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Una diversa postura

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Ultimo tratto

Ultimo tratto

Non c’è piú tempo. È la verità che la crisi pandemica ha imposto come un’evidenza. Ma se un intervento è possibile per frenare le derive di dissoluzione e sofferenza che l’azione del virus ha accelerato, si tratta in primo luogo di cambiare le forme e i metodi del sapere che pretende di descrivere e orientare il mondo. Senza un lavoro di semplificazione dell’immane complessità che paralizza la conoscenza, non sarà possibile trovare la postura mentale ed esistenziale necessaria alla sopravvivenza della specie.

Testo Alberto Abruzzese Immagini Viola Di Sante

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UNADIVERSAPOSTURA

PREAMBOLO Ora ci riguarda l’odierna esperienza di tutti, senza distinzioni di censo o di condizione, di fronte a una minaccia di morte che è entrata a far parte della vita ordinaria e tuttavia non è ancora diventata, della vita, l’unica coscienza e immaginazione possibile. La rinnovata prossimità tra la regola della mortalità umana e l’eccezione di un agente mortifero che “attiva” la regola, impone la necessità di una grande pedagogia della sfera privata, prima ancora, o meglio al di là, di quella pubblica. A volersela cavare con qualche buona citazione potrei per esempio ricorrere a uno dei frammenti del Fatzer di Bertolt Brecht: “Abbandona la tua posizione. / Le vittorie sono state ottenute. Le sconfitte sono / ottenute: / ora abbandona la tua posizione”. Già: la frase è stata detta ai primissimi tempi dei favolosi anni trenta, quando la società moderna credeva di essere giunta al culmine di se stessa e dei propri opposti destini. Quando risuonavano già domande e risposte su tutto ciò che ci interroga oggi, cioè su quale dovesse essere la posizione giusta da prendere e da difendere per non cadere di nuovo in errore. Per non far ricadere il Futuro nella sua Storia. Eppure ben di rado si arrivò e ora s’arriva a riconoscere quanto avvenne e sta avvenendo senza riuscire ad abbandonare le vecchie posizioni – posture, poderi e potenze – della civilizzazione umana. Forse la recente aggressività critica, eretica, di alcune proposte della pedagogia è il segno della fine di un’epoca: per mutare di posizione non serve un altro abitare quanto piuttosto un altro abitante in grado di costituire una praticabile e non utopica differenza. PRIMA POSTURA La pandemia è precipitata sulla vita quotidiana mascherata dalla sigla scientifica Covid-19: una formula semplice da dire ma non da pensare, da tradurre per scioglierne il significato. Si sta tentando di farlo, non diversamente da altri precedenti casi della storia sociale, in molteplici modi, piú o meno congiunti o separati tra loro, cosí da poter operare attraverso ogni apparato cognitivo e pratico socialmente a disposizione. Scrivendo, prendendo parte a un’operazione editoriale, si attiva una rete di connessioni socioculturali che dovrebbero fare da laboratorio di idee sul possibile ricambio di contenuti e rotte del mondo presente. Del mondo in cui la pandemia – in quanto forma globale di allarme, di pericolo reale e simbolico, sull’intera esistenza umana – sta rilanciando il tradizionale doppio vincolo tra Resistenza e Rinascita. I due termini, resistere e rinascere, hanno in sé il dilemma tra la regola e l’eccezione.

Infatti c’è da domandarsi se sia il sociale ad avere paura di perdere il proprio carburante umano, la risorsa necessaria alla propria sovranità, o sia invece l’umano in tutta la sua miseria – infelicità distruttiva – a temere di perdere il proprio motore sociale, la propria macchina di sopravvivenza psicofisica nel mondo che lo ospita. Ovvero se la persona incarnata nei soggetti sociali sia affezionata alla regola della civilizzazione a tal punto da non riuscire a scegliere l’eccezione, adattandosi cosí alle stesse regole di sopravvi-

Viola Di Sante (1990) coltiva da sempre la sua vocazione alla fotografia. Ha partecipato a diverse mostre e pubblicazioni collettive; recentemente ha collaborato con “The Smart View”. Lavora preferibilmente su pellicola, ma utilizza il digitale per cogliere l’immediatezza dell’esperienza quotidiana. PER MUTARE DI POSIZIONE NON SERVE UN ALTRO ABITARE QUANTO PIUTTOSTO UN ALTRO ABITANTE IN GRADO DI COSTITUIRE UNA PRATICABILE E NON UTOPICA DIFFERENZA.

venza dei sistemi in cui è inclusa. La domanda è di quelle che non si possono tacere e di cui non si dovrebbe nascondere mai piú la portata critica: come coniugare al punto giusto e piú credibile due impulsi vitali apparentemente consanguinei – resistere e rinascere – in modo che non diventino l’uno la negazione dell’altro? La realtà è che il naturale avvitamento su se stesso di un puro e cieco, violento, desiderio di sopravvivenza della (o alla?) condizione umana si muove incessantemente a proprio stesso danno. Dannazione fatalmente imposta dalla confusione tra due opposti istinti di sopravvivenza: è impossibile rinascere davvero se si resiste alla propria morte.

SECONDA POSTURA Quando ancora riesco a scrivere, un tarlo mi divora il cervello: come riuscire a dire quel che penso in prima persona singolare dovendo purtuttavia fare un uso obbligato della prima persona plurale per conferire a quello che dico una qualche credibilità. Nel segreto della persona – là dove essa cerca di usare la lingua che ha appreso per esprimersi e comunicare ad altri una propria percezione del mondo – il “noi” scatta come risarcimento del sé (risarcire: rappezzare, rassettare, riordinare, compensare, dare ristoro, consolare, rassicurare). Risarcimento della sensazione istintiva e immediata di non bastare a se stessi, alla propria singolarità, per poter parlare ad altri e di altri. Cosí si finisce sí per parlare – dire qualche cosa a tutti i costi – ma in nome di un altro travestito da molti. Il “noi” che ci fa parlare e insieme ci fa presuntuosamente pensare a nome di altri “molti” – tuttavia di fatto ignoti, assenti alla nostra coscienza di singoli individui – è ingombrante e subdolo: il bisogno di conforto, di preconcetta condivisione e autorità, che spinge a usarlo crea subito la percezione inconscia o ragionata che debba esistere una maggioranza reale o immaginata che faccia fede a ciò che la persona vuole e desidera dire, da sola. E allora la persona si perde tra il “noi” che dice, facendone il proprio veicolo, il proprio lasciapassare, e il “noi” che la dice, assoggettandola. Dicendo per lei. Cosí – sia tragedia o commedia tale perpetuo infingimento – questo “noi” che ci detta dentro per lasciarci uscire allo scoperto della vita quotidiana, a far massa uno a uno, persona per persona, è dunque il nodo gordiano da sciogliere, per trovare il modo di liberarsi?

È un fatto che ai piú recenti mutamenti del pensiero stia facendo seguito una carenza sempre piú grande di parole umane in grado di farlo uscire fuori della mente (è una delle questioni da riportare all’avvento dell’intelligenza artificiale, ma risale anche agli albori del linguaggio umano). Sempre piú di sovente è difficile trovare nei vocabolari una parola adeguata a ciò che si sente e si pretende di esprimere: quelle a disposizione non dicono abbastanza. I vocaboli a disposizione non bastano piú a dire ciò che realmente si desidera esprimere. È urgentemente necessario trovarne altri.

E ancora: sta già iniziando un processo, spontaneo e ben fuori dall’ordinario, di trasformazione d’ogni corretta costruzione sintattica e lessicale. Un fenomeno che per il momento viene stigmatizzato come progressiva ignoranza, processo esclusivamente distruttivo e regressivo, invece che venire riconosciuto come un processo costruttivo, come fu all’apparire delle prime, primordiali, tracce di piattaforme di comunicazione verbale umana, da cui sono dipese le lingue vive e morte del pianeta. Lo so – sappiamo? – bene: l’arte ha sempre compiuto tali forme di oltrepassamento del senso comune, ma per l’appunto in virtú del fatto di ricavare la potenza simbolica delle proprie trasgressioni dalla potenza delle

SEMPRE PIÚ DI SOVENTE È DIFFICILE TROVARE NEI VOCABOLARI UNA PAROLA ADEGUATA A CIÒ CHE SI SENTE E SI PRETENDE DI ESPRIMERE: QUELLE A DISPOSIZIONE NON DICONO ABBASTANZA.

norme che trasgrediva. Proprio questo è l’inarrestabile motivo dell’attuale natura terminale della crisi, non piú positiva ma negativa, dell’arte che, anche e piú ancora dopo la sua riproducibilità tecnica, è arrivata a toccare e rivelare la massima evanescenza di ogni radice storica, a seguito della progressiva instabilità e crisi formale delle norme espressive ordinariamente correnti e condivise in ambito sociale.

Di sicuro a essere abitato è ancora un mondo umano di mezzo. Grazie alla tracciabilità tecnologica delle infinite conversazioni glocal tra ogni cosa vivente, la sofisticata immaginazione tardo-moderna è sempre ancora un mondo di “noi” – che sublima un soggetto universale disgregato e tuttavia, proprio in quanto definitivamente sceso in terra, ancora in grado di affermare il proprio potere mondano. L’immaginazione che ancora ci immagina e personalizza s’è illusa e ha illuso di avere finalmente raggiunto ogni piú umile territorio via via relegato dalla civilizzazione al ruolo di periferia umana, abitato da forme viventi date per mute e in via di estinzione. E tuttavia a mio avviso anche l’immaginazione globale – concretizzata nell’internet delle cose per come s’è inventata, stimolata, narrata e vissuta – non è che la variante, clamorosamente ostentata come dato di fatto, di un superuomo che scende sempre di nuovo dalla montagna a far proseliti nella vecchia maniera dei dominatori trasformatisi in astute colombe. Il “noi” non circola piú pronunciato soltanto nella prima persona dei sovrani e delle loro varie corti (le cerchie di tecnocrati, funzionari e ceti dirigenti, dominanti, abbienti ecc.) ma attraverso sciami di individui, di corpi e tribú di corpi (i social), che per finta o davvero persuasi credono di parlare a proprio nome.

Lo credono ancora per effetto latente, ingannevole, di esperienza di sovranità storiche in declino sempre piú rapido. Conseguenza della assoluta spersonalizzazione di ogni re e suddito operata globalmente dalle transazioni finanziarie – moneta che circola per mano di uomini senza piú alcuna qualità – subentrate ai consunti poteri delle filosofie, delle politiche e persino delle economie domestiche di un soggetto moderno ancora inseparabile dal principio di autorità dei sistemi di potere verticale che lo hanno cosí a lungo reso credibile. Il resto – la carne deviata, esclusa e umiliata da tali credenze – è silenzio. Attende di ribollire dentro la natura ameboide dei linguaggi digitali.

C’è un obbligato tratto comune nell’esperienza di chi, dal piú umile al piú esperto di pensiero, ha osservato le regole di clausura e distanziamento che la società ha imposto ai singoli in nome della collettività. Spesso confondendo e ribaltando tatticamente i due diversi piani: quello pulsionale del desiderio egoistico di sopravvivenza a tutti i costi della persona, dei suoi affetti, abitudini e interessi, e quello razionale-strumentale della necessità di sopravvivenza del sistema di appartenenza, quello al di là di loro, espresso da forme, apparati e dispositivi di potere in cui, del resto, sono di fatto incarnati anche quando non lo vogliano o addirittura non lo pensino. E attenzione: è importante capire che la componente pulsionale – quella piú dettata dal desiderio di salvaguardare la propria carne, mettere a distanza malattia, dolore e morte – è parimenti alla base di comportamenti in apparenza opposti: da un lato l’osservare le leggi, per “buon senso”, interesse, educazione e senso civico; e dall’altro, con diversa declinazione della paura, il trasgredire le leggi.

La stessa pulsione anima tutte le reazioni dello spettro: chi rivendica la decisione di liberarsi

NON C’È PIÚ TEMPO PER RICOMINCIARE SEMPRE DACCAPO E CONTINUARE AD AFFIDARSI A UN IMMANE CUMULO DI COMPLESSITÀ. SE DAVVERO IL TEMPO STRINGE, IL METODO DEI SAPIENTI HA DA CAMBIARE.

delle leggi, non prenderle in considerazione, per soddisfare le proprie tentazioni tribali, abitudini e voglie; chi si sente o dichiara osservante delle leggi, della loro necessità, ma in rivolta contro la loro cattiva, ingiusta, ineguale, imperfetta applicazione; chi ne denuncia l’ideologia strumentale e concentrazionaria in nome della propria ideologia libertaria, sino a farne addirittura un progetto politico.

TERZA POSTURA Non c’è piú tempo! Questo è l’allarme che Covid-19 rilancia nel pensiero di quanti in modo culturale, sapienziale o istintivo, valutano l’impatto di una malattia contagiosa sul piano della vita umana e sociale. La vita delle persone e dei sistemi di potere in cui le persone abitano e si riproducono. Se mai c’è qualcosa da fare per frenare la qualità mortale di questa malattia globale, senza possibili frontiere di contenimento, allora va fatta subito. In nome non di magnifiche sorti ma di pura sopravvivenza della carne e con essa di tutto ciò che le serve a vivere.

Sullo sfondo della questione, a fare resistenza, ci sono piú tradizioni: quella della cultura umanista, quella delle scienze umane e quella della tecnoscienza. Tutte impegnate a valutare se la civilizzazione abbia o meno prodotto un miglioramento della condizione umana. In questo campo i dati statistici hanno fatto da padroni, misurando quanto la condizione umana sia migliorata nel tempo. Ma i numeri ingannano credendo di potere inverare la quantità di vittime e di sopravvissuti che si sono assommati nella storia del pianeta terra, illudendosi o peggio illudendo che salvezza e felicità, dolore e morte, siano qualità statisticamente decidibili. Il quadro attuale di un divario clamoroso tra ricchi e poveri e persino tra poveri e disperati delinea un presente-futuro che impone la previsione di una sopravvivenza umana ottenuta a prezzo di una immane estinzione umana.

Se questo è vero – a parte la complicità di ogni possibile catastrofe ambientale o politica – è ben difficile negare l’urgenza di un “che fare”, qui e ora. A giudicare dalle attuali modalità di pensiero e azione in uso in ogni agenzia di persuasione dell’opinione pubblica, cosí come in ogni soggetto e istituzione di formazione professionale e di conseguenza in ogni apparato politico e amministrativo su scala locale, nazionale, internazionale e globale, ci sono buone ragioni per dubitare che l’azione decisiva possa essere intrapresa. Per due motivi essenziali. Il primo: in ognuno di questi settori c’è un vuoto assoluto di riflessione sulla persona umana invece che sul soggetto sociale, sulla vocazione dell’individuo invece che sulla natura strumentale delle professioni. Il secondo motivo – strettamente connesso al primo – riguarda il metodo di ricerca e trasmissione del sapere in uso nelle scienze umanistiche.

All’inarrestabile crescita di complessità dello sviluppo tecno-scientifico fa da contraltare un sapere umanistico in cui la stessa crescita di complessità del mondo va a svantaggio della specifica capacità delle discipline di elaborare vocazioni individuali adeguate a semplificarlo. La tragica urgenza al “che fare” – che “utilmente” si rivela sotto la pressione della pandemia – può essere soddisfatta solo attraverso una radicale semplificazione delle procedure e degli scopi. Tale semplificazione avviene invece soltanto ai vari livelli di divulgazione dei vecchi e nuovi media, cosí da essere in tutto distorta e strumentalizzata e disorientare i propri pubblici. E aumentare il rumore senza neppure saperlo ascoltare.

Tuttavia, lo specialismo delle discipline che dovrebbero funzionare da corpus del sapere esibisce metodi ben lontani dal soddisfare una semplificazione operativa del presente, percorrendo invece sempre di nuovo, inanellando sempre di nuovo, la complessità estrema delle loro lunghe tradizioni. Non c’è piú tempo per ricominciare sempre daccapo e continuare ad affidarsi a questo immane cumulo di complessità. Se davvero il tempo stringe, il metodo dei sapienti ha da cambiare. Il “che fare” si nutre di semplicità. Ma attenzione! Capire questa urgenza dovrebbe spingere a mutare radicalmente, anzi a trovare, le pratiche in grado di soddisfarla. Vanno trovati i suoi soggetti. E il teatro di questa operazione non possono essere le biblioteche, ma le piattaforme interattive, centri di elaborazione di forme del saper agire che nascano dalla necessità di sopravvivenza delle persone. ◊

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