ISBN: 978-88-31314-51-0 © 2020 Les Flâneurs Edizioni di Alessio Rega • Bari a.rega@lesflaneursedizioni.it www.lesflaneursedizioni.it info@lesflaneursedizioni.it Editing: Arianna Caprioli Impaginazione e revisione: Alessio Rega Progetto grafico: Mariano Argentieri Finito di stampare a settembre 2020 presso Creative 3.0 Srl • Reggio Calabria per conto di Les Flâneurs Edizioni
Stefano Iannaccone
PIOVONO BOMBE
Uno torna sempre al suo vecchio posto dove amò la vita e allora comprende come stan da assente le cose che ha amato La canzone delle semplici cose, Vinicio Capossela
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Piovono bombe
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Prologo Non posso permettermi di morire
Sono circondato. C’è odore di marcio e di sudore. Di vita morente. Il brecciolino violentato dal caldo. Intorno, solo il vuoto. Una desolazione che in Occidente sarebbe quella di una zona industriale dismessa e che qua è solo distruzione atemporale. Da lontano, con il sole che ormai si è abbandonato alle spalle delle montagne, intravedo monumenti allo sfacelo, edifici che torreggiano sbriciolati e monchi a simboleggiare una storia gloriosa crollata in pochi mesi. L’aria è a tratti soffocante, i monti sembrano tenere per sé tutto l’ossigeno fresco, la circolazione d’aria è bloccata. Sento la maglietta appiccicata addosso, lo zaino incollato alla schiena. Niente spari, niente aerei in volo, niente sirene o esplosioni. Qua ci sono gruppi contro gruppi. Bande di predoni. Assassini professionisti che saltabeccano da una fazione all’altra per vendere informazioni, incamerare denaro e provare la fuga prima di essere scoperti e decapitati o, nella migliore delle ipotesi, fucilati. Eppure negli echi lontani si percepisce ancora il sudore di persone zelanti in fila per vendere merci e muoversi nella città operosa pressata dal bicipite di un dittatore pronto a fare strame di chiunque osasse contestarlo fuori 9
dall’ampolla di un finto dibattito imposto. Qualcuno ha anche detto che era meglio lasciarlo stare, continuare a farlo lavorare evitando proteste, tumulti, ribellioni sfociate in guerriglia armata e poi in guerra. Senza aggettivi. «Questa è la guerra» mi dicevano. «Sei venuto fin qui, cosa ti aspettavi?». Mi aspettavo di entrare in contatto con la Storia, di immergermi in un orrore che potesse cancellare tutti gli altri miei orrori. Ma non c’è Storia, là fuori, è solo cronaca. Un pulviscolo di fatti. Vedo buio e sento respiri affannosi, adirati. Non capisco in quanti siano. Forse tre. Chissà, quattro. Ombre nere che si muovono sotto passamontagna neri. Sono veloci, ferini. Le pulsazioni del mio cuore sono al ritmo giusto. Il panico non mi appartiene, è solo emozione ciò che sto provando, penso. Solo un’emozione tra le tante, nulla di più, ripenso. Come l’amore. Lo inalo quasi con assuefazione. Devo abituarmi. Mi sono già abituato all’idea di morire. Respiro e sorrido. Un ghigno mefistofelico si espande sul mio volto, sento i muscoli tendersi. Loro arrivano in nome di dio. In nome di un dio, del loro dio. E in fondo mi si avvicinano per l’unico grande dio, quello in cui tutti credono e che non ha nulla di sovrannaturale se non la capacità di smuovere il mondo a proprio piacimento. Io per loro non sono un miscredente, ma un potenziale assegno da milioni di dollari a nome dello Stato italiano. L’ho capito da quando sono in questo luogo senza tempo, perso sotto le bombe piovute dal cielo e scagliate dalla terra. Nella mente scorrono vivide istantanee che restano però fuggevoli: l’arrivo al confine quasi facile, l’aiuto delle organizzazioni locali a sostegno della popolazione, «Ma non possiamo garantirti alcuna protezione sul posto». Soffi di memoria mi alleviano il momento, distendono i nervi. E non penso a nient’altro, non penso a quel che resta in Italia. Ammesso che qualcosa ci sia ancora. Eppure potrei morire, qui e ora. Magari vogliono solo uccidermi. Potrebbe essere. 10
Magari non sono assassini in nome di dio, né vogliono chiedere soldi allo Stato italiano. Magari vogliono solo vedermi morto. Avverto una scarica di adrenalina violenta, ancora più violenta di quella provata qualche minuto fa. Mi pervade, la sento transitare in tutti i pori, mi sfrigola sotto la cute, quasi brucia. Stringo più forte la bottiglia di vetro che ho in mano. Sento la pressione del collo sulle dita, mi sta per bloccare la circolazione. L’avevo conservata per cercare dell’acqua: adesso mi illudo che possa bastare come arma di difesa in un fronte di guerra. La sbatto a terra con la violenza di chi cova un furore cieco verso la vita. Il furore che mi brucia dentro da quando sono nato, o almeno da quando ho memoria di esser vivo. Sento il clangore della bottiglia che si infrange, i pezzi di vetro schizzano in svariate direzioni. Il rimasuglio di liquido che vi era contenuto mi bagna i pantaloni già lerci. I respiri affannosi accelerano. Si preparano all’assalto. Sono ombre nere, nel nulla. Per me è lo scontro finale. Scorgo occhi colmi di rabbia. Occhi che si avvicinano a passi lenti e pesanti, come una falange spartana. L’eco mi risuona nella testa come il rullo di una batteria. Caccio un urlo disperato, di quelli che ti squassano il petto e lacerano le corde vocali. Realizzo nel mentre di essermi ferito l’avambraccio destro con la parte più aguzza della bottiglia. Il dolore all’inizio è inesistente, sembra una scottatura più che un taglio. Comincia a dolermi davvero nel momento in cui mi accorgo che i passi si sono fermati. Sono in tre. Li vedo distintamente ma non so cosa hanno tra le mani. Mazze, credo. Quasi sicuramente coltelli. Potrebbero essere anche kalashnikov. Sono capaci di uccidere in nome dei soldi e di Allah. Non riesco a immaginare cosa voglia dire, questo pensiero. Provano il piacere di vedere la vittima che implora terrorizzata e tenta di recitare versetti del Corano che 11
non conosce. Così li attendo con l’avambraccio sanguinante. Perché io non li temo. Non temo loro. Non temo il dolore. Non ho paura di morire, lo devono sapere. Amici miei, sono abituato al pensiero della morte pronta a sbattermi sul petto facendo cessare il respiro, sono abituato allo stato latente, là sullo sfondo. Io la morte l’ho vista su volti atterriti. Io conosco il terrore. Come voi. La testa è vuota, sgombra da qualsiasi elemento di memoria; succhierebbe via troppa energia. L’unica cosa che penso, ora, è che se dovessi morire non chiederei aiuto a dio. Non mi convertirei. Se deve accadere, sarà senza pentimenti. Sono solo, in un angolo di terra fetido di morte, con gente che dice in gran parte cose che non capisco. Per questo preferirei morire senza dio. Nello sfacelo di un Paese in guerra, in una serata di estate nella conca tra le montagne. Non prego dio, non voglio farlo. Non temo di morire. Almeno, ora non posso permettermelo.
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