Nessun nesso

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Questa è un’opera di fantasia e come tale è frutto dell’invenzione dell’autore. Ogni riferimento a fatti, luoghi e persone realmente esistenti è puramente casuale.

ISBN: 978-88-31314-62-6 © 2020 Les Flâneurs Edizioni di Alessio Rega • Bari a.rega@lesflaneursedizioni.it www.lesflaneursedizioni.it info@lesflaneursedizioni.it Editing: Antonietta Rubino Progetto grafico: Mariano Argentieri Copertina: Giusppe Inciardi Finito di stampare a novembre 2020 presso Creative 3.0 Srl • Reggio Calabria per conto di Les Flâneurs Edizioni


Federico Fabbri

NESSUN NESSO



Ad Alessandra, la donna che ha riacceso la lampadina della mia vita



Prefazione di Gianpaolo Colucci

Ero appena entrato in questo strano e controverso mondo dell’editoria, quando ho conosciuto personalmente Federico. Prima di allora ci eravamo scambiati qualche messaggio sui social e, devo dire, già mi aveva colpito positivamente. Per me era tutto nuovo, in quei giorni. Ero al Salone del Libro di Torino e presentavo il mio primo romanzo. Federico mi scrisse che sarebbe venuto volentieri (disse proprio così) ad assistere alla presentazione. Io gli risposi che mi avrebbe fatto piacere, così come risposi a tutte le persone che mi avevano promesso che sarebbero venute, consapevole che a volte, le cose, si dicono così tanto per dirle, e che mai avrei avuto il piacere di vederlo seduto ai primissimi posti mentre parlavo del mio romanzo con una perfetta sconosciuta. E invece Federico c’era. L’unico tra quelli che mi avevano promesso di esserci. Perché vi racconto questo? Perché credo che sia importante, quando si parla di un bravo scrittore, soffermarsi anche e soprattutto sul suo aspetto umano. E quello che vi ho raccontato in poche righe la dice lunga sulla persona che è Federico. Non parlo solo di onestà e di correttezza, ma di una grande generosità, quella che permette a Federico di scrivere 7


per donare. E non lo fa solo attraverso il mondo dei libri, che lui stesso definisce «il mondo della fantasia, il mondo dove tutto è possibile e dove non ci sono leggi da infrangere né da rispettare», ma in ogni modo possibile. Aiutare il prossimo, gli ultimi, materialmente e umanamente è il suo principale obiettivo. Per farla breve, siamo diventati amici e mi sono lasciato coinvolgere in molti dei suoi progetti. Non so se la leggerete tutta, questa prefazione, o se la salterete, come spesso faccio io, ma mi sono dilungato troppo, forse, sulle qualità di Fabbri come uomo e scrittore, quando invece dovrei parlarvi di Nessun nesso, il primo thriller di Federico. Quando mi è arrivato il manoscritto tra le mani, ho riconosciuto subito il suo inconfondibile tratto. La sua prosa, infatti, colpisce subito. È schietta e sincera. Il romanzo, nella sua brevità, traccia immediatamente un confine: quello tra il bene e il male. Come in ogni thriller che si rispetti c’è molta suspense, orrore per alcuni argomenti trattati, spaccato, purtroppo di una società marcia, ma anche una sottile ironia, tipica di Federico. È un libro che si lascia leggere ma soprattutto immaginare, grazie agli indizi lasciati qua e là dall’autore. Adesso però, forse è arrivato il momento di chiudere questa inutile pagina e di lasciarvi alla lettura di Nessun nesso, accompagnandola, magari, con un buon calice di Sangiovese. L’autore apprezzerà, garantisco io. Buona lettura.

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Nessun nesso

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Capitolo 1 7 febbraio

L’inizio è la parte più importante di un lavoro. Platone La villetta del commissario Santo Fabbri distava una decina di chilometri dalla città. Dieci chilometri che gli consentivano di dimenticare la frenesia del lavoro e il caos della gente che aveva sempre un buon motivo per correre. Santo lavorava al distretto di polizia da tanti anni ormai. Aveva fatto una lunga gavetta e ora, finalmente, si stava godendo la relativa tranquillità che comportava il grado di commissario, un miraggio quando era un uomo d’azione. I primi tempi aveva fatto fatica ad accettare di trascorrere intere giornate in ufficio alla scrivania, ma il tempo era passato inesorabile e ora non riusciva più a vedersi nei panni del poliziotto che inseguiva i criminali. Ora dirigeva un’intera sezione che si occupava dei casi più delicati, omicidi e rapimenti. Quando era un agente era considerato il migliore. Aveva assicurato alla giustizia numerosi delinquenti e ne era orgoglioso. Certo, non erano mancate le minacce anonime di 13


quanti sostenevano che le vere vittime del sistema fossero i criminali arrestati, e più di una volta aveva messo in pericolo la propria vita e quella della sua famiglia per garantire la sicurezza della città. Finalmente si era convinto che non valeva più la pena correre quei rischi e aveva accettato tutto quello che comportava la sua nuova posizione. Organizzare retate e studiare piani per smascherare i criminali non dava la stessa botta di adrenalina di quando sfondava una porta con un calcio o immobilizzava un assassino con una pistola, ma aveva enormi responsabilità. E sì, era peggio, perché catture e fallimenti dipendevano da lui, ma questo spesso contava poco per i delinquenti che preferivano prendersela con dei semplici agenti, le braccia del commissario Santo Fabbri. Alessandra, la sua bellissima moglie, stava apparecchiando una lunga tavolata nel giardino della villa, una dimora piccola ma accogliente, circondata da un bosco di faggi e da un ruscello che sfociava in un laghetto poco distante. Era il compleanno di Noemi, la loro unica figlia, compiva tredici anni. Era l’unico giorno dell’anno in cui i Fabbri aprivano le porte alla gente di città, per lo più amici e parenti che giungevano dai vicini centri abitati. Il tempo era clemente, anche se il freddo pungente si faceva sentire. D’altronde era l’inizio di febbraio. Non era la stagione migliore per organizzare un pranzo all’aperto, ma era tradizione che per quell’occasione Santo accendesse un grosso fuoco e un letto di brace e si preparasse a cuocere le sue proverbiali salsicce che venivano servite agli invitati in mezzo a due fette di pane fatto in casa, impastato e fatto lievitare dal giorno precedente. C’erano tutte le compagne di classe di Noemi, ma anche molti genitori che approfittavano per godersi una giornata in campagna e le delizie del barbecue di Santo. Noemi si era vestita come se non fosse una festa, non la sua perlomeno. Indossava una salopette di jeans sopra una 14


camicia a scacchi bianchi e neri. Le scarpe, rigorosamente da ginnastica, di un fucsia acceso, facevano pendant con l’elastico che le fermava i capelli lunghi e ricci. Gli occhiali non aveva voluto metterli, le davano un’aria da professoressa. Al loro posto, lenti a contatto. Aveva insistito talmente tanto da riuscire a convincere mamma e papà che fosse una spesa necessaria, quasi obbligata. Riusciva a ottenere sempre tutto quello che voleva dai suoi genitori, soprattutto dal padre che si sarebbe fatto uccidere pur di regalarle un sorriso. Noemi si avvicinò al tavolo e iniziò a salutare distrattamente uno ad uno gli ospiti. Prendeva educatamente i regali che le venivano consegnati, li scartava e ringraziava sempre, anche quando il pacco racchiudeva qualcosa che nemmeno lontanamente avrebbe comprato. Amava leggere, ma mai che qualcuno le regalasse un libro. In casa ne aveva a disposizione tantissimi, ma appartenevano ai genitori, non li sentiva suoi: quelle pagine erano già state scelte e vissute da altre persone, a volte, addirittura, contenevano intere frasi sottolineate. Si sorprese perciò quando Pietro, il suo detestabile compagno di classe, le porse con spocchia il suo regalo convinto di farle un dispetto. All’interno del pacco rettangolare Noemi trovò una copia rilegata in pelle del Vecchio e il mare di Ernest Hemingway. A quel punto avrebbe potuto anche smettere di scartare gli altri regali, nessuno sarebbe stato all’altezza di quel libro. Avrebbe voluto che la gente si smaterializzasse per permetterle di iniziare a leggere e di entrare in un mondo nuovo: il mondo dei libri, il mondo della fantasia, il mondo dove tutto era possibile e dove non c’erano leggi né da rispettare né da infrangere. Una nuvola minacciosa fece capolino sulle loro teste, ma solo un paio di gocce d’acqua ghiacciata riuscirono a toccare il suolo. Santo restò saldo nella sua postazione al barbecue. Le maniche del maglione, tirate su fino alle spalle, scoprivano le braccia un 15


tempo muscolose, che ora invece tradivano il passare del tempo. Anche la pancia iniziava a farsi prominente, ma il commissario se ne curava ben poco. La sua nuova vita era quella, e gli piaceva anche tanto. Aveva più responsabilità ma orari più regolari e più tempo per la famiglia. Riusciva perfino ad andare a pescare al fiume durante il giorno di riposo, quando la figlia era a scuola e tutto sembrava aver raggiunto l’insperata perfezione. Sapeva però che la felicità è un’utopia. L’aveva imparato dai volti che aveva sbattuto in carcere, gente che pensava di averla fatta franca e si beava di aver fregato il prossimo. Gente che ora stava pagando per una felicità durata troppo poco. La nuvola si scansò e un sospiro di sollievo si alzò in cielo per ringraziarlo della sua benevolenza. La temperatura rimaneva comunque piuttosto bassa, ma nessuno sembrava dar troppo peso al freddo. Risate e chiacchiere si libravano nell’aria. Alessandra teneva compagnia a tutti gli invitati, a turno, senza escludere nessuno dalla conversazione, Noemi guardava l’orologio con la speranza che finisse tutto in fretta e Santo curava amorevolmente la brace gratificato dai volti soddisfatti degli ospiti. Tutto procedeva alla perfezione, come ogni anno. La deliziosa birra artigianale e il vino genuino prodotto nelle campagne vicino alla villa scaldavano gli animi e tenevano lontani i musi lunghi. Fu consumata una quantità notevole di salsicce, tanto da lasciare poco spazio nello stomaco alla torta che aveva preparato Alessandra poche ore prima. Anche quella era una tradizione del 7 febbraio. E meno male che gli ospiti avevano detto di non avere più appetito visto che non esitarono a chiederne una seconda fetta. I più temerari anche la terza. Qualcuno chiedeva ancora salsicce, qualcuno si accontentava del vino. Quando Noemi notò un’auto avvicinarsi velocemente al cancello e parcheggiare nei pressi della villa cambiò espressione. Non sapeva cosa stesse per succedere, ma le due persone 16


che scesero dall’abitacolo non le facevano presagire nulla di buono. Le aveva viste altre volte e non avevano mai portato buone notizie. Anche Santo sembrò infastidirsi per l’intrusione, ma si tolse il grembiule unto e andò incontro ai due. Parlò per primo un uomo, robusto e con gli occhi di ghiaccio. La donna che stava al suo fianco teneva gli occhi piantati su quelli di Santo pronta a decifrarne ogni singola emozione. Attendeva le parole del collega che non tardarono ad arrivare: «Dottore, un casino. Ci dispiace disturbarla, ma deve venire subito con noi. Il suo cellulare era spento e siamo dovuti correre fino a qui con la massima urgenza». «Agenti, spero che abbiate un motivo più che valido per interrompere la festa di mia figlia». Santo parlava a bassa voce per non farsi sentire dagli ospiti. Teneva un sorriso falso quanto una banconota da due euro, ma non voleva rovinare la giornata della figlia. «Si fidi di noi e ci segua, dottore, le spiegheremo tutto in macchina. Mi creda, ci ringrazierà per non averle rivelato i dettagli qui in casa sua». Santo era preoccupato. Sapeva che non lo avrebbero interrotto per un semplice furto. Doveva essere successo qualcosa di straordinario, riusciva a leggerlo negli occhi degli agenti che non vedevano l’ora che il commissario prendesse in mano la situazione e lasciasse loro un attimo di respiro. Dopo aver annuito ai due poliziotti, ritornò dai suoi ospiti per scusarsi dell’imprevisto e si dileguò con una battuta: «Tanto le salsicce sono finite, qua non servo più. Continuate a divertirvi e a gustarvi la meravigliosa torta preparata da Alessandra. Auguri ancora cucciola, ci vediamo stasera, io e la mamma dobbiamo ancora darti il nostro regalo». Noemi non era affatto contenta, ma la promessa del regalo la consolò e la riportò a guardare il libro che aveva tenuto 17


gelosamente sotto braccio da quando lo aveva ricevuto, senza poggiarlo da nessuna parte. Chissà se il vostro regalo sarà all’altezza di questo, pensò. Santo si infilò una giacca di velluto sopra il maglione che sapeva di fumo e salì nella propria auto, convinto che fossero diretti al distretto, ma dopo un paio di chilometri di strada sterrata, invece di imboccare il bivio che conduceva in città l’auto dei due agenti proseguì dritto per la campagna. Cazzo sarà successo… Pensava al peggio mentre continuava a guidare per chilometri sulla ghiaia. Si teneva a una cinquantina di metri dall’auto che lo precedeva per non respirare la polvere che si alzava come se fosse nebbia. La macchina degli agenti si fermò in una radura. Scesero lentamente e attesero il commissario. «Quello che vedrà non le piacerà affatto». Questa volta era stata l’agente Zanaga a parlare. Era una donna bassa di statura con dei grossi occhiali da vista che le ingrandivano di almeno il doppio gli occhi. La divisa le stava leggermente grande e i capelli corti lasciavano scoperto il collo magro e sinuoso. Parlava di rado, lo stretto necessario, ed era sempre attenta a scrutare qualsiasi tipo di emozione nei volti degli interlocutori. Nel commissario notò fastidio misto a curiosità. Santo ne aveva avuto abbastanza di vedere vittime, ma tutte le volte che si trovava di fronte a una scena del crimine non poteva fare a meno di provare un formicolio in tutte le parti del corpo, come se si nutrisse di quelle sensazioni che credeva sepolte insieme al suo vecchio incarico. Quando la scossa passava dal petto, sentiva un dolore lancinante come se fosse stato pugnalato. In passato era sempre il primo a raggiungere il luogo dove si era consumato il delitto, e non avrebbe voluto nessuno fra i piedi; adesso, ne avrebbe fatto volentieri a meno. Preferiva la scrivania, l’odore della morte non lo attirava più. 18


Il campo era stato già delimitato dal nastro bianco e rosso della polizia e sul posto erano già al lavoro gli uomini dell’unità cinofila a setacciare metro per metro il terreno in cerca di indizi. Il sangue gli si gelò quando si fermò davanti ai due teli neri che coprivano quello che il commissario Fabbri non avrebbe più voluto vedere. L’agente cercò di fare il punto della situazione, sforzandosi di essere il più calmo possibile, anche se a stento riusciva a controllare i conati di vomito: «Due bambine, di circa sei anni. Le ha trovate un contadino, ha visto un braccio uscire dalla terra, poi poco distante un altro. Come se fossero fiori appassiti da innaffiare… il resto era sepolto. Al momento i colleghi non hanno rilevato tracce visibili». Santo sollevò un angolo del telo. «Il medico legale?». «È appena andata via. Dice che il decesso dovrebbe essere avvenuto una ventina di ore fa. Saprà dirci di più non appena il pm avrà disposto l’autopsia». «Com’è possibile che non abbiate trovato nemmeno un’impronta nel terreno? Non possono essersi seppellite da sole. Cercate meglio. Il contadino? L’avete già sentito?». «Ci abbiamo provato, ma non riesce a spiccicare una parola. Indica solo i punti in cui ha visto le braccia alzate, è sotto shock, continua a tremare come una foglia. I colleghi stanno esaminando la zona ma la pioggia leggera di oggi pomeriggio non li sta aiutando, l’assassino deve aver pulito accuratamente la scena del crimine. Sembra che le bambine siano arrivate in questo campo con il teletrasporto». L’agente Widmer continuava a strizzare gli occhi malcelando il suo disagio, a cinquant’anni: di cui tanti passati in servizio, non era ancora riuscito ad abituarsi alla crudezza di certi reati. Santo comprese la situazione: «Zanaga, c’è altro?». «Sì, dottore. Non c’è nessuna arma del delitto, il medico legale ha constatato che le due vittime sono morte per 19


strozzamento. Dai primi rilievi sembra che l’omicida indossasse i guanti». L’agente si sistemò gli occhiali sul naso e proseguì. «Dottore, se posso permettermi… È evidente che si tratti di un duplice omicidio premeditato e date le circostanze stento a credere che l’autore si fermi qui. Questa messa in scena… il modo in cui ce le ha fatte trovare… Non ha lasciato tracce ma vuole mettersi in mostra. Può darsi che in questo momento stia adescando un altro bambino… Non voglio nemmeno pensarci». Santo annuì, purtroppo le considerazioni dell’agente Zanaga erano fondate. Si trattennero ancora sulla scena del crimine cercando di cogliere ogni minimo dettaglio, mentre la polizia scientifica continuava a scattare fotografie e contrassegnava ogni reperto senza escludere neppure la cosa in apparenza più insignificante. Santo notò che il reperto numero tre era una cartuccia, ma tutto faceva pensare che fosse stata sparata da un cacciatore tempo prima. Non dovettero attendere a lungo perché qualcuno rompesse lo stallo in cui erano da ore; un giovanissimo poliziotto si voltò nella loro direzione e iniziò a gridare: «Presto, correte! C’è un altro bra…», non riuscì a completare la frase che si sentì lo stomaco in subbuglio e la salivazione acida bruciargli la gola. Corse il più lontano possibile per non inquinare la zona del rinvenimento e in prossimità del boschetto che delimitava il campo si accasciò in ginocchio sotto il peso di quell’immagine che non lo avrebbe mai più lasciato andare. Tutte le notti quel braccio candido si sarebbe materializzato nel suo inconscio svegliandolo sudato e tremante. Non fece in tempo a dire ciò che aveva visto che emise un urlo lacerante e cadde. Mentre Widmer e Zanaga erano sopraggiunti rapidamente sul luogo indicato dal giovane agente per constatare il ritrovamento, il commissario, che aveva seguito con lo sguardo la 20


fuga del giovane verso il bosco e il suo malore, accorse per prestargli soccorso. A un paio di metri dal corpo privo di sensi del collega, un altro cadavere affiorava dal terreno. Quattro vittime con le stesse modalità avvaloravano l’ipotesi che l’assassino fosse un serial killer. Zanaga l’aveva intuito dal primo cadavere anche se non avevano elementi sufficienti, ma non aveva voluto azzardare, bisognava restare lucidi e attenersi ai fatti. Aveva sperato di essersi sbagliata, ma il suo istinto non aveva mentito neanche stavolta. La notte stava prendendo il posto della luce e, con i corpi esanimi che venivano trasportati all’obitorio per essere analizzati, avrebbe tolto il sonno agli agenti che continuavano a battere il terreno metro per metro e che avrebbero preferito essere in qualsiasi altro luogo all’infuori di quello. Widmer e Zanaga entrarono nell’ufficio del commissario con tre tazzine di caffè e le facce bianche come cenci per quello che avevano visto. Le mandibole serrate per la pressione di dover trovare un modo per dare una svolta alle indagini, prima che l’assassino uccidesse ancora. Li aspettava una lunga notte di duro lavoro. Santo aveva fatto finta di non sentire le proteste della moglie quando le aveva detto che non sarebbe tornato tanto presto, non poteva abbandonare l’ufficio in quel momento. Si rammaricò per aver abbandonato il compleanno di sua figlia, ma lei lo avrebbe festeggiato anche l’anno successivo, quelle quattro bambine no, non avrebbero più avuto candeline da spegnere. Dicono che le prime ore dopo un omicidio sono quelle cruciali per poter individuare l’assassino e, anche se per il momento non ci avevano capito ancora nulla, avrebbero continuato a dirsi le stesse cose fino a quando un piccolo dettaglio non gli avesse fatto scattare un campanello d’allarme. 21


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