Leggendo Murakami in danese

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ISBN: 978-88-31314-58-9 © 2020 Les Flâneurs Edizioni di Alessio Rega • Bari a.rega@lesflaneursedizioni.it www.lesflaneursedizioni.it info@lesflaneursedizioni.it Editing: Arianna Caprioli Impaginazione e revisione: Alessio Rega Progetto grafico: Mariano Argentieri Finito di stampare a ottobre 2020 presso Creative 3.0 Srl • Reggio Calabria per conto di Les Flâneurs Edizioni


Vanya De Rosa

LEGGENDO MURAKAMI IN DANESE



A te, Charlotte, che hai creduto nelle mie storie e mi hai sempre seguita e incoraggiata. A te, Mariateresa, che hai saputo vedere la luce del sogno nel mio sguardo, anche quando a me sembrava spenta. A tutti voi che ve ne siete andati troppo presto. Forse quel giorno qualcuno vi ha parlato, vi ha dato le risposte che cercavate. Noi le cerchiamo ancora.



«Du er nu nødt til at blive en af verdens barskeste femtenårige, ellers har du ingen chance for at overleve i denne verden». «D’ora in avanti tu devi diventare il quindicenne più tosto del mondo. In qualunque situazione. Non puoi fare altro, se vuoi sopravvivere». Haruki Murakami, Kafka på stranden (Kafka sulla spiaggia)


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Leggendo Murakami in danese

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Prima parte Il buco nero

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1 Dicono poi che mentre ritornavi

Quella sera, come quasi tutte le sere da un po’ di tempo, me ne stavo seduto in cucina, su una sedia scomoda, con un occhio a qualche compito non finito e uno alla cena da preparare. Mi ero messo in testa di cimentarmi con un calzone di cipolle, e quando mi mettevo in testa qualcosa non c’era verso. Non l’avevo mai sperimentato prima, molto spesso però l’avevo visto fare da mia madre, specie quando ero bambino. Sporgendomi sul tavolo mi impiastricciavo di farina e affondavo le dita in qualunque intruglio abbastanza molliccio, oppure la seguivo per tutti gli angoli della cucina e mi sollevavo sulle punte se non riuscivo a distinguere bene ciò che faceva. Poi, quando l’opera d’arte era finita e tutti e tre ci sedevamo a tavola, mio padre non era mai capace di resistere a quella esplosione di sapori. Se era stanco o nervoso gli passava, masticava piano ogni boccone a occhi socchiusi, e dopo si accendeva una sigaretta e diceva: «Perché non spegniamo la televisione?». E ci mettevamo a chiacchierare. Insomma, quel calzone di cipolle doveva avere dei poteri magici, immaginavo allora: per questo lei lo preparava così spesso. 13


Come se non bastasse, stavo pure combattendo contro un paio di esercizi di algebra che non riuscivo a far quadrare. Scomposizione dei polinomi. Per me, come decifrare un messaggio in codice senza avere la più pallida idea di quale fosse la chiave. Il timer del forno trillò. Niente da fare, sotto era ancora crudo, me ne accorsi quando sollevai un angolino con una forchetta. Programmai altri dieci minuti di cottura. Avevo chiesto qualche consiglio a Pina, che veniva adesso due pomeriggi alla settimana per aiutarci con le faccende di casa. Lei aveva inarcato le sopracciglia scure e folte, e mantenendo quella smorfia di scetticismo mi aveva raccomandato di cuocere la cipolla nel latte, perché così si digeriva meglio. Un particolare che non ricordavo. Mentre si avvolgeva la testa in una grande sciarpa a fiori, aveva borbottato fra sé qualcosa come: «Ma guarda ’sto figlio benedetto, Signoriddio, proteggilo tu, e quel pover’uomo, e quella santa donna…». Poi sulla porta aveva aggiunto: «E nell’impasto mettici un cucchiaino di zucchero, non ti scordare, ché la pasta così viene più morbida!». Controllai attraverso il vetro, come fosse un neonato prematuro nell’incubatrice. Sembrava buono. L’odore lo era. Dal soggiorno arrivavano le note di Afterglow dei Genesis, nella meravigliosa versione live dell’album Seconds Out. Una canzone che mia madre adorava e io conoscevo bene, perché l’avevo ascoltata tante volte assieme a lei. Un sottofondo musicale aveva sempre accompagnato quegli antichi quadri di noi due in cucina, con il televisore nero e muto che rimandava le nostre immagini distorte. Senza musica le sarebbe stato impossibile affrontare la giornata, diceva. Forse persino vivere. The meaning of all that I believed before Escapes me, in this world of none I miss you more. 14


Nelle onde di quel suono, per un attimo, ebbi paura di annegare e vissi un’allucinazione fulminea: un’ombra sul quaderno, un contatto lieve sulla spalla. Mi alzai di scatto, mi voltai, ma c’era solo il ronzio della ventola nel forno, e il calore che continuava a covare la mia creatura. Mi rimisi a sedere con un sospiro. Le ics e le ipsilon iniziarono a ballare sotto i miei occhi, strafottenti, ma dovevo resistere. «Verardi, so che sei un ragazzo molto intelligente, però davanti a un esercizio più complesso, chissà perché, ti rifiuti di ragionare. Spiegami questo mistero!». Ecco cos’era successo durante l’ultimo confronto ravvicinato tra me e la professoressa di matematica. Io in piedi davanti alla lavagna come un lampione fuori uso, Claudio, Max e Franz negli ultimi banchi, affannati a sbracciarsi in segnali che non capivo, e la Martini implacabile fra loro e me, ingessata nel suo vestito grigio. Portava lo stesso vestito sotto un impermeabile scuro al funerale di mia madre, l’11 ottobre, una mattina fredda e gonfia di pioggia che si mescolava con le lacrime. L’unica insegnante presente, gli altri non erano stati autorizzati ad assentarsi da scuola. Era confusa tra i miei compagni di classe, quasi tutti lì, con le facce tristi e gli sguardi bassi. Lei no, lei mi guardò dritto negli occhi quando mi arrampicai a fatica sui gradini della chiesa, reggendo mio padre così fatto di sedativi, che a malapena stava sulle gambe. Dopo che fu tutto finito, papà venne raccolto quasi a forza da zio Gigi e risucchiato dalle condoglianze di amici e conoscenti, e lei si avvicinò a me, mi fece una carezza e disse soltanto: «Coraggio. Non è mai finita finché si è vivi. Finché c’è la vita intorno». Ripensai alle sue parole in quei giorni di finestre oscurate e pianti e movimento insolito per casa. E da allora, nonostante il mio odio viscerale verso la materia che insegnava, cominciai a provare per lei un profondo rispetto. 15


Intanto mi ero scordato del calzone e non avevo badato al campanello. Aprii il forno, quasi mi ustionai una mano. Niente danni, per fortuna, e questa volta era pronto. Chissà se sarebbe servito a consolare mio padre almeno un poco nel giorno di un compleanno mancato, che potevamo celebrare solo in noi stessi, senza la festeggiata. Il 1° dicembre era sempre stata una giornata di grande allegria per la nostra famiglia. Il telefono che squillava di continuo, aromi di spezie, di lievito e di zuccheri che si mescolavano, passi frettolosi per le stanze mentre mamma si spostava dalla cucina al soggiorno con le braccia piene di piatti, bicchieri, tovaglioli colorati, e papà la chiamava da un’altra parte della casa perché c’era qualcosa che serviva con urgenza proprio in quel momento, che lui come al solito non trovava. «Aliceee! Vieni un attimo?». «Ma che c’è ancora? Giulio, vai tu a vedere che altro vuole tuo padre?». L’eco di quelle parole galleggiò nell’aria per qualche istante, poi si avvitò su se stessa come una trottola e venne risucchiata giù, nella cantina buia in cui immagazzinavo i ricordi che mi facevano più male. Avrei aperto la botola e ci sarei sceso, un giorno. Prima o poi. Ancora strascichi di musica dal soggiorno, accordi di chitarra sotto una voce profonda inconfondibile. Dicono poi che mentre ritornavi nel fiume chissà come scivolavi, e lui che non ti volle creder morta bussò cent’anni ancora alla tua porta. No, basta! Star male va bene ma costruirsi addosso castelli di depressione, questo no, non potevo permetterglielo. Misi via libro e quaderno, rassegnandomi a copiare gli esercizi da 16


qualcuno, la mattina dopo: non c’era più tempo, né voglia. Sbirciai dalla porta del soggiorno. Mio padre era abbandonato sul divano, con gli occhiali appesi alla maglia e gli occhi chiusi. Sul tavolino, immancabili, un pacchetto di sigarette e un accendino, e accanto un posacenere colmo di mozziconi e un bicchiere con due dita di qualcosa di giallognolo che non era certo tè al limone. La puzza di fumo era insopportabile. Corsi ad aprire la finestra, poi fiutai il liquido nel bicchiere: brandy. Io continuavo a svuotargli le bottiglie, poco per volta, e lui continuava a comprarle, senza accorgersene. Nessuna reazione ai miei spostamenti per la stanza, immaginai che dormisse. Spensi lo stereo e il silenzio improvviso mi provocò una sensazione di vuoto che colpì in pieno lo stomaco. «Perché hai spento?». Lo guardai e solo allora notai le lacrime che gli scendevano lungo le guance. «Scusa. Sembravi addormentato». «Da dove arriva questo freddo?». «Ho aperto un po’ la finestra. Non si respira, qua dentro. Vuoi che riaccenda?». «No. Non fa niente». Si passò il dorso della mano sul viso, si rimise gli occhiali, sperando forse di nascondermi che aveva pianto. E intanto se ne stava lì seduto, i gomiti sulle ginocchia, la testa fra le mani. Mi accovacciai davanti a lui. «Dai, papà, alzati. Fra poco si cena». «Non ho fame». «Eh no, niente storie! Stasera ti ho preparato una cosa speciale». Feci una pausa, in attesa che mi chiedesse che cosa, ma niente. Non si mosse nemmeno. «Ho provato a fare il calzone di cipolle. Non sarà buono come quello di mamma, però…». 17


Si alzò di scatto. «Ti ho detto che non ho fame. È stata una giornata terribile, me ne vado a letto, adesso». Sparì in cucina, e io sospirando raccolsi il bicchiere e il posacenere. Quando lo raggiunsi stava contando delle gocce in un bicchiere d’acqua. Svuotai il resto del brandy nel lavandino e lui mi guardò con un lampo di rimprovero negli occhi. «Quanto hai bevuto?». «L’ho versato un paio di volte. Contento?». «E ora ti prendi anche il sonnifero?». «Senti, voglio dormire. Non voglio pensare più a niente fino a domani. E quando avrò bisogno di un baby-sitter, ti avviserò!». Ingoiò la medicina d’un fiato, quasi lanciò il bicchiere vuoto nel lavello. «Davvero non lo vuoi, il calzone? L’ho fatto apposta per te». Mi pentii di averlo detto. Fece una smorfia di fastidio. «Lascialo in frigo. Lo mangiamo domani». Si chiuse in bagno sbattendo la porta, girò forte la chiave, come a dire: interrompiamo le comunicazioni. Mi prudevano gli occhi e il naso. Che cosa significava era ovvio e avrei lottato fino all’ultimo perché non succedesse. Dovevo muovermi, fare qualcosa. Accesi la televisione, un’illusione di compagnia, e apparecchiai per me solo, al posto dove di solito si sedeva mio padre, perché da lì non avrei avuto sotto gli occhi tutto il tempo la lavagnetta bianca appesa al muro, accanto al calendario, e le parole che la ricoprivano, scritte in un corsivo familiare. Oggi torno verso le 4. C’è della pasta al forno da riscaldare. Giulio, ricordati che hai un appuntamento dal dentista alle 3. L’ultimo messaggio che mia madre aveva annotato, il giorno prima dell’incidente, e che nessuno aveva più cancellato. Masticai un boccone: il calzone era venuto proprio bene. Mi sentii triste e felice insieme, una sensazione strana. Gli in18


gredienti erano mixati nella giusta misura, la pasta era tanto soffice da sciogliersi in bocca, il grado di cottura sfiorava la perfezione. Forse solo un po’ salato? Ma no, povero scemo! Non te ne accorgi che le lacrime ti arrivano alle labbra e si fondono con il sapore delle cipolle e dei pomodorini, lo stomaco ti vorrebbe salire in gola e piano piano non distingui più le immagini che ti ballano sotto il naso, e sono macchie colorate, e poi soltanto gelatina appiccicosa tra le ciglia? Niente da fare. Mia madre era una roccia solida in uno specchio d’acqua che spesso si agitava, minaccioso, specie da quando le discussioni fra me e mio padre si erano fatte sempre più frequenti e il tono delle voci sempre più alto. Era un punto fermo dal quale la vita familiare di ogni giorno partiva come un raggio e disegnava un cerchio per poi tornare a lei, che ne era il centro. Quando se n’era andata, come in una lavatrice impazzita la forza centrifuga ci aveva spinti lontano, in due diversi buchi neri.

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