Esagera, la vita

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ISBN: 978-88-31314-54-1 © 2020 Les Flâneurs Edizioni di Alessio Rega • Bari a.rega@lesflaneursedizioni.it www.lesflaneursedizioni.it info@lesflaneursedizioni.it Editing: Sara Saffi Progetto grafico: Mariano Argentieri Copertina: Giuseppe Inciardi Finito di stampare a settembre 2020 presso Creative 3.0 Srl • Reggio Calabria per conto di Les Flâneurs Edizioni


Giulia Arnetoli

ESAGERA, LA VITA



Dedico questa storia a tutte le donne, con l’augurio che possano trovare sempre il coraggio di scegliere



«… anche se il tempo passa, e tu non sei mai la stessa (vita), la voglia che ho di te non l’ho mai persa e se ogni istante ci cambia, se ogni cosa è diversa, c’è amore e resterà nella mia testa». Lucio Dalla, Anche se il tempo passa


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Esagera, la vita

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1. Cu cu

Si ricordava bene quella giornata al mare: Orlando aveva appena due anni e Virginia dieci. Era la prima gita che facevano dopo il fatto. La cosa che più era marcata nella sua mente era la luce abbacinante del sole che si rifletteva sulla sabbia bianca di Rosignano Solvay. Erano solo loro quattro su quel tratto di spiaggia e lei aveva passato quasi tutto il pomeriggio a osservare i suoi figli sguazzare nell’acqua e divertirsi rincorrendo i cavalloni. Nonostante il mare fosse agitato, era chiaro e setoso. Quello fu il primo giorno in cui intravide una flebile speranza di poter aggiustare le cose; la prima volta in cui, sebbene solo per pochi minuti, ritrovò il senso del suo esserci. Siamo sempre troppo giovani davanti alla morte. Troppo puri davanti alle sopraffazioni. Violante quel giorno pensò anche che siamo sempre in ritardo davanti alla vita. Cu cu rintoccò l’orologio appeso alla parete che si trovava alle sue spalle. Era un vecchio pendolo di legno scuro a forma di casetta, dalla quale usciva un uccellino che cantava allo scoccare di ogni ora. Erano le dieci e già da mezz’ora Violante si trovava là, in quella stanza dov’era dura anche per i minuti 11


fluire senza intoppi. I mobili di legno opaco, la libreria, la scrivania, le sedie a ridosso della parete segnavano qualcosa di già passato e declinavano i pensieri verso ciò che era stato e non era più. Perso. Frantumato. Dimenticato. A contrasto, la luce accecante del giorno inoltrato piombava nella stanza trapassando le tende di lino bianco che adornavano le finestre. Lì, nel mezzo, c’era lei, sprofondata in una sedia imbottita di velluto verde; sul suo volto erano visibili i segni del veleno che in quel preciso istante le scorreva al posto del sangue. “Avrebbe dovuto essere già qua” pensò Violante, “perché non è ancora arrivato?”. Si sentì vulnerabile. Era tutto troppo reale. Il suo viso contrito, luccicante di sudore, fissava la faccia della preside senza vederla. Il rumore sottile del ventilatore era una mosca noiosa che avrebbe voluto ammazzare. Si contorceva le mani con fare nervoso, non riusciva a controllarsi. «Ha capito, signora, quello che le stiamo dicendo?» ribadì la preside, una donna minuta, di mezza età, con gli occhi all’ingiù e le labbra sottili ai lati delle quali, quando parlava, si formava una specie di bavetta bianca e schiumosa. Violante ne era schifata. La maestra Vittoria, che le sedeva accanto, la guardò con un sorriso dolce. «Siamo preoccupati» continuò la preside. «In particolare, questo disegno ci ha messo in allarme». Allungò una mano per mostrarle un foglio spiegazzato. «Violante, ci sta ascoltando?» intervenne la maestra. «Certo, sì, certamente. Vi ascolto. Mi chiedevo solo dove fosse il padre. Il babbo di Orlando, intendo. Doveva essere già qui, non capisco». «Avrà avuto un contrattempo… vedrà che arriverà». «Eh, sì. Lui ha sempre contrattempi». Violante sospirò profondamente e girò la testa verso la maestra per sostenersi sul suo volto. 12


«Insomma, signora. Ha capito la situazione?» proseguì la preside. Violante immaginò di sbatterle in testa il portapenne di legno che stava sulla sua scrivania. «Certo. L’ho capita! È che a casa Orlando non ha questi… atteggiamenti. Magari sì, è più mogio del solito, ma non fa nessuna stranezza. Cosa posso fare?». La sua voce fu spezzata da un’emozione improvvisa. Si sentì impotente. Una cosa inutile. Anzi peggio. Si sentì la causa del male di suo figlio. Era un pensiero che la sua testa non riusciva a contenere, e con le lacrime sperò di lavarlo via. «Non faccia così. Vedrà che sono cose risolvibili. I bambini tendono a manifestare il disagio attraverso questo tipo di atteggiamenti. Noi vogliamo solo informarla, non spaventarla. Insieme potremmo trovare la soluzione» concluse la maestra. «Potremmo, già. Da sola non so cosa fare, da dove cominciare. Insomma, è un periodo difficile» affermò tra un singhiozzo e l’altro. Le lacrime si mischiarono al sudore che colava dalla fronte e subito si vergognò di quella manifestazione di debolezza. Tirò su con il naso e cercò un fazzoletto nella borsetta. «Suo figlio non ha qualcosa di irreversibile» affermò la preside. «Bene. Cosa mi consigliate dunque?». Se solo ci fosse stato anche Luigi, magari quel peso che le fracassava le spalle lo avrebbero potuto sostenere in due. «E dove cavolo eri, eh?» strillò al telefono appena fu uscita dal cancello della scuola. «Calmati. Non ci parlo con te se urli come una forsennata». «Ah certo, io sono una forsennata. E tu invece, dov’eri? Mi ero raccomandata! Si parlava di Orlando, è figlio anche tuo!». «Ci sarei stato, se avessi potuto». 13


«E come sempre non hai potuto». «Non dire così perché mi fai incazzare». «Incazzati, non mi interessa. Mi fai schifo! Neppure per tuo figlio trovi il tempo!». Ci fu un lungo minuto di silenzio. Lei camminava irrequieta e a passo svelto senza sapere dove andare. Tuttavia si ritrovò davanti alla sua auto. «Ci sei ancora?» chiese Luigi, dall’altra parte del telefono. «Ci sono». «Ascolta. Non potevo. Avevo una riunione a scuola. Un colloquio con i genitori di un alunno complicato». «Anche tuo figlio è un alunno complicato». «Era un appuntamento preso da tempo. Ho cercato di fare il prima possibile. Poi mi sono bloccato nel traffico. Ti ho avvertita tramite messaggio, non lo hai visto?». «No, ero troppo nervosa. Sta di fatto che mi hai lasciata da sola ad affrontare tutto. E io mi sono messa a piangere, come una cretina. Mi vergogno da morire, adesso». «Hai pianto?». «Sì». «Ma va’». «Eh, ma va’». Violante aprì lo sportello e salì in auto. Appena girò le chiavi nel quadro, si alzò una musica fortissima. «Non hai perso il vizio dello stereo a tutto volume, eh?» disse Luigi. «No, perché avrei dovuto? Posso tenerlo alto quanto voglio. Non ho più chi mi sgrida per questo». «Vabbè. Ascolta. Ci possiamo vedere, così mi racconti meglio?». «Adesso non posso. Devo entrare a lavoro. Ho dovuto tenere chiusa la libreria per quasi tutta la mattina. Ma per mio figlio è giusto che l’abbia fatto». 14


«È l’ennesimo tentativo di farmi sentire uno stronzo?». «Lo sei. Comunque va bene. Sentiamoci stasera e fissiamo. Ti spiego a voce». Violante buttò il telefonino sul sedile posteriore e girò la manopola del volume al massimo. La canzone ne uscì distorta, il volante tremò. Gioì al pensiero del disappunto che lui avrebbe avuto e di tutte le cose che le avrebbe detto se fosse stato lì. Partì per raggiungere il centro della città. Lasciò l’auto al parcheggio sotterraneo della stazione di Santa Maria Novella e a piedi si avviò verso la libreria. Firenze sprigionava tutta la passione che a lei, in quel momento, mancava. Anche nel sottopasso vibrava una vitalità che non riusciva più a sentire. In quei negozi rifugiati sotto terra come talpe senza occhi, scorse l’essenza di pulsazioni ormai lontane da ciò che era diventata.

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