi accorgerci di quella comunità di cura larga che va dai contadini agli operai, ai bottegai, alle cassiere nei supermercati, ai camionisti che ci hanno garantito luce, calore, cibo a domicilio... tutti lavoratori dell’ultimo miglio che ci erano invisibili.

Ma la comunità di cura larga non è “solo” questo. Mettersi in comune per interesse porta a riscoprire quello che l’arroganza della disintermediazione e la teorizzazione dell’uno vale uno aveva cercato di cancellare: le forme e la cultura della rappresentanza, le forze sociali, la società di mezzo. La comunità di cura larga evoca pratiche che rimandano al vuoto della rappresentanza, piegata come legno storto nella rappresentazione da società dello spettacolo che aveva trasformato la dialettica sociale in rituale stantio capace solo di produrre “tavoli”. Covid-19 ha riportato la rappresentanza all’essenziale: il sindacato è tornato a difendere corpo e salute, artigiani e commercianti nel deserto del capitalismo molecolare hanno riscoperto il senso del rappresentare. Per non parlare dei senza rappresentanza, dalle partite iva fino al lavoro sommerso, agli immigrati, ai poveri, ai carcerati, cui rimane la pietas di pochi politici e le parole interroganti del Papa. Parole che ci hanno interrogato, “intalpati” nelle nostre case, dove si riscopre il piacere di fare il pane, mentre in basso manca il pane, e in mezzo c’è la panificazione per i supermercati, che speriamo non diventino i forni di manzoniana memoria.

Dentro la moltitudine avevamo visto la faglia tra nuda vita e vita nuda. Definivo la prima il nostro essere al lavoro dentro la società automatica di Big data con il nostro sentire, pensare e comunicare. Ci eravamo dimenticati, avendola delegata al volontariato e alle Caritas, della vita nuda che mangia, si copre e abita. Qui siamo e qui occorre rimettersi in mezzo, rifare comunità di cura larga, rifare società di mezzo nel salto d’epoca: da una società del novecento dai mezzi scarsi ma con fini certi a una società con mezzi sempre piú potenti, ma con fini totalmente incerti, che oggi scopre l’incertezza dei mezzi per immunizzarci dal coronavirus. Sento rullare i tamburi dei futurologi, già sentiti ai tempi della new economy, che esaltano il nostro smart working come destino. Non tengono conto del destino dei tanti lavoratori autonomi di seconda e terza generazione terziaria, apolidi dentro e per la rete. Chi negozia e chi rappresenta chi nel capitalismo della rete? Chi determina algoritmi, informazioni, saperi e tecnica nella società automatica?

Auspico e sostengo da tempo una rinascita sindacale che si metta in mezzo tra nuda vita e vita nuda negoziando in alto con il capitalismo della rete e in orizzontale facendo sindacato di comunità. Cosí come per il capitalismo delle reti, quelle hard della logistica, fondamentale per muovere le merci dentro e fuori imprese 4.0, dalla moltitudine di lavoratori dell’ultimo miglio con camion e camioncini, sino ai fantasmi in bicicletta che portano i nostri cibi caldi. In mezzo rimane il capitalismo manifatturiero in metamorfosi da innovazione, dove la crisi ecologica aveva già posto il problema di un umanesimo industriale (parola grossa!), per una green economy in cui il capitalismo incorpora il concetto del limite. Ho sempre scritto che non si dà green economy senza una green society che la impone. Non esistono capitalismi che cambiano senza un po’ di conflitti e senza rovesciare almeno concettualmente il termine capitalismo in capitale sociale e, come ci hanno insegnato Giorgio Ceriani Sebregondi a Claudio Napoleoni, senza mettere in mezzo tra economia e politica la società. Per il nostro interesse è fondamentale che la comunità di cura larga recuperi uno spirito militante di stimolo al cambiamento della comunità operosa in divenire, ponendo cosí la questione essenziale di come passare dalla fine del mondo a un altro mondo possibile. Ce la faremo quando, riprendendoci per mano, capiremo che non è solo questione di economie, di lavori, di interessi ma, come hanno spiegato Eugenio Borgna e Ulrich Beck, è un riconoscersi nella comunità di destino esistenziale. ◊

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