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I gヴaミdi diヴettoヴi dげoヴIhestヴa del け900: Carlo Maria Giulini
I grandi Direttori del ‘900: Carlo Maria Giulini
CENNI BIOGRAFICI Carlo Maria Giulini nacque a Barletta il 9 maggio 1914. Il padre Ernesto era originario della provincia di Mantova e lavorava nel commercio di legnami; la madre era di famiglia veneta con ascendenze austriache. Allo scoppio della Prima guerra mondiale Ernesto venne richiamato alle armi e volle trasferire la famiglia a Ponti sul Mincio, dove possedeva delle terre. A quell’epoca risale il primo interesse del piccolo Carlo per la musica: a quattro anni, affascinato per strada dal violino suonato da un musicista ambulante, ne chiese uno per sé e lo ottenne come regalo di Natale. Dopo la guerra, la famiglia si stabilì a Bolzano, città dove Giulini fece le sue prime esperienze musicali apprendendo i rudimenti dello strumento da una suora dell’asilo e frequentando un violinista boemo, proprietario di una farmacia, con il quale si divertiva a suonare in duo. Iniziò quindi a seguire regolari lezioni nella Musikschule bolzanina. La musica, che Giulini aveva fin lì coltivato solo come un piacevole passatempo, da quel momento occupò il primo posto nelle sue aspirazioni; nel 1930, ancora sedicenne, si trasferì da solo a Roma, dove si iscrisse al Conservatorio Santa Cecilia: lì studiò viola e parallelamente seguì i corsi di composizione e direzione d’orchestra. La crisi degli anni Trenta non risparmiò il padre di Giulini; per non continuare a gravare economicamente sulla famiglia, nel 1934 il giovane Carlo decise di concorrere per un posto nell’orchestra dell'Augusteo. Lo vinse e come viola di fila ebbe modo di suonare con celebri direttori e compositori, fra i quali Bruno Walter, Victor De Sabata, Antonio Guarnieri, Gino Marinuzzi, Wilhelm Furtwängler, Willem Mengelberg, Otto Klemperer, Richard Strauss, Igor Stravinskij. Questa straordinaria esperienza contribuì a far nascere in lui l’interesse per la direzione, e cos̀ inizì una nuova carriera interrotta dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Giulini tornò sul podio con la liberazione di Roma, dirigendo la Quarta di Brahms: fu un trionfo! Venne nominato direttore di orchestra alla RAI dal 1946 al 1951, poi alla Scala di Milano prima come assistente di Victor De Sabata, poi come direttore stabile (1953). Epica nel teatro milanese una sua edizione della "Traviata" con la Callas e la regia di Luchino Visconti, tuttora un classico. Lasciata l'Orchestra del Teatro alla Scala si trasferì a lavorare fuori dall'Italia, debuttando negli Stati Uniti con la Chicago Symphony Orchestra dal 1955 al 1958. Nel 1958 venne nominato direttore della Philharmonic Orchestra di Londra. Nel 1978 sostituì Zubin Mehta alla Los Angeles Philharmonic
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Orchestra, dove rimase fino al 1984. Diresse anche la Philharmonia Orchestra di Londra e altre prestigiose orchestre. Nel 1968 abbandonò il mondo della lirica (in scena ma non in studio) per concentrarsi principalmente sulla scrittura sinfonica. Come Karajan, Giulini voleva scegliere nel repertorio lirico l'intero cast, fissare il tempo per le prove, le richieste, i controlli. Un ideale o niente! Giulini incarnava un modo di lavorare, la ricerca della perfezione seminata con eleganza e urgenza, ormai riconoscibile e memorabile. Quando non troverà più le condizioni necessarie, rinuncerà definitivamente all'opera. Gravi problemi di salute lo obbligarono ad abbandonare la direzione d'orchestra nel 1998, fatte salve due ultime commoventi apparizioni tra febbraio e marzo 1999 con l’Orchestra Giovanile Italiana e con la "Verdi" nel segno dell’adorata "Pastorale" di Beethoven. Giulini continuò ad insegnare fino a poco tempo prima della morte, avvenuta a novantun anni in seguito ad un tumore il 14 giugno 2005.
STILE DIRETTORIALE Discreto e signorile nel tratto esteriore quanto serio, selettivo e autocritico nelle scelte interpretative, Carlo Maria Giulini non è stato decisamente un direttore da integrali. La sua vocazione naturale era piuttosto il lavoro in profondità: occuparsi di musiche con le quali fosse certo di avvertire un'autentica sintonia, e sviscerarle e rifinirle all'infinito con certosino perfezionismo, sino a raggiungere quella miracolosa identificazione tra composizione e interprete in cui il significato dell'una e la personalità dell'altro interagiscono e si rivelano a vicenda. “Non sono un direttore d’orchestra – diceva di sé – ma un musicista che fa musica insieme ad altri musicisti”. Salito sul podio, sapeva di non potersi concedere nessun tentennamento. In quell’attimo, diventava Beethoven, Mozart e Brahms. Il suo sguardo acceso, di un’intensità febbrile, denunciava l’intima sofferenza di non raggiungere mai l’assoluto. Di dover ogni volta ricominciare da capo. Se a queste doti di approfondimento si aggiunge, sul piano caratteriale, l'assoluta estraneità a qualunque forma anche veniale di stravaganza o di divismo, ne risulta il tipo ideale del "direttore ospite", da cui tutte le orchestre vorrebbero essere dirette perché sanno in partenza di potersene attendere esperienze artistiche e umane d'eccezione. Il che spiega perché, nella sua lunghissima carriera, egli abbia collezionato un numero forse ineguagliato di collaborazioni più o meno stabili con compagini europee ed americane. La modestia di Giulini lo fece - ancor prima che ricreatore consapevole - accompagnatore sopraffino, non a caso prediletto da tanti solisti di fama mondiale (basterebbe ricordare il lungo sodalizio con Arturo Benedetti Michelangeli o il fatto che Vladimir Horowitz vincolò la sua unica sortita nel concertismo mozartiano, il Concerto n. 23 in La maggiore K 488, alla presenza del Maestro italiano).
DISCOGRAFIA
Le varie raccolte discografiche del Maestro Giulini si identificano all’incirca con le varie fasi della sua carriera, sicché in linea di larga massima si può dire che le incisioni EMI/Warner corrispondono in prevalenza alla prima maturità, quelle per la Deutsche Grammophon alla maturità piena e quelle della Sony all’ultimo periodo.
Beethoven – Brahms – Britten – Debussy – Dvorak – Falla – Ravel – Rossini – Schumann – Tschaikovsky The London years. Varie Orchestre, dir. Carlo Maria Giulini. Warner (17 CD)
Questa raccolta è una rassegna di valore artistico inestimabile, che, attingendo al catalogo della EMI, ci presenta uno spaccato della discografia di Giulini nella fase della prima maturità. Il Giulini di allora, anni '50 e '60, era appena assurto all'attenzione internazionale ed era circondato da veri e propri miti della musica (Kemplerer e Karajan su tutti) e sembrava quasi il classico vaso d'argilla fra vasi di rame, ma il grande patron della EMI, Walter Legge, gli diede grande fiducia, con grande intuizione. E fu così che Giulini conquistò Londra e qui, insieme alle orchestre più importanti, su tutte la Philharmonia e la London Symphony, ebbe occasione di incidere "il suo repertorio sinfonico preferito", repertorio rimasto invariato negli anni a venire. Questo periodo sarà contrassegnato dalla più assidua attività in ambito sinfonico e dai risultati artistici più originali e persuasivi, in cui la propensione ai tempi moderati non rischiava ancora, come sarebbe a volte avvenuto negli ultimi anni della vita artistica di Giulini, di mettere a rischio la tenuta architettonica delle composizioni. Questo box londinese, composto da ben 17 (o meglio 16+1) dischi ci presenta il direttore alla guida della London Symphony, della London Philharmonic e della Philharmonia (e New Philharmonia), in una panoramica del repertorio sinfonico che spazia da Boccherini sino a Britten. Il palinsesto, frutto più di stratificazione che di pianificazione, non si distingue certo per organicità, ma illustra in modo suggestivo, e tutto sommato anche abbastanza esauriente, quasi tutti i principali centri d'interesse di Giulini direttore. Dei sinfonisti di prima grandezza (a parte Mendelssohn, di cui egli s'è occupato solo occasionalmente), gli unici non rappresentati sono Mozart, Bruckner e Mahler, tutti però egregiamente rappresentati in altri album. Il box include un 17° CD contenente un ampio documentario radiofonico (76 minuti) a cura di Jon Tolansky, che intreccia preziose testimonianze (fra gli altri) di Jon Vickers, del direttore d’orchestra
Sir Edward Downes, di Adolph "Bud" Herset - leggendaria prima tromba della Chicago Symphony - e di alcuni professori della Philharmonia a una lunga conversazione con il Maestro (naturalmente in inglese) ripresa a Milano nel dicembre 2003. Queste le opere della raccolta: SETTECENTO
Sul versante settecentesco, come detto prima, la nota più appariscente è quella dell'assenza di Mozart, autore al quale, proprio nella Londra di quegli anni, il nostro direttore faceva in compenso molto onore in ambito operistico, incidendo uno dei più memorabili Don Giovanni del ventesimo secolo. Di Haydn abbiamo la Sinfonia n. 94, l’unica delle tre Londinesi di cui egli si sia occupato (in compenso l'ha incisa ben cinque volte: questa, del 1956 con la Philharmonia, è la prima versione). Ma di maggior interesse, non solo documentale, è il tributo reso a Boccherini, con la rara Ouverture in re maggiore op. 43 e la grande Sinfonia in do minore op. 41 (che, con la sua Pastorale siglata "Lenterello" e il suo minuetto con trio alla zampognara, rappresenta il più consistente omaggio boccheriniano alle atmosfere natalizie), incise con la Philharmonia nell'ottobre 1956: pagine alle quali Giulini ha tributato in quegli anni un autentico apostolato pionieristico, se si considera che della sinfonia sono documentate in disco almeno in altre due registrazioni (Chicago 1958 e Torino 1961). BEETHOVEN
Sesta, Ottava e Nona di Beethoven facevano parte di una "semi-integrale" comprendente le ultime quattro sinfonie, incise alla spicciolata con varie orchestre, che nell'era del vinile è stata uno dei fiori all'occhiello del catalogo EMI: oggi il criterio geografico ne ha causato lo smembramento, facendo finire la Settima nell'album di Chicago e le altre tre in quello di Londra: una ragione di più per comprare entrambe le raccolte! La concezione beethoveniana di Giulini è essenzialmente di tipo lirico-contemplativo, e trova quindi un ambiente ideale nella Pastorale, di cui qui abbiamo la versione del 1968 (realizzata, in sessioni un po' diluite, tra febbraio e aprile del 1968), che è stata anche in assoluto il primo Beethoven inciso da Giulini, allora già cinquantaquattrenne. Anche nell'Ottava e nella Nona (entrambe del settembre 1972 con la London Symphony), la componente lirica prevale nettamente sul dinamismo. A riascoltarle oggi, a distanza di cinquant'anni, ognuna di esse riesce ancora ad ammaliare per la "semplicità" dell'approccio del Maestro, semplicità intesa nella accezione positiva del termine, cioè l'assoluta aderenza allo spartito e allo spirito del compositore, senza inutili protagonismi personali del direttore: la nona, in particolare, è assolutamente congeniale a Giulini (già direttore d'opera esperto) che appunto ne esalta la "cantabilità" anche nei primi tre movimenti. ROSSINI
Nella raccolta troviamo il Rossini scintillante delle Ouvertures, con il gioco dell'accelerando e delle dinamiche orchestrali perfettamente padroneggiato da Giulini.
BRAHMS
Il nucleo più consistente è rappresentato dalle tutte le Quattro sinfonie di Brahms, incise nel corso degli anni ’60 con la Philharmonia/New Philharmonia: interpretazione già improntata a dinamiche piuttosto meditative, lente e quasi "mistiche", ma senza quelle lentezze abissali che troveremo nell'integrale viennese con i Wiener Philharmoniker, datata un quarto di secolo dopo (in media, ogni sinfonia dura qui circa cinque minuti di meno). Rimane comunque un Brahms sinfonico di assoluto riferimento, che rimane fra le migliori 5 incisioni integrali del ciclo sinfonico, e che contende alle incisioni "americane" di Giulini medesimo del decennio successivo (con le Prima e Seconda Sinfonia con la Los Angeles e la Quarta con la Chicago) la palma per un posto sul podio. L'autentico stato di grazia, nelle incisioni londinesi, viene raggiunto anche in altri brani brahmsiani: straordinaria la tensione dell'Ouverture Tragica quanto la brillantezza e l'elasticità delle Variazioni su un tema di Haydn, mentre manca all'appello, qui come nel ciclo viennese, l'Ouverture Accademica.
ROMANTICISMO AUSTRO-TEDESCO
Nella raccolta londinese troviamo l'Incompiuta di Schubert del gennaio 1961 e la Renana di Schumann del giugno 1958, entrambe con la Philharmonia: si noti che di quest'ultima viene eseguita la versione ritoccata da Mahler, mentre nelle successive incisioni verrà adottata quella originale. Poco significativo l’incontro con Kissin nel Concerto in La minore di Schumann, nel quale ciascuno percorre la propria strada: il solista si limita a cercare (e trovare) un suono marmoreo e sontuoso ma scarsamente espressivo, mentre il direttore lo sprona - inascoltato - verso una nobile intensità. Come interprete schumanniano, sia qui che nella Chicago anni settanta, è comunque nella problematicissima Ouverture del Manfred che Giulini esprime al meglio la sua sensibilità di interprete. SCUOLE NAZIONALI SLAVE
Si sale decisamente di tono con le Sinfonie 7, 8 e 9 di Dvoràk, tra le più belle mai ascoltate: l’atmosfera è quella di un tenero congedo privo di amarezze e rimpianti, ogni nota viene accarezzata con amore, ogni armonia viene assaporata fino in fondo. Splendida in particolare la Nona, che si colloca ai vertici assoluti del podio, a pari merito con le versioni di Kubelik, di Karajan, di Kertesz e di Fricsay. Tra l'altro, il ciclo è strutturato in modo da far cogliere gli sviluppi dell'approccio interpretativo: le ultime due sinfonie, con la Philharmonia, risalgono al 1961-62, e rispecchiano una concezione più snella e trasparente rispetto a quella delle letture grandiose che il direttore ne avrebbe date a fine
anni settanta con la Chicago Symphony (per rendere l'idea, fra le due versioni della "Nuovo mondo" ci sono circa sei minuti di differenza, anche se metà di essi dipende dal ritornello del primo tempo, tagliato nell'incisione anni sessanta); la Settima, realizzata nel 1976 con la London Philharmonic, è invece già nell'ottica di questa seconda maniera. Completano il quadro due capolavori coloristici, l'amplissimo e screziato Scherzo capriccioso e la caleidoscopica e frenetica Ouverture Carnaval (Philharmonia, 1961-62). Più modesto, in proporzione, l'interesse al mondo di Tschaikovsky: la composizione di cui Giulini si è occupato più frequentemente in disco è curiosamente la Seconda Sinfonia, della quale esistono ben quattro versioni: qui troviamo la più antica, realizzata con la Philharmonia nel settembre 1956. Quanto alla Patetica, la versione Philharmonia del giugno 1959 non differisce granché come impostazione da quella di Los Angeles del 1980: lievemente più lenta nel primo e nell'ultimo movimento, lievemente più rapida nei tempi centrali, finisce complessivamente per durare circa un minuto in più. Anche qui abbiamo altre interpretazioni di gran pregio, Romeo e Giulietta e Francesca da Rimini (Philharmonia, aprile 1962), di cui non esistono versioni giuliniane alternative. Completano l'area slava il Mussorgski di Una notte sul monte Calvo e lo Stravinskij dell'Uccello di fuoco (suite del 1919), incisioni del settembre 1956 con la Philharmonia: il secondo è l'unico brano in comune con l'album di Chicago, e può dare spunto a interessanti raffronti (per inciso, è anche l'unica composizione stravinskiana con cui Giulini si sia confrontato lungo tutta la carriera, lasciandocene almeno cinque incisioni). VERDI
La Messa da Requiem verdiana interpretata da Giulini è ancora la migliore in circolazione a distanza di mezzo secolo. Il Maestro non esita a sottolineare le parti del Requiem che sono genuinamente operistiche: penso all'Ingemisco, che ha una performance da brivido. Questa è una performance profondamente spirituale (non religiosamente, Verdi era un ateo nascosto) ma nella comunione tra direttore e compositore. Elisabeth Schwarzkopf è semplicemente stellare. NOVECENTO
Notevole, per quantità come per qualità, lo spazio riservato al Novecento: beninteso al Novecento di Giulini, che non è quello delle avanguardie, ma quello dell'impressionismo (dove a fare la parte del leone, ancor più di Debussy, è Ravel), del folklorismo stilizzato di de Falla, del già citato Stravinskij prima maniera, del Britten più sintetico e rigoroso: partiture che, sotto la bacchetta del Maestro, si concretizzano più vive, più sfumate, più iridescenti che mai. Citiamo il Britten dei Quattro interludi marini dal Peter Grimes, diretto in modo così ineccepibile da far meravigliare lo stesso compositore, e sempre di Britten le Variazioni su un tema di Purcell (anche queste incisioni vivamente apprezzate dall’autore); e lo Stravinskij dell'Oiseau, diretto in modo davvero fiammeggiante, forse ancora più che nelle altre incisioni più tardive, e comunque in una delle migliori versioni in circolazione.
Infine un cenno alla tecnica di incisione, ovviamente facendo un bilancio generale per tutti e 17 CD, e tenendo conto che il periodo di registrazione va dalla fine degli anni '50 all'inizio degli anni '70. In generale le incisioni sono buone, con discreta ripresa del suono, sempre in stereofonia, talvolta con una più che soddisfacente dinamica orchestrale. Nessuna incisione può fregiarsi del titolo di "eccellente" tecnicamente, ma sono tutte di livello accettabile, con alcuni casi di livello davvero buono e quasi ottimo: la EMI degli anni '60 era comunque tecnicamente migliore di quella dei decenni successivi!
Beethoven – Berlioz - Brahms – Bruckner – Mahler – Stravinskij The Chicago years. Dir. Carlo Maria Giulini. Warner (4 CD)
Questi 4 CD raccolgono le registrazioni che Giulini fece per la EMI con la Chicago Symphony, dal 1969 al 1976. BERLIOZ
Straordinario il Berlioz di Giulini, rappresentato dalla versione integrale di Romeo e Giulietta forse insuperata, avveniristico mélange di sinfonia, oratorio, balletto e musica di scena: a differenza dei grandi berlioziani della generazione precedente come Toscanini e Munch, che avevano affrontato per intero la sterminata ed eterogenea partitura, Giulini in quest'incisione dell'ottobre 1969 snellisce la prospettiva limitandosi alle sezioni per sola orchestra (che assommano già a un'ora circa di musica), tra cui spiccano l'episodio di Romeo solo, la grande scena d'amore e lo scherzo della Regina Mab. Scrive Balzac, amico dell'autore, nel racconto Les amours de deux bêtes: «il grande Berlioz estese i confini dell'arte dell'orchestrazione sino a scoprire i registri della cicala, del grillo, delle mosche, e a poter rendere così la voce sublime della natura, sul mezzogiorno, fra le erbe alte di una radura dove un ruscello mormora tra la sabbia argentea.» MAHLER
La Prima di Mahler, che si aggiudicò nel 1971 il Grammy come miglior esecuzione orchestrale, è con ogni probabilità la più affascinante incisione singola di questa sinfonia, che Giulini esegue con una misura e con uno stupefacente senso di dolente meraviglia che rende unica questa sua interpretazione (per la DG inciderà poi la nona di Mahler, sempre con la Chicago Symphony, che rimane un altro pilastro della discografia internazionale). "Come in un suono di natura", l'epigrafe che l'autore ha apposto all'introduzione del primo movimento, sembra qui estendersi all'intera composizione: dagli echi boscherecci iniziali sino ai cataclismi metafisici del finale, tutto il discorso fluisce e respira con la naturalezza di un organismo [32]
vivente. Potrei perfino giungere ad asserire che, in questa sinfonia, neppure i mahleriani supremi come Abbado e Bernstein abbiano raggiunto esiti altrettanto traboccanti di poesia. BEETHOVEN
E’ davvero ragguardevole la Settima di Beethoven, targata marzo 1971, chissà perché non molto apprezzata allora, ma che ad ascoltarla adesso non teme il confronto neppure con la celebratissima versione di Kleiber! Il Beethoven di Giulini ha carattere essenzialmente lirico, e quindi, nella Settima, non è tanto sulle progressioni dionisiache che bisogna focalizzare l'attenzione, quanto sulle oasi di cantabilità come l'introduzione del primo tempo, il trio dello scherzo e, ovviamente, l'allegretto. Del quale egli mostra di aver compreso più perfettamente che mai l'intuizione fondante, quel paradosso di un lirismo che si dipana gradualmente e circolarmente, a partire da una cellula ritmica. BRAHMS
E’ senz'altro bellissima la Quarta sinfonia di Brahms, forse la più bella delle tre versioni registrate da Giulini. Il maestro è nella sua forma migliore qui, dirigendo un'opera che ha diretto per tutta la sua carriera, compreso il primo concerto post-occupazione all'Accademia di Roma nel 1944. I punti salienti includono una ricapitolazione fiammeggiante nell'Allegro di apertura e un ritorno travolgente del tema principale nella passacaglia finale. Ma anche meglio di questi grandi momenti è una resa davvero speciale del bellissimo e affascinante Andante. La sezione di apertura, con i fiati che entrano uno per uno con un tema simile a una marcia suonato all'unisono, suggerisce l'idea di una fuga (una forma tradizionale in cui un tema viene introdotto più volte in successione sovrapposta). Giulini e l'orchestra riescono a coniugare timbri e consistenze delicate con una corposa ricchezza di emozioni. Altre esibizioni che penso siano meravigliose includono la grande esibizione di Wilhelm Furtwängler degli anni '40 con la Filarmonica di Berlino o la famosa registrazione di Carlos Kleiber con la Filarmonica di Vienna, ma questa interpretazione di Giulini con la Chicago Symphony rimane la mia preferita in assoluto come una delle vette delle registrazioni di Brahms. BRUCKNER
Probabilmente il pezzo forte dell’intera raccolta ̀ la Nona di Bruckner, una versione di riferimento. La Nona, si sa, è una sinfonia incompiuta poiché Bruckner morì durante la composizione del Finale, senza aver avuto tralaltro alcun modo di rivedere e correggere i primi 3 movimenti. Mentre lo Scherzo e l'Adagio sembrano abbastanza coerenti, ci sono occasionali transizioni imbarazzanti nel lungo movimento di apertura che sicuramente sarebbe stato modificato da Bruckner una volta terminata la bozza complessiva. Giulini adotta tempi molto lenti per i tre movimenti, sa integrare i passaggi di transizione di Bruckner senza cercare di affrettarli perché hanno importanza strutturale. Giulini ha il controllo magistrale della Chicago Symphony mentre naviga negli insidiosi itinerari del primo movimento. Quando l'ultimo agghiacciante nono accordo arriva con le trombe di Chicago che risuonano, ha un effetto travolgente in quanto forma inaspettatamente la cadenza finale del
movimento. Lo Scherzo ha un effetto granitico lento e massiccio se non altrettanto dinamico come altre registrazioni degne di nota. Il Trio è più veloce e scorre in modo sinistro. L'Adagio rappresenta Giulini al suo apice dei poteri interpretativi mentre ne trasmette i passaggi alternativamente angosciati ed estatici. Questa performance con la Chicago Symphony e la sua grande sezione di ottoni è stata registrata alla fine degli anni '70; Giulini in seguito registrò di nuovo questa sinfonia per l'etichetta Deutsche Grammophon, ma questa della EMI/Warner è decisamente superiore. STRAVINSKIJ
Con lo stesso equilibrio e la stessa naturalezza con cui ha diretto Brahms e Bruckner, Giulini affronta gli avamposti della modernità come le due Suites dei balletti stravinskiani che completano la raccolta: sono la Suite del 1919 dell'Oiseau de feu e la Suite di Petruska (quella del 1947): entrambe le incisioni sono dell'ottobre 1969 e sono da considerare sicuramente fra le prime 3 o 4 in assoluto meglio registrate.
Complete recordings on Deutsche Grammophon Dir. Carlo Maria Giulini. Deutsche Gramophon (42 CD)
La Deutsche Grammophon propone in 42 CD l’integrale delle realizzazioni giuliniane per l’etichetta gialla di Hannover in un arco temporale che va dal 1965 (Sinfonie 40 e 41 di Mozart, a Londra) sino alla Terza sinfonia di Brahms, registrata nel maggio 1990 al Musikverein di Vienna con i Wiener Philharmoniker.
Questa edizione ci restituisce un profilo di un direttore esigente, esteta, meditativo, di un'intelligenza drammatica incredibile, focalizzato essenzialmente sulla stagione tardo-matura, fra i sessanta e i settant’anni, mostrandocelo al culmine delle sue capacità di analisi e personalizzazione delle partiture e ancora abbastanza immune da quella tendenza disgregatrice, attenta più ai dettagli che alla visione d’insieme, che ne avrebbe spesso contraddistinto l’ultima maniera. Giulini dirige qui le più grandi orchestre in Italia, Gran Bretagna, Austria, Germania e Stati Uniti (mancano quelle francesi): Santa Cecilia, Scala di Milano, Philharmonia Orchestra, Wiener Symphoniker, Wiener Philharmoniker, Berliner Philharmoniker, Chicago Symphony Orchestra, Los Angeles Philharmonic, conferendo a tutti una tradizione di eccellenza grazie alla sua disciplina divenuta referenziale. Il cofanetto Giulini della Deutsche Grammophon permette di seguire l'evoluzione del suo lavoro nel campo dell’opera: di Verdi troviamo il Rigoletto (1979, Vienna), Il Trovatore (con Placido Domingo,
Roma, 1984), Falstaff (Los Angeles, 1982), la cui energia e attenzione ai dettagli producono letture che colpiscono immediatamente con il suono iperelegante, fine, sottile, furiosamente drammatico dell'orchestra: un modello nel suo genere. Seguiamo però, soprattutto, l'approfondimento di Giulini in ambito sinfonico e concertistico. Come direttore beethoveniano, Giulini ha riscosso particolare successo con la Quinta assieme alla Orchestra di Los Angeles, che alcuni decenni fa venne incoronata versione ideale da una giuria di esperti: lettura dove si osserva una curiosa contrapposizione tra il tagliente nervosismo del primo movimento e la calma grandiosità degli altri. Interamente virate su quest’ultimo registro sono invece le altre sinfonie presenti nel box, Terza, Sesta e Nona: l’Eroica in particolar modo ha davvero ben poco di eroico, concepita com’̀ in un’ottica lirico-analitica che ne evidenzia e dilata ogni dettaglio come con una lente d’ingrandimento, riallacciandosi in sostanza al viraggio interpretativo che nella generazione precedente era stato incarnato da De Sabata. Gli autentici risultati memorabili, in ambito beethoveniano, si osservano però soprattutto nei tre concerti con Benedetti Michelangeli e i Wiener Symphoniker, ripresi dal vivo nel 1979 alla TV austriaca, che rappresentano nel contempo una delle più grandi gioie e uno dei più grandi dolori per gli amanti della musica: si tratta senza dubbio della più straordinaria "integrale mancata" di queste pagine, di fronte a cui è inevitabile trovarsi perennemente in bilico tra l'entusiasmo per ciò che ci è stato concesso e il rimpianto per ciò di cui siamo rimasti privi. Grandiose nella concezione architettonica, risolute nei tempi, intense nel suono, incisive e scultoree nel fraseggio. L'intesa tra direttore e solista non potrebbe essere più totale (i due avevano già all'attivo una felice esperienza mozartiana di un quarto di secolo addietro); l'impressione è comunque che sia soprattutto Michelangeli a dettare i ritmi e lo spirito dell'interpretazione, perché l'inimitabile concezione di questi concerti ha molti punti in comune con le sue letture delle sonate. Giulini aveva del resto la mano particolarmente felice negli abbinamenti solistici: per restare in questa raccolta, ne fanno piena fede non solo l’intima e delicata lettura del concerto mozartiano K. 488 con Horowitz e l’orchestra della Scala, ma anche quelle dei concerti di Liszt e Chopin, che i direttori di rango tendono spesso a snobbare, e dove Giulini, affiancato da solisti ideali come Berman e Zimerman, mette più che mai in risalto la sue doti di analisi e di sensibilità timbrica, e in definitiva la sua profonda umanità di musicista: si vedano in particolare, nei due concerti di Liszt, il calore e la limpidezza raggiunti negli episodi lirici dove il pianista dialoga con i singoli strumenti dell’orchestra. Di Mozart troviamo anche le le Sinfonie 40 e 41 (registrate a Londra con la New Philharmonia nell'ottobre 1965), mai spinte, troppo lente e turgide, molto lontane dallo spirito del genio salisburghese. Fra le riuscite di levatura eccezionale, da primato assoluto o quasi, non si può fare a meno di segnalare le Sinfonie 1 e 2 di Brahms con la Los Angeles Philharmonic, dove la capillare cura dei dettagli si sposa ad una lucida e solidissima visione d’insieme: nettamente superiori, sotto questo punto di vista, alla pur splendida integrale viennese dei primi anni Novanta. Di rilievo sono le Sinfonie 8 e 9 di Dvoràk, perfetta sintesi di senso del colore, afflato ritmico e tensione strutturale. [35]
Il “respiro Giulini”, tra nobiltà e profondità, architettura e interiorità, ̀ misurato anche in Bruckner (Sinfonie 7, 8, 9, eccelse), e in Schubert (Sinfonie 4, 8, 9), del quale è stato uno dei pionieri a dimostrare fondamentalmente l'introspezione e l'ampiezza strutturale. Giulini era anche un malheriano convinto, anche se ne dava una interpretazione morbida (Sinfonia n° 9, e Das lied von der Erde, La canzone della terra). Nell’articolato palinsesto della raccolta merita un cenno di segnalazione il settore sacro, dove ai notissimi Requiem di Verdi, Brahms e Fauré (nei quali la spiritualità e l'eloquenza del silenzio non sono mai lontane da ogni interpretazione) si affianca un classico assai meno noto come lo Stabat Mater di Rossini, anch’esso di amplissimo respiro. Mentre ad un filone di spiritualità profana appartiene una delle poche incursioni in territorio contemporaneo, la cantata An die Nachgeborenen (Ai posteri) di Gottfried von Einem su testo di Bertolt Brecht, con i Wiener Symphoniker, Julia Hamari e Fischer-Dieskau: si tratta di un'esecuzione allestita per celebrare il 24 ottobre 1975 a New York il trentesimo anniversario delle Nazioni Unite e ripresa in studio due giorni dopo con organico parzialmente diverso. Gli appassionati di pianoforte sinfonico, troveranno le sue letture dei Concerti 1 e 2 di Chopin e l’Andante spianato & Grande Polonaise, tutti con la Los Angeles Philharmonic e Krystian Zimerman al pianoforte (1978-79). Un'altra componente eloquente la troviamo nella scrittura francese che si distingue per il suo senso del colore e dell'equilibrio cura della trasparenza: esempi eccezionali Ravel (Pavane, Ma Mère l'Oye, Spanish Rhapsody), Debussy (Le mer), Franck (Sinfonia in Re).
Bach – Mozart – Beethoven – Schubert – Schumann – Verdi – Franck – Mussorgksy – Dvorak – Debussy –Ravel – Stravinskyij The complete Sony recordings. Dir. Carlo Maria Giulini. Sony (22 CD)
La Sony Classical decise di celebrare il centesimo compleanno di Carlo Maria Giulini con questa bellissima raccolta, che ha il pregio di mostrare la copertina originale di ciascun CD alla sua prima uscita sul mercato: in questo box sono riunite tutte le registrazioni che Giulini fece nei suoi ultimi anni di attività. Questo è il programma di questa corposa raccolta. MOZART
Si inizia con le ultime tre Sinfonie (39, 40 e 41) di Mozart, alla testa dei Berliner Philharmoniker: il passo dell'esecuzione è lento e l'impostazione generale è quella "classica" ma il suono che esce da questi CD è di una bellezza sconvolgente per il senso di misura "aurea" che il vecchio Giulini riesce a trovare in Mozart. E questo
vale anche per la bella esecuzione del Requiem, inciso alla testa della London Philharmonia Orchestra e con un quartetto vocale pregevole. Questa interpretazione, assieme alla Messa maggiore di Schubert e alla Messa in B minore di Schubert, rappresenta quella parte della musica sacra che è sempre stata al centro dell'opera di Giulini. In uno stato d'animo solenne, che Giulini sa far emergere, il contenuto mistico delle opere viene espresso in modo molto naturale e partecipativo. BEETHOVEN
E poi... la "quasi integrale" delle sinfonie di Beethoven, dalla 1a alla 8a, con l'Orchestra della Scala. L'Eroica è incredibilmente bella, inimitabile, senza precedenti. A riascoltarle oggi, specialmente paragonate a quelle incisioni tanto osannate per la loro "ieraticità" del coetaneo Jochum, io trovo che siano tutte, e dico tutte senza eccezione, esecuzioni straordinarie, che testimoniano fra l'altro, l'altissimo livello dell'orchestra milanese, dopo la "cura" di Abbado e di Muti. Leit-motiv delle interpretazioni del vecchio Giulini è il tempo particolarmente lento tenuto, ma senza che sia avvertito mai come molle o strascicato. In qualche modo Giulini riesce, proprio come Klemperer, a mantenere sempre alta la tensione emotiva, tanto che a volte sembra quasi non avvertirsi la lentezza del metronomo adottato.... Peccato manchi la nona, mai incisa da Giulini con l'orchestra della Scala (forse anche perché l'aveva incisa da pochi anni con i Berliner Philharmoniker e doveva rispettare il contratto con la DG...). Compensa questa mancanza uno straordinario Concerto per violino e orchestra di Beethoven, con Accardo sublime protagonista: questa incisione è una delle mie tra preferite in assoluto di questo concerto. SCHUBERT
E ancora assolutamente da non perdere lo Schubert di Giulini, in particolare la Quarta sinfonia, l'Ottava Incompiuta e la Nona, eseguite con l'Orchestra della Radio Bavarese. Queste esecuzioni rimangono a mio avviso memorabili, e sono da sempre tra le migliori insieme a quelle di Abbado, di Muti e di Bernstein. Anche la Messa D 950 di Schubert emerge in una dimensione prospettica inaudita e, sotto la bacchetta di Giulini, diventa potente quasi come la Missa Solemnis di Beethoven. SCHUMANN
Altro CD memorabile, fra l'altro scomparso presto dal commercio, è il Concerto per piano ed orchestra di Schumann, con il giovane Kissin accompagnato dai Wiener Philharmoniker: è una esecuzione rapinosa e bellissima, ulteriore testimonianza, come se ce ne fosse bisogno, della capacità straordinaria di Giulini di essere in perfetta sintonia con il solista (che tiene tempi molto accelerati). Questa incisione del concerto di Schumann è, insieme a quella di Pollini e Abbado e quella di Perahia sempre con Abbado, fra le mie tre preferite. DVORAK
Numerosi i CD incisi alla testa del Concertgebouw di Amsterdam, fra cui spiccano le ultime tre sinfonie di Dvoràk: diverso è l'approccio del vecchio Giulini rispetto alle sue prove "giovanili" con la
Philharmonia negli anni '60. Ma la maturità ha giovato anche in queste interpretazioni, che sono testimonianza preziosa di una concezione musicale che vede in Giulini uno degli ultimi esponenti: Giulini infatti portava in sè la tradizione squisitamente italiana (era nato in Puglia), ma temperata da quella tedesca (era cresciuto e aveva studiato a Bolzano). Il tutto unito ad una umiltà ed una modestia che lo avvicinano di molto al carattere di Abbado. A differenza di Abbado però Giulini aveva una fervida religiosità verso la Chiesa di Roma, e questo suo sentimento religioso fa sì che le sue interpretazioni di musica sacra siano permeate da un pathos spirituale intimo e reale. BACH
Cito la Messa in Si Minore di Bach, eseguita con concezione "non filologica" ma non per questo meno bella e meno appropriata. ALTRI AUTORI
Molto bella l'interpretazione dei Quadri di Mussorgky, altro cavallo di battaglia già inciso con la Chicago Symphony, qui in una esecuzione meditata e solenne con il Concertgebouw. I Quadri di Mussorgsky (nella "rivisitazione" strumentale di Ravel) non sono certo una novità per molti appassionati, ma questa diretta da Giulini, rappresenta un'edizione sicuramente da avere! I Quadri fecero sempre parte del repertorio del Maestro, il quale ne ha lasciato delle letture esemplari, sia in studio che dal vivo. Questa testimonianza Sony è l'ultima e la più "sfolgorante"! Verso la fine della carriera Giulini "restrinse" notevolmente il repertorio e si concentrò sulle opere scelte facendole "decantare" e "sviscerandole" in una sublimazione divenuta sua somma caratteristica: l'immedesimazione dell'interprete nella partitura! Ecco quindi dei Quadri ricchi di suono, curati e luminosi, in cui tutto è equilibrio e bellezza! Un arco interpretativo (dalla passeggiata alla "Porta di Kiev") teso verso il quadro finale come una carrellata suggestiva in cui la visione di "ricercata" (nel senso alto del termine) bellezza e sfavillio del direttore si fonde con un'orchestra di altissimo livello e ricca di colori! Così come già incisi per la DG e con orchestre americane (così come per la EMI con la Philharmonia negli anni '60) troviamo altri cavalli di battaglia di Giulini quali La Mer di Debussy, Ma mere l’Oye di Ravel, e l'Oiseau di Stravinsky. E così infine i Quattro pezzi sacri di Verdi (autore di cui Giulini è stato esegeta esemplare) acquistano una preziosità unica, pari soltanto alle esecuzioni di Abbado e di Muti. Dal punto di vista tecnologico la tecnica di registrazione messa allora in campo dalla Sony si attesta ai massimi livelli: tutte registrazioni digitali e in DDD, tutte almeno buone, alcune davvero eccellenti e degne di impianti Hi-Fi di alto lignaggio.
Mozart: Don Giovanni Eberhard Wachter (Don Giovanni), Joan Sutherland (Donna Anna), Giuseppe Taddei (Leporello), Elisabeth Schwarzkopf (Donna Elvira), Glottob Frick (Il Commendatore). Philharmonia Chorus & Orchestra. Dir. Carlo Maria Giulini. Emi Classics
Ho deciso di dare uno spazio particolare a questa incisione del 1959 rimasta a lungo la più bella della discografia, registrata in ottimo suono agli Abbey Road Studios di Londra. Difficile però per un'opera enigmatica e complessa come il "Don Giovanni" parlare di edizione di riferimento sopra tutte, sia perché le prospettive storiche ed interpretative cambiano col tempo, sia perché si tratta di edizione con molti punti di forza, ma anche con qualche debolezza. In primo piano la direzione di Giulini, che si fa apprezzare per l'equilibrio, la grazia, la puntualità, e la capacità di valorizzare degnamente il melodismo mozartiano. Non è poco. Eppure in termini di fantasia, fuoco, mordente e abbandono forse non siamo ai vertici assoluti, e basta - ad esempio - ascoltare cosa poteva fare un Karajan nel 1960 (live a Salisburgo del 3 Agosto) per rendersene conto. Due altri pregi però vanno accreditati a Giulini: dei buonissimi recitativi (soprattutto accurati e generalmente di buona dizione, non sbrigativi e generici) e l'assoluta assenza di leziosità e sdilinquimenti diffusi in molte interpretazioni di quest’opera. In quegli anni Eberhard Wachter era il Don Giovanni di riferimento, in grado di rendere al massimo tutti gli accenti psicologici di questo straordinario protagonista ideato da Mozart e Da Ponte. Eppure non si tratta di un cantante di superiore qualità vocale o tecnica (pur essendo abbastanza apprezzabile anche su questo versante), e nemmeno di un fraseggiatore straordinario. Nonostante ciò il personaggio c'è, ed è di buonissimo livello, e lo stesso dicasi per il livello complessivo del compito vocale. Erano i primi anni di notorietà per Joan Sutherland, e ritrovarla qui nella massima freschezza vocale è come sempre una festa. Facilità di vocalizzazione, bellezza di suono, qualità del canto sono ai massimi livelli. La Sutherland è forse ancora un po' troppo giovane per interpretare Donna Anna, figura tragica, complessa e soprattutto ambigua. Oltre a questo, i tratti più drammatici - e anche affascinanti - di questo personaggio, tanto messi in luce da altre interpreti (e da altre direzioni) qui restano per gran parte in secondo piano. Giuseppe Taddei è per varietà di fraseggio e gusto semplicemente uno dei maggiori Leporello della storia del disco. Peccato come sempre che gli acuti siano aperti, quindi piuttosto faticosi, anche se il gusto dell'interprete fa sì che il difetto sia il più delle volte dissimulato, non certo esibito. Glottob Frick è un ottimo Commendatore.
Così come Wachter per Don Giovanni, così in quegli anni Donna Elvira aveva la voce di Elisabeth Schwarzkopf. E ben a ragione: la capacità di essere elegante e forbita nel canto della Schwarzkopf senza rinunciare praticamente ad una singola oncia di espressività, seppur stilizzatissima, fa testo. Anche in questo caso però lo slancio, il vigore, l'abbandono ottenuto l'anno successivo nella succitata recita salisburghese sono qui sostituiti da una sobrietà ed equilibrio ovviamente legati al diverso contesto direttoriale e vocale. Rispetto alle prove di qualche anno prima, però, va notato un leggero declino vocale, che poi si accentuerà l'anno successivo, pur nel maggior slancio e abbandono già detti prima. Anche Luigi Alva era tenore gettonatissimo in ambito mozartiano e rossiniano. Sommo testimone di un declino vocale e interpretativo che aveva portato il tenore – potente e largo nel fraseggio - a diventare un tenore acuto di scarsissima caratura tecnica sia negli acuti (aperti e sbiancati, anche se come qui non forzati grazie alla età ancora giovanile e alla facilità della tessitura della parte) che nello smalto e nelle agilità (cosa ancor più drammaticamente evidente in ambito rossiniano). Come risultato un Ottavio vocalmente passabile, ma certo interpretativamente inesistente, linfatico, lezioso ed inconsistente come un fanciullo. Pietro Cappuccilli è un discreto Masetto e Graziella Sciutti una garbatissima Zerlina, ma entrambi non in grado di mettere ben in risalto certa umanità della coppia di sposi messa invece in evidenza da qualche recita teatrale degli ultimi anni. Ottimo il livello sonoro di questo ultimo remastering EMI eseguito nel 2002.
Il combattimento di Tancredi e Clorinda
Il combattimento di Tancredi e Clorinda (SV 153), dedicato alla Sacra Cesarea Maestà dell’Imperatore Ferdinando III, è un madrigale in forma rappresentativa in un quadro composto da Claudio Monteverdi (1567- 1643), per tre voci (un soprano, Clorinda, e due tenori: Tancredi e il narratore), strumenti a corda e basso continuo. Questo madrigale venne composto sul testo della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso [ミellげiママagiミe], canto XII, versi 52-62 e 64-68, e riprende la vicenda del cavaliere cristiano Tancredi, innamorato di Clorinda, guerriera musulmana, costretto dalla sorte a battersi in duello proprio con lei senza averla riconosciuta, e ad ucciderla. In punto di morte Clorinda si converte e, battezzata da Tancredi, affronta serenamente il trapasso. La sua prima rappresentazione (anche se non è un brano destinato alla scena: tutta la sua intensità drammatica si trova nel testo e nella musica) ebbe luogo durante il carnevale di Venezia del 1624, in casa del ricco senatore e alto dignitario della Serenissima Repubblica Girolamo Moceningo, che aveva commissionato a Monteverdi il lavoro proprio per il Carnevale. La composizione ottenne fin da subito un notevole successo. In un secondo tempo, dopo circa 25 anni, quest’opera fu inclusa nell’ottavo ed ultimo libro di Madrigali dello stesso Monteverdi, i Madrigali guerrieri et amorosi, pubblicato da Alessandro Vincenti di Venezia nel 1638, vera 'summa' monteverdiana che annovera anche pezzi scritti molto tempo prima, come appunto il Combattimento e il Ballo delle ingrate (1608), eloquente esempio di ballo melodrammatico di corte. Un'ampia raccolta in due parti in cui i testi sono poesie d'amore, e nei quali gli episodi guerreschi altro non sono che metafore dell'impietosa guerra d'amore.
I due personaggi: Tancredi e Clorinda Clorinda è un personaggio inventato dall'autore, ed è una principessa etiope nata con la pelle bianca perché sua madre, cristiana, durante la gravidanza aveva venerato quotidianamente un'immagine della Madonna rappresentata candida e bionda. Pur essendo di etnia etiope, quindi, la sua pelle è bianca e i suoi lunghi capelli sono biondi. Per evitare le ire del marito, la madre decide di affidarla al suo servo Arsete, raccomandandogli di battezzarla; costui invece la alleva come una musulmana. Solo in seguito Arsete le rivela le sue origini cristiane, ma, nonostante ciò, Clorinda deciderà di combattere ugualmente per i musulmani.
Clorinda viene descritta come una donna che, anche se bellissima, non è toccata dall'amore, ma è interessata esclusivamente alla guerra, per questo simile alla vergine guerriera Camilla dell'Eneide. Naturalmente questo non significa che non provi sentimenti, quello che maggiormente la anima è uno spirito di emulazione nei confronti di Argante e una profonda amicizia con Erminia, la principessa di Antiochia. Tancredi d’Altavilla (1072-1112) è un personaggio storico realmente esistito: è stato un cavaliere medievale normanno, uno dei capi della Prima Crociata, poi reggente del Principato d'Antiochia e Principe di Galilea. Torquato Tasso lo ritrae come un eroe epico, protagonista di un amore cavalleresco con la guerriera pagana Clorinda. Egli viene descritto fin dal primo canto come innamorato: “S'alcun'ombra di colpa i suoi gran vanti rende men chiari, è sol follia d'amore” (Canto I, strofa 45). Si caratterizza quindi con questo conflittuale rapporto fra un certo sentimentalismo amoroso che lo sconvolge e la personalità guerriera che dovrebbe incarnare. Invero, tutti i personaggi di Tasso sono tormentati internamente.
La vicenda.
Tancredi d’Altavilla è in Terrasanta al seguito di Goffredo di Buglione. È un cavaliere valoroso, bello, cortese, pieno di forza e di coraggio. Ha un amore segreto, ma non sa niente di lei, nemmeno il suo nome. L’ha incontrata per caso, in un’oasi sperduta nel deserto: nulla la distingueva a prima vista da un guerriero musulmano, e se lei non avesse tolto l’elmo per chinarsi a bere dalla sorgente, non si sarebbe nemmeno accorto che era una donna. Da quel momento Tancredi non pensa che a lei, giorno e notte. Non sa che anche lei l’ha visto. Lei è Clorinda, principessa etiope in fuga, scampata all’impossibile, allattata da una tigre, educata dall’eunuco Arsete all’arco e alla spada. Si vanta di non conoscere la paura, ̀ ammirata e temuta, le sue imprese sono arrivate perfino all’orecchio del sultano Aladino. Clorinda non conosce il nome del Franco infedele che ha incrociato all’oasi, ma ha visto i suoi occhi ardenti fissi su di lei ed è rimasta turbata: non si era mai sentita così vulnerabile, indifesa, come sotto quello sguardo. Lo sconosciuto le fa paura, forse per la prima volta in vita sua: non lo accetta, quell’uomo le fa rabbia e spera di non doverlo rivedere mai più. Qualche tempo dopo, Clorinda con i suoi guerrieri s’imbatte in un drappello, guidato da Tancredi, che sta tornando al campo con il bottino di una razzia e subito lo attacca. Nella mischia, Tancredi si getta alla carica contro di lei: un colpo di lancia e l’elmo cade dalla testa di Clorinda, svelando il suo volto e le sue fattezze di donna. Tancredi rimane impietrito, non vuole più combattere, per quanto lei lo provochi; anzi, si getta come una furia contro un altro cavaliere cristiano che l’ha aggredita da dietro e ferita leggermente al collo. Alla fine, i Saraceni hanno la peggio e battono in ritirata. Clorinda non riesce a capacitarsi di quel che è accaduto, e cova rabbia e odio contro il cavaliere sconosciuto.
Una notte Clorinda tenta una sortita nell’accampamento cristiano insieme al fedele compagno d’armi Argante. I due riescono a raggiungere la possente torre d'assedio con cui i Crociati vogliono assaltare le mura e, servendosi di unguenti infiammabili preparati dal mago Ismeno, riescono ad incendiarla e distruggerla. Quando Tancredi e gli altri cavalieri si svegliano di soprassalto, è troppo tardi: la torre è diventata un enorme falò, e il fuoco e il fumo si diffondono per l’accampamento. Arimone, un caro amico di Tancredi rimane ucciso. Clorinda e Argante, dopo il successo della sortita, si apprestano a rientrare a Gerusalemme da una delle porte, incalzati dai soldati nemici, ma la donna rimane attardata da un duello con un guerriero cristiano. Mentre si accinge a raggiungere un'altra porta approfittando dell'oscurità, è raggiunta da Tancredi che non la riconosce (la donna indossa un'armatura nera, diversa da quella consueta), le lancia urla di sfida, vuole vendetta per la morte dell’amico. Inizia un duello furibondo con lei, senza sapere che sta lottando contro la donna che ama. Il duello ̀ di una violenza inaudita, dall’una e dall’altra parte, Clorinda ha la peggio, ma non molla, rifiuta con disprezzo perfino la possibilità offertale da Tancredi di rivelare la sua identità. Tutto crolla solo quando la spada dell’uomo la trafigge in pieno petto. È in quel momento che qualcosa dentro di lei si spezza: vede la morte in faccia, e vede tutto quello che non ha potuto essere, la donna che lei stessa ha annientato e che forse avrebbe potuto essere felice. Ma ora è quella donna che parla in lei, e che chiede a Tancredi di perdonarla e di battezzarla. Tancredi acconsente, si toglie l’elmo e lo riempie d’acqua di un ruscello vicino. Solo allora scopre il volto del suo avversario e si ritrova con gli occhi negli occhi della donna che ama, e che egli stesso ha ferito mortalmente; il dolore lo paralizza, e solo le parole di Clorinda gli danno la forza per versarle l’acqua sui capelli e pronunciare quelle parole: “Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Clorinda muore tra le braccia di Tancredi, le ultime sue parole sono: “S’apre il ciel io vado in pace”.
La “Prattica” di Monteverdi Nel 1600, la libertà armonica dei madrigali monteverdiani viene attaccata dal teorico Giovanni Artusi, che lo accusa di non aver rispettato le regole dell'equilibrio polifonico secondo i dettami dell'armonia rinascimentale: Monteverdi rispose che il vecchio stile (la prima prattica) era ancora adatto alla musica da chiesa, ma che per i madrigali ci si doveva attenere al nuovo stile, la seconda prattica, ove "l'armonia sia non signora ma serva dell'oratione": secondo questa concezione (teoria degli affetti) il testo, fatto di recitazione e gestualità, deve suscitare emozioni (gli affetti), e la musica, con i suoi ritmi e le sue armonie ha il compito di accentuare e tradurre le emozioni suscitate dal testo rappresentato. Queste innovazioni si trovano ampiamente nel Combattimento di Tancredi e Clorinda. Nella Prefazione Monteverdi prescrive come deve essere eseguito il brano e così facendo esprime gli elementi essenziali della sua poetica della musica. L’opera dovrà essere preceduta da un madrigale senza azione e l’inizio del combattimento (come i personaggi) deve arrivare all’improvviso. Il Testo (narratore) ̀ presente praticamente durante tutta l’opera e i ruoli di Tancredi e Clorinda sono ridotti soltanto a qualche intervento qua e là. Monteverdi scrive che l’esecuzione deve avvenire in genere rappresentativo, ossia i personaggi accompagneranno il canto con una mimica gestuale che sottolinei le emozioni («passi et gesti nel modo che l’oratione esprime»); gli strumenti dovranno «essere tocchi ad immitatione delle passioni dell’oratione»; il canto – salvo che nell’invocazione alla Notte – dovrà essere pulito e chiaro, senza trilli e gorgheggi: «porterà le pronuntie at similitudine delle passioni dell’oratione». Ascoltando la composizione, risulta evidente l’intento di Monteverdi, che scelse questo brano perché gli consentiva di mettere a confronto due passioni contrarie: l’ira e lo sdegno da un lato, la dolente preghiera e la calma rassegnata dall’altro. Quest’opera ̀ stata qualificata come la folgorante apoteosi del genere rappresentativo, carica di emozioni (amore, odio, guerra, morte e redenzione): Monteverdi usa le risorse dell’orchestra per rendere la varietà dei sentimenti e degli avvenimenti, come il pizzicato (una delle prime utilizzazioni di questa tecnica) o la ripetizione veloce della stessa nota, ossia il tremolo, effetti che per la prima volta furono esplicitamente annotati in partitura. Nella rappresentazione, ai passaggi in «stile temperato», fatti di movimenti melodici ampi e ritmi pacati, Monteverdi contrappone brani in «stile concitato», quali ad esempio il rumore delle armi o la rabbia dei combattenti, il galoppo dei cavalli o le fanfare delle trombe. E questa è la grande novità che Monteverdi introduce in questo madrigale: il modo di usare e far suonare gli strumenti che si adeguano sempre al testo e che, lasciando il ruolo di soli accompagnatori, diventano essi stessi protagonisti.
Aspetti musicali L’orchestra (anche se non ci sono indicazioni del numero di strumenti per ogni parte) ̀ formata da quattro viole da brazzo (soprano, alto, tenore e basso) e un basso continuo formato da una viola da gamba, contrabbasso e un clavicembalo. Le parti vocali sono per soprano, Clorinda, e per due tenori, il Testo (narratore) e Tancredi. Le voci non sono mai sovrapposte, i versi sono cantati in ordinata successione; la musica si adegua alla parola, anche nel sottolineare gli interventi del narratore. Gli strumenti non hanno soltanto un ruolo di semplice accompagnamento ma diventano protagonisti, come ad esempio nell’episodio del combattimento in cui la concitazione e l’ansia dei duellanti sono evidenziate dal tremolo degli archi.
Guida all’ascolto Il combattimento di Tancredi e Clorinda comincia con il Narratore (chiamato Testo), il quale non partecipa mai all’azione, ma la commenta, descrivendo all’inizio il tema della storia. Il basso continuo introduce il recitativo con la presentazione dei personaggi (“Tancredi che Clorinda un homo stima…” ); una breve figurazione degli archi descrive il vagare di Clorinda. L’improvviso ritmo sempre più serrato imita il trotto del cavallo sul quale giunge Tancredi. I due si sfidano, e Tancredi scende da cavallo per combattere. Possiamo ascoltare per la prima volta il tremolo degli strumenti ad arco, lo stile concitato usato anche in seguito in questo madrigale.
Tancredi che Clorinda un uomo stima vuol ne l'armi provarla al paragone. Va girando colei l'alpestre cima ver altra porta, ove d'entrar dispone. Segue egli impetuoso, onde assai prima che giunga, in guisa avvien che d'armi suone ch'ella si volge e grida: - O tu, che porte, correndo sì? - Rispose: - E guerra e morte. - Guerra e morte avrai: - disse - io non rifiuto darlati, se la cerchi e fermo attende. - Ne vuol Tancredi, ch'ebbe a piè veduto il suo nemico, usar cavallo, e scende. E impugna l'un e l'altro il ferro acuto, ed aguzza l'orgoglio e l'ira accende; e vansi incontro a passi tardi e lenti quai due tori gelosi e d'ira ardenti.
Segue la sinfonia che introduce l’invocazione alla Notte, un momento di grande ispirazione, dove troviamo un resoconto grafico della battaglia appena passata, in cui le frasi musicali cambiano spesso
seguendo le varie tappe del duello. Qui Monteverdi non solo fa suonare dall’orchestra le note ripetute rapidamente, ma le fa imitare dal Narratore che deve pronunciare alcuni versi in modo molto veloce.
Notte, che nel profondo oscuro seno chiudesti e nell'oblio fatto sì grande, degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno teatro, opre sarian sì memorande. Piacciati ch'indi il tragga e'n bel sereno a le future età lo spieghi e mande. Viva la fama lor, e tra lor gloria splenda dal fosco tuo l'alta memoria.
La descrizione del combattimento inizia piano, “non schivar, non parar”, poi in crescendo con figure ritmiche sempre più evidenti; rapide scale ascendenti e discendenti e il tremolo degli archi suggellano l’apice della tensione fino al punto di rottura, che corrisponde al momento in cui i duellanti lasciata la spada “dansi con pomi e infeloniti e crudi, cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.”
Non schivar, non parar, non pur ritrarsi voglion costor, ne qui destrezza ha parte. Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi: toglie l'ombra e'l furor l'uso de l'arte. Odi le spade orribilmente urtarsi a mezzo il ferro; e'l piè d'orma non parte: sempre il piè fermo e la man sempre in moto, né scende taglio in van, ne punta a voto.
L'onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l'onta rinova: onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s'aggiunge e piaga nova. D'or in or più si mesce e più ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova: dansi con pomi, e infelloniti e crudi cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi.
Tre volte il cavalier la donna stringe con le robuste braccia, e altrettante poi da quei nodi tenaci ella si scinge, nodi di fier nemico e non d'amante. Tornano al ferro, e l'un e l'altro il tinge di molto sangue: e stanco e anelante e questi e quegli al fin pur si ritira, e dopo lungo faticar respira.
Quando all’alba i due combattenti si riposano, all’interno del duello, la loro pausa ̀ fedelmente riprodotta dalla musica. Il narratore è sostenuto dal solo basso continuo, che accompagna anche il successivo dialogo tra Tancredi e Clorinda. Tancredi vorrebbe sapere il nome del suo avversario,
qualunque sia l’esito del combattimento, ma Clorinda nega la sua identità e ribatte con fierezza che il guerriero che combatte è uno di quelli che hanno appiccato il fuoco alla fortezza cristiana.
L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue su'l pomo de la spada appoggia il peso. Già de l'ultima stella il raggio langue sul primo albor ch'è in oriente acceso. Vede Tancredi in maggior copia il sangue del suo nemico e se non tanto offeso, ne gode e in superbisce. Oh nostra folle mente ch'ogn'aura di fortuna estolle!
Misero, di che godi? Oh quanto mesti siano i trionfi e infelice il vanto! Gli occhi tuoi pagheran (s'in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. Così tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro alquanto. Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perchè il suo nome l'un l'altro scoprisse:
- Nostra sventura è ben che qui s'impieghi tanto valor, dove silenzio il copra. Ma poi che sorte rea vien che ci nieghi e lode e testimon degni de l'opra, pregoti (se fra l'armi han loco i preghi) che'l tuo nome e'l tuo stato a me tu scopra, acciò ch'io sappia, o vinto o vincitore, chi la mia morte o vittoria onore. -
Rispose la feroce: - Indarno chiedi quel c'ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu innanzi vedi un di quei due che la gran torre accese. - Arse di sdegno a quel parlar Tancredi e: - In mal punto il dicesti; (indi riprese) e'l tuo dir e'l tacer di par m'alletta, barbaro discortese, a la vendetta.
Figure strumentali della tromba e rullo di tamburi precedono il duello che riprende violento e improvviso (“Torna l’ira nei cori e li trasporta”), testo e musica cambiano all’improvviso sui versi “Ma ecco homai l’hora fatal è giunta/ ch’el viver di Clorinda al suo fin deve”. Clorinda è sconfitta e, colpita a morte al seno dalla spada del nemico, cade agonizzante ai piedi di Tancredi. Qui a tratti ritornano gli archi. La declamazione del Testo (“In queste voci languide…”) è partecipazione della tragedia che si sta compiendo. Clorinda perdona Tancredi e lo prega di essere a sua volta perdonata; quindi gli chiede di essere battezzata. Tancredi prende l'acqua da un ruscello, allenta la visiera di Clorinda e quando solleva l’elmo si accorge con orrore che ha ferito mortalmente la giovane fanciulla che egli amava. Con lacrime di rimorso che scorre lungo le guance la battezza ma
cerca invano di rianimarla con una bevanda d'acqua solo per farla morire tra le sue braccia. Mentre egli la battezza, gli archi ritornano alla fine, sulle ultime parole di Clorinda morente: “S’apre il ciel io vado in pace”.
Torna l'ira ne' cori e li trasporta, benchè deboli, in guerra a fiera pugna! Ù'l'arte in bando, ù'già la forza è morta, ove, in vece, d'entrambi il furor pugna! O che sanguigna e spaziosa porta fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna ne l'armi e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita.
Ma ecco omai l'ora fatal è giunta che'l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta che vi s'immerge e'l sangue avido beve; e la veste che d'or vago trapunta le mammelle stringea tenere e lieve, l'empiè d'un caldo fiume. Ella già sente morirsi, e'l piè le manca egro e languente.
Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine minacciando incalza e preme. Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme: parole ch'a lei novo spirto addita, spirto di fè, di carità, di speme, virtù che Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella.
- Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona tu ancora, al corpo no, che nulla pave, a l'alma sì: deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch'ogni mia colpa lave. - In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar invoglia e sforza.
Poco quindi lontan nel sen d'un monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v'accorse e l'elmo empiè nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentì la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio. La vide e la conobbe: e restò senza e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza!
Non morì già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,
e premendo il suo affanno a dar si volse vita con l'acqua a chi col ferro uccise. Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise: e in atto di morir lieta e vivace dir parea: "S'apre il ciel: io vado in pace"
Il ballo delle ingrate
Il ballo delle ingrate (SV 167) è un balletto semi-drammatico scritto da Claudio Monteverdi su libretto di Ottavio Rinuccini. Venne pubblicato nel 1638 dall’ editore Ricciardo Amadino, a Venezia, nell'Ottavo Libro dei Madrigali di Monteverdi (Madrigali guerrieri, et amorosi), ma la sua prima rappresentazione risale a 30 anni prima nel teatro del Palazzo ducale di Mantova il 4 giugno 1608, in occasione delle feste per le nozze di Francesco IV Gonzaga (figlio del protettore di Monteverdi, Vincenzo duca di Mantova) e la giovanissima Margherita di Savoia, figlia del duca Carlo Emanuele I, creatura non bella ma ricca di grazia.
[Francesco IV Gonzaga e Margherita di Savoia]
Il matrimonio con i Savoia sanciva un’alleanza strategica per la famiglia Gonzaga e l’impegnava all’ostentazione delle proprie risorse economiche durante le celebrazioni festive con l’intento di valorizzare il loro successo politico. Tra i partecipanti al Balletto figurò, secondo le cronache del tempo, lo stesso Duca Vincenzo con suo figlio e «sei cavalieri e otto dame scelte fra le più leggiadre.»
Per l'occasione delle nozze Monteverdi compose anche l'opera L'Arianna (sempre su libretto di Rinuccini) - poi andata perduta, ma di cui ̀ rimasto quel “lamento” che ancora oggi ̀ in grado di emozionare - e la musica per il prologo della commedia L'Idropica di Battista Guarini. Secondo alcuni studiosi, la versione de Il ballo delle Ingrate stampata nel 1638 contiene probabilmente delle revisioni fatte dall'autore per i festeggiamenti dell’Incoronazione di Ferdinando III d’Asburgo, imperatore del Sacro Romano Impero [ミellげiママagiミe]. L'improvvisa morte del precedente imperatore costrinse Monteverdi a dover scrivere un'opera in un tempo molto breve, e rielaborò Il ballo delle ingrate, togliendo i riferimenti al matrimonio mantovano. Sono stati rilevati alcuni adattamenti testuali e drammaturgici compiuti da Monteverdi per compiacere la corte asburgica, ma nella struttura musicale del Ballo, vale a dire, il cuore della rappresentazione, Monteverdi non sembra aver operato alcun cambiamento influente sull’assetto originale. Chi sono le ingrate? Sono le donne che in vita furono ingrate verso i loro amanti, non seppero cioè soddisfare o ricevere il loro amore, creature, che gli dei hanno perciò confinato agli inferi. Il ballo delle ingrate ̀ una pietra miliare dell’evoluzione coreografica, anche se della sua coreografia non è rimasta traccia. E nemmeno si conosce il nome del suo vero coreografo, forse Isacchino Ebreo, colui cioè che era il maestro di ballo alla corte di Mantova.
Aspetti della composizione Trama. La trama è molto semplice, tuttavia Monteverdi vi ricamò sopra note superiori, una musica che ancora stupisce, quel declamato musicale discorsivo e severo che non è inferiore a quello che troviamo nelle sue opere più celebrate. E i versi di Rinuccini non poveri sono anch’essi di una loro arcana bellezza. La scena si svolge davanti al suo ingresso degli Inferi, dove u si trova na gran voragine “dentro la quale ruotano globi d’ardentissime fiamme e per entro ad essa innumerabili mostri d’Inferno”. Davanti a quella bocca infernale appaiono Venere e Amore, madre e figlio, e mentre questi entra nelle grotte di Plutone, il re degli Inferi, per indurlo ad ascoltare la divina madre, ella si rivolge alle dame del pubblico invitandole a vincere la riluttanza all’amore prima che la giovinezza sparisca.
[Pontormo (su disegno di Michelangelo Buonarroti): Venere e Amore. 1ヶ33. Galleヴia dellげAIIadeマia. Firenze]
Rientra Amore con Plutone, con il quale Venere si lamenta che i dardi del figlio restino senza effetto per la sdegnosa austerità delle donne abitanti nel “Germano Impero” che vanno altere di beltà e amore. Successivamente Amore implora Plutone di lasciar temporaneamente uscire alcune anime di quelle ingrate perché mostrino ai viventi quali pene le attendano nell’oltretomba. Ed ecco subito dopo arrivare le Ingrate ed eseguire una danza a metà della quale Plutone a sua volta rivolgerà alle dame in sala la stessa predica morale di Venere, minacciandole di pene eterne qualora persistano nel loro atteggiamento. Quindi rinvia le anime “a lacrimare nel regno Inferno”. E la danza sarà ripetuta alla loro partenza. Solo una di esse indugerà al proscenio lamentando (è la pagina musicale più bella e di più alta intensità drammatica) la sorte a cui deve definitivamente tornare e rivolgerà un estremo addio alla luce, esortando le Dame presenti alla pietà verso chi le ama.
Coreografia. Nulla è stato conservato, cioè trascritto, della parte coreografica. E tuttavia dai pochi riferimenti contenuti nel libretto di Rinuccini e da qualche altro scritto è possibile immaginare che la danza o i movimenti coreutici consistessero in composizioni orchestiche (proprie di azioni sceniche che comprendono musica, poesia e danza) nello stile e nella tecnica del più maturo “ballo nobile” (quello adottato nelle grandi corti italiane), fuse però con elementi pantomimici di forte coloritura drammatica.
Strumentazione. L’organico strumentale del Ballo secondo Monteverdi è il seguente: “Cinque Viole da brazzo, Clavicembalo e Chitarrone, li quali istrumenti si radoppiano secondo il bisogno della grandezza del loco in cui devisi rapresentare.” Secondo testimonianze dell’epoca l’allestimento mantovano incluse «un gran numero di musici con instromenti diversi da corda e da fiato», e la loro distribuzione sulla scena e dietro le quinte, tra musica apparente e non apparente, creava un effetto sonoro di lontananza e vicinanza, di forte e piano, di terra e inferno, molto efficace teatralmente.
Struttura della composizione. Il "balletto" propriamente detto è la scena più importante dell'opera. È composto di una Entrata (un motivo semplice, ripetuto più volte) e di cinque episodi tutti costruiti con lo stesso materiale melodico, variato solo ritmicamente. L’episodio centrale è costruito su disegni melodici diversi; il quarto richiama il tema originale parzialmente rovesciato, e nell'ultimo il motivo dell'Entrata è leggermente variato. Dal punto di vista strutturale Monteverdi crea due bassi ostinati da variare solo nel ritmo musicale per valorizzare la metrica del dolore, del lamento e della supplicazione, come nel coro della tragedia greca.
Le parti vocali son trattate, quasi sempre, in "stile recitativo", ma basterà un accento veramente sentito, una espressione viva e vera, perché quel recitativo assuma subito movenze di arioso, perché la melodia riveli una rispondenza autentica con l'espressione poetica. Segnaloo il monologo di Venere, che ha quasi il carattere di un "madrigaletto" con basso continuo; il duetto tra Venere e Amore; la lunga apostrofe di Plutone realizzata con una declamazione lenta, con frasi discendenti nella tessitura grave e con ampi intervalli (le parole: «là giù... » comportano un intervallo di undecima). Il momento più alto dell'opera è il lamento dell'anima ingrata che s'è arrestata sulla soglia dei regni infernali: due strofe che terminano con una stessa frase, ripetuta "a cappella" da altre quattro voci; una pagina patetica, intensamente espressiva, tanto commovente che le dame del pubblico ne furono «non meravigliate, sì bene mosse al pianto.»
Testo
Introduzione: さPヴiマa si fa uミa sIeミa la Iui pヴospettiva foヴマi uミa HoIIa d'Inferno con quattro strade per banda, che gettino fuoco, da quali usciscono a due a due le Anime Ingrate, con gesti lamentevoli, al suono della entrata che sarà il principio del ballo, il qual va cotante volte ripetito da suonatori fino che trovino poste nel mezzo del loco in cui assi da dar principio al ballo, Plutone sta nel mezzo conducendole a passi gravi, poi ritiratosi alquanto, dopo finita la entrata, danno principio al ballo, poscia Plutone fattolo fermare nel mezzo, parla verso alla Principessa, e Damme, che saranno presenti, nel modo che sta scritto; Delle Anime Ingrate, il lor vestito sarà di color cenerito, adornato di lacrime finte; finito il ballo tornano nel Inferno, nel medesimo modo del'uscita, e al medesimo suono lamentevole, restandone una nella fine in scena, facendo il lamento che sta scritto, poi entra nel'Inferno. Al levar de la tela si farà una sinfonia a
HeミeplaIito.ざ
AMORE. De l'implacabil Dio Eccone giunt'al Regno, Seconda, O bella Madre, il pregar mio.
VENERE. Non tacerà mia voce Dolci lusinghe e prieghi Finche l'alma feroce Del Re severo al tuo voler non pieghi.
AMORE. Ferma, Madre, il bel piè, non por le piante Nel tenebroso impero, Che l'aer tutto nero Non macchiass'il candor del bel sembiante: Io sol n'andrò nella magion oscura, E pregand'il gran Re trarotti avante.
VENERE. Va pur come t'agrada. Io qui t'aspetto, Discreto pargoletto.
(Sinfonia)
Udite, Donne, udite! I saggi detti Di celeste parlar nel cor servate: Chi, nemica d'amor, nei crudi affetti Armerà il cor nella fiorita etate, (Sinfonia) Sentirà come poscia arde a saetti Quando più non avrà grazia e beltate, E in vano risonerà, tardi pentita, Di lisce e d'acque alla fallace aita.
PLUTONE. Bella madre d'Amor, che col bel ciglio Splender l'Inferno fai sereno e puro, Qual destin, qual consiglio Dal ciel t'ha scorto in quest'abisso oscuro?
VENERE. O de la morte innumerabil gente Tremendo Re, dal luminoso cielo Traggemi a quest'orror materno zelo: Sappi che a mano a mano L'unico figlio mio di strali e d'arco Arma, sprezzato arcier, gli omer e l'ali.
PLUTONE. Chi spogliè di valore l'auree saette Che tante volte e tante Giunsero al cor de l'immortal Tonnante?
VENERE Donne, che di beltate e di valore Tolgono alle più degne il nome altero, Là, nel Germano Impero, Di cotanto rigor sen van armate, Che di quadrell'aurate E di sua face il foco Recansi a scherzo e gioco..
PLUTONE. Mal si sprezza d'Amor la face e'l telo. Sallo la terra e'l mar, l'inferno e'l cielo.
VENERE. Non de' più fidi amanti Odon le voci e i pianti. Amor, Costanza, Fede Non pur ombra trovar può di mercede. Questa gli altrui martiri Narra ridendo. E quella Sol gode d'esser bella Quando tragge d'un cor pianti e sospiri. Invan gentil guerriero Move in campo d'honor, leggiadro e fiero.
Indarno ingegno altero Freggia d'eterni carmi Beltà che non l'ascolta e non l'aprezza. Oh barbara fierezza! Oh cor di tigre e d'angue! Mirar senza dolore Fido amante versar lagrime e sangue! E per sua gloria, e per altrui vendetta Ritrovi in sua faretra Amor saetta!
PLUTONE. S'invan su l'arco tendi I poderosi strali, Amor che speri, e che soccorso attendi?
AMORE. Fuor de l'atra caverna Ove piangono invan, di Speme ignude, Scorgi, Signor, quell'empie e crude! Vegga, vegga sull'Istro Ogni anima superba A qual martir cruda beltà si serba!
PLUTONE. Deh! Chi ricerchi, Amor! Amor, non sai che dal carcer profondo Cale non è che ne rimeni al mondo?
AMORE. So che dal bass'Inferno Per far ritorno al ciel serrato è il varco. Ma chi contrasta col tuo poter eterno?
PLUTONE. Saggio signor se di sua possa è parco.
VENERE. Dunque non ti rammenti Che Proserpina bella a coglier fiori Guidai sul monte degli eterni ardori? Deh! Per quegli almi contenti, Deh! Per quei dolci amori, Fa nel mondo veder l'ombre dolenti! PLUTONE. Troppo, troppo possenti Bella madre d'Amore, Giungon del tuo pregar gli strali al cuore! Udite! Udite! Udite! O dell'infernal corte Fere ministre, udite! OMBRE D'INFERNO. Che vuoi? Ch'imperi?
PLUTONE. Aprite aprite aprite Le tenebrose porte
De la prigion caliginosa e nera! E de l'Anime Ingrate Trahete qui la condannata schiera!
VENERE. Non senz'altro diletto Di magnanimi Regi Il piè porrai ne l'ammirabil tetto! Ivi, di fabri egregi Incredibil lavoro, O quanto ammirerai marmorii fregi! D'ostro lucent' e d'oro Splendon pompose le superbe mura! E per Dedalea cura, Sorger potrai tra l'indorate travi, Palme e trionfi d'innumerabil Avi. Ne minor meraviglia Ti graverà le ciglia, Folti Theatri rimirando e scene, Scorno del Tebro e de la dotta Atene!
Qui incominciano apparire le Donne Ingrate, et Amore e Venere così dicono: AMORE E VENERE. Ecco ver noi l'adolorate squadre Di quell'alme infelici. Oh miserelle! Ahi vista troppo oscura! Felici voi se vi vedeva il fato Men crude e fere, o men leggiadre e belle!
Plutone rivolto verso Amore e Venere così dice: PLUTONE. Tornate al bel seren, celesti Numi! Rivolto poi all'Ingrate, così segue: PLUTONE. Movete meco, voi d'Amor ribelle! Con gesti lamentevoli, le Ingrate a due a due incominciano a passi gravi a danzare la presente entrata, stando Plutone nel mezzo, camminando a passi naturali e gravi. Giunte tutte al posto determinato, incominciano il ballo come segue.
(Sinfonia) Danzano il ballo sino a mezzo; Plutone si pone in nobil postura, rivolto verso la Principessa e Damme, così dice: PLUTONE. Dal tenebroso orror del mio gran Regno Fugga, Donna, il timor dal molle seno! Arso di nova fiamma al ciel sereno Donna o Donzella per rapir non vegno. E quando pur de vostri rai nel petto Languisce immortalmente il cor ferito, Non fora disturbar Plutone ardito Di cotanta Regina il lieto aspetto.
Donna al cui nobil crin non bassi fregi Sol pon del Cielo ordir gli eterni lumi, Di cui l'alma virtù, gli aurei costumi Farsi speglio dovrian Monarchi e Regi. Scese pur dianzi Amor nel Regno oscuro. Preghi mi fè ch'io vi scorgessi avanti Queste infelici, ch'in perpetui pianti Dolgonsi invan che non ben sagge furo. Antro è la giù, di luce e d'aer privo, Ove torbido fumo ogni hor s'aggira: Ivi del folle ardir tardi sospira Alma ch'ingrata hebbe ogni amante a schivo. Indi le traggo e ve l'addito e mostro, Pallido il volto e lagrimoso il ciglio, Per che cangiando homai voglie e consiglio Non piangete ancor voi nel negro chiostro. Vaglia timor di sempiterni affanni, Se forza in voi non han sospiri e prieghi! Ma qual cieca ragion vol che si nieghi Qual che malgrado alfin vi tolgon gli anni? Frutto non è di riserbarsi al fino. Trovi fede al mio dir mortal beltate. Poi rivolto al Anime Ingrate, così dice: Ma qui star non più lice, Anime Ingrate. Tornate al lagrimar nel Regno Inferno!
Qui ripigliano le Anime Ingrate la seconda parte del Ballo al suono come prima, la qual finita Plutone così gli parla: PLUTONE. Tornate al negro chiostro, Anime sventurate, Tornate ove vi sforza il fallir vostro!
Qui tornano al Inferno al suono della prima entrata, nel modo con gesti e passi come prima, restandone una in scena, nella fine facendo il lamento come segue; e poi entra nell'Inferno: UNA DELLE INGRATE. Ahi troppo, ahi troppo è duro! Crudel sentenza, e vie più crude pene! Tornar a lagrimar nell'antro oscuro! Aer sereno e puro, Addio per sempre! Addio per sempre, O cielo, o sole! Addio lucide stelle! Apprendete pietà, Donne e Donzelle!
QUATTRO INGRATE insieme. Apprendete pietà, Donne e Donzelle!
Segue UNA DELLE INGRATE. Al fumo, a gridi, a pianti, A sempiterno affanno! Ahi! Dove son le pompe, ove gli amanti!
Dove, dove sen vanno Donne che si pregiate al mondo furo? Aer sereno e puro, Addio per sempre! Addio per sempre, O cielo, o sole! Addio lucide stelle! Apprendete pietà, Donne e Donzelle!
DISCOGRAFIA DELLE DUE COMPOSIZIONI
Claudio Monteverdi: Combattimento di Tancredi e Clorinda. Ballo delle ingrate. Concerto Italiano, dir. Rinaldo Alessandrini. Opus 111
In questa incisione il canto è straordinario, caldo nelle gamme basse (di cui la più bassa è davvero brillante e piena) e mozzafiato nei trilli accelerati e nelle macchinazioni interiori che cadono rapidamente nello stile agitato di Monteverdi. Inoltre Rinaldo Alessandrini e Concerto Italiano non avrebbero potuto trovare un attacco più ampio sui pezzi, facendoli suonare operistici, sinfonici e intimi allo stesso tempo. Altro punto di forza è la padronanza del linguaggio declinatorio e retorico italiano di Monteverdi che i cantanti del Concerto Italiano gestiscono splendidamente. Dopo tutto l'opera è iniziata a causa di una teoria che in Grecia classica le opere teatrali venivano cantate con accompagnamento minimo piuttosto che parlato. Questo non è solo uno dei migliori CD vocali del 1998 ma, è anche , se preso con il Libro dell'Ottavo Libro di Alessandrini (Ed. Naive), uno dei migliori sguardi su Monteverdi nel campo della musica
registrata. Il Ballo delle Ingrate accoppiato è naturalmente altrettanto ben interpretato.
Claudio Monteverdi: Ottavo Libro dei Madrigali La Venexiana Glossa
Concerto Italiano e La Venexiana hanno praticamente un monopolio sul canto dei madrigali in italiano per la eccelsa padronanza della lingua.
L'impressione udibile in questi 3 Cd è come una scoperta di un nuovo territorio musicale. La musica è molto impressionante nella sua espressività, la performance affascina con grandi cantanti e ottimi strumentisti. Il Combattimento di Tancredi e Clorinda si apprezza per il corretto uso dei timbri, la ricchezza dei ritmi, l’enfasi delle parti lente e delle pause. Consigliatissimo!
Monteverdi: Ballo delle Ingrate. Combattimento di Tancredi e Clorinda Cappella Musicale di San Petronio Bologna, dir. Sergio Vartolo. Naxos Early Music
Le esibizioni dirette da Sergio Vartolo della musica di Claudio Monteverdi sono splendide per la presenza di interpreti italiani nelle parti cantate, così come l'uso di strumenti originali del tempo e pratiche di prestazione di quel periodo. Come era consuetudine allora, la voce cantata era accompagnata solo da un complesso molto ristretto di strumenti (fondamentalmente un «basso continuo», anche se con uso occasionale di strumenti in una forma più elaborata), un fatto che viene rispettato in questa registrazione. Questo metodo porta con sé il vantaggio di ascoltare le voci dei solisti con maggiore purezza e chiarezza del solito, un vantaggio che è più facile da apprezzare, considerando la perfetta dizione degli interpreti che cantano nella loro lingua madre. Tutti insieme producono una meravigliosa sensazione di essere trasportati nel tempo ai tempi di Monteverdi e dei suoi contemporanei, un effetto che non molte registrazioni possono ottenere. In conclusione, si tratta di un CD altamente raccomandato per gli amanti del primo barocco e della musica vocale in particolare, poiché dall'inizio alla fine include performance tecnicamente perfette dei solisti coinvolti (il basso Antonio Abete, nel ruolo di Plutone nel «Ballo delle ingrate» è da brividi).
Monteverdi: Il Combattimento di Tancredi e Clorinda. Clemencic Cosort.
Haヴマoミie Muミdi FヴaミIe, Musiケue d’aHoヴd
Il Clemencic Consort è un consort vocale e strumentale austriaco costituito a Vienna nei primi anni sessanta del XX secolo dal compositore, clavicembalista e direttore d'orchestra austriaco René
Clemencic. E’ specializzato nell'esecuzione di musiche che vanno dal medioevo al barocco, su strumenti storici. Il complesso ha un organico variabile che va da tre cantanti ad un gruppo di cantanti e strumentisti che può superare i quaranta elementi in funzione delle opere che deve eseguire. I componenti sono tutti strumentisti e cantanti solisti provenienti da moltissimi paesi. In questo disco cantanti e strumentisti offrono una ottima prestazione, molto vivace. Il loro unico difetto: la pronuncia italiana non perfetta.
Monteverdi: Madrigali & Selva morale Les Arts Florissants, dir. William Christie. Harmonia Mundi
Les Arts Florissants è un complesso musicale francese fondato nel 1979 e diretto dal clavicembalista francese di origine statunitense William Christie. Il titolo del gruppo è tratto da un'opera del compositore francese Marc-Antoine Charpentier. E’ costituito da un gruppo di strumentisti che suonano strumenti storici e da un piccolo gruppo vocale. Sono specializzati nel repertorio barocco. Questa raccolta di William Christie e Les Arts Florissants rappresenta una delle migliori performance della musica monteverdiana: troviamo Madrigali, Il ballo delle Ingrate, Selva Morale, Il combattimento di Tancredi e Clorinda. La poesia rinascimentale italiana non è mai stata così vivida. Christie e il suo ensemble sono tecnicamente perfetti e musicalmente impegnati in modo eccellente.
Monteverdi: Madrigali guerrieri e amorosi The Consort of Musicke, dir. Anthony Rooley. Erato Veritas
The Consort of Musicke è un consort di musica antica britannico fondato nel 1969. Il gruppo è stato fondato a Londra dal liutista Anthony Rooley che ne divenne il direttore. Tra i primi componenti del gruppo ricordo il grande soprano Emma Kirkby. L'ensemble si è specializzato nell'esecuzione di musica rinascimentale a cappella, inclusi alcuni autori del primo barocco, in particolar modo inglesi e italiani.
In questo doppio CD contenente l’integrale dell’Ottavo libro dei Madrigali troviamo una piacevolissima interpretazione della splendida arte di Monteverdi, anche se per me non è una prima scelta. La dizione della lingua italiana ̀ un po’ asettica.
Monteverdi: Combattimento.
Le CoミIeヴt dげAstヴYe, diヴ. Eママaミuel Haïマ
Virgin
Questo disco è uno splendido esempio della forma lirica monteverdiana. Questa è la musica antica come dovrebbe essere: appassionata, commovente, energica e coinvolgente. Rolando Villazon (il narratore) è eccezionale, non c'è emozione che non riesca a trasmettere con la sua voce di tenore brillante ed espressivo. Nel Combattimento il recitativo declamatorio è sorprendentemente flessibile per soddisfare la narrazione, le descrizioni della battaglia e le esplosioni liriche appassionate.
Monteverdi: Madrigali guerrieri et amorosi. Concerto vocale, dir. René Jacobs. Harmonia Mundi
ma spesso “freddi”. Il belga René Jacobs, sommo interprete del teatro musicale e uno tra i massimi direttori d'orchestra del genere madrigalesco, dà una lettura ricca di vitalità e di senso teatrale coadiuvato da un efficace gruppo di cantanti, magari con voci non bellissime ma assolutamente adatte allo scopo di far risaltare e avvolgere l'esecuzione intorno alla parola cantata, accompagnate da un folto gruppo di musicisti in modo da ottenere uno strumentale corposo e timbricamente molto variegato. Preferisco questo tipo di esecuzioni a quelle dei madrigalisti anglosassoni, musicalmente educatissimi,