L'aggiustatore di libri

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ISBN: 978-88-31314-66-4 © 2020 Les Flâneurs Edizioni di Alessio Rega • Bari a.rega@lesflaneursedizioni.it www.lesflaneursedizioni.it info@lesflaneursedizioni.it Editing: Carmen Nolasco Impaginazione e revisione: Alessio Rega Progetto grafico: Mariano Argentieri Copertina: © Adobe Stock Finito di stampare a dicembre 2020 presso Creative 3.0 Srl • Reggio Calabria per conto di Les Flâneurs Edizioni


Michele Bombacigno

L’AGGIUSTATORE DI LIBRI



«Y si todo esto es un sueño, qué importa. Me gusta y quiero seguir soñándolo». Luis Sepúlveda



A tutti gli scrittori non famosi del mondo


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L’aggiustatore di libri

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L’aggiustatore di libri

Capì, e sempre più chiaramente col trascorrere del tempo, che il culto del denaro è diventato una religione. Forse è la sola vera religione – la sola religione veramente sentita – che ci sia rimasta. Il denaro è ormai ciò che Dio soleva essere. Bene o male non hanno più significato se non nel senso di successo o fallimento. Leggo e rileggo il brano e mi sa tanto che l’Arsenio Lupin della narrativa ha colpito ancora. Eppure mi aveva promesso di non ricascarci più. Devo verificare, ma ne sono quasi certo. Digito qualche parola sul pc, ma Google non mi aiuta. Rovisto nella memoria alla ricerca di un indizio, un’intuizione, un riecheggiamento – non li ho contati, ma nella mia vita credo di aver letto più di mille libri – qualcosa, insomma, che mi metta sulla buona strada, ma niente. Che stavolta mi stia sbagliando? No, no, non credo proprio. Lei non scrive così. Tiziana è una delle mie migliori clienti, una delle poche che retribuisce in misura adeguata il mio lavoro, ma è un pericolo pubblico. Una plagiatrice seriale. Scopiazzare è nel suo dna e temo che ormai lo faccia quasi senza rendersene conto. 11


Una cleptomane della buona scrittura, però, perché devo riconoscere che ha buon gusto quando deve scippare una bella frase o un pensiero acuto o una storia accattivante. Quando la conobbi e mi disse che aveva sempre con sé, perfino quando andava in bagno, un quadernetto sul quale annotava, perché non le sfuggissero, idee, intuizioni, suggestioni, semplici parole o frasi da cui poi nascevano i suoi romanzi e racconti, mi congratulai con lei. È da vero scrittore, le dissi, fai benissimo, ottima abitudine. Presto però mi resi conto che quelle idee, intuizioni, suggestioni, semplici parole o frasi il più delle volte erano brani di scrittori più o meno famosi che infilava in maniera surrettizia nei suoi scritti, senza neanche prendersi la briga di camuffarli o parafrasarli o, men che meno, di citarne la provenienza. L’affermazione secondo la quale lo scrittore in fondo non fa che rubare, Tiziana la intende alla lettera. Per lei non significa prendere spunto per creare qualcosa di nuovo, di originale, ma semplicemente – non sempre, per carità, ma spesso e volentieri – fare copia-incolla di qualcosa scritto da altri. E quando viene colta in flagrante nega con una disinvoltura tale da convincere della sua buona fede chiunque non la conosca a fondo. Per non dire, poi, di quelle volte in cui, a corto di ispirazione, si impossessa di una storia altrui, modifica qualche particolare di secondaria importanza e chi s’è visto s’è visto. Chi ti dice, mi urlò quando le obiettai che un breve periodo del suo primo romanzo era copiato, parola per parola, da Il nome della rosa, che io e Umberto non abbiamo avuto la stessa identica idea e abbiamo usato le stesse identiche parole senza che nessuno dei due abbia necessariamente copiato dall’altro? Può capitare, le parole, quelle sono! Non è che Eco sia l’unico che le può pensare e scrivere! E poi io quel libro non l’ho nemmeno letto!

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Chiedo scusa, non mi sono presentato. Mi chiamo Diego Altisarte e faccio l’editor, il correttore di bozze e il ghostwriter. Niente di che, non pensate. Né Mondadori, né Feltrinelli, o Sellerio o Adelphi. No, no, lavoro per piccole case editrici o addirittura per scrittori dilettanti che pubblicano dietro pagamento o che si autopubblicano. Diciamo la verità, sono per lo più l’editor dei poveri, il correttore di bozze dei profanatori della lingua italiana, il ghostwriter dei signor nessuno. Più onestamente mi definisco un aggiustatore di libri o pseudo libri. Mi sembra che il termine renda meglio l’idea. Qualcuno mi dà del freelance, del libero professionista. No, no, per favore, io sono un artigiano, un umile artigiano della parola, forse neanche tanto bravo. Ma questo lavoro mi piace, mi piace davvero. Lavorare nell’ombra sul testo di un qualunque carneade e senza stravolgerlo, in punta di piedi, usare il cesello per sgrezzarlo, affinarlo, sfrondarlo, limarlo, tagliando e aggiungendo, scomponendo e ricomponendo, mi dà la stessa soddisfazione che mi darebbe fare l’editing – se ne fossi all’altezza, beninteso – di un romanzo di Cosimo Argentina, il mio scrittore italiano preferito. Così come, quando da ragazzo giocavo a calcio, segnare un gol nel più sperduto campo di periferia mi inebriava come se avessi deciso con una prodezza la finale del Campionato Mondiale. E poi, ho sempre pensato, perché non dare una mano anche a chi non è stato baciato dalla sorte ricevendo il dono del talento, ma ha comunque tanta passione per la scrittura? Forse che debbano scrivere e pubblicare solo i Tabucchi e i Carver, i Camilleri e i Márquez? No, no, la possibilità di esprimersi va riconosciuta a tutti, che diamine! E vi posso assicurare che quei poveri, quei profanatori della lingua italiana, quei signor nessuno hanno tanto da dire, da raccontare e persino da insegnare. Forse nessuno di loro vincerà mai il Nobel per la let13


teratura perché non hanno in abbondanza quelli che Stephen King chiama i ferri del mestiere, ma quanta bella, complicata, varia e intrigante umanità c’è dietro le loro righe a volte incerte e balbettanti! E quando meno te lo aspetti ti tirano fuori delle chicche niente male anche dal punto di vista letterario. Così – e non per denaro, ve lo giuro, ché spesso lavoro anche gratis o per un tozzo di pane – accetto tutti i manoscritti affidatimi dai selfpublisher e non boccio nessuno di quelli commissionati dalle case editrici, con qualche riserva soltanto per gli ebook. Uso il pc per scrivere, ma detesto leggere su uno schermo, quelli non sono veri libri, e non sarò mai entusiasta di un tale surrogato. Le pagine vanno toccate, sfogliate, accarezzate, annusate. La carta è carta, punto e basta. A tal proposito, vorrei dire qualcosa a un certo Bill Gates… Caro Bill, tu sarai un grande senz’altro, ma a quanto pare anche i grandi possono sparare cazzate di tanto in tanto. No, perché come la vogliamo chiamare la tua dichiarazione secondo la quale speri di non morire senza aver realizzato il tuo più grande progetto e cioè farla finita con la carta, che secondo te sarebbe perfettamente sostituibile con gli schermi del computer? Ebbene, esimio Bill, poiché tu sei un grande e io un piccolo, ti rispondo con le parole di un altro grande, Mario Vargas Llosa: semplicemente, non sono capace di accettare l’idea che la lettura non funzionale né pratica, quella che non ricerca un’informazione né una comunicazione di immediata utilità, possa convivere sullo schermo di un computer con il sogno e il godimento della parola generando la stessa sensazione di intimità, la stessa concentrazione e lo stesso isolamento spirituale del libro. È forse un pregiudizio, derivante dalla mancanza di pratica, dall’ormai lunga identificazione nella mia esperienza della letteratura con i libri di carta, ma, sebbene navighi con molto piacere in Internet alla ricerca delle notizie del mondo, non mi verrebbe mai in mente di servirmene per leggere 14


le poesie di Gòngora, un romanzo di Onetti o di Calvino o un saggio di Octavio Paz, perché so fin troppo bene che l’effetto di quella lettura non sarebbe mai lo stesso. Eccoti servito, caro Bill. Incassa e porta a casa! Proprio quando quasi non ci pensavo più, un lampo mi attraversa la mente. Mi precipito nella stanza che ospita la mia sconfinata libreria. Dove diavolo sarà? Cerco freneticamente. Devo riconoscere che non sono granché ordinato. Mi riprometto da anni di classificare e schedare i volumi per facilitarne la ricerca, ma poi rimando sempre. Per giustificare in parte la mia pigrizia mi dico che mi fa piacere rovistare in questa giungla di carta alla ricerca del libro che mi interessa perché mi fornisce l’occasione di intravedere e salutare, nel frattempo, tanti vecchi amici. È come nuotare in un mare caraibico ricco di tesori sommersi da scoprire, perdersi in un labirinto che ti riserva, prima dell’uscita, dolcissime sorprese a ogni svolta, girovagare in un giardino e bearsi dei colori e dei profumi di mille meravigliosi e sempre nuovi fiori. Ah, eccolo! Tiro fuori il libro sepolto sotto una pila ondeggiante di volumi e lo sfoglio vorace e impaziente. Mi pare di ricordare… Infatti! Non so se sorridere o incazzarmi. Preferisco sorridere, per ora, perché so cosa mi aspetta. Prendo il cellulare. «Tiziana!». «Ehi, perché urli? Che è successo?». «Tiziana, ti dice niente Fiorirà l’aspidistra?». «L’aspiché?». «Non fare la tonta». «Diego, non ti capisco. Che vuoi?». «George Orwell?». «George Orwell. Be’, quello di 1984 e La fattoria degli animali. E allora?». 15


«Quello di Fiorirà l’aspidistra, anche… il libro dal quale hai copiato un bel pezzo e parte della storia. Ci ho messo un po’ ad arrivarci perché l’ho letto una trentina di anni fa». «Non so di cosa stai parlando! Mai letto, né sentito parlare di questo libro». «Prendi il libro!». «Ma se non ce l’ho! Ti ripeto che non so di cosa stai parlando». «Vabbe’, Tiziana. Il libro ce l’ho io…». «Mi offendi, Diego!». «Tiziana, tu sei brava, scrivi bene, hai tante belle idee, mi spieghi perché cavolo devi scopiazzare? Quante volte te lo devo dire? Tra l’altro, te lo ricordo, copiare è un atto illecito. Almeno cambia qualcosa, non due sole parole, come hai fatto stavolta giusto per neutralizzare Google. Se proprio devi, riprendi il concetto, che so, e dillo con parole tue, diverse. E poi un’altra cosa. Nessun medico, che io sappia, ti ha prescritto di scrivere un romanzo ogni tre mesi. Perciò, se non hai una buona idea, fermati e aspetta, lascia stare le storie degli altri». «Diego… vaffanculo!». CLIC! Ecco, ha riattaccato. E con una certa energia, direi. Finiscono spesso così le nostre conversazioni. Farà l’offesa per un paio di giorni e poi verrà a Canossa, non in ginocchio, anzi con piglio deciso, ma obtorto collo rassegnata ad arrendersi all’evidenza, fingendo invece di darmela vinta solo per amor di quiete. Mica facile il rapporto dell’editor con lo scrittore. Spesso una guerra vera e propria. Una lotta all’ultimo sangue. Affascinante, però. Perché non sono Italo Calvino né Gordon Lish, ma ho tanta pazienza e così io e il mio fiero contendente finiamo sempre, be’ quasi sempre, per capirci e lavorare in piena sintonia e quando il libro è bell’e finito, stampato e 16


pubblicato ci vogliamo bene come fratelli. Lui, grato, con gli occhi che gli brillano alla vista di quel magico oggetto rettangolare con il suo nome che occhieggia ammiccante da dietro una vetrina. Io sfinito, ma soddisfatto e felice di godere di quella gioia riflessa. E non m’importa che il mio nome non compaia. Mi basta sapere che dietro e dentro i milioni di affascinanti segni grafici grigioneri impressi su quelle pagine sia nascosta, e viva, anche una piccola parte di me.

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