ISBN: 978-88-99500-94-8 © 2018 Les Flâneurs Edizioni di Alessio Rega • Bari a.rega@lesflaneursedizioni.it www.lesflaneursedizioni.it info@lesflaneursedizioni.it Editing: Sara Saffi Correzione di bozze e impaginazione: Alessio Rega Progetto grafico ed elaborazione di copertina: Mariano Argentieri Fotografia di Omar Gazzei Finito di stampare a gennaio 2018 presso Grafica Pollino • Castrovillari (CS) per conto di Les Flâneurs Edizioni
Nadia Boccacci
ALI DI FARFALLA
«E se diventi farfalla nessuno pensa più a ciò che è stato quando strisciavi per terra e non volevi le ali». Alda Merini, Se avess’io
Prefazione
«Tempo che nel dolore è anche esultanza, nell’esultanza anche dolore». Mario Luzi
Ci sono tanti modi per scavare dentro ai sentimenti: approssimazioni successive che evidenziano contraddizioni, ambiguità, rimandi all’indietro, lo strano gioco del destino di un affetto, scandito e contraddetto dalla complementarità degli opposti, seguendo il quale si rasenta la fragile essenza. Si può farne una storia, dare nome e volto di personaggi alle oscillazioni del cuore, prendendo le distanze e affidando a una terza persona (il narratore onnisciente) il peso e l’arbitrio di tirare le fila della vicenda e intentare il processo delle emozioni. Si può adottare il punto di vista di un io narrante, in modo da ridurre le distanze tra chi scrive, chi racconta e chi legge. Nadia Boccacci ha scelto di disseppellire il trauma del tradimento e dell’abbandono attraverso la confessione di donne “che amano troppo” (o forse non amano affatto) rilasciata allo psicoterapeuta durante le sedute analitiche. L’effetto è quello della sbobinatura di un nastro, dove siano incise parole solo a tratti sorvegliate dal filtro della ragione e per lo più demandate al flusso della coscienza. Ci sono così più personaggi che parlano in prima persona: Andrea, lo psicoterapeuta che accoglie e interpreta il 7
racconto delle pazienti, intervenendo il minimo necessario per non bloccare o deviare l’itinerario della memoria di chi sta portando alla luce un dolore sopito, ma non superato; Bianca e Dafne, le protagoniste, alternativamente regine e registe del racconto, che parlano di sé senza filtri, omissioni, indulgenze. Sono donne sopravvissute a delusioni, inganni, malattie, provate dalla vita e visitate, lusingate, attratte tanto dall’amore quanto dalla morte; donne che in controluce rimandano a uomini che non sanno amare. Seguendo le loro storie si potrebbe ridisegnare la mappa degli affetti, che tende a svincolarne la definizione dall’accezione comune per lasciar intravedere valenze divergenti. La felicità “spacca”, il dolore è fatto di “poesia bruciata”, l’amore non merita credito “in nessuna delle sue accezioni”. Non si giunge ad afferrare il fondamento di uno stato emozionale se non corteggiandone gli slittamenti da un plateau a un altro (innamoramento, amore, eros, amicizia) o avvicinandolo al suo contrario: così l’amore risulta inscindibile dal dolore, la passione dall’indifferenza, l’esaltazione dal disincanto. “Spiegò che l’amore è nell’essenza delle cose e si misura nel rimpianto”. Di sfumatura in sfumatura, sulla scivolosa soglia della delusione e della menzogna, quasi fatalmente, ma con improvviso straniamento rispetto al senso comune, si arriva al «dolore perfetto», un dolore che non ammette deroghe, che non conosce confini, che invade corpo e anima, un dolore “forte e prorompente, ostinato, inguaribile che [può] ossessiona[re] giorno e notte.” La perfezione del dolore, riempiendo di sé ogni spazio, inganna, apparentemente escludendo che si possa avvertire la mancanza di chi ne è causa: “In realtà non mi è mai mancato”. “No, non mi è mai mancato. Mai. Neppure un momento, me ne rendo conto adesso”. 8
Se è perfetto, compiuto, totale, se non ha alcun difetto, il dolore non può rivelare vuoti, ammettere lacune e deficienze, eppure l’assenza negata, spostata, rimossa a livello cosciente si insinua nell’inconscio manifestandosi attraverso sintomi sempre più gravi: psoriasi, anoressia/bulimia, insonnia, tumore. Il dolore perfetto postula di necessità l’amore imperfetto. Non si potrebbe comprendere il primo senza l’esperienza del secondo. E se “amore” non è l’esatto contrario di “dolore”, la “gioia” è comunque sottintesa nell’altalena di toccata e fuga. Alla dialettica degli opposti non sfugge nemmeno il concetto di tempo, che vede annullata la durata attraverso l’aggiunta di una preposizione: “per sempre” diventa “nel per sempre”, “un eterno senza confini, al di là delle nostre vite finite”, ma anche una limitazione che circoscrive a un momento privilegiato (la comunione di corpi e di anime) l’estensione illimitata del cronos. L’eterno è ricondotto a un’astrazione virtuale, possibile in un “mondo in cui lo spazio e il tempo hanno dimensioni nuove”. Allo stesso modo un avverbio temporale “Io ti amo, oggi” accende un’ipoteca sul valore dell’affermazione, che non consente di andare oltre all’hic et nunc: “Quell’amore c’era in quel momento, ma non si sapeva per quanto tempo sarebbe durato.” “Ma quanto era durato quell’amore eterno? Un battito d’ali. Un soffio. Lo spazio di un mattino nell’universo della vita”. Giovanna Corti
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I
L’avevo intravista nella sala d’aspetto, poco prima che fosse il suo turno, quando ero uscito a prendere un documento dalla segretaria che mi aveva chiamato. Era seduta accanto alla porta, con una borsa capiente appoggiata sulle gambe accavallate. Poi avevo notato il suo passo lento e il suo modo distratto di muoversi, una volta entrata nello studio. Aveva i capelli ondulati e gli occhi verde acqua che mi guardavano incerti. Erano enormi dietro gli occhiali trasparenti: profondi come il mare e infinitamente tristi. Mi disse che si chiamava Bianca e che aveva bisogno di aiuto. Le risposi cercando di tranquillizzarla, facendole le solite domande di routine da prima seduta, mentre mi muovevo in modo cauto e le porgevo moduli da riempire. Cercavo di essere empatico ma distaccato, come d’altronde impone il mio ruolo. Ma quello sguardo velato, vestito di torpore e sconfitta, mi aveva colpito nel profondo. C’era qualcosa in lei che la rendeva diversa dalle altre. Mi occupavo di psicoterapia da diversi anni, quando la conobbi, per cui ero già entrato in contatto con un ampio spettro di tipologie umane, ma quella donna aveva evidenziato fin 11
da subito il dono sottile di comunicare con un linguaggio non verbale, di raccontarmi un mare infinito di dolore con la forza delle parole mute. Sentivo il bisogno impellente di conoscere a fondo quel dolore, per poterla aiutare. Per sollevarla dal baratro. «Mi dica, Bianca, da dove vuole cominciare… mi racconti di sé. Possiamo darci del tu, se preferisce». «Sarebbe meglio, grazie…». «Raccontami di te, allora». «Non so da dove cominciare…». «Da dove vuoi. Pensa al motivo per cui sei qui». «Devo partire da un momento abbastanza lontano, però. Tutto quello che mi è successo ultimamente è la conseguenza di qualcosa cominciato molto tempo fa». «Sei tu la regina del tuo racconto. Io sono qui per ascoltarti. Inizia da dove preferisci». Bianca sorrise e cominciò a parlare, seduta sul divanetto blu. Le parole presero a rotolare nell’aria, dapprima trasparenti come bolle di sapone, ma poi marcate, rotonde, vestite di colori profondi e toni forti.
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II
«Quando scoprii che mio marito mi tradiva, sprofondai in un abisso fatto di stordimento e di sorpresa. Mi sentii avvolgere da un odore marcio di inettitudine e delusione perché constatai di essere infinitamente stupida, per avergli permesso di ingannarmi a più riprese, con donne diverse, di tutti i tipi. Gli avevo dato fiducia, avevo lasciato che andasse dove voleva, anche in vacanza con gli amici, tutti gli anni. Diceva che gli faceva bene, che si dedicava allo sport e si ricaricava. E io non glielo avevo mai negato. Non solo. Non glielo avevo mai fatto pesare. Fu per puro caso che venni a sapere della sua infedeltà. Mi telefonò da Londra, dove era andato per motivi di lavoro – almeno così mi aveva fatto credere – e inavvertitamente lasciò aperta la comunicazione mentre flirtava con quella che, come venni a sapere, era la fiamma di turno. Sentii una voce squillante cinguettare con mio marito con una certa confidenza, mentre i toni rochi di quella di lui pronunciavano parole stucchevoli e ammiccanti. Dovevano essere in un taxi, dai rumori di sottofondo, mentre programmavano un dopo cena piccante. 13
Rimasi basita. Un fulmine saettò nell’aria e mi colpì in pieno volto. “Giorgio, ma con chi stai parlando…?” riuscii a dire a stento, con la voce che non usciva dalla gola. Niente. Il telefono doveva essergli caduto, senza che lui se ne fosse accorto, quando aveva creduto di chiudere la chiamata con me. “Amore, tutto a posto. Ho una cena di lavoro con un cliente importante. Ci sentiamo domani”. Così, mi aveva detto. Senza vergognarsi, chiamandomi amore. Non che quella parola avesse più valore ormai, la usava per abitudine: lo sapevo benissimo e mi dava quasi fastidio. Ma l’idea che mi telefonasse mentre se ne stava con un’altra donna mi bruciava dentro. Rendeva tutto più marcio. Improvvisamente mi resi conto che mille telefonate del tipo “Amore, tutto bene”, “Amore ho una riunione importante”, “Amore sono in aeroporto e devo spegnere il cellulare” potevano essere state un inganno. Quante volte mi avrà chiamato con una donna accanto, magari mentre era ancora nel suo letto o stava per entrarci. Ebbi un senso di nausea. Poi mi sentii correre dentro l’abisso. Nel profondo. Fino al buio più cupo dentro di me. Mi accorsi di essere inghiottita dalle tenebre dello stupore più assoluto, mentre avvertivo un senso di sconfitta. In quell’attimo mi resi conto di aver perso tutto: il matrimonio, l’idea di famiglia, la capacità di vivere come avevo vissuto fino a quel momento, cioè sola e insicura, accanto a un uomo che sentivo lontano ma credevo innocente. Andai a letto presto quella sera, decisa a stemperare nel sonno il dolore dell’incredulità. Pensai di leggere il libro che avevo da tempo sul comodino, con lo scopo di distogliere l’attenzione e raccogliere la stanchezza. Ma non ci riuscii. La mente sconfinava in terreni oscuri e infuocati; lo vedeva tra le braccia di un’altra, immaginava il viso e i capelli di lei, mentre nelle orecchie riecheggiava quella voce squillante a cui 14
lui rispondeva con un entusiasmo che non conoscevo o che avevo del tutto dimenticato. Mi alzai di scatto e andai nel suo studio. Con la forza di un leone e la determinazione di un automa. Mi misi a cercare tra le sue carte e nel suo computer, convinta di trovare qualcosa che confermasse la mia idea di tradimento reiterato. Era sempre stato un abitudinario, per di più con la tendenza a mettere da parte qualsiasi cosa. Oggetti, fogli, file, lettere, posta elettronica: un universo intero da non gettare, per il suo modo abituale di approcciarsi alla vita. Per questo ero convinta che qualche traccia della sua doppiezza sarebbe saltata fuori, in quella stanza piena di lui, in cui mi diceva sempre di entrare poco e di non spostare niente, quando facevo le pulizie. Avevo terribilmente ragione. Rovistando, trovai scontrini, fatture per l’acquisto di gioielli e regali femminili che io non avevo mai ricevuto. E poi lettere di donne, cartacee e digitali. Il cuore mi martellava nel petto, con l’eco che mi arrivava in gola. Le mani mi tremavano, incerte e gelide. Non credevo ai miei occhi, avevo trovato quello che stavo cercando. Avrei dovuto gridare vittoria, perché avevo avuto ragione. Eppure, in quel momento, avrei tanto preferito avere torto. Piansi a dirotto trattenendo i singhiozzi, come per timore che qualcuno potesse sentirmi, mentre rileggevo gli scritti che troneggiavano sulla scrivania e lampeggiavano nel computer. Continuavo a percorrere quelle frasi in una lettura attenta, quasi a chiedere conferma che tutto fosse reale. Mi sembrava di vivere la vita di qualcun altro. Era come se mi guardassi dall’esterno, fragile spettatrice di me stessa. Ma non ero disperata, me ne accorsi quasi subito. Ero incredula, ferita nell’orgoglio. Non potevo accettare l’idea di non aver capito nulla di lui, fino a quel momento, di non aver percepito nessuna avvisaglia. Mi bruciava dentro il pensiero di aver dato fiducia a un uomo che avevo accanto da tanti anni, senza 15
rendermi conto di non conoscerlo davvero. Ma, nel momento in cui avvertivo un colpo duro e mordace, da cui sembravo uscire sconfitta, ebbi una sensazione del tutto inaspettata, che mi fece riflettere a lungo su me stessa, mostrandomi la realtà con un volto diverso. All’improvviso provai una sorta di gioia nell’aver trovato, finalmente, un motivo per lasciarlo. Una luce sottile si accendeva dentro di me e mi irradiava tutta, con una forza sempre maggiore. Una voce interiore mi interrogava sul perché di quella sensazione e mi spingeva a ripercorrere tappe del passato per trovare una risposta. Forse la tristezza e la rabbia costante che mi caratterizzavano da tempo erano le basi di tutto. Erano la prova del malessere che si celava dentro di me e che non avevo mai voluto riconoscere. Certo era che, senza saperlo, desideravo rompere il mio legame con Giorgio e spezzare le catene di un matrimonio che mi teneva prigioniera da troppo tempo. Stringevo un bagaglio di ricordi che raccontavano un’esistenza in bilico, con lo sguardo puntato verso nuovi orizzonti. E il domani, adesso, era lì. Potevo vederlo in lontananza: da sola, senza di lui. In una casetta graziosa, senza pretese, con una cucina piccola, ma funzionale, dove ogni cosa trovava il suo posto e le emozioni prendevano forma. Riecheggiavano nelle mie orecchie le parole che avevo solo pensato, ma che ora sentivo appieno nella loro sonorità. Finalmente avevo un motivo per lasciarlo! Interrogai me stessa per capire se nel profondo ci avevo mai pensato. E la risposta fu del tutto negativa. Non avevo svelato neppure al mio Io più recondito quel senso di pesantezza, incomunicabilità, freddezza, che da tempo caratterizzava il mio matrimonio. Però, nonostante questa forte spinta nella direzione della rottura, non lo lasciai subito. 16
Litigammo a dismisura per giorni, settimane. Eravamo diventati due estranei che entravano in contatto solo per scannarsi. Gli avevo vomitato addosso tutta la mia rabbia, dopo la conferma del tradimento, ma non ero riuscita ad andarmene, né a costringere lui a farlo. Mi sentivo come intrappolata nella mia dimensione di moglie e malgrado tutto si fosse ormai sgretolato, non avevo la forza di porre la parola fine alla vita vissuta fino a quel momento. Non riuscivo a voltare pagina, era come se avessi bisogno di qualcosa per concretizzare la rottura del nostro rapporto. E quel qualcosa arrivò, improvviso come un fulmine e potente come un terremoto». La vedo esitare un secondo, con un mezzo sorriso che le storce la bocca e lo sguardo perso a mezz’aria. «Cosa è successo allora, Bianca?». «Non cosa, ma chi» mi dice guardandomi dritto negli occhi. «Sandro entrò nella mia vita nel momento in cui avevo più bisogno di lui. Era come se lo avesse saputo che doveva arrivare. Mi scosse dentro con una forza inaudita mostrandomi una realtà nuova. A onor del vero, più tardi mi resi conto che era una cosa che faceva spesso, quella di intrufolarsi tra mogli e mariti stanchi. Sceglieva momenti di fragilità per fare il suo ingresso all’interno della coppia, disinvolto e brillante, vero e proprio deus ex machina della situazione critica che la donna stava vivendo. Ma in quel momento non avevo afferrato niente di tutto questo. Ero tombée amoureuse, come dicono i francesi, che ben evidenziano lo stato particolare dell’innamoramento, con la metafora della caduta. Ci incontrammo durante una di quelle riunioni per la promozione e la vendita di prodotti per la pulizia domestica, a 17
casa di Gisèle che era per me più una conoscente che un’amica. Ma da quando era stata assunta come madrelingua francese presso l’università dove io ero applicata di segreteria, ci eravamo avvicinate molto. Lei lo conosceva perché per un periodo aveva lavorato come traduttrice nella sua azienda vinicola. Eravamo quasi tutte donne a quell’incontro. Del resto è normale, perché di solito è il sesso femminile a occuparsi delle faccende domestiche, ma lui era un soggetto atipico, estremamente attento alla natura e soprattutto all’odore dei prodotti, che comprava di persona. Non demandava nessuno. Per lui l’olfatto era il senso più importante e non poteva essere in alcun modo posto in una posizione subalterna. Forse il suo stesso lavoro aveva contribuito a renderlo così attento alla gradevolezza dell’odore: quello del vino è fondamentale, i sommelier lo sanno benissimo. In seguito scoprii che Sandro aveva addirittura una sorta di fissazione per gli odori. Amava a dismisura quelli del mio corpo: della mia intimità, dei piedi e delle ascelle. Si copriva sempre di profumi inebrianti, che sapevano di pulito, come lavanda o simili, ma di me amava l’odore al naturale, non alterato da profumazioni di alcun tipo. Amava annusarmi, stringermi mentre affondava il naso tra i miei seni o sotto le mie braccia. Adorava i miei piedi: gli piaceva guardarli quando calzavo sandali aperti e aspirarne l’odore o leccarli durante i nostri momenti intimi. Lo faceva con un piacere infinito e una sorta di dolce voracità. Gioiva nell’abbandonarsi a quel gesto feticista, che nei primi tempi mi aveva creato un certo imbarazzo, ma che poi avevo accettato volentieri, come ogni cosa proveniente da lui. Il fatto che fosse lì, a una riunione di quel tipo, mi fece supporre che vivesse da solo. Ebbi l’immediata sensazione che 18
fosse single o almeno che non avesse una compagna o una moglie. E lui confermò per tutta la serata quella mia sensazione. Seppi in seguito che non era così, insieme al fatto che si era informato sulle storie personali di tutte le donne presenti in quella serata. Gisèle gli aveva svelato la mia situazione coniugale difficile e lui aveva sorriso. Da vero amante del genere femminile, non perdeva occasione di essere in sua compagnia, pronto a infatuarsi della nuova preda, fragile e insicura, spesso segnata da una situazione personale complicata. Allora non lo sapevo, naturalmente. Non lo capivo. O forse non volevo capirlo. Sandro appariva l’uomo pronto a risolvere tutti i miei problemi. Era l’angelo piovuto dal cielo per portarmi via dal nido sbagliato. Aveva solo pregi per me. Lo ascoltavo e le mie orecchie gioivano della sua voce calda e delle sue parole rotonde e perfette. In realtà era narciso e ridondante. Egocentrico come nessuno, esageratamente pieno di sé. Ma io non me ne accorgevo. Mi sembrava che parlasse come un libro stampato: pendevo dalle sue labbra, gioivo di ogni suo gesto, di ogni modulazione della sua voce, sentivo il flusso leggero delle sue parole entrare dentro di me e dipingermi d’immenso. Ero su una nuvola, inebriata dalla sua presenza, dolcemente relegata in una dimensione di magica armonia. Con Giorgio non avevo mai provato quello che provavo con lui. In nessun senso. Non solo riguardo all’intimità, neanche paragonabile a quella vissuta con Sandro, ma da ogni punto di vista. La sola idea di uscire con lui mi regalava una gioia pura, sottile, autentica, che si diffondeva in ogni parte di me, anche la più recondita. Non c’era un solo centimetro del mio corpo che non godesse di quelle emozioni sensoriali, che non percepisse quelle sensazioni emotive. Lui era dentro di me in tutto 19
e per tutto, stemperato in ogni dove, diluito con una dolce magia nelle più remote profondità del mio essere. L’irruzione di Sandro nella mia vita mi aveva reso nuova, diversa, immensamente felice. Cominciai a pensare cose che in precedenza non avevano mai sfiorato la mia mente e decisi di lasciare Giorgio, subito, dopo appena una settimana dall’inizio della mia relazione con Sandro senza la minima esitazione. Era chiaro. Io non lasciavo mio marito per lui. Sarei dovuta andarmene molto tempo prima, quando avevo scoperto la sua doppiezza e le sue infinite menzogne. Ma non l’avevo fatto, per motivi oscuri anche a me stessa. Avevo avuto bisogno di Sandro. E quando lui si era affacciato alla mia vita, strizzando l’occhio alla mia vanità, io mi ero svincolata da ogni legame del passato e avevo creduto che fosse l’uomo perfetto. Mi era piaciuto crederlo, in realtà. Mi ero sentita così offesa dai tradimenti di Giorgio che le lusinghe di Sandro si erano rivelate un autentico toccasana. Avevano avuto un ruolo fondamentale per la mia autostima. “Buongiorno, principessa…” mi aveva scritto l’indomani della riunione. Ci eravamo scambiati i numeri di telefono alla fine della serata, con la scusa dei prodotti e di nuovi eventuali incontri a cui poter partecipare. Ma in realtà lui aveva in mente di corteggiarmi e cominciò a farlo poche ore dopo. “Beato chi ti ha” fu la seconda frase che vidi lampeggiare sul display del mio cellulare, quella mattina. Sapeva benissimo che chi mi aveva non era affatto beato, vista la crisi del mio matrimonio, ma leggere quelle parole mi regalava la sensazione di essere ancora una donna desiderabile. All’inizio mi sentivo confusa, piena di dubbi; cercavo di far luce dentro di me per capire se ero davvero interessata a lui o solo alla ricerca di un riscatto, di una rivincita personale 20
per i tradimenti subiti. Mi resi conto subito, però, di provare un piacere immenso a interagire con lui: godevo dei suoi messaggi, delle sue telefonate quotidiane e dei momenti che riuscivamo a trascorrere insieme. Mi stavo innamorando, a quarantaquattro anni. Avevo creduto che non mi sarebbe mai più capitato nella vita, invece, nel momento in cui il mio matrimonio stava naufragando e pensavo di essere del tutto estranea a qualunque tipo di emozione, mi pioveva addosso un uomo straordinario, seducente e suggestivo, che voleva me, in ogni senso, che mi parlava di un amore unico e di una vita insieme nel per sempre. Sì, diceva esattamente così. Non “per sempre”, ma nel per sempre, che per lui era molto di più: designava un eterno senza confini, al di là delle nostre vite finite. In certi momenti mi sembrava di non essere io a vivere quelle emozioni. Avevo come la sensazione di essere al di là di me, di guardarmi da fuori. Era come se fosse un’altra a provare i miei sentimenti e io una semplice spettatrice».
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