GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 5 – Luglio 2018
GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista Trimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 5 - Luglio 2018
Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa
In questo numero: 1a Copertina: Maria Callas, di Amalia Mora (rielaborazione personale) 4a Copertina: Gaetano Donizetti (1797-1848), di Francesco Coghetti (1837) [3] [6] [43] [45] [56] [66] [69] [78]
Editoriale Serate degli Amici del Vinile: “E lucevan le stelle” (12.1.2018) La nostra copertina (Riflessioni su Maria Callas) I grandi direttori: Victor de Sabata Guida all’ascolto: Le quattro stagioni, di Antonio Vivaldi Strumenti musicali antichi: La Ribeca Musica classica e cinema: La grande bellezza, di Paolo Sorrentino Melomania: Lucia di Lammermoor, di Gaetano Donizetti
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Editoriale Cari Amici, buona estate e… buona lettura di questa quinta pubblicazione on-line de Gli Amici del Loggione! Avevo programmato di raccontarvi in questo numero la nostra serata “barocca”, ormai un po’ lontana nel tempo (15.12.2011…!), ma l’inaspettato grande consenso della Serata dedicata alla Musica romantica italiana del 1800, del 12 Gennaio di quest’anno, mi ha indotto a cambiare la mia originaria idea e a riproporre in tempi rapidi quel magico incontro musicale. Desidero ancora una volta ringraziare tutti per le belle parole e i complimenti che mi avete fatto in quella occasione. Sono felicissimo del buon esito di tutto (nonostante siano saltati i coni delle casse a causa delle corde vocali di Pavarotti & Co.), anche se purtroppo alcune registrazioni risentivano tecnicamente del passare del tempo ed erano dinamicamente “compresse”. La mia “politica” musicale è quella di farvi ascoltare le migliori interpretazioni, anche se tecnicamente presentano delle imperfezioni dinamiche importanti. Grazie ancora al Presidente Nicola, allo staff tecnico composto dagli impareggiabili Maurizio ed Andrea, a tutti voi! E al grido di “Stasera ho sentito cantare la Callas!”, ripercorriamo la serata. Troverete, come al solito, l’integrale di quel che avevo scritto per l’occasione, che poi è (tanto) di più di quel che avete sentito: come sempre, preparo materiale in sovrabbondanza, ma il tempo a disposizione scorre troppo velocemente e mi trovo costretto a “salti” dolorosi.
Presentazione della serata: Il Romanticismo è stato un movimento culturale, artistico, letterario e musicale nato alla fine del XVIII secolo; si opponeva all’Illuminismo che riesaminava ogni cosa (cultura, modo di vivere, scienza, ecc.) alla luce della ragione. Il Romanticismo rivalutava il sentimento rispetto alla ragione, l’originalità individuale dell’artista e dell’opera d’arte, la libertà e la spontaneità creativa rispetto alla chiarezza e all'ordine che tanto piacevano nel Settecento. Gli artisti romantici valorizzarono tutto ciò che andava al di là della conoscenza razionale, e la musica, per il suo carattere astratto, immateriale, venne vista come una delle principali forme di espressione. In Italia il Romanticismo si espresse soprattutto nel melodramma, una forma artistica assai complessa, in cui si intrecciano letteratura (un testo teatrale in prosa, o versi, a formare il cosiddetto libretto d’opera), musica (il compositore non è quasi mai il librettista, ma sul libretto intreccia le proprie idee musicali), canto, scenografia e coreografia. Il melodramma moderno nacque nel XVI secolo a Firenze, dove un gruppo di studiosi, la cosiddetta Camerata Fiorentina, era solito riunirsi nelle case dei nobili - in particolare a Palazzo Bardi da cui il 3
loro nome di “Camerata dei Bardi” -, per
sperimentare
semplici
melodie
ispirandosi al modello dell’antica musica greca. Da loro nacque un tipo di musica a metà fra il canto e il recitato, eseguita da un solista e accompagnata dalla melodia degli strumenti. La data di nascita del melodramma si fa risalire, con una precisione che ben pochi altri eventi nella storia della cultura europea possono vantare, alla sera del 6 ottobre 1600, quando in una saletta di palazzo Pitti a Firenze, in occasione dei festeggiamenti per il matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia, venne rappresentata l’Euridice, favola pastorale di Ottavio Rinuccini (fondata sul mito di Orfeo) con musiche di Jacopo Peri e Giulio Caccini. Successivamente, a Mantova, il melodramma ricevette una radicale revisione nella sua unione di canto e recitazione ad opera di Claudio Monteverdi [nel riquadro] che in quegli anni stava portando a definitiva maturazione il madrigale. Monteverdi determinò definitivamente il principio fondamentale del melodramma, e cioè che la musica deve essere privilegiata - o almeno avere pari dignità - sulle parole. Dopo Firenze e Mantova, fu Roma un’altra culla del melodramma: a partire dal 1632 e sino alla fine del papato di Urbano VIII (1644), i tre cardinali Antonio, Francesco e Taddeo Barberini, nipoti del pontefice regnante, diedero vita a una serie di rappresentazioni operistiche, allestite nelle residenze di famiglia, destinate a imporre allo scelto pubblico di nobili, alti prelati e ambasciatori di stanza a Roma, e viaggiatori stranieri, un’immagine del potere e della ricchezza della famiglia. Messi in scena con una rigorosa scadenza annuale durante il carnevale, gli spettacoli barberiniani divennero un appuntamento fisso tra i più importanti nella vita politico-mondana romana del tempo. Alla loro realizzazione parteciparono alcuni tra i più notevoli musicisti attivi nella Roma di allora: da Stefano Landi ai fratelli Domenico e Virgilio Mazzocchi, da Luigi Rossi a Marco Marazzoli, a Michel Angelo Rossi. Al fine di ottenere il massimo effetto da quell’operazione destinata alla loro celebrazione, per gli spettacoli i Barberini predisposero nelle adiacenze del palazzo Barberini, alle Quattro Fontane, un enorme capannone (il Teatro Barberini) capace di oltre 3.500 posti. Gli spettatori accedevano allo spettacolo dietro invito, e vi è da supporre (per ragioni di buona politica cittadina) che le porte del teatro fossero aperte, sia pur in misura limitata, anche a spettatori di estrazione non aristocratica.
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Gli spettacoli promossi dai Barberini erano memorabili anzitutto sul piano visivo: in essi l’aspetto scenografico ricevette un’attenzione straordinaria, tanto dal punto di vista puramente scenico, quanto da quello macchinistico e illuminotecnico (per il progetto e la realizzazione delle scenografie i nipoti di papa Urbano VIII si valevano di un architetto del calibro di Gian Lorenzo Bernini!). Per la parte letteraria, le produzioni barberiniane vennero affidate a un giovane prelato dalla solida formazione umanistica al servizio della famiglia, Giulio Rospigliosi, destinato a divenire poi Papa col nome di Clemente IX. Giulio Rospigliosi [nel riquadro] abbandonò il soggetto mitologico per volgersi a soggetti più vicini alla realtà umana, siano essi tratti dall’agiografia cristiana o dalle grandiose epopee dell’Ariosto e del Tasso, fino a portare in scena personaggi buffi, non di rado ai limiti del grottesco, come servi e nutrici. Da Roma il genere si diffuse in Francia (Lully, Gluck), grazie al mecenatismo del Re Sole, in Germania (Mozart), a Napoli (Scarlatti, Pergolesi). Le vicende rappresentate erano di vario genere: mitologico, storico, romanzesco, fantastico, comico. Nell’età romantica predominano i temi incentrati sulle passioni e gli amori, quasi sempre ad esito tragico. ♫♫♫ Nel viaggio musicale che ci accingiamo a fare stasera è praticamente impossibile condensare tutto questo periodo nell’arco di tempo concesso, ed è stato difficilissimo non solo scegliere il materiale da presentare ma soprattutto quello da non presentare! La cesoia ha prodotto comunque una lista di brani bellissimi, ma i… cadaveri eccellenti sono veramente tanti!!! Le stelle brilleranno per i veri amanti della musica in questa serata dedicata al Romanticismo musicale dell’Italia dell’800: in questa serata ci immergeremo nei grandi valori morali di un popolo unito dal patriottismo e dall’anelito alla libertà, ma troveremo anche amori infelici e tragici, tipici della cultura romantica.
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Serate Amici del Vinile : “E lucevan le stelle” GIACOMO PUCCINI – SUOR ANGELICA “INTERMEZZO” Il brano di apertura di questa serata è l’Intermezzo da Suor Angelica, opera lirica in un atto di Giacomo Puccini. Suor Angelica fa parte del cosiddetto Trittico pucciniano (assieme a Il Tabarro e a Gianni Schicchi) ed è una tra le poche opere in cui troviamo solo personaggi femminili. L'azione si svolge verso la fine del XVII secolo, tra le mura di un monastero nei dintorni di Siena, dove da sette anni vive relegata, reietta dalla famiglia, Suor Angelica, una donna di famiglia aristocratica, che ha forzatamente abbracciato la vita monastica per scontare il castigo di una relazione peccaminosa. Da questa unione era nato un bambino, che le era stato strappato a forza subito dopo la nascita, e del quale, durante questo lungo periodo, non ha saputo più nulla. Una sua zia principessa, venuta a visitarla non per concederle il sospirato perdono della famiglia, bensì a chiederle un atto di rinuncia alla sua quota del patrimonio familiare, allo scopo di costituire la dote per la sorella minore, le annuncia che da oltre due anni il piccolo è morto, consumato da una grave malattia. Disperata, Angelica decide di suicidarsi ingerendo un veleno distillato con i fiori raccolti nel giardino del convento. In preda al rimorso per il peccato commesso, la suora morente invoca la Madonna, che in segno di perdono le sospinge il bimbo fra le braccia. ♫♫ Nell’Intermezzo, che altro non è che un momento di alta spiritualità che precede il momento del perdono, Puccini profonde una melodia dolce e struggente che si dispiega affidata agli archi e ai flauti e agli oboi. L’interpretazione è dei Berliner Philharmoniker, diretti da Herbert von Karajan. Desidero farvi notare che il melodramma italiana è ricco di protagonisti, soprattutto donne, che muoiono per un tragico destino. Vi faccio qualche esempio:
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Norma: Norma muore sul rogo per essersi innamorato del proconsole romano Pollione, nemico del suo popolo, e averne avuto due figli. Rigoletto: Gilda (figlia di Rigoletto) si fa sparare da un killer assoldato dal padre per uccidere il Duca, di cui la stessa Gilda era innamorata, al posto della vittima designata. Gilda morirà tra le braccia del padre. Lucia di Lammermoor: Lucia, ingannata dal fratello che vuole fargli sposare il nobile Arturo, viene lasciata dall’uomo che lei ama, Edgardo. Sconvolta dal dolore, uccide Arturo subito dopo le nozze, ma alla fine muore impazzita. Edgardo, sconvolto dal dolore, si ucciderà pugnalandosi. Mimì (Bohème) e Violetta (Traviata) muoiono alla fine delle rispettive opere per tisi. Manon Lescaut, incarcerata come ladra ed adultera, viene deportata in America, dove morirà di stenti. Aida si fa seppellire viva assieme a Radames nei sotterranei di un tempio egizio. Cho-Cho-San (Madama Butterfly) si uccide con un pugnale, dopo essersi accortasi di essere stata ingannata da Pinkerton, un ufficiale della marina americana, che l’aveva sposata per burla e che alla fine si prenderà anche il bambino nato dalla loro fugace unione. Trovatore: Leonora, per salvare l’amato Manrico, muore avvelenandosi pur di non finire tra le braccia del Conte di Luna, acerrimo nemico di Manrico. Alla fine moriranno anche Manrico (che si scoprirà essere il fratello rapito del Conte) e Azucena, la zingara che lo aveva allevato. La forza del destino: Leonora muore tra le braccia dell’amato Alvaro, dopo essere stata pugnalata dal fratello don Carlo che voleva vendicare il padre, ucciso accidentalmente da Alvaro. Alvaro ucciderà anche don Carlo. Tosca si getta da Castel S. Angelo dopo che il suo amore, il pittore Caravadossi, viene fucilato dal barone Scarpia, che vuole conquistare Tosca. Scarpia morirà pugnalato per mano di Tosca prima che lei si uccida. E così via, in un vero e proprio continuum della tragedia al femminile.
NICCOLO’ PAGANINI - CAPRICCIO N° 24 Passiamo adesso a Niccolò Paganini (soprannominato il Violinista del diavolo), uno dei compositori ed artisti che più di altri ha letteralmente incarnato l'anima del Romanticismo. Paganini fu un grande creatore che rivoluzionò l'arte della tecnica violinistica: la pertinenza e la precisione degli effetti e dei temi che propose erano sconosciute al suo tempo; la sua influenza si sentì notevolmente per tutto il XIX secolo, giungendo fino ai giorni nostri. Nato a Genova il 27 ottobre 1782, fu un personaggio pieno di lati oscuri, a cominciare dal suo coinvolgimento nel soprannaturale fin da quando era bambino: considerato morto a 6 anni per un
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violento attacco di morbillo, avvolto nel sudario, durante il servizio funebre Niccolò fece un piccolo movimento che fu notato dai presenti e che gli permise di non venire sepolto vivo. Si parlò allora di miracolo. Diventato adulto e provvisto di genio musicale, verrà perseguitato dalle voci della gente che parleranno apertamente di una sorta di patto tra lui ed il Diavolo, come nella storia di Faust. Tra l’altro, Paganini stesso alimenterà queste voci, mai smentendole, ma incoraggiandole in un sottile gioco di popolarità. Magro e pallido a causa della sifilide, con gli occhi rientrati nelle orbite, ma lo sguardo acuto, vestiva sempre di nero, e ai concerti arrivava su una carrozza nera trainata da quattro cavalli neri. Mancava di tutti i denti per colpa del mercurio somministrato per la sifilide, la bocca gli era così rientrata che naso e mento si erano avvicinati. Niccolò Paganini era di corporatura esile e delicata, salute fragilissima (soffrì di esaurimenti nervosi, era continuamente affaticato, ed ebbe numerosi episodi di emottisi), ma aveva lunghe dita affusolate e ossute, le mani pallide solcate da vene in forte rilievo e piedi lunghi, sproporzionati, che muoveva al ritmo della sua musica mentre contorceva il corpo in pose bizzarre, impossibili ad altri. [Dagherrotipo di Paganini, 1840 ca.]
Paganini era probabilmente affetto dalla Sindrome di Marfan, una malattia del tessuto connettivo che, tra le sue varie
manifestazioni,
comprende
la
dolicostenomelia
(eccessiva lunghezza delle estremità), e l'ipermobilità delle articolazioni: forse fu proprio questa patologia il segreto che gli permise di raggiungere gli incomparabili livelli di virtuosismo che tutto il mondo gli riconobbe come violinista. Eppure, nonostante la figura non fosse per nulla bella da vedere, ebbe tante amanti, forse anche stimolate dalle voci demoniache su di lui o dalla sua musica. Era osannato come una rockstar dei nostri tempi, tutte le sue esibizioni terminavano con la rottura delle corde di uno dei suoi preziosissimi violini, ed egli chiudeva i suoi concerti sull’unica corda superstite, quella di sol. Le sue apparizioni sul palco facevano salire il prezzo dei biglietti a teatro: addirittura, la sua immagine veniva utilizzata per vendere la caramelle Paganini.
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Tutto ciò non deve far pensare che sia diventato famoso solo grazie a ciò che rappresentava, i suoi virtuosismi infatti sono assolutamente veritieri e leggendari e nessun altro violinista è mai stato capace di avvicinarsi alla sua prodigiosa tecnica. Era velocissimo, compiva salti melodici di diverse ottave, eseguiva lunghi passi con accordi che coprivano tutte e quattro le corde, alternava velocemente note eseguite con l’arco e note pizzicate alla mano sinistra. Paganini usò molti strumenti, ma quello che lo caratterizzò di più e che preferiva fu il "Cannone" [nella foto] realizzato a Cremona nel 1743 dal liutaio Guarneri, così chiamato per la pienezza e la potenza del suo suono: secondo le
testimonianze e le lettere a noi pervenute si può affermare che Paganini abbia usato questo violino per tutta la sua carriera, compagno inseparabile di tournée e concerti tenuti in tutta Europa; dal 1851 lo strumento è custodito a Genova nella Sala Paganiniana di Palazzo Doria Tursi, oggi sede museale nell’ambito dei Musei di Strada Nuova. Altro suo violino famoso fu il "Vuillaume" (dal nome del suo creatore), fabbricato a Parigi nel 1833, fedele riproduzione del "Cannone"; inoltre il musicista possedeva non meno di 11 Stradivari! ♫♫ Fra le sue composizioni ho scelto, per iniziare questa serata, il Capriccio n° 24. Il termine "Capriccio" sta ad indicare, secondo una pratica derivante del Seicento, un tipo di composizione affidata prevalentemente all'estro e all'improvvisazione. I Capricci op. 1 di Paganini sono 24 composizioni per violino: in queste pagine è sparso a piene mani tutto il virtuosismo paganiniano, con il ricorso alle più straordinarie trovate o effetti, dettati da una natura demoniaca e rivolti ad allargare al massimo l'arco espressivo, sia timbrico che ritmico, del violino, così da toccare il vertice dell'arte di tale strumento nell'800 europeo. Ogni Capriccio è un brano a sé e offre uno spunto per una serie di idee armoniche e contrappuntistiche caratterizzate da brillanti invenzioni musicali. L’ultimo dei Capricci è il famosissimo n° 24 in la minore, zeppo di trascinante ed entusiasmante fascino sulle quattro corde e tale da diventare nel tempo il simbolo più popolare della acrobatica fantasia violinistica paganiniana. Viene considerato come uno dei pezzi più difficili mai scritti per solo violino, ed è stato oggetto di numerose trascrizioni da parte di compositori successivi (Brahms, Rachmaninov). Per questa serata, ho scelto una giovane violinista tedesca, del 1983, Julia Fischer, vincitrice di numerosi e prestigiosi concorsi internazionali, artista ospite dei Berliner Philharmoniker e della London Philharmonic Orchestra.
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Proprio le sue interpretazioni dei 24 Capricci di Paganini hanno ricevuto grandi apprezzamenti dalla critica. Julia Fischer al violino, in un’interpretazione di eccelso virtuosismo e di grande chiarezza espositiva.
GIOACHINO ROSSINI: GUGLIELMO TELL – “TUTTO CANGIA, IL CIEL S’ABBELLA” Gioachino Rossini viene considerato un punto di passaggio tra la musica del ‘700 e quella dell’800. Tra il 1813 e il 1817 egli scrisse le sue opere più famose: Tancredi; L'italiana in Algeri, Il Turco in Italia; Il Barbiere di Siviglia (1816); Gazza ladra e Cenerentola (1817). Queste opere costituiscono la conclusione e insieme il momento più alto della storia dell'opera buffa italiana. Nel 1822 Rossini si stabilì a Parigi, dove rimase fino alla morte. Qui compose il Guglielmo Tell, in cui sono narrate le vicende dell’eroe nazionale svizzero, un tema nazionalistico tipicamente romantico. Dopo il Guglielmo Tell, Rossini, pur acclamato e ancora giovane, prese la decisione di abbandonare il teatro. Di quest’opera, nella serata dedicata al Romanticismo nella Francia del 1800, abbiamo già ascoltato l’ultimo movimento della famosa Ouverture nella travolgente interpretazione di Riccardo Muti, mentre per stasera ho scelto la pagina finale, un pezzo che riconoscerete sicuramente al primo ascolto. Fu la sigla dell’apertura delle trasmissione RAI dal 1954 sino al 1986. Fu Erberto Carboni grafico e illustratore, a realizzare questa sigla, che mostrava un traliccio bianco, avvolto da una rete dello stesso colore, che entrava dall'alto per scorrere verso il basso.
Sigla RAI di inizio trasmissioni.
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Sempre di Carboni era la sigla di chiusura delle trasmissioni, andata in onda anch'essa dal 1954 fino al 1986. Era simile a quella di apertura, con la differenza che il traliccio, di disegno diverso e più corto, scorreva dal basso verso l'alto, mentre l'accompagnamento musicale era tratto dalla composizione per oboe, arpa e orchestra denominata Armonie del pianeta Saturno del musicista Roberto Lupi. Ritorniamo…all’opera! ♫♫ Gli arabeschi dell'arpa aprono questa scena conclusiva, dove le nuvole svaniscono e il sole ritorna a splendere, comunicando la partecipazione dell'intera Natura ai festeggiamenti per la morte dell'oppressore ad opera di Guglielmo Tell e per la liberazione della città. Tutti cantano uno splendido inno alla magnificenza della natura: “Tutto cangia, il ciel s’abbella”. Testo:
"Tutto cangia, il ciel s'abbella, l'aria è pura, il dì raggiante, la natura è lieta anch'ella. Può allo sguardo un solo istante or nuovo il mondo rivelare! E in ogni cor pel santo evento alzi un grido al ciel tonante: di tuo regno fia l'avvento sulla terra libertà, o libertà". Le voci sono di Robert Milnes, Luciano Pavarotti, Mirella Freni, e Nicolaj Ghiaurov. Riccardo Chailly dirige la National Philharmonic Orchestra. Il video che accompagna questo bellissimo coro finale si apre e si sviluppa in una serie di immagini dove la Natura regna sovrana.
VINCENZO BELLINI: NORMA, “OUVERTURE” – “CASTA DIVA” Vincenzo Bellini nacque a Catania nel 1801, e morì all’età di soli 34 anni (come Mozart) in Francia, per una infezione intestinale da ameba. La musica di Bellini è un singolare connubio tra classicità e romanticismo. Classicista era la formazione ricevuta a Napoli, basata sui modelli della scuola operistica napoletana (Paisiello), di Haydn e di Mozart, che trovava un adeguato terreno nella personale tendenza del nostro musicista a valori poetici come armonia e compostezza. Romantico era invece il pathos delle sue opere, l'importanza che le passioni e i sentimenti assumono nelle vicende rappresentate.
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Il punto di raccordo fra le due tendenze era la melodia, che, senza venir meno a una classica sobrietà, creò atmosfere sognanti, sensuali e malinconiche, tipiche del Romanticismo. Il suo fu uno stile personale, basato su una maggiore aderenza della musica al dramma e sul primato del canto espressivo (sia esso vocale o strumentale) rispetto al canto fiorito. Scrisse solo 10 opere, tra le quali sono celeberrime La sonnambula, i Puritani, Capuleti e Montecchi, ma la sua opera più conosciuta è Norma (con la quale abbiamo inaugurato la sezione “Melomania” nel 1° numero del nostro periodico “Gli Amici del Loggione”). Norma fu composta in meno di tre mesi, nel 1831, e fu data in prima assoluta al Teatro alla Scala di Milano, dove andò incontro a un fiasco clamoroso, dovuto sia a circostanze legate all'esecuzione, sia alla presenza di una claque avversa a Bellini e alla primadonna, il soprano Giuditta Pasta. Non solo, ma l'inconsueta severità della drammaturgia e l'assenza del momento più sontuoso, il concertato (la parte di un'opera lirica in cui i personaggi e il coro intrecciano le loro linee vocali in forma polifonica, che tradizionalmente chiudeva il primo dei due atti), spiazzò il pubblico milanese. Il soggetto è ambientato nella Gallia durante la dominazione romana, e presenta espliciti legami con il mito di Medea: Norma è una sacerdotessa druida, che sarà protagonista di una tragica vicenda di amore per Pollione, un proconsole romano, che la porterà a morte sul rogo. ♫♫ Ascoltiamo la celeberrima Ouverture (o Sinfonia). La Sinfonia della "Norma" è un brano vivace ed energico, che presenta qualche riferimento allo stile rossiniano (dalla partenza esplosiva al concitato tema in sol minore con il ribattuto degli archi) ma che cambia improvvisamente direzione in una sezione finale (stavolta in sol maggiore) assai diversa, più elegiaca e ricca di pathos, grazie anche all'utilizzo dell'arpa e dei fiati. Nel suo insieme, sottolinea bene e in maniera suggestiva i contrasti fra i caratteri e le psicologie dei vari personaggi: si passa infatti da un tema marziale e solenne (per i guerrieri e i sacerdoti) a uno più "romantico" e contemplativo (l’amore di Norma per Pollione e per i due figli). L’ascoltiamo nella interpretazione dell’Orchestra del Teatro La Fenice di Venezia, diretta da Daniel Harding, giovane ma affermatissimo direttore d’orchestra britannico, assistente di Claudio Abbado presso i Berliner Philharmoniker, attualmente direttore ospite principale della London Symphony Orchestra. ♫♫ L’aria più suggestiva dell’opera è Casta Diva, che costituisce una preghiera che la sacerdotessa gallica eleva alla luna, durante il rito celtico di Irminsul: è la pagina più celebre composta da Bellini, ed è universalmente considerata una delle più belle arie di tutta la musica classica. 12
La struttura in due strofe ("Casta Diva", "Tempra, o Diva"), ricalca quella di una romanza. Le prime 10 battute della melodia sono anticipate dalla voce del primo flauto, raddoppiato nelle battute finali dal primo oboe. Tra le due strofe si colloca una sezione intermedia, in cui il coro ripete sotto voce i versi di Norma su una melodia sillabica che fa da sfondo ai vocalizzi del soprano. La melodia principale è un tipico esempio dello stile belliniano, in cui le fioriture presentano carattere di arabesco anziché di passaggio di agilità. [Maria Callas, Norma. Teatro Bellini - Catania. 1950]
Testo:
NORMA: Casta Diva che inargenti queste sacre antiche piante, a noi volgi il bel sembiante senza nube e senza vel. Tempra o Diva, tempra tu de' cori ardenti, tempra ancor lo zelo audace, spargi in terra quella pace che regnar tu fai nel ciel. La poliedricità del personaggio e della sua vocalità - che passa dal lirismo più puro ad accenti di sconvolgente drammaticità - ne fanno uno dei ruoli più impervi per voce di soprano, tanto che l'opera è oggi più famosa che rappresentata. Norma divenne il cavallo di battaglia di alcuni grandi soprani del passato, tra le quali su tutte emerge la figura di Maria Callas. Ho scelto per questa serata questa interpretazione da brividissimi tratta da un recital di Maria Callas, che vi farà comprendere in pieno la grandezza vocale tragica di questo soprano greco. Gabriele Santini dirige l’Orchestra della Rai di Roma. La registrazione è del 1957. La qualità del filmato risente della tecnica della registrazione, tenete conto che è di 60 anni fa. Io so che tutti conoscete il nome di Maria Callas, ma non so quanti di voi hanno mai ascoltato con attenzione una sua registrazione. Non credo molti. Quando finirà questa serata e vi alzerete dal vostro tavolo, sono sicuro che direte: Ho se tito a ta e Ma ia Callas! e vi terrete questa registrazione nel cuore, come un’emozione intensa!
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GAETANO DONIZETTI: L’ELISIR D’AMORE, “UNA FURTIVA LAGRIMA” Mentre la carriera di Bellini veniva bruscamente interrotta dalla morte, alla ribalta salì il bergamasco Gaetano Donizetti (1797–1848), autore di opere quali Anna Bolena, Lucia di Lammermoor, La Favorita. Sono opere profondamente drammatiche: il Romanticismo italiano voleva essere molto serio, molto tragico, e preferiva quindi vicende che si concludevano con la morte dei protagonisti, con trame ambientate in tetri castelli medievali o in antichi palazzi nobiliari. Non solo: quasi sempre le storie ruotavano attorno a un amore impossibile, complicato per di più da questioni politiche, dalla lotta fra due partiti o fazioni avverse ecc. Nel 1800 l’opera buffa non era però scomparsa del tutto, anche se la sua importanza era ormai ridotta rispetto al secolo precedente. Donizetti, per esempio, scrisse L’elisir d’amore e Don Pasquale, due opere buffe a lieto fine, con molte scene decisamente comiche, ma nelle quali il compositore, da bravo romantico, inserì anche molte scene patetiche e sentimentali. ♫♫ A esemplificazione di quanto appena detto, ho scelto l’aria “Una furtiva lagrima” tratta da L'elisir d'amore (1832), opera che la tradizione vuole sia stato composta in soli quindici giorni (per Donizetti tempi simili possono però stupire meno che per altri). In breve, la trama: il contadino Nemorino è innamorato, non ricambiato, della bella Adina. Per conquistare l’amata, acquista dal dottor Dulcamara, un truffatore che si spaccia per medico di grande fama e che vende alla gente credulona dei portentosi preparati, un elisir d’amore (in realtà soltanto una bottiglia di Bordeaux). Si sparge la voce che Nemorino abbia ricevuto una grossa eredità e questa notizia fa sì che le ragazze del paese lo corteggino. Adina si ingelosisce, ed è a questo punto che Nemorino si accorge di una lacrima spuntata dagli occhi della sua amata Adina, e capisce di essere ricambiato: è convinto che sia merito dell'elisir d'amore. La storia sarà a lieto fine. L'aria è introdotta da un'arpa seguita poco dopo da un fagotto, che fornisce una sfumatura malinconica a tutta la melodia.
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Testo:
NEMORINO: Una furtiva lagrima negli occhi suoi spuntò: Quelle festose giovani invidiar sembrò. Che più cercando io vò? M'ama! Sì, m'ama, lo vedo. Un solo istante i palpiti del suo bel cor sentir! I miei sospir, confondere per poco a' suoi sospir! I palpiti, i palpiti sentir confondere i miei co' suoi sospir! Cielo! Si può morir! Di più non chiedo, non chiedo. Ah, cielo! Si può morir d'amor. L’interpretazione da me scelta è quella di Luciano Pavarotti, in uno dei suoi cavalli di battaglia. La dizione chiarissima, il tempo, i pianissimo, ogni nota ben scolpita, una straordinaria espressione di sentimenti interiori...; è un’interpretazione molto apprezzata da critica e pubblico, con il nostro tenore nel pieno della sua maturità vocale con una voce possente che entra nel cuore di chi lo ascolta e che ci commuoverà (noi
sensibili
musicofili!)
fino
alle…
lacrime! Dal punto di vista fisico qui Luciano Pavarotti spanzeggia (neologismo! Vado a registrare il copyright ©…), cioè riempie lo sguardo visivo della scena con la sua fisicità imponente. [Per la cronaca, la voce di Pavarotti in questo brano avrebbe mandato in tilt le nostre casse acustiche durante la serata!] Luciano Pavarotti, Kathleen Battle. Orchestra e Coro del Metropolitan di New York, dir. James Levine. Anno 1989.
GAETANO DONIZETTI: LUCIA DI LAMMERMOOR “SCENA DELLA FOLLIA” Lucia di Lammermoor è, con L’elisir d’amore e Don Pasquale, l’opera più popolare di Donizetti, e può essere considerata la prima e più alta espressione del teatro romantico italiano. Troverete la spiegazione dettagliata dell’intera opera nella sezione “Melomania” di questa stessa Rivista (pag. 77 e segg.).
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In
quest’opera,
la
musica
di
Donizetti fa emergere di battuta in battuta una differenza evidente e abissale tra il mondo femminile di Lucia fatto di un susseguirsi continuo di diversi sentimenti, amore ed emozioni maschile
e dove
quello
unilaterale
trionfano
quasi
unicamente la smania di potere, di guerra (quindi di distruzione) e l’odio. ♫♫ Il culmine dell’opera è la famosa scena della follia (aria: Il dolce suono): Lucia è impazzita e, durante la prima notte di nozze, mentre ancora si celebrano i festeggiamenti, pugnala il marito Arturo nella stanza degli sposi. Procede quindi nella sala dove si tiene la festa, sporca di sangue e inconsapevole di quel che ha fatto, rievocando i suoi incontri con Edgardo e immaginando di essere sposata con quest'ultimo. Lucia, vaneggiando, continua a nominare Edgardo, gli giura la sua innocenza, lo supplica di non fuggire, e infine gli annuncia la sua morte, promettendo che l’attenderà in cielo per un amore eterno. Spesso nella rappresentazione dell’opera si seguono i cliché di quello che noi pensiamo sia una persona folle, con strani gesti e atteggiamenti secondo me gratuiti, che non arrivano in nessun modo al vero nucleo di questa storia: Lucia non è altri che una donna che trabocca d’amore (per Edgardo). In questa scena è importante la funzione del coro, che commenta gli avvenimenti così come succedeva nella tragedia greca. Testo:
LUCIA: Il dolce suono mi colpì di sua voce! Ah, quella voce m'è qui nel cor discesa! Edgardo! io ti son resa. Edgardo! Ah! Edgardo, mio! Sì, ti son resa! Fuggita io son da' tuoi nemici. Un gelo me serpeggia nel sen! trema ogni fibra! vacilla il piè! Presso la fonte meco t'assidi alquanto! Sì, Presso la fonte meco t'assidi. Ohimè, sorge il tremendo fantasma e ne separa! Qui ricovriamo, Edgardo, a piè dell'ara. Sparsa è di rose! Un'armonia celeste, di', non ascolti? Ah, l'inno suona di nozze! Il rito per noi s'appresta! Oh, me felice! Oh gioia che si sente, e non si dice! Ardon gl'incensi! Splendon le sacre faci, splendon intorno! Ecco il ministro! Porgimi la destra! Oh lieto giorno! Al fin son tua, al fin sei mio, a me ti dona un Dio. Ogni piacer più grato, mi fia con te diviso. Del ciel clemente un riso la vita a noi sarà. Il suicidio del protagonista maschile suggella la tragedia in maniera sconvolgente, regalando al pubblico il coronamento più intenso di una passione romantica destinata a passare alla storia. Nel filmato vedremo Lucia nella scena della follia magnificamente interpretata da Natalie Dessay, una grande artista con dote interpretative e drammatiche fuori dal comune, ritiratasi dalle scene 16
liriche nel 2013: la sua è una Lucia nevrotica, allucinata, tutta febbrili soprassalti di sbigottita dolcezza straziante e di paurosi vuoti della ragione; anche se non siamo ai livelli assoluti delle storiche imperdibili Callas e Sutherland, la recitazione è molto brillante. Ascoltiamo Natalie Dessay in un live dell’Opéra National de Lyon, nella versione francese dello stesso Donizetti. Una considerazione personale a margine di questo brano. Nel febbraio 2014 al Teatro alla Scala venne rappresentata una edizione della Lucia importata dal Met di New York (del 2007). Capisco le rivisitazioni registiche moderne, capisco soluzioni che fanno parlare i media, ma nella scena della pazzia, spogliata di ogni fascino e appesantita da elementi caricaturali, la protagonista viene addirittura soccorsa da medici e infermieri che le praticano una iniezione di calmante per attenuarne gli sproloqui e le risatine isteriche… No, vi prego, il Valium no!
GIUSEPPE VERDI: NABUCCO, “VA PENSIERO” Arriviamo a colui che è stato un gigante dell’800 musicale non solo italiano, Giuseppe Verdi (1813–1901). Verdi è considerato il più patriottico dei compositori italiani: un patriottismo che si esprime soprattutto nelle pagine corali delle sue opere, dove viene dato libero sfogo all'amore per la patria e agli ideali di libertà di lotta per un popolo soppresso e soggiogato. Giuseppe Verdi si sentì sempre vicino alla causa dell’Italia: patriota convinto, non mancò affatto di dialogare artisticamente con la sua attualità storica, creando nelle sue opere un humus di forte attaccamento alla nazione italiana e ai sopracitati ideali di libertà e fratellanza di popolo. Il
compositore
di
Busseto
riusciva
a
creare
melodie
immediatamente comprensibili per il suo pubblico, e fu proprio grazie a questo che la sua musica, benché artisticamente alta, può anche considerarsi eminentemente popolare. Nelle sue prime opere, come Nabucco o I Lombardi alla prima crociata, abbondano le scene corali, di massa: i cori tratti da queste opere divennero subito famosi, perché interpretavano i sentimenti politici anti-austriaci prevalenti a quell'epoca. Queste due opere vennero rivisitate in chiave patriottica dagli italiani, che usavano anche scrivere sui muri “Viva V.E.R.D.I.” intendendo “Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”. Verdi diventò così un simbolo, il compositore più amato dai liberali italiani. 17
♫♫ Nabucco fu rappresentata per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano, il 9 marzo 1842: “Va, pensiero sulle ali dorate”, uno dei cori più noti della storia della lirica, è collocato nella parte terza dell’opera, dove viene cantato dagli Ebrei prigionieri in Babilonia. I versi, che sono del poeta Temistocle Solera, furono ispirati dal salmo 137 Super flumina Babylonis (Sui fiumi di Babilonia). Questo coro presenta lo schema proprio dell'ode, che condivide con l'inno un rigido codice, rappresentando un modello riservato a testi "di alto spessore", per significato e valore civile e religioso, epico e patriottico. Il tono oratorio è perciò solenne e ingiuntivo, destinato ad ottenere la persuasione e trascinare l'ascoltatore all'azione. Il testo è ricco perciò di interiezioni ("Oh mia patria", "Oh membranza"), di esclamazioni ("Va', ti posa", "saluta", "raccendi", "ci favella", "traggi", "t'ispiri"). Molto classicheggianti sono anche le personificazioni indirette del pensiero e dell'arpa, per mezzo dell'apostrofe, una figura retorica volta ad indurre una forte emozione e un coinvolgimento intenso. La relazione comunicativa che si instaura è espressa dai pronomi di persona. Il coro si rivolge col "tu" prima al pensiero, la patria e la membranza, poi all'arpa e solo alla fine assume il plurale della prima persona: "ci favella, ne infonda". Questo brano è stato interpretato come
una
metafora
della
condizione dell'Italia di allora, assoggettata all'epoca al dominio austriaco; la censura di Vienna avrebbe certamente impedito la circolazione del brano, e da ciò scaturì la scrittura allegorica. Qualche anno fa venne proposto con alcune modifiche testuali - come inno nazionale italiano, al posto del Canto degli Italiani (conosciuto come Fratelli d’Italia) scritto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro nel
1847: il testo originale venne ritenuto però poco adatto perché è il canto di un popolo diverso dall'italiano (gli antichi ebrei) e per di più sconfitti. Come sottolineato più volte da Riccardo Muti, il coro musicato da Verdi ha un altro piglio, in sostanza è un "canto di perdenti", oltre che un lamento e una preghiera. Lo stesso Verdi impose un tempo lento e grave. Mettere in discussione Mameli piuttosto che Verdi non ha senso: "Fratelli d'Italia" fa parte della nostra storia ed esprime i valori e gli onori di chi è caduto per la patria. Testo:
CORO: Va, pensiero, sull'ali dorate; va, ti posa sui clivi, sui colli, ove olezzano tepide e molli l'aure dolci del suolo natal! Del Giordano le rive saluta, di Sïonne le to i atte ate… 18
Oh mia patria sì bella e perduta! Oh membranza sì cara e fatal! Arpa d'or dei fatidici vati, perché muta dal salice pendi? Le memorie nel petto riaccendi, ci favella del tempo che fu! O simile di Solima ai fati traggi un suono di crudo lamento, o t'ispiri il Signore un concento che ne infonda al patire virtù! Ascoltiamo “Va pensiero” in questa suggestiva ed emozionante interpretazione del Metropolitan Orchestra e Chorus, New York, dir. James Levine]. Bellissima la regia di Moshinsky, suggestiva quanto lineare la scenografia di John Napier. Nel video lascerò il bis del brano: la commozione dei coristi e dell’orchestra ha prodotto una interpretazione ancora più ricca di pathos e di emotività palpabile.
“Viva L’Italia: o mia Patria, sì bella e perduta!” Come ha detto giustamente il Maestro Riccardo Muti, in occasione di una rappresentazione del Nabucco nel 2011 al Teatro dell’Opera di Roma: «Se noi uccidiamo la cultura su cui è fondata la storia dell’Italia, veramente la nostra Patria sarà bella e perduta.»
GIUSEPPE VERDI: IL TROVATORE, “VEDI! LE FOSCHE NOTTURNE SPOGLIE” (CORO DEGLI ZINGARI) Passiamo adesso ad un’altra celeberrima opera verdiana, Il Trovatore, ambientata nella Spagna del 1600, una storia che coinvolge una zingara, Azucena, il nobile Conte di Luna, la dama Leonora e Manrico che si cela sotto le sembianze di un Trovatore. La storia avrà una conclusione tragica per tutti. Nel 2° numero de Gli Amici del Loggione ho ampiamente parlato di quest’opera ed ad essa rimando chi vorrà approfondire l’argomento. ♫♫ Il brano da me scelto è “Vedi! Le fosche notturne spoglie” (o Coro degli zingari), che apre il 2° atto dell’opera. La scena rappresenta un luogo inaccessibile e remoto dove risuonano vibranti sonorità: è l’accampamento degli zingari sui monti della Biscaglia. E’ notte. Gli zingari aspettano l’alba per iniziare il lavoro, bevono in allegria e cantano in coro scandendo il ritmo sugli strumenti di mestiere, tra bagliori e fuochi. L’orchestra freme in una danza travolgente, crepitante in timbri multicolori.
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Testo:
TUTTI: Vedi! Le fos he ottu e spoglie, de’ ieli s este l’i e sa olta; se a u a edo a he alfin si toglie i u i pa i o d’e a i olta. All’op a! all’op a! Dàgli, a tella. Chi del gitano i giorni abbella? Chi del gitano i giorni abbella? Chi, chi, chi i giorni abbella? Chi del gitano i giorni abbella? La zingarella! Versami un tratto; lena e coraggio il corpo e l’a i a t aggo dal e e. Oh gua da, gua da! Del sole u aggio illa più i ido el io i hie e. All’op a, all’op a. Chi del gitano i giorni abbella? Chi del gitano i giorni abbella? Chi, chi, chi i giorni abbella? Chi del gitano i giorni abbella? La zingarella! Ascoltiamo questo celeberrimo pezzo corale nella coloratissima e scintillante interpretazione della Metropolitan Orchestra e Chorus di New York sotto la direzione di James Levine. Anno 2002.
AMILCARE PONCHIELLI: LA GIOCONDA, LA DANZA DELLE ORE Interrompiamo (per spezzare la monoliticità) l’esposizione delle opere di Giuseppe Verdi, per dare uno giusto spazio ad Amilcare Ponchielli, un musicista cremonese che conobbe ai suoi tempi grande fama come compositore, ma che fu altrettanto rapidamente relegato ai margini della storia della musica dopo l'avvento dell'opera verista. Delle sue opere, l’unica che è rimasta in repertorio è La Gioconda, un dramma lirico, musicato su libretto di Arrigo Boito, e rappresentato per la prima volta il 18 ottobre 1876.
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Narra una complicata storia di amore, tradimenti e morte, ambientata a Venezia alla corte del doge Alvise Badoero. ♫♫ Nell’atto terzo, c’è uno splendido intermezzo coreografico, universalmente noto come “La danza delle Ore”. Il librettista Arrigo Boito immaginò dodici ballerine che, danzando in cerchio, rappresentassero le dodici ore, e due ballerini che, danzando nel mezzo, raffigurassero le lancette. Musica e balletto descrivono in una splendida progressione sinfonica l'avanzare delle ore del giorno e della notte. Presento il brano di Ponchielli accompagnato da una stupenda coreografia di Gheorghe Iancu, un vero gioiello teatrale grazie ai due primi ballerini, Letizia Giuliani e Angel Corella, un vero capolavoro di grazia e leggiadria.
Letizia Giuliani e Angel Corella - Gran Teatre del Liceu di Barcellona. Anno 2013.
GIUSEPPE VERDI: LA FORZA DEL DESTINO, OUVERTURE La trama, shakespeariana, narra dell’amore impossibile (osteggiato dalla famiglia di lei) tra Leonora di Vargas e Alvaro. Questi uccide accidentalmente il padre di Leonora, e i due sono costretti a scappare . Il fratello di Leonora, don Carlo, li inseguirà per anni per vendicare la morte del genitore.
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Alla fine della intricata storia, Leonora, pugnalata dal fratello don Carlo, muore tra le braccia dell’amato Alvaro, che ucciderà in duello don Carlo. E’ sinistra la fama che aleggia su quest’opera, che si è guadagnata la triste fama di “opera jettatrice”, basandosi su superstizioni teatrali ed esperienze realmente accadute (l’episodio più tristemente celebre è la morte del baritono Leonard Warren, deceduto per emorragia cerebrale, mentre stava cantando proprio la Forza al Metropolitan di New York). Tale fama le è stata affibbiata anche per la sua trama: i protagonisti non riescono a fuggire dal proprio destino, che incombe tremendo e magnetico sopra di loro. Tale ineluttabilità della sorte è ben resa dal ricorrente leitmotiv del destino, presente nella Sinfonia, e ricorrente, soprattutto, nella prima delle due romanze dedicate a Leonora. ♫♫ La superba e famosa Sinfonia che apre l’opera si concentra principalmente su due temi: un motivo "fato" suonato dagli archi e una melodia più lenta e lirica presa da una preghiera cantata nel secondo atto da Leonora. La ascoltiamo nell’appassionata e grandiosa interpretazione della Rundfunk Sinfonie Orchester di Berlino diretta da Riccardo Chailly (1983). Vorrei aprire una breve parentesi per parlare della figura del direttore d’orchestra. Il direttore, a partire dal 1800, ha innanzitutto un ruolo interpretativo, cioè fa le scelte musicali fondamentali (andamento, tempo, dinamiche) illustrando a strumentisti, cantanti solisti e coristi la propria impostazione generale del componimento musicale da eseguire. Inoltre, ha una funzione di concertazione, ed è d'aiuto per la coordinazione dei musicisti durante le prove e la performance, indicando il tempo e gli ingressi delle voci. Un esempio: dello stesso brano verdiano appena ascoltato sentiremo, in un breve spezzone, l’interpretazione che ne fece Arturo Toscanini. Ve la propongo per farvi “assaporare” la tecnica di stile del più grande direttore d’orchestra italiano e tra i massimi al mondo. Toscanini pretendeva una lettura semplice, asciutta, immune da contaminazioni, nella certezza che la pagina musicale non debba nascondere la ricerca di chissà quali terre promesse.
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"Perché andare a cercare quello che non c'è sotto la pagina? - aveva detto una volta Toscanini a Salisburgo - sulla pagina c'è già tutto, le intenzioni non sono mai segrete, ma sempre chiaramente espresse nella scrittura.”. Fedeltà al testo è dunque fedeltà all'autore, aderenza all'opera, rispetto della persona. Guardate comunque il gesto preciso, autoritario, quasi dittatoriale del grande Maestro, padre padrone dagli incontenibili furori, dittatore del podio con fama di massimo interprete verdiano e con le carte in regola nel curriculum di antifascista (quello schiaffo che gli fece saltare tutte le fasi preliminari nel processo di canonizzazione politica). Toscanini dirige la NBC in un’incisione del 1944 (vedremo i primi 1:28) Toscanini aveva un carattere difficilissimo. In questa registrazione audio, ascoltiamo il Maestro mentre sta provando la Traviata con i suoi orchestrali della NBC Orchestra; egli si arrabbia (eufemismo…) con il primo contrabbassista dell’orchestra, colpevole, assieme ai suoi colleghi, di non andare a tempo e di non essere adatto a suonare la musica operistica italiana. Direi che possiamo “godere” dei suoi sproloqui, felici di non essere stati uno dei suoi orchestrali… Toscanini – Prove dalla Traviata Celeberrima frase di Arturo Toscanini, ai musicisti della NBC Orchestra: "Dopo morto, tornerò sulla terra come portiere di bordello e non farò entrare nessuno di voi!"
GIUSEPPE VERDI: LA TRAVIATA, PRELUDIO I ATTO - “LIBIAM NE’ LIETI CALICI” La Traviata fa parte, assieme al Rigoletto e a Il trovatore, della cosiddetta “trilogia popolare”, opere nelle quali Verdi approfondì la psicologia dei suoi personaggi. Non c'è nulla che non commuova in quest'opera dall'inizio alla fine, un'alternanza di emozioni che restano attualissime. La protagonista, Violetta, è stata elevata da Verdi e Piave ad eroina del dramma d'amore. Tratta da La signora delle camelie, opera teatrale di Alexandre Dumas figlio, La traviata narra la tragica storia d’amore tra Violetta Valery una giovane cortigiana parigina, dedita al lusso e ai piaceri, nonostante sia ammalata di tisi, e Alfredo Germont, un giovane di buona famiglia.
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Dopo pochi mesi che i due vivono assieme, Giorgio Germont, il padre di Alfredo, convince Violetta a lasciare il suo amato per sempre, perché quel legame non è socialmente ammissibile; se continueranno a vivere sotto lo stesso tetto, anche il matrimonio della sorella di Alfredo non si potrà celebrare. Violetta, sconvolta, scrive una lettera ad Alfredo, in cui dice di avere nostalgia della sua vita di prima e di aver deciso di tornare a Parigi; pur sapendo di attirarsene la rabbia e il disprezzo, per amore del suo uomo, è pronta a compiere qualsiasi sacrificio. Nel 3° e ultimo atto dell’opera, Violetta giace a letto, ormai gravemente malata, e sente che ormai le resta poco da vivere: dice addio a bei sogni del passato e invoca il perdono di Dio. Alfredo ha scoperto dal padre tutta la verità, ma quando arriva a riabbracciare l’amata Violetta, ella muore. Anche il padre di Alfredo, pentito di quello che ha fatto, fa in tempo a chiederle perdono prima che si spenga. Sono
numerose
rappresentatissima
le
arie
celebri
“Libiam
nei
di
quest’opera,
lieti
calici”,
dalla ormai
prezzemolino onnipresente dei vari Concerti di Capodanno veneziani, all’appassionato e tragico grido di amore di Violetta “Amami Alfredo”, al Coro delle zingarelle, a “Pura siccome un angelo” e ancora “Sempre libera” e “Addio bel passato”, ma per questa serata (dovendo cercare di dare un giusto equilibrio tra le parti solo “suonate” e quelle cantate), ho scelto di farvi sentire il non meno celeberrimo Preludio dell’Atto I, un toccante brano che rende appieno la tragedia finale dell’opera.
♫♫ Questo Preludio è una sorta di rilettura a ritroso dell’opera: infatti ne ripercorre i momenti principali, ma partendo dalla fine per poi concludersi con l’inizio. Il primo tema è struggente, tragico e drammatico, trasmette le tensioni e le sofferenze della protagonista, Violetta; questo tema verrà ripreso anche nel preludio del III atto, quando Violetta sarà ormai malata e morente. Il secondo tema musicale è quello che Violetta canterà nel II atto, “Amami, Alfredo!”, inno del suo amore appassionato e disinteressato (la ragazza lo intonerà al termine della
prima scena del secondo atto, quando aveva già deciso di farsi da parte su richiesta del vecchio Germont). Alla fine la melodia si fa via via più leggera e frivola (attraverso i movimenti degli archi), per introdurre la scena con cui si apre l’opera: una festa in cui Violetta e i suoi invitati passano il tempo nell’ebbrezza dei piacere mondani. In questo Preludio quindi ritroviamo i tre aspetti principali del personaggio di Violetta: la martire, la donna innamorata che si sacrifica per amore, la cortigiana spensierata.
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Raffinatissima l’interpretazione della Orchestra & Chorus of The Royal Opera House, dirige Sir Georg Solti. Un’esecuzione di altissimo pregio! Convent Garden di Londra, anno 1994. Osservate lo sguardo penetrante dell’ormai anziano ma sempre carismatico direttore! ♫♫ [Atto I, scena 2]: Violetta sta tenendo una festa nella sua casa a Parigi; ad un certo punto lei e i suoi ospiti invitano Alfredo ad improvvisare un brindisi che inneggi alle gioie del vino, dell’amore e del piacere, ed egli intona questo celebre brindisi in tempo di valzer, a cui si uniscono Violetta e gli altri invitati. In questo clima festoso già è evidente l’amore che sta nascendo tra Violetta e Alfredo.
Testo:
ALFREDO: Libiamo, libiamo ne' lieti calici, che la bellezza infiora; e la fuggevol' ora s'inebrii a voluttà. Libiam ne' dolci fremiti che suscita l'amore, poiché quell'occhio al core onnipossente va. Libiamo, amore; amor fra i calici più caldi baci avrà. TUTTI: Libiam, amor fra i calici Più caldi baci avrà. VIOLETTA: Tra voi, tra voi saprò dividere il tempo mio giocondo; tutto è follia follia nel mondo ciò che non è piacer. Godiam, fugace e rapido è il gaudio dell'amore; è un fior che nasce e muore, né più si può goder. Godiam c'invita c'invita un fervido accento lusighier. TUTTI: Ah! Godiamo, la tazza e il cantico la notte abbella e il riso, in questo in questo paradiso ne scopra il nuovo dì. VIOLETTA: La vita è nel tripudio... ALFREDO: Quando non s'ami ancora... VIOLETTA: Nol dite a chi l'ignora, ALFREDO: È il mio destin così... TUTTI: Godiamo, la tazza la tazza e il cantico la notte abbella e il riso, in questo in questo paradiso ne scopra il nuovo dì.
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Ascoltiamo la superba interpretazione ancora di Maria Callas con il tenore Francesco Albanese. Orchestra sinfonica della Radiotelevisione di Torino diretta da Gabriele Santini. Auditorium RAI, Torino, 1953. Il personaggio di Violetta resta l’emblema ed il simbolo anche, in parte, della rivoluzione effettuata nel mondo del melodramma. Verdi, infatti, voleva con quest’opera chiudere il retaggio romantico, rendere essenziale il dramma, sublimare la struttura formale chiusa (arie e cabalette) con mezzi drammaturgicamente coinvolgenti. In questo senso Maria Callas è stata interprete capace di intendere appieno il messaggio verdiano. Se un musicista come Verdi
aveva
pensato
ad
una
particolare Violetta, questa fu senza alcun dubbio Maria Callas. Non a caso il celebre regista Luchino
Visconti,
che
l’aveva
guidata in ben cinque opere diverse,
affermerà:
“Tutte
le
Traviate che verranno, tra poco, non subito (perché la presunzione umana è un difetto difficilmente eliminabile) avranno un po’ della Traviata di Maria, un po’, in principio, poi molto, poi tutto. Le Violette future saranno Violette-Maria”. E’ fatale, in arte, quando qualcuno insegna qualcosa agli altri, alle altre. Maria ha insegnato”. ♫ Amici del Vinile, ancora una volta direte: Ho se tito a ta e Ma ia Callas! .
GIUSEPPE VERDI: MESSA DA REQUIEM, “DIES IRAE - TUBA MIRUM” Verdi rimase molto impressionato dalla morte di Alessandro Manzoni, avvenuta il 22 maggio 1873. Manzoni, come Verdi, si era impegnato per l'unità di Italia avvenuta pochi anni prima, e condivideva dunque con lui i valori tipici del Risorgimento, di giustizia e libertà. La sua morte gli fornì dunque l'occasione per completare un suo vecchio progetto di scrivere una Messa funebre. Una prima parte Verdi l’aveva già scritta in occasione della morte di Rossini, ma era rimasta incompleta: quando, una decina d'anni dopo Manzoni morì, Verdi decise che questa era l'occasione per completare lo spartito. La Messa fu eseguita in occasione del primo anniversario della morte di Manzoni, il 22 maggio 1874, nella Chiesa di San Marco a Milano, e fu diretta dallo stesso Verdi.
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Il testo liturgico della messa funebre ci dà un quadro drammatico sulla fine della nostra vita: l'attesa del confronto col Signore dei cieli, la solitudine dell'anima e il rimorso dei peccati commessi, la tragica prospettiva dell’Inferno oppure l'anelito alla beatitudine del Paradiso. La potenza del divino. La incompiutezza e l’infelicità degli uomini. Il Requiem di Verdi ha una misura scenica “teatrale”, adatta più ad un concerto che ad una messa religiosa: presenta una musica intensa, ricca di armonia e perfino di frasi melodiche inusuali per un testo di musica sacra. Opera melodrammatica? La risposta è forse si: Verdi vi profuse tutte le sue potenzialità poetiche e melodiche, affidando ai solisti la parte principale e utilizzando il coro come commento alle vicende del testo. Mi è naturale comparare quest’opera al Requiem di Mozart, a mio avviso una delle opere più alte che siano state scritte nella storia della musica; premetto che non voglio confrontare le due composizioni per stabilire quali dei due sia esteticamente più riuscita dell'altra, operazione impossibile e criticamente assurda. Trovo che il Requiem mozartiano non abbia alcuna parentela con la teatralità del melodramma: infatti è il coro a farla da protagonista mentre i solisti sono utilizzati per sottolineare i titoli del testo liturgico. Il coro, cioè l'umanità, più ancora che l'individuo. Il Requiem mozartiano eleva l'animo verso il Signore, e, via via che l'esecuzione prosegue, crea un sempre maggiore coinvolgimento emotivo, giungendo al Lacrimosa che commuove e strazia l'animo umano. Queste due Messe da Requiem non sono composizioni ascrivibili al genere della musica sacra, ma sia per Mozart che per Verdi sono state occasioni per confrontarsi con la morte e con i temi ad essa connessi. Mozart o Verdi? Seguo quello che diceva Gioachino Rossini: ''Mozart sempre!'' Testo:
Dies iræ dies illa, Solvet sæclum in favilla, teste David cum Sybilla. [Quel gio o sa à u gio o d’i a, si ved à tutto l’u ive so i faville: la Sibilla e David lo attestano.] Quantus tremor est futurus, quando iudex est venturus, cuncta stricte discussurus! [Quanto panico si spargerà, quando il Giudice Giusto si manifesterà a te e valuterà tutto con severità!] Tuba mirum spargens sonum per sepulchra regionum coget omnes ante thronum. [Quando una voce di tromba emetterà un suono possente mai udito prima tra i sepolcri delle nazioni, spingerà tutti a cercare il trono divino.] Mors stupebit et natura cum resurget creatura, ludicanti responsura. [Stupefatte saranno Morte e Natura, quando ogni creatura risorgerà per rispondere a colui che giudica.] Liber scriptus proferetur in quo totum continetur, unde mundus judicetur.
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[Sarà portato un libro scritto in cui tutto è annotato per giudicare il mondo.] Judex ergo cum sedebit, quidquid latet apparebit. Nil inultum remanebit. [Quando il giudice si sarà assiso tutto ciò che era nascosto apparirà. Nulla resterà impunito.] Quid sum miser tunc dicturus? Quem patronum rogaturus, cum vix justus sit securus? [In quel momento che potrò dire io, misero? Chi chiamerò a difendermi, quando a malapena il giusto potrà dirsi al sicuro?] Vi propongo l’ascolto del possente Dies irae e del Tuba mirum nella interpretazione dei Berliner Philharmoniker diretti da Claudio Abbado.
GIUSEPPE VERDI: AIDA, MARCIA TRIONFALE Camille du Locle, direttore dell'Opéra-Comique di Parigi chiese a Verdi di comporre un'opera per l'inaugurazione del nuovo teatro de Il Cairo: «Ciò che il Viceré vuole - disse du Locle - è un'opera egiziana esclusivamente storica. Le scene saranno basate su descrizioni storiche, i costumi saranno disegnati avendo i bassorilievi dell'alto Egitto come modello». La prima (1871) ottenne un enorme successo e ancora oggi continua ad essere una delle opere liriche più famose. Verdi raggiunse un effetto sensazionale con l'utilizzo, nella Marcia trionfale, di lunghe trombe, del tipo delle trombe egiziane o delle bùccine romane («...com'erano le trombe nei tempi antichi»), appositamente ricostruite per l'occasione, ma dotate di un unico pistoncino nascosto da un panno a forma di vessillo o gagliardetto. [Nell’i
agi e: suo ato i di ùccine, particolare della Colonna Traiana]
Trama: Aida, figlia del re etiope Amonasro, vive a Menfi come schiava; ama, riamata, Radamès il valoroso comandante militare egiziano dell'esercito. Radamés combatterà contro gli Etiopi, guidati da Amonasro venuti in Egitto per liberare Aida dalla prigionia, e li vincerà in combattimento. L’opera finisce tragicamente: Radamès viene accusato di tradimento e condannato a morire sepolto vivo. Nella cripta sotto il tempio di Vulcano, mentre sta per essere murato, ritroverà Aida, che è venuta coraggiosamente a morire con lui. ♫ Nell’atto secondo dell’Aida troviamo una delle scene più famose dell’intera lirica: la Marcia Trionfale che celebra il ritorno glorioso di Radamès dopo aver sconfitto Amonastro.
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La scena inizia con l’inno (Gloria all’Egitto), cui seguono la marcia trionfale e le danze dei morelli e del dio sole e della dea luna.
[Arena di Verona, 2015]
Testo:
TUTTI: Glo ia all’Egitto, ad Iside che il sacro suolo protegge Al Re che il Delta regge, inni festosi alziamo! Gloria! Gloria! Gloria! Gloria al Re! Gloria, gloria, gloria! Inni alziam, inni alziamo! Gloria, gloria al Re! Inni festosi alziamo! S'intrecci il loto al lauro sul crin dei vincitori! Nembo gentil di fiori stenda sull'armi un vel!o. Danziam, fanciulle Egizie, le mistiche carole, come d'intorno al sole danzano gli astri in ciel! Della vittoria agli arbitri supremi, la vittoria agli arbitri supremi; il guardo ergete nel fortunato di! Grazie agli Dei, grazie rendete nel fortunato di! Come d'intorno al sole danzano gli astri in ciel! Vieni, o guerriero vindice, vieni a gioir con noi; sul passo degli eroi, sul passo degli eroi, i lauri, i fior versiam! Grazie agli Dei, agli Dei rendete nel fortunato di! Vieni o guerrier, vieni a gioir, a gioir con noi, o guerrier, vieni o guerrier, vieni a gioir con noi, Vieni, vieni, vieni, o guerrier, vieni a gioir con noi, sul passo degli eroi i lauri e i fior versiam! Vieni o guerriero, vieni a gioir con noi; sul passo degli eroi i lauri, i fior versiam! Gloria! Gloria! Gloria, gloria all'Egitto, gloria all'Egitto! Gloria, gloria, gloria, gloria, gloria! Gloria! Gloria, gloria, gloria, gloria! Gloria!
Ho scelto un’interpretazione di altissimo livello dell’Orchestra della Scala di Milano diretta da Riccardo Chailly; la regia dell’opera è di Franco Zeffirelli; anno 2006 La scenografia di questa Marcia è ricca e fastosa, ma l’insieme rimane raffinato; i due primi ballerini sono Roberto Bolle e Myrna Kamara.
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[Teatro alla Scala, 2006]
IL VERISMO In Italia alla fine del secolo XIX, si affermò il verismo, un genere di opera che tratta temi tipici del verismo letterario, nella fattispecie drammi amorosi di tragica passionalità consumati all'interno di un mondo contadino, spesso meridionale. I cosiddetti veristi in musica furono: Mascagni, Leoncavallo, Puccini, Giordano, Cilea e Franchetti che formarono la cosiddetta Giovane Scuola Italiana. In Francia spicca la figura di Georges Bizet con la Carmen in cui sono in scena situazioni aspre, brutali e realistiche.
PIETRO MASCAGNI: CAVALLERIA RUSTICANA, “PRELUDIO E SICILIANA” - “INTERMEZZO” Melodramma in un solo atto, basato sulla novella omonima di Giovanni Verga, Cavalleria Rusticana fu rappresentata la prima volta a Roma il 17 maggio 1890. Mascagni aveva all’epoca 27 anni. 30
La scena si svolge in un paese siciliano il giorno di Pasqua, alla fine dell’Ottocento. E’ la storia di Turiddu, un contadino innamorato della bella Lola. Al suo ritorno da militare (circa un anno dopo) scopre che Lola s'è sposata con Alfio, ricco carrettiere, “che ha quattro muli in stalla”. È un duro colpo per Turiddu, che l'ama ancora. Per vendicarsi dell'affronto subito e superare il difficile momento, corteggia Santuzza, una giovane del paese ma, dopo averla sedotta, inizia a trascurarla perché passa il suo tempo ad aggirarsi nei dintorni dell'abitazione di Alfio, nella speranza d'incontrare Lola. Santuzza, addolorata e preoccupata, cerca Turiddu
per
avere
spiegazioni
sul
suo
comportamento. Si reca addirittura da Lucia, madre di Turiddu, e le racconta tutto: i suoi sentimenti per il figlio e il distacco di lui. Turiddu arriva alla fine del colloquio e tra i due giovani scoppia un'accesa lite. Passa anche Lola lì vicino per recarsi alla chiesa per la Messa di Pasqua, e senza più ascoltare le parole di Santuzza, Turiddu la segue. Santuzza, offesa, decide di vendicarsi e, appena incontra Alfio di ritorno dal lavoro, gli riferisce che Lola gli è infedele. Finita la Messa, Turiddu offre da bere agli amici all'osteria della madre. Offre un bicchiere anche ad Alfio il quale, sdegnato, lo rifiuta e, nel gesto di abbracciarlo, gli morde l'orecchio, usanza paesana che vuol dire sfida a duello. Prima di recarsi alla sfida, Turiddu saluta la madre Lucia e le chiede di avere cura di Santuzza. I due uomini si affrontano, armati di coltello, e il duello si conclude con la morte di Turiddu. L'epilogo è rappresentato dalle grida di una popolana che urla: "Hanno ammazzato compare Turiddu!" L’opera Cavalleria rusticana presenta numerosi momenti in cui ampio spazio è dato a brani puramente strumentali; melodie meravigliose che arrivano dritte al cuore, e che rendono quest’opera qualcosa di unico e speciale. ♫♫ Cavalleria si apre con un Preludio sinfonico, che comincia sereno e languido; è ancora notte nel villaggio siciliano in cui la vicenda è ambientata. Il paese dorme tranquillo; è il giorno di Pasqua. Ma poi la musica si anima, anticipando i motivi musicali che torneranno nei momenti
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cruciali del dramma: la tranquilla spiritualità in cui vive il paese cede il passo alle passioni mondane che scuotono i protagonisti. Tutto questo è reso con un‘intensità melodica raffinatissima e indimenticabile, che cattura lo spettatore fin dalle prime note. Il Preludio non finisce con questa parte strumentale: prosegue con la Siciliana, la serenata cantata a Lola da Turiddu, la cui voce, accompagnata solo dall’arpa, intona questa bella serenata per Lola; sono le prime luci dell’alba. Quest’aria viene detta anche “La Siciliana”, perché è cantata in dialetto siciliano. O Lola e Io de’ sospiri dalla Tosca di Puccini sono le uniche due arie in lingua dialettale presenti all’interno del repertorio lirico italiano. L’uso del dialetto è insolito, ma serve a introdurre subito lo spettatore nel luogo in cui la vicenda si svolge, con realismo linguistico. In effetti, quest’aria risultò molto innovativa sia per l’uso del dialetto sia per il fatto che viene cantata ancora a sipario calato, cosa che stupì e meravigliò il pubblico. Testo:
TURIDDU: O Lola h’ai di latti la a isa, si ia a e ussa o u la i asa, ua vucca a risa, biato cui ti dà lu primu vasu! Nt a la po ta tua lu sa gu è spa su, e u e po ta si e uo u a isu… E s’iddu uo u e aju pa adisu, si u e truovo a ttia, mancu ce trasu.
u t’affa i fai la
[O Lola che hai di latte la camicia così bianca e rossa come una ciliegia, quando t'affacci e atteggi la bocca al riso, beato chi ti dà il primo bacio! Dietro la tua soglia è sparso il sangue, ma non me ne importa se muoio ucciso... E se muoio e vado in paradiso, se non ci trovo te manco ci entro.] In questo film-opera del 1968, ambientato in una Sicilia calda e mediterranea, dove veramente si sentono olezzare gli aranci, Herbert von Karajan dirige l’Orchestra e il Coro del Teatro alla Scala di Milano. Giovanni Cecchele è Turiddu. ♫♫ Ancora di Cavalleria ascoltiamo il celeberrimo, bellissimo, intenso e struggente Intermezzo: pensato dal compositore per dividere l’opera in due parti, è puramente orchestrale, senza accompagnamento delle voci principali. Si può suddividere in due sezioni: una prima sezione che ricrea l’assolato paesaggio siciliano, si fonda sul quartetto d’archi, con un piccolo ‘lamento’ dell’oboe; una seconda sezione, in cui gli archi eseguono una grande, passionale melodia all’unisono, rinforzata dall’organo e punteggiata dall’arpa. Vedremo adesso il video. La migliore guida all’ascolto è nelle mani del direttore Georges Prêtre, nella gestualità “cantabile” di questo direttore francese, nel senso che con i movimenti delle mani e del corpo sembra davvero capace di “porgere” le note come un cantante lirico. Non vi sono parole nell’Intermezzo, ma le note sì, le note le canta, si percepiscono
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chiaramente la progressione di “do-re-mi-fa”, e di un “fa” ribattuto quattro volte. E in questo Prêtre si muove plasticamente sul podio come un cantante sul palcoscenico, facendo risaltare l’afflato lirico e l’intensità belcantistica italiana. Senza contare poi la chiusura dell’Intermezzo. Georges Prêtre chiude con un gesto non di “dissolvenza”, ma di “evaporazione”: la musica fino a un certo punto c’è, e poi non c’è più. Una magia che scompare. Svanisce, come l’incanto di un sogno. Georges Prêtre dirige l’Orchestre National de France. Chorégies d'Orange, anno 2009.
RUGGERO LEONCAVALLO: PAGLIACCI, “VESTI LA GIUBBA” L’opera Pagliacci di Leoncavallo - una tra le più apprezzate dal pubblico - fu rappresentata per la prima volta al Teatro del Verme, a Milano, il 21 maggio del 1892, sotto la direzione di Arturo Toscanini. A Pagliacci è legata la voce di Enrico Caruso che, incidendo l’aria Vesti la giubba, è stato il primo artista a vendere più di un milione di copie nel mondo musicale. Un altro grandissimo interprete fu Mario Lanza. ♫♫ Vesti la giubba, più conosciuta come Ridi, pagliaccio, viene intonata alla fine del primo atto da Canio, che si prepara per la commedia nel ruolo di Pagliaccio nonostante abbia appena scoperto il tradimento della moglie Nedda. Quest'aria rappresenta il concetto di "clown tragico", che sostiene il suo ruolo comico senza mostrare alcun turbamento, ma che interiormente vive un dramma personale. Canio/Pagliaccio ucciderà durante lo spettacolo Nedda ed il suo amante Silvio. Testo:
CANIO: Recitar! Mentre preso dal delirio, non so più quel che dico e quel che faccio! Eppur è d'uopo... sforzati! Bah! sei tu forse un uom? Tu se' Pagliaccio! Vesti la giubba e la faccia infarina. La gente paga, e rider vuole qua.
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E se Arlecchin t'invola Colombina, ridi, Pagliaccio... e ognun applaudirà! Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto; in una smorfia il singhiozzo e 'l dolor... Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto! Ridi del duol che t'avvelena il cor! Ascoltiamo la splendida e drammatica interpretazione di Placido Domingo, che canta con disperazione la tragedia che il protagonista sta vivendo, un’interpretazione “vera”, forse migliore della pur altrettanto splendida interpretazione di Pavarotti. Anche la sua fisionomia incarna quel dolore, sa esprimere la tristezza interiore e le lotte dell'anima tormentata: il pianto finale è commovente e struggente. Orchestra e Coro del Teatro Alla Scala, dir. Georges Prêtre. Anno 1982.
GIACOMO PUCCINI: TOSCA, “VISSI D’ARTE” - “E LUCEVAN LE STELLE” Tosca è un'opera lirica in tre atti di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, ed è considerata l'opera più drammatica del compositore lucchese. Il discorso musicale si evolve in modo altrettanto rapido, caratterizzato da incisi tematici brevi e taglienti. La vena melodica di Puccini ha modo di emergere nei duetti tra i due protagonisti, Tosca e Mario Cavaradossi, nonché nelle tre celebri romanze, una per atto (Recondita armonia, Vissi d'arte, E lucevan le stelle), che rallentano in direzione lirica la concitazione della vicenda. La trama è notissima: siamo a Roma, nell'atmosfera tesa che segue l'eco degli avvenimenti rivoluzionari in Francia e la caduta della prima Repubblica Romana. Mario Cavaradossi, pittore di fede bonapartista, ama riamato la cantante Tosca. Il terzo personaggio dell’opera è il barone Scarpia, capo della polizia papalina che sospetta fortemente della fede politica di Mario, e che desidera anch’egli Tosca. Scarpia arresta Cavaradossi per aver aiutato un altro bonapartista, e lo condanna a morte. Tosca, disperata, va da Scarpia e gli promette il suo amore se libera Cavaradossi. ♫♫ Vissi d'arte è un'aria del secondo atto. Il brano si inserisce in coda al dialogo tra la cantante Floria Tosca e il barone Scarpia, quando questi ricatta la donna chiedendole di concedersi a lui in cambio della liberazione del suo amato, il pittore Mario Cavaradossi, condannato a morte.
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[Arena di Verona, 2017]
L'aria rappresenta una sorta di "a parte" all'interno del movimentato decorso degli eventi rappresentati, una parentesi di riflessione intima in cui la protagonista del dramma pucciniano, incredula dinnanzi alla propria sventurata storia d'amore, si rivolge direttamente a Dio, con un tono sì supplichevole, ma che cela anche una nota di severo rimprovero. Tosca, la cui vita si riassume in una dedizione totale all'arte e all'affetto umano (come ricordano i primi versi), non si capacita del motivo per cui la sua morigeratezza debba essere ripagata con il tormento più feroce. Si tratta di una romanza di toccante intensità, tra le più celebri del melodramma italiano. Testo:
TOSCA: Vissi d'arte, vissi d'amore, non feci mai male ad anima viva! Con man furtiva quante miserie conobbi, aiutai sempre con fe' sincera, la mia preghiera ai santi tabernacoli salì. Sempre con fe' sincera diedi fiori agli altar. Nell'ora del dolore perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così? Diedi gioielli della Madonna al manto, e diedi il canto agli astri, al ciel, che ne ridean più belli. Nell'ora del dolore, perché, perché Signore, perché me ne rimuneri così? Ascoltiamo questa bellissima e commovente aria cantata da Raina Kabaivanska. New Philharmonic Orchestra diretta da Bruno Bartoletti.
♫♫ Siamo alle scene finali del dramma: sui bastioni di Castel Sant'Angelo, Mario è ormai pronto a morire e inizia a scrivere un'ultima lettera d'amore a Tosca, ma, sopraffatto dai ricordi, non riesce a terminarla. L’aria è la celeberrima E lucevan le stelle, e ad essa è toccato l’onore di aver dato il titolo a questa serata musicale.
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Testo:
CAVARADOSSI: E lucevan le stelle, ed olezzava la terra, stridea l'uscio dell'orto e un passo sfiorava la rena. Entrava ella fragrante, mi cadea fra la braccia. O dolci baci, o languide carezze, mentr'io fremente le belle forme disciogliea dai veli! Svanì per sempre il sogno mio d'amore. L'ora è fuggita, e muoio disperato! E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita! Tanto la vita! Tra le moltissime versioni, ho scelto questa di Placido Domingo nel ruolo di Cavaradossi, considerata, drammaticamente e musicalmente, una tra le più significative della discografia dell'opera. The Metropolitan Opera Orchestra and Chorus. Direttore Giuseppe Sinopoli. 2006. Deutsche Grammophon. La fine è drammatica: Tosca uccide Scarpia prima che questi possa averla, Cavaradossi viene comunque fucilato, e Tosca, sconvolta, si getta dagli spalti del castello.
GIACOMO PUCCINI: LA BOHÈME, “CHE GELIDA MANINA” - “VALZER DI MUSETTA” L'esistenza spensierata di un gruppo di giovani artisti bohémien costituisce lo sfondo dei diversi episodi in cui si snoda la vicenda dell'opera, ambientata nella Parigi del 1830. La vigilia di Natale, il poeta Rodolfo, rimasto solo nella misera casa che divide con altri tre bohémiens, sente bussare alla porta. Una voce femminile chiede di poter entrare. È Mimì, giovane vicina di casa: le si è spento il lume e cerca una candela per poterlo riaccendere. Una volta riacceso il lume, la ragazza si sente male: è il primo segnale della tubercolosi. Quando si rialza
per
andarsene,
si
accorge di aver perso la chiave della stanza: inginocchiati sul pavimento, al buio (entrambi i lumi si sono spenti), i due iniziano a cercarla. Rodolfo la trova per primo ma la nasconde in una tasca, desideroso di passare ancora un po' di tempo con Mimì e di conoscerla meglio. Quando la sua mano
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incontra quella di Mimì ("Che gelida manina"), il poeta chiede alla fanciulla di parlargli di lei. Mimì gli confida d'essere una ricamatrice di fiori e di vivere sola ("Sì, mi chiamano Mimì"). ♫♫ “Che gelida manina” è l'aria più conosciuta de "La Bohème", ed una delle più celebri di tutto il teatro lirico. Rodolfo e Mimì si descrivono l'uno all'altra: qui Puccini sembra abbandonare per un attimo la struttura "wagneriana", ovvero a continuazione, su cui ha impostato l'intera opera, per dare ai due interpreti principali - il tenore e il soprano - l'occasione di esibirsi in un numero solistico. Naturalmente, anche se in entrambi i casi i personaggi parlano di sé stessi, in realtà si tratta di due arie d'amore. Rodolfo e Mimì si sono appena incontrati, non si conoscono ancora, ma già hanno intuito di essere destinati a stare insieme. Testo: RODOLFO: Che gelida manina! Se la lasci riscaldar. Cercar che giova? Al buio non si trova. Ma per fortuna è una notte di luna, e qui la luna l'abbiamo vicina. Aspetti, signorina, le dirò con due parole chi son, che faccio e come vivo. Vuole? Chi son? Sono un poeta. Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo. In povertà mia lieta scialo da gran signore rime ed inni d'amore. Per sogni, per chimere e per castelli in aria l'anima ho milionaria. Talor dal mio forziere ruban tutti i gioielli due ladri: gli occhi belli. V'entrar con voi pur ora ed i miei sogni usati e i bei sogni miei tosto son dileguati. Ma il furto non m'accora, poiché vi ha preso stanza la dolce speranza!... «Che gelida manina» è un brano da sempre prediletto dai tenori, per ragioni che vanno ricercate nel particolare carattere che ha assunto nel tempo: quello di prototipo dell’aria sentimentale, recepita come l’aria d’amore per antonomasia da ogni tipo di pubblico. Questa universalità le deriva dalla sua apparente semplicità: il tono in cui Rodolfo si rivolge a Mimì è discorsivo, e in questo tessuto s’innestano estesi frammenti lirici, basati sull’uso di semplici metafore del parlare quotidiano, accessibili a tutti. Vediamo ed ascoltiamo la celeberrima interpretazione di Luciano Pavarotti (con Renata Scotto nel ruolo di Mimì) con The Metropolitan Opera Chorus and Orchestra diretti da James Levine. Met New York, 15 Marzo 1977.
♫♫ Puccini compose nel settembre 1894, in occasione dei festeggiamenti per la consegna della bandiera di guerra alla nave “Re Umberto, che in quel mese aveva ormeggiato a Sestri Ponente, un “Piccolo valzer per piano”, un’aria in ¾, tempo di valzer.
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[Susanna Phillips nel ruolo di Musetta. Metropolitan New York, 2017]
Decise poi di inserire la stessa musica nel 2° atto della Boheme, allorchè Musetta, tra i suoi amici bohemiens, canta con malizia l’aria “Quando men vo”, per suscitare la gelosia di Marcello. Il brano è così universalmente conosciuto come Valzer di Musetta. Lo ascolteremo nella versione strumentale come leit-motiv di questo filmato edito dalla Fondazione Giacomo Puccini ed ambientato nella casa natale a Lucca del compositore. La donna è Alida Attemburg, modella e pianista genovese.
GIACOMO PUCCINI: MADAMA BUTTERFLY “UN BEL DI’ VEDREMO” – “CORO A BOCCA CHIUSA” Madama Butterfly è una delle più belle opere di tutto il melodramma. Ho pubblicato sul 3° numero de Gli Amici del Loggione, nella sezione Melomania, la storia musicale di questa composizione, e ad essa rimando. La trama è notissima. Sbarcato a Nagasaki, all'inizio del XX secolo, Pinkerton, ufficiale della Marina degli Stati Uniti, per vanità e spirito d'avventura si unisce in matrimonio, secondo le usanze locali, con una geisha quindicenne, di nome Cho-Cho-san, termine giapponese che significa Madama Farfalla (in inglese Butterfly), acquisendo così il diritto di ripudiare la moglie anche dopo un mese; così infatti avviene, e Pinkerton ritorna in patria abbandonando la giovanissima sposa. Ma questa, forte di un amore ardente e tenace, pur struggendosi nella lunga attesa accanto al bimbo nato da quelle nozze, continua a ripetere a tutti la sua incrollabile fiducia nel ritorno dell'amato.
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♫♫ Un bel dì vedremo è un'aria-racconto anomala, in quanto gli eventi narrati non appartengono al passato, bensì sono la proiezione del desiderio del personaggio narrante. Drammaturgicamente costituisce il punto culminante di un'estesa scena a due tra la protagonista dell'opera e Suzuki, durante la quale Cho-Cho-San si sforza di illudere la cameriera e se stessa che il marito, partito per gli Stati Uniti tre anni prima, tornerà da lei.
Testo:
BUTTERFLY: Un bel dì, vedremo levarsi un fil di fumo dall'estremo confin del mare. E poi la nave appare, Poi la nave bianca entra nel porto, romba il suo saluto. Vedi? È venuto! Io non gli scendo incontro, io no. Mi metto là sul ciglio del colle e aspetto, aspetto gran tempo e non mi pesala lunga attesa. E... uscito dalla folla cittadina un uomo, un picciol punto s'avvia per la collina. Chi sarà? Chi sarà? E come sarà giunto che dirà? che dirà? Chiamerà Butterfly dalla lontana. Io senza dar risposta me ne starò nascostaun po' per celia, un po' per non morire al primo incontro, ed egli alquanto in pena chiamerà, chiamerà: «Piccina – mogliettina, olezzo di verbena» i nomi che mi dava al suo venire. (a Suzuki)Tutto questo avverrà, te lo prometto. Tienti la tua paura. Io con sicura fede lo aspetto. Per emissione, timbro privilegiato, cavata e fermezza dei suoni, e forza dell'interpretazione, la Tebaldi è qui ineguagliabile. Renata Tebaldi è a mio avviso la più grande soprano che l’Italia abbia mai espresso nel XX secolo. ♫♫ E’ efficacissima la chiusura del secondo atto, quando Butterfly, stremata dall’attesa, si abbandona al sogno del ritorno del marito, che vediamo comparire in scena e abbandonarsi tra le braccia della donna. Ultima irreale illusione di felicità. Si tratta di uno dei momenti più celebri dell’intera opera, quando il Coro “a bocca chiusa”, sostenuto dal solo accompagnamento della viola d’amore, esprime tutto il dolore della protagonista, simbolicamente privata anche del sollievo della parola.
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Ascoltiamo l’Orchestra di Parigi e Coro della Radio France diretta da James Conlon. Il filmato originale che vedrete riproduce la vita del Giappone alla fine dell’800, epoca nella quale è ambientata la storia di Madama Butterfly.
GIACOMO PUCCINI: TURANDOT, “NESSUN DORMA” Turandot fu l’ultima ed incompiuta opera di Giacomo Puccini. La prima rappresentazione ebbe luogo nell'ambito della stagione lirica del Teatro alla Scala di Milano il 25 aprile 1926, sotto la direzione di Arturo Toscanini, il quale arrestò la rappresentazione a metà del terzo atto, due battute dopo il verso «Dormi, oblia, Liù, poesia!» (ossia, alla morte di Liù), l'ultima pagina completata dall'autore, rivolgendosi al pubblico, secondo alcune testimonianze, con queste parole: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto.» Le sere seguenti, l'opera fu messa in scena con il finale completato dal musicista Franco Alfano, ma venne diretta da Ettore Panizza. Arturo Toscanini non diresse mai più l'opera. Trama:
Turandot
è
una
principessa di Pechino. Suo padre vuole che lei si sposi ma lei ha deciso che lo farà solo con chi sarà capace di risolvere tre indovinelli: chi sbaglierà dovrà essere ucciso. Anche il misterioso principe Calaf vuole provare a rispondere agli indovinelli, e ci riesce. Turandot è disperata dal successo dell’uomo, non vuole sposarlo. Calaf le propone allora un patto: Turandot potrà ucciderlo se indovinerà il suo nome prima che venga il giorno. ♫♫ E’ notte fonda, e a Pechino c’è un gran fermento. Nessuno deve dormire, ma tutti devono cercare di scoprire il nome del principe misterioso. Immerso nella notte di Pechino, in totale solitudine, il "Principe ignoto" (ossia Calaf) è convinto di vincere ed attende il sorgere del giorno, quando potrà finalmente conquistare l'amore di Turandot.
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Testo:
CALAF: Nessun dorma! Nessun dorma! Tu pure, o Principessa, nella tua fredda stanza guardi le stelle che tremano d'amore e di speranza... Ma il mio mistero è chiuso in me, il nome mio nessun saprà! No, no, sulla tua bocca lo dirò, quando la luce splenderà! Ed il mio bacio scioglierà il silenzio che ti fa mia. VOCI DI DONNE (LE STELLE): Il nome suo nessun saprà...E noi dovrem, ahimè, morir, morir! CALAF: Dilegua, o notte! Tramontate, stelle! Tramontate, stelle! All'alba vincerò! Questo brano è stato il cavallo di battaglia di numerosi tenori, primo fra tutti Franco Corelli. Per questa serata ho scelto la straordinaria interpretazione di Luciano Pavarotti nel 1994 a Los Angeles in un recital dei Tre tenori. Zubin Metha dirige la Los Angeles Philharmonica Orchestra.
Che immensa interpretazione! Il Maestro Pavarotti ha riversato così tanto vigore su quella ultima nota che non aveva più niente in serbatoio nei polmoni, e lo si capisce bene dall’intensità dello sguardo sul suo volto. Assolutamente stupefacente! Altra leggendaria performance in questa meravigliosa serata “classica” degli Amici del Vinile e del Loggione!
GIUSEPPE MARTUCCI: NOTTURNO Geniale e generoso pioniere della rinascita sinfonica italiana, Giuseppe Martucci, nato a Capua nel 1856, fu compositore, pianista e direttore d’orchestra. Fu tra i pochi autori italiani del suo tempo a non comporre opere teatrali, questo per evidente reazione al mondo musicale italiano dell'epoca, ancora orientato in modo quasi esclusivo verso il melodramma. Il suo stile compositivo risente soprattutto della musica romantica centroeuropea, con punti di riferimento principali in Brahms, Schumann e Wagner, ma ciò non gli impedì di sviluppare tematiche personali, più vicine alla cultura popolare italiana.
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♫♫ In merito a tale dualismo (sinfonismo nordico e cantabilità latina), appare davvero paradigmatico il famoso Notturno in sol bemolle op. 70 (originariamente per piano, poi orchestrato), nel quale è possibile ravvisare una cantabilità crepuscolare, una malinconia dolce e sensuale, la quale - grazie anche al magnifico timbro degli archi - sembra preannunciare alcune celebri melodie di Mascagni, Puccini e Cilea, nonché certe atmosfere mahleriane. La sua musica ha trovato uno strenuo sostenitore nel celebre direttore d'orchestra Arturo Toscanini, che spesso eseguì nei suoi programmi concertistici i lavori sinfonici di Martucci. Ascoltiamo questo brano nella interpretazione della Philarmonia Orchestra diretta da Francesco d'Avalos, che ha inciso l’integrale delle opere di Martucci.
GIUSEPPE VERDI, VALZER BRILLANTE Come ultimo brano di questa serata ho scelto il Valzer brillante in fa di Giuseppe Verdi, che lo dedicò alla contessa Clara Maffei. Per moltissimi anni, la partitura si perse nell’oblio, fino a quando Mario Serandrei, amico di Visconti e di Rota, durante la lavorazione del film Il Gattopardo, non la scovò presso una libreria di antiquariato. Giunta sul pianoforte di Rota, venne successivamente orchestrata per poi scorrere come linfa vitale nella scena più sontuosa del film, che vede appunto il valzer tra Claudia
Cardinale
Lancaster.
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e
Burt
La nostra copertina (Riflessioni su Maria Callas) Per rappresentare nella maniera migliore possibile questo 5° numero della Rivista, dedicato nella sua prima parte al Melodramma italiano del 1800, ho scelto di mettere in copertina un’immagine artistica di Maria Callas, il più grande soprano che la storia della lirica abbia mai conosciuto, un modello inarrivabile di belcanto e recitazione. Mia mamma soleva dire: “La Callas è la Callas!”, a sottolineare l’immensità del suo canto. Figura carismatica, ma dal carattere non facile, la Callas ebbe una vita ricca di successi e riconoscimenti, ma anche di rovinose cadute, di delusioni d'amore e di sofferenze, così come quella di tanti personaggi drammatici da lei interpretati sul palcoscenico. Non è vero che visse d'arte e d'amore. L'arte la rese divina ma le tormentò la vita. L'amore lo conobbe tardi o credette di conoscerlo, era in realtà la scoperta delle cose belle della vita che poi le presentò un conto salato. Callas visse di gloria, Maria di sacrificio. Callas girò il mondo, Maria cercò se stessa. Callas raccolse i consensi e l'affetto di cui Maria aveva disperatamente bisogno. Disse di lei Pier Paolo Pasolini, un uomo che amò: “È la più moderna delle donne, tuttavia vive in lei una creatura strana, misteriosa, arcana, che nasconde terribili conflitti interiori.” Alla Callas dedicherò in uno dei prossimi numeri un articolo più dettagliato, in cui cercherò di spiegare la sua immensa figura artistica. Ho tratto spunto da un picture book La Callas, di Amalia Mora [Collana "Per aspera ad astra. La forza delle donne", Hop! Edizioni], nel quale la grande cantante lirica viene disegnata da Amalia Mora, illustratrice bolognese, con immagini intense e vertiginose, che ben rappresentano la tormentata vita della Divina, nome che le diedero i suoi innumerevoli ammiratori. [da http://www.criticaletteraria.org/2017/08/callasamalia-mora.html - rielaborazione personale]
La narrazione nel libro è semplice, lineare, non scava in profondità, le immagini sono invece ricche ed emblematiche, e fanno ben intendere la complessità del personaggio. Amalia Mora riesce, attraverso il suo tratto deciso, i contrasti chiaroscuri e l’uso dei cromatismi, a evidenziare la spigolosità del personaggio, la sua solitudine, il suo dramma. Il prevalere dei rossi, del nero, del blu scuro, ci racconta della passione e dell’aura tragica che circondava Maria anche nei
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momenti più luminosi della carriera; gli occhi, quasi sempre in ombra, o rivolti altrove, ci parlano dolorosamente dell’intimo tormento che la affliggeva. Il pensiero non può non correre a quel settembre del 1977, quando un tragico destino bussò al numero 36 di Avenue Georges-Mandel, nella via immersa nella luce seppiata dell'autunno parigino, tra gli alberi, il palazzo signorile, la finestra del terzo piano. Lì Maria muore, in solitudine. Ma non la sua voce.
Benché l’opera sia rivolta a un pubblico giovane, è il lettore adulto che ne apprezzerà maggiormente le sfumature, che indovinerà i riferimenti, e che alla fine tornerà con piacere ad ascoltare sul vecchio giradischi le sue immortali incisioni.
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I grandi Direttori: Victor de Sabata BIOGRAFIA Sebbene sia stato un compositore e un violinista e pianista di calibro virtuoso, Victor de Sabata è soprattutto conosciuto come uno dei direttori d’orchestra dello scorso secolo più importanti al mondo, in particolare per l'opera italiana. Victor de Sabata nacque a Trieste il 10 aprile 1892. Dal padre Amedeo, maestro di coro all'Opéra di Montecarlo, ereditò la passione per la musica, e quando nel 1900 la famiglia si trasferì a Milano, ancora fanciullo entrò nel conservatorio "Giuseppe Verdi" per compiervi gli studi musicali. Al Conservatorio si distinse per l’incredibile memoria, l’orecchio assoluto e una personalità trascinante. Dopo il diploma, iniziò nel 1918 la sua carriera di direttore, senza comunque tralasciare la sua attività di compositore. Tra il 1919 e il 1925 scrisse tre poemi sinfonici: Juventus, presentato alla Scala da Toscanini, La notte di Platon, e Gethsemani. Tuttavia la sua vera vocazione era la direzione d'orchestra: a 26 anni fu nominato direttore stabile dall'Opéra di Montecarlo, nel 1921 fu chiamato a dirigere all'Accademia di S. Cecilia in Roma. Dopo aver diretto numerosi concerti in molte località europee e negli Stati Uniti, arrivò stabilmente alla Scala che diresse dal 1930, nell'anno in cui Toscanini abbandonò l'Italia, dopo l'aggressione fascista subita a Bologna, sino al 1953, quando gravi crisi cardiache gli impedirono di tornare sul podio. Ormai consolidata la sua fama, venne richiesto dalle maggiori istituzioni musicali europee e si guardò a lui come il più prestigioso dei direttori italiani attivi nel nostro paese non soltanto per l'impegno professionale e la straordinaria versatilità che gli consentiva di poter affrontare un repertorio vastissimo, ma soprattutto per il rigore stilistico e la serietà interpretativa. Dopo la seconda guerra mondiale, la carriera di de Sabata si espanse a livello internazionale. Era un frequente conduttore ospite a Londra, a New York e in altre città americane, lavorò moltissimo anche con l'Orchestra di Santa Cecilia a Roma. Nel 1950 fu temporaneamente detenuto a Ellis Island, insieme a molti altri europei, in seguito all’applicazione della nuova Legge McCarran: il motivo era il suo lavoro in Italia durante il regime fascista di Benito Mussolini. Riprese quindi la sua attività internazionale, ma la sua base rimase sempre alla Scala di Milano che diresse fino al termine della carriera, lasciando il ricordo di memorabili edizioni: in questo teatro ebbe modo di lavorare con due grandissime soprano, Renata Tebaldi e Maria Callas.
Nell'agosto del 1953 collaborò con Callas alla Tosca di Puccini. Questa produzione è considerata una delle più grandi registrazioni d'opera di tutti i tempi: un critico ha scritto che il successo di de Sabata 45
in questa Tosca "rimane così decisivo che se non avesse mai registrato un'altra nota, la sua fama sarebbe stata comunque assicurata".
[Arturo Toscanini, Victor de Sabata e Maria Callas Teatro La Scala di Milano 1954 (foto: Erio Piccagliani)]
In quel periodo occupò le pagine dei giornali scandalistici con la sua relazione con l’attrice Valentina Cortese, diciassettenne, di trent’anni più giovane di lui. Il Maestro era sposato e aveva dei figli; il richiamo dei valori familiari e l’ambiente rigido e bigotto fece sì che la relazione finisse in breve tempo. De Sabata rientrò in famiglia, mentre l’attrice andò a Hollywood, dove proseguì la sua carriera artistica. [Victor de Sabata con Valentina Cortese]
Nel 1953 la cattiva salute lo spinse a rinunciare alla direzione regolare, ma non prima di aver diretto una delle più celebri registrazioni d'opera classiche, la Tosca di Puccini, con Callas, Di Stefano e Gobbi. La sua direzione al funerale di Toscanini il 18 febbraio 1957 fu la sua ultima esibizione; rimase comunque associato alla Scala come sovrintendente artistico dal 1953 fino alla sua morte. Dal 1953 per oltre dieci anni, il silenzio artistico, la malinconia del riposo forzato a Santa Margherita dove visse una vita riservata, ma ancora partecipe al mondo della musica che lo aveva visto protagonista di primo piano: ancora oggi molti ricordano la sua innata signorilità e il magnetismo che avevano soggiogato orchestre e pubblico. La notte tra il 10 e l’11 dicembre 1967 il suo cuore cedette di schianto: scompariva a 75 anni un Maestro unanimemente riconosciuto come uno dei direttori d’orchestra più illustri del XX secolo, soprattutto per le sue interpretazioni di Verdi, Puccini e Wagner. I funerali di de Sabata vennero celebrati in una forma identica a quelli di Toscanini. All’epoca gli organi di informazione nazionale non diedero all’evento il rilievo che sarebbe stato lecito aspettarsi, ma i milanesi sì, e infatti si assieparono numerosissimi davanti alla Scala per l’ultimo saluto al “loro” Maestro. 46
Nel mese di Dicembre 2017 ricorrevano i 50 anni dalla morte di Victor de Sabata. Il Maestro fu legatissimo per tutta la sua vita al Teatro alla Scala di Milano, fu lui tra l’altro ad inventare la tradizione - ancora oggi rispettata - di inaugurare ogni anno la stagione d’opera il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio, patrono della Città. Per l’inaugurazione della nuova stagione 2017/2018 Riccardo Chailly ha deciso di dedicare la serata inaugurale alla memoria di Victor de Sabata, con la messa in scena dell’Andrea Chénier, opera di Umberto Giordano che fu rappresentata per la prima volta proprio nel teatro milanese nel 1896. Un’opera “verista”, dalle passioni violente e dagli effetti drammatici, che non fa parte del grande repertorio, di grande difficoltà per l’orchestra ma soprattutto per i cantanti. Stefano Zorzenon, uno dei nostri Vinilici d.o.c., è stato presente ad una delle rappresentazioni milanesi, e si è detto emozionato sia per l’opera che per il fascino del teatro scaligero: mi ha fatto gradito dono del Programma di sala, che assolutamente voglio condividere con voi.
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Per l'ultimo saluto a Victor de Sabata, alla Scala nel dicembre 1967, nel teatro deserto, l'orchestra eseguì, in onore del feretro alloggiato nell' atrio, la Marcia funebre dell'Eroica, l'identica pagina di Beethoven che de Sabata aveva diretto, nello stesso luogo, per la morte di Toscanini. A dirigerla era stato designato Gianandrea Gavazzeni, allora direttore artistico del teatro lirico scaligero, che, tuttavia, con gesto di grande e signorile umiltà, rinunciò. Gavazzeni ha così ricordato quel triste momento: «Ero direttore artistico in questa sede [la Scala]. Decidemmo che l’orchestra scaligera eseguisse senza direttore ciò che de Sabata aveva diretto per Toscanini. C’era un incontro, nel procedere dei due morti verso il Mistero, che non andava rotto da nessun’altra intrusione. […] Custodisco due "bacchette". Sono legate a due epoche per le quali la Scala è stata gloriosa... La "bacchetta" di Toscanini, donatami dalle figlie Wally e Wanda. La "bacchetta" di de Sabata, dono dei figli Elio e Eliana. Sono certo che nessun direttore d’orchestra cosciente dei propri limiti ardirebbe mai impugnarle.» FIGURA DEL DIRETTORE Artista sensibilissimo e raffinato, fu con Gino Marinuzzi, Antonio Guarnieri, Bernardino Molinari e Arturo Toscanini uno dei direttori più rappresentativi della sua generazione e uno dei maggiori del nostro tempo. Gavazzeni così lo descrisse: "De Sabata concepiva il direttore come demiurgo, eroe, dominatore dell'opera altrui, da rivelare mediante acustiche nuove, da carpire in quei segreti inventivi dei quali, in certi casi, nemmeno gli autori stessi avrebbero immaginato il valore e la risonanza". Il suo rigore interpretativo nasceva dalla sua capacità di scavare fin nelle più riposte e intime sottigliezze suggerite nello spartito. La minuziosa concertazione, la profondità del fraseggio e il desiderio di trarre dall'orchestra i più raffinati effetti sonori, uniti ad una straordinaria qualità direttoriale, autoritaria e trascinante, caratterizzarono sempre le sue esecuzioni, che gli consentirono di affrontare con sicurezza e assoluto dominio partiture del repertorio sia sinfonico sia teatrale. Alto, sottile, aristocratico nei tratti e nel gesto delle lunghe mani, sul podio imprimeva la sua volontà con l'enfasi del movimento per il quale era celebre, ma anche con l'immobilità più totale. Qualcuno notò che poteva dirigere con una semplice contrazione delle folte sopracciglia. Era temuto dagli orchestrali e dai cantanti, anche se i suoi modi erano cortesi e impeccabili. Dotato di una memoria straordinaria che gli permetteva di dirigere con estrema sicurezza composizioni tra le più complesse senza seguire la partitura e in possesso di un infallibile orecchio
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nell'individuare anche le più sottili imperfezioni, fu sempre assai esigente e inflessibile e pretese da se stesso e dagli esecutori il massimo delle possibilità interpretative.
Possedeva
una
padronanza
straordinaria
delle
possibilità coloristiche di ogni singolo strumento e dell'orchestrazione conquistate negli anni della prima giovinezza, durante il suo soggiorno a Montecarlo. Grazie a questa esperienza giovanile che gli affinò il gusto timbrico, de Sabata conobbe un grande successo nel repertorio francese, soprattutto di Debussy e Ravel, e in quello wagneriano, autori in cui diede prova della sua raffinata sensibilità interpretativa. Egli sarà ricordato specialmente come interprete di opere romantiche e il suo Tristano rimarrà nella memoria come un modello insuperato. DISCOGRAFIA Purtroppo la sua discografia è esigua, affidata alle scarse incisioni discografiche realizzate sempre con grande riluttanza tra il 1936 e il 1951: egli, diversamente da Toscanini adeguatosi perfettamente alle esigenze consumistiche americane, non amò il disco, tormentato come fu sempre da una rigorosa coscienza autocritica. Le registrazioni che de Sabata ha fatto in studio sono, con alcune eccezioni, considerate meno avvincenti rispetto al suo lavoro in teatro. Fortunatamente ora ci sono diverse registrazioni "live" non autorizzate che dimostrano - anche se la qualità del suono può essere problematica - quanto fosse emozionante de Sabata sul podio. Tra le sue incisioni vi recensisco: Giacomo Puccini, Tosca
La registrazione della EMI del 1953 della Tosca di Giacomo Puccini diretta da Victor de Sabata, è considerata tuttora da gran parte della critica la migliore della storia del disco, soprattutto per la direzione e tensione interpretativa di de Sabata, che della partitura seppe rendere l'incandescente atmosfera drammatica scavando in essa con una profondità ed una tensione interpretativa che rasentò lo spasimo.
Splendida l’interpretazione dei tre cantanti protagonisti, Callas come Tosca, Tito Gobbi nei panni di Scarpia e Giuseppe Di Stefano nel ruolo di Cavaradossi. Anche la registrazione mono è superbamente bilanciata.
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È stato un successo commerciale fin dall'inizio e continua ad essere una delle registrazioni d'opera più vendute. Quando Herbert von Karajan realizzò la propria incisione di Tosca nel 1962, chiedeva spesso al suo produttore John Culshaw di far suonare le musica della registrazione de Sabata-Callas. La Callas dava sempre il massimo con i grandi direttori: adorava la disciplina, le piaceva lavorare con persone che potessero tirare fuori il meglio da lei. Ella diceva: «Fare la Tosca assieme a de Sabata è stato davvero qualcosa di magico. Era la prima volta che lavoravo con lui, anche se lo conoscevo bene. Cominciò con quel tipo di atteggiamento da tiranno che io credevo scomparso, anche nei direttori. […] Poi cominciò la registrazione e passammo tre giorni a sperimentare: avevamo moltissime idee per rendere la Scala più adatta alla registrazione. Era la nostra prima registrazione in quel teatro e non c'era abbastanza risonanza. Così, decidemmo di coprire con il compensato tutti i palchi, cosa che fece quasi diventare pazzo il presidente della EMI. Ma non sapeva ancor cosa sarebbe successo. De Sabata ebbe un'idea che credo si dovrebbe adottare più spesso: volle che ogni musicista della sezione degli archi fosse posto su un piccolo podio, in modo da formare per ognuno di loro una specie di circolo di vibrazioni, rendendo il suono più vivido. Per fare questo gli italiani dovettero lavorare giorno e notte, perché a quei tempi la Scala avrebbe fatto qualsiasi cosa per de Sabata, ed ecco perché Tosca suona ancora così bene, anche oggi, a quasi vent'anni di distanza». Maria Callas, Giuseppe Di Stefano, Tito Gobbi. Coro e Orchestra Del Teatro alla Scala di Milano, dir. Victor de Sabata. EMI Classi s – 7243 5 67756 2 6 Ludwig van Beethoven, Sinfonie Sebbene de Sabata abbia presentato un ciclo di Beethoven Symphony con la London Philharmonic Orchestra nella Royal Albert Hall nel 1947, non esiste un’integrale in disco.
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De Sabata (tra il ’46 e il ’51) incise solo la Terza, la Quinta, la Sesta e l’Ottava ossia le sinfonie centrali, quelle di cui si appropriarono i romantici, quelle, cioè, che insieme alle ouverture drammatiche e alle sonate per pianoforte nr. 8, 14 e 23, costituirono il nucleo portante della fortuna beethoveniana in Italia sin dal tardo ‘800. In queste Sinfonie de Sabata non si distacca da una lettura romantica e rassicurante: certo la fa con maggiore raffinatezza e tempi più rilassati rispetto alla lezione toscaniniana, che è una lettura piuttosto vigorosa, con solide accentuazioni ritmiche, ma anch’essa con tempi non velocissimi.
London Philharmonic Orchestra. New York Philharmonic. Orchestra Santa Cecilia. Orchestra Teatro Colon di Buenos Aires. Dir. Victor de Sabata. Memories Reverence B01KAPHF2U Giuseppe Verdi, Messa da Requiem La storica edizione del Requiem di Verdi incisa da Victor De Sabata a Milano nel 1954 per la Columbia con i complessi della Scala è una registrazione ormai datata che, pur con i limiti di mezzi tecnici più modesti, neanche lontanamente avvicinabili a quelli attualmente a disposizione, ancor oggi è tra le più belle ed intense. I tempi di de Sabata sono particolarmente lenti (la durata complessiva raggiunge i 95 minuti) soprattutto se paragonati a quelli delle edizioni dirette da Arturo Toscanini e Tullio Serafin: sembra di essere esattamente agli antipodi. Là dove c’era teatralità spinta agli eccessi, qui c’è introspezione e lentezza. I tempi così larghi, evidenziano più la dimensione del dolore che quello della apocalittica visione dell'aldilà. Il fraseggio orchestrale mantiene una forte tensione interna: in particolare il Requiem iniziale, il Lacrimosa, l'Agnus Dei hanno un respiro lirico ed una intensità dolorosa che non hanno riscontro nelle altre edizioni. Le voci della Schwarzkopf e di Di Stefano, della Dominguez e di Siepi raggiungono una liricità ed una drammaticità di altissimo livello. Il mix di questa stupenda musica di Verdi, della intensità e sensibilità interpretativa di de Sabata, dei solisti, del Coro e dell'Orchestra della Scala regalano una profonda emozione e sfumature esecutive che lasciano attoniti e commossi. A parer mio, per questa esecuzione de Sabata resta insuperato. 51
Elizabeth Schwarzkopf, Giuseppe Di Stefano, O. Dominguez, Cesare Siepi. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, dir. Victor de Sabata. Naxos, B000GNOHIM Richard Wagner, Tristano e Isotta Ben ampiamente testimoniato è il wagneriano Tristan und Isolde nell’interpretazione di Victor de Sabata: i lacerti dell’edizione dell’11 dicembre 1930 alla Scala; il Liebestod con Germane Lubin nel 1939 a Bayreuth; il Preludio e Liebestod incisi a Berlino nell’aprile precedente; una selezione della recita del 14 aprile 1948, l’intera serata del 13 dicembre 1951, entrambe alla Scala; il Preludio e Liebestod dal concerto con Eileen Farrell alla New York Philharmonic, il 25 marzo dello stesso anno. Segni artistici inequivocabili dell’amore personale di de Sabata per Tristan und Isolde: amore forse tale da identificarvisi, certo da trarlo a spendersi per questa come per nessun’altra partitura - “Ogni volta che dirigo il Tristano io accorcio d’un tanto la mia vita!” - e ad ottenerne esiti eccelsi. L’unica registrazione dell’intera opera è quella della Scala del 13 dicembre 1951. Anche a causa del suono ben inciso ma piuttosto terrificante - che richiede una notevole tolleranza è facile sentire come de Sabata, il più elettrizzante dei conduttori, frusta la sua orchestra in un vero vortice di suoni; solo Böhm (ad Orange), e Karajan (a Bayreuth) lo eguagliano. De Sabata crea una storia di due amanti che corre e avvampa con estrema e furiosa impronta carnale, vita e morte che s’avvinghiano e danzano sull’orlo d’un abisso, consapevoli e incuranti lei del desiderio che la invade sino alla follia, lui della propria irrevocabile perdizione; questo desiderio inesauribile e inesauribile
degli
innamorati
l'uno
per
l'altro
trova
espressione in una musica che non è mai melodicamente o armonicamente immobile, e da qui il senso di energia irrequieta, il flusso ebbro convulso delle emozioni. Il tutto procede in un unico, implacabile, intervallo erotico, in cui la tensione non scivola mai per un momento: Il "calore bianco" un luogo comune critico usato per descrivere la direzione di de Sabata in generale - è molto evidente in ogni battuta. Il Preludio definisce subito l’atmosfera complessiva, uno sfinimento che sembrerebbe voler portare al crepuscolo, se le lancinanti e continue irruzioni tematiche non gridassero già il loro spasimo insonne. È un approccio innegabilmente espressivo, e l'esecuzione di de Sabata dell'intera opera è focalizzata ad ottenere un magnetismo inarrestabile.
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La leggenda di Tristano e Isotta Di origine celtica, è una delle più famose e struggenti storie d’amore nate durante il Medioevo. La leggenda medievale è la seguente. Il gigante Morold, fratello della regina d'Irlanda, usa ogni anno recarsi in Cornovaglia per prendervi un tributo di venti giovani. Tristano - nato da Rivalin e Biancofiore, ed educato dallo zio Marco, re di Cornovaglia - lo sfida, combatte con lui, e l'uccide. Ma, a sua volta, resta ferito da lancia avvelenata, e soltanto la regina d'Irlanda potrà guarirlo con le sue arti magiche. Tristano parte per l'Irlanda, ma per non essere riconosciuto quale uccisore del fratello della regina, si fa chiamare Tantris. La regina non soltanto lo sana, ma gli affida la sua figliola, Isotta, perché la educhi. Tristano, temendo d'essere riconosciuto, decide di ritornare in Cornovaglia, ma Isotta ha lasciato in lui un ricordo indelebile: ne parla in modo così appassionato a Marco, che questi decide di sposarla, e invia Tristano in Irlanda per chiedere la mano in suo nome. Qui Isotta scopre che è stato lui ad uccidere suo zio Morold, e vorrebbe vendicarlo, ma la madre la induce al perdono. La regina di Irlanda conosce le arti della magia: prepara un filtro che, una volta bevuto, dovrebbe legare di passione indissolubile Isotta e re Marco. Ma, durante il viaggio per nave, la nutrice di Isotta, Brangania, per un fatale errore dà a bere il filtro ai due giovani, i quali, da quel momento, sono in preda a una passione folle e indomabile, di cui non sono responsabili. Giunti in Cornovaglia, il loro amore non cessa col matrimonio di Marco e di Isotta. Il re, avvertito dai cortigiani, scopre il tradimento ed esilia Tristano. Invano Tristano si sforza di dimenticare Isotta la bionda, sposando un'altra Isotta "dalle bianche mani", ma non consuma nemmeno il matrimonio. Senza più speranze, dominato dall’inestinguibile passione, egli cerca la morte in imprese temerarie, fino a quando resta gravemente ferito. Morente, domanda l'estremo conforto di rivedere la sua amata Isotta, l’unica in grado di guarirlo: se ella verrà, la nave che la condurrà avrà la vela bianca; se non verrà, sarà issata la vela nera. Allorché la nave si avvicina, Isotta dalle bianche mani, spinta dalla gelosia, inganna Tristano dicendogli che la nave ha la vela nera. Tristano, pensando di essere stato abbandonato, muore dal dolore. Isotta la bionda, discesa dalla nave, vede il corpo inanimato di Tristano e muore di dolore accanto a lui. La leggenda narra infine che nel luogo dove s’incontravano in segreto, dopo la loro morte, siano cresciuti due alberi intrecciati. Tristano e Isotta in Wagner. A rendere immortale la leggenda di Tristano e Isotta ci ha pensato soprattutto Wagner, che intorno alle vicende dei due amanti ha costruito la sua opera-capolavoro. La storia di Tristano e Isotta fu molto amata in epoca romantica e post-romantica. A farne le fortune, l'affascinante e atavico binomio amore-morte, esaltato ai massimi livelli dalle note solenni e cadenzate del compositore tedesco.
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Occorre confrontarsi con Bernstein nella sua intensa e lunghissima esibizione con la magnifica Bavarian Radio Symphony Orchestra per sentire una versione ideale, almeno dal punto di vista orchestrale (il canto può lasciare molto a desiderare). Il Preludio suonato da Bernstein è il più vicino a come è stato scritto da Wagner per essere suonato. Il primo atto dimostra intera la capacità di de Sabata di coniugare un intimismo esacerbato con una violenza drammatica parossistica: ascoltate cosa l’orchestra riesce a suscitare nell’invettiva di Isolde o come il canto di costei sia continuamente percosso da un vero pathos strumentale che ne fruga ogni anfratto emotivo; o la ferocia con cui la melodia sortita dal filtro s’impossessa dei due protagonisti. Il secondo atto: non vorrei soltanto sottolineare il celebre passo che va dallo spegnimento della fiaccola all’entrata di Tristano (e qui, forse mai l’ansia d’amore è stata detta in musica con tale irrefrenabile trasporto) quanto l’intera magia della notte, ove l’eros sembra instillare nella natura, nel cielo e negli uomini un irrefrenabile ed atavico fervore. Il terzo atto, dopo un preludio disperato e patetico, tra i più tragici mai ascoltati, l’agonia di Tristano sulla riva del mare conserva ancora lo spirito sanguigno del protagonista. Il tenore Max Lorenz
raggiunge altezze vertiginose di rabbia e follia (proprio come fa Vickers nell'orribile registrazione in studio di Karajan), ma di nuovo è de Sabata e la sua orchestra ispirata a dare all’ascoltatore il massimo piacere: è sorprendente come essi trasmettono l'angoscia interiore e la passione che descrive la disperazione di Tristano. Gli interpreti Gertrude Grob-Prandl e Max Lorenz sono straordinari. Posta in ombra dalle grandi del suo tempo, mai giunta a Bayreuth, questa soprano austriaca presenta un suono impressionante in ogni registro; è un’interprete singolare, con le sue paure e le sue angosce, con gli abbandoni sensuali e gli scatti graffianti, in un progress d’esaltata nevrosi. Lorenz esprime un delirante anelito alla liberazione dalla sofferenza, sia anche in una morte senza speranza. Gertrud Grob-Prandl, Max Lorenz, Elsa Cavelti, Siegurd Bjorling, Sven Nilsson. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, dir. Victor de Sabata. Live, 13 dicembre 1951. Archipel Records - ARPCD 0027-3
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Giuseppe Verdi, Falstaff Una delle più notevoli interpretazioni della musica di Verdi mai catturata su un disco. Tre sono le edizioni di riferimento di quest’opera, quella di Serafin, quella di Karajan e questa: ognuna di questa ha qualche difetto ma, considerate assieme, offrono una meravigliosa visione complementare dell'interpretazione ideale. Questa registrazione è di una performance dal vivo della Scala nel 1951, purtroppo la qualità dell'audio è mediocre. Falstaff è Mariano Stabile, che ne fece uno dei suoi ruoli principali cantandolo quasi 1.200 volte nella sua lunga carriera. Anche se aveva 63 anni quando questa performance è stata registrata, poiché la sua voce non era mai stata né grande né ricca di consistenza, il suo ritratto (che era basato più dalla caratterizzazione che dalla vocalizzazione) non risulta influenzato gravemente dagli effetti dell'età. Ascoltare Stabile in questa registrazione, anche se in un suono mediocre e alla fine della sua carriera, è rivelatore. Le sue sottili inflessioni e intonazioni raggiungono
un
livello
completamente
nuovo
di
comprensione non solo della fatua vanità e dell'amoralità totale del cavaliere grasso, ma anche della malinconica fragilità di un uomo orgoglioso. Anche la Tebaldi ha una bellissima vocalità ed è convincente nel suo ruolo. Il resto del cast è di ottimo livello. L’orchestra suona con precisione e travolgente vitalità. Se solo il suono fosse stato migliore! Mariano Stabile, Renata Tebaldi, Cesare Valletti, Paolo Silveri, Alda Noni, Cloe Elmo. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano. Dir. Victor de Sabata. Live 1951. Urania B00005KAWC
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Guida all’ascolto: “Le quattro stagioni” di Antonio Vivaldi Antonio Vivaldi compose tra il 1723 e il 1725 Il cimento dell'armonia e dell'inventione (Opus 8), una raccolta di dodici concerti per violino (oboe a scelta in due concerti), archi e basso continuo.
Il titolo della raccolta è veramente bello, mette in risalto la voglia di Vivaldi di comporre delle melodie armoniose, ma anche di sperimentare nuove strade compositive. Anche la precedente raccolta di concerti di Vivaldi, L'estro armonico opera 3, si compone di 12 concerti. La differenza fra le due raccolte riflette l'evoluzione del gusto dei primi decenni del XVIII secolo: i concerti del Cimento sono tutti di tipo solistico, invece nell'Estro insieme a 4 concerti per violino solista vi sono 8 concerti grossi. La raccolta fu stampata dell'editore Michel-Charles Le Cène ad Amsterdam nel 1725, e dedicata al conte boemo Wenzel von Morzin. E' incredibile pensare che Vivaldi fu dimenticato per decenni e riscoperto solo agli inizi del XX secolo, grazie alle ricerche dello studioso francese Marc Pincherle e in seguito di Alfredo Casella. Le quattro stagioni è il titolo con cui sono noti i primi quattro concerti solisti per violino del Cimento. Ciascun concerto si divide in tre movimenti, dei quali due, il primo e il terzo, sono in tempo di Allegro o Presto, mentre quello intermedio è caratterizzato da un tempo di Adagio o Largo, secondo uno schema che Vivaldi ha adottato per la maggior parte dei suoi concerti. L'organico di tutte le partiture consta di: violino solista, quartetto d'archi (violino primo e secondo, viola, violoncello) e basso continuo (clavicembalo o organo). Ogni concerto si riferisce a una delle quattro stagioni: la "Primavera", l'"Estate", l'"Autunno" e l'"Inverno". Si tratta di un tipico esempio di musica a programma, cioè di composizioni a carattere prettamente descrittivo: la maggior parte dei critici musicali considera questi quattro concerti come la massima espressione della musica figurativa mai apparsa sulla Terra. La musica è accompagnata da quattro "sonetti dimostrativi" in chiara funzione didascalica (sottolineata dallo stesso Vivaldi nella prefazione: "essendo queste accresciute, oltre li Sonetti con una distintissima dichiaratione di tutte le cose, che in esse si spiegano"). 56
La qualità poetica non è particolarmente alta e tutto lascia pensare che siano stati scritti da Vivaldi stesso o da un suo collaboratore al fine di agevolare la "comunicazione" del linguaggio musicale all'ascoltatore.
Concerto n. 1 in mi maggiore RV 269 - La Primavera (Allegro – Largo – Danza pastorale: Allegro) Nell'Allegro iniziale Vivaldi crea una atmosfera di festosità, quella delle prime giornate primaverili, gioioso risveglio dopo il freddo sofferto nel lungo inverno. Il celeberrimo tema iniziale ha la verve della spensierata danza di corte: la strepitosa corolla di archi, subito supportata dal basso continuo, disegna con precisione il volo di alcuni uccelli fino allo stupefacente assolo di violino (le nuvole all’orizzonte) di rarissima perfezione ed enorme commozione. Il Largo ha inizio con due descrizioni che si svolgono simultaneamente: una melodia ampia con cui i violini ricordano il dolce sonno del capraro, e un brusio per rammentare il mormorio delle fronde. Il terzo tempo è di nuovo un Allegro e descrive una danza pastorale ben ritmata, che non manca di ricordare la festosa apparizionedi ninfe e di pastori. L'atmosfera torna ad essere ritmica ed effervescente, come si conviene alla più promettente delle stagioni.
Sonetto: La Primavera Giunt'è la Primavera e festosetti la salutan gl'augei con lieto canto, e i fonti allo spirar de' Zeffiretti con dolce mormorio scorrono intanto: vengon coprendo l'aer di nero manto e lampi, e tuoni ad annuntiarla eletti indi tacendo questi, gl'augelletti tornan di nuovo al loro canoro incanto: e quindi sul fiorito ameno prato al caro mormorio di fronde e piante dorme 'I caprar col fido can a lato. Di pastoral zampogna al suon festante danzan ninfe e pastor nel tetto amato di primavera all'apparir brillante.
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Concerto n. 2 in sol minore RV 315 – L’Estate (Allegro non molto – Adagio – Presto) Di tutti i Concerti del ciclo, l'Estate è quello che più si presta ad essere considerato nel suo complesso, senza distinzione nei vari movimenti: da una parte la tonalità unificante (sol minore) e dall'altra la progressione degli stadi emozionali (dalla "Languidezza per il caldo" al "Timore dei lampi e dei tuoni" fino al "Tempo impetuoso d'estate"), conducono l'ascoltatore ad un climax di sensazioni assolutamente coinvolgenti ed esaltanti, rese dalla scrittura musicale con effetti visibili e quasi reali. La stagione del sole è inizialmente descritta con un Allegro non molto, nel quale Vivaldi tenta di riprodurre il senso di afa proprio della calda stagione. La quiete viene interrotta dal canto degli uccellini che annunciano l'arrivo di un temporale. Nell'Adagio sorge una melodia commossa, ancora più sentita di quella della Primavera. Un numero limitatissimo di battute: infatti subito si ode il cupo rumoreggiare di un tuono lontano. L’ultimo movimento (Presto) è certamente uno dei brani più eccezionali della storia della musica: la melodia è superba, ed è completamente geniale la differenziazione delle velocissime sequenze grazie ad ingegnose soluzioni contrappuntistiche che si manifestano nell'altalena fra gli archi ed il basso in una sorta di barcarola a velocità decuplicata.
Sonetto: L'estate Sotto dura stagion dal sole accesa langue l'huom, langue 'l gregge, ed arde il pino; scioglie il cucco la voce, e tosto intesa canta la tortorella e 'l gardelino. Zeffiro dolce spira, ma contesa muove Bora improviso al suo vicino; e piange il pastorel, perché sospesa teme fiera borasca, e 'l suo destino: toglie alle membra lasse il suo riposo il timore de' lampi, e tuoni fieri e de mosche, e mosconi il stuol furioso! Ah che purtroppo i suoi timor son veri tuona e fulmina il ciel e grandinoso tronca il capo alle spiche e a' grani alteri.
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Concerto n. 3 in fa maggiore RV 293 - L’Autunno (Allegro – Adagio molto – Allegro) Atmosfere amene tornano ne L'autunno, i cui tre movimenti (recuperando alcune idee melodiche de La primavera) descrivono raccolta e consumo del vino e caccia con freschezza ancora oggi inalterata; è forse la parte più scontata dell'opera, eppure così ricca di spunti da essere stata d'ispirazione a Johann Sebastian Bach in più di un'occasione. L’Allegro iniziale con il "Ballo e canto dei villanelli"), può lasciarsi andare agli eccessi ("L'ubriaco"), può sprofondare in un meritato e "sudato" riposo (Adagio molto - "Dormienti ubriachi"), e può anche dimostrare la propria gagliardia (Allegro - "La caccia"). Nell'Allegro iniziale è l'uomo il protagonista che gode dei frutti del suo lavoro: il raccolto, il vino, la selvaggina. E quindi può divertirsi: canti e balli sono così vivi da suscitare l'immagine di contadini e contadine abbandonati alla gioia più intensa. Nell'Adagio molto viene invocata un po’ di pace e di solitudine, i villanelli ubriachi dormono sonni felici. L'idea musicale si distende piana, sempre poggiata sul medesimo basso, che varia impercettibilmente. L’Allegro segna il risveglio degli uomini ed i preparativi per la caccia.
Sonetto: L'autunno Celebra il vilanel con balli e canti del felice raccolto il bel piacere e del liquor di Bacco accesi tanti finiscono col sonno il lor godere. Fa ch'ogn'uno tralasci e balli e canti l'aria che temperata dà piacere, è la stagion ch'invita tanti e tanti d'un dolcissimo sonno al bel godere. I cacciator alla nov'alba a caccia con corni, schioppi, e cani escon fuore, fugga la belva, e seguono la traccia; già sbigottita, e lassa al gran rumore de' schioppi e cani, ferita minaccia languida di fuggir, ma oppressa muore.
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Concerto n. 4 in fa minore RV 297 – L’Inverno (Allegro non molto – Largo – Allegro finale) L'inverno è la parte più avanguardistica dell'opera, in anticipo di almeno due secoli e con soluzioni armoniche totalmente inedite e straordinariamente ardite al tempo: paganiniano prima di Paganini il violino solista nel primo movimento, raveliane prima di Ravel le gocce di pioggia nel secondo e schönberiane prima di Schönberg le parti sottovoce nel terzo. La sensazione dell'arrivo dell'Inverno è dato da un incipit privo di melodia, caratterizzato da aspre dissonanze: un'articolazione secca che si scioglie nervosamente nelle sembianze della furia del vento e del gelo delle membra 'Allegro non molto descrive le sensazioni di tremito causate dal freddo più intenso. Nessuna melodia: un insieme di note puntate che rende ottimamente l'effetto desiderato. Il Largo descrivente la pioggia è una delle più belle pagine vivaldiane non soltanto per la melodia iniziale, ma anche per il modo con cui è stato realizzato l'elemento veristico con i «pizzicati» dei secondi violini e ancor più per la calda, umanissima nuova melodia che sorge dall'insieme orchestrale. Nell'Allegro finale la musica "scivola" sul ghiaccio (Allegro finale) ed è in balia dei venti ma, nonostante il freddo, continua con i suoi ritmi, i suoi giochi e la sua capacità di stupire.
Sonetto: L'inverno Agghiacciato tremar tra nevi algenti al severo spirar d'orrido vento correr battendo i piedi ogni momento; e per soverchio gel battere i denti; passar al foco i di' quieti e contenti mentre la pioggia fuor bagna ben cento caminar sopra 'l ghiaccio, e a passo lento per timor di cader girsene intenti: gir forte, sdruzzolar, cader a terra di nuovo ir sopra 'l giaccio e correr forte sin ch'il giaccio si rompe, e si disserra; sentir uscir dalle ferrate porte Sirocco, Bora e tutti i venti in guerra quest'è 'l verno, ma tal, che gioja apporte.
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DISCOGRAFIA Le Quattro stagioni sono tra i concerti per violino più incisi della storia del disco. Ad incrementare il gran numero di incisioni, anche l’avvento - negli ultimi quarant'anni - delle interpretazioni filologiche, che hanno cambiato l'interpretazione vivaldiana.
Questa scelta comporta una maggiore difficoltà di esecuzione rispetto agli strumenti moderni, ma crea un suono molto simile a come poteva essere stato vergato negli spartiti originali del '700. Registrazioni con strumenti moderni. Nelle
registrazioni
“classiche”,
rimane
un’interpretazione
celebratissima quella dei Musici con Roberto Michelucci, complessivamente più bella di quelle col pur bravissimo Felix Ayo o con la splendida Pina Carmirelli. [Philips – 6500 017]
Vintage, ma sempre fresche e suonate benissimo, le Stagioni suonate dai Solisti Veneti diretti da Claudio Scimone con Piero Toso primo violino. Imperdibili. [Erato Bonsai ECD 55008]
Bellissima esecuzione ed incisione di ottima qualità è quella di Claudio Abbado con un ensemble della London Symphony Orchestra, anno 1979. Abbado ha "ristretto" la sua orchestra (della quale era appena diventato Direttore musicale) e la fa suonare, seppure su strumenti moderni, in maniera assolutamente credibile per un'opera barocca, con leggerezza, poco vibrato, eleganza nei dialoghi fra i diversi strumenti. Il suono è duttile e ricco di mille colori, e poi è affiancato in questa impresa dal più grande violinista degli anni '80 e '90, Gidon Kremer, che possiede un suono e un'arcata davvero unici. Non è da meno, limitatamente alla propria parte, Douglas Cummings, valente violoncellista della London Symphony.
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La bellezza, la varietà strumentale (con il clavicembalo che si alterna, come da scrittura originale vivaldiana, con l'organo come basso continuo) fanno di questo CD un vero e proprio capolavoro di interpretazione. Da avere! Una nota tecnica: la registrazione è in ADD, ma di buona qualità (anche se il violino solista è troppo in primo piano rispetto all'orchestra e l'immagine degli strumenti non è sempre stabile sul palcoscenico virtuale, ma questi sono dettagli per i puristi audiofili…). [Deutsche Grammophon B00000E2W9] Registrazioni filologiche Le esecuzioni su strumenti d'epoca seguono la prassi barocca e sono intonati non solo ad un la differente da quello moderno (cioè generalmente più basso): è tutto un altro mondo sonoro, non migliore in senso assoluto ma più appropriato al repertorio. L’interpretazione delle Stagioni Vivaldiane con Trevor Pinnock e Simon Standage è una performance di primo piano. Il suono del violino di Standage è in grado di catturare le molte sfumature di questo lavoro, che si possono trovare nel lirismo della primavera, nella frenesia dell'estate, nella leggera malinconia dell'autunno e nell'atmosfera grigia dell'inverno. I contributi brillanti, lucidi e sicuri di Standage sono ben abbinati agli accompagnamenti orchestrali ricchi di energia, passione e virtuosismo di Pinnock (che suona anche il clavicembalo) e della sua compagine, in grado di esprimere in modo efficace la colorazione dei toni di Vivaldi. Tutto questo è coronato da una registrazione chiara e ben bilanciata. I testi dei sonetti e le loro traduzioni sono forniti nell'opuscolo, e questo può essere utile per gli ascoltatori neofiti ad individuare ciò che accade durante ogni movimento. Io trovo fantastica questa interpretazione e Simon Standage sembra essere nato per suonare le Quattro Stagioni: è così meravigliosamente intenso e la sua interpretazione del 3° movimento dell'estate è così adrenalinica…! Se c'è musica in cd nell'Aldilà sono pressochè sicuro che questo è il preferito di Vivaldi. [A hi P oduktio – 2534 003] In primissima fila tra le interpretazioni filologiche troviamo l’interpretazione dei Suonatori de la Gioiosa Marca con Giuliano Carmignola primo violino sfolgorante, da moltissimi considerata un’assoluta edizione di riferimento. Registrazione impeccabile, esecuzione magistrale e un primo violino assolutamente straordinario.
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Dinamica e dettagli ai massimi livelli, il violino è incredibile, gli archi sono materici, l'attrito dell'archetto sulle corde è quasi palpabile è come avere l'orchestra in casa, I Sonatori de la Gioiosa Marca sono stati il primo ensemble a proporre una sistematica riscoperta della ricchissima e polimorfa produzione di musica strumentale in ambito veneto dal tardo Rinascimento all’epoca classica, attraverso un rigoroso stile interpretativo improntato ad uno scrupoloso rispetto dei criteri filologici. [Divox CDX-79404] L’eccellente incisione di Rinaldo Alessandrini con il Concerto Italiano cerca l'effetto senza mai strafare. E’ originale, ricca di toni drammatici dissimile dalle interpretazioni lussureggianti del passato; alcuni dei movimenti sono quasi irriconoscibili. Questa non è l'unica versione delle Stagioni che vorrei, ma non vorrei nemmeno non averla. [Naive B00006IWQR]
Fu il disco d’esordio di Fabio Biondi con Europa Galante, e fu subito un successo clamoroso: «Choc de la Musique» in Francia e altri numerosissimi riconoscimenti internazionali. Virtuosismo
e
soluzioni
esecutive
di
rottura,
talvolta
dirompenti, caratterizzano quest’incisione di grandissimo livello. [Opus
– OPS 912]
Molto apprezzata questa incisione de Gli Incogniti con Amandine Beyer, in sacd, registrata molto bene, suonata con degli strumenti straordinari, uno Stradivari, un Guarneri, due Amati… Si sente il rispetto per la musica di Vivaldi, si sente la gioia di suonare, si apprezzano nuovi colori di questo classico. Non la migliore, ma molto godibile. [Alpha-Outhere B011MICHL8]
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Questa è un’incisione integrale del Cimento, suonato dagli Avison Ensemble, un gruppo musicale specializzato nella musica barocca, il cui direttore è Pavlo Beznosiuk, egli stesso virtuoso del violino. Le esecuzioni sono di altissimo livello, mentre la registrazione, che è del 2009, è come ci si può aspettare trattandosi della Linn Records: ai vertici della tecnologia. Il suono è dettagliato, le melodie armoniose e vibranti nel loro alternare momenti dolci a forti impetuosi. Ascoltando la versione in surround e chiudendo gli occhi si è immediatamente trasportati in una sala concerto eccelsa, con una acustica ricostruita alla perfezione. A mio parere personale, la musica classica va ascoltata ed apprezzata ad alto volume, per tenerla come sottofondo meglio ascoltare altri generi che abbiano una dinamica meno accentuata. Vivaldi poi è gioioso, ogni suo concerto dona la voglia di vivere. Un doppio sacd da consigliare non solo agli appassionati di musica classica, ma a tutti, perché è assolutamente accessibile a chiunque anche a livello di orecchiabilità e di facilità di assimilazione. Inoltre è musica solare, che fa stare bene. [Li
Re o ds – CKD 365]
Stanno catturando l’attenzione degli storici dell’interpretazione vivaldiana le interessanti e piacevoli incisioni di Federico Guglielmo con il suo ensemble L'arte dell'arco, che per l'etichetta Brilliant classics stanno registrando l'integrale delle opere di Vivaldi. Sono le prime registrazioni che usano le nuove edizioni critiche dell'Istituto Italiano per Antonio Vivaldi. [Brilliant Classics B018LQL5WG]
Una bellissima e interessantissima versione vede protagonisti la Freiburger BarockOrchester e il The Harp Consort, due formazioni ben note agli addetti ai lavori, che usano strumenti originali e prassi esecutiva filologica, ma che si avvalgono anche di una discreta libertà interpretativa, arricchita anche d strumenti assai particolari quali la tiorba e il lirone, oltre a liuti e chitarre varie. [Deuts he Ha
o ia Mu di – 05472 77384 2] 64
Non posso, alla fine di questo focus, non dedicare dello spazio alla “Ricomposizione” delle Quattro stagioni vivaldiane operata dal compositore tedesco Max Richter, che nel 2012 decise di riscriverli in versione minimalista, con l’elettronica protagonista (computer e moog). Richter sentì il bisogno di “scomporle” e “ri-comporle”, utilizzando peraltro le partiture originali e il medesimo organico strumentale previsto da Vivaldi. “Riscriverle – afferma Richter - è stato come guidare attraverso un meraviglioso paesaggio conosciuto, usando una strada alternativa per apprezzarlo di nuovo come la prima volta”. Il risultato è l’abbandono dell’opulenza barocca e un deciso avvicinarsi all’estetica della musica contemporanea. Il disco è stato pubblicato dalla Deutsche Grammophon nel 2014: colpevolmente (ahimè) non lo conoscevo, finché l’amico vinilico Luca Breda non mi ha richiesto un parere su questa rivisitazione vivaldiana. Di fronte a così autorevole richiesta di parere, l’imperativo era netto: “dovevo” ascoltarlo! Onestamente, anche la curiosità ha avuto la sua parte… Cosa dire? Al primo ascolto, il mio orecchio da sclerotico purista ha trovato molto discutibile il fatto che questo capolavoro della musica barocca sia stato “ricomposto” in chiave moderna, per giunta in un momento in cui è in auge l’interpretazione con strumenti originali. Riascoltandolo più volte, ho cambiato parzialmente (ma di poco…) la mia opinione: ho trovato degli spunti armonici interessanti, e riconosco che indubbiamente le sonorità degli archi - con in primo piano il violino (un Guarneri del Gesù) di Daniel Hope (uno dei violinisti più virtuosi e acclamati attualmente, allievo diretto di Yehudi Menhuin) -, unite ai suoni generati elettronicamente, danno vita a qualcosa di musicalmente innovativo, inaspettato e per alcuni versi coinvolgente. Ottima anche la qualità tecnica e la resa musicale del disco. Ma alla fine questa Ricomposizione non mi convince pienamente, non c'è feeling (e come potrebbe esserci?) tra la parte classica e quella elettronica, che continua a non piacermi. Come direbbe Alessandro Manzoni: questo matrimonio tra Antonio Vivaldi e Arvo Pärt “non s’ha da fare!”. Sono contro la mia opinione i riconoscimenti internazionali di pubblico e critica oltre lo straordinario successo discografico. Pazienza, raggiunta da pochi giorni la soglia dei 67 anni, età in cui si spera che gli altri comprendano con rassegnata benevolenza le tue rigidità intellettive residue, non perderò comunque la mia aurea serenità di attempato loggionista… [Deutsche Grammophon - B00J2C8HPM]
La descrizione musicale delle Quattro Stagioni di Vivaldi è accompagnata dai ritratti delle 4 stagioni di Giuseppe Arcimboldo o Arcimboldi (1526 - 1593).
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Strumenti musicali antichi : la Ribeca La ribeca è uno strumento ad arco di origine araba: deriverebbe dal "rebab", strumento tipico del Nord Africa e del Medio Oriente, caratterizzato dalla presenza di sole due corde parallele alla cassa armonica, importato in Spagna dagli arabi intorno al VIII secolo. Il piano armonico del rabab è realizzato in pelle e va tenuto tra le gambe dal suonatore.
[Rebab]
La ribeca era uno strumento di carattere popolare e, assieme al liuto e alla viella, costituisce un insieme strumentale adatto soprattutto ad eseguire o accompagnare arie di danza: per tal motivo era prediletta dai menestrelli e dai giullari. Lo strumento, che insieme alla viella si può a ragione considerare antenato della moderna famiglia degli archi (violino, viola, violoncello e contrabbasso), venne largamente impiegato nella musica medioevale e nella musica rinascimentale; scomparirà
dalla
musica
colta
intorno
al
Cinquecento, sostituito dalle più dolci e sonore viole da gamba: resisterà però nella cultura musicale popolare del centro Italia, sino ad epoca attuale. Costruita con legno piuttosto duro, la cassa della ribeca ha la foggia di una mezza pera, piatta superiormente, convessa inferiormente, con due aperture
sulla
tavola
armonica
a
forma
semicircolare. Il manico è quasi una continuazione della cassa armonica e ha il fondo ricurvo: su esso
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si trova la tastiera. Il cavigliere vi si raccorda direttamente; all'estremità superiore è scolpita una testina con tratti caricaturali e grotteschi. Dotata generalmente di tre corde accordate per quinte (sol, re, la), che vengono suonate tramite un
archetto, produce un suono aspro e forte, dalla timbrica molto acuta. La ribeca veniva costruita in diverse misure che producevano suoni di timbro diverso: la ribeca soprano è la più piccola, e si suonava appoggiata al fianco o alla spalla; le ribeche di taglia maggiore, contralto o tenore, si suonavano in verticale, appoggiate o retta dalle gambe del suonatore.
[Angelo che suona la ribeca, particolare di dipinto del 1509 di Gerard David]
Come per altri strumenti dell’epoca, non esistono copie originali della ribeca, quindi i moderni liutai la costruiscono basandosi sulle immagini dei diversi dipinti, affreschi o miniature dove è presentelo strumento. Qui di seguito, due delle miniature che ornano le duecentesche Cantigas de Santa Maria di Re Alfonso X El Sabio, re di Castiglia e di Léon: nella prima il suonatore della ribeca è accompagnato da un suonatore di un oud, strumento della famiglia dei liuti; nella seconda sono ritratti due suonatori di ribeca.
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[Blasco de Grañén, Dettaglio da María, reina de los cielos , 1437]
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Musica classica e cinema LA GRANDE BELLEZZA, di Paolo Sorrentino
Paolo Sorrentino nel suo film La grande bellezza (2013) racconta di Jep Gambardella, un uomo di sessantacinque anni, la cui persona sprigiona un fascino che il tempo non ha potuto scalfire. In gioventù, appena trasferitosi nella capitale, aveva scritto un romanzo di grande successo, che gli ha dato notorietà, ma non ne ha più scritto altri. Compila svogliatamente articoli per una rivista e passa le sue giornate, o meglio le sue nottate, in feste più o meno sfarzose, frequentate dalla varia umanità romana. Intellettuali di sinistra e nobili decaduti, porporati e galleristi d’arte, direttori di riviste prestigiose e ricchi della più disparata origine sono il mondo romano in cui si aggira via via più insoddisfatto e malinconico il personaggio interpretato da Toni Servillo, un uomo che per narcisismo o cinismo, superbia o semplice pigrizia, ha lasciato che il vuoto mediocre della chiacchiera e della mondanità addormentasse le sue emozioni.
La vita della Roma odierna dell'alta borghesia è presentata in ogni sfaccettatura: Jep si affanna a vivere passando da feste kitsch in cui si consuma di tutto, a riunioni pseudo-intellettuali in cui di fatto si pettegola sull'effimero; non mancano frecciate ad un certo alto clero mondano assai lontano dalla spiritualità che dovrebbe contraddistinguerlo; tutto va in scena, perfino la morte, ogni gesto è falso e solo mirato ad attrarre un'audience, perfino la presenza di una santa è utilizzata per "fare teatro", con la sua intervista nel corso di una cena mondana, per la quale vengono noleggiati due
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nobili dell'aristocrazia cittadina. Il solo risultato è la noia infinita, la disperata sensazione dell'inutilità del vivere, la mancanza di senso e di scopi sufficienti a riempire i vuoti di esistenze colme di niente.
In tale contesto arido improvvisamente Jep avverte la necessità di cambiare, di ritrovare nella sua vita la bellezza e quindi il sentimento. La grande bellezza compare per brevissimi istanti nei flashback della prima giovinezza, con il ricordo di un amore acerbo, e negli istanti in cui Jep osserva alcuni bambini che si rincorrono in un giardino, o quando confronta i ritmi della sua giornata a quelli normali di una coppia anziana che si ama. Gli unici che sembrano riuscire a reagire davanti a questo spreco sono un giovane che soffre di depressione ed una spogliarellista quarantenne affetta da una malattia imprecisata, un attore che decide di tornare al suo paese d'origine, oltre al protagonista naturalmente che vorrebbe scomparire come in un gioco di prestigio.
Il film ha una colonna sonora ricchissima ed eterogenea (classica e leggera si incrociano ripetutamente), ed anche nell’ambito della musica classica troviamo un mix di autori del passato e moderni. Georges Bizet: Adagio dalla Sinfonia in do maggiore Nel 1855, Bizet, che aveva allora diciassette anni e studiava composizione al Conservatorio di Parigi con Halévy, compose questa Sinfonia in do maggiore.
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Essa rimase del tutto sconosciuta fino al 1933, quando Reynaldo Hahn, che ne aveva ricevuto in dono il manoscritto dalla vedova del compositore ma che non gli aveva attribuito alcun valore, l'affidò alla biblioteca del Conservatorio di Parigi, dove non sfuggì a Jean Chantavoine, uno dei pochi critici francesi a dedicare a Bizet qualcosa di più d'un interesse superficiale, in un'epoca in cui i suoi compatrioti consideravano volgare la Carmen e frivola la restante sua musica. Il secondo movimento, un Adagio in la minore, è il vero gioiello della Sinfonia. Dopo una breve introduzione, che crea una sottile atmosfera d'attesa, l'oboe intona un tema incantato e nostalgico su un accompagnamento in pizzicato delle viole. La sezione centrale del movimento è costituita da un fugato, basato sulla figura ritmica dell'introduzione. Il ritorno della melodia dell'oboe, arricchita di nuove sfumature, conclude l'Adagio. Troviamo questo brano a metà film quando Jep, Ramona e il misterioso Stefano (dalle chiavi che aprono le porte segrete) fanno una passeggiata tra palazzi e musei, in cui dal buio emergono incredibili bellezze, immote e lontanissime. L’esecuzione è della Symphony Orchestra diretta da Leopold Stokowski Francis Poulenc: Trois Mouvements Perpétuels: I - Assez modéré L’esistenza del compositore Francis Poulenc è stata tormentata dai contrasti: il più importante, senza dubbio, fu quello fra la sua omosessualità e la forte vocazione religiosa. Poulenc fu un musicista dalla doppia personalità, devoto e beffardo, puro e irriverente, serio e ironico, malinconico e scherzoso. Tutto ciò si è riflesso sulla sua estetica musicale: Poulenc è il creatore di un universo musicale molto vario, caleidoscopico, basato su svariate influenze, in continua evoluzione e svincolato dalla
fedele
appartenenza
a
specifiche correnti musicali; il suo stile è variegato, anti-romantico e anti-impressionista, ora neoclassico, ora all’avanguardia; alle volte entro i limiti della tonalità, altre volte libero da ogni schema formale o armonico. Nel film ascoltiamo tratto dai Movimenti Perpetui il primo brano Assez modéré, dalle fantasiose armonie e giochi di colori. L’interpretazione al pianoforte è di Peter Beijersbergen van Hengouwen
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Arvo Pärt: My heart’s in the Highlands My heart’s in the highlands è un brano musicato da Arvo Pärt basato su testo del 1789 del poeta scozzese Robert Burns, che parla semplicemente della nostalgia del luogo natale (le Highlands scozzesi appunto). Arvo Pärt (1935), estone, è uno dei maggiori compositori viventi. Il termine di minimalismo sacro caratterizza la sua musica, che presenta un'armonia estremamente semplice ed emotiva. Il
testo
del
brano
esprime
l’animo
del
protagonista rivolto ad un passato idealizzato nel quale ha lasciato il cuore; il paesaggio tanto amato è descritto come visto dall’alto: prima emergono i rilievi montuosi, poi le fertili valli e il bosco selvaggio e infine il poeta si sofferma sui torrenti e le cascate che sono le lacrime di colui che deve partire e sa che non ritornerà più nelle Highlands (Scoazia).
♫♫ My hea t’s i the Highla ds My hea t’s i the Highla ds, y hea t is ot he e, y hea t’s i the Highla ds, a-chasing the deer; chasing the wild-deer, and following the roe. My heart’s i the Highla ds, he e e I go. [Il mio cuore è sulle montagne delle Highlands, il mio cuore non è qui, il mio cuore è nelle Highlands alla a ia del e vo, alla a ia del e vo selvaggio e all’i segui e to del ap iolo. Il mio cuore è sulle montagne delle Highlands, dovunque io vada.] Farewell to the Highlands, farewell to the North. The birth-place of Valour, the country of Worth. Wherever I wander, wherever I rove, the hills of the Highlands for ever I love. [Addio, o montagne, addio, mio Nord. Dove nacque il coraggio, dove dimora il valore. Dovunque io erri, dovunque io vaghi, amerò sempre.queste colline della Highlands.] Farewell to the mountains, high- o e ’d ith s o ; fa e ell to the st aths a d g ee allies elo ; farewell to the forests and wild-hanging woods, farewell to the torrents and loud-pouring floods. [Addio, o montagne dalla cima coperta di neve; addio, o declivi e verdi valli giù in basso; addio, o foreste e boschi scoscesi; addio, o torrenti e acque scroscianti.]
Il brano sottolinea per ben tre volte una sensazione di struggente nostalgia, che è poi, a voler ben considerare, lo spirito di tutto il film: all’inizio dopo una tumultuosa festa notturna, Jep guarda giù dalla sua terrazza e vede (o crede di vedere) una giovane suora che gioca allegramente e in modo molto materno con dei bambini dentro un bellissimo giardino labirintico; a questa sensazione si sovrappone la straniante performance dell’artista nuda e velata con il pelo pubico tinto di rosso e sul
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quale è stata ricavata l’immagine di una falce col martello, che dà una capocciata clamorosa al muro d’un acquedotto, si rialza e sanguinante urla: «Io non vi amo» agli stupefatti spettatori, con l’ancora più straniante successiva intervista; infine il brano torna a evocare il primo amore di Jep.
My heart’s in the highlands è cantata nel film da Else Torp: il canto del poeta alla propria patria diventa nella sensuale e insieme distante voce di questa soprano un percorso mistico senza più terra, senza più spazio. Perotino: Beata Viscera Perotino fu un compositore francese, la cui attività culminò fra gli ultimi anni del XII secolo e i primi anni del XIII. È stato l'esponente di spicco della cosiddetta Scuola di Notre-Dame ed è uno dei pochissimi compositori della sua epoca di cui ci sia stato tramandato il nome e di cui sia certa l'attribuzione almeno di alcune composizioni. Il canto di comunione Beata viscera è destinato alle Messe festive dedicate alla Madonna, con le parole del teologo Philippe le Chancelier. L’intonazione a tre voci mostra la tradizionale melodia gregoriana a valori tutti uguali nella voce base (il tenor), amplificata dalle altre due voci (superius e contratenor). Al contrario di quanto avviene normalmente nei codici di Trento qui tutte le voci hanno il testo. Beata viscera nel film accompagna la scena dell’udienza di suor Maria, alla quale rendono omaggio gli alti prelati.
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Suor Maria richiama madre Teresa ed in un’altra scena oppone alla fatuità delle domande che le vengono poste un lapidario e significativo “Io ho sposato la povertà. E la povertà non si racconta, si vive!” L’interpretazione è dei Vox Clamantis ♫♫ Beata viscera (testo integrale) Beata viscera Marie virginis cuius ad ubera rex magni nominis; veste sub altera vim celans numinis dictavit federa Dei et hominis. O mira novitas et novum gaudium, matris integrita post puerperium. [Beato il grembo della vergine Maria, al cui seno un re di nome illustre, celando sotto altra veste la propria divi a atu a, sta ilì l’allea za di Dio o l’uo o. O novità mirabile e nuova fonte di gioia la purezza della madre dopo il parto.] Populus gentium sedens in tenebris surgit ad gaudium partus tam celebris: Iudea tedium fovet in latebris, cor gerens conscium delicet funebris. O mira no itas… [Il popolo delle nazioni, che sedeva nelle tenebre, si alza in piedi per la gioia di un parto tanto illustre: la Giudea cova il disgusto di nascosto, avendo nel cuore la consapevolezza di una colpa funesta. O novità i a ile… ] Fermenti pessimi qui fecem hauserant, ad panis azimi promisa properant: sunt Deo proximi qui longe stete a t, et hi o issi i ui p i i fue a t. O i a o itas… [Chi aveva inghiottito il fondo di un lievito pessimo si affretta alle promesse del pane azzimo: so o più vi i i a Dio olo o he e a o stati lo ta i, e ulti i uelli he e a o stati i p i i. O ovità i a ile…] Partum quem destruis, Iudea misera! De quo nos arguis, quem docet littera; si nova respuis, crede vel vetera, in hoc quem astruis Christu o side a. O i a o itas… [Quale parto distruggi, infelice Giudea! Ci accusi di quanto la lettera insegna; se rifiuti i fatti nuovi,credi al e o a uelli ve hi, i iò he aggiu gi i o os i il C isto. O ovità i a ile…] Te semper implicas errore patrio; dum viam indicaserrans in invio : in his que predicas, sternis in medio bases propheticas sub evangelio. [A o a ti avviluppi ell’e o e dei tuoi pad i, e t e i di hi la st ada vaga do i luoghi i p ati a ili: i ciò che proclami dissemini nel mezzo asi p ofeti he sotto il va gelo. O ovità i a ile…] Legis mosayce clausa misteria; nux virge mystice nature nescia; aqua de silice, columna previa, p olis do i i e sig a su t p ope a. O i a o itas… [Della legge mosaica chiusi i misteri; il frutto della mistica verga ignoto alla natura; acqua dalla roccia, colonna che precede, della prole del Signore sono segni impetuosi. O novità mirabile…] Solem, quem libere,dum purus oritur in aura cernere visus non patitur, cernat a latere dum repercutitur, alvus pue pe e, ua totus lauditu . O i a o itas… [Il sole he li e a e te, e t e itido so ge ell’a ia, gua da e o è possi ile, lo si osse vi di lato e t e si iflette, g e o della ad e i ui tutto è a hiuso. O ovità i a ile…]
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Zbigniew Preisner: Dies irae, da Requiem for my Friend Zbigniew Preisner scrisse questa composizione in memoria del regista polacco Krzysztof Kieślowski con il quale ebbe una lunga collaborazione.. Requiem for my friend, è una meditazione in musica, i cui temi s'ispirano a tematiche cristiane e a stili di musica religiosa occidentale e orientale. Ascoltiamo il Dies Irae di Zbigniew Preisner nella scena del funerale del ragazzo suicida. I cantanti lirici interpreti del Dies irae sono Elzbieta Towarnicka, Dariusz Paradowski, Piotr Lykowski, Piotr Kusiewicz, Grzegorz Zychowicz e Jan Szypowski. John Tavener: The lamb The Lamb (L’agnello) di John Tavener è un corale senza accompagnamento, in quattro parti, dalla celebre poesia di William Blake, raccolta in Songs of Innocence, in cui il poetabambino-agnellino scorge il mondo con l’innocenza tipica dell’infanzia. Viene normalmente eseguito come canto di Natale.
♫♫ The Lamb Little Lamb who made thee? Dost thou know who made thee? Gave thee life, and bid thee feed by the stream and o'er the mead; gave thee clothing of delight, softest clothing wooly bright; gave thee such a tender voice, making all the vales rejoice. Little Lamb who made thee? Dost thou know who made thee? [Pi olo ag ello, hi ti ha fatto? Tu sai fo se hi t’ha fatto? Ti ha dato la vita e t’ha i seg ato a ut i ti dal rivo e sul prato; ti ha dato una veste deliziosa, la più soffice, chiara e la osa; t’ha dato u a vo e osì tenera che fa gioire tutto il creato! Pi olo ag ello, hi ti ha fatto? Tu sai fo se hi t’ha fatto?] Little Lamb I'll tell thee, Little Lamb I'll tell thee! He is called by thy name, for he calls himself a Lamb: He is meek and he is mild, He became a little child: I a child & thou a lamb, we are called by his name. Little Lamb God bless thee. Little Lamb God bless thee. [Piccolo agnello, lo dirò io, piccolo agnello, lo dirò io! Egli porta il nome tuo ché se stesso chiama Agnello: egli è mite e delicato, bimbo piccolo è diventato, io un bambino e tu un agnello, noi portiamo il nome Suo. Piccolo agnello, ti benedica Iddio! Piccolo agnello, ti benedica Iddio!]
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Sir John Tavener (1944-2013) è stato tra i pochi esponenti musicali contemporanei che hanno dedicato la maggior parte della loro vita a comporre musica di ispirazione religiosa. Composizioni minimaliste le sue, essenziali, fatte di poche note, ripetute, d’impianto non tonale. Tavener ha sempre mostrato una particolare attitudine a creare atmosfere rarefatte e ispirate, adatte alla meditazione. Questo pezzo è scritto in stile omofonico: per omofonìa si intende una composizione che affida la stessa parte a più voci o strumenti. Può essere all'unisono o all'ottava ed è tipica della musica antica greca e romana, del gregoriano, dei cori d'opera, dei canti popolari, degli inni nazionali e di altro ancora. Nel film il brano The Lamb lo troviamo nelle scene finali: Jep torna in nave ai luoghi della sua adolescenza, e rivede nella memoria il suo primo amore, suor Maria sale a fatica i gradini della Scala Santa.
Ed è da questi luoghi che partirà la “resurrezione” umana e artistica di Jep, che tornerà a scrivere. L’esecuzione è del The Choir of the Temple Church.
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Vladimir Martynov: The Beatitudes The Beatitudes (1998) è un’opera del compositore russo contemporaneo Vladimir Martynov, leader di una generazione di compositori dell'Unione Sovietica, nata dopo la seconda guerra mondiale, musicista di avanguardia in prima linea anche quando la disapprovazione ufficiale di tale stile comportava severi problemi alla propria carriera se non alla stessa incolumità fisica. La musica di questo brano non è che un contrappunto semplice affidato agli strumenti ad arco: Martinov in questa composizione esplora la forza della ripetizione come tecnica compositiva, muovendo da una conoscenza profonda delle tradizioni musicali europee delle quali è studioso e ripercorrendo influenze mutuate dalla musica sacra russa. Attraverso la replica insistente di un’unica formula musicale egli intende generare sospensioni mentali che portano il pensiero lontano, verso uno stato di contemplazione estatica mantenuta il più a lungo possibile. Il pezzo riecheggia spesso nel film: nella scena in cui Jep visita Ron che si è fotografato tutti i giorni, l’unico artista che esca indenne dall’impietoso ritratto della contemporaneità; nella scena in cui i nobili decaduti visitano il santuario della loro stessa infanzia e all’inizio della scena coi fenicotteri e suor Maria; soprattutto negli straordinari titoli di coda girati su un barcone che risale il Tevere all’alba, una sequenza di immagini che celebra l’incommensurabile bellezza della città di Roma, quasi un volo meditativo.
Qui le beatitudini evangeliche divengono contemplazione pacifica, rasserenata, quasi estatica, di quella grande bellezza di cui Jep aveva del tutto perso le tracce. The Beatitudes esprimono la malinconia, il rimpianto, l'autocommiserazione: sentimenti che passano sul volto di uno straordinario Toni Servillo. Le Beatitudes sono suonate dal Kronos Quartet
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Melomania: Le pagine della Lirica
Melomania: Le pagine della Lirica
Melomania: Le pagine della Lirica
Melomania: Le pagine della Lirica Melomania: Le pagine della Lirica Gaetano Donizetti Lucia di Lammermoor 78
GENESI DELL’OPERA Lucia di Lammermoor fu composta da Gaetano Donizetti nel 1835, all’età di 38 anni. Era già un musicista assai apprezzato (aveva infatti già composto ben 43 opere), anche se non aveva ancora conseguito un favore di pubblico e critica tali da farlo assurgere ai vertici dei più grandi operistici. Era anche a suo sfavore il fatto che il compositore bergamasco scriveva incessantemente opere l’una dopo l’altra, cosa che nei critici di allora dava l’idea di un’apparente assenza di uno sforzo creativo: Saverio Mercadante addirittura gli affibbiò il nomignolo di Dozzinetti, etichettandolo così a musicista che componeva opere “a dozzine”. Lucia arrivò al culmine di una lunga riflessione artistica, ed espresse finalmente la piena maturità del suo autore: Donizetti la chiamò un "dramma tragico", ma per tutti Lucia è il melodramma romantico italiano per definizione, con un grande amore segreto annientato da un'ottusa rivalità familiare. L’opera venne commissionata dai Reali Teatri di Napoli, ed il libretto venne affidato ad un personaggio di spicco della cultura napoletana, Salvatore Cammarano [ ell’i
agi e a sinistra].
Il librettista trasse spunto dal romanzo di Walter Scott, The Bride of Lammermoor (La sposa di Lammermoor), pubblicato nel 1819: ambientato durante la Glorious Revolution del 1688-1689 e poco prima dell'Act of Union tra la Scozia e l'Inghilterra, il libro racconta la fine dell'identità della Scozia come nazione separata. [Henry Raeburn, Ritratto di Sir Walter Scott (1771 - 1832) Scottish National Gallery]
Il fulcro del racconto è nella contrapposizione tra la nobiltà dei nuovi ricchi Whig esemplificata dagli Ashton, imprenditori di classe media che, grazie al Casato di Hannover, divennero la nuova classe dirigente, e la povertà e l'orgoglio della tradizionale classe proprietaria terriera, rappresentata dai Ravenswood.
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[Sir John Everett Millais –The Bride of Lammermoor di Walter Scott]
Nel romanzo lo scrittore si riferiva ad eventi realmente accaduti durante le lotte fra cattolici e protestanti al tempo di Guglielmo d’Orange, collocando la vicenda nella terra di Lammermoor, in Scozia, nel 1689. Cammarata retrodatò il soggetto alla fine del 1500, ai tempi non meno turbolenti di Maria Stuarda e di suo figlio Giacomo VI. In entrambi i casi, al centro della vicenda restò l’inimicizia politica e religiosa tra due famiglie, i Ravenswood e gli Ashton, legate a fazioni avverse. La prassi di trarre un soggetto da un’opera letteraria straniera era abbastanza consueta nella librettistica italiana ottocentesca, in quanto l’Italia non conobbe alcuna fioritura di una vera e propria narrativa romantica come invece avvenne in Francia, in Inghilterra ed in Germania. fu pertanto necessario rivolgersi ai modelli stranieri, tra i quali Schiller, Shakespeare, Hugo, e appunto Scott, già modello, per il librettista Tottola, della Donna del Lago di Rossini. Questi modelli ponevano comunque alcune difficoltà dovute essenzialmente all’esigenza di ridurre a dimensioni e tempi scenici gli avvenimenti che gli scrittori avevano in genere narrato in molte pagine; la stesura del libretto d’opera, inoltre, nel nostro ‘800, poneva alcuni problemi attinenti anche al ruolo che i personaggi dovevano svolgere in base al loro timbro di voce, per cui il tenore, che ama riamato il soprano, doveva sempre rivaleggiare col baritono, mentre il basso si presentava ieratico, solenne. Cammarano con Lucia di Lammermoor, che sancì l’inizio della fondamentale collaborazione con Gaetano Donizetti, produsse la prima forma compiuta di dramma romantico per musica in Italia, proponendo atmosfere cupe e sinistre, situazioni violente, psicologie inquietanti e morbose, suggestioni lunari e a tratti macabre, il tutto con un ritmo narrativo serrato e avvincente.
Il compositore presentò così la sua opera: "La promessa sposa di Lammermoor, istorico romanzo dell'Ariosto scozzese, mi parve subbietto più che altro acconcio per le scene, però non deggio tacere, che nel dargli la forma drammatica, sotto di cui oso presentarlo, mi si opposero non pochi ostacoli, per superare i quali fu mestieri allontanarmi più che non pensava dalle tracce di Walter Scott. Spero quindi, che l'aver tolto dal novero de' miei personaggi taluno di quelli che pur sono fra i principali del romanzo, e la morte del Sere di Ravenswood diversamente da me condotta (per tacere
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di altre men rilevanti modificazioni) spero che tutto questo non mi venga imputato come a stolta temerità; avendomi soltanto a ciò indotto i limiti troppo angusti delle severe leggi drammatiche.” Il lavoro, dopo molti rinvii, finì comunque anche prima dei tempi concordati, ed il 26 settembre Lucia andò finalmente in scena a Napoli, riscuotendo un immediato successo. Le cronache raccontano che il pubblico in delirio pianse di commozione e applaudì lungamente: gli eccezionali cantanti – Fanny Tacchinardi Persiani, nel ruolo di Lucia [nel riquadro a sin], Gilbert Duprez in quello di Edgardo, e Domenico Cosselli
in quello di Enrico – ricevettero entusiastici consensi ed applausi. Il compositore dopo la prima napoletana, scrisse al suo editore Ricordi: “Lucia di Lammermoor andò, e permetti che amichevolmente mi vergogni e ti dica la verità. Ha piaciuto e piaciuto assai. Per molte volte fui chiamato fuori e ben molte anche i cantanti. Ogni pezzo fu ascoltato con religioso silenzio e da spontanei evviva festeggiato.” [Gilbert Duprez nelle vesti di Edgardo]
Una serata trionfale per il Teatro San Carlo, che fece dimenticare per alcune ore l’incombente minaccia di un’epidemia di colera nel capoluogo campano. Dopo il trionfale debutto napoletano del 1835, la sfortunata storia d’amore di Lucia ed Edgardo non cesserà più di essere rappresentata nei palcoscenici di tutto il mondo. Donizetti scrisse una versione francese intitolata Lucie de Lammermoor, che incanterà il Théâtre de la Renaissance quattro anni dopo, per essere poi riproposta nel tempio della musica d’Oltralpe, l’Opéra, nel 1846. IL TEMA DELLA FOLLIA Il tema della follia, epilogo finale tragico della Lucia donizettiana, si perde nella notte dei tempi. La mitologia ci racconta la storia di Amore e Follia: durante un gioco a nascondino fatto insieme ai Sentimenti, Amore si ferisce agli occhi e perde la vista; Follia, sentendosi colpevole di quanto accaduto, decide di stare sempre vicino ad Amore per assisterlo. Così da allora, l’Amore è cieco e la Follia lo accompagna sempre!
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Nell’antico mondo occidentale la follia era imprescindibilmente legata alla sfera sacra: il folle rappresentava la voce del divino, quindi andava ascoltato con timore e reverenza perché nascondeva messaggi provenienti “dall’alto”. Il tema della follia ha esercitato un fascino costante sul teatro e sulla letteratura occidentale, a partire da quello greco: forse nessuno ha saputo rappresentare la follia come hanno saputo fare Eschilo, Sofocle, Euripide. E di personaggi romanzeschi affetti da follia è ricco il mondo della letteratura di tutti i tempi, da Aiace a Orlando, a Ofelia, a Macbeth, a Don Chisciotte, a quelli più recenti: nell’Enrico IV di Pirandello il protagonista è un folle che si crede re e, quando rinsavisce, rimpiange la propria follia; lo Zeno Cosini della Coscienza di Svevo è un caso clinico di nevrosi con evidentissime somatizzazioni isteriche; Rodiòn Raskòlnikov, protagonista del Delitto e castigo di Dostoevskij, con la sua lucida follia, vive in un alternarsi di deliri di onnipotenza e stati di estrema prostrazione psicofisica, dopo aver ucciso la vecchia usuraia. E tanti altri personaggi “folli” ancora … Donizetti ha composto varie opere in cui i protagonisti perdono la ragione: Torquato Tasso, Anna Bolena, L’esule di Roma, Linda di Chamounix, ma è soprattutto Lucia di Lammermoor a costituire la più perfetta rappresentazione musicale del “senso della follia”, o, meglio, della follia delle donne abbandonate. A differenza del romanzo di Walter Scott, il duo Cammarano-Donizetti costruì una scena nella quale viene ritratta la follia di Lucia, la cui mente è occupata oltre che da terribili fantasmi anche da rievocazioni dei bei momenti belli passati insieme con il suo Edgardo. Questa scena della follia è giudicata dalla critica musicale, insieme a quella della follia di Elvira dei Puritani di Bellini, come una delle più grandi scritte nel nostro teatro d’opera ottocentesco. [Maria Callas, scena della pazzia. Teatro alla Scala di Milano, 1954]
Lucia, immersa in una tragedia di rivalità familiare, di amore segreto, di menzogne, di falso tradimento, vive dimessamente, cerca di suscitare compassione, si dibatte chiedendo pietà e non riesce veramente ad odiare questo fratello così poco comprensivo perché lei, invece, capisce che anche lui non ha alternative, entrambi vittime di un destino crudele. Infine la resa, ma nello stesso momento in cui si arrende la realtà smette di essere tale e lei sprofonda nei suoi incubi. E quando perfino l’uomo che ama non capisce ma la maledice, abbandona definitivamente la realtà e si sottrae con la follia al suo tragico destino che la porterà a morire. La musica di Donizetti sottolinea costantemente l’ineluttabilità di un fato cui nessuno può sottrarsi, dove si è costretti a giocare la partita secondo ruoli che non lasciano speranza. Un beffardo disegno del destino, questo, per lo stesso compositore bergamasco: egli stesso sarebbe morto a soli 51 anni in stato di demenza.
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[Johann Heinrich Füssli: La follia di Kate - 1806-
. Museo d’O say, Pa igi]
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GUIDA ALL’ASCOLTO Gli antefatti. L'azione si svolge a Lammermoor in Scozia, alla fine del XVI sec., nel castello di Ravenswood. La nobile famiglia Asthon, alla quale appartengono i fratelli Enrico e Lucia, ha usurpato i beni e il castello della famiglia Ravenswood, il cui unico erede è Edgardo. Edgardo e Lucia si amano segretamente. PARTE PRIMA La partenza – Atto unico
Scena prima. La Scozia, con la sua natura selvaggia, la nebbia avvolgente e misteriosa, le tempestose notti solcate dai lampi, aleggia sin dalle note introduttive di questo breve preludio (solo trentatré battute): alcuni cupi rintocchi di timpano ad evocare i tuoni, gli ottoni le nubi, le foreste inestricabili disegnate dagli archi, la nebbia descritta dai legni. Un quadro che immediatamente immerge l’ascoltatore in un’atmosfera lugubre. Subito dopo una fanfara dei corni, regale e tetra, dispiega in tono sommesso una marcia funebre presaga delle tragedie prossime a venire, segno del fato che scorre inesorabile. Poco a poco l’orchestra si dischiude ed esplode in un fortissimo sottolineato dalle percussioni, sempre più incalzanti. Un coro maschile introduce Normanno, capo degli armigeri di Lord Enrico Asthon, che con spirito guerriero ordina ai suoi uomini di scoprire l’identità di un uomo che si aggira ogni notte, prima dell’alba, sulle spiagge attorno al castello di Ravenswood.
Scena seconda. Gli armigeri si allontanano, entra nel giardino Enrico accompagnato da Raimondo Bidebent, precettore di sua sorella Lucia. Enrico è turbato, la fortuna ha voltato le spalle alla sua famiglia, che ora versa in gravi difficoltà economiche. Inoltre la lotta politica in Scozia si sta concludendo con la sconfitta della fazione nella quale egli milita, a vantaggio invece di quella di cui fa parte Edgardo. L’unica via di salvezza sarebbe il matrimonio di Lucia con il ricco lord Arturo Buklaw, ma ella si ostina a rifiutare ogni proposta. Interviene Raimondo che precisa che la giovane è ancora molto turbata dalla recente morte della madre. Normanno lo smentisce affermando che la fanciulla è innamorata di un uomo, il quale l’ha salvata dall’assalto di un toro, uccidendolo con un colpo di pistola, nel giardino del castello mentre si recava alla tomba della madre. Da quel giorno Lucia incontra ogni mattina il suo salvatore. 84
Un presentimento si insinua nell’animo di Enrico riguardo l’identità dello sconosciuto amante di Lucia, un sospetto condiviso da Normanno: quell’uomo potrebbe essere il mortale nemico sir Edgardo di Ravenswood, unico superstite dell’odiata famiglia. Questo pensiero scatena in Enrico uno sdegno viscerale ed una violenta reazione emotiva (“Cruda, funesta smania...”).
♫♫ Cruda funesta smania ENRICO: Cruda, funesta smania tu m'hai destata in petto! È troppo, è troppo orribile questo fatal sospetto! Mi fa gelare e fremere... mi drizza in fronte il crin. Colma di tanto obbrobrio chi suora mia nascea! Pria che d' amor sì perfido a me svelarti rea, Se ti colpisse un fulmine, fora men rio destin. La possente voce baritonale di Enrico esprime in pieno lo stato di ira, mentre l’orchestra lo accompagna con poche note, lasciando tutto lo spazio nel palcoscenico al canto carico di ira e odio.
Scena terza. Inizia un coinvolgente attacco dell’orchestra, ben ritmato dalle percussioni, a rompere la tensione. Sono tornati gli armigeri precedentemente inviati da Normanno nei dintorni del castello e tramutano il sospetto in certezza: lo sconosciuto è proprio Edgardo, che è stato trovato all’interno della vicina torre, forse in attesa della donna amata, e che alla vista degli armigeri, pallido e silenzioso, è fuggito a cavallo. La scrittura musicale si accende al nome del nemico, stridente nei toni alti e cupa in quelli bassi, mentre un nuovo moto di ira di Enrico è sottolineato dal movimento frenetico dell’orchestra. Furioso, pieno di incontenibile rabbia, lord Ashton giura di vendicarsi spegnendo nel sangue quella fiamma d’amore (“La pietade in suo favore”). La musica accompagna questo stato d’animo di Enrico: violoncelli, trombe e fiati all’inizio e alla fine dell’aria rulli di tamburi e piatti e tutta l’orchestra sottolineano questa perentoria affermazione di forza e determinazione dell’uomo. Nessuno potrà fermarlo.
Scena quarta. Un soave assolo di arpa, cui si aggiungono gradualmente altri toni lievi (archi in pizzicato e fiati) introduce la scena notturna. Nel parco del castello, vicino ad una fontana, Lucia, accompagnata dalla fedele Alisa, sua dama di compagnia, attende fremente Edgardo, consapevole del pericolo che corrono incontrandosi. Osservando la fontana, prova turbamento e volge lo sguardo altrove. Lucia racconta ad Alisa l'antica lugubre storia di un Ravenswood, antenato di Edgardo, che in quello stesso luogo uccise per gelosia la propria amata; si narrava che la vittima, dopo essere stata trafitta, fosse caduta nelle acque della fontana, rimanendovi per sempre.
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[Nellie Melba, nel ruolo di Lucia. Parigi 1888. A dx, Lucia et Alisa, 1835]
Lucia le confessa di aver visto ella stessa il fantasma: la paurosa visione la chiamava a sè ma poi scompariva lasciando come un’unica traccia l’acqua rosseggiante e una sensazione di tragedia imminente (“Regnava nel silenzio”). Alisa interpreta il racconto come un orribile presagio e mette in guardia Lucia dal rischio di subire la stessa sorte. Nel consiglio accalorato dell’amica, l’orchestra prorompe in un crescendo di fiati e nei possenti suoni degli archi.
♫♫ Regnava nel silenzio LUCIA: Regnava nel silenzio / alta la notte e bruna... Colpìa la fonte un pallido / raggio di tetra luna... Qua do so esso u ge ito / f a l’au e udi si fe’, ed e o su uel a gi e / l’o a ost a si a e! Qual di chi parla muoversi / il labbro suo vedea, e con la mano esanime / chiamarmi a sé parea. Stette un momento immobile / poi ratta dileguò, e l’o da p ia sì li pida, / di sa gue osseggiò! ALISA: Chiari, oh ciel! ben chiari e tristi / nel tuo dir presagi intendo! Ah! Lucia, Lucia desisti / da un amor così tremendo. LUCIA: Egli è lu e a’ gio i iei,/ e o fo to al io pe a quando rapito in estasi / del più cocente amore, col favellar del core / mi giura ete a fe’; gli affanni miei dimentico, / gioia diviene il pianto... Pa i he a lui d’a a to /si s hiuda il iel pe e! ALISA: Gio i d’a a o pia to / si app esta o pe te!
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Il pensiero dell’arrivo imminente di Edgardo mette in fuga le immagini lugubri, dando spazio ai sogni di Lucia, che si dice felice solamente insieme al suo amato. Mentre l’arpa - accompagnata dai trilli dei flauti e dei violini - torna ad infondere serenità alla scena, Lucia dà sfogo alle sue emozioni e alla sua instabilità affettiva: è angosciata dalla paura dell’abbandono, non vivrebbe più senza il suo amato, e quando ella sente le parole di fedeltà dell’amato, sente schiudersi il cupo cielo scozzese ed apparire il sole. L’ascoltatore viene così coinvolto in un’atmosfera amorosa e delirante nello stesso tempo. Accompagnato da un trionfale motivo dell’orchestra, giunge finalmente Edgardo. E’ visibilmente agitato, deve infatti partire prima dell’alba per la Francia, incaricato di una delicata missione per difendere le sorti della Scozia; prima però intende riconciliarsi con Enrico, chiedendo in sposa Lucia come segno di pace. Gli archi dell’orchestra sottolineano con suoni gravi lo stato di ansia del momento. Lucia, consapevole dell'odio serbato dal proprio fratello nei confronti di Edgardo, chiede preoccupata a quest'ultimo di attendere ancora. Edgardo comprende le ragioni di quella preghiera: il tempo del perdono e della pace non è ancora giunto, anzi esplode di nuovo in minacce che terrorizzano l’amata. Sangue e furore sono i concetti più usati da Edgardo, che ricorda con ira il giuramento fatto sulla tomba del padre, di combattere in eterno tutti gli Ashton, e si dice pronto in ogni istante a portare a termine i suoi propositi di vendetta. Solo l’amore per Lucia lo ha fermato. Questo scoppio di ira si esprime col suono tetro degli ottoni, e col fremito degli archi, mentre il canto dell’uomo è orgoglioso e ricco di dignità.
[Diana Damrau e Charles Castronovo. Orchestra of the Royal Opera House, dir. Daniel Oren. Covent Garden, Londra. 25 Aprile 2016]
Lucia lo scongiura di placarsi e di farsi infiammare solo dal sentimento d’amore che nutre per lei e di tenere fede soltanto al giuramento fattole. 87
L’accento si addolcisce, ed Edgardo chiede a Lucia di pronunciare, in quel luogo e davanti a Dio, un giuramento di amore e di eterna fedeltà. In un emozionante controcanto, i due si scambiano gli anelli nuziali. Giunge il momento della separazione: Lucia in un breve assolo vocale lento e grave, chiede al suo uomo di inviargli una lettera, quindi l’accompagnamento musicale si riduce via via fino al silenzio, preparando in questo modo il terreno all’ultima celeberrima aria del primo atto, “Verranno a te sull'aure”. E’ l’ultimo appassionato momento prima del congedo, una pagina splendida ed indimenticabile: un pizzicato d’archi compie continui crescendo e diminuendo ed improvvisi accelerando, nei quali le voci dei due innamorati sono proposte alternate, infine unite all’unisono nel finale (sembra che questa strofa finale sia stata ispirata a Donizetti da una nenia di zampognari). Sulle note di questa toccante e semplice elegia, tra squilli di ottone e rulli di timpano, i due si congedano.
♫♫ Ve a
o a te sull’au a
LUCIA, poi EDGARDO: Ah! Ve a o a te sull’au a / i iei sospi i a de ti, ud ai el a he o o a / l’e o de’ iei la e ti... Pe sa do h’io di ge iti / i pas o, e di dolo , spargi una mesta lagrima / su questo pegno allor. EDGARDO: Io parto... LUCIA: Addio… EDGARDO: Rammentati! Ne stringe il cielo!... LUCIA: Edga do… EDGARDO: Addio… Parte seconda (Il contratto nuziale)
Atto primo. Scena I. Dopo quattro accordi orchestrali discendenti, una melodia sospesa e malinconica, suonata dai corni, ricalca le tinte scure con cui si inaugura la seconda parte dell’opera. Enrico è in ansia e gli archi ne interpretano lo stato d’animo attraverso pizzicati tremolanti in pianissimo. Sono passati alcuni mesi dalle vicende precedenti: le lotte politiche che sconvolgono la Scozia indeboliscono il partito degli Asthon e avvantaggiano quello di Edgardo. Enrico, per riequilibrare le sorti della contesa e salvare la sua casata, porta avanti il suo progetto di far sposare Lucia con un uomo ricco e potente, Lord Arturo Bucklaw. Tutto è pronto, manca solo l’assenso della donna, che non ha mai ricevuto lettere di Edgardo poiché le stesse sono state intercettate ed occultate da Enrico e da Normanno; inoltre i due uomini hanno preparato una falsa lettera in cui Edgardo giura fede di sposo ad un'altra donna.
Scena II. Ed ecco Lucia entrare in scena, irriconoscibile, pallida, lo sguardo smarrito, tutto in lei manifesta la sofferenza ed i primi segni della malattia mentale. Un oboe ed un mesto accompagnamento degli archi sottolineano la sua incerta andatura.
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Enrico le parla a mezzavoce, lentamente, soppesando le parole, e la informa di avere predisposto le sue nozze con Arturo. L’orchestra è percorsa da un brivido fugace, che interpreta il turbamento della giovane donna. Il pensiero del matrimonio fa riemergere spontaneamente Lucia dal suo stato mentale (l’orchestra la sostiene con un tono potente). La donna replica con veemenza al fratello rinfacciandogli le proprie malferme condizioni di salute, duro rimprovero contro chi persegue rigidamente solo i propri piani senza altre considerazioni umane. La voce di Lucia svetta su un acuto inaspettato, che sembra sfuggito ad ogni controllo, come impazzito. Enrico reagisce con durezza alle ragioni del sentimento fraterno, con la voce sui toni molto alti, la tensione tra i due è palpabile e riempie la scena. Lucia si sente prossima alla morte, e grida disperatamente al fratello di essere promessa ad un altro uomo. A questo punto Enrico le mostra la falsa lettera che mostra l’infedeltà di Edgardo. [Maria Callas - Teatro San Carlo, Napoli 1956]
Lucia la legge, e la sua innocente fiducia nel fratello fa sì che non dubita della sua autenticità: lancia un grido e sprofonda nella più assoluta disperazione. Lucia vacilla sofferente e, con la mente già sconvolta, ribadisce che per lei è il momento di morire. L’oboe, il flauto e gli altri fiati si accodano in questo momento di dolore, mentre Enrico cerca di convincerla che Edgardo non meritava questo amore e che l’ha tradita così come lei ha tradito il proprio fratello. D’un tratto si odono in lontananza musiche festose e grida festose: è il matrimonio che sta per iniziare e lo sposo è in arrivo. Mentre la donna sprofonda in pensieri lugubri, Enrico confessa alla sorella il momento difficile che la loro famiglia sta attraversando: se lei non sposa Arturo, gli Ashton andranno in rovina e lo stesso Enrico morirà decapitato dal boia. L’atteggiamento autoritario di Enrico ed il suo tono dispotico, sottolineato da un ritmo marziale di timpani ed ottoni, vincono le residue resistenze di Lucia, che invoca per sé la morte quale unica via di fuga da quella vita sfortunata e triste. Uno stralunato e vertiginoso acuto è l’inizio della rovinosa caduta della sua mente: in questo disperato rifugio nessuna potrà mai raggiungerla.
Scena III. Giunge Raimondo, direttore spirituale della ragazza, accompagnato da un tema musicale agli archi di tipo liturgico. Raimondo invita Lucia a piegarsi al suo destino, negando valore al giuramento fatto da Edgardo perché non benedetto da Dio. Con un tema musicale irreale e spoglio, sottolineato dagli archi in pizzicato, Raimondo incalza ossessivamente la volontà già tramortita di Lucia, convincendola a sacrificarsi per i suoi cari. Su una frase melodica ripetuta irrealmente da vari strumenti, Lucia infine si arrende.
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A questo punto, con un’invenzione musicale originale, cambia l’atmosfera: una marcetta lieta contornata dal festosi abbellimenti, accompagna il sollievo di Raimondo. Lucia, con una frase melodica meravigliosa per grazia e spontaneità, addirittura preceduta da un suono di piatti, si affida al suo precettore, ma il suo acuto finale mette in luce, ancora una volta, la sua estraneità mentale alla realtà crudele della sue esistenza terrena.
Scena IV. La scena è una magnifica sala, pomposamente ornata per il ricevimento di Arturo, sul fondo una maestosa gradinata, alla cui sommità vi è una porta. Il momento delle nozze è giunto, una folla di invitati saluta l’arrivo di Arturo: la musica è festosa, squillano le trombe, tutta l’orchestra esprime la gioia per l’evento (“Per te d'immenso giubilo”). Arturo si presenta promettendo di voler restituire agli Ashton, e ad Enrico in particolare, la loro fortuna. Enrico rivela ad Arturo di non badare al volto triste della promessa sposa, dovuto sola alla recente morte della madre.
Scena V. Smarrita e tremante, appare Lucia, sospinta da una musica triste, in tono discendente, più adatta ad un funerale che ad un matrimonio. In questa situazione paradossa e delirante, Lucia fa la conoscenza del suo promesso
sposo,
e,
incalzata
dal
suo
preoccupatissimo fratello, piena di spavento e sconvolta, firma il contratto nunziale. La musica rallenta fino al silenzio sul momento fatale della firma. [Maria Callas - Met New York, 1956]
Scena VI. Improvvisamente l’orchestra suona un fortissimo lanciato da un rullo di timpani, preannunciando un fatto inaspettato: l’irruzione di Edgardo, appena tornato dalla Francia, avvolto da un gran mantello da viaggio, e un cappello con l’ala tirata in giù che rende più foschi i suoi lineamenti stravolti dal dolore (“Chi mi frena in tal momento”). Alla sua vista, Lucia sviene, mentre tra gli astanti, con il fiato sospeso, regna un gran scompiglio. L’orchestra si disperde, e solo pochi riferimenti musicali accompagnano i diversi pensieri dei protagonisti, i cui sentimenti oscillano tra stupore, commozione, disperazione, preoccupazione. Mentre poi i quattro protagonisti sommano le loro voci l’una dopo l’altra (“Quale terribile tormento/ più formar non so parole!”), gradualmente ricompaiono tutti gli strumenti sino agli ottoni e le percussioni. Passata la sorpresa - mentre la musica assume immediatamente toni aggressivi -, Enrico ed Arturo si scagliano con le spade sguainate contro Edgardo (“T’allontana, o sciagurato”), il quale si predispone a combattere, ma Raimondo si frappone inducendo i contendenti a fermarsi.
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Edgardo dichiara di essere venuto in nome delle fede giuratagli da Lucia, ma Raimondo gli fa vedere il contratto appena stipulato. Edgardo mostra a sua volta il foglio a Lucia che, ormai inebetita, senza rendersi conto delle sue azioni, impietrita dalla disperazione, si limita a confermare quasi meccanicamente. Edgardo le rende l’anello datole al momento del giuramento e, fattosi dare il proprio dalla giovane, lo getta a terra e lo calpesta, rinfacciandole il tradimento e maledicendo l’intera stirpe degli Ashton (“Maledetto sia l’istante”). Anche la musica segue gli eventi, cambiando timbro e armonia e tempo, verso un progressivo accelerando, e creando un effetto frenetico e destabilizzante. Il secondo atto si chiude travolgente tra furore e pietà: da un lato è rappresentato il sentimento maschile di Enrico, Arturo, Normanno e dei cavalieri, che in preda all’ira minacciano Edgardo, il quale è a sua volta preda di una rabbia disperata e vuole morire, cercando invano di essere colpito dai suoi nemici; dall’altro c’è la figura femminile di Lucia che cade inginocchiata pregando Dio di essere misericordioso con Edgardo e di tenerlo in vita; insieme a lei pregano Alisa, le dame e Raimondo, che sostengono Lucia e sollecitano Edgardo a fuggire senza mettere a repentaglio la vita. La tela cala mentre Edgardo è incalzato dai suoi antagonisti. PARTE SECONDA Il contratto nunziale - Atto secondo.
Scena I. Salone della torre di Wolferag, quasi priva di arredi, è notte, il luogo viene debolmente illuminato da una fioca lampada, mentre infuria la tempesta: lampeggia e tuona ed i sibili del vento si uniscono agli scrosci di pioggia. Edgardo è seduto presso la tavola, immerso nei suoi malinconici pensieri (“Orrida è la notte”); dopo qualche istante si scuote e guarda attraverso le finestre.
Scena II. All’improvviso sopraggiunge un cavaliere: è Enrico che, sempre infiammato dall’odio, viene ad annunciargli che il matrimonio è stato celebrato e che vuole sfidarlo a duello. I due nemici si danno appuntamento per l’indomani presso le tombe dei Ravenswood per un duello all’ultimo sangue.
Scena III. In un’atmosfera surreale proseguono allegri i festeggiamenti al castello di Ravenswood. Nel fondo della scena, paggi del castello ed abitanti di Lammermoor si mescolano a gruppi di Dame e Cavalieri che, sfavillanti di gioia, si uniscono in crocchio e cantano con spensieratezza e gioia (“Per te d’immenso giubilo”): non si celebrano solo le nozze di Lucia, ma anche il roseo futuro della famiglia Ashton.
E’ una melodia spensierata, allegra e veloce, risuona nei registri chiari dell’orchestra, scandita dai piatti e dal tintinnio del triangolo.
Scena IV. I canti e la danza non sono ancora terminati quando sopraggiunge Raimondo. Sconvolto, ordina di fermare i festeggiamenti ed annuncia una notizia che sgomenta i presenti. Con voce grave racconta di aver udito un lamento nella camera nunziale di Lucia, di essere entrato e di aver visto il corpo insanguinato ed esanime di Arturo e Lucia accanto a lui con la spada del morto in pugno. E,
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tra il raccapriccio dei presenti, narra che la giovane ha domandato sorridendo notizie del suo sposo. La sua follia è ormai esplosa, definitivamente. Gli invitati intonano un coro mesto, che in lento crescendo sale fino ad esprimere la pura che le forze del cielo possano chiedere conto a tutti loro di quanto è accaduto.
Scena V. Lucia fa il suo ingresso in sala, in un silenzio generale, appena interrotto dal cordoglio espresso dal coro a mezza voce. Veste una succinta veste bianca: ha i capelli scarmigliati, ed il suo volto di un pallore mortale, la rende più simile ad uno spettro che ad un essere vivente. Con lo sguardo impietrito ed accennando appena un sorriso, Lucia appare non soltanto in preda ad una spaventosa demenza, ma anche prossima alla morte. Nel suo incedere lento e terribile, è nel pieno del suo delirio.
[Diana Damrau Lucia di Lammermoor, Royal Opera House, aprile 2016]
Ha inizio la grande scena della pazzia, il massimo modello musicato di questo tema, vero culmine dell’arte e della cultura dal Romanticismo fino ai tempi attuali. La follia rende la fanciulla innocente, le toglie la colpa del delitto commesso, è pura. Lo attestano la veste bianca e l’accompagnamento solistico affidato al flauto, che ricopre la figura di Lucia di un colore musicale che suscita negli ascoltatori una profonda commozione. La musica raduna alla rinfusa gli spunti tematici che Edgardo e Lucia hanno cantato insieme, mentre la voce della giovane si lascia trasportare lungo una strada ricca di tecnica vocale di agilità, di abbellimenti rapidissimi, note ribattute, gorgheggi, e diversi registri di recitativo. Tutto concorre a presentare un effetto di distanza dalla realtà, dalle sue convenzioni e regole. L’orchestra segue la disgregazione mentale della fanciulla, e lascia solo echeggiare in lontananza un
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coro compassionevole: inizia così il momento più struggente di tutta l’opera, Lucia che crede di vedere Edgardo e sogna le proprie nozze con l’amato (“Il dolce suono…ardono gli incensi!”).
♫♫ Il dolce suono LUCIA: Il dolce suono mi colpì di sua voce! Ah, quella voce m'è qui nel cor discesa! Edgardo! io ti son resa. Edgardo! Ah! Edgardo, mio! Sì, ti son resa! Fuggita io son da' tuoi nemici. Un gelo me serpeggia nel sen! Trema ogni fibra! Vacilla il piè! Presso la fonte meco t'assidi alquanto! Sì, Presso la fonte meco t'assidi. Ohimè, sorge il tremendo fantasma e ne separa! Qui ricovriamo, Edgardo, a piè dell'ara. Sparsa è di rose! Un'armonia celeste, di', non ascolti? Ah, l'inno suona di nozze! Il rito per noi s'appresta! Oh, me felice! Oh gioia che si sente, e non si dice! Ardon gl'incensi! Splendon le sacre faci, splendon intorno! Ecco il ministro! Porgimi la destra! Oh lieto giorno! Al fin son tua, al fin sei mio, a me ti dona un Dio. Ogni piacer più grato, mi fia con te diviso Del ciel clemente un riso la vita a noi sarà.
Scena VI. Informato della scoperta del cadavere di Arturo, Enrico arriva trafelato e minaccia di punire severamente la sorella che lo ha tradito ancora una volta. Ma, appena la vede, un moto di compassione lo frena. La musica si muove in frenetici disegni orchestrali a disegnare l’ira di Enrico, poi ridiventa cupa (emerge il suono degli ottoni) sugli ultimi deliri di Lucia. La donna, nella sua follia, continua a nominare Edgardo, a lamentare la propria innocenza per la rottura del giuramento (la colpa fu del fratello, grida disperata) e lo esorta a non fuggire lontano da lei. Lucia è allo stremo delle forze e della voglia di vivere, e canta per l’ultima volta, ansiosa di volare in cielo ed attendervi l’arrivo dell’amato Edgardo (“Spargi d’amaro pianto”). La voce arriva a vette altissime, tra le più acute della voce umana, mentre una strumentazione fiorita, condotta da legni ed archi sulle note staccate, accompagna la fanciulla e la commiata con commozione.
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♫♫ “pa gi d’a a o pia to LUCIA: Spargi d'amaro pianto / il mio terrestre velo, mentre lassù nel cielo / io pregherò per te. Al giunger tuo soltanto / fia bello il ciel per me! Ah si! RAIMONDO, ALISA, CORO: Ormai frenare il pianto / possibile non è! ENRICO: Vita di duol, di pianto / serba il rimorso a me! Lucia si abbandona quasi priva di vita fra le braccia di Alisa, mentre Enrico, fuori di sé, si allontana; Raimondo accusa Normanno di essere stato, come delatore, la causa di quei tragici avvenimenti.
Scena VII. Cimitero dei Ravenswood, le prime ore dell’alba. Un deciso attacco orchestrale seguito da cupi pizzicati degli archi e dalle note gravi degli ottoni accompagna la figura tragica di Edgardo. Davanti alle tombe dei Ravenswood, egli attende di duellare con Enrico. Torturato dall’immagine della felicità di Lucia (egli ignora quanto è accaduto), anela a cadere trafitto dall’avversario.
♫♫ Tombe degli avi miei EDGARDO: Tombe degli a i iei, l’ulti o a a zo d’una stirpe infelice deh! raccogliete voi. Cessò dell’ira il breve foco… sul e i o a ia o a a do a Per me la vita è o e do peso… l’universo intero è un deserto per me senza Lucia! Di liete faci ancora splende il castello! Ah! “ a sa fu la otte al t ipudio…i g ata do a! Me t ’io i st uggo i dispe ato pia to, tu ridi, esulti accanto al felice consorte! Tu delle gioie i se o…io della o te! Fra poco a me ricovero darà negletto avello… Una pietosa lagrima non scenderà su quello! Fin degli estinti, ahi, misero! manca il conforto a me! Tu pur, tu pur dimentica quel marmo dispregiato: ai o passa i, o a a a, del tuo o so te a lato… Rispetta almen le ceneri di chi moria per te.
i o’.
Scena VIII. Dal castello di Raveswood giunge una folla che si muove lenta e triste, e la musica è cupa e soffusa. Un improvviso crescendo accompagna la richiesta incalzante di Enrico di conoscere la causa di tanta tristezza. Le persone lo informano sugli ultimi avvenimenti luttuosi successi nella casa degli Ashton e sulle condizioni di Lucia, impazzita e ormai prossima a morire, che chiede continuamente di lui. Edgardo si infiamma ancora, vuole correre dalla sua amata ancora una volta. Ma proprio allora rintocca la campana a morto.
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Scena ultima. Edgardo fa alcuni passi per entrare nel castello, ma proprio allora Raimondo esce ad annunciare che la fanciulla è spirata. L’orchestra si impenna in un ultimo vortice tempestoso. Sotto lo sguardo sgomento dei presenti, l’uomo dapprima appare pietrificato, poi recita il suo ultimo canto, un’accorata preghiera all’amata ormai morta (“Tu che a Dio spiegasti l’ali”).
♫♫ Tu che a Dio spiegasti l'ali EDGARDO. Tu che a Dio spiegasti l'ali, o bell'alma innamorata, ti rivolgi a me placata, teco ascenda il tuo fedel. Ah! Se l'ira dei mortali fece a noi sì cruda guerra, se divisi fummo in terra, ne congiunga il Nume in ciel.
La musica segue i battiti del cuore dell’uomo, accelera e improvvisamente rallenta, e la voce si impenna e poi si acquieta. Esplodono i timpani ed Edgardo estrae il pugnale e si ferisce a morte al cuore tra l’orrore dei presenti che non riescono a disarmarlo. Raimondo e tutti i presenti pregano Dio di perdonare il suicida.
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DISCOGRAFIA Da sempre Lucia di Lammermoor è considerata una tappa obbligata per ogni soprano di coloratura (un soprano di coloratura è un soprano in grado di eseguire una serie di ornamenti virtuosistici su una parola o su una sillaba utilizzando al massimo l'agilità vocale), un vertice assoluto del belcanto. Nonostante l’opera sia entrata da subito nel repertorio lirico teatrale, le interpretazioni fondamentali iniziano negli ultimi cinquant’anni. E’ stata Maria Callas per prima ad evidenziare le potenzialità del personaggio, trasformandola, dal primo personaggio che la ritraeva una vergine fanciulla, vittima degli eventi, in un’eroina tragica e dolorosa, non più soprano leggero ma una voce scura e corposa, sempre agilissima. Vi sono due grandissime incisioni della Callas nel ruolo di Lucia.
Questa Lucia di Lammermoor fu la prima opera completa registrata dalla Callas per EMI/Columbia, sotto l’egida di Walter Legge, ma anche la sua prima incisione con Giuseppe di Stefano, Tito Gobbi e il Maestro Tullio Serafin. Questo disco venne realizzato durante una serie di spettacoli operistici al Festival del Maggio musicale fiorentino del 1953. Nonostante non sia completa, è davvero una delle più importanti registrazioni di Lucia e deve appartenere a qualsiasi collezione degli amatori della lirica degna di questo nome. Maria Callas in questa registrazione è realmente “divina”, al di là delle parole e oltre ogni descrizione. La sua tecnica è la perfezione assoluta, di una bellezza senza fine. Lucia è una vittima del destino i cui sogni vengono distrutti, lei le conferisce un aspetto davvero oscuro e inquietante, rappresentando Lucia mentalmente instabile sin dall'inizio. Maria si preoccupava della psicologia del personaggio e del tumulto emotivo, per lei ogni nota di questo personaggio era un'emozione da esprimere. Ed è per questo che sarà sempre superiore a qualsiasi altra diva che tenti di cantare questo ruolo (o - a mio parere - qualsiasi altra cosa che ha cantato; perdonate il mio essere categorico!). Gramophone definì la sua performance nel disco come «certamente una delle prestazioni vocali migliori della nostra epoca». Giuseppe Di Stefano è un grandissimo Edgardo, il tipo di ruolo più appropriato per il grande tenore catanese. Ha tutto l'ardore giovanile necessario per la parte, sia che esprimi l'amore nel primo atto, sia la rabbia nel secondo, o il dolore e il rimorso nel terzo. Tito Gobbi non è generalmente identificato con il repertorio del bel canto, essendo molto più conosciuto per personaggi come Rigoletto e Scarpia (in quest'ultimo ruolo, famosa la sua interpretazione ancora con la Callas/Tosca), ma è sorprendentemente bravo come Enrico.
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Raffaele Arie era ai suoi tempi un basso molto rispettato che purtroppo non ha lasciato molte registrazioni: apprezzata la sua interpretazione di Raimondo, anche se i tagli eseguiti in questa incompleta registrazione gli lasciano pochi spazi. Impeccabile e profonda, come sempre, la direzione di Tullio Serafin. Il suono registrato è abbastanza buono per il periodo. Impossibile comunque eguagliare la tensione che sprigiona questo disco, che vi straconsiglio. Maria Callas, Giuseppe Di Stefano, Tito Gobbi, Raffaele Arie. Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, dir. Tullio Serafin. EMI - B00000630U La seconda splendida interpretazione di Callas/Lucia è quella sotto la direzione di Karajan al Berliner Staatsoper (1955). Maria Callas porta ancora una volta il ruolo di Lucia nel tono drammatico per cui era stato creato. Alla prima dell’opera avvenuta nel 1835, il pubblico pianse assistendo alla follia di Lucia. Con il suo tono più cupo e il sondaggio psicologico, Callas ci fa sentire cosa c'era nell'anima della povera ragazza: era un'innocente, ingannata, abbandonata e impazzita. Questa performance dal vivo, dal suono discreto ma assolutamente degno, è sconcertante nella sua potenza musicale e drammatica; nell'aria c’era qualcosa tra Callas e Karajan che li faceva pensare, respirare e creare musica come se fossero un’anima sola. Giuseppe Di Stefano è stato uno dei più grandi tenori della storia, e lo dimostra anche in questa incisione. È un vero attore quando irrompe al matrimonio di Lucia, quasi sempre canta in modo pulito e senza strafare. Quando, prima di morire, canta sconsolatamente “Tu che a Dio spiegasti l’ali” è veramente toccante, ed il pubblico berlinese lo apprezza. Karajan: ossia, una via per ricollegare il melodramma romantico ai mari tempestosi delle poetiche byroniane, attraverso tempi larghi, sinfonismo descrittivo, sospensione di atmosfere, sonorità e vocalità brunite e tormentate. Forse è un po’… troppo teutonico e poco italiano, ma in questa esecuzione è ricco di passione e musicalità. Qualsiasi collezione di grandi registrazioni d'opera senza questo disco è, senza alcun dubbio, incompleta. Da acquistare senza tentennamenti.
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[Lucia di Lammermoor - Callas, Di Stefano (1955 Berlino)]
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Maria Callas, Giuseppe Di Stefano, Rolando Panerai. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano, dir. Herbert von Karajan. Warner Classics - WCL563886.2
Oltre che la Callas, vi è un’altra grandissima Lucia nella storia teatrale e discografica di quest’opera ed è quella interpretata da Joan Sutherland. Questa che vi presento è una riedizione magnifica di un'opera meravigliosa, qui siamo all' empireo della lirica, dove la musicalità della voce raggiunge apici siderali. La Sutherland, con la sua vocalità astrale e la sua tecnica mozzafiato, incarna perfettamente il soprano di agilità: straordinaria bellezza timbrica, eleganza e facilità nelle figurazioni vocali, acuti luminosi e, cosa importantissima, un bellissimo registro medio. Una Lucia perfetta: fanciulla angelicata, essere trascendente ed ultraterreno, immersa in atmosfere lunari... Pavarotti è, allo stesso modo, strepitoso! Timbro di una bellezza ineguagliabile, nitidezza di dizione, abbandono comunicativo, prestazione superba! La cosa forse più grande che Pavarotti abbia mai consegnato al disco. Protervo, duro e allo stesso tempo alla fine pieno di rimorso l’Enrico di Sherril Milnes; dolce, paterno e ieratico Raimondo di Nicolaj Ghiaurov, veramente bravissimo il basso bulgaro. Richard Bonynge (tralaltro marito della Sutherland, della quale asseconda in tutte le sfaccettature il ruolo di primadonna) è un direttore fra i migliori del repertorio in oggetto, direzione romantica, lunare, viva e teatrale. Dal punto di vista tecnico, questo disco è la riedizione con nuovo remastering digitale della famosa registrazione del 1971: remastering dal suono eccellente di un master analogico eccellente. Quindi voto elevatissimo. Ovviamente la versione in vinile ha una marcia in più (questione di gusti), ma anche il cd rende giustizia all'opera. Concludendo, un Must nella discografia operistica, una delle più belle Lucia mai eseguite, si potrebbe quasi affermare che l'opera sia stata scritta per Pavarotti e Sutherland. Da avere ed ascoltare senza moderazione. Joan Sutherland, Luciano Pavarotti, Sherril Milnes, Nicolai Ghiaurov. Orchestra & Chorus of the Royal Opera House, Dir: Richard Bonynge Covent Garden. Decca Opera,Classico, B005G4YEF2
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Terza grande Lucia della lirica è stata Renata Scotto, che ha dato a Lucia un’impronta più lirica ed una dolcezza più trasognata. La sua interpretazione è sicuramente originale e personale, ha il merito di non volere imitare nessuna delle grandi soprano precedenti. Esistono più incisioni della Scotto in questo ruolo:
La migliore, per drammaticità vocale, è quella con l’Orchestra e Coro del Maggio Musicale, diretta da Bruno Rigacci, e con l’Edgardo raffinato e stilizzato di Alfredo Kraus. In questo disco, l’interpretazione della Scotto è meravigliosamente ricca di fraseggio, capace di rendere appieno la drammaticità del suo personaggio. Kraus debuttò nel ruolo di Edgardo alla Royal Opera House di Londra nel 1959, e questo personaggio rimase nel suo repertorio per tutta la sua lunga carriera. Egli ha collaborato con una serie impressionante di brillanti Lucie: solo per citare le sue interpretazioni al Metropolitan Opera di New York - dove ha cantato per la prima volta Edgardo nel 1993 - le sue Lucia furono Gianna D'Angelo, Roberta Peters, Anna Moffo, Renata Scotto, Joan Sutherland, Lucia Aliberti, Mariella Devia, Marilyn Mims, Ruth Ann Swenson, Sumi Jo e Martile Rowland. Questa performance del 1963 lo trova in ottima forma, ma le sue migliori interpretazioni di Edgardo arrivarono più tardi, quando si affidò alla sua tecnica esemplare e alla sua arte aristocratica, piuttosto che alla giovinezza della sua voce. Indimenticabile l’interpretazione dell’aria finale “Tu che a Dio spiegasti l'ali”, una delle pagine più ispirate che Donizetti abbia mai scritto. È stupefacente ricordare che, negli anni passati, le interpretazioni di Lucia di Lammermoor si concludevano spesso con la scena della pazzia di Lucia: la perdita del canto ispirato di Alfredo Kraus sulla scena finale dell'opera sarebbe un affronto a Donizetti a dir poco criminale. Molto buono il cast di supporto, ricco di musicalità. Il Coro e l'Orchestra del Maggio Musicale, sotto la guida di Bruno Rigacci, sono entusiasti e competenti, ma talvolta presentano dei chiaroscuri che indeboliscono l’unità dell’opera donizettiana. Renata Scotto, Alfredo Kraus, Sesto Bruscantini, Enzo Guagni. Orchestra e Coro del Maggio Musicale, dir. Bruno Rigacci (Firenze, 1963). GOP, Great Opera Performances - B000003Y48 Altra interpretazione di gran livello è questo live del 1967 con Carlo Bergonzi.
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Questa è una delle Lucia di Lammermoor più donizettiane: in essa sono magnificamente presenti la piena potenza ed il pathos di ciò che Donizetti intendeva esprimere con quest’opera. Renata Scotto è spettacolare, straordinaria. Ha una voce meravigliosa: il suo suono vivace e pungente, leggermente penetrante in alto, è straordinariamente chiaro, puro e perfettamente costante. Esprime le varie complessità del suo personaggio in un insieme espressivo; ha un modo di "cadere" magicamente e di collegare frasi, con una vasta gamma di dinamiche, e la sua dizione è una gioia assoluta, nessuna alterazione delle vocali o sovrapposizione su di loro: ogni parola è chiara e significativa. Scotto interpreta Lucia magnificamente dal punto di vista espressivo, sa raccontare la sua storia, e fa condividere al pubblico la sua spontaneità, la giusta dose di angoscia, le sue reazioni spesso toccanti; in "Se tradirmi", la vedi supplicare Dio in modo plausibile, nella scena del matrimonio fa emergere l'abbietta disperazione e desolazione di Lucia, mentre la speranza si esaurisce da lei. Anche la scena della follia è resa in modo naturale e coinvolgente. Carlo Bergonzi, anche se presenta talvolta suoni rudi, offre una prestazione di ottimo livello: tenore eccelso, non bello (ha un aspetto tozzo), gesti vintage di serie. Eppure, crea il dramma solo attraverso la voce, qui in forma fantastica. Bergonzi e Scotto non presentano alcuna interazione sensuale, non producono molto contatto visivo e sono talvolta esageratamente sepolti nel loro ruolo di cantanti, ma presentano sempre insieme vocalmente e musicalmente una notevole compattezza. Mario Zanasi è stato uno dei migliori baritoni degli anni '60. Sebbene non abbia mai raggiunto la vera celebrità, il suo contributo qui è significativo. Rappresenta il tipico baritono italiano del suo tempo, oggi estinto: la linea, le estensioni superiori di facilità e l'espressione sono giuste, ma allo spettatore moderno non offre nulla di più. Il Raimondo di Plinio Clabassi è uno dei migliori mai incisi, di un calibro insolitamente fine, ma magnificamente presente nella scena: nel suo "Dalle stanze, ove Lucia" racconta davvero una storia, allestendo la scena folle in modo appropriato. Sensazionale il ritmo di Bartoletti alla guida NHK Symphony Orchestra. Il suono è mono, ma le voci si distinguono ed emergono bene. Questa interpretazione è anche disponibile in versione video in DVD: per coloro che non hanno familiarità con Renata Scotto dal vivo in teatro, questo DVD dovrebbe essere una rivelazione. Non solo la voce è bella ma la sua tecnica è brillante, spettacolare, e l’espressività del suo viso ripreso in primo piano rivela doti emozionali che in teatro non è possibile cogliere.
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Il carisma di Scotto è carente in Bergonzi, ma è più che compensato nel suo totale impegno stilistico. I due hanno fatto diverse registrazioni importanti insieme e l'abbinamento di queste grandi voci è sempre un piacere. Renata Scotto, Carlo Bergonzi, Mario Zanasi, Plinio Clabassi. NHK Symphony Orchestra, dir. Bruno Bartoletti. Live, Tokyo Bunka Kaikan 1967. Video Artists Int'L - B000QJLW52 (DVD) Ascoltando questa Lucia di Lammermoor, è chiaro perché molti paragonarono Renata Scotto a Maria Callas. Scotto, come la Callas, era capace di sbalordire con le sue virtuosistiche vette vocali, ma quel virtuosismo, per quanto impressionante potesse essere, non era mai solo fine a se stesso. Renata Scotto è ancora meglio qui che nella sua registrazione in studio di sette anni prima, ha un intensità di fraseggio commovente, un canto sincero e ben fatto che dà vita alla protagonista dell’opera. Gianni Raimondi è strepitoso, un Edgardo fra i migliori della storia. È comunque la direzione di Claudio Abbado che fa davvero emergere questa Lucia. Egli qui trova sottigliezze che praticamente nessun altro direttore ha. È stato smentito da tempo che Donizetti e Bellini fossero dei semplici compositori per l'orchestra, ma ci vuole un Abbado per rivelare molti dei raffinati dettagli nell'orchestrazione di Donizetti. Ottiene meravigliose suoni dall'Orchestra della Scala, ed è facile capire perché venne successivamente scelto come direttore musicale. Abbado ha anche ripristinato la maggior parte dei tagli standard che affliggono questa opera, ed è una delle più emozionanti e drammatiche performances da ascoltare. Inoltre, la qualità del suono è eccellente. Renata Scotto, Gianni Raimondi, Gian Giacomo Guelfi, Agostino Ferrin. Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano. Dir. Claudio Abbado. Live, Milano, 1967. Nuova Era (013.6320/21)
Un’edizione discografica di riferimento è questa Lucia, del 1970, interpretata da Beverly Sills, a quel tempo all'apice dei suoi poteri vocali e drammatici. Aveva cantato il ruolo di Lucia sul palco per sei anni e conosceva benissimo il personaggio. Sills è fluente nella coloratura, le note acute sono impeccabili e la sua lettura delle parole è veramente coinvolgente. Canta ogni emozione di Lucia che
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può essere espressa con il canto, usando gli abbellimenti e le note alte per esprimere lo stato mentale fragile di Lucia: la sua voce suona più frenetica man mano che la sua follia progredisce. Carlo Bergonzi è uno stupefacente Edgardo; l’Enrico di Piero Cappuccilli mostra con efficacia rancore e crudeltà. Thomas Schippers produce una performance eccitante, emotiva, vitale e dinamica e per la prima volta, nella scena della pazzia è usata l'armonica di vetro così come Donizetti aveva scritto nella partitura originale. L'armonica di vetro è un tocco meraviglioso - Donizetti ha certamente avuto una grande intuizione -, dà una sensazione davvero inquietante alla scena molto meglio che solo il flauto. Questo è un must per gli amanti del grande canto.
Beverly Sills, Carlo Bergonzi, Piero Cappuccilli. London Symphony Orchestra, dir. Thomas Schippers. Westminster Legacy [Deutsche Grammophon] - B000060P5O
Nel 2002 Jesús López-Cobos, su richiesta della sua casa discografica, elaborò una nuova edizione della partitura dell'opera, più fedele all'originale di Donizetti e Cammarano. Dal paziente lavoro di ricerca di López-Cobos emersero un centinaio di differenze, anche importanti, tra l'originale e le edizioni comunemente in uso. Tra le modificazioni subite dalla partitura figura l'abolizione di molti abbellimenti arbitrari (o ritenuti tali), tra i quali quelli celeberrimi della scena della pazzia (i vocalizzi di Lucia che imitano il flauto). Quando questa registrazione fu pubblicata, molti furono gli equivoci che si generarono tra chi l'acquistò, anche per il fatto che la Philips, stranamente, non fornì alcuna spiegazione in proposito. La performance della Caballé subì molte critiche, addirittura qualcuno pensò ad un adattamento della parte di Lucia alle caratteristiche della stessa soprano. La seconda considerazione, ancora più importante, è che questa "nuova" Lucia di Lammermoor assume inusitate ed interessantissime dimensioni: l'impatto tragico aumenta enormemente ed il personaggio assume una connotazione drammaticamente forte. Montserrat Caballé ne viene fuori con una interpretazione non solo completamente convincente e coinvolgente, ma, in molti passaggi, veramente sontuosa. Nella scena della pazzia, i virtuosistici vocalizzi flautati vengono sostituiti da acuti spinti dalla Caballé, che ottiene così una emissione vocale a tratti stridente, che meglio evoca i tipici accenti della follia.
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Chi invece ha senza riserve convinto tutti sin da subito è uno strabiliante José Carreras veramente grandioso, per tecnica, vocalità, raffinatezza ed intensità espressive, coinvolgimento nel ruolo: questo suo Edgardo è considerato da molti il migliore di sempre e forse la sua più grande interpretazione su disco. Enrico è l'esperto Vincente Sardinero: domina perfettamente il ruolo, con una voce piena e drammaticamente misurata e centrata. Rodrigo è niente meno che il "giovane" Samuel Ramey che apporta i già morbidi e caldi colori della sua bella voce. Fa già molto bene, anzi benissimo, chiaramente preannunciando i vertici interpretativi che proporrà nella sua maturità artistica. Jesús
López-Cobos
tratta
l'esecuzione
con
raffinatissimo vivo senso musicale e drammatico, traendone colori inconsueti e scegliendo sempre i tempi più appropriati. In tutto questo è spalleggiato da una eccellente New Philharmonia Orchestra, ben accompagnata dall’Ambrosian Opera Chorus. La resa sonora è eccellente, calda, avvolgente, ricca di dettagli e con piani sonori ben delineati. Come al solito, Decca non delude: tutti i cd con questa etichetta discografica, infatti, hanno un suono pulitissimo. Montserrat Caballe, Josè Carreras, Vicente Sardinero, Samuel Ramey. New Philharmonia Orchestra, Ambrosian Opera Chorus. Dir. Jesús López-Cobos. Decca - B00006469I
Finalmente ritorna disponibile in CD, ma questa volta in un ottimo remastering della Sony, questa registrazione RCA del 1965, a Roma, con Anna Moffo nel ruolo di Lucia: il suono è ovunque godibile, arioso e di alto livello, del tutto difformemente dai primi mastering degli anni '80 che per togliere il rumore (comunque minimo in questi nastri) e le distorsioni (occasionali) finivano per togliere anche gran parte del suono originario dei master. Questa edizione potrebbe sembrare a tutta prima minore, ma invece, dopo l'ascolto, risulta ancora oggi avere molte pagine meglio e più significativamente eseguite che non la rinomata edizione Decca del trio Sutherland/Pavarotti/Bonynge.
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Non intendo sul versante della pura vocalità, che nella edizione Decca viaggia probabilmente ai più alti livelli possibili in disco, quanto sul versante espressivo. Ad esempio, il duetto Lucia-Edgardo del primo atto si muove nella edizione Decca su binari di routine seppur di alto livello dal punto di vista del fraseggio dei due protagonisti: se lo confrontiamo con quello inciso qui, ci rendiamo conto di quale abbandono melodico, di quale struggente melanconia può invece vestirsi questa pagina. Ma non è l'unica ad essere preferibile qui rispetto alla famosa registrazione inglese. In particolare, la direzione di Prêtre è centratissima: tempi larghissimi, legatissimi, abbandonati nelle pagine liriche; tempi e sonorità mordenti, concitati, nelle pagine di odio di parte o di sdegno, obiettività e neutralità nelle pagine restanti. Questa finisce per essere una delle direzioni migliori in disco del capolavoro donizettiano. Buonissimo il comportamento dell'orchestra, valido quello del coro, ed edizione eseguita integralmente senza i tagli di tradizione. Il cast maschile è di alto livello. Mario Sereni ha un bellissimo timbro, accento infuocato ma senza mai scadere; e se pure come molti baritoni del suo (e del nostro) tempo tende a forzare gli acuti, resta sempre ben lontano da vociferazioni e grida. Uno degli Enrico più soddisfacenti della discografia, nettamente superiore a quello di Milnes o Cappuccilli. Carlo Bergonzi, a dispetto di un accento emiliano-romagnolo piuttosto improbabile per uno scozzese, si dimostra tenore agile e potente nello stesso tempo; non ha lo squillo argentino di Pavarotti, e nella prima scena del terzo atto può quindi apparire lievemente inferiore al collega; ma nella restante parte del ruolo di Edgardo è più vario, sfumato, eloquente rispetto a quello del grandissimo tenore modenese, e nella scena finale (ad esempio) il divario tra i due si fa evidente e ragguardevole, a netto vantaggio di Bergonzi, che si pone su un gradino nettamente superiore. Ezio Flagello - pur con una voce non straordinaria - disegna un Raimondo castigato e commosso, all'occorrenza anche severo e corrusco, e quindi senza eccellere risulta valido ed apprezzabile. Parlo per ultimo di Anna Moffo, che, come l'eroina giovane e vulnerabile Lucia, produce una performance molto romantica. Di certo la sua voce da soprano lirico leggero non può essere nemmeno paragonata alla Sutherland o alla Callas, sia sul piano espressivo che vocale; ed anche la Sills, che aveva una voce come peso non dissimile dalla sua, resta su un altro pianeta per quanto riguarda la vocalità e l'espressione. E' rintracciabile inoltre nella esecuzione della Moffo la suggestione di certa tradizione di inizio secolo della Lucia fanciulla-bambina, che presenta una lieve ostentazione nei recitativi, che oggi sa di lezioso. Ma si tratta di rilievi incidentali, e, nella prova della Moffo, del tutto meno frequenti rispetto a quanto usasse in quegli stessi anni Renata Scotto.
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[Lucia di Lammermoor. Manifesto rappresentazione Castello di Bassano. 30 Luglio 2017]
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Ma se la prova della Moffo non è quindi mitizzabile, non è nemmeno da dimenticare, anzi: sempre vigile l'accento, che disegna una figura partecipe della vicenda con mezzi semplici ma convincenti, e che tiene del tutto lontana la sua prova dalla più ordinaria routine. Vocalità sempre eccellente inoltre, che se qui e là svela qualche tensione nei passaggi da eseguire di slancio, non manca di attenzione timbrica e dinamica. Protagonista che inoltre è capace di due momenti magici: l'attacco iniziale del "Verranno a te sull'aure" e il "Soffriva nel pianto" dell'atto II. In questi due momenti il legato impeccabile, l'abbandono lirico irresistibile e l'uso della mezzavoce rivelano soluzioni non ordinarie. Anche nell’aria della pazzia è incantevole: credo che in questo ruolo sia e rimanga insuperabile. Probabilmente, Anna Moffo è stata - e forse ancora è - la soprano più affascinante e credibile che mai abbia affrontato questo ruolo. È mia opinione che Anna Moffo sia stata la più grande soprano americana ma sfortunatamente è stata sempre sottovalutata. Possedeva una voce incredibilmente calda e liricamente bella. E quel formidabile fraseggio e abilità drammatica! Infine, fu benedetta da una grande bellezza fisica. George Prêtre, in questa che è fra le prime edizioni filmate di un melodramma, recupera parti che all'epoca erano tagliate e dirige con piglio sicuro ed efficace. Splendida la regia cinematografica. Concludendo questa lunga dissertazione, chi lega il piacere dell'ascolto in questa opera alla pura grandezza della protagonista dovrà rivolgersi ad altre registrazioni e scegliere soprani di maggior rilievo storico assoluto. Chi invece vorrà godere dell'opera con uno dei massimi rendimenti complessivi, non potrà sottovalutare questa ottima esecuzione. Anna Moffo, Carlo Bergonzi, Mario Sereni, Ezio Flagello. RCA Italiana Opera Chorus e Orchestra, dir. Georges Prêtre. Rca Red Seal - B00YTY11FQ Sempre con Anna Moffo, esiste in commercio un DVD della Lucia (VAI - B000065B0B) con l’Orchestra ed il Coro della RAI di Roma, diretto da Carlo Felice Cillario. Questa versione cinematografica di "Lucia di Lammermoor" mostra molti punti positivi. Le ambientazioni includono un vero castello e aree esterne reali, che non fanno altro che aumentare l'impatto emotivo che quest'opera ha normalmente. C'è una sorprendente differenza tra questo film e una produzione di un teatro d'opera, a tutto vantaggio di questo film. Se si aggiunge la sensibilità e la dolcezza, la sottigliezza, la bellezza e il talento di Anna Moffo, ecco esplodere la grandezza di questa indimenticabile produzione. 107
Nessuno ha eccelso come Anna Moffo per la sua femminilità, la sua bellezza e il suo canto squisito: vederla e sentirla è semplicemente innamorarsi follemente di lei (come cantante, naturalmente). Anna è semplicemente bellissima con quei grandi occhi marroni e lo spettatore può davvero sentire l'angoscia nel suo personaggio. Vedendola all'aperto, in questo ruolo, con il sole che splende attraverso le foglie su di lei e la brezza che gioca con i suoi capelli, osservandola agire e sembrare una vera donna innamorata, persino sedendosi per terra in un lungo blu pieno vestito con pizzo, non si può fare a meno di stupirsi di quanto sia genuina, naturale e irresistibile. Questo dvd, che presenta una qualità audio e video di ottimo livello, è un ricordo meraviglioso per quelli di noi troppo giovani per potere aver assistito alle sue esibizioni dal vivo.
Da quando ho visto e sentito (purtroppo non dal vivo, ma in un filmato in rete) la Damrau interpretare la Regina della Notte nel Flauto magico di Mozart diretto da Colin Davis (e che ho fatto vedere in occasione della Serata degli Amici del Vinile dedicata al compositore salisburghese), ho un feeling particolare per questo soprano, che, negli anni, è cresciuta ancora di più, arricchendo il suo canto così agile con un colore meraviglioso e con interpretazioni sempre di alto livello. Diana Damrau è un soprano tedesco lirico-leggero, che ha Lucia nel suo repertorio ormai da qualche anno, avendola interpretata, fra l'altro, al Metropolitan e a Monaco, nonché alla Scala. Anche nell'edizione proposta dalla Erato - registrata nel 2013 la Damrau risulta un'eccellente protagonista dell'opera, confermandosi quale una delle migliori Lucie ascoltate in questi ultimi anni, anche se non tra le migliori in assoluto. Senza voler instaurare inutili confronti con mostri sacri del passato, quali la Callas o la Sutherland, la Damrau appare convincente sia dal punto di vista vocale che interpretativo: nel primo caso sfoggia un'emissione sicura e mostra facilità nella coloratura e negli acuti; come interprete sa essere sensibile ed appassionata, ma anche drammatica e correttamente "alterata" nella scena della pazzia, di struggente bellezza. Al proposito, la Damrau, convinta, come da lei medesima dichiarato, che l’eroina donizettiana sia un classico caso da manuale di bipolarismo, dà vita ad una giovane donna affetta da gravi e repentine alterazioni dell’umore, sin dall’entrata in scena in cui si produce in attimi di frenetica felicità alternati a episodi di cupo terrore, approccio continuato per tutto il corso dell’opera e naturalmente esploso all’ennesima potenza nella scena della pazzia. Considerando anche l’altra convinzione del soprano tedesco che Lucia sia il ruolo più verista del belcanto, capiremo quanta esagitazione, quanti singulti
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e respiri affannosi costellino la sua interpretazione; il tutto alla fine risulta forse eccessivo, ma riesce a tenere desta l’attenzione, come ogni interpretazione che, riuscita o no, tenti nuove strade. Accanto a lei, abbastanza convincente risultano il baritono nella parte di Enrico, fratello di Lucia. Scarsa dimestichezza con la lingua italiana rivela il basso-baritono francese Nicolas Testé (Raimondo), che oltretutto evidenzia un timbro piuttosto anonimo e varie magagne tecniche. Ludovic Tézier (Enrico) ha una voce baritonale dalle piacevoli risonanze, soprattutto nel registro centrale, ed anche ben emessa, ma non tenta di creare un personaggio che non sia quello di generico “cattivo” con accenti torvi buoni a tutti gli usi. Calleja ha una voce sgradevole e monotona, soprattutto in acuto: il suo vibrato stretto, che rievoca l’emissione di tantissimi cantanti del periodo antebellico, non incontra oggigiorno grandi favori; peccato, perché è sostenuto da una tecnica di tutto rispetto. Quello che colpisce negativamente di lui è la mancanza di immaginazione interpretativa, una scarsa ricerca di colori e di accenti. Qui ci troviamo di fronte a un Edgardo davvero troppo inamidato. Marie Mclaughlin, un tempo apprezzabilissimo soprano, passa alla storia come forse la peggior Alisa del disco, danneggiando con i suoi maldestri la naturali la sua interpretazione. López-Cobos dirige quest’opera da quasi mezzo secolo e la conosce come ben pochi altri; pur basandosi per questa incisione sulla propria revisione critica, non la segue fedelmente come avvenne per la registrazione con Montserrat Caballé del 1977. Ogni dettaglio è curatissimo, niente è affidato al caso, e la scelta dei tempi e delle dinamiche (a parte i timpani troppo violenti) è così in linea con i valori drammatico-musicali dello spartito da apparire ineluttabile. Da rilevare il fatto che egli ripristina l'utilizzo della glassarmonica, strumento a suo tempo previsto da Donizetti per rendere ancor più allucinante, quasi metafisica, la scena della follia. Per quanto riguarda il corpo orchestrale, salta immediatamente agli occhi sin dalle prime battute del preludio, è il nitore, la precisione, il dosaggio timbrico. La Münchener Orchester procede compattissima senza sbavature e con alcuni interventi assolo di primissima classe, come quello dell’arpa all’inizio della seconda scena del primo atto, o del clarinetto che sottolinea l’appressarsi di Lucia nel duetto del secondo atto con il fratello Inappuntabile anche il coro, il Münchener Opernchor. Concludendo, nonostante abbia alcuni indubbi meriti e spunti di interesse, è altamente improbabile che questa Lucia possa collocarsi al vertice di quelle pochissime incisioni di riferimento del capolavoro donizettiano. Diana Damrau, Joseph Calleja, Ludovico Tezier. Münchener Orchestra e Coro, dir. Jesús López-Cobos. Erato - B00O322N38
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Questa è la versione francese dell’opera, rivista dallo stesso Donizetti per il pubblico parigino, anche se l'originale italiano è migliore: non è una traduzione preliminare in francese, e ci sono alcuni grandi cambiamenti rispetto alla ben nota "Lucia", come l'assenza del personaggio di Alisa. Questo è stato l’esordio di Dessay nel belcanto romantico, e ne è sortita un'interpretazione elegante e commovente. Certo, lei non è una soprano drammatico d'agilità (e non pretende di esserlo), ma il suo timbro è comunque capace di profondità e colore. Inoltre, l'uso di un soprano leggero per questa versione è certamente ben giustificato: questa Lucie francese è un personaggio fragile, totalmente manipolato dagli uomini intorno a lei, piuttosto che la più drammatica Lucia italiana, condannata dalla pazzia fin dall'inizio. Ottimo il resto del cast: superbo il canto di Alagna e di Tézier. L’Orchestra e il Coro dell’Opera nazionale di Lyon obbediscono con diligenza alla direzione di Evelino Pido, che però ha impostato un ritmo eccessivamente lento. Concludendo, una versione interessante grazie alla presenza della Dessay, però questa non potrà mai essere la prima scelta dell’opera, tenendo bene in mente che Lucie non è Lucia. Natalie Dessay, Roberto Alagna, Ludovic Tézier, Nicolas Cavallier. Orchestre de l'Opera National de Lyon, dir. Evelino Pido. Virgin Classics (EMI Records) – Erato, B00005UV9I Ancora la Dessay in questa incisione ricca di chiaroscuri (più i secondi…) In questa registrazione ci si attendeva la replica della sua Lucia nevrotica, allucinata, tutta febbrili soprassalti di sbigottita dolcezza straziante e di paurosi vuoti della ragione: si ascolta invece un canto sommesso, un’elegia lancinante, misteriosa ed eterea, intrisa di una dolcezza estenuata i cui colori presentano solo una varietà di grigi. Lucia al suo apparire si presenta come una donna indifesa e poi sempre più sgomenta, incapace di comprendere quanto di tragico le sta attorno. Una Lucia diversa da tutte, anche dalla sua precedente, più attenta alla dimensione teatrale che alla tecnica vocale: ma che sia una Lucia di portentoso spessore espressivo, non c’è alcun dubbio. I cantanti di supporto sono purtroppo un vero disastro! Dotato di un innato tono lirico, Piotr Beczala ha un canto monocromatico e non coinvolto. In questo ruolo dimostra tutti i limiti di un’emissione che non appartiene alle sue caratteristiche. Beczala è un 110
cantante fra i più intelligenti dell’attuale generazione: lo attendo a prove più adeguate e convincenti. Vladislav Sulimsky, che riveste indegnamente i panni di Enrico Ashton, dopo una fase iniziale appena discreta, da lì in avanti è un disastro: Sulimsky è totalmente fuori stile e non ne imbrocca mezza, né nel duetto con Lucia né in quello con Edgardo. Ma il peggio deve ancora venire. Inascoltabile, infatti, il Raimondo di tale Ilya Bannik, protagonista di una prova pessima, e, se possibile, peggio ancora l’Arturo di Dmitri Voropaev, in quest’opera indecentemente stonato. Direzione ed orchestra sono invece di ottimo livello. Valery Gergiev segue
perfettamente il canto della
protagonista nella sua ricerca d’una drammaticità nient’affatto fosca ma dalle tinte marcatamente contrastate, nervosa nei tempi, accuratissima nella valorizzazione di ogni dettaglio strumentale (ivi inclusa una meravigliosa armonica a vetro) grazie anche a un’esecuzione di strepitosa precisione (quei corni!) e all’assoluta integralità dell’opera. Natalie Dessay, Piotr Beczala, Vladislav Sulimsky, Ilya Bannik. St. Petersburg Mariinsky Theater Orchestra e Chorus. Dir. Valery Gergiev. Mariinsky – 512
Gli anni ’80 vedono la fioritura di cinque Lucie esemplari: Luciana Serra, June Anderson, Editha Gruberova, Katia Ricciarelli e Mariella Devia. Più vicina al modello della Sutherland la Anderson; più estenuata e trasparente la Gruberova; più sofferta e lunare la Devia; più candida e angelicata la Ricciarelli; cristallina ed agile la Serra (protagonista – visibile in DVD - di una indimenticabile serata con Alfredo Kraus al Teatro Regio di Parma, 1986). Pochi anni fa vi è stato il rilancio dell’edizione francese di Lucia: dopo il debutto nel 2002 di Natalie Dessay (già in precedenza commentato), sono emerse le interpretazioni di Patrizia Ciofi (una Lucia con accenti insolitamente nervosi e tesi) e Stefania Bonfadelli (una Lucia spontanea e malinconica).
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