GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 6 – Ottobre 2018
GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista Trimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 6 - Ottobre 2018
Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa
In questo numero: 1a Copertina: Anonimo - Probabile ritratto di Antonio Vivaldi. Museo Internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna 4a Copertina: Gioachino Rossini [3] [5] [26] [27] [42] [51] [57] [63] [67] [69] [73] [78]
Editoriale Serate degli Amici del Vinile: Le putte (La Musi a a o a (15.12.2011) Documento… storico I grandi direttori: Leonard Bernstein (100 anni dalla nascita) Gli a i i del… grammofono: Il Clavi e alo e te pe ato , di Joha “e astia Bach Musica classica e cinema: Farinelli L’epo a dei castrati Carlo Broschi, detto Farinelli Ricordo di Claudio Scimone Strumenti musicali antichi: La Lyra 150° di Rossini - Gourmeterie Rossini Melomania: Il Barbiere di Siviglia, di Gioachino Rossini
Gli articoli e le immagini presenti in questa Rivista sono di dominio pubblico, e senza alcun riutilizzo commerciale. Ci scusiamo per eventuali e non volute carenze od omissioni nelle indicazioni degli autori di porzioni di testi non virgolettati, o di immagini fotografiche, pittoriche e disegnate, o delle eventuali proprietà editoriali o © o ®, che verranno, se contestate, prontamente rimosse. e.mail: raggius@tim.it
2
Editoriale Cari Amiche ed Amici del Vinile, dopo gli ultimi due numeri dedicati alla musica del Romanticismo francese e italiano, faccio oggi un viaggio indietro nel tempo e ritorno alla mia prima serata musicale “L’amor cortese, le putte e le mucche del Wisconsin”, che svolsi nell’ormai lontano 15 dicembre 2011 (quasi 7 anni fa, come passa il tempo…!) Quella serata era divisa in due parti: la prima dedicata alla musica del Medioevo, la seconda alla musica barocca; abbiamo rivisitato il mondo musicale medievale nel mitico n° 1 de “Gli Amici del Loggione”, mentre sarà la seconda parte di quella serata che racconterò in questo numero della Rivista. Come sempre, ritroverete tutto il materiale storico-musicale da me preparato per la serata, che inevitabilmente per motivi di tempo - tiranno ed implacabile - fu solo parzialmente presentato alla vostra attenzione. Una necessaria considerazione: in quella prima (per me) indimenticabile serata, fu possibile farvi sentire solo due (la Toccata e fuga in Re minore BWV 565, e l’Aria sulla quarta corda dalla Suite n.3 in Re maggiore BWV 1068) dei vari brani di Johann Sebastian Bach che avevo preparato. Sarete sicuramente d’accordo con me che un autore così importante non può essere pienamente capito nella sua arte musicale se gli viene dedicato uno spazio così limitato, pertanto in questo numero parlerò della musica barocca tralasciando il compositore di Eisenach: al mitico Johann dedicherò un incontro full immersion in uno dei prossimi incontri musicali al MAV, e successivamente troveremo la “cronaca” della serata nella Rivista.
Presentazione della serata Il concetto di musica barocca è universalmente utilizzato ed accettato per definire lo stile musicale evolutosi dopo la Musica rinascimentale e prima dello sviluppo dello stile Classico, ma la sua definizione rimane tuttora controversa: molti musicologi sostengono infatti che sia illogico unire sotto un'unica etichetta un secolo e mezzo di produzione ed evoluzione musicale che ha fatto della varietà e della differenza il proprio programma estetico. Il periodo storico del barocco (termine spagnolo che significa “bizzarro”) in musica oscilla tra il 1600 e il 1750, in corrispondenza della diffusione del barocco nell'arte. L'utilizzo del termine barocco in campo musicale è piuttosto recente, ed è fatto risalire ad una pubblicazione del musicologo Curt Sachs del 1919. In questo secolo e mezzo di vita, la musica barocca vede nascere numerose forme musicali: l’opera, l’oratorio, la cantata, il concerto, la sonata a tre, le musiche per strumenti a tastiera.
3
Una caratteristica compositiva accomuna tutta la produzione musicale barocca in tutti i suoi numerosi generi compositivi, ed è l’accompagnamento detto basso continuo, che consiste nell’assegnare una linea melodica costante, cioè priva di interruzioni, ad uno strumento con tessitura grave (tiorba, violone - oggi violoncello -, clavicembalo). I principali centri di produzione musicale della musica barocca furono sia le corti dei numerosi regnanti in Europa (compresa l’Italia), sia i numerosi teatri pubblici che, a partire dal 1637 (apertura del Teatro San Cassiano a Venezia), si diffusero dapprima nelle varie città d’Italia e, successivamente, d’Europa.
[Il teatro originale San Cassiano costruito da Andrea Palladio nel 1565] Il pubblico era costituito, oltre che dai nobili, dai ricchi borghesi: si fa musica, oltre che nelle corti, nei teatri e nelle chiese, anche nei salotti delle case private. Nell’età barocca il compositore era, per lo più, maestro di cappella e organista presso le varie corti; scriveva musica sacra o profana a seconda delle esigenze dei suoi aristocratici committenti; scriveva melodrammi per le corti, ma anche, a partire dal 1637, per i teatri pubblici, su commissione dei vari impresari; cominciava a vivere una dimensione cosmopolita, grazie agli inviti di sovrani e impresari stranieri, amanti del teatro italiano.
4
Serata degli Amici del Vinile: “Le putte (il barocco musicale)” ASCOLTO: P eludio del Te Deu Minkowski
, ell’i te p etazio e di Les Musinciens du Louvre, diretti da Marc
Abbiamo iniziato questa parte della serata dedicata alla musica barocca, ascoltando il Preludio dal Te Deum H. 146 in re maggiore per soli, coro e orchestra, di Marc-Antoine Charpentier (1634-1704), compositore francese del periodo barocco e massimo esponente della musica sacra francese del suo periodo. Il Preludio è universalmente famoso per essere utilizzato come sigla iniziale e finale di tutti i programmi televisivi e radiofonici trasmessi in Eurovisione. Il Te Deum laudamus (“Dio ti lodiamo”) è un inno della Chiesa cattolica legato alle liturgie di ringraziamento. Da tradizione si canta sempre durante la Messa del 31 dicembre,
per ringraziare Dio
dell’anno appena trascorso, oppure in altre occasioni solenni come nella Cappella Sistina dopo l’elezione del nuovo Papa, prima che si sciolga il conclave, oppure alla conclusione di un Concilio. Il testo del Te Deum viene attribuito a San Cipriano. Il modello a cui Charpentier si era probabilmente ispirato era il Te Deum di Jean-Baptiste Lully, come è possibile desumere dal solenne uso delle trombe nel brano d'apertura. Tutto il Te Deum di Charpentier vede alternarsi brani sontuosi eseguiti dal coro e dall'orchestra a momenti più raccolti in cui intervengono i solisti (da soli o in varie formazioni) e pochi altri strumenti. ♫♫ Il Preludio è trionfale, solenne e maestoso, in apertura presenta il solo di timpani, ed è strutturato sulla base di una fanfara in forma di rondò. La fanfara è una musica suonata da un complesso di strumenti a fiato (per lo più della famiglia delle trombe) e di strumenti a percussione (tamburi, ecc.), costituita in genere da brevi frasi e ritornelli di intonazione solenne e marziale, oppure può essere semplice e popolaresca, in occasione di cortei, parate, marce.
LE ORIGINI DELL’OPERA. CLAUDIO MONTEVERDI. Le origini dell'opera si fanno risalire al passaggio tra il XVI e il XVII Secolo, quando un gruppo di nobili intellettuali fiorentini, umanisti (letterati e musici), noto come Camerata de' Bardi, dal nome del mecenate conte Giovanni Bardi che li ospitava, elabora le basi che avrebbero portato alla nascita del melodramma o recitar cantando.
5
L'intendimento della Camerata era principalmente quello di riportare ai fasti di un tempo lo stile drammatico degli antichi greci. Lo sviluppo della tematica portò, in campo musicale, alla elaborazione di uno stile recitativo in grado di cadenzare la parlata corrente ed il canto. Inizialmente questo stile fu applicato a semplici monodie per poi essere applicato a forme compositive più articolate. La prima assise della Camerata di cui si ha notizia si tenne il 14 gennaio 1573; del gruppo fecero parte, oltre che il conte Bardi, intellettuali, drammaturghi e musicisti come Girolamo Mei, Vincenzo Galilei (liutista, padre di Galileo), Giulio Caccini, Emilio de' Cavalieri, Jacopo Peri, Francesco Rasi e Ottavio Rinuccini. Il genere era inizialmente riservato alle corti, e dunque destinato a una élite di intellettuali e aristocratici; acquistò successivamente carattere di intrattenimento nel 1637 con l'apertura del primo teatro pubblico, il Teatro San Cassiano a Venezia, il primo teatro moderno per struttura, per organizzazione, per gestione (basti pensare al palcoscenico con fondali dipinti intercambiabili, la platea e i palchetti da affittare). Nel corso del XVII secolo, i soggetti preferiti erano tratti dai poemi omerici e virgiliani e dalle vicende cavalleresche, in particolare quelle narrate da Ludovico Ariosto e Torquato Tasso, con l'aggiunta di spunti fantasiosi o erotici. La musica era caratterizzata dall'onnipresente basso continuo, arricchito dalla presenza di strumenti a fiato e ad arco. Agli esordi l’opera trovò l'espressione più alta e originale nella figura di Claudio Monteverdi (15671643), di Cremona. Monteverdi scrisse una delle prime opere teatrali in cui fosse sviluppabile una trama drammatica, l'Orfeo, su libretto di Alessandro Striggio, tipica favola legata al mondo pastorale rinascimentale, con testi e ambientazioni prediletti dal teatro di corte; la sua prima rappresentazione avvenne a Mantova nel 1607, e anche nei tempi attuali l’opera è eseguita regolarmente. La sua musicalità è particolarmente efficace, ricca di una gamma di colori strumentali: il mondo delle ninfe e dei pastori in cui inizia l’opera è rappresentato da flauti dolci, archi e strumenti a pizzico; quando l’azione si sposta negli Inferi, i primi tromboni e l’organo regale prendono il sopravvento, ma ci sono anche significativi assoli strumentali per violino e arpa. Capolavoro nel suo genere, si caratterizza per la Toccata iniziale, da eseguirsi tre volte prima che si alzi la tela: affidata alle trombe e ai timpani, non lascia presagire
nulla
dell’azione
successiva,
ma
ci
comunica un’idea di festa e di grandiosità: è una specie di fanfara che serviva sia come saluto alla corte sia per richiamare l'attenzione degli spettatori sullo spettacolo che stava per cominciare.
6
Alla Toccata seguono un Prologo e cinque atti in cui è narrata la vicenda di Orfeo, con la variante del lieto fine: dopo aver perso Euridice per la seconda volta, Orfeo verrà assunto in cielo da Apollo, dio della poesia e della musica. ♫♫ Dall’Orfeo di Monteverdi ascoltiamo la Toccata; a seguire il Coro di Ninfe e pastori “Lasciate i monti”, dove il coro fa da filo conduttore alla vicenda, come nella tragedia greca.
♫♫ Coro di Ninfe e pastori NINFE E PASTORI. Lasciate i monti / lasciate i fonti ninfe vezzose e liete / e in questi prati ai balli usati / vago il bel piè rendete. Qui miri il sole / vostre carole, più vaghe assai di quelle / ond'alla luna, la notte bruna, / danzano in ciel le stelle. Poi di bei fiori / per voi s'onori di questi amanti il crine, / ch'or dei martiri dei lor desiri / godon beati al fine. ASCOLTO: I due brani sono eseguiti dalla Camerata Accademica di Amburgo e dal Coro Monteverdi di Amburgo. Direttore Jurgen Jurgens Monteverdi scrisse otto Libri di Madrigali. Il madrigale è un componimento poetico di origine italiana, connesso in origine al canto a più voci, da 3 a 5, d’argomento prevalentemente amoroso a sfondo idilliaco. Una sua caratteristica importante è la ricerca di un rapporto sempre più stretto tra parola e musica, in cui è quest’ultima a illustrare i significati e le più riposte sfumature del testo attraverso l’uso del cromatismo, del contrappunto e del timbro1. I primi tre libri dei Madrigali monteverdiani sono più consoni allo stile polifonico rinascimentale, dal quarto in poi è tutto un susseguirsi di innovazioni sia nella scelta e nella composizione degli organici, rigorosamente vocali e strumentali, con una, due o più voci in concerto con gli strumenti, sia nella varietà delle soluzioni armoniche. ♫♫ Dai Madrigali ho scelto due brani: il primo è “Ecco mormorar l’onde” del Secondo Libro, costruito su di un commosso
testo
di
Torquato
Tasso
che
canta
1
Cromatismo: frequente uso di suoni estranei alla scala diatonica. Contrappunto: l’a te di o i a e la elodia p i ipale o u a o più elodie o te po a ee, vo ali o st u e tali, più o meno autonome. Timbro: quella particolare qualità del suono che permette di distinguere due suoni di fonte diversa pur avendo uguale frequenza e altezza.
7
l’impalpabile e miracoloso mutamento dei colori della natura nel breve tempo dell’aurora. Esso è già un capolavoro del genere madrigalesco: gli ingressi sfalsati e variamente combinati delle cinque voci, con brevi afflati di canto che efficacemente corrispondono alla frammentata meraviglia delle parole di Tasso, introducono l’ascoltatore in un mondo sonoro di sfumature, trasformazioni, echi; una sfera incantata in cui perdono consistenza i confini tra notte e giorno, sonno e veglia, coscienza e incoscienza. È già la poetica del sogno, del magico, dell’impalpabile, che tanta parte avrà nella letteratura del Seicento, da Shakespeare e Calderón in poi.
♫♫ Ecco mormorar l'onde Ecco mormorar l'onde e tremolar le fronde a l'aura mattutina e gli arboscelli. E sopra i verdi rami vaghi augelli cantar soavemente e rider l'oriente. Ecco già l'alba appare e si specchia nel mare e rasserena il cielo e imperla il dolce gelo e gli alti monti indora. O bella e vaga aurora! L'aura è tua messaggera e Tu dell'aura che ogni arso cor ristaura! ASCOLTO: L’i te p etazio e è di The Consort of Musicke diretto da Anthony Rooley. Questo ensemble è specializzato nell'esecuzione di musica rinascimentale a cappella, inclusi alcuni autori del primo barocco, in particolar modo inglesi e italiani. Ha all'attivo la registrazione di oltre dis hi, t a ui l’i teg ale dei Mad igali di Mo teve di. ♫♫ Il 2° madrigale da me scelto è tratto dall’ 8° Libro “Madrigali guerrieri et amorosi”, ed è “Vago augelletto che cantando vai” dal Canzoniere di Francesco Petrarca.
8
Il sonetto fu scritto da Petrarca dopo la morte di Laura, ed è condotto sul confronto diretto tra l'uccellino e il poeta. Tutto il sonetto è soffuso di malinconia, e ad essa invitano sia l'ora del crepuscolo, che la stagione tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno. Il ritmo è cantabile e scorrevole.
♫♫ Vago augelletto che cantando vai Vago augelletto che cantando vai ovver piangendo il tuo tempo passato vedendoti la notte e'l verno a lato e'l dì dopo le spalle e i mesi gai. Vago augelletto che cantando vai si come i tuoi gravosi affani sai così sapessi, il mio simile stato, veresti in grembo a questo sconsolato a partir seco i dolorosi guai. Vago augelletto che cantando vai. ASCOLTO: As oltia o il a o ell’i te p etazio e del Concerto italiano, diretto da Rinaldo Alessandrini, un gruppo vocale-strumentale italiano specializzato nell'esecuzione di musiche madrigalistiche e barocche, un vero e proprio punto di riferimento di questo genere musicale. IL CONCERTO GROSSO. ARCANGELO CORELLI Il concerto è una composizione per uno o più strumenti solisti assieme ad una più vasta formazione strumentale. Ebbe le sue origini in Italia verso la fine del 1600 e segnò un punto importantissimo nella trasformazione del linguaggio e della tecnica musicale. Nacque all’inizio nella forma detta “Concerto grosso”, caratterizzato dalla contrapposizione di un gruppo solistico detto Concertino (solitamente 2 violini e un violoncello) rispetto alla globalità dell’orchestra, detta Ripieno, o, appunto, Grosso. Il Concerto grosso si articola in 5 o più movimenti e presenta una regolare alternanza tra tempi lenti e veloci. Interprete massimo fu Arcangelo Corelli (1653-1713), violinista e tra i più grandi compositori del periodo barocco. Lo stile introdotto da Corelli - e sviluppato dai suoi allievi Pietro Locatelli, Pietro Castrucci e Francesco Geminiani -
ebbe
un'importanza fondamentale per lo sviluppo del linguaggio orchestrale e violinistico. Corelli fu il punto di riferimento di tutti i maggiori violinisti italiani del XVIII secolo. Ci sono pervenute poche opere di questo compositore: gran parte della sua produzione non venne mai pubblicata ed è così andata dispersa o perduta.
9
♫♫ Per questa serata ho scelto il celeberrimo Concerto Grosso in Sol minore, op.6 n.8, composto da Corelli nel 1690 ed eseguito per la prima durante la vigilia di Natale di quell’anno: il frontespizio del manoscritto reca l’iscrizione Fatto per la Notte di Natale. E’ in 6 movimenti, l’ultimo dei quali è una Pastorale ad libitum, con gli archi che ricordano in modo evidente, anche in senso timbrico, l’atmosfera tipica dei pastori che si raccolgono intorno alla grotta di Betlemme, trasmettendoci un senso di pace e di dolcezza dopo le inquietudini armoniche dei movimenti precedenti. L'organico è quello tipico dei concerti grossi corelliani, con un concertino formato da due violini e violoncello e un ripieno a quattro parti (due violini, viola e basso continuo), e con il sostegno di un arciliuto.
ASCOLTO: Vi propongo il VI movimento, la Pastorale (Largo), nell’i te p etazio e dell’ Orpheus Chamber Orchestra, un'orchestra specializzata nella musica da camera, con la curiosa caratteristica di non avere un direttore. Ha vinto diversi Grammy Awards. IL CONCERTO SOLISTA. ANTONIO VIVALDI Generalmente si individua in Antonio Vivaldi l'inventore del Concerto solista, ossia, l'evoluzione del concerto grosso verso una forma musicale in cui uno strumento solista dialoga con una piccola orchestra. Lo strumento solista è il violino perché il primo violino è anche il direttore d'orchestra; tuttavia con il tempo sarà preferito il clavicembalista come direttore d'orchestra, poiché aveva maggiori probabilità di avere le mani libere e quindi di dare gli attacchi agli orchestrali e ai cantanti d'opera. Antonio Lucio Vivaldi (Venezia 1678 – Vienna, 1741) era un sacerdote, e per tale motivo – oltre che per il colore dei suoi capelli – era soprannominato Il prete rosso. Le sue opere (600 fra concerti e sonate) sono una musica non accademica, chiara ed espressiva, tale da poter essere apprezzata dal grande pubblico e non solo da una minoranza di specialisti. Molti dei suoi concerti sono programmatici od onomatopeici: tra questi, ad esempio, figurano i quattro concerti per violino conosciuti come "Le quattro stagioni", celebre e straordinario esempio di musica a soggetto. " che costituiscono i primi quattro numeri dell'opera 8, Il cimento dell'armonia e dell'inventione op. 8 (l720). Altri titoli di musica a soggetto sono Il Gardellino, La Tempesta di Mare, La Caccia, La notte; altri portano un titolo che si riferisce allo stile musicale, come il Concerto madrigalesco o il Concerto alla rustica; altri all'affetto generale che suscita il brano, come L'inquietudine o L'amoroso. Fondamentale per la comprensione dell’opera vivaldiana è la raccolta L'estro armonico op. 3 (1711), di cui Johann Sebastian Bach trascrisse 6 dei 12 concerti che la compongono. In tale raccolta emergono con
10
particolare nitidezza le caratteristiche peculiari dell'ispirazione vivaldiana, fondata su un particolare gusto per la ricerca timbrica e per la levigatezza dei fugati 2. Come avvenne per molti compositori del barocco, dopo la sua morte, il suo nome e la sua musica caddero nell'oblio: il recupero della sua opera è un fatto relativamente recente, avvenuto nella prima metà del XX secolo, grazie alla ricerca di alcuni musicologi come Arnold Schering, Marc Pincherle, Alberto Gentili e Alfredo Casella. Vivaldi è uno dei compositori più amati e ascoltati del Barocco, anche se non tutti i musicisti del XX secolo mostrarono lo stesso entusiasmo: Igor Stravinskij disse provocatoriamente che «Vivaldi avrebbe scritto per cinquecento volte lo stesso concerto». Delle Quattro stagioni vivaldiane ho ampiamente parlato nel numero 5° de Gli Amici del Loggione, e ad esso rimando per un approfondimento delle composizioni. In occasione di quella serata feci ascoltare il 1° movimento (Allegro) della Primavera, quindi il 3° (Presto) dell’Estate, nell’interpretazione dei Musici con Felix Ayo primo violino; come terzo ed ultimo brano della raccolta, proposi un video del 2° movimento (Largo) dell’Inverno, che descrive la pioggia che cade lenta sul terreno ghiacciato. Il video era tratto dal DVD delle Quattro Stagioni eseguiti dai Berliner Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan, con Anne-Sophie Mutter primo violino, interpretazione che in generale fa storcere il naso ai cultori della musica vivaldiana (a giustificare la mia colpevole scelta è una incondizionata devozione verso la violinista tedesca): essa era interessante solo per vedere l’ormai anziano direttore austriaco accompagnare al clavicembalo (basso continuo) la sua leggendaria orchestra. Oltre ai tre brani tratti dalle Quattro stagioni ho scelto: Concerto “Il Gardellino” in re maggiore per flauto traverso, archi e basso continuo RV 428 “Il Gardellino” fa parte dei 6 Concerti per flauto traverso op.10, e si divide in tre tempi: allegro – cantabile – allegro. [Anonimo veneziano sec. XVII, Suonatrice di flauto] ♫♫ Si respira un'atmosfera di idilliaca pace campestre in questo concerto per flauto, archi e basso continuo, dove il flauto ha un ruolo predominante sin dalle prime battute: Vivaldi 2
Composizione musicale svolta secondo il procedimento e lo stile della fuga, ma con assoluta libertà di movimenti formali.
11
sottolinea le capacità virtuosistiche del flauto per imitare il cardellino, consegnandoci la spensierata canzone dell’uccellino trillante in un gioco di invenzione melodica di straordinaria poesia della natura. L’adagio lirico, che segue, trasmette una sensazione di tranquillità profonda, mentre il movimento finale del brano è veloce e animato fino alla conclusione ricca di gioia e colori musicali.
ASCOLTO: Concerto Il Gardellino: Allegro. L’i te p etazio e è de I Solisti Veneti, diretti da Claudio Scimone (recentemente scomparso). Al flauto Jean-Pierre Rampal, reputato uno dei più grandi flautisti del XX secolo. Concerto “L’amoroso” in mi maggiore per violino, archi e basso continuo RV 217 Questo concerto compare nel manoscritto de “La Cetra” op. 9 ed è contrassegnato da un lirismo puro. Vivaldi vi ha disegnato numerose note ornamentali, e splendide arpeggiature;
nel
finale
le
due
parti
dei
violini
si
impegnano
frequentemente in dialoghi scorrevoli, quasi una conversazione da innamorati. Questo concerto è uno dei più incantevoli ritratti sentimentali che il compositore abbia mai composto.
ASCOLTO: Concerto L’A o oso : ° ovi e to Alleg o , ell’i te p etazio e de I Musici: primo violino Felix Ayo (suona un violino Guadagnini realizzato nel 1744) Concerto “Alla rustica” in sol maggiore per archi e basso continuo RV 151 Il Concerto detto Alla rustica, scritto tra la metà del 1720 e il 1730 è, nella sua brevità, una delle opere più interessanti e conosciute di Vivaldi. Fu una delle prime composizioni del Prete rosso a essere riscoperta dalla cultura musicale italiana del Novecento. Esso appartiene al gruppo dei Concerti vivaldiani senza strumento solista, gran parte dei quali composti per fornire alle fanciulle dell'Ospedale della Pietà3 brani di facile esecuzione; il titolo sembra alludere alla relativamente sommaria costruzione formale del Concerto, basato su un inciso fondamentale più volte ripetuto e articolato nella successione di un tempo veloce, uno lento e di nuovo uno veloce tipica del concerto da camera.
Ai tempi delle Crociate erano nati in Venezia va i ospedali , ostelli pe i pelleg i i, istituti di e efi e za fi a ziati, amministrati e controllati da un apposito consiglio nominato del Senato della Repubblica. In seguito divennero ricovero per orfani, poveri e bisognosi. L’Ospedale di “a ta Maria della Pietà, sorto nel 1346 in Riva degli Schiavoni, divenne celebre per il rilievo delle attività usi ali i esso ese itate. No è e ato affe a e he si t attava della as ita dell’istituzio e he più ta di si sa e e chiamata Conservatorio. Nel Settecento nobili famiglie chiedevano che le loro figlie fossero accolte a pagamento, per ricevere una istruzione musicale. Dal 1703 al 1720 vi svolse attività di compositore, violinista e maestro di canto Antonio Vivaldi, nato nelle vicinanze, in Campo della Bragora. 3
12
♫♫ Il primo movimento (Presto) è un moto perpetuo, un pezzo di assoluto virtuosismo per un'orchestra barocca, con una melodia briosa dalla forza irrefrenabile. E’ interessante notare come, alla metà del movimento, il tema principale passi dai primi ai secondi violini, rafforzati dalle viole. Il secondo movimento (Adagio) ha un carattere maestoso
reso
con
pochissimi elementi; alle
note solitarie e solenni del quartetto risponde il cembalo con gravità: tutto è molto bello, riuscito e realizzato con un numero limitatissimo di battute (se ne contano appena 16). L'Allegro finale, nel ritmo di danza, è affidato ai violini con un fitto accompagnamento di violoncelli, e la presenza di due oboi. Anche questo tempo sembra voglia giustificare il titolo dell'opera che si chiude in piena festosità.
ASCOLTO: Co e to alla Rusti a ° ovi e to P esto The English Concert, diretto da Trevor Pinnock BENEDETTO GIACOMO MARCELLO (1686-1739) Benedetto Marcello costituisce una personalità esemplare tanto per la sua posizione sociale (era nobile e faceva parte del Maggior Consiglio veneziano), quanto per la sua attività di artista. La sua vita è caratterizzata da un continuo intrecciarsi di ruoli: avvocato, giudice, amministratore, poeta, filologo, musicista e compositore. Scrisse numerose composizioni, madrigali, cantate, sonate, concerti, musica sacra, ma è universalmente noto per l’Adagio del Concerto per oboe, che fu anche trascritto per strumento a tastiera da Johann Sebastian Bach (BWV 974), ma che in realtà è opera del fratello Alessandro Marcello. A Benedetto Marcello è stato dedicato il Conservatorio di Venezia. L’Adagio è divenuto popolare ai giorni nostri grazie al film Anonimo veneziano (1970), che racconta la storia drammatica di Enrico, oboista della Fenice di Venezia, ammalato di un male incurabile che, dopo aver convinto l’ex moglie a vederlo per un’ultima volta e trascorso con lei una giornata indimenticabile in giro per Venezia, dirige il concerto di un “anonimo” compositore veneziano. ♫♫ L’Adagio del Concerto è una dolce e struggente melodia disegnata dall’oboe con l’accompagnamento di arpa e archi.
13
ASCOLTO: I Solisti Italiani con il grande oboista Hans Schellenberger in una struggente e malinconica interpretazione. JOHANN PACHELBEL (1653-1706) Johann Pachelbel è stato un musicista, compositore e organista tedesco. Fu autore di numerose composizioni barocche profane e sacre. È famoso per il contributo dato allo sviluppo del preludio corale e della fuga. La sua opera più conosciuta è il Canone in re maggiore, un brano musicale in forma di canone scritto intorno al 1680 come parte di una pièce di musica da camera per tre violini e basso continuo. Successivamente il brano venne trascritto per essere suonato con una maggiore varietà strumentale fino a raggiungere la forma attuale di brano orchestrale. Oltre al Canone, Pachelbel scrisse un cospicuo numero di cantate per la Chiesa luterana e sonate da camera per vari strumenti, soprattutto per violino. Il Canone deriva da una giga che sviluppa il medesimo tema musicale ed è caratterizzato dalla reiterazione del suono dei diversi strumenti a corda. Una variante prevede l'aggiunta di un pizzicato di viola in sostituzione della linea del basso ostinato solitamente garantita dal suono dell'organo e del violoncello. ♫♫ Nella sua versione originale, il Canone è eseguito da tre violini mentre il basso continuo è sostenuto dal violoncello. All'inizio della esecuzione, il primo violino dà vita alla prima variazione, ripresa subito dopo dal secondo violino che inizia ad eseguirne una seconda; al termine di questa, il primo violino avvia la terza variazione e il secondo violino la seconda, il terzo la prima, e così via in maniera circolare. La complessità della struttura del canone - che pure non varia mai nel ritmo - aumenta con il procedere dell'esecuzione fin quando le variazioni - che in tutto sono ventotto - diventano più complesse, per poi farsi nuovamente più semplici.
ASCOLTO: L’i te p etazio e del Canone è quella della Stuttgarter Kammerorchester, diretta da Karl Münchinger GEORG FRIEDRICH HÄNDEL (1685–1759) Georg Friedrich Händel è un compositore tedesco naturalizzato inglese, ed è considerato uno dei più grandi musicisti vissuti tra il XVII e XVIII secolo, e in assoluto tra i più importanti nella storia della musica. Di lui sappiamo che fu sempre una persona molto riservata, era intelligente e aveva un'ottima cultura generale (parlava correttamente oltre al tedesco, la sua lingua madre, il francese, l’inglese e l’italiano).
14
Aveva una forte personalità, anticonformista, sincera, schietta, indipendente, incapace di piegarsi al servilismo cortigiano. Anche se l'aneddotica lo ritrae collerico (un giorno Händel rimproverò anche il re perché si era presentato in ritardo ad un suo concerto: Giorgio II incassò senza batter ciglio) egli si faceva apprezzare e benvolere in ogni ambiente, in qualsiasi classe sociale, a palazzo come a corte o in chiesa. Fu anche molto sensibile alla condizione dei più sfortunati: si occupò del mantenimento di numerosi orfani e fu partecipe dei problemi dei carcerati, molti dei quali ottennero la libertà grazie al suo impegno. Da giovane, pare che Händel fosse bellissimo: era alto, snello, biondo e con gli occhi azzurri. A causa dell'obesità e di un progressivo inacidimento del carattere, comparsi durante la vecchiaia, in alcune stampe satiriche i suoi avversari arrivarono addirittura a ritrarlo come "un maiale seduto all'organo". [Händel, in una caricatura di Joseph Goupy - 1754]
Händel possedette un'innata capacità di assimilare tutti i linguaggi musicali praticati al suo tempo, cionondimeno la sua arte non mancò mai di originalità, arricchita come fu da un'invenzione melodica, un'esuberanza e una libertà creativa straordinarie. Complessivamente ci ha lasciato più di 600 lavori: oltre 40 opere per il teatro, 30 fra oratori, serenate ed odi, quasi 300 fra cantate da camera e musica sacra, oltre ad un grande numero di composizioni strumentali. Per questa serata propongo ben cinque composizioni di questo eccelso musicista. Salomon: Arrivo della Regina di Saba Solomon (HWV 67) è un oratorio in lingua inglese di Georg Friedrich Händel scritto nel 1748, che narra la storia biblica del grande re d’Israele Salomone. E’ una splendida partitura di un Händel maturo e ricco di un grande bagaglio di esperienze, un magnifico sodalizio tra musica e lingua inglese. Il libretto è organizzato in 5 parti, che si basano sui tre grandi momenti della vita di re Salomone: la ricostruzione del tempio, il celebre giuramento e l’arrivo della regina di Saba. Il soggetto biblico è combinato con riflessioni politiche e patriottiche, celebrando l’amore carnale e le ricchezze terrene tra bellissime arie solistiche e sontuosi cori. ♫♫ La Sinfonia del terzo atto descrive, con grande enfasi e solennità, l'arrivo della Regina di Saba a Gerusalemme: è un delizioso movimento per due oboi ed archi, che si snoda in un altalenante e movimentato gioco di intarsi melodici. Il brano è diventato famoso al di fuori del contesto del lavoro completo. In questo vivace brano strumentale Händel intese affiancare la prosperità del re Giorgio II, sovrano di Inghilterra alla fine del XVIII secolo, al pari dell’antico re d’Israele nel pieno della sua magnificenza.
15
[Piero della Francesca - Leggenda della vera Croce: Salomone e la Regina di Saba. Basilica San Francesco, Arezzo]
ASCOLTO: The English Concert, diretto da Trevor Pinnock Sarabanda dalla Suite per clavicembalo in Re minore HWV 437 La Sarabanda è una danza lenta di carattere solenne. Si pensa che tale danza abbia origine spagnola come vorticosa danza d'amore, ma si presuppone che questa derivi a sua volta dall'Arabia o dalla Persia. Bandita
nel
1583
perché
ritenuta
oscena,
ricomparve in epoca barocca, divenendo un movimento tipico della Suite barocca: per esempio, tutte le sei suite per violoncello solo di Johann Sebastian Bach contengono una sarabanda, così anche nella Suite per orchestra n. 2. Anche molti altri musicisti
italiani
(Antonio
Vivaldi,
Arcangelo
Corelli), inglesi (Henry Purcell) e tedeschi (Johann Pachelbel) hanno utilizzato molto questa danza nelle loro composizioni strumentali. La Sarabanda di Händel è il celeberrimo quarto movimento della Suite in Re minore HWV 437 per solo clavicembalo, composta tra il 1703 ed il 1706. E’ una variazione sulla base armonica de La Follia, un antico tema musicale basato su una progressione di 16 accordi ripreso poi nel corso degli anni da moltissimi altri compositori e probabilmente risalente al sedicesimo secolo. E’ stata scelta da Stanley Kubrik come uno dei brani della colonna sonora del film Barry Lyndon (vedi pag. 57 de Gli Amici del Loggione n° 4).
ASCOLTO: The English Concert, diretto da Trevor Pinnock
16
Serse: Largo Serse è un'opera seria in tre atti che vide la luce nel 1738, anno in cui venne presentata per la prima volta a Londra: fu in realtà un grosso fiasco e durò appena 5 esibizioni prima di essere cancellata dai programmi. Il celebre Largo però venne riscoperto in seguito, ed oggi è una delle arie più conosciute del repertorio di Handel al punto che ne esistono trascrizioni per tantissimi strumenti tra cui, su tutti, pianoforte, organo e violino. Il Largo (anche se il tempo del pezzo originale era Larghetto) altro non è che l’aria iniziale, "Ombra mai fu", cantata dal protagonista Serse I re di Persia ad un platano del quale sta ammirando l’ombra. ♫♫ L’aria è breve, solo 52 battute, ed era originariamente composta per essere eseguita da un castrato con voce d soprano (ai giorni nostri viene cantata da un mezzosoprano contralto).
♫♫ Ombra mai fu Frondi tenere e belle del mio platano amato per voi risplenda il fato. Tuoni, lampi, e procelle non v'oltraggino mai la cara pace, né giunga a profanarvi austro rapace. Ombra mai fu di vegetabile, cara ed amabile, soave più. ASCOLTO: Ombra mai fu , nella versione solo strumentale della Orpheus Chamber Orchestra Musica sull'acqua (Water music) Questa composizione è un insieme di movimenti orchestrali, spesso considerate tre suite. La prima dell'opera si tenne il 17 luglio 1717 in seguito alla richiesta del re Giorgio I, che aveva chiesto un concerto sul fiume Tamigi.
[Edouard Jean Conrad Hamman (1819-1888): quadro raffigurante Händel (a sin, con il braccio disteso) e re Giorgio I in gita sul Tamigi, mentre nello sfondo i musicisti suonano. Il dipinto illustra la prima rappresentazione di Water music nel 1717]
Il concerto fu eseguito da 50 musicisti che suonavano
su
una
chiatta
(tranne
il
clavicembalo che non poteva stazionarvi per le sue dimensioni) in prossimità della chiatta reale, da cui il re ascoltava con alcuni amici
17
intimi, Si dice che Giorgio I apprezzò tanto la musica che ordinò che i musicisti, sebbene fossero esausti, ne ripetessero l'esecuzione per ben tre volte. Uno dei movimenti più famosi è l’“Hornpipe”. L’Hornpipe è un tempo di danza originario delle Isole Britanniche attorno al XIII secolo, il nome viene fatto risalire all'uso popolare di danzare con accompagnamento di una "hornpipe" (letteralmente: canna di corno), strumento ad ancia, con canna semplice o doppia, ricavato da corna animali. Originariamente danzata rigorosamente da soli uomini, ha assunto col tempo connotati particolarmente virtuosistici, arricchendo i passi con sempre maggiori difficoltà.
ASCOLTO: Ho pipe è eseguito dall’O pheus Cha
e O hest a
Hallelujah, dal “Messiah” La composizione più famosa di Händel è sicuramente l’oratorio Messiah, scritto in poco più di 24 giorni. Händel metteva il Messiah nei programmi dei concerti sempre nel periodo della Quaresima o di Pasqua, seguendo il testo che si basa - specialmente nella terza parte - sui concetti di Resurrezione e Redenzione. In seguito l'oratorio venne suddiviso a seconda delle occasioni: nei concerti natalizi spesso si rappresentava solo la prima parte e l'Hallelujah, mentre a Pasqua si suonavano le parti che riguardano la Risurrezione. Il brano più celebre dell'oratorio è l'Hallelujah, che conclude la seconda delle tre parti dell'opera.
♫♫ Hallelujah
Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! For the Lord God Omnipotent reigneth. Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! For the Lord God omnipotent reigneth. Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! The kingdom of this world Is become the kingdom of our Lord, and of His Christ, and of His Christ; and He shall reign for ever and ever, For ever and ever, forever and ever. King of kings, and Lord of lords, King of kings, and He shall reign, and He shall reign forever and ever, King of kings, forever and ever, And Lord of lords, Hallelujah! Hallelujah! And He shall reign forever and ever, King of kings! and Lord of lords! And He shall reign forever and ever, King of kings! and Lord of lords! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! Hallelujah! [Alleluia! Per Dio Onnipotente che regna, Alleluja! Il regno di questo mondo è diventato il regno del nostro Signore e del Suo Cristo, ed Egli regnerà nei secoli dei secoli. Alleluja! Re dei Re nei secoli dei secoli, Alleluja! Signore dei signori nei secoli dei secoli, alleluia!]
18
In alcuni Paesi è d'uso che il pubblico si alzi in piedi durante questa parte dell'esecuzione, seguendo la tradizione che vuole che il re Giorgio II quando sentì questo coro per la prima volta era così agitato che balzò in piedi, seguito da tutti gli altri.
ASCOLTO: Halleluja , eseguito da The English Concert e Choir diretti da Trevor Pinnock HENRY PURCELL (1659-1695) Massimo musicista inglese dell'età barocca, Henry Purcell contribuì in modo decisivo alla formazione di un teatro musicale nazionale. Le sue musiche sacre o religiose danno un'interpretazione dei testi sacri di grande profondità emotiva e forza chiarificatrice, in stretto collegamento con il significato delle parole. Nelle odi profane Purcell si valse spesso di antiche canzoni e di danze popolari inglesi; bellissime anche le numerose liriche vocali da concerto o da camera. Il più importante contributo di Purcell è costituito dalle musiche teatrali: Dido and Aeneas ; King Arthur; The fairy queen. La Musica per il funerale della regina Maria (Music for the funeral of Queen Mary) è una composizione del 1695, e rappresenta il primo esempio storico noto di marcia funebre, Prevede un organico con quattro trombe, organo e coro a quattro voci. Fu eseguita nel marzo 1695 per le esequie della Regina Maria II d’Inghilterra, morta di vaiolo, e nel novembre di quello stesso anno accompagnò il suo ancor giovane autore alla sepoltura, nell’Abbazia di Westminster, ai piedi dell’organo. ♫♫ La Musica per il funerale della regina Maria inizia con una marcia molto toccante, ripetuta nel finale, che pone l’accento sulla irrevocabilità dell’ultimo momento. Seguono tre composizioni per coro ed organo, separate da una canzona, per ottoni e timpani (anche solo ottoni); gli inni cantano la brevità della vita dell’uomo sulla terra e invocano la misericordia di Dio. Il primo dei tre, “Man that is born of a woman”, è un’amara, commossa, riflessione sulla caducità della vita. Il secondo, “In the midst of life we are in death”, il nodo centrale di tutta la composizione, è una vera e propria preghiera a Dio affinché non ci abbandoni. L’ultimo brano corale, “Thou knowest, Lord”, continua l’invocazione al Signore, ma in maniera più serena. I testi delle funeral sentences sono tratti dal Libro delle preghiere comuni della Chiesa d’Inghilterra del 1662. Per i testi, Purcell avrebbe usato il Libro della preghiera comune, con qualche spunto biblico. La marcia, austera e suggestiva, è stata popolarizzata dall'arrangiamento di Walter Carlos che accompagna le scene nel Korova Milk Bar in Arancia meccanica di Stanley Kubrick (vedi pag. 59 de Gli Amici del Loggione n°3).
ASCOLTO: P o essio e , ell’i te p etazio e della Baroque Brass of London, diretta da David Hill. 19
GIUSEPPE TARTINI (1692-1770) Giuseppe Tartini è stato un violinista e compositore cittadino della Repubblica di Venezia, autore della Sonata per violino in sol minore, più notoriamente conosciuta come Il trillo del diavolo, una composizione per violino e basso continuo famosa per essere tecnicamente molto impegnativa. Secondo un aneddoto, l'ispirazione che porterà alla nascita della sonata Il trillo del diavolo deriva da un sogno, descritto così dal compositore: “Una notte sognai che avevo fatto un patto e che il diavolo era al mio servizio. Tutto mi riusciva secondo i miei desideri e le mie volontà erano sempre esaudite dal mio nuovo domestico. Immaginai di dargli il mio violino per vedere se fosse arrivato a suonarmi qualche bella aria, ma quale fu il mio stupore quando ascoltai una sonata così singolare e bella, eseguita con tanta superiorità e intelligenza che non potevo concepire nulla che le stesse al paragone. Provai tanta sorpresa, rapimento e piacere, che mi si mozzò il respiro. Fui svegliato da questa violenta sensazione e presi all'istante il mio violino, nella speranza di ritrovare una parte della musica che avevo appena ascoltato, ma invano. Il brano che composi è, in verità, il migliore che abbia mai scritto, ma è talmente al di sotto di quello che m'aveva così emozionato che avrei spaccato in due il mio violino e abbandonato per sempre la musica se mi fosse stato possibile privarmi delle gioie che mi procurava.” L’opera è suddivisa in tre movimenti: un larghetto, dalla struttura lineare che costituisce il tema principale della sonata, un allegro, caratterizzato da un uso virtuosistico del violino e da un basso che non si limita più alla semplice funzione di accompagnamento ma che accenna delle melodie, e un andante-allegro-adagio. Una musica, in definitiva, piacevole e, grazie a dei sapienti trilli e accordi, stimolante, in grado di evocare uno stato emotivo estatico, che rende quasi difficile poter credere che tali note possano essere state prodotte da una mano luciferina. Una leggenda su Tartini: a Padova molti testimoni riferiscono di aver visto di notte nella Chiesa di Santa Caterina (dove Tartini è stato seppellito assieme alla moglie), l'ombra di una figura femminile che si muove come se stesse ballando al suono di una misteriosa musica. Altre volte, invece, è stata avvistata una figura incorporea dall'aspetto di un uomo vestito in abiti che si usavano nel Settecento, mentre suona appassionatamente un violino. Poiché la tomba del compositore è stata aperta e trovata inspiegabilmente vuota, si è diffusa la convinzione che le strane figure viste nei pressi della chiesa di Santa Caterina siano i fantasmi di Tartini e della moglie. In realtà i resti del compositore furono distrutti da un acido, versato nella tomba per accelerarne la dissoluzione.
ASCOLTO: Arthur Grumiaux, Riccardo Castagnone
20
PIETRO DOMENICO PARADISI (1707-1791) Pietro Domenico Paradisi fu un musicista napoletano nato agli inizi del 700 e morto a Venezia quasi novantenne. La sua fama è dovuta alla produzione clavicembalistica, considerata eccellente dagli storici della musica. Celebri
sono
soprattutto
le
12
Sonate
per
clavicembalo.
Particolarmente noto è l'Allegro dalla Sonata VI in la maggiore, conosciuto anche come Toccata in La per arpa sola, della quale vi è una considerevole discografia. Il riconoscimento del brano è immediato grazie alla larga diffusione che ebbe come sigla dell’Intervallo alla RAI.
ASCOLTO: All’a pa la giappo ese Naoko Yoshino. TOMASO ALBINONI (1671-1751) Tomaso Albinoni è stato una delle menti più brillanti del barocco veneziano. Albinoni fu un personaggio davvero singolare e originale. Nonostante fosse un valente violinista e un brillante compositore, egli amava definirsi, non senza un pizzico di autoironia, “musico di violino, dilettante veneto”; invece di cercare la fama e i facili guadagni con la propria arte, disdegnava di esibirsi in pubblico, componeva solo per diletto (scrisse musica sacra, cantate, musica teatrale - circa cinquanta opere - e strumentale) e, per un innata propensione all’autonomia intellettuale, a differenza di quasi tutti i colleghi dell’epoca, si teneva alla larga dai mecenati, che pagavano profumatamente, ma imponevano i temi delle composizioni. Il nome di Albinoni è naturalmente associato al celeberrimo Adagio per archi e organo in sol minore, un brano famoso per la sua malinconia lacerante, che si trascina per tutta la sua durata in una sofferenza esteticamente bellissima, perfetta colonna sonora per uno stato d’animo in preda allo struggimento. Quello che non tutti sanno, però, è che in realtà Albinoni non scrisse nessun Adagio; o meglio, l’Adagio non fu scritto da Albinoni così come noi lo conosciamo. Vi racconto la storia. Siamo in Germania, durante la seconda Guerra mondiale. Nella notte tra il 13 e il 14 febbraio 1945, la città di Dresda fu teatro di una dei più cruenti episodi del conflitto: tra i molti edifici rasi al suolo dal bombardamento alleato vi fu anche la anche la Sächsische Landesbibliothek (Biblioteca Nazionale Sassone), in cui erano conservati molti manoscritti musicali unici, tra cui la quasi totalità delle composizioni di Albinoni giunte fino ai giorni nostri. Tredici anni dopo, nel 1958, il musicologo Remo Giazotto, docente di Storia della Musica, compositore ed appassionato di musica barocca (soprattutto Albinoni e Vivaldi), pubblicò un Adagio in sol minore
21
sostenendo che si trattasse di una composizione inedita di Tomaso Albinoni: Giazotto disse di aver ritrovato, tra le macerie della Biblioteca Nazionale Sassone, sei frammenti di melodia (non più trovati successivamente), con gli accompagnamenti di basso. I frammenti, secondo la ricostruzione del musicologo, avrebbero costituito il tempo lento, un Adagio, di un inedito concerto per archi e organo. Purtroppo l’opera, per quanto possa essere affidabile il lavoro di Giazotto, risulta molto distante dallo stile di altre opere di Albinoni o di suoi contemporanei, mentre si avvicina molto, nel suo imperante clima di malinconico dolore e nella sua esposizione relativamente piuttosto distesa, alla nostra sensibilità moderna. Dopo la morte di Remo Giazotto avvenuta nel 1998, grazie al lavoro di storici della musica e musicologi, si è accertato che la composizione è sicuramente una creazione ex novo di Roberto Giazotto, tanto più che nella Biblioteca Nazionale Sassone non è stato trovato alcun frammento assimilabile al cosiddetto Adagio di Albinoni, quindi il lavoro di Giazotto è stato molto meno filologico di quanto volesse far credere. Ma tutto sommato, poco importa se Albinoni in vita ha scritto l’Adagio per archi, o solo una parte, oppure non l’ha scritto per niente; questa “trascrizione” ci ha permesso di conoscere questo compositore, che fu uno dei massimi punti di riferimento per Bach, un maestro del concerto solistico dallo stile raffinatissimo e dalle melodie accattivanti, autore di opere magnifiche quali i Concerti per oboe, tra cui l’elegante Concerto in re minore. Forse, a causa delle atrocità della guerra moderna, Albinoni avrebbe rischiato di essere dimenticato per sempre.
ASCOLTO: L’Adagio Münchinger
ella interpretazione della Stuttgarter Kammerorchester, diretta da Karl
JEAN-PHILIPPE RAMEAU (1683-1764) Jean-Philippe Rameau è stato un compositore, clavicembalista, organista e teorico della musica francese. Il suo Traité de l'harmonie reduite à ses principes naturels , uno degli scritti teorici più importanti del Settecento, segnò la nascita della moderna teoria dell'armonia. Una delle sue opere teatrali più importanti sono Les Indes Galantes: in quel periodo si intendeva sotto il termine «les Indes» un concetto immaginario e nello stesso tempo reale, e cioè una terra che si trovava contemporaneamente in America e in Asia. Questo
lavoro
è
generalmente
considerato
come
il
più
rappresentativo e il capolavoro del genere di opera-balletto: è infatti un'azione teatrale composita, che riunisce quattro episodi a sé stanti (definiti non atti, ma Entrées) ognuno dei quali ha una sua autonomia e un suo soggetto. In esse il canto - recitativi e arie, declamati e ariosi - si alterna alla danza.
22
Precedute da un Prologo che introduce l'argomento di fondo - il trionfo universale dell'Amore nel conflitto delle passioni umane - le quattro Entrées si svolgono in luoghi di pura fantasia, in quell'esotico immaginario caro alla cultura francese del tempo: ciascuna di esse rappresenta stravaganti vicende amorose che vedono, come protagonisti, Indigeni ed Europei. ♫♫ La quarta delle Entrées, cioè L'Entrée des sauvages è una rielaborazione di una omonima composizione clavicembalistica del 1725 dello stesso Rameau. E’ caratterizzata da una danza di aspetto volutamente primitivo, sostenuta da un ritmo ben scandito e coinvolgente.
ASCOLTO: Air pour les auvages . Esegue l’Orchestra of the 18th Century, diretta da Frans Brüggen GIOVANNI BATTISTA PERGOLESI (1710-1736) Giovanni Battista Draghi detto Pergolesi, nato a Jesi, è stato un compositore, organista e violinista italiano. Nella sua breve esistenza, parallelamente all'attività operistica (La serva padrona, e Lo frate ‘nnamorato le opere teatrali più celebri), Pergolesi fu un fecondo autore di musica sacra, ma è solo nei suoi ultimi mesi di vita che compose quei brani che sono considerati il suo lascito più importante in questo ambito: si tratta del Salve Regina e dello Stabat Mater per orchestra d'archi, soprano e contralto, che la tradizione vuole sia stato completato il giorno stesso della sua morte. La sua figura - a cause della scarsità di informazioni tangibili sulla sua vita e sulle sue opere - ha suggestionato poeti ed artisti che nel corso dell'Ottocento ne reinterpretarono la figura in chiave romantica. Gli furono attribuiti una bellezza apollinea e numerosi tragici amori. Si insinuò il dubbio che la sua tragica fine fosse dovuta non a cause naturali ma all'avvelenamento da parte di musicisti invidiosi del suo talento. Di Pergolesi stasera vi propongo l’Introduzione dello Stabat Mater, uno dei massimi capolavori della musica sacra di tutti i tempi. Lo Stabat Mater è, originariamente, una melodia gregoriana strutturata in sequenza, del XIII secolo; il testo è attribuito a Jacopone da Todi. Secondo quanto riporta la tradizione, la commissione di un nuovo Stabat Mater - che doveva sostituire il precedente di Alessandro Scarlatti (considerato antiquato) - arrivò a Giovanni Battista Pergolesi quando il giovane musicista era già in precarie condizioni di salute, a causa della tisi che lo aveva colpito. Pergolesi scrisse il brano mentre si trovava a vivere i suoi ultimi giorni nel Convento dei Frati cappuccini di Pozzuoli, dove si era ritirato per lenire il dolore del male incurabile che lo affliggeva. Come si rileva nello studio dell'autografo, egli aveva una grande fretta di scrivere, confermata da numerosi errori, parti di viole mancanti o soltanto abbozzate, e più in generale un certo disordine tipico di chi ha poco tempo davanti a sé.
23
Secondo alcune fonti, morì appena ebbe finito di comporre: in calce all'ultima pagina dello spartito scrisse di suo pugno "Finis Laus Deo", quasi a mostrare il sollievo per aver avuto "il tempo necessario per concludere l'opera".
[Giotto: La deposizione. Cappella degli Scrovegni, Padova] ...Allo a la Mado a e p e de o a o e la a o dest a he e a abbandonata, l´avvicina al volto, la guarda e la bacia con molte lacrime e sospiri dolorosi. Poi, tolto il chiodo dei piedi, a poco a poco Giuseppe discende e tutti accolgono il corpo del Signore e lo pongono per terra. La Madonna, con i discepoli, prende il capo e lo pone sulle sue ginocchia, la Maddalena accoglie i suoi piedi, che un tempo aveva venerato. Altri stanno loro attorno e tutti piangono fortemente su di lui: tutti infatti lo piangono con estrema amarezza, come unigenito...." (Meditationes de Passione Christi olim sancto Bonaventurae attribuitae, XIII sec.) Altri musicisti si sono cimentati nello Stabat: Franz Joseph Haydn, Gioachino Rossini, Saverio Mercadante, Franz Schubert, Franz Liszt, Antonín Dvořák, Giuseppe Verdi, Francis Poulenc, Krzysztof Penderecki, Arvo Pärt e molti altri ancora, ma lo Stabat Mater di riferimento è sempre stato per molti solo quello di Pergolesi. Vincenzo Bellini al pianoforte soleva ripetere che non poteva suonare lo Stabat Mater del Maestro di Jesi senza piangere; e lo stesso Rossini, peraltro, giunto ormai nei suoi anni della maturità, meditò a lungo prima di scrivere il suo, perché riteneva l'opera di Pergolesi sublime ed irraggiungibile. ♫♫ Dello Stabat Mater ascoltiamo le prima strofa dell’Introduzione, già dalla quale si delinea quel clima commovente e malinconico di una bellezza pura, che pervade tutta l’opera: dal dialogo delle due voci femminili, la musica prende vita, forma, diventa arte altissima e sembra quasi di scorgere il volto in lacrime della Madonna davanti al Cristo.
♫♫ Dall’I t oduzio e Stabat Mater dolorósa / iuxta crucem lacrimósa, / dum pendébat Fílius. [La Madre addolorata stava / in lacrime presso la Croce/ mentre pendeva il Figlio.] ASCOLTO: Una straordinaria esecuzione di Claudio Abbado che dirige la London Symphony Orchestra, con Margaret Marshall (soprano) e Lucia Valentini Terrani (contralto). LUIGI BOCCHERINI (1743-1805) Nato a Lucca, fu uno fra i più prolifici e grandi compositori italiani di musica da camera; fu anche un eccelso violoncellista. La sua fama è legata al celeberrimo Minuetto dal Quintetto n° 5 op. 11 G 275, scritto nel 1771.
24
Il minuetto è una danza originaria della Francia. Il nome deriva da "pas menu", che in lingua francese significa "piccolo
passo",
dato
che
la
danza
era
appunto
caratterizzata da passi minuti. Nel periodo classico il minuetto venne inserito anche nelle grandi forme musicali, la sinfonia, la sonata ed il quartetto, delle quali costituiva solitamente il terzo movimento, anche se talvolta poteva presentarsi anche come secondo movimento (ad esempio in Haydn e Mozart), precedendo così il movimento lento. La fortuna del minuetto culminò con l'affermarsi dello stile galante e si esaurì con l'avvento del Romanticismo. Pur essendo vissuto al tempo del classicismo, la musica di Boccherini rispecchiò controcorrente lo spirito del barocco ormai declinante, e questo celeberrimo Minuetto fu ormai l’eco di un mondo lontano e trascorso. ♫♫ Dal cullante e delicato ritmo ternario, questo brano rievoca da subito il mondo della nobiltà aristocratica del tempo.
ASCOLTO: Il Minuetto nella interpretazione della Stuttgarter Kammerorchester, diretta da Karl Münchinger
25
DOCUMENTO‌ STORICO In occasione della mia prima serata agli Amici del Vinile il 15 dicembre 2011, conferii al nostro Presidente Nicola la Nomina ad honorem di Presidente Onorario degli Amici del Loggione. Ecco il documento consegnatogli quella sera, che da allora lo consacra Loggionista Emerito. Ad majora!
26
I grandi direttori: Leonard Bernstein
25 Agosto 2018: centenario della nascita
« Il più grande pianista tra i direttori, il più grande direttore tra i compositori, il più grande compositore tra i pianisti... un genio meraviglioso »
Biografia Leonard Bernstein nasce a Lawrence, Massachusetts, il 25 agosto 1918, da una famiglia ebrea proveniente da Rovno, in Ucraina. I genitori erano poco entusiasti della carriera musicale del figlio, ma Lenny (come viene affettuosamente chiamato dai sui fans) si dimostra uno studente modello. Comincia a studiare pianoforte a dieci anni, e non abbandonerà più questo strumento, diventandone un grande virtuoso. Nel 1939 va all’Harvad University dove prende lezioni di teoria musicale e contrappunto da Arthur Tillman Merritt e Walter Piston; si iscrive successivamente al Curtis Institute of Music,
per
studiare
pianoforte
con
Isabella Vengerova,
orchestrazione con Randall Thompson e direzione d'orchestra con il severissimo Fritz Reiner, che lo promuove con il massimo dei voti. Secondo una sua testimonianza diretta, è proprio con Reiner che Bernstein
coltivò
sempre
l'obiettivo
che
il
direttore
deve
"identificarsi" con il compositore, ossia deve sforzarsi di arrivare ad un grado di conoscenza dell'opera talmente elevato da avere la sensazione di esserne quasi diventato l'autore stesso.
27
A soli venticinque anni viene nominato direttore sostituto alla New York Philharmonic Orchestra, allora guidata dal grande Bruno Walter (celeberrimo direttore, pupillo fra l'altro di Gustav Mahler, tralaltro l’artista al quale si è sempre sentito empaticamente più legato) e, proprio un forfait del Maestro all’ultimo momento, lo porta per la prima volta sul podio dell’orchestra statunitense. Bruno Walter doveva tenere un concerto alla Carnegie Hall ma all'improvviso, prima di salire sul podio accusò dei malori, motivo per il quale dovette essere sostituito immediatamente. Venne chiamato lo sconosciuto Bernstein, allora appena venticinquenne. L'esecuzione (trasmessa oltretutto via radio), sbalordì i presenti e ricevette critiche entusiastiche, tanto da lanciare Lenny nell'empireo delle giovani promesse da seguire. In quella sera Bernstein inaugurò un sodalizio con la NYPO, che segnerà in maniera indelebile la sua carriera. Il legame divenne ancora più forte allorché, nel 1958, dopo la morte di S.A. Kussevitzky, altro direttore dal forte carisma, Bernstein fu nominato direttore stabile della New York Philarmonic, carica che ricoprì fino al 1969 (più di qualsiasi altro direttore). A questo periodo si devono esecuzioni memorabili, molte delle quali documentate dalle tantissime incisioni realizzate: al contrario di altri artisti sommi (come ad esempio Arturo Benedetti Michelangeli o Sergiu Celibidache), Bernstein, infatti, non fu mai ostile all'incisione e anzi si può dire che egli fu uno dei più assidui frequentatori delle sale di registrazione, non tralasciando nemmeno, quando le nuove tecnologie stavano prendendo piede, le riprese video o le dirette televisive. In questo è stato molto simile al suo collega austriaco Herbert Von Karajan. Nel 1953 è il primo americano a dirigere alla Scala con la Medea di Cherubini con protagoniste Maria Callas e Fedora Barbieri. Alla Scala dirige anche Bohème e Sonnambula (1955, ancora con la Callas). Nel
1967
medaglia
viene
insignito
d'oro
della
della
"Mahler
28
Society of America" (non dimentichiamo che è stato uno dei più grandi interpreti di Mahler del Novecento!), e, nel 1979, del Premio UNESCO per la musica. Dimessosi dalla carica di direttore stabile, si dedica soprattutto alla composizione anche se, con il tempo, riprende a dirigere e suonare il pianoforte (e per chi avesse dei dubbi sulle sue capacità di pianista, consiglio caldamente l'ascolto dei quintetti di Schumann e di Mozart incisi con il Julliard Quartett), senza però legarsi ad una qualche orchestra particolare. Anzi, questo periodo di "libertà" è famoso per le realizzazioni effettuate con le più blasonate compagini mondiali, fra cui spiccano, in particolare, i Wiener Philarmoniker. La sua popolarità divenne mediatica grazie ai suoi Young People’s Concerts, una serie di 53 puntate televisive per la CBS dedicate all’educazione musicale dei giovani, ricche di approfondimenti ed esecuzioni, andate in onda tra il 1958 e il 1972 e che lo imposero come personaggio, preparato, sensibile e fortemente comunicativo. Questi concerti, e le conversazioni che li accompagnavano, di altissimo livello (sebbene mai accademici) furono ideati, scritti e presentati in TV interamente da lui
e
attraverso
di
loro
un'intera
generazione di americani ha scoperto e visto crescere in sé l'amore per la musica. Bernstein pubblicò anche una raccolta di conferenze, The Joy of Music (1959); Concerti Giovani, della lettura e dell'ascolto (1962); L'infinita varietà della Musica (1966), e La questione senza risposta (1976). Lenny fu un personaggio originale anche nella vita privata. Risaputamente schierato a sinistra all’epoca del Maccartismo (sovvenzionò anche il movimento estremista dei Black Panthers), appena gli fu possibile dichiarò apertamente la sua bisessualità e lasciò la moglie, l’attrice e musicista Felicia Montalegre, per vivere in libertà con il suo amante Tom Cothran. La sua carriera non venne ostacolata dalle sue idee politiche. Anzi, fu addirittura capace, nel periodo di massima avversione degli americani verso qualsiasi cosa fosse “rossa”, di organizzare un tour europeo con la NYPO toccando perfino l’Unione Sovietica, dove eseguì la Sinfonia n.5 di Shostakovic alla presenza dello stesso compositore. Il 25 dicembre del 1989, dieci mesi prima di morire, nell’ambito delle manifestazioni per festeggiare la caduta del Muro di Berlino, Bernstein dirige la Nona Sinfonia di Beethoven: per l’occasione, nel testo del famosissimo Inno Alla Gioia di Schiller, la parola “gioia” fu sostituita da “libertà” (Freiheit, in tedesco). Ed è proprio Beethoven ad accompagnarlo simbolicamente negli ultimi mesi della sua vita.
29
La sua ultima volta sul podio, nell’agosto del 1990, alla guida della Boston Symphony Orchestra, fu con la Settima Sinfonia di Beethoven, la cui esecuzione, per problemi di salute, fu interrotta anzitempo, come fosse una sorta di opera “incompiuta”. Al Maestro restavano due soli mesi di vita per combattere contro il suo enfisema polmonare (era un incallito fumatore). Morirà il 14 ottobre 1990 per crisi cardiaca da insufficienza polmonare nella “sua” New York, città che lo aveva adottato e della quale lui stesso è diventato uno dei simboli.
Bernstein compositore Nei suoi lavori più impegnati, Bernstein si è mostrato legato ad un'ispirazione di stampo neoromantico, all'uso dell'ormai "antiquata" tonalità, e sensibile al folclore nordamericano. I suoi lavori "impegnati" comprendono la Jeremiah Symphony (1942), The Age of Anxiety per pianoforte e orchestra (1949), la Serenata per violino, archi e percussioni (1954), la Messa, composta per l'inaugurazione del Centro John F. Kennedy per le Arti dello Spettacolo a Washington (1971), e Songfest per sei voci soliste e orchestra (1977). Ha scritto l'opera Trouble in Tahiti"(1952), e lavori sinfonicocorali come Kaddish (1963) e Chichester Psalms (1965). On The Town (1944) segna l’inizio della sua proficua attività sulle scene di Broadway, che culminerà, poco più di dieci anni dopo, nei capolavori Candide (1956), tagliente parodia del Maccartismo, e soprattutto West Side Story (1957), il suo musical più celebre in assoluto, creato in collaborazione con Jerome Robbins, Stephen Sondheim e Arthur Laurents. Un’opera che, dopo le 732 repliche a Broadway e una tournée fortunatissima, divenne popolare in tutto il mondo grazie alla sua versione cinematografica del 1961, che portava la firma di Jerome Robbins e Robert Wise. Mai film musicale aveva ottenuto prima tanti premi e riconoscimenti (sono ben dieci i Grammy Awards vinti). I motivi del successo di West Side Story, in un’epoca in cui il musical si era già imposto come genere codificato
alla
ricerca
di
nuovi
linguaggi, è da attribuire ad un approccio
molto
particolare
degli
autori, a partire dalla scelta del soggetto, tratto da un classico della letteratura inglese, Romeo and Juliet di William Shakespeare dove, al posto dei Capuleti e dei Montecchi vi si narra
30
dell’amore di Maria e Tony sullo sfondo dello scontro fra bande di portoricani nella New York di fine anni cinquanta. I toni drammatici, a volte tragici, della storia, sono in netto contrasto con i temi leggeri scelti per la maggior parte dei musical fino ad allora rappresentati; una musica sofisticata, raffinata, colta eppure popolare, l’ambientazione legata a situazioni reali e molto scottanti (come l’immigrazione portoricana negli U.S.A. e la novità della guerra fra bande), conferirono nuova linfa e freschezza al genere. Bernstein scrisse anche le partiture per i balletti di Fancy Free (1944), Fax (1946), e Dybbuk (1974), e compose le musiche per il film Fronte del porto (1954) [nel riquadro], per il quale ricevette una nomination all'Oscar.
Stile direzionale Riassumere l'intera attività di Bernstein è davvero un'impresa ardua. In sintesi, si può dire che questo musicista rappresenta quanto di meglio la musica abbia prodotto nel corso del Novecento. Non solo Bernstein ha contribuito, insieme a pochissimi altri (fra cui, naturalmente, Gershwin) alla costituzione di una forma di teatro tipicamente americana autonoma e originale rispetto al Melodramma, ma si è anche posto fra gli esecutori più geniali che mai siano apparsi sul podio (e impressionante è, in questo senso, il divario fra certa sua natura "leggera" e lo spirito vibratile, dissolutorio, con cui affrontava le partiture orchestrali. Si ascolti il nichilistico finale della Nona di Mahler). Lenny ha saputo così fondere, in una miscela che non cade mai nel cattivo gusto o nella faciloneria, la musica colta di tradizione europea e i linguaggi peculiari tipicamente americani fra cui, oltre al già di per sé "colto" jazz, anche quelli del musical e della ballad (come nel balletto "Fancy Free" o nell'opera comica "Candide"). Bernstein esprimeva la sua partecipazione ai suoni con tutto il corpo (significativo che uno dei suoi libri si intitoli Joy of Music) e si agitava mentre
dirigeva,
saltellando,
perfino
scendendo dal podio nei momenti più intensi per poi subito ritornarvi. Non a caso lo chiamavano “leaping (saltellante) Lenny”. Era comunque un direttore assai preciso e diligente, come testimonia questa sua dichiarazione a proposito della sua preparazione a un concerto imperniato sulla “Nona sinfonia” di Ludwig van Beethoven: “Cominciai a rileggere la Nona credo per la cinquantesima volta nella mia vita, dicendo a me stesso che le avrei dedicato un’ora al massimo, giusto il tempo per rinfrescarmi la memoria. Ma avevo fatto male i miei
31
conti. Dopo mezz’ora ero ancora fermo alla seconda pagina, e dopo quattro ore mi lambiccavo il cervello sull’Adagio perché ci trovavo un’infinità di cose nuove. Era come se non l’avessi mai vista prima, quella partitura. Naturalmente ricordavo tutte le note, le idee, la struttura. Ma c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire. E non appena trovi una cosa nuova, ecco che tutte le altre ti appaiono sotto una luce diversa, perché la novità altera la relazione con il resto”. Il suo modo di dirigere e di orchestrare, brillante, limpido, sostenuto, diventò un vero e proprio sigillo, che rese memorabili alcune sue esecuzioni. Significativo, da questo punto di vista il ciclo completo delle sinfonie di Mahler, che Bernstein registrò negli anni ’60. Nelle sue mani, le pagine del compositore tedesco, trovano nuova luce, vengono allo scoperto in una veste appariscente, quasi fiabesca in alcuni tratti. Il compositore colorato, appariscente, autore di musical, penetra nella fitta rete dell’intimismo mahleriano con spettacolare verve e lo trasforma dall’interno, aggiungendo senza sottrarre, risaltando senza nascondere. Non è un caso che le sue interpretazioni divennero presto dei punti fermi nelle esecuzioni della musica di Mahler per tutta la seconda metà del Novecento.
Discografia Leonard Bernstein è stato un direttore che (per nostra fortuna!) ha frequentato assiduamente la sala di incisione. Esistono sul mercato due meravigliose e “importanti” raccolte (in più box) che ci permettono di cogliere in pieno l’arte di Leonard Bernstein, la prima edita dalla Sony, la seconda dalla Deutsche Grammophon, ognuna con proprie specifiche caratteristiche. L’insieme del corpus discografico permette di comprendere la concezione che il grande direttore americano aveva della sinfonia e dei diversi autori classici. La proposta della Sony è sicuramente interessante: la discografia CBS di Bernstein rappresenta - con quella di Karajan anni '50 e '60 - il vertice della direzione d'orchestra del Novecento. Le registrazioni della Sony sono quelle che Lenny aveva registrato con la New York Philarmonic, la "sua orchestra", da metà anni '50 a metà anni '70, un periodo veramente d’oro, e che vennero realizzate sotto l’etichetta della CBS. Molte delle sinfonie sono state ri-registrate negli anni successivi con orchestre europee (Wiener Philarmoniker e Concertgebow Amsterdam in particolare) per la Deutsche Grammophon, a volte con risultati ancora migliori, ma di sicuro quasi sempre con letture che si discostano molto da quelle con la NYPO. Migliore il Bernstein giovane o quello più anziano? Risposta impossibile.
32
I dischi Sony sono stati incisi principalmente con la New York Philarmonic, specie per quanto riguarda il cuore del repertorio, e sono incisioni in prevalenza degli anni ’60: quelli del momento di grazia del direttore, della sua irresistibile ascesa, quelli in cui nel mondo veniva lanciato per la prima volta un grande direttore americano di nascita, fiero di esserlo e di rappresentare il proprio Paese e la sua cultura, musicalmente formidabile, onnivoro. Un musicista che sapeva essere un pianista capace, un direttore come pochi ne sono comparsi, un valente compositore, un intrattenitore e comunicatore televisivo tra i primi a sfruttare il nuovo medium, un pedagogo trascinante. Questa raccolta non comprende proprio tutte le registrazioni di Bernstein effettuate per CBS, ed edite tempo fa in circa 120 CD, che uscirono in quattro box ingombranti e per di più con i…tragici acquerelli di Carlo d’Inghilterra, principe di Galles. La riedizione della Sony (80 CD, collezione importante, ricca di vere sorprese) ha il pregiatissimo merito di aver rieditato queste interpretazioni, praticamente
da
moltissimi
scomparse
dal
anni mercato
discografico, e lo fa con un prezzo bassissimo ed allettante, quasi incredibile, per questa raccolta che è un vero scrigno di meraviglie preziose. Punti di forza di questa raccolta Sony sono l’integrale delle Sinfonie di Beethoven che sapeva essere magniloquente e allo stesso tempo vitale e privo di retorica, l’integrale delle sinfonie di Brahms epiche tali da ricordare Furtwängler, e soprattutto il suo incomparabile Mahler, un’integrale che segnò una tappa fondamentale della riscoperta di quel gigante. Anche il suo Mozart è magnifico. Le interpretazioni della musica del periodo classico-romantico sono brillanti e vivaci, ben diverse da quelle più compiaciute presenti nei cofanetti della Deutsche Grammophon. Vi sono anche registrazioni del tutto nuove e sconosciute anche agli estimatori di Lenny, nuove di zecca proprio perché introvabili in Italia (almeno negli ultimi 15-20 anni). E’ una sorpresa poter ascoltare il Bach di Bernstein, un Bach certo non "filologico", ma così interessante anche grazie al supporto violinistico del grande Isaac Stern. E lo stesso vale per Vivaldi, qui rappresentato dalle 4 Stagioni e altri concerti. Nuovo di zecca anche Bartok, con i concerti per piano e per violino: ma che interpretazione coinvolgente ne dà Bernstein! E che dire del Don Quixotte di Richard Strauss, già cavallo di battaglia di Karajan che lo ha inciso con Fournier e poi con Rostropovich, se non che è una versione bellissima ed inattesa con un Bernstein capace di immergersi completamente nell'atmosfera straussiana e di renderla musica viva. E poi un Also Spracht Zarathustra di una lentezza solenne ed ieratica, quasi ipnotica, ma che riesce a far capire all'ascoltatore la straordinaria tessitura orchestrale ideata da Strauss.
33
Imperdibili le interpretazioni della musica scritta dallo stesso Bernstein così come quella degli altri compositori americani, e in particolare Copland e Barber (bellissimo di quest'ultimo il Concerto per violino e orchestra, qui nell'interpretazione più bella mai sentita!). Infine Stravinskji. Della Sacre registrata nel 1958 con la NYPO si può solo dire che è tra le migliori performance mai eseguite; il suono stereo è anche accettabile. Due parole ancora sulla qualità delle registrazioni: la CBS non aveva le stesse capacità tecniche della RCA (Reiner e la Chicago sono un fulgido esempio di perfezione tecnica di ripresa sonora) o della Decca degli anni '60, quindi le vecchie registrazioni suonano "un po’ datate" e tecnicamente non brillantissime, ma migliorano molto negli anni più recenti (metà anni '60).
L'avvicinamento di Bernstein alla Deutsche Grammophon si deve ad una concomitanza di eventi: il Maestro aveva deciso di prendersi un anno sabbatico dalla direzione per dedicarsi alla composizione e aveva rassegnato le dimissioni dalla carica di direttore della New York Philarmonic. Non seppe però resistere ai pressanti inviti da parte delle maggiori orchestre europee! E così diresse il Concerto di Beneficenza per Amnesty, nel 1976, registrato appunto dalla DG (che già nel '72 aveva aperto un contratto con Lenny per registrare la Carmen di Bizet). Da allora nacque quella straordinaria collaborazione con la mitica casa dall'etichetta gialla che ha portato a questa straordinaria eredità discografica. Certo in quegli anni, dal 1976 in poi, Bernstein si gettò a capofitto nella direzione anche per "dimenticare" molte dolorose sue vicende affettive: la moglie Felicia morta di tumore ai polmoni solo pochi mesi dopo che Lenny l'aveva lasciata per andare a vivere con il suo nuovo compagno, che a sua volta morì di AIDS solo due o tre anni più tardi.... Una commovente nota: Bernstein chiese ed ottenne che la moglie venisse raffigurata nella copertina del Requiem mozartiano edito dalla Deutsche Grammophon. Ma, qualunque sia stata la ragione iniziale, sta di fatto che Lenny riprese in mano tutti gli spartiti di lavori già diretti nei suoi anni newyorchesi e ci mise dentro una "nuova visione", forse influenzata dall'aver vissuto esperienze dolorose, ma ispirata ad un nuovo entusiasmo e quasi candore fanciullesco, che appunto fanno apparire le sue letture come "nuove di zecca". Certamente sono spesso letture in cui la soggettività gioca un ruolo altrettanto importante del rigore nel leggere le note scritte dall'autore, quasi come se Bernstein da bravo compositore si mettesse nei panni dell'autore da affrontare, che fosse Beethoven o Mozart, Mahler o Gershwin poco importa, e ne assorbisse completamente lo spirito. È appunto una immersione completa quella che Bernstein fa nelle partiture che affronta, e i risultati che ottiene sono sempre strabilianti, proprio anche per le "libertà" che sembra prendersi nella lettura dello
34
spartito, ma che all'ascolto poi risultano spesso così appropriate da apparire "le uniche possibili" anche se il compositore aveva scritto diversamente! Nei box della Deutsche Grammophon, troviamo incisioni corrispondenti all'ultima fase della sua attività, dalla seconda metà degli anni settanta sino al concerto d'addio dell'agosto 1990: si tratta in prevalenza di registrazioni dal vivo, in cui il complesso più rappresentato sono i Wiener Philharmoniker, seguiti dalla Filarmonica di Israele e, in posizione
più
defilata,
da
Concertgebouw,
Radiodiffusione Bavarese, New York Philharmonic, Boston Symphony, Los Angeles Philharmonic e dalla nostra Accademia di Santa Cecilia. Con i Wiener Philarmoniker incise nuovamente molti cicli sinfonici: Beethoven, Brahms, Schumann; mentre per Mahler la scelta fu più variegata, i Wiener, New York Philarmonic e Concertgebouw di Amsterdam.
Cercherò di analizzare le incisioni più significative per singolo compositore.
Mahler. Punta di diamante di questa raccolta (con la quale giustamente inizio questa mia analisi) è la celeberrima integrale dedicata all'amatissimo Gustav Mahler, compositore da sempre congeniale a Bernstein, che già sin dagli anni Sessanta fu come eccelso riscopritore del genio boemo con la prima magnifica integrale realizzata per la Sony con la New York Philharmonic. In questo secondo ciclo risalente ai tardi anni Ottanta (1986-1989), invece, il Maestro americano si avvale principalmente dell'Orchestra del Concertgebouw di Amsterdam (di storica tradizione mahleriana, affronta le sinfonie n. 1, 4, 9) e dei Wiener Philharmoniker (l'indimenticabile incisione della Quinta, e poi la Sesta e l'Ottava), riservando all'orchestra newyorchese la Seconda, la Terza e la Settima. La penetrazione di Bernstein nell’universo mahleriano è assoluta, tanto personale da essere in qualche punto una chiara violazione del testo, in genere assai preciso nelle indicazioni. Ciò che ne esce fuori però è sempre stimolante e in alcuni momenti decisamente sconvolgente, basti pensare ai due minuti finali della perorazione della Resurrezione: il tempo diventa più lento del doppio, il passo rallentatissimo riesce a far raggiungere a quel culmine una estaticità raramente eguagliata. Difficile dire quale delle due integrali di Mahler sia la più bella: sono splendide entrambe, ed entrambe meritano di essere ascoltate e riascoltate, perché mostrano lo stupefacente percorso interpretativo e la totale comprensione dell'universo mahleriano da parte di Bernstein, che assieme a Abbado e Kubelik si afferma come uno dei più grandi esegeti del discorso musicale di Mahler. Questa seconda integrale ha il pregio di vedere impegnate tre grandissime orchestre, quindi di apprezzare la varietà delle sfumature e dei colori che Bernstein era capace di mettere in risalto a seconda delle peculiarità delle diverse compagini che si trovavano sotto la sua bacchetta. L'integrale sinfonica è affiancata agli altri celebri lavori del compositore boemo, tra i quali spiccano i Lieder con orchestra e, ovviamente, l'immancabile Lied von der Erde, che vedono impegnate accanto a
35
Bernstein alcune grandi voci dell'epoca, quali un (allora) giovane Thomas Hampson, una cristallina Lucia Popp (splendida nel ciclo 'Des Knaben Wunderhorn', al fianco di Andreas Schmidt), la grande Christa Ludwig, gli eccellenti e celebri Margaret Price, Josè van Dam, Hermann Prey, Trudeliese Schmidt e Agnes Baltsa convocati per la colossale Ottava sinfonia, per concludere con gli eccelsi Dietrich Fischer Dieskau e James King impegnati in un insolito Canto della Terra realizzato con sole voci maschili, ma non per questo meno interessante. Corona l'integrale mahleriana la mitica Nona del 1979, in cui Bernstein è alla testa nientemeno che dei Berliner Philharmoniker per un concerto di beneficenza per Amnesty International: una delle "None" più belle di sempre, che i più curiosi potranno confrontare con l'incisione realizzata da Karajan l'anno successivo, in una lettura diametralmente opposta eppure egualmente splendida.
Haydn. Minore spazio, ma con risultati interpretativi di grande levatura, tocca a Haydn, del quale incontriamo tre grandi sinfonie in sol maggiore, le n. 88, 92 e 94: particolarmente preziosa la presenza della Oxford, di cui non esistevano precedenti incisioni di Bernstein. Completano il quadro la Sinfonia n. 102, la Sinfonia concertante e le splendide letture della Creazione e della Paukenmesse con l'Orchestra e il coro della Radiodiffusione Bavarese.
[Leonard Bernstein fotografato da Jack Mitchell]
Mozart. Bernstein diede di Mozart una lettura certamente lontana dall'olimpico Mozart di un Böhm o di un Karajan, ma pregevole perché ne mostra quel lato umano (se non addirittura infantile ed innocente) sovente messo in ombra da interpretazioni solo superficialmente apollinee. Troveremo quindi una interpretazione delle Sinfonie 25, 29 e 35-41 intense nell'espressività (e per la n. 39 egli resta probabilmente tuttora l'interprete supremo). Il culmine delle sue interpretazioni sono i lavori corali, primo fra tutti il celeberrimo Requiem K 626, qui affrontato da Bernstein con una soggettività estrema, riconoscibile nei tempi dilatatissimi e meditati che danno a questo Requiem quasi i tratti di una grande sinfonia: magistrale l'attacco dell'Introitus, con il lento respiro degli archi che sembra terminare solo nell'estremo Amen del Lacrymosa. Eccelsi il Coro e l'Orchestra della Radio di Stato Bavarese, e prezioso il contributo dei solisti, tra i quali spiccano il basso Cornelius Hauptmann e Maria Ewing. Memorabile, anche la Grande Messa K 427, preceduta da una intensa interpretazione dell'intimo Ave verum Corpus e seguita dallo spumeggiante Exsultate, jubilate, in cui svettano le voci cristalline dell'indimenticabile Arleen Auger e della grande Frederica von Stade.
36
Il repertorio concertistico vede lo stesso Bernstein impegnato al pianoforte nei due Concerti n. 15 e n. 17, nonché lo storico clarinettista dei Wiener, Peter Schmidl, in una luminosa interpretazione del meraviglioso Concerto K 622.
Beethoven. Se il ciclo beethoveniano dei primi anni sessanta con la New York Philharmonic, straordinariamente ricco di dinamismo e di sfumature, rappresentava il massimo grado di personalizzazione del retaggio dei maestri europei trapiantati in America (Toscanini, Walter, Reiner, Mitropoulos, ma soprattutto Szell) e aveva come vertice una Pastorale snella, fluida e caleidoscopica, quello viennese del 1977-79, più meditativo e uniforme nei tempi e nelle tinte anche se tutt'altro che statico o monocorde, sembra avvicinarsi in modo altrettanto personale al modello delle ultime interpretazioni di Furtwängler con la stessa orchestra, e raggiunge probabilmente il culmine in un'Eroica che unisce uno straordinario respiro epico a una non meno eccezionale trasparenza di linee. Lo stampo neofurtwängleriano si conferma in Quinta, Settima e Nona (la cui concezione, in sostanza, era già tale nella precedente versione) e si afferma anche nella Sesta, che diviene più statica e meno iridescente rispetto alla splendida lettura newyorchese. Tutte centratissime le sinfonie "minori": la Prima, di solito un po' negletta, ha in Bernstein un interprete ideale sia nell'edizione americana che in quella viennese, e la sua Quarta è in entrambe le letture un vertice assoluto del filone interpretativo vitalistico: di particolare interesse, nell'incisione coi Wiener, l'accentuarsi della contrapposizione tra la lentezza misteriosa dell'adagio introduttivo e la sfrenatezza dionisiaca dell'allegro vivace (spunto interpretativo che rimanda alle concezioni di Toscanini e Szell). Vorrei spendere due parole sulla Settima di Beethoven incisa nel 1990 a Boston: la si ascolta con rispetto perché si avverte in ogni singola nota lo strazio del Bernstein ormai prossimo alla morte (e non è una figura retorica: l'esecuzione fu interrotta più volte perché Lenny tossiva e non riusciva a respirare, e alla fine del concerto fu portato via di peso....), ma non la si deve considerare il testamento musicale di Lenny. Una delle esperienze artistiche più felici dell'ultimo Bernstein è stato sicuramente il sodalizio con Krystian Zimerman, inaugurato nel 1983-84 con i due concerti di Brahms e proseguito nel settembre 1989 con gli ultimi tre di Beethoven (la morte di Lenny impedì purtroppo di portare a termine il ciclo, che il pianista avrebbe poi completato da solo nel dicembre del '91). Il binomio, per levatura artistica, fa il paio con quello del periodo newyorchese con Serkin, Quanto ad altre composizioni beethoveniane, merita una segnalazione il Fidelio con Lucia Popp, Gundula Janowitz, René Kollo e Fischer-Dieskau: interpretazione anni settanta che appartiene ancora al Bernstein della fase ruggente, e il cui cast vocale basta e avanza a far capire che siamo di fronte a uno dei vertici assoluti della discografia di questo capolavoro. Completano il quadro sei Ouvertures, la Missa Solemnis e le intens, infuocate e profondissime letture dei due più sottili quartetti dell'ultima maniera (op. 131 e 135) nell'adattamento per orchestra d'archi di Mitropoulos: la più bella interpretazione in assoluto della Fantasia corale.
Brahms. Grandiosità di linee, trasparenza di concertazione e straordinaria intelligenza nell'articolazione del discorso contrassegnano il ciclo brahmsiano del 1981-1983, dove i tempi tendono a dilatarsi e i rapporti di consecuzione fra i vari temi sono illustrati con estrema lucidità, differenziando le
37
dinamiche e l'espressività senza mai perdere di vista la coerenza dell'insieme. Ne è un autentico manifesto il modo in cui viene risolta la monumentale quanto problematica costruzione del primo movimento della Prima, con un'introduzione tanto solenne quanto fluida, e un allegro dove l'energia del primo tema e l'estenuazione languorosa del secondo si contrappongono in un quadro di perfetta tenuta strutturale: connubio di analisi poetica e sintesi architettonica che si ripropone nell'ancor più monumentale concezione dell'ultimo tempo e nel graduale affermarvisi del corale pseudo-beethoveniano; ma non meno meritorio è il modo in cui viene resa giustizia al breve e poco appariscente terzo movimento, mettendone in luce con mirabile elasticità tutte le sfumature ritmiche. Gli stessi carismi poetico-strutturali della Prima li troviamo nelle altre tre sinfonie. Il momento più personale è probabilmente la Terza, dove la dilatazione lirica del discorso è portata fin quasi sul crinale della disgregazione, facendo della cosiddetta Eroica di Brahms un capolavoro di poetica decadente. Di assoluto rilievo i Concerti per piano con Zimerman e per violino con Kremer.
Schubert. Degne di esser conosciute sono le incisioni schubertiane effettuate con l'Orchestra del Concertgebouw, in cui il Maestro americano affronta ancora una volta (dopo averlo fatto con risultati migliori negli anni Sessanta a New York) l'Ottava Incompiuta e la Grande Nona, in letture decisamente più dilatate e sofferte rispetto al passato, ma non per questo meno belle, come dimostrano le sfumature sonore dell'orchestra olandese.
Schumann. Altra vera eccellenza di interpretazione è l’integrale schumanniana, e anche qui, grazie alla timbrica raffinatissima dei Wiener, si supera la pur bellissima edizione con la New York Philarmonic. Questa, che è ritenuta la più bella integrale delle Sinfonie di Schumann, suscitò da subito la piena approvazione della critica e la calorosa accoglienza del pubblico. Si tratta, in particolare, di una interpretazione che neanche per un momento allenta la tensione e mai smette di indagare a fondo la
38
profondità psicologica celata in questi lavori, una profondità che forse nemmeno Karajan nella sua leggendaria integrale berlinese degli anni settanta riuscì a toccare. Questa profondità non ha mai sminuito mai la bellezza del suono e del fraseggio, con Bernstein che cattura l'ascoltatore con un infinito ventaglio di colori orchestrali. Su tutto, basterà far menzione del primo movimento della Quarta, dove la nevrosi che afflisse il compositore nell'ultima fase della sua vita sembra prendere spaventosamente corpo. Accompagna poi l'integrale sinfonica una bella e celebre incisione del Concerto per violoncello, con protagonista l'immenso Mischa Maisky (che compare anche nello splendido e infiammato Concerto per violoncello di Dvorak e nel poema sinfonico Schelomo di Bloch, assieme alla Israel Philharmonic), nonché una vivace lettura del Concerto per pianoforte con protagonista il grande Justus Frantz.
Tschaikovskji. Bernstein aveva realizzato splendide integrali nel periodo americano, mentre negli ultimi anni riprese soltanto alcune sinfonie, portandovi spesso all'estremo la dilatazione dei tempi, come a volerne spremere sino all'ultima goccia ogni risorsa espressiva e ogni dettaglio del fraseggio, a rischio però di comprometterne la tenuta strutturale: si pensi all'Adagio lamentoso della Patetica, che dura quasi il doppio del normale. Queste interpretazioni così soggettive gettarono, nonostante le critiche, luce nuova su questi capolavori. Nel segno di Tschaikowskij è poi la collaborazione con una delle orchestre più care a Bernstein, ossia la Israel Philharmonic, impegnata nei grandi poemi sinfonici del genio russo, ossia Francesca da Rimini, Marche Slave, Hamlet, Romeo e Giulietta e l'immancabile Overture 1812.
Sibelius. Di rilievo le interpretazioni delle Sinfonie di Sibelius, anch’esse suonate con tempi dilatati. In particolare, la Seconda e la Quinta restano due pietre miliari della discografia del direttore americano e di queste due sinfonie in assoluto.
39
Bruckner. Questo compositore ha avuto un ruolo un po' marginale nel repertorio di Bernstein, che nella fase americana ne ha inciso soltanto la Nona nel 1969 (ripresa nel periodo viennese) e la Sesta nel 1976.
La raccolta delle interpretazioni orchestrali continua con alcuni Lieder per orchestra di Richard Strauss (protagonisti una eccellente Monserrat Caballé e l'Orchestre National de France) e con le Sinfonie n. 1, 6, 7 'Leningrado' e 9 di Shostakovich, che vedono Bernstein alla testa degli affezionati Wiener (Sinfonie 6 e 9) e della Chicago Symphony (1 e 7): splendida la prova dei complessi viennesi, che si accostano con grande maestria alle sonorità del genio russo (presenza peraltro insolita nel loro repertorio), e magnificamente colossale, ai limiti della narrazione epica, la Leningrado eseguita dalla Chicago Symphony, insignita nientemeno che del Grammy Award nel 1991. All'ultimo periodo appartengono la Nona di Dvorak, con un Largo dilatatissimo, e la silloge debussyana con La Mer, Prélude à l'après-midi d'un faune e Images, realizzata nell'89 con l'orchestra di Santa Cecilia. Altre presenze sinfoniche di rilievo sono la Sinfonia di Franck, Eine Faust-Symphonie di Liszt e l'di Metamorfosi e Mathis der Maler di Hindemith.
Largo spazio nella raccolta è riservato al Novecento musicale americano, dove incontriamo innanzitutto Bernstein alle prese con se stesso, nelle tre Sinfonie e in uno sterminato repertorio sinfonico e scenico (è un fatto curioso che Bernstein, prevalentemente sinfonico nei suoi interessi di direttore, si sia interessato come compositore a tutti i generi scenici, dall'opera al musical, dal balletto alla colonna sonora cinematografica, fino a inventarsi con la sua Messa un suo genere di sacra rappresentazione). Citiamo l'incisione del 1945-1946 di una delle più celebri composizioni di Bernstein, Fancy Free, con il cast originale, in cui spicca la presenza dell'indimenticata Billy Holiday. Molte sono le composizioni del suo maestro Aaron Copland e Charles Ives, cui si aggiungono isolate pagine notissime come l'Adagio di Barber e la Rapsodia in Blue di Gershwin, ma anche brani meno noti come il Concerto per violino di Rorem, la Sinfonia n° 3 di William Schuman e perfino Tattoo di Del Tredici.
Troviamo nei box anche tre interpretazioni operistiche di Bernstein. La prima è la pucciniana Bohème alla testa dell'Orchestra dell'Accademia di Santa Cecilia di Roma, e se da un lato è un'edizione davvero pregevole proprio per la lettura rivelatrice datane dal Maestro americano (ben distinta da quella storica di Karajan/Decca o dalla cristallina interpretazione di Carlos Kleiber in video); il cast è men che discreto, resta però interessante la lettura orchestrale di Bernstein, testimonianza di una fugace quanto splendida collaborazione tra il maestro americano e l’Orchestra romana. La seconda è la mitica incisione del capolavoro wagneriano Tristan und Isolde edita dalla Philips nel 1981, che Bernstein stesso considerava la sua esecuzione migliore. Onirica, profonda e dai tempi dilatati come non mai, che arrivò persino a far commuovere il Maestro Karl Böhm, che insisté per presenziare alle prove del primo atto e si congratulò con Bernstein dicendogli di “aver finalmente ascoltato il Tristan per la prima volta nella mia vita”. Da incorniciare è la performance dell'Orchestra Sinfonica della Radio Bavarese, cristallina e dotata di una varietà di colori semplicemente unica, tanto da far accostare senza timore alcuno questo 'Tristan' alle note incisioni di Karajan, Kleiber e dello stesso Böhm. La terza è Carmen con Marilyn Horne e l'orchestra del Metropolitan.
40
Uno spazio a sé hanno le interpretazioni legate a particolari eventi e manifestazioni, come i concerti a favore di Amnesty International, il cui frutto più prezioso resta probabilmente un Quarto concerto di Beethoven con Claudio Arrau; o come il concerto del festival di Tanglewood dell'agosto 1990, destinato a rimanere l'ultimo, dove il maestro presentò con la Boston Symphony gli Interludi marini di Britten Ma il documento più intenso e coinvolgente rimane sicuramente l’Inno alla libertà, quella Nona di Beethoven eseguita nel dicembre 1989 con componenti di varie orchestre europee sulle rovine del Muro di Berlino: più grandiosamente furtwängleriana che mai nella concezione musicale (il primo e il terzo tempo durano circa venti minuti l'uno), ma indimenticabile soprattutto per il suo significato storico ed umano.
Infine, la DG allega a questa raccolta ben 5 cd contenenti varie sinfonie (Eroica di Beethoven, Patetica di Tschaikowskij, Dal Nuovo Mondo di Dvorak, Sinfonia n° 2 di Schumann e Sinfonia n° 4 di Brahms, tutte eseguite con la New York Stadium Symphony Orchestra): a ciascuna esecuzione seguono le celeberrime lezioni di musica tenute da Bernstein, che svela con magistrale padronanza e spirito divulgativo ogni angolo recondito di questi cinque capolavori, mostrando uno dei lati forse più belli della sua poliedrica personalità, ossia l'amore per l'insegnamento e lo studio della musica.
Grazie Lenny!
41
Gli Amici del… grammofono
« Il Clavicembalo ben temperato » di Johann Sebastian Bach
42
STORIA DELLA COMPOSIZIONE Il Clavicembalo ben temperato BWV 846-893 di Johann Sebastian Bach è una raccolta di 48 composizioni, suddivisa in due libri di 24 composizioni ciascuna, che consistono in un preludio (più basato sullo sviluppo degli accordi) e una fuga (basata sul rapporto delle linee melodiche) per ogni tonalità possibile, sia maggiore che minore. Con questa struttura l'opera segue tutta la scala cromatica fino al suo completamento. Il clavicembalo deve essere “ben temperato”, cioè bene accordato: all’epoca gli strumenti non seguivano un sistema di accordamento standard, come oggi, ma ne esistevano diversi. Secondo alcuni studiosi, con la sua opera Bach aveva voluto appoggiare la proposta di un particolare tipo di temperamento, all’epoca non ancora molto in voga (che sarebbe poi il padre del moderno temperamento equabile 4). Johann Sebastian Bach compose la raccolta "per utilità ed uso della gioventù musicale avida di apprendere, ed anche per passatempo di coloro, che in questo studio siano già provetti". I due libri del Clavicembalo ben temperato non sono stati composti nello stesso tempo: il primo libro è del 1722 ed è stato composto a Cöthen, il secondo libro ha la data del 1744 ed è stato composto a Lipsia. Queste date non hanno un valore assoluto: Bach aveva l’abitudine di riprendere, di ritoccare o di rifare i suoi lavori, molti dei quali ebbero pertanto tre e perfino quattro versioni. Tra le 48 composizioni, la più conosciuta è probabilmente il Preludio n.1 BWV 846, uno dei brani in assoluto più famosi dello stesso Bach: lungo 35 battute, presenta la singolarità di essere una composizione senza melodia, o meglio una melodia di accordi.
[Johann Sebastian Bach, al clavicembalo, e la sua famiglia]
4
Il temperamento, nella terminologia musicale, consiste nei varî sistemi di accordatura degli strumenti a suono determinato (organo, pianoforte, ecc.), Il temperamento equabile è la base del sistema musicale occidentale, che vede la nostra scala musicale suddivisa in 12 semitoni uguali.
43
La composizione è caratterizzata da un andamento maestoso e solenne ma allo stesso tempo da sonorità molto dolci e pacate. Il Preludio n° 1 in do maggiore è stato utilizzato in seguito da Charles Gounod come base armonica per la sua nota Ave Maria.
DISCOGRAFIA Le interpretazioni del Clavicembalo ben temperato nell’attuale discografia vede quasi tutti i più grandi artisti al pianoforte piuttosto che al clavicembalo. Personalmente ritengo che l'interpretazione di tale capolavoro, seppur non filologicamente corretta, sia più godibile al pianoforte.
Edwin Fischer Questo Clavicembalo ben temperato è stato inciso a metà degli anni trenta (è la prima incisione discografica completa) da un pianista che andava sì noto per le sue doti di intelligenza e di poesia interpretativa, ma anche per alcune innegabili imperfezioni tecniche. Potremmo cioè imbatterci in un'esecuzione magari bella, ma imprecisa, e comunque a una registrazione approssimativa. La perplessità è comprensibile, perché alcune incisioni di Fischer presentano effettivamente difetti del genere; ma in questo caso non è fondata. Negli anni trenta la EMI, da cui provengono le matrici, era tecnicamente all'avanguardia, in grado di realizzare, soprattutto in ambito solistico e cameristico, incisioni destinate a restare di riferimento sino ai giorni nostri, come le integrali beethoveniane di Schnabel e del Quartetto Busch; rispetto ad esse, il Bach di Fischer può dirsi in un certo senso il più riuscito. Il pianista svizzero offre interessanti letture di Bach, forse l'autore a lui più congeniale sia dal lato poetico che da quello strettamente tecnico (tant'è vero che, in queste incisioni, non si trova quasi traccia delle proverbiali note false). L'impressione più immediata che si prova all'ascolto è quella della spontaneità, come se queste musiche fossero connaturate all'interprete, per carattere e per retroterra culturale. Comunque sia, ci troviamo sicuramente di fronte ad una delle letture più fluide e variegate del capolavoro bachiano, in cui ogni brano riesce ad assumere la sua fisionomia specifica evitando sia l'incognita della monotonia che quella della stravaganza. L'album rappresenta, a mio parere, un acquisto obbligato per i musicofili interessati alla storia dell'interpretazione di questa complessa composizione. [Documents]
44
Rosalyn Tucker Rosalyn Tureck è la vera sacerdotessa bachiana del Clavicembalo ben temperato: è suo il vero Bach; ella introdusse per prima il tipico suono staccato simil-cembalistico che Gould userà così tanto.
Un'interpretazione assolutamente eccezionale, la sua, assolutamente da possedere in virtù di un uso sapientissimo delle dinamiche, che non ha veramente rivali. Certo è meno travolgente e virtuosistica della versione gouldiana, ma è molto piacevole da ascoltare. [Delle interpretazioni della Tucker esistono due edizioni: la prima edita dalla Deutsche Grammophon, comprendenti anche le Variazioni Goldberg; la seconda, live, della BBC Lege.]
Glenn Gould Il suo Clavicembalo ben temperato è una delle realizzazioni interpretative più geniali della storia del disco, ma bisogna guardare sempre i “chiaroscuri” di questa interpretazione. Glenn Gould è un ottimo esecutore, dalla tecnica prodigiosa, ma ha sempre avuto una sua visione personale nell’interpretare ogni compositore. Probabilmente Gould non è il miglior modo di accostarsi a Bach: le sue interpretazioni (ancorché considerate, e, a ragione, geniali) non si limitano ad essere personali, ma addirittura "arbitrarie". Gould, infatti, non solo interviene sulla dinamica e sui tempi in modo radicale (tanto da stravolgere completamente le prescrizioni dell'autore e da rendere irriconoscibile il pezzo), ma omette costantemente ritornelli e ripetizioni, modifica la linea musicale, ignora gli abbellimenti. Insomma riscrive il testo ad uso delle sue personali convinzioni estetico-musicali. Secondo la mia opinione, è indispensabile non stravolgere la partitura, nel rispetto del volere del musicista e dell'epoca in cui il brano è stato scritto. Ma, pur tenendo conto di questa premessa, Gould - con la sua enorme bravura mista a genialità - è entrato a vele spiegate nella storia interpretativa pianistica, e non può essere sottovalutata la sua assoluta importanza nell'opera di diffusione delle opere di Bach (anche presso un pubblico estraneo alla musica classica); né parimenti vanno taciute le sue manie e fissazioni, che hanno contribuito considerevolmente ad accrescerne leggenda e fama presso i media, tanto da paragonarlo ad una sorta di rockstar, e che ne
45
hanno frainteso la complessità e profondità artistica, trasformandolo in uno stravagante prodotto commerciale. Quanto alla libertà interpretativa del pianista canadese, ho una mia corrente di pensiero: l'interpretazione di Bach, specie quella su pianoforte, è storicamente molto aperta e variegata, e questo è dovuto non solo all'enorme differenza tecnologica tra lo strumento moderno e quello originale (cembalo o clavicordo che fosse) ma anche agli spartiti originali poverissimi di indicazioni esecutive. A quell'epoca infatti spesso non venivano indicati né gli andamenti né i legati e talvolta neanche le dinamiche: di conseguenza l'esecutore godeva di un'enorme libertà interpretativa, e in questa ottica occorre vedere le versioni di Gould, pur preferendo (almeno per il sottoscritto) versioni più “ortodosse”. [Sony Classical]
Sviatoslav Richter Sviatoslav Richter è un pianista fenomenale, qualunque sia il repertorio che affronti. Questa è davvero una sublime esecuzione di questo monumentale lavoro per la tastiera, una delle edizioni di riferimento. Richter è e rimane ancor più sicuramente un genio assoluto e di livello altissimo: egli passa con fluidità in ogni Preludio da una chiave all'altra, da maggiore a minore, mescolando
i
tempi
e
fornendo
letture
di
ispirazione
profondamente ispirate a ciascuna sezione. Richter suona un Bösendorfer che presenta un suono più scuro e meno brillante rispetto a uno Steinway. Gli amanti della filologia obiettano che Richter è un grandissimo pianista romantico e il suo Clavicembalo è la quintessenza del romanticismo: per costoro Bach - sempre filologicamente parlando - non andrebbe suonato così. Io ve la consiglio senza se e senza ma. Da avere assolutamente! E’ la mia prima scelta. [Rca Victor Europe]
Friedrich Gulda Questa è una copia diretta dal nastro master delle mitiche registrazioni che Friedrich Gulda, pianista classico-jazz eclettico e geniale, fece negli studi MPS nel 1972 e 1973.
46
I tecnici hanno riprodotto il vero colore tonale dell'originale, senza compressione, per uniformare i livelli del volume e senza alcuna correzione della dinamica. Gulda produce una performance in cui c’è profondità, ricchezza, ampiezza ed emozione. La sua non è un'interpretazione romantica; perché c'è precisione, attenzione e sfumature. Il pianista austriaco presenta un ampio spettro emotivo, che va dalla delicata intimità meditativa all'estroversione sfrenata, in ciò aiutato dallo splendido suono dello Steinway Grand Imperial che venne trasportato nello studio MPS appositamente per l'uso di Gulda. È ancora possibile vedere i segni lasciati da dove lo strumento era stato posizionato precisamente al millimetro in modo che la sonorità del pianoforte potesse essere catturata nel miglior modo. Il posizionamento ottimale del microfono sulle corde del pianoforte riduce la distanza tra il lavoro di Bach e il pubblico, consentendo all'ascoltatore di provare fisicamente la musica. [Decca Duo]
Daniel Barenboim Una visione totalmente nuova di questa musica straordinaria, quindi molti critici non nascondono una certa perplessità; ma chissà se Bach (se fosse oggi vivo) non sarebbe stato contento di un'interpretazione romanticamente ispirata che valorizza al massimo il pianoforte moderno? Barenboim si concentra sul fascino e sull'eleganza dei pezzi, senza usare tempi inaspettamente lenti o veloci e senza mai sacrificare la direzione delle linee melodiche. Non cerca di far suonare il piano come un clavicembalo, ma abbraccia pienamente le ampie sonorità dello strumento Non ho mai sentito suonare Bach così delicatamente. Potrebbe non piacere sentire la musica di Bach in versione “tranquilla”, ma il tutto ha un suo fascino particolare. Daniel Barenboim raggiunge un meraviglioso silenzio con il suo pianissimo, ad esempio nel Preludio in tonalità di mi bemolle maggiore del Libro II egli raggiunge una qualità quasi spirituale. Detto questo, il suono di questo disco è meraviglioso, e il modo di suonare è fantastico. [Warner Classics]
Jörg Demus Il pianista austriaco Jörg Demus ha registrato il Clavicembalo ben temperato al pianoforte moderno per la Westminster Records alla fine degli anni '50. Al giorno d'oggi, il suo modo di suonare non è in linea con le attuali interpretazioni di barocca autentiche, ma comunque dalle sue dita prende corpo una musica bellissima e senza tempo, con un flusso e riflusso molto naturale, suonata per il divertimento e la meditazione dell'ascoltatore. Questa è una visione piacevole, travolgente e lirica, che regala un delizioso Bach. La sua prodigiosa musicalità e, soprattutto, il fenomenale lirismo esibito su ogni singolo pezzo, interpretato in modo ammirevole, senza quelle tradizionali pose di esibizionismo riluttante, fanno - a mio avviso - anche di questi due dischi un must da avere nella propria collezione discografica dedicata a Bach.
47
[Universal Music & VI]
Angela Hewitt Tra il 1998 e il 1999 Angela Hewitt registrò una versione del Clavicembalo ben temperato, suonato su pianoforte Steinway, che riscosse un grande successo di critica e pubblico; 10 anni dopo lo registrò nuovamente, ma con un altro pianoforte, il Fazioli, che suonava decisamente diverso da quello che la pianista aveva usato nella registrazione precedente. La stessa Hewitt parlò di "libertà ritrovata" con questo nuovo pianoforte Fazioli, «il cui suono - come ella scrisse - luminoso, potente e delicatissimo mi ha aperto nuovi mondi e ha
permesso
alla
mia
immaginazione
di
prendere
il
volo».
Effettivamente, il Fazioli ha un suono più caldo, più rotondo, più pieno e più chiaro, e questa eccellente interpretazione è ugualmente, se non più, esteticamente bella e soddisfacente come quella vecchia. A mio giudizio conclusivo, mentre la prima registrazione della Hewitt con il suono dello Steinway - è ancora un must da avere, nondimeno anche questa nuova versione è imperdibile per la differenza (in meglio) della musicalità del Fazioli. [Hyperion]
Vladimir Ashkenazy Questa incisione del 2006 offre una interpretazione che i critici hanno commentato in modo non sempre positivo. In effetti, il tocco normalmente abile e sensibile del pianista e direttore russo è insolitamente percussivo tanto che spesso non si riesce a capire se si sta ascoltando un preludio o una fuga. E’ più un romantico che un interprete della musica barocca. Tecnicamente, la registrazione è molto buona, ma non comprerei questo disco. [Decca]
48
Andras Schiff Quando András Schiff registrò, giovane pianista,
per la prima volta nel 1980 il Clavicembalo ben
temperato, il risultato fu soddisfacente per chi era alla ricerca di un Bach al pianoforte senza le idiosincrasie di Glenn Gould o la monumentalità soffocante di Rosalyn Tureck. Fedele allo spartito, senza personali rivisitazioni delle intenzioni di Bach, Schiff suonava solo Bach. In questa nuova registrazione del 2012 Schiff ha un bel suono di pianoforte, molto rotondo, pulito, con un ampio respiro ed un approccio "romantico" molto equilibrato: sceglie bene i suoi tempi, senza rallentamenti o accelerandi, peccato che l’insieme sia alquanto noioso, nonostante per molti sia una registrazione di riferimento. La registrazione è da ECM, quindi ovviamente cristallina: questa etichetta infatti presta sempre molta attenzione alla qualità del suono nella sua registrazione. [ECM New Series]
Zhu Xiao Mei “Più progredisco nella vita, più mi dico che il mio grande progetto è quello di rendere la musica di Bach il più accessibile al maggior numero, il più popolare, nel senso nobile del termine. Voglio indossarlo ovunque". Questo è ciò che Zhu Xiao Mei dice sulla copertina dell'album e mantiene appieno la sua promessa. Mi ha sempre colpito questo modo di suonare Bach così naturale, così ovvio, questo suono a volte brillante a volte oscuro, una tecnica che mi sembra altissima, un'assenza di effetti, nient'altro che la musica di Bach che scorre come un puro incantesimo...! Il suono del pianoforte è molto meno secco o austero di quello di Glenn Gould. Zhu Xiao-Mei fa un lavoro parsimonioso e ponderato del pedale. Il pianoforte è registrato con un riverbero molto leggero piuttosto piacevole. Di questa pianista (che durante la rivoluzione culturale maoista venne internata per 5 anni per essere sottoposta a rieducazione attraverso un campo di lavoro) acquistate la sua straordinaria interpretazioni delle Variazioni Goldberg e non ve ne pentirete! Per chi non conoscesse questa incisione, può inviarmi a domicilio una cassa di Dom Perignon (naturalmente annata 1959) per il consiglio… [Mirare Productions]
Le interpretazioni al clavicembalo Il mercato discografico offre numerose interpretazioni di quest’opera al clavicembalo, così come originariamente pensato da Bach. Io eviterei le prime esecuzioni - tipo Leonhardt - un po’ troppo secche e meccaniche.
49
Mi sento di consigliarvi due interpretazioni:
Ralph Kirkpatrick Kirkpatrick ci offre una lettura dello spartito vivace, entusiasmante ed incandescente. Nelle mani di Kirkpatrick, il clavicembalo diventa un meraviglioso connubio tra un organo a canne e un arpicordo; suona con grazia, colmo di toni delicati e soavi. Tuttavia questo effetto non è dovuto solo alla scelta dello strumento, ma anche all’attento fraseggio da parte dell’interprete. La qualità audio è eccezionale per queste registrazioni d’epoca, alcune delle quali vanno oltre i quarant’anni. Anche dai critici è stata considerata una delle registrazioni più importanti del secolo scorso. Ora la Deutsche Grammophon l’ha resa di nuovo disponibile rimasterizzata a 24 bit. Registrazione eseguita nel 1969 e rimasterizzazione effettuata nel 2001. [ARCHIV Produktion -The Originals]
Ottavio Dantone Dantone è il direttore dell'Accademia Bizantina, complesso strumentale specializzato nell'esecuzione del repertorio musicale del XVII e XVIII secolo. Ha inciso questa ottima versione, che dimostra come anche il cembalo - se ben suonato - è strumento versatile e permette di dare colore e calore alle esecuzioni. [Arts Blue Line]
Altre ottime interpretazioni sono anche quelle di Ton Koopman, Bob van Asperen, Daniel Chorzempa, Trevor Pinnock. Quella di Dantone rimane comunque a mio personale modesto avviso la migliore, ma, come ho detto all’inizio di questo focus, se devo ascoltare questa composizione, non ho dubbi nello scegliere il pianoforte di Richter. Il buon, caro e vecchio Johann mi comprenderà…
50
Musica Classica e Cinema: Farinelli - Voce regina (di Gérard Corbiau) Farinelli - Voce regina è un film del 1994 del regista belga Gérard Corbiau, imperniato sulla vita del celebre cantante castrato del XVIII secolo Carlo Broschi, in arte Farinelli. Il film è spettacolare, divulga in maniera sontuosa un capitolo della musica europea, dà un grande spazio alle musiche, ai costumi e alle scenografie, ma è purtroppo infarcito da molte infedeltà storiche e forzature romanzesche, che ne diminuiscono il valore in generale. Il film racconta la storia dei due fratelli Boschi, Riccardo e Carlo, nella Napoli dei primi anni del 1700. Il maggiore, Riccardo, scrive canzoni sacre e pezzi d'occasione nello stile - ma non certo con il talento - di molti musicisti operanti in quella coltissima città, mentre il fratello (di 10 anni più giovane), che fa parte di una cantoria in Chiesa, possiede per natura una voce d'angelo. Riccardo Broschi, però ambizioso com'è (ha cominciato a comporre "l'Orfeo"), con l’inganno riesce ad evirare Carlo. La sua voce gli preme troppo: essa deve restare per sempre purissima, per potere cantare la sua musica. I due condivideranno onori, gloria ed avventure femminili (Carlo era quello che iniziava il rapporto amoroso, che veniva poi “concluso” dal fratello) per anni e anni in tutti i maggiori teatri d’Europa e nella Corte del Re di Spagna. Le donne cadono in delirio per il cantante napoletano, ma il castrato trionfante sulla scena, ai vertici della celebrità, non è felice: egli sa di non essere un uomo completo e la malinconia lo incupisce. Fra i due fratelli vi sarà una drammatica rottura, che si ricompone dopo un fallito tentativo di suicidio di Riccardo. Alla fine Carlo, innamoratosi profondamente di una donna, lascia al fratello il compito di renderla fertile, in modo di potere avere un figlio. Riccardo si allontanerà poi definitivamente. Meritevole
di
l’interpretazione protagonista,
segnalazione “canora”
interpretato
da
è del
Sergio
Dionisi. La strada percorsa dai tecnici della Auvidis-Travelling è stata quella di inventarsi di sana pianta la voce di un castrato, ritenendo che l’interpretazione di un sopranista non potesse essere paragonabile a quella di un eunuco per il fatto che il sopranista imita la voce femminile, mentre il castrato ha la voce femminile. La via scelta è stata una via ad altissima tecnologia, consistente nell’editing digitale tra due voci, quella di un soprano, Ewa Mallas Godlewska, e quella di un controtenore, Derek Lee Ragin. Una volta ottenute
51
le registrazioni dei due cantanti, separate, e conoscendo la strabiliante estensione di 3 ottave (Do2 – Do5) di Farinelli, e la sua capacità di cantare frasi lunghissime su un solo fiato (come documentato dai documento dell’epoca), un certosino lavoro al computer ha ricreato questa voce artificiale, che comunque risulta quasi sempre molto credibile. Le musiche del film sono di vari autori, naturalmente del periodo barocco. Sono eseguite dall’orchestra Les Talens Lyriques, sotto la direzione di Christophe Rousset. L’esecuzione è piacevole e corretta anche dal punto di vista filologico. Riccardo Broschi è principalmente conosciuto per le arie virtuose che compose per il fratello Carlo. Di tutte le sue opere, che vennero cantate dai maggiori cantanti lirici dell'epoca, nessuna ci è giunta integra, e ci sono rimaste poche arie. Nel film possiamo ascoltare due arie tratte dall’opera Idaspe. La prima è l'aria “Ombra fedele anch'io”, aria di Dario.
♫ Ombra fedele anch'io
Ombra fedele anch'io sul margine di lette seguir vo' l'idol mio che tanto addoro. Sul margine di lette seguir vo' l'idol mio che tanto addoro. Ombra fedele anch'io sul margine di lette, sul margine di lette seguir vo' l'idol mio che tanto, che tanto addoro, che tanto addoro. Che bella pace è questa che a consolar se resta il mio martoro.
La seconda è “Qual guerriero in campo armato”, un'aria "di bravura"5 dove il castrato poteva dispiegare l'estensione della sua voce e la sua agilità.
♫ Qual guerriero in campo armato
Qual guerriero in campo armato pien di forza e di valore nel mio core innamorato sdegno e amore fan battaglia. Il timor del dubbio evento il dolore e il cimento l’al a ia o fo de e a aglia.
5
Aria di bravura: aria in tempo allegro, volta a valorizzare le doti di agilità del cantante e solitamente utilizzata per esprimere rabbia, vendetta e passione.
52
[Sergio Dionisi, nel ruolo di Farinelli]
53
Nel 1734 i due fratelli furono a Londra, dove Carlo fece il suo debutto nel palcoscenico inglese con l'Artaserse, composto da Riccardo in collaborazione con Johann Adolf Hasse. Di questo lavoro si ricorda l'aria di bravura “Son qual nave ch'agitata” composta dal compositore napoletano.
♫ “o
ual ave h’agitata Son qual nave ch'agitata da più scogli in mezzo all'onde si confonde e spaventata va solcando in alto mar.
Di Riccardo Boschi nel film viene infine suonata, solo in versione strumentale, l’aria “Se al labbro mio non credi”. Cleofide è un’opera del compositore tedesco Johann Adolf Hasse (1699 –1783), che fece dell'Italia la sua patria di elezione. Hasse riteneva che la parte vocale fosse la più importante di tutte, e si guardava bene dal coprirla con accompagnamenti inopportuni; egli pensava che il semplice, il naturale e il patetico fossero più che sufficienti per affascinare le orecchie e per toccare il cuore. Di quest’opera ascoltiamo l’aria “Generoso risuegliati o Core”.
♫ Generoso risuegliati o Core Generoso risuegliati o Core, frangi 'l core co' lacci d'amore che ti stringe orgogliosa beltà che ti stringe orgogliosa orgogliosa beltà.
Nel film Farinelli incontra più volte Georg Friedrich Händel. La prima volta avviene in circostanze fortuite: durante una fiera, Carlo aveva raccolto la sfida di un suonatore di trombetta, riuscendo ad emettere con la sua potente voce toni molto più acuti del musicista; la sua vittoria venne notata dal grande compositore, che si reca da Carlo e gli propone di cantare le sue opere; per Carlo sembra un sogno che sta per realizzarsi, ma quando vede che Händel deride e disprezza Riccardo per le sue scarse doti, si infuria e sputa in faccia al compositore, provocandone l'ira ed allontanandolo definitivamente.
54
Qualche tempo dopo avviene un secondo incontro. Carlo, trovandosi a Londra, va a trovare Händel, poiché il suo sogno di lavorare per lui non si è mai sopito. Lo trova mentre all’organo sta suonando l’Ouverture dell’opera Rinaldo. Händel, ancora adirato nei suoi confronti, lo insulta ripetutamente definendolo "un essere asessuato" e lo scaccia. Dal dialogo con il grande compositore, Carlo appura la tragica verità della sua menomazione: Riccardo lo ha tradito, facendolo castrare quand'era piccolo, per poi mentirgli raccontandogli la falsa storia di un incidente a cavallo. Carlo, approfittando di un momento di distrazione del compositore, gli sottrae il manoscritto della sua ultima opera, che successivamente porterà in scena, sotto alla direzione di Porpora; Händel, poco prima dell'esibizione, rimprovera duramente Farinelli, e, prima di andarsene, gli dirà che, per colpa sua, non comporrà mai più. Ma questo non ferma il cantante. Nel teatro pieno Farinelli canta alcune arie, tratte dal Rinaldo, opera in lingua italiana, composta all’inizio del 1700 da Georg Friedrich Händel. Le prime due arie sono:
♫ Cara sposa Cara sposa, amante cara, dove sei? Deh! Ritorna a' pianti miei.
♫ Venti e turbini Venti, turbini, prestate le vostre ali a questo piè. Infine, in quella che forse è forse la scena più famosa del film, Farinelli, davanti ad un pubblico estasiato e commosso, canta una delle più belle “arie” della musica di tutti i tempi: “Lascia ch’io pianga”, celeberrima e struggente melodia, con la quale lo stesso Farinelli, modulando la sua voce triste e disperata fino a raggiungere un’estensione straordinaria, rivive la dolorosa storia della sua evirazione. Nel film lo stesso Händel, seduto in galleria, dopo aver assistito all'opera, in preda all'estasi scatenata dall'assolo di Farinelli, viene colto da un malore.
♫ Las ia h’io pia ga Las ia h’io pia ga mia cruda sorte, e che sospiri la libertà. Il duolo infranga queste ritorte6 de’ sol pe pietà… 6
Le ito te so o le fu i elle he legava o i polsi e le caviglie dei prigionieri 55
iei
a tì i
Al di là della trama dell’opera questi versi sono diventati nel tempo metafora (tra le più musicalmente toccanti) di tutte le sofferenze che donne e uomini patiscono in ogni epoca. Queste note e queste parole suonano immediatamente come una forma di consolazione, che non s’esaurisce nello spazio della musica, perché l’essenzialità poetica del testo lirico e la meraviglia melodica creata da Händel sono così potenti da entrare nella mente e “suonare” dentro di noi anche nel più assoluto silenzio. Farinelli è in Spagna, a Madrid, alla corte di Re Filippo V; il sovrano, perennemente malinconico e depresso, trova ormai sollievo solo nella voce di Farinelli, così ha reclutato il cantante per il resto della sua vita. Durante un’eclissi il Re, turbato, chiede a Farinelli di "far ritornare il sole"; il nostro protagonista canterà - fino al termine dell'eclissi, - l’aria “Alto Giove”, tratta dal Polifemo di Nicola Porpora, primo maestro di Farinelli. Quest’opera, creata nel 1735, fa rimescolare le tre diverse storie di Aci e Galatea e Polifemo, di Polifemo e Ulisse, e di Ulisse e Calipso. La musica di Porpora, è un capolavoro di sapienza napoletana speziata con un’ouverture alla francese e temi pastorali; soprattutto, è un inanellamento di arie favolose per invenzione e varietà.
♫ Alto Giove Alto Giove, è tua grazia è tuo vanto il gran dono di vita immortale che il tuo cenno sovrano mi fa.
56
L’epoca dei castrati Nella storia della musica, il periodo tra il 1600 e il 1700 è considerato l’epoca dei castrati, cioè di quei cantanti che avevano subìto la castrazione chirurgica prima della pubertà, allo scopo di mantenere la voce acuta anche in età adulta. Uno dei segni fisiologici della maturità sessuale, sia per gli uomini che per le donne, è infatti la mutazione della voce, più evidente nei primi nei quali si osserva un cambiamento notevole del timbro e dell'estensione vocale. Musici cantori, così venivano definiti i castrati se a loro ci si riferiva senza dare una inflessione negativa al termine. Ma anche altri erano gli epiteti: "cappone" per esempio, così veniva definito Farinelli in Spagna; "puttini castratelli" era per esempio il termine usato dal cardinal Gonzaga nel pieno del 1600; "castrone" invece si usava con intento spregiativo. Questi cantanti divennero in alcuni casi veri e propri fenomeni e furono impiegati dai massimi musicisti del tempo che composero appositamente per loro, sfruttando le loro eccezionali capacità vocali. I Musici cantori erano ben consci della loro popolarità, e, a parte qualche eccezione, dominavano i compositori coi loro capricci nei casi più assurdi, o imponevano le loro pretese. Venivano strapagati e spesso più del compositore stesso.
ORIGINE L’origine dei castrati nel mondo della musica non è nota. Prima di quest’epoca, quando si riteneva necessario l’uso di voci acute, ci si doveva rivolgere ai bambini, ai falsettisti oppure agli eunuchi. Alle donne non era consentito di esibirsi in pubblico: ne fa fede, ad esempio, la 1° lettera di San Paolo ai Corinti con le parole “mulieres in ecclesiis taceant” in cui l’Apostolo ribadiva la proibizione alle donne di cantare in chiesa. Tale interdizione durò fino al XVII secolo. L'esistenza di cantanti eunuchi è testimoniata sin dal primo periodo dell'Impero bizantino; nel 400 circa, l'imperatrice Elia Eudossia [nel riquadro] aveva un maestro eunuco, Brisone, forse egli stesso cantore, che presumibilmente istituì l'uso dei castrati nei cori bizantini. Nel IX secolo i cantanti eunuchi erano ancora utilizzati, come ad esempio nel coro della Basilica di Santa Sofia, e continuarono ad esistere fino alla presa di Costantinopoli, nel corso della quarta crociata del 1204. Dopo un periodo di oblio durato circa tre secoli, essi ricomparvero in Italia in circostanze ancora non chiare. Era il XVI secolo, e i primi bambini castrati erano spagnoli. Il duca Alfonso II di Ferrara fu uno dei primi entusiasti di questi nuovi cantanti.
57
Nel 1562, Papa Sisto V riorganizzò il coro della Basilica di San Pietro, aggiungendo all’organico i castrati; con questo si risolveva il problema delle voci acute laddove alle donne non era permesso di cantare in Chiesa e visto che le voci dei falsettisti si rivelavano troppo deboli. Il primo castrato ad entrare nella celebre Cappella Pontificia fu
probabilmente lo
spagnolo Francisco Soto de Langa. Successivamente entrarono nell’organico altri due grandi virtuosi castrati, Pietro Paolo Folignato e Girolamo Rossini. L’arrivo di queste voci celestiali fu seguito da così grande successo che il Papa Clemente VII provvide alla sostituzione di tutti i cantori con gli evirati: in tal modo la Chiesa accettava tacitamente la pratica dell’evirazione, con l’alibi di rendere gloria a Dio nel modo migliore. Trentadue Papi fecero uso dei castrati nella Cappella Sistina (da qui il termine le voci dei papi). La Chiesa che tanto condannava già allora la non procreazione permise la castrazione con una legge del 1589 e quando Papa Benedetto XIV, alla metà del XVIII secolo, pensò di abolire tale prassi fu vivamente sconsigliato da tutta la curia vaticana. Il neonato Stato italiano dette fine a questa crudeltà bandendo definitivamente l’orchiectomia, ma alla Chiesa servirono ancora trent’anni (1903), allorché Pio X abolì definitivamente l’utilizzo dei castrati, imponendo l’uso delle voci bianche. E’ impossibile determinare con esattezza quando si cominciò a pensare di castrare i bambini per sfruttare la loro voce anche dopo la pubertà. Il Seicento produsse una quantità enorme di evirati cantori. Quel secolo fu contrassegnato da una povertà assai diffusa nel popolo. In molte famiglie che versavano in tristi condizioni economiche, sacrificare la possibilità generandi del figlio che mostrasse anche la più piccola attitudine per la musica o i segni di una voce promettente, nella prospettiva di un eventuale guadagno economico elevato che avrebbe sistemato per sempre la famiglia dell'evirato, era una possibilità che veniva considerata vantaggiosa; tutt'al più se la voce del piccolo post castrazione non risultava idonea al teatro (che dava guadagni da capogiro), rimaneva per il piccolo cantore nel suo futuro un impiego meno redditizio ma sicuro all'interno del coro di qualche cappella. E comunque solo una piccola percentuale di ragazzi castrati alla fine riusciva ad avere una carriera operistica di successo. Anche gli orfanotrofi di Roma e Napoli divennero fucine importanti di castrati. Vi sono inoltre fonti storiche che parlano anche di studenti preadolescenti di canto che chiedevano di essere operati per preservare la loro voce bianca.
LA CASTRAZIONE L’operazione della castrazione, (utilizzo quale fonte il Trattato sugli eunuchi, 1770 di Charles Ancillon), veniva generalmente eseguita da norcini o barbieri clandestinamente in botteghe di campagna con
58
strumenti rudimentali ed in condizioni igieniche assai precarie; solo raramente avveniva con i crismi dell’ufficialità negli ospedali di alcune grandi città, in nome di pretestuose ragioni mediche. Il bambino (di età fra gli otto e dieci anni) veniva drogato con oppio o con qualche altro narcotico, o portato ad uno stato simile al coma comprimendo la carotide; a questo punto veniva lasciato in un bagno caldissimo per un po’ di tempo finché non entrava in uno stato di insensibilità. L’intervento era quindi pressoché indolore. Il chirurgo provvedeva alla legatura del funicolo testicolare, che portava all’atrofia dei testicoli. In alcuni rari casi si procedeva anche all’asportazione dei testicoli.
[“t u e ti e te i a dell’evi azio e, stampa tedesca del XVII sec.] Nonostante l’operazione di castrazione come descritta da Ancillon non fosse dolorosa, il processo di evirazione era molto pericoloso e poteva portare alla prematura morte della giovane vittima. Succedeva spesso, infatti, che al bambino venisse somministrata una dose inavvertitamente letale di oppio oppure che la pressione sull’arteria del collo fosse troppo lunga, o che morisse per la presenza di infezioni post-intervento. Le trasformazioni morfologiche e fisiche post-castrazione erano numerose e determinanti. La soppressione della funzione testicolare (dovuta alla conseguente assenza della secrezione di testosterone) comprometteva l’apparizione dei caratteri sessuali principali e, in particolare, arrestava lo sviluppo della laringe e quindi la mutazione della voce in senso virile. La loro voce diventava uno strumento musicale potentissimo che racchiudeva in sé le caratteristiche delle voci maschili, femminili e bianche, il tutto amplificato da una poderosa cassa toracica, sviluppatasi come effetto della castrazione, che permetteva fiati lunghissimi e messe di voce incredibili. Infatti, aggiungendo una respirazione appropriata, nei castrati si manifestava una duttilità, una morbidezza, un’agilità ed un’estensione uniche; essi curarono il metodo del cosiddetto canto sul fiato, che semplicisticamente consiste nell’attaccare un suono, sostenerlo, ampliarlo, e ridurlo in base alla quantità di fiato regolato dal diaframma. I castrati curavano inoltre la tecnica del passaggio di registro, operazione che permette - scurendo il suono - di passare al registro di falsetto per avere una vocalità ancora morbida e limpida anche nel settore acuto. Per quanto riguarda la tonalità, pare che questa dipendesse dall'età in cui veniva praticata l'evirazione: prima avveniva e prima aumentava la possibilità di ottenere un buon soprano (termine che a volte indicava castrato soprano, e non per soprano femminile), se si aspettava un po' di più erano maggiori le probabilità che la voce ottenuta fosse più verso la sfera contraltista.
59
"Sono ugole e suoni di voci da usignoli; sono fiati che fanno mancare la terra sotto i piedi e che quasi tolgono il respiro" (Abate François Raguenet). Oltre alla voce, la mancanza di testosterone provocava altri mutamenti morfologici. Veniva interessata la massa muscolare, che diventava più simile a quella femminile, con depositi adiposi più diffusi che portavano spesso all’obesità, mancava totalmente la barba e la peluria maschile, la taglia era superiore alla media - in quanto le cartilagini di congiunzione non si saldano dopo la pubertà con un conseguente allungamento delle ossa (gli arti erano molto lunghi) -, il castrato presentava infine un invecchiamento precoce. La castrazione non implicava l'impotenza. Al proposito, ci sono molti aneddoti sui castrati, che
si
riferiscono innanzitutto a Caffarelli, dal carattere irruente e dall'appetito sessuale affatto estinto dalla castrazione; nulla si sa della vita amorosa di Senesino. Farinelli invece nutriva un amore platonico, ricambiato, per Metastasio, prova ne siano certi scambi epistolari e anche dal fatto che Metastasio stesso pare abbia distrutto le lettere a lui indirizzate da Farinelli. Ci furono anche dei casi di procreazione e pare che Papa Sisto V abbia detto stizzito “Li si castri meglio!”. La Chiesa comunque vietava ai castrati il matrimonio.
LO STUDIO MUSICALE Il principio educativo nei confronti dei castrati da parte dei loro maestri era quello di sfruttare e potenziare, in esseri adulti, certe caratteristiche tipiche dei ragazzi, i quali nella gamma naturale (detta in gergo di petto), abbracciano il maggior numero di note dal si2b al mi4, arrivando addirittura al fa4, il che significa all’incirca dodici note a voce piena contro la metà del soprano donna. L’eccezionale qualità del canto dei castrati derivava non solamente dalla particolarità del loro timbro e dall’estensione della loro tessitura vocale, ma anche dalla loro formazione ineluttabile e rigorosa. La giornata di un giovane castrato in una scuola di musica di Roma nel 1700 consisteva in un’ora di pratica canora, un’ora di allenamento per i trilli, un’altra ora per i passaggi virtuosistici, un’altra ancora per esercizi della voce. Gli studenti in certi casi venivano messi in prigione quando si dimostravano poco ligi alle disposizioni dei loro maestri. Spesso i giovani allievi si esercitavano davanti ad uno specchio per evitare di fare movimenti del corpo non necessari o espressioni facciali inutili. Si aggiungevano poi alle innumerevoli ore di studio di canto le lezioni di letteratura, di teoria e dettato musicale, la composizione di opere sacre o profane e gli esercizi al clavicembalo. Questo duro regime scolastico permetteva ai castrati di fare il proprio debutto in scena verso i 15-16 anni. I castrati godevano di certi vantaggi in confronto agli altri. Venivano infatti nutriti meglio e la loro salute era seguita minuziosamente. Dormivano inoltre in appartamenti più caldi per timore che possibili raffreddori potessero compromettere la voce dell’allievo. La perfezione della loro arte va senza dubbio attribuita ai grandi maestri di canto dell’epoca, Pistocchi, Bernacchi e Nicola Porpora.
60
LE MUSICHE DEI CASTRATI Quello che lanciò i castrati fuori dal repertorio delle musiche sacre per consegnarli all’epoca d’oro del barocco fu l’opera seria di Metastasio: questo genere musicale, ricco com’era di personaggi mitizzati presi a piene mani dalla mitologia classica, e quindi poco realistici, fu la culla ideale di questi cantanti dalla voce potente capaci di passare, senza prendere fiato, dalla voce grave tenorile a quelle acute per soprano, con un’agilità tale da superare senza fatica le difficilissime partitura scritte apposta per loro. E’ una leggenda da sfatare che ai castrati affidassero solo ruoli femminili: questo accadeva solo nello Stato pontificio dove alle donne era vietato cantare in teatro; in genere, i ruoli ad essi affidati erano maschili (eroi di sublimi virtù o divinità dell’Olimpo). In questo aureo periodo (che possiamo delimitare tra gli ultimi decenni del 1600 sino alla prima metà del 1700), i castrati divennero padroni assoluti del teatro musicale: per loro grandi compositore scrissero musiche di altissima difficoltà tecnica, e la loro presenza era richiesta in tutti i più grandi teatri europei. Il loro dominio privilegiato fu l’opera seria, ma furono anche adoperati nell’opera buffa. Erano pagati a peso d’oro: basti ricordare che il grande Farinelli percepiva dal Re di Spagna uno stipendio annuo di 50.000 franchi; rimase al suo servizio per ben 25 anni, con la mansione di cantare per la Corte tutte le sere quattro arie. I castrati furono gli interpreti di prima scelta di Scarlatti, Pergolesi e Vivaldi, ma anche Pavesi, Morlacchi, Mayr, Rossini e Meyerbeer scrissero musiche per loro. Wagner propose di affidare il ruolo dell’eunuco Klingsor nel Parsifal al castrato Domenico Mustafà, insegnante e cantore nel Coro della Sistina, ma poi non se ne fece niente. Fu soprattutto Händel a sfruttare maggiormente la voce dei castrati. Cito opere quali Rodelinda, Alcina, Giulio Cesare, Orlando, Serse, ma anche con oratori quali il Samson, il Messiah e l’Athalia. Tra le numerose migliaia di castrati, solo pochi hanno raggiunto una fama significativa. Celebre fu Girolamo Crescentini che calcò le scene musicali fino al momento in cui si ritirò dalle scene per dedicarsi all’insegnamento: insegnò alla famiglia imperiale di Vienna, e successivamente fra i suoi allievi ebbe anche Vincenzo Bellini. Altri nomi celebri sono quelli di Nicolò Grimaldi detto il Nicolino, Antonio Maria Bernacchi, Gaetano Baerenstadt, Gaetano Majorano detto Caffarelli o Caffariello (dal noto appetito sessuale, citato anche da Rossini nel suo Barbiere di Siviglia come un genere di cantante ormai antiquato), Gaetano Guadagni, Giacomo Conti detto il Gizziello, Francesco Bernardi detto il Senesino. Il più celebre castrato fu Carlo Broschi (1705-1782) [nel riquadro] passato allo storia con il nome di Farinelli. Il suo canto influenzò lo stile delle opere composte in quel periodo. Alle sue qualità artistiche, Farinelli aggiungeva quelle umane. Affabile e modesto malgrado la fama e il talento, di perfetta educazione, seppe guadagnarsi l'affetto del pubblico e la simpatia dei grandi.
61
Per la fenomenale estensione vocale, per la versatilità dimostrata nei vari stili di canto, per l'eccezionale capacità di tenuta dei fiati, per il trascendentale virtuosismo e per le sue doti di attore, Farinelli è ancor oggi ricordato come il più grande cantante castrato nella storia dell'opera lirica. Nelle prossime pagine vi racconterò la sua vita. L’ultimo celebre castrato dell’opera fu Giovanni Battista Velluti (1781-1861): trionfò in tutta l’Europa, ebbe molte avventure amorose, diresse il Covent Garden di Londra dove si esibì fino al 1829. Anche a Londra nel 1844 cantò un altro grande castrato, Polo Pergetti. Gli ultimi castrati furono quelli della Cappella Sistina; l’ultimo castrato è stato Alessandro Moreschi (18581922) [nel riquadro], che restò al servizio della Cappella Sistina fino al 1913. L'Angelo di Roma, come fu soprannominato, cantò ai funerali di Napoleone III ed interpretò la parte del soprano solista nella Messa da Requiem di Verdi a Ravenna. Si spense a Roma, dimenticato e in solitudine, nel 1922. Di lui sopravvive una testimonianza della sua arte, che
assume
grande
valore
essendo
l'unica
testimonianza riversata su supporto magnetico del canto di un castrato: sono 17 brani di vario genere, frutto di registrazioni realizzate fra il 1902 e il 1904. La qualità della registrazione è scarsa, consumata dal tempo e penalizzata dalla tecnologia di allora. Sul versante artistico dobbiamo considerare il declino del cantante non più giovanissimo e anche una certa instabilità della voce dovuto forse al cantare nell’imbuto come si usava all’epoca. Nonostante tutto siamo in presenza di una testimonianza unica, d'importanza storica, che merita tutta la nostra considerazione. Oggigiorno, è impossibile immaginare come suonassero effettivamente le voci dei castrati. Nessuna perfomance di soprano o sopranista può rendere pienamente l’idea di quanto potenti e ammalianti fossero queste somme figure del bel canto, le cui voci – secondo alcuni – erano come quelle degli angeli: asessualmente celestiali. Quello che invece possiamo appurare è la bellezza delle arie a loro dedicate che ci sono rimaste, musiche di una bellezza affascinante e intramontabile, degne della fama (ma anche della malinconia personale) che questi cantanti portavano con sé.
62
Carlo Broschi, detto Farinelli BIOGRAFIA Il 24 gennaio 1705 a Andria nasce Carlo Maria Michelangelo Nicola Broschi conosciuto con il nome di Farinelli, il più famoso cantante lirico castrato della storia. La famiglia era agiata, il padre Salvatore ricopriva cariche amministrative feudali, il nonno
era
governatore della città di Scala e Ravello. Il padre era un grande appassionato di musica e volle fare studiare Riccardo, il maggiore, da compositore e Carlo da cantante, ma morì a soli 36 anni nel 1717. Riccardo, diventato responsabile della famiglia, decise quindi di far sottoporre il fratello (che aveva allora 12 anni) alla evirazione, pratica chirurgica comune a quei tempi, in modo che potesse conservare la sua voce di soprano o contralto prima che lo sviluppo fisiologico avesse potuto modificarla. La decisione fu mascherata da falsità: caduta da cavallo, morso di un animale, menomazione presente dalla nascita del fanciullo. Verosimilmente Riccardo, dopo la morte del padre, aveva paura di perdere l’agiatezza economica, e sperava di ricavare fama e denaro dalla futura attività del fratello, del quale conosceva le capacità canore. La famiglia Broschi si trasferì quindi a Napoli, e Carlo fu mandato a studiare canto con Nicola Porpora, definito il miglior insegnante di Napoli e, forse, di tutta Italia: non era un Conservatorio, ma una scuola privata del maestro che sarebbe stato remunerato con una percentuale sui previsti guadagni futuri. Il maestro Porpora curò l’affinamento del naturale talento di Carlo come soprano e mezzosoprano, insistendo molto sulla precisione dell’intonazione, nel solfeggio, sulla capacità di variare il ritmo, di dominare variazioni e abbellimenti improvvisi. Il corso durava 6 anni, ma Carlo lo completò in 5 anni. Il suo debutto avvenne a Napoli, nel 1720, nella serenata "Angelica e Medoro" (del Porpora), in una serata in onore dell'Imperatrice d'Austria, e la sua voce ebbe un immediato successo. Il libretto era la prima prova teatrale di Pietro Metastasio, che strinse con Broschi un'amicizia che durò tutta la vita (testimoniata da un interessante carteggio). Negli anni successivi cantò a Roma, Vienna, Venezia, Milano, Bologna. Il pubblico del tempo adorava il virtuosismo, che nei cantanti consisteva soprattutto nell'esecuzione di variazioni arbitrarie ai brani cantati, in cui l'aspetto della difficoltà tecnica estrema arricchiva la pura espressione dei sentimenti della musica. Erano anche frequenti "duelli" tra musicisti. Se a Roma Broschi aveva vinto (1722) una sfida contro un trombettista tedesco, sulla tenuta lunga di una nota altissima, a Bologna (1727) sorse la competizione con Antonio Maria Bernacchi, allora uno dei più importanti castrati
63
della scena musicale. Di fronte ad un pubblico incredulo i due si esibirono in abbellimenti, canti, gorgheggi: la sfida si trasformò in una amicizia indissolubile che durò tutta la vita. Sull'origine del nome Farinelli, o Farinello, ci sono tre ipotesi, la prima che derivasse dalla professione del padre Salvatore, il quale però mai esercitò la professione di mugnaio, né commerciò mai in farina, grano o granaglie. Più nobile l'associazione con la famiglia Farinel, violinisti e compositori provenienti dalla Francia e in Italia girovaghi per tendenza e necessità. I Farinel però non vissero mai nel napoletano, né ebbero in famiglia un parente cantore evirato. Resta soltanto quella che è l'ipotesi più accreditata, l'associazione con la nota famiglia di avvocati Farina, uno dei quali lo protesse e probabilmente lo finanziò durante il periodo in cui studiava col Porpora. Nel 1730 Farinelli fu ammesso all'Accademia Filarmonica di Bologna.
Nel 1734, Carlo Broschi si trasferì a Londra e cantò presso l'Opera della Nobiltà al Lincoln's Inn Fields, diretta proprio da Porpora. La sua fama era immensa, e i proventi che ottenne nei tre anni in cui soggiornò in Inghilterra superarono le 5.000 sterline. Questi anni furono l'apice della sua gloria come artista di scena, ma furono anche quelli della cocente rivalità tra i due gruppi teatrali residenti a Londra, quello di Georg Friedrich Händel, sostenuto dal re Giorgio II, e quello di Porpora, sostenuto dal Principe di Galles e dalla nobiltà.
64
La prima apparizione al teatro Lincoln's Inn Fields fu in Artaserse, di cui la maggior parte delle musiche erano state scritte dal fratello, Riccardo Broschi. Il successo fu istantaneo. Federico principe di Galles e la corte lo accolsero con lodi e onori. Nel 1737 Farinelli ricevette l’invito dalla ambasciata spagnola a Londra, a recarsi a Madrid come cantante di camera dei reali di Spagna. Il re spagnolo Filippo V aveva abbandonato la vita pubblica, gli affari di Stato e manifestava anche segni di follia, e la regina Elisabetta Farnese era convinta che le arie delle opere preferite dal monarca, se cantate dal Farinelli, ne avrebbero alleviato la sofferenza. Farinelli viene ammesso come “familiar criado” (famiglio): per esplicita richiesta del re, il suo compito consisteva nel cantargli tutte le sere quattro arie, tra le quali - secondo lo storiografo Charles Burney – vi erano "Pallido il sole" e "Per questo dolce amplesso", tratte dall’Artaserse di Adolf Hasse. La voce di Farinelli fece un tale effetto su Filippo V, che il re gli fece promettere di restare alla corte di Spagna, corrispondendogli uno stipendio di 2000 ducati, con l'unica richiesta di non cantare più in pubblico. L'episodio è rimasto celebre, e contribuì ad accrescere la leggenda che circondava il cantante. Farinelli vide la sua importanza crescere con l'ascesa al trono di Ferdinando VI di Spagna, che lo nominò cavaliere di Calatrava, un'alta carica, riservata ai gentiluomini che potevano provare la nobiltà e l'antichità delle
loro
famiglie.
Broschi-Farinelli,
favorito
dal
monarca, esercitò sulla corte, e sulla politica, una grande influenza. Gli si devono i primi lavori di bonifica delle rive del Tago, e diresse l'opera di Madrid e spettacoli reali. Utilizzò
il suo
potere persuadendo
Ferdinando
a
instaurare un teatro d'opera italiano. Collaborò anche con Domenico Scarlatti, compatriota napoletano, anch'egli residente in Spagna. L'ascesa politica di Farinelli non viene accolta con favore negli ambienti dell'aristocrazia spagnola, e, all'avvento di Carlo III, nel 1759, venne allontanato. Farinelli si ritirò allora a Bologna, e morì nella sontuosa villa che aveva fatto costruire in vista del suo ritiro.
65
Malgrado le numerose visite che vi ricevette (tra cui quelle di Wolfgang Amadeus Mozart allora adolescente, e di Giuseppe II d'Austria), Farinelli soffrì fino alla morte di solitudine e di malinconia, legati alla sua menomazione fisica: infatti la castrazione, oltre ad essere una pratica atroce che impedisce alla voce del bambino di cambiare, comporta tutta una serie di squilibri ormonali che portano alla depressione. Farinelli si spense il 16 settembre 1782, qualche mese dopo il suo amico Metastasio, lasciando una collezione d'arte e di strumenti musicali sfortunatamente dispersa dai suoi eredi, tra cui un violino di Antonio Stradivari. Di lui resta qualche bel ritratto dipinto da Jacopo Amigoni e Corrado Giaquinto, e le lettere ai suoi amici. E’ sepolto nella Certosa di Bologna.
LA VOCE DI FARINELLI La voce di Farinelli aveva una grande estensione (tre ottave, dal Do2 al Do5), un timbro caratteristico, dolce e potente al tempo stesso, e una straordinaria lunghezza nell’emissione dei suoni che sembra non sia mai stata eguagliata da nessun altro cantante. Di lui si scrisse: «Egli non eccelleva soltanto in velocità, ma possedeva le migliori qualità di un grande cantante. Nella sua voce si trovavano riunite la forza, la dolcezza e l'estensione, e nel suo stile la tenerezza, la grazia e l'agilità».
Testamento di mè D. Carlo Broschi detto Farinelli. Consegnato al Sig. Notaro D.n Lorenzo Gambarini questo dì 20 Febraio 1782. Bologna, Archivio di Stato, Fondo Notarile Gambarini. Il
ise a ile
io o po, fatto he sia adave e, voglio he sia avvolto el
io
a to dell’O di e di
Calatrava, secondo sta prescritto dalle Costituzioni del detto Real Ordine Militare e che le sia data sepoltura senza pompa con accompagnamento di poveri in numero di cinquanta con candela di cera alla mano d’o gie t e l’u a, e che ad ognuno di detti poveri se li dia un paulo moneta per ciascheduno doppo di aver accompagnato il mio corpo nella chiesa dei Padri Cappuccini dove eliggo lo mia sepoltura [...] voglio che sia o ele ate pe l’A i a
ia ell’alta i del “a tissi o uattrocento messe cioè duecento nella detta
chiesa dove sarò seppellito, cinquanta nella mia parrocchia di Bertalia, cinquanta nella parrocchia della Beve a a, e le esta ti e to
esse ella hiesa dell’Ospitale della vita lungo il canale del Reno [...]"
66
Ricordo di Claudio Scimone Poche settimane fa, nella notte tra il 5 ed il 6 settembre, Claudio Scimone è morto nella sua Padova, a 83 anni, per i postumi di una caduta. Ha legato il suo nome ai Solisti Veneti, l'orchestra da camera da lui creata nel 1959, con la quale, in più di sessant’anni di attività, ha diretto oltre 6000 concerti in più di 90 Paesi, partecipando ai più importanti Festival Internazionali (tra i quali oltre 30 concerti al Festival di Salisburgo). Claudio Scimone ha inciso oltre 350 titoli con le più importanti orchestre e con i più importanti interpreti come Sir James Galway, Salvatore Accardo, Uto Ughi, Piero Toso,
Cecilia
Gasdia,
Katia
Ricciarelli, José Carreras e tanti altri. Sempre con I Solisti Veneti, ha svolto un'importantissima azione per la diffusione della grande musica fra i giovani e per la creazione di nuovo pubblico: I Solisti Veneti sono stati la prima orchestra in Italia a tenere concerti nelle sedi delle scuole e in decentramento. Il Parlamento Europeo ha dedicato a I Solisti Veneti una targa in cui li ha qualificati “promotori straordinari della cultura al di là delle frontiere”. Claudio Scimone, allievo del grande direttore greco Dimitri Mitropoulos e di Franco Ferrara, debuttò nel mondo dell'Opera a Covent Garden, Londra, dirigendo L'Elisir d'Amore; da allora la sua attività direzionale si è sviluppata con molte delle più grandi organizzazioni artistiche del mondo, come l'Arena di Verona, La Fenice di Venezia, il Rossini Opera Festival di Pesaro, il San Carlo di Napoli, l'Opera di Roma, il Teatro alla Scala di Milano, i Teatri dell'Opera di New York, Parigi, Madrid, Lisbona, Zurigo. Fra le Orchestre Sinfoniche, in concerto e in registrazioni, ha diretto la Philarmonia e la Royal Philharmonic di Londra, l’Orchestra Gulbenkian di Lisbona (della quale è stato direttore stabile per quindici anni), le Orchestre della Radio Francese a Parigi, la Mostly Mozart Orchestra di New York, la Yomiuri Symphony Orchestra e la New Japan Philharmonic di Tokyo, la Bamberger Symphoniker, l'English Chamber Orchestra, la Sydney Symphony, l'Orchestra del Mozarteum di Salisburgo e numerosissime altre da Toulouse a Strasburgo, da Montreal e Ottawa a Houston e Dallas. Il suo nome è legato ad Antonio Vivaldi, ma anche ad altri autori settecenteschi italiani, quali Albinoni, Galuppi, Salieri. Ha diretto e registrato le prime esecuzioni moderne di Mosè in Egitto, Maometto II (nella rinata Fenice), Edipo a Colono di Rossini; di Le Jugement Dernier di Salieri; del Guilaume Tell di Grétry. Con la sua memorabile prima esibizione moderna di "Orlando Furioso" (Verona, 1978), con protagonisti
67
Marilyn Horne e Victoria de Los Angeles, ha portato il mondo a riscoprire l'importanza delle opere teatrali di Vivaldi. La sua interpretazione di "Il Nascimento dell'Aurora" e "Il Concilio dei Pianeti" di Tomaso Albinoni, così come il suo intermezzo "Pimpinone", ha fatto scoprire la potente bellezza delle opere vocali di Albinoni. Con la Philharmonia, ha diretto l'unica registrazione esistente delle Sinfonie di Muzio Clementi che ha ricevuto entusiastiche recensioni della stampa internazionale. Numerosi compositori (Morricone, Bussotti, Donatoni, Corghi, Malipiero, Cadario e Campogrande) hanno scritto appositamente per Claudio Scimone e I Solisti Veneti varie opere, dando vita ad una nuova letteratura per 12 o più archi solisti. Accanto all'attività concertistica, Scimone ha dedicato un'appassionata attività alla formazione musicale dei giovani: è stato docente della classe di orchestra al conservatorio "Benedetto Marcello" di Venezia e per 27 anni direttore del Conservatorio di "Cesare Pollini" di Padova. Uomo di grande cultura e raffinato interprete, il suo stile di direzione era sobrio, privo dei gesti eccessivi, perfino scomposti prediletti da altri direttori; egli trasmetteva la sua interpretazione dello spartito attraverso l’intensità della gestualità, la decisione e l’energia (ma anche la grande umanità) che sapeva trasfondere nella sua bacchetta. La discografia di Claudio Scimone è vasta, ed in questo momento di lutto per la musica non opererò alcuna recensione mirata. Vorrei solo ricordare un vecchio disco delle edizioni Erato Bonsai [ECD 55008] al quale sono molto affezionato e le cui note spesso risuonano tra le pareti di casa mia (ottima la qualità di registrazione): sono celeberrimi brani di Vivaldi, Le Quattro Stagioni; La Tempesta Di Mare; Il Piacere; La Caccia. Chi volesse vedere in video Claudio
Scimone
e
la
sua
Orchestra può trovare la serie di DVD dei Solisti Veneti "Le Stagioni di Vivaldi nelle Ville Venete" (Arthaus), "Il Gloria e la musica sacra di Antonio Vivaldi in San Marco a Venezia e nella Cappella di Giotto a Padova" (Dynamic) e "Concerti per flauto e orchestra di Vivaldi nel Palazzo Ducale di Venezia" con James e Jeanne Galway (Hardy Classic). Vorrei concludere con un piccolo ricordo personale: di Scimone mi colpì la dolcezza del suo sorriso mentre ringraziava il pubblico dopo una delle sue tante esibizioni vivaldiane. Addio Maestro, ci mancherai anche per questo…
68
Strumenti musicali antichi: la Lyra Il nome di questo strumento deriva dal latino lyra, a sua volta derivato dal greco lýra di etimologia sconosciuta. Per la mitologia greca l'inventore della Lyra fu Hermes. Un giorno il dio trovò all'interno della grotta una tartaruga; dopo averla uccisa, prese il carapace, e tese al suo interno sette corde di budello di pecora, costruendo così lo strumento. Hermes lo regalò ad Apollo, e questi al figlio Orfeo. Non è noto dove sia realmente nata la Lyra: come luoghi di origine, gli storici pensano all'Europa meridionale, Asia occidentale e nord Africa; ancora oggi la lyra viene suonata in alcune zone dell'Africa nordorientale. La Lyra venne importata in Grecia in epoca preclassica dove fu lo strumento musicale più conosciuto e più frequentemente raffigurato sui vasi attici. In epoca classica, la lyra era associata alle virtù apollinee di moderazione ed equilibrio, in contrapposizione al flauto, legato a Dioniso e che rappresentava estasi e celebrazione. I poeti classici (aedi e rapsodi) recitavano abitualmente accompagnati dalla lyra. La lyra è costituita da una cassa armonica da cui si elevano due bracci riuniti da un'assicella traversa o giogo: tra questa assicella e la cassa sono fissate le corde, di numero variabile ma di lunghezza eguale. La cassa armonica in origine era lo scudo dorsale di una tartaruga, sulla faccia concava del quale era tesa una pelle bovina. In tempi successivi s'impiegarono armature di legno della stessa forma rivestite di laminette d'osso o d'avorio.
I bracci, o corna, agl'inizi furono corna di capra o di ariete, ma in seguito si costruirono bracci lignei, e della materia primitiva restò solo la forma elegantemente incurvata. La traversa, o giogo, che lega i due bracci alla sommità, era ordinariamente di legno di quercia; era a volte perfettamente cilindrica, a volte rigonfia verso il centro o verso l'estremità. Tra la barra trasversale e la cassa venivano tese le corde, il cui numero, nel tempo, variò da 4 a 7, arrivando fino a 11 e 15. Le corde erano generalmente di budello ritorto di montone, ma erano anche fatte con i tendini di animali o con corde intrecciate di canapa; erano collegate alla cassa mediante una cordiera e sostenute da un
69
ponticello che serviva a tenerle distanti dalla cassa di risonanza e, che,
contemporaneamente,
consentiva
di
trasmettere
a
quest’ultima le vibrazioni delle corde pizzicate dai suonatori. Le corde venivano mantenute in tensione sul giogo mediante dei piroli, strisce di cuoio tagliate dal collo di bue che, aderendo strettamente alle stesse per la presenza di grasso colloso, impedivano che si allentassero; manipolandoli, era invece possibile modificare la tensione delle corde, correggendo in tal modo l’accordo, anche se con questo metodo non si era in grado di raggiungere una perfetta intonazione, così come avviene oggi con gli strumenti moderni. Esternamente, sia a destra che a sinistra, erano inserite due chiavette sagomate alle estremità e incastrate sul giogo con le corde per cui, girando queste chiavette, girava anche il sostegno, tendendo le corde per accordarle o allentandole tutte insieme per non sottoporle ad un inutile sforzo, quando lo strumento era inattivo. [La Musa Tersicore con la Lyra, fattura romana, I sec. d.C.] La Lyra si suonava col plettro, fatto di materia dura - legno, corno, avorio, metallo, pietra preziosa - di forma assai diversa, ma sempre terminante con un dente o un uncino, così da assomigliare a una T o ad una freccia. Il plettro era ordinariamente attaccato alla parte inferiore della lyra e per suonare non veniva staccato. Alla mano destra, che colpiva le corde col plettro, si associava l'accompagnamento della dita della mano sinistra che pizzicavano le note dalla parte opposta dello strumento, e con le quali, volendo, si potevano interrompere parzialmente le vibrazioni, ottenendo così effetti particolari. Mediante una fascia legata ad uno dei bracci della Lyra, che passava intorno all’avambraccio sinistro del suonatore, era possibile tenere stretto accanto al corpo lo strumento. La Lyra poteva essere riccamente e variamente ornata. A causa della sonorità piuttosto ridotta che la caratterizzava, la Lyra veniva utilizzata negli ambienti non molto vasti, come le sale da banchetto, per accompagnare i canti conviviali o i versi improvvisati dai partecipanti, ma fu soprattutto considerato lo strumento ideale per l’insegnamento della musica e del canto nelle scuole.
70
[Rappresentazione della Lyra su piatto attico]
Il Mito di Orfeo Orfeo era figlio di Eagro, re della Tracia, e della musa Calliope (o, secondo altre versioni del mito, di Apollo e di Calliope). Prese parte alla spedizione degli Argonauti, cioè i guerrieri che, guidati dall'eroe Giasone, a bordo della nave Argo erano andati alla ricerca del vello d'oro, custodito da un terribile drago: però non sono state le battaglie e i pericoli di questa impresa che hanno reso famoso il suo nome, ma la musica e l'amore. Orfeo era un poeta e un musico. Le Muse gli avevano insegnato a suonare la lyra, ricevuta in dono da Apollo. Lo strumento era a sette corde, e Orfeo lo modificò aggiungendone altre due. La sua Lyra era in grado di emettere melodie stupende che riuscivano ad incantare chi le ascoltava la sua musica e i suoi versi erano così dolci e affascinanti che l'acqua dei torrenti rallentava la sua corsa, i boschi si muovevano, gli uccelli si commuovevano così tanto che non avevano la forza di volare e cadevano, le ninfe uscivano dalle querce e le belve dalle loro tane per andare ad ascoltarlo. Al ritorno dalla spedizione con gli Argonauti, Orfeo si innamorò della ninfa Euridice e volle sposarla, ma il giorno delle nozze Euridice morì calpestando un serpente. Orfeo non si rassegnò a questa tragica scomparsa e, accompagnato dal suo amatissimo strumento musicale, si mise in viaggio per raggiungere gli inferi e riavere con sé la sua amata. Nell’oscuro regno dei morti, con la sua musica riuscì a commuovere tutti: Caronte lo traghettò sull'altra riva dello Stige, il fiume infernale; Cerbero, l'orribile cane con tre teste, non abbaiò; le Erinni (Aletto, Tisifone e Megera) terribili dee infernali, si misero a piangere. I tormenti dei dannati cessarono (Tantalo non aveva più fame e sete...). Anche gli dei degli inferi, Ade e Persefone, rimasero affascinati dalle sue musiche e decisero che Orfeo avrebbe potuto riportare Euridice nel mondo dei vivi; gli imposero solo la condizione che, durante il viaggio di ritorno, Orfeo dovesse continuare a suonare senza mai voltarsi, nemmeno un istante, a
71
guardare negli occhi Euridice che sarebbe uscita poi assieme a lui, pena il ritorno della donna nel regno dei morti, questa volta per sempre. La strada era in salita, immersa nella nebbia, e Orfeo non sentiva i passi di Euridice. Nonostante l'avvertimento, poco prima dell'uscita, temendo di essere da solo, si girò di scatto e vide l'ombra della sua sposa allontanarsi con un gesto disperato di addio: il patto era stato infranto. Orfeo, disperato, restò lì sette giorni implorando la restituzione dell'amata, ma inutilmente. I suoi lamenti infastidirono le Menadi, le sacerdotesse di Dioniso, che lo uccisero facendolo a pezzi, e gettarono i suoi resti nel fiume Ebro. La sua testa, che le onde del mare portarono fino all’isola di Lesbo, venne ritrovata dalle Ninfe assieme alla sua lyra. La leggenda vuole che, da allora, lo strumento di Orfeo suoni solo tristi e malinconiche melodie. Zeus, commosso dalla sua tragica storia, deciderà di mettere la testa di Orfeo in mezzo al cielo, nella costellazione della Lyra.
72
Gourmeterie Rossini E’ mio desiderio commemorare in quest’ultimo numero del 2018 il 150° anniversario della scomparsa di Gioachino Rossini, avvenuta nel 1868: ho deciso pertanto di parlare, nella parte dedicata alla lirica (Melomania), del “Barbiere di Siviglia”, forse la più famosa delle sue opere, che ha portato Rossini nel Gotha dei compositori europei. Ma Rossini non era solo questo: egli stesso amava modestamente definirsi «pianista di terza classe, ma primo gastronomo dell’universo», ed è passato alla storia anche per le sue passioni e competenze enogastronomiche, altrettanto famose. “Ah, l’opera! Un pasto italiano è come un’opera”, scrisse una volta un famoso gastronomo, Waverley Root, riferendosi al rumore dei piatti ed al tintinnio dei bicchieri che producevano note come se un compositore ne avesse concepito il suono. Per lui, Gioacchino Rossini era l’esempio lampante di un uomo “che avrebbe potuto diventare un buongustaio di fama se solo il suo genio musicale
non
avesse
eclissato
il
suo
talento
gastronomico.” Rossini era figlio di un suonatore di orchestra, audace ed irrequieto sostenitore della Rivoluzione Francese; i genitori decisero di lasciarlo alla cure della nonna materna, affinché gli potesse essere garantita la stabilità negli studi. Dalla nonna urbinate il giovane Gioachino imparò il piacere per le ricette della tradizione e imparò ad apprezzare i prodotti marchigiani, gusti e sapori che lo seguirono per tutta la vita, in particolare la passione per i tartufi. Rossini fu un gastronomo conoscitore di varie cucine. Oltre quella delle sue native Marche, egli apprezzava la cucina italiana, quella francese e quella internazionale. Da ciascuna, traeva ciò che conveniva al suo gusto cosmopolita: si faceva portare le olive da Ascoli, il panettone da Milano, vari tipi di stracchino dalla Lombardia, gli zamponi da Modena, la mortadella e i tortellini da Bologna, il prosciutto da Siviglia, i formaggi piccanti o fermentati dall’Inghilterra, la crema di nocciole da Marsiglia, ed infine le sardine royal, che gli amici facevano a gara per mandargli (e, se fossero stati coetanei, avrebbe richiesto il vino e i liquori della raffinatissima cantina del nostro Presidente Nicola…).
73
Scriveva al vecchio amico Marchese Antonio Busca: "I due stracchini ricevuti mi procurano la dolce reminiscenza della augusta madre sua che fu la prima a farmi gustare i nobili prodotti di Gorgonzola. Oh tempi felici! Oh gioventù!". Nel 1823 trasferitosi a Parigi, preceduto dalla fama musicale, incontrò i riformatori della cucina francese; strinse amicizia anche con il cuoco dei Rotschild, Marie-Antoine Carême, l’autore de L’art de la Cusine Francaise. Il connubio tra i due artisti arriva al parossismo: uno invia terrine e paté, l’altro fagiani e tacchini o composizioni a tema. Nella capitale francese Rossini smette di comporre musica e trascrive e modifica ricette. Una delle sue attività preferite era infatti quella di riuscire a trovare qualche nuovo elemento da aggiungere a piatti già noti, ricercando così nuovi aromi e sapori e riuscendo a dar vita a deliziose "variazioni sul tema". Ottenuto il risultato voluto, ne era orgoglioso tanto quanto lo era di una delle sue arie più amate. Pur apprezzando le finezze della cucina francese, non risparmiava comunque battute ironiche all'indirizzo dei gusti del paese che lo ospitava, come ben testimonia questa sua frase: "Gli amici gallici preferiscono la ricotta al formaggio, locché equivale al preferire la romanza al pezzo concertato. Ah tempi! Ah miserie!".
ROSSINI GOURMET Sono state scritte numerose biografie di Rossini, per metà con fatti reali e per metà leggenda, piene di aneddoti gastronomici. La sua filosofia di vita è condensata in queste brevi sue frasi: "Dopo il non far nulla io non conosco occupazione per me più deliziosa del mangiare, mangiare come si deve, intendiamoci. L'appetito è per lo stomaco ciò che l'amore è per il cuore. Lo stomaco è il maestro di cappella che governa ed aziona la grande orchestra delle passioni. Lo stomaco vuoto rappresenta il fagotto o il piccolo flauto in cui brontola il malcontento o guaisce l'invidia; al contrario lo stomaco pieno è il triangolo del piacere oppure i cembali della gioia. Quanto all'amore, lo considero la prima donna per eccellenza, la diva che canta nel cervello cavatine di cui l'orecchio s'inebria ed il cuore viene rapito. Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita e che svanisce come la schiuma d'una bottiglia di champagne. Chi la lascia fuggire senza averne goduto è un pazzo." Nella sua biografia rossiniana, Stendhal scrisse che l’aria di Tancredi, “Di tanti palpiti”, conosciuta in tutta Europa, non era soltanto l’aria più in voga a quel tempo, ma ci si riferiva ad essa confidenzialmente come “l’aria del riso” poiché Rossini la compose mentre, una volta a Venezia, aspettava che il suo risotto si cuocesse. In maniera similare, si suppone che Rossini abbia concepito l’aria “Nacqui all’affanno e al pianto”, in Cenerentola, seduto ad un tavolo di una taverna a Roma, circondato da amici che festeggiavano e bevevano. Ecco altri brevi aneddoti.
74
Si racconta che il Maestro non riuscisse più a portare a termine le sue opere, perché l’ispirazione era annebbiata da ossessioni culinarie: mentre stava scrivendo a Bologna l’ultima parte dello Stabat Mater ricevette la visita di alcuni amici. «Che fai?» E lui, fregandosi la fronte: «Sto cercando motivi, ma non mi vengono in mente che pasticci, tartufi e cose simili!» Un’altra sua frase emblematica: "Ho pianto tre volte nella mia vita: quando mi fischiarono la prima opera, quando sentii suonare Paganini e quando mi cadde in acqua, durante una gita in barca, un tacchino farcito ai tartufi". Il tacchino farcito doveva essere uno dei suoi piatti preferiti, almeno a leggere un’altra sua frase famosa: "Per mangiare il tacchino bisogna assolutamente essere in due: io ed il tacchino". Mi piace sottolineare certe affinità tra noi Amici del Vinile/Loggione e Rossini: da un lato abbiamo questi nostri incontri gastronomo-musicali, in cui cibo e musica vivono in perfetta simbiosi, dall’altro Rossini grande musicista con l’amore per la buona tavola.
RICETTE ROSSINIANE Rossini creò alcune arie ad argomento culinario: erano delle cantate e dei piccoli pezzi per piano scritti per puro divertimento, raccolti sotto il titolo di Peccati di vecchiaia, con intestazioni surreali, come «Gli antipasti», in cui i singoli brani si chiamano «Ravanelli», «Acciughe», «Burro», e quattro arie intitolate a dessert di frutta secca (fichi, uva, mandorle, noci). Grandi chef hanno dedicato molti piatti a Rossini, come il “Tacchino ripieno alla Rossini” o il “Filetto di sogliola alla Rossini”. Dedicati a Figaro, il suo immortale personaggio, furono dei pasticcini extra-fini; dedicata alla sua opera “Guglielmo Tell” fu una torta servita in occasione della “prima” a Parigi nel 1829: naturalmente, era una torta di mele decorata con una mela trafitta da una freccia di zucchero. Il famoso libro di ricette scritto da Escoffier, che è divenuto una bibbia culinaria della cucina moderna, contiene talmente tante ricette dedicate al Maestro che si potrebbero completare interi menu. Molte ricette hanno risalito i gradi dell’alta cucina francese, e da lì sono entrate a far parte della cucina internazionale conosciuta in tutto il mondo. La tradizione dice che il Maestro creò svariate ricette lui stesso, fra cui il Risotto al Midollo di Bue, che viene tutt’ora preparato nelle sue native Marche, ed i famosi Cannelloni (o Maccheroni) alla Rossini. Le caricature parigine del XIX secolo spesso ritraevano Rossini con la siringa da pasticcere, che utilizzava per preparare deliziosi piatti agli ospiti durante le sue serate musical-gastronomiche nella sua casa sulla Chaussée d’Antin o nella sua villa a Passy.
Filetto alla Rossini
Il piatto forse più famoso sono i Tournedos alla Rossini. Vi racconto la storia/leggenda sul nome di questo piatto ideato dal celebre cuoco Marie-Antoine Carême con la complicità e supervisione di Rossini.
75
Sembra sia accaduto nel Café Anglais di Parigi. Rossini aveva insistito con lo chef per assistere alla preparazione del suo pasto, obbligandolo a prepararlo nella sala da pranzo vicino al suo tavolo. Alle obiezioni dello chef sulle continue interferenze di Rossini, il Maestro replicò: “Et alors, tournez le dos” (“E allora, giri la schiena!”). Il piatto consta di un filetto di manzo rosolato al burro, adagiato su una fetta di pancarrè senza crosta, dorato anch’esso nel burro, sovrastato da una scaloppa di foie gras e generose fette di tartufo, il tutto accompagnato dalla salsa ottenuta deglassando il Madeira.
Insalata alla Rossini
Rossini suggerì una vinaigrette per condire l’insalata con un tocco di opulenza gustosa. Così egli scriveva la preparazione: “Quel che vi interesserà assai più della mia opera, è la scoperta che ho testé fatta di una nuova insalata, della quale mi affretto a mandarvi la ricetta: prendete dell'olio di Provenza, mostarda inglese, aceto di Francia, un po' di limone, pepe, sale, battete e mescolate il tutto; poi aggiungete qualche tartufo tagliato a fette sottili. I tartufi danno a questo condimento una sorta di aureola, fatta apposta per mandare in estasi un ghiottone. Il cardinale segretario di Stato, che ho conosciuto in questi ultimi giorni, mi ha impartito, per questa scoperta, la sua apostolica benedizione".
Maccheroni alla Rossini Ai soggiorni napoletani si deve la ricetta trascritta dallo stesso compositore nel 1866 dei “Maccheroni alla Rossini”, nella quale si evince la passione maturata ai piedi del Vesuvio per la pasta, le influenze francesi nell’uso delle spezie e il tempo ottocentesco in cui il pomodoro si affacciava nelle cucine con parsimonia. Sono maccheroni gratinati in una ricca salsa al formaggio di cui il musicista riporta in ricette tutte le fasi di lavorazione,
comprese
indicazioni
sui
tegami
più
opportuni da utilizzare ("Per essere sicuri di poter fare dei buoni maccheroni, occorre innanzi tutto avere dei tegami adeguati. I piatti di cui io mi servo vengono da Napoli e si vendono sotto il nome di terre del Vesuvio”), e mettendo infine in guardia il cuoco perché “il difficile è far dorare il piatto per il momento in cui dovrà essere mangiato.” Il famoso gastronomo Fulbert Dumonteuil ci racconta come la preparazione dei maccheroni assumesse l'aspetto di un'autentica cerimonia: “Fu allora che comparve Rossini, che con la sua delicata mano grassottella, scelse una siringa d'argento. La riempì di purèe di tartufi e, con pazienza, iniettò in ciascun rotolo di pasta questa salsa incomparabile. Poi sistemata la pasta in una casseruola come un bambino nella culla, i maccheroni finirono la cottura tra vapori che stordivano. Rossini restò là, immobile, affascinato, sorvegliando il suo piatto favorito e ascoltando il mormorio dei cari maccheroni come se prestasse orecchio alle note armoniose della Divina Commedia."
76
Altre specialità Altre specialità di Rossini furono la crema di beccacce, la crema di castagne, le noccioline di semolino, la spuma di prosciutto e pollo, e i rognoni al tartufo.
L’AMORE PER IL VINO Anche per il vino Rossini era estremamente competente. La sua cantina conteneva di tutto, dal suo vino personale imbottigliato dalle Isole Canarie alle bottiglie di Bordeaux, dal vino bianco di Johannesburg che Metternich gli inviò a Malaga, a bottiglie di raro Madeira, da bottiglie di Marsala al Porto della Riserva Reale che il Re del Portogallo, suo fanatico ammiratore, gli inviò. Si narra che il bambino Gioachino servisse da chierichetto durante la messa per avere poi la scusa di gustare gli avanzi di vino che rimanevano nelle ampolline; non è dato sapere se sia vero o meno, certamente il trasporto che Rossini dimostrava per il vino e gli abbinamenti erano al pari della sua passione per il cibo. Nel 1864 il barone Rotschild mandò in dono al musicista alcuni grappoli provenienti dai suoi vigneti. “La vostra uva è eccellente, ve ne ringrazio, ma il vino in pillole non mi piace affatto!” rispose il musicista come ringraziamento; il barone si affrettò a fargli recapitare alcune bottiglie del suo vino, il ChateauLafite. Del vino Rossini era un esperto conoscitore e bevitore, tanto che discettava con produttori e cantinieri sui metodi di imbottigliamento e produzione, accrescendo così le sue conoscenze in campo enologico.
Per concludere, un ultimo aneddoto. Narra il suo biografo Giuseppe Radiciotti che una sera, al termine di un concerto a cui il compositore aveva assistito, gli si avvicinò una signora: «Oh, Maestro! Posso finalmente contemplare quel volto geniale, che non conoscevo se non nei ritratti! Non si può sbagliare: avete nel cranio il bernoccolo della musica; eccolo là». «E che ve ne pare di quest' altro, signora? - rispose Rossini battendosi il ventre - Non potete negare che sia ancor più visibile e sviluppato. E infatti il mio vero bernoccolo è quello della gola».
77
Melomania: La pagina della Musica Lirica
Gioachino Rossini Il barbiere di Siviglia 78
GENESI DELL’OPERA Il barbiere di Siviglia è un'opera buffa di Gioachino Rossini, in due atti, su libretto di Cesare Sterbini, tratto dalla celebre e rivoluzionaria pièce teatrale di Pierre Beaumarchais [nel riquadro] del 1775, dal titolo “La Précaution Inutile ou Le Barbier de Séville” (antecedente dal punto di vista narrativo rispetto a “Le mariage de Figaro” da cui Mozart aveva tratto l’omonimo melodramma). Le Barbier de Seville di Beaumarchais era stata ideato dapprima come opéracomique; successivamente venne ridotto a commedia con musiche di scena. La commedia venne messa in musica almeno tre volte nella seconda metà del ‘700, periodo di massimo splendore dell’Opera Buffa di scuola napoletana: spiccava tra tutte l’opera scritta da Paisiello (1740-1816), amatissima dal pubblico. Il suo Barbiere di Siviglia, composto nel 1782, fu a quei tempi uno dei maggiori successi operistici, e rappresentava un punto di assoluto riferimento.
[Elisabeth Vigée-Lebrun: Ritratto di Giovanni Paisiello]
Nel 1816 Rossini ricevette l’incarico di scrivere un’opera per l'imminente carnevale da parte dall'impresario del teatro Argentina di Roma, il duca Francesco Sforza Cesarini. Occorreva ovviamente fornirgli un soggetto e farlo approvare dalla censura: Sforza propose l’idea del Barbiere di Siviglia, che la censura pontificia (a sorpresa) accettò subito. Questa approvazione mise Rossini in grande imbarazzo; si affrettò a scrivere a Paisiello a Napoli, che comunque - confidando in un fiasco clamoroso della nuova opera - incoraggiò il giovane compositore (appena ventiquattrenne). Per prudenza si decise comunque il cambio in Almaviva o sia L’inutile precauzione, e si commissionò un nuovo libretto anziché impiegare quello scritto da Giuseppe Petrosellini per Paisiello (come all’epoca si faceva normalmente). Nonostante mancassero solo due mesi al debutto, Rossini l’incarico. L’incarico del libretto venne affidato a Cesare Sterbini, funzionario pontificio, uomo di vasta cultura e con la passione del teatro. Le seicento pagine di musica che formano l’opera furono composte nel tempo record di 20 giorni. La compagnia venne formata in tempi altrettanto brevi, ma alla fine annoverò alcuni solisti di valore, come il celebre tenore spagnolo Manuel Garcia nel ruolo del Conte ed il contralto Geltrude Righetti Giorgi in quello di Rosina. Che il compositore ed il suo librettista fossero ben consci della spada di Damocle rappresentata dall’opera di Paisiello, è evidente dalle dichiarazioni premesse proprio da Sterbini ad apertura del suo testo come “Avvertimento al pubblico”: “La commedia del signor Beaumarchais intitolata Il Barbiere di Siviglia o sia L’inutile preoccupazione all’oggetto di pienamente convincere il pubblico de’ sentimenti di rispetto e venerazione che animano l’autore della musica del presente dramma verso il tanto celebre
79
Paisiello, che ha già trattato questo soggetto sotto il primitivo suo titolo. Chiamato ad assumere il medesimo difficile incarico, il signor Maestro Gioachino Rossini, onde non incorrere nella taccia d’una temeraria rivalità coll’immortale autore che lo ha preceduto, ha espressamente richiesto che Il Barbiere di Siviglia fosse di nuovo interamente versificato, e chi vi fossero aggiunte parecchie nuove situazioni di pezzi musicali, che erano d’altronde reclamate dal moderno gusto teatrale cotanto cangiato dall’epoca in cui scrisse la sua musica il rinomato Paisiello”. Altri motivi rappresentavano la necessità di una ritrascrizione: vi era la necessità di avvalersi di cori “indispensabili all’effetto musicale in un teatro di una ragguardevole ampiezza”.
[Ritratto di Rossini ai tempi del Barbiere]
L’Avvertimento così concludeva: “Di ciò si fa inteso il cortese pubblico anche a discarico dell’autore del nuovo dramma, il quale senza il concorso di sì imponenti circostanze non avrebbe osato introdurre il più piccolo cangiamento nella produzione francese già consacrata dagli applausi teatrali di tutta l’Europa”. IL FIASCO CLAMOROSO. “Il Barbiere di Siviglia” di Paisiello continuava a mietere entusiasti consensi in tutta Europa, allorché Il Barbiere rossiniano debuttò a Roma, al Teatro Argentina, il 20 febbraio 1816. Né la partecipazione del più famoso basso buffo in circolazione, ovvero Luigi Zamboni nel ruolo di Figaro, né quella del tenore Manuel Garcia (padre del mitico soprano Maria Malibran), sivigliano doc, nel ruolo di Almaviva, furono sufficienti a evitare un clamoroso fiasco, innescato e rinfocolato durante lo svolgimento dell’opera, dall’ostilità dei numerosi sostenitori di Paisiello offesi dal fatto che un giovane come Rossini osasse confrontarsi con un mostro sacro di tale portata. A peggiorare la situazione fu anche la morte improvvisa di Sforza a soli 44 anni, due settimane prima del debutto dell’opera, evento che lasciò il Teatro Argentina in uno stato di momentaneo abbandono. Numerosi furono gli accadimenti negativi. A dare inizio alla catena di imprevisti pare sia stato proprio l’acclamato tenore Garcia, il quale ruppe una corda della chitarra mentre cantava la serenata sotto la finestra di Rosina. Poco dopo l’interprete di Basilio scivolò sul palcoscenico, si rialzò con il naso che sanguinava copiosamente e tuttavia continuò a cantare. Il colmo fu raggiunto quando un gatto nero attraversò la scena e saltò tra le braccia dei protagonisti: scacciato finalmente da un ufficiale delle forze dell’odine, la sua uscita fu salutata dai miagolii del pubblico, che aveva ormai screditato l’opera, caduta nel ridicolo. Rossini raccontò così in una lettera alla madre: “Ieri sera andò in scena la mia Opera e fu sollennemente fischiata, o che pazzie che cose straordinarie si vedono in questo paese sciocco!” Rossini non si presentò alla prima replica dell’opera del giorno successivo, si diede malato, e si coricò in attesa dell’esito della nuova recita. In quella seconda rappresentazione, l’opera conobbe invece un
80
altrettanto clamoroso trionfo. Verso mezzanotte, Rossini avvertì un gran rumore, si rannicchiò tremante sotto le coperte, credendo che vi fossero persone con cattive intenzioni nei suoi confronti. Invece era un’ovazione che il pubblico voleva tributargli, salutandolo da allora come “il più grande maestro d’Italia e del mondo!”. Dopo alcune recite egli mandò alla madre una seconda lettera, di ben altro tenore: «Carissima Madre, io vi scrissi che la mia Opera fu fischiata, ora vi scrivo che la suddetta ha avuto un esito il più fortunato mentre la seconda sera e tutte le altre reccite date non hanno che aplaudita questa mia produzione con un fanatismo indicibile faccendomi sortire cinque e sei volte a ricevere aplausi di un genere tutto novo e che mi fece piangere di sodisfazione». Il Barbiere di Rossini oscurò ben presto quello di Paisiello, divenendo una delle più rappresentate e probabilmente la più famosa opera del compositore pesarese, ed è ancor oggi tra quelle maggiormente eseguite nei teatri di tutto il mondo.
I CONTENUTI RIVOLUZIONARI DEL BARBIERE ROSSINIANO Ciò che veramente lasciò perplessi gli ascoltatori del tempo, al di là delle polemiche degli estimatori di Paisiello, fu soprattutto la modernità spiazzante dell’opera dal punto di vista formale e dei contenuti. Innanzitutto appare netta la differente interpretazione dell’opera rossiniana rispetto a quella di Paisiello: il compositore napoletano fa dei personaggi della pièce di Beaumarchais delle maschere buffe, mentre la coppia Sterbini e Rossini disegnano i loro personaggi come intraprendenti e opportunisti, non più disposti a piegarsi al destino e alle regole codificate. Il Figaro rossiniano è una persona capace di riscattare le proprie umili origini con la forza del proprio ingegno e della propria cultura (è lui a leggere la lettera di Rosina al Conte). Le trame di Figaro non sono dettate dal sentimentalismo ma da un implacabile interesse e materialismo, simbolo del nuovo aspetto borghese della società che stava emergendo. Rosina dimostra carattere da vendere ed una strenua determinazione a scegliersi da sé il proprio futuro (non a caso, ad interpretarla è stato assegnato il più vigoroso timbro di mezzosoprano, a dispetto della prassi di affidarlo ad un soprano). Il Conte d’Almaviva è un nobile dai modi antiquati e che sa far valere il peso dei propri privilegi, tuttavia presenta alcuni aspetti di modernità, non solo in quanto giovane, ma anche per una certa intraprendenza dimostrata dal collaborare con un borghese e dallo sposarne un’altra, non nobile, al passo con il cambiamento dei tempi. Bartolo e Don Basilio rappresentano il mondo “vecchio”, pieno di anziani profittatori, che vengono simbolicamente sconfitti dal mondo nuovo, reale, che non ha bisogno di mostrare blasoni ma è in grado comunque di emergere. Alla luce di queste considerazioni, risulta chiaro che Il Barbiere di Siviglia rossiniano non va considerata una semplice favoletta in cui trionfa l’amore!
81
GUIDA ALL’ASCOLTO Antefatto. La bella e ricca Rosina abita nella casa di don Bartolo, il suo anziano tutore. Don Bartolo vuole tenere Rosina con sè, per amministrarne il patrimonio. Il Conte di Almaviva, Grande di Spagna, ha conosciuto Rosina a Madrid, se ne è innamorato e l’ha seguita fino a Siviglia.
SINFONIA L’Ouverture del Barbiere è considerata la Sinfonia rossiniana per eccellenza. La Sinfonia originale è andata perduta, si sa soltanto che era stata composta inglobando temi popolari spagnoli, più che altro per giustificare l’impiego di certe melodie che Garcia avrebbe inserito nel primo atto dell’opera al posto della celebre Canzone Se il mio nome saper voi bramate. Fin dalle prime repliche Rossini la sostituì (come era quasi prassi a quei tempi) con quella scritta nel 1813 per l’Aureliano in Palmira (che fra l’altro era già stata riutilizzata, sebbene con modifiche strumentali, anche nell’Elisabetta Regina d’Inghilterra del 1815), e che è quella che conosciamo. La sinfonia attuale venne eseguita per la prima volta in occasione di una replica dell’opera a Bologna nell’estate del 1816: è un brano che dà prova di un’inesauribile vitalità, con una successione di più temi e con la musica che si sviluppa nei caratteristici crescendo, così chiamati per la forza trascinante che sprigionano. Inizia con un Andante maestoso, l’introduzione è lenta, ritmica, solenne, caratterizzata dall’alternanza fra gruppi di quattro note uguali staccate, fraseggiate dagli archi e dal fagotto, in pianissimo, ed un inciso più dolce ai legni accompagnati dagli archi. Subito dopo si fa strada un tenero tema, con una linea melodica molto semplice, a note lunghe dell’oboe, accompagnato da leggeri pizzicati degli archi e da un fraseggio di fagotto e corno, che conduce all’entrata del tema dei violini. Introdotta da un ritmo marziale in fortissimo, appare un nuovo tema dei violini, poi raddoppiato dal flauto e sostenuto da leggeri pizzicati. Ritornano quindi gli accordi in fortissimo (sentiti all’inizio) che introducono il movimento successivo, il celeberrimo Allegro vivo, in cui, su un ostinato di archi, violini ed ottavino inizia un tema caratterizzato dall’alternanza di accenti tra piano e forte. Gradatamente si aggiunge tutta l’orchestra, con un tema ricco di scale ed arpeggi discendenti ed ascendenti, e ritmato da colpi di timpano e grancassa (quasi un tempo tempestoso e temporalesco, tipico della musica rossiniana). Il tutto si placa con l’entrata di un nuovo tema melodico affidato all’oboe con il controcanto del clarinetto. Dopo che questo tema viene proposto due volte, un arpeggio di flauto e violini porta alla ripresa del tema stesso, che sfocia in un grande ed inarrestabile crescendo, ottenuto nella ripetizione parossistica della stessa frase, sempre più in forte, e con un numero crescente di strumenti.
82
I temi dell’Allegro vivo vengono esposti nuovamente con leggere variazioni, fino a condurre al Più mosso conclusivo, sottolineato dall’impiego di percussioni (è qui che molti direttori inseriscono i piatti, insieme alla grancassa prescritta da Rossini).
ATTO I Scena I. La casa di Bartolo, anziano medico nonché tutore della giovane e ricca Rosina, si affaccia su una piazza della città di Siviglia. E’ l’alba. Un tempo moderato condotto dai violini, violoncelli e fagotti, introduce un clima misterioso che si confà alla scena notturna e al gruppetto di persone che avanzano piano pianissimo. Fiorello, d’Almaviva,
servitore su
del
ordine
Conte del
suo
padrone, ha radunato alcuni suonatori per intonare una serenata.
[Edgardo Rocha (Conte di Almaviva). Roma, 2016]
Il Conte di Almaviva intona un suo amoroso canto verso la sua amata sotto le finestre della fanciulla. Una chitarra lo accompagna arpeggiando (concedendo uno dei pochissimi riferimenti in tutta l’opera all’ambientazione spagnola della vicenda), mentre il suono fiabesco del sistro dà un tono magico ed incantatore. La cavatina di presentazione del Conte denuncia subito la caratteristica del personaggio, un corteggiatore abile che sa toccare i toni giusti per raggiungere il suo obiettivo.
♫♫ Ecco, ridente in cielo
CONTE. Ecco, ridente in cielo / spunta la bella aurora, e tu non sorgi ancora / e puoi dormir così? Sorgi, mia dolce speme, / vieni, bell'idol mio; rendi men crudo, oh Dio, / lo stral che mi ferì. Tacete! già veggo / quel caro sembiante; quest'anima amante / ottenne pietà. Oh istante d'amore! Oh dolce contento! / Soave momento che eguale non ha! Conclusa la serenata, il Conte è deluso ed avvilito: l’amata non è apparsa alla finestra. Intanto si è fatta l’alba, e il Conte licenzia i suonatori, dopo averli pagati: costoro circondano l’uomo ringraziandolo e baciandogli la mano, ma fanno strepito ed il Conte li caccia indispettito. Il Conte, giocata la carta della serenata, non sa escogitare null’altro per raggiungere il suo scopo. Sente una voce avvicinarsi, manda via Fiorello e si nasconde sotto un portico, in attesa che l’amata si decida ad affacciarsi al balcone.
83
Scena II. Entra in scena Figaro [ el i uad o, u
ozzetto d’epo a], il barbiere
della città, faccendiere, factotum generale, nonché vecchio servitore del Conte, con la chitarra al collo, che canta allegramente. La sua celeberrima cavatina [Largo al factotum], indispensabile repertorio per ogni baritono, assomma in sé una potenza ritmica ed una complessità di espressione ineguagliabili. Dipinge un personaggio non incatenato a uno stereotipo, ma libero, sfaccettato, imprevedibile. La cavatina inizia con una rapida scala ascendente intonata da flauto, ottavini e violini, che sfocia in una frase con un ritmo ternario da tarantella (La ran la lera); la voce quindi riprende il tema.
♫♫ Largo al factotum FIGARO. La ran la lera la ran la là. Largo al factotum della città! Presto a bottega che l'alba è già. La ran la lera / la ran la là. Ah, che bel vivere, che bel piacere per un barbiere di qualità! Ah, bravo Figaro! Bravo, bravissimo! Fortunatissimo per verita! La ran la lera /la ran la là. Pronto a far tutto, la notte e il giorno sempre d'intorno in giro sta. Miglior cuccagna per un barbiere, vita più nobile, no, non si dà. La ran la lera la ran la là. Rasori e pettini, lancette e forbici, al mio comando tutto qui sta. V'e la risorsa, poi, del mestiere, colla donnetta... col cavaliere... La ran la lera la ran la là. Tutti mi chiedono, tutti mi vogliono, donne, ragazzi, vecchi, fanciulle. Qua la parrucca... presto la barba... qua la sanguigna... presto il biglietto... Figaro... Figaro!!! Son qua, son qua. Ohimè, che furia! Ohimè, che folla! Uno alla volta, per carità! Figaro! Son qua. Ehi, Figaro! Son qua. Figaro qua, Figaro là, Figaro su, Figaro giù. Pronto prontissimo , son come il fumine: sono il factotum della città. Ah, bravo Figaro! Bravo, bravissimo, fortunatissimo per verità! La ran la lera / la ran la là. Il Conte riconosce in Figaro il suo vecchio servitore, e gli rivela di essere a Siviglia per raggiungere Rosina, la donna di cui si è innamorato. Figaro rivela al Conte che Rosina non è la figlia di Don Bartolo ma la sua pupilla, e che egli può aiutare il Conte nel suo obiettivo: è infatti barbiere e factotum in casa di Bartolo, e per questo ha libero accesso alla casa. Scena III. In quel momento il balcone si apre ed escono Don Basilio e Rosina la quale lascia cadere una lettera: ella mente al tutore dicendo trattarsi di uno spartito. Il Conte la raccoglie prontamente; don Bartolo, sceso in strada, non trova il foglio e, subodorando il raggiro subìto, torna a casa con l’idea di murare il balcone. Scena IV. Nella lettera, Rosina esprime il desiderio di conoscere il suo misterioso corteggiatore e lo incoraggia a perseguire il suo intento. Vuole infatti liberarsi dalla sorveglianza assidua del suo tutore.
84
Figaro, letta al Conte la lettera, aggiunge che l’avido e vecchio medico, attratto dalle ricchezze della ragazza, ha in mente di sposarla. Tant’è che Bartolo sta uscendo di casa col proposito di fissare le nozze per il giorno stesso; lo aiuterà don Basilio, suo amico nonché maestro di musica della ragazza. [Bozzetto otto e tes o del Co te d’Al aviva] Rosina è rimasta sola in casa e Figaro sollecita il Conte ad un’ennesima serenata (Se il mio nome saper voi bramate). Il Conte, per mettere alla prova la ragazza, decide di non svelare la sua vera identità fingendosi un povero ragazzo di nome Lindoro: egli così vuole essere certo che Rosina si innamori della sua persona e non del suo rango e dei suoi beni. Questa canzone è un vero gioiello: accompagnata soltanto da una chitarra, ha un sapore senza tempo e una semplicità luminosa. Il brano corrispondente nel Barbiere di Paisiello, è una serenata accompagnata da un napoletanissimo mandolino, ed era uno dei brani più celebri e apprezzati dell’intera opera, e dunque uno degli ostacoli più difficili con cui Sterbini e Rossini si dovettero confrontare.
♫♫ Se il mio nome saper voi bramate
CONTE. Se il mio nome saper voi bramate, dal mio labbro il nome ascoltate. Io son Lindoro che fido v'adoro, che sposa vi bramo, che a nome vi chiamo, di voi sempre parlando così dall'aurora al tramonto del dì.
Proprio mentre Rosina, da dentro la casa, inizia a rispondere al suo innamorato, intonando la sua stessa melodia (segno di sintonia sentimentale tra i due personaggi), qualcosa la interrompe bruscamente. A questo punto il Conte esige di incontrarla e con aristocratica autorità incarica Figaro di trovare il modo, promettendogli di ricompensarlo magnificamente (Oro a bizzeffe). La voce di Figaro si scurisce per la brama di denaro (All’idea di quel metallo portentoso onnipossente…), ma subito dopo diventa vivace perché arrivano le idee (Un vulcano la mia mente): si apre una melodia fiorita, tipicamente rossiniana, in cui i due personaggi concordano un piano d’azione. Il Conte, travestito da soldato e in stato di apparente ubriachezza, dovrà presentarsi alla casa di Don Bartolo con un foglio che ne attesta il temporaneo diritto di residenza nella dimora, così da poter parlare con Rosina. Prima di andare a travestirsi, il Conte chiede a Figaro dove può rintracciarlo in caso di necessità. Il Barbiere gli dà le informazioni (Numero quindici) sviluppando una cabaletta vorticosa in un tipico crescendo rossiniano (introdotta da clarinetto e fagotto), cadenzata su un ritmo ossessivo, nella quale si aggiungono gradualmente le varie famiglie strumentali.
85
La scena termina con un duetto tra i due, in cui si intrecciano i diversi pensieri tra i due personaggi: il Conte, colto da estasi d’amore, si abbandona a voluttuosi vocalizzi; Figaro, assaporando con entusiasmo l’imminente guadagno, si abbandona a un virtuosistico sillabato. Ultimo a lasciare la scena è il servo Fiorello, che si congeda formalmente dal pubblico. Scena V. Cambia l’ambientazione, la scena si apre in una camera nella casa di Don Bartolo, Rosina ha in mano una lettera, che vuol far giungere a Lindoro. Finalmente Rossini fa cantare Rosina che esordisce dopo un’attesa insolitamente lunga, con un’aria concepita per mettere in luce la sfaccettata psicologia del personaggio. La prima parte dell’aria (Una voce poco fa) è un Andante dall’andamento regale, settecentesco, che prende avvio da un inciso molto ritmato ed è eseguito da tutti gli strumenti dolci dell’orchestra che suggeriscono la presenza di un carattere gentile ma forte nello stesso tempo.
[Nel riquadro, Henriette Sontag in costume da Rosina, 1826]
Rosina si abbandona all’emozione amorosa che l’ha colpita, ed è determinata a conquistare il giovane che la corteggia. La seconda parte (Io son docile) è un Moderato, che inizia con flauto e clarinetto, in cui Rosina elenca le sue virtù muliebri, pronte però a svanire se le toccano il punto debole.
♫♫ Una voce poco fa
ROSINA. Una voce poco fa qui nel cor mi risuonò; il mio cor ferito è già, e Lindor fu che il piagò. Sì, Lindoro mio sarà; lo giurai, la vincerò. Il tutor ricuserà, io l'ingegno aguzzerò. Alla fin s'accheterà. e contenta io resterò Sì, Lindoro mio sarà; lo giurai, la vincerò. Io sono docile, son rispettosa, sono ubbediente, dolce, amorosa; mi lascio reggere, mi fo guidar. Ma se mi toccano dov'è il mio debole, sarò una vipera, e cento trappole prima di cedere farò giocar. Questa sezione è una delle arie più celebri e irresistibili di tutta l’opera ed è presa in “autoimprestito” dall’Aureliano in Palmira dello stesso Rossini (1813).
86
Scena VI. Rosina, decisa ad avere Lindoro a qualunque costo, medita di fargli ricevere una seconda lettera tramite Figaro che è venuto a salutarla. Il loro dialogo è presto interrotto dall’arrivo di Bartolo e Basilio, maestro di musica di Rosina.
[Maria Callas e Tito Gobbi. Teatro alla Scala di Milano, 1956]
Scena VII. Bartolo comunica a Basilio l’intenzione di sposare Rosina entro l’indomani. Basilio però avverte che è giunto in città il suo pericoloso rivale, quel conte d’Almaviva che essi sanno che aspira alla mano di Rosina. Ma anziché affrettare al massimo le nozze della giovane con Don Bartolo, Basilio propone di liberarsi del nuovo venuto screditandolo attraverso l’arma della calunnia e così farlo cacciare dalla città. Scena VIII. Basilio impartisce a Bartolo una lezione su cosa sia la calunnia in un’aria che rappresenta un must del repertorio per voce di basso. Con un tema annunciato dai violini e poi ripreso dalla voce, sottolineato dai fagotti, che accompagnano il timbro vocale scuro, Basilio racconta come si sviluppa una calunnia, attraverso le metafore del venticello che cresce fino a diventare tempesta e del mormorio che diventa quasi un colpo di cannone. La musica segue passo passo la descrizione, partendo da una semplice figurazione a quattro note ripetute, quindi un arpeggio degli archi, ed infine arriva all’acme (Come un colpo di cannone) sottolineato dalla grancassa e dagli accordi in fortissimo di tutta l’orchestra; infine segue l’inevitabile quiete dopo la tempesta, che serve a ricordare gli effetti nefasti del meschino calunniato. Anche quest’aria è un autoimprestito dal Sigismondo.
♫♫ La calunnia è un venticello
BASILIO. La calunnia è un venticello, / un'auretta assai gentile che insensibile, sottile, / leggermente, dolcemente incomincia a sussurrar. Piano piano, terra terra, / sottovoce, sibilando, va scorrendo, va ronzando; nelle orecchie della gente / s'introduce destramente e le teste ed i cervelli / fa stordire e fa gonfiar. Dalla bocca fuori uscendo / lo schiamazzo va crescendo prende forza a poco a poco, / vola già di loco in loco; sembra il tuono, la tempesta / che nel sen della foresta va fischiando, brontolando / e ti fa d'orror gelar. Alla fin trabocca e scoppia, / si propaga, si raddoppia e produce un'esplosione / come un colpo di cannone, un tremuoto, un temporale, / un tumulto generale, che fa l'aria rimbombar. E il meschino calunniato, / avvilito, calpestato, sotto il pubblico flagello / per gran sorte ha crepar.
87
[Basilio
Lo e zo Regazzo
a ta l’a ia della alu
ia.
Teatro la Fenice di Venezia, 2010]
Malgrado l’impegno profuso, Basilio non è riuscito a convincere Bartolo: non c’è tempo per attendere che una calunnia produca i suoi effetti, meglio impegnare Rosina mettendo nero su bianco un regolare contratto di matrimonio, soluzione che comunque piace a Basilio perché sa che Bartolo lo ricompenserà con del denaro. Scena IX. Usciti i due, ricompaiono Figaro e Rosina. Figaro ha ascoltato tutto ed è più che mai deciso a sabotare il progetto. Il barbiere rassicura la ragazza che Lindoro l’ama e la esorta a scrivere un biglietto a Lindoro; ma Rosina lo ha già scritto (Un biglietto?....eccolo qua) e lo consegna al barbiere, affinché questi lo consegni a Lindoro. Il duetto fra i due è molto ben articolato, con il soprano che sfoggia una vocalità ardita, a sottolineare la felicità della donna, mentre Figaro canta note brevi e saltellanti a dimostrazione del suo ingegno e della complicità che sta offrendo ai due innamorati, ma anche perché colpito dalla imperscrutabile complessità del carattere della donna. Scena X. Riappare Don Bartolo che si è accorto della mancanza di un foglio dallo scrittoio e che un dito della sua pupilla è sporco d’inchiostro. Vi è un alterco molto vivace tra Rosina e Bortolo, spazientito ed irritato dalle resistenze e dalle sfacciate bugie inanellate da Rosina. Le dice che è impossibile che lei possa ingannarlo, le ribadisce la sua autorità, e decide che per punizione Rosina rimarrà reclusa nella sua stanza.
♫♫ A un dottor della mia sorte
A un dottor della mia sorte / queste scuse, signorina! Vi consiglio, mia carina, / un po' meglio a imposturar. I confetti alla ragazza! / Il ricamo sul tamburo! Vi scottaste: eh via! eh via!/ Ci vuol altro, figlia mia, per potermi corbellar. Perchè manca là quel foglio? / Vo' saper cotesto imbroglio. Sono inutili le smorfie; / ferma là, non mi toccate! Figlia mia non lo sperate / ch'io mi iasci infinocchiar. Via, carina, confessate; / son disposto a perdonar. Non parlate? Vi ostinate? / So ben io quel che ho da far. Signorina, un'altra volta / quando Bartolo andrà fuori, la consegna ai servitori / a suo modo far saprà. Ah, non servono le smorfie, / faccia pur la gatta morta. Cospetton! per quella porta / nemmen l'aria entrar potrà. E Rosina innocentina, / sconsolata, disperata, in sua camera serrata / fin ch'io voglio star dovrà.
88
Scena XI. Bartolo è uscito, e Rosina irride alle minacce del tutore. Saprà bene come uscire da questa situazione. Scene XII-XIII. Annunciato da una marcetta in tempo marziale, con i violini raddoppiati dagli ottoni, secondo quanto pianificato con Figaro, il Conte di Almaviva fa irruzione nella casa di don Bartolo travestito da soldato di cavalleria e apparentemente ubriaco; Figaro gli ha procurato il falso permesso di soggiorno che fa vedere a Bartolo che non ha riconosciuto nel soldato il Conte di Almaviva. Scena XIV. Al biglietto d’alloggio esibito da Almaviva, Bartolo risponde con un biglietto di esenzione. Entra Rosina che riconosce nel soldato il suo Lindoro. Con la scusa dell’ubriachezza, il conte fa il galante con la ragazza mentre Bartolo, infuriato, lo invita ad allontanarsi. Il Conte rifiuta e, durante il parapiglia che ne consegue, riesce a consegnare a Rosina una lettera che la ragazza prontamente sostituisce con una lista del bucato. Ancora una volta Bartolo, che si è fatto consegnare il foglio, è gabbato: Rosina lamenta ad arte i maltrattamenti ingiustamente subìti e il Conte fa addirittura l’atto di sguainare la spada. Quando Berta chiama aiuto, entra Figaro, che prova a calmare il Conte troppo infervorato. Tutto inutile: un ufficiale di polizia con la sua pattuglia irrompe in casa attirato dal fracasso e, ascoltati i presenti, si accinge ad arrestare il soldato. Scena ultima. Per trarsi d'impaccio, il Conte si fa riconoscere di nascosto dall'ufficiale delle guardie che lo vuole arrestare: ufficiale e soldati indietreggiano, annullando l’arresto e lasciando Bartolo ed i presenti esterrefatti. Il litigio riprende più trascinante che mai (ottavino e clarinetto suonano vorticose scale discendenti) ma le guardie zittiscono qualsiasi replica o domanda: per Don Bartolo è la resa. Il concertato con cui si conclude l’atto ci porta ad una scena surreale e parossistica. Ricompare il tintinnante suono del sistro assieme al gioco musicale (sottovoce) di tromba, corno, clarinetto e ottavino. Segue un crescendo in cui entrano progressivamente le voci (Mi par d’essere con la testa) mentre l’orchestra si dispiega in una potente tarantella che coinvolge clarinetti, violini e ottavini, corni e grancassa.
[Barbiere di Siviglia, finale del I atto. Teatro Regio, Torino 2013]
89
ATTO II Scena I. Studio di Don Bartolo, in un ambiente insolitamente tranquillo. L’uomo rivela di aver compiuto indagini sull’identità del giovane soldato che tanti guai ha combinato: indagini inutili, ma che comunque non hanno dissolto la sua convinzione che si tratti di un emissario del suo rivale Conte di Almaviva. Scena II. Mentre sta meditando, accompagnato da violini e clarinetti arriva don Alonso, che si presenta quale insegnante di musica, allievo di don Basilio, caduto improvvisamente malato, che lo avrebbe mandato a dare lezioni a Rosina al posto suo; in realtà si tratta sempre del Conte di Almaviva con un nuovo travestimento. Bartolo però non lo riconosce. Per vincere le perplessità di Bartolo, Alonso/Almaviva mostra al tutore uno dei biglietti ricevuti da Rosina: con questo scritto vuole screditare il conte agli occhi della stessa Rosina, facendolo apparire come un libertino, che per burla avrebbe passato il foglio ad una delle sue amanti. Scena III. Entra Rosina che, riconoscendo in Alonso il suo Lindoro, sta subito al gioco. Il Conte siede al pianoforte, e la scena si fa essa stessa partitura. L’aria di Rosina (nella quale ricompare il titolo stesso dell’opera, L’inutil precauzione) è allo stesso tempo fioritissima ed intensa, a rispecchiare la duplice anima della giovane, graziosa ma determinata. Durante la lezione, Bartolo si addormenta e i due amanti ne approfittano per scambiarsi parole d’intesa (Contro un cor che accende amor).
♫♫ Contro un cor che accende amor ROSINA. Contro un cor che accende amore / di verace, invitto ardore, s'arma invan poter tiranno / di rigor, di crudeltà. D'ogni assalto vincitore / sempre amor trionferà. Ah Lindoro, mio tesoro, / se sapessi, se vedessi! Questo cane di tutore, / ah, che rabbia che mi fa! Caro, a te mi raccomando, / tu mi salva, per pietà. CONTE. Non temer, ti rassicura; /sorte amica a noi sarà. ROSINA. Dunque spero? CONTE. A me t'affida. ROSINA. E il mio cor? CONTE. Giubilerà. Svegliatosi, Bartolo, cui l’aria della lezione non piace, ne accenna una di suo gradimento 7. Intanto giunge Figaro, intenzionato a distrarre don Bartolo con la scusa della rasatura della barba.
7
Bartolo si riferisce alla canzone cantata da un castrato Gaetano Majorano, detto Caffariello per gratitudine nei confronti del suo maestro, il Caffaro. Definito il più grande cantante del mondo dal Maestro Niccolò Porpora, condusse una vita affascinante grazie alla sua avvenenza e alle doti musicali. Accumulò innumerevoli ricchezze e visse numerose avve tu e. L’a e o a Caffa iello as o de aliziosa e te u ife i e to al o do usi ale a ti uato di Paisiello, messo a confronto con la musica rossiniana, ben più moderna, ed in arrestabile ascesa.
90
Bartolo vorrebbe rimandare, ma Figaro alla fine gli strappa l’assenso e, ricevute le chiavi per andare a prendere la biancheria in camera, sottrae dal mazzo la chiave del balcone. Scena IV. La rasatura non ha ancora avuto inizio quand’ecco che si presenta in casa Basilio, sano come un pesce e ignaro di tutto. Vito Priante (Figaro) e José Fardilha (Bartolo). Covent Garden, Londra. 2005] Il Conte salva la situazione convincendo Basilio che ha una pessima cera e che farebbe meglio a tornare subito a casa sua. Una borsa del conte piena d’oro convince Basilio a ritirarsi con il pretesto di una febbre scarlattina, allontanando così i sospetti di Bartolo. Basilio viene mandato via sotto una serie di frasi incalzanti su un ritmo di danza veloce: il maestro di musicai se ne va, non senza aver capito “che in sacco va il tutore”. Uscito Basilio e mentre Figaro fa la barba a Bartolo, i due amanti si danno appuntamento a mezzanotte: Figaro ha la chiave del balcone, Rosina potrà scendere e fuggire. Bartolo, però, si è frattanto avvicinato di soppiatto ai due e ha colto la loro intesa; infuriato, dà in escandescenze e caccia via il Conte e Figaro. Un tempo Vivace sottolinea la furia del tutore tradito: si sviluppa una girandola di figure agli archi e ai legni, con un ossessivo rimbombo della grancassa, mentre si riaffaccia il suono magico del sistro, scosso vorticosamente. Scene V-VI. E’ il momento di un intervallo, che faccia riposare tutti, sul palco ed in sala. La vecchia Berta si lamenta della confusione che assilla la casa e delle persone che vi abitano, e ne trae pretesto per un’aria da zitella in cui dà la colpa di tutto all’amore, sentimento pericoloso che coinvolge tutti, perfino lei, e sembra procurare soltanto guai. L’aria è condotta in Allegretto e conserva uno spirito musicalmente vivace, malgrado l’amarezza di fondo che alla fine porta l’anziana serva ad imprecare contro la vecchiaia e addirittura a invocare la morte. Scena VII. Basilio spiega a Bartolo di non conoscere Alonso, il suo falso allievo, e sospetta che si tratti del Conte di Almaviva in persona. Bartolo prega il maestro di musica a correre dal notaio: vuole sposare la sera stessa Rosina ed impedire ogni ulteriore inganno. Scena VIII. Don Bartolo mette in pratica il consiglio di don Basilio (la calunnia) e fa credere a Rosina, lettera alla mano, che il suo amato Lindoro non l’ama affatto, anzi congiura assieme a Figaro per gettarla tra le braccia del Conte di Almaviva, i cui desideri Rosina dovrebbe soddisfare. Rosina è indignata, e accetta la proposta di matrimonio del suo tutore, al quale svela i piani di fuga che per quella notte stessa avevano organizzato. Bartolo si precipita a chiamare le guardie per proteggerla dal pericolo imminente, mentre Rosina, colta da rimorso, spera che Lindoro sia innocente. Scoppia un temporale: dalla finestra si vedono lampi e si ascoltano possenti tuoni. Nuvole minacciose appaiono nei tremolii gravi di viole e violoncelli, gli arpeggi brevi dei flauti simulano i fulmini, la pioggia cade a gocce nelle note staccate degli archi. Le gocce diventano più pesanti, contrassegnati dal flauto e
91
clarinetti, e l’aria di tempesta si fa più grave con i suoni dei contrabbassi. Il temporale infine esplode con fragore in tutta la sua potenza, con gli archi frenetici rincorsi dai legni, per poi ritornare alla quiete, con le gocce di pioggia che si esauriscono in rallentando. Scena IX. Mentre il temporale attenua la sua forza, dalla finestra, grazie ad una scala, entrano Figaro ed il Conte avvolti in un mantello e bagnati dalla pioggia. Rosina li respinge sdegnata, ma quando il Conte le rivela che Lindoro e il conte d’Almaviva sono la stessa persona, dopo un attimo di sorpresa, il cuore le si apre di gioia (Ah, qual colpo inaspettato!). Il Conte le annuncia di volerla sposare, e Rosina, felice, accetta. Proprio quando stanno per fuggire, i tre si accorgono che la scala fuori dalla finestra di Rosina è stata tolta; è stato don Bartolo, che, sospettando la presenza di un estraneo in casa, è andato a chiamare le autorità. Memore della strana scena cui ha assistito, con il soldato ubriaco lasciato andare, non si fida della polizia. E' corso dunque direttamente dal magistrato. Nel frattempo, il notaio fatto chiamare da don Bartolo arriva in casa. Figaro e il Conte, approfittando della prolungata assenza del padrone di casa, convincono il notaio che il matrimonio che è stato chiamato a redigere sia quello tra il Conte e Rosina. Basilio, grazie al dono di un anello e alla minaccia di una pistola, fa da testimone assieme a Figaro. Scena ultima. Quando don Bartolo ritorna a casa accompagnato dai soldati il contratto di matrimonio è già stato siglato. Prova a fare arrestare Figaro e il Conte ma quest’ultimo rivela ai soldati la propria identità e costoro arretrano. Almaviva prende con autorità il proscenio, e si rivolge con autorità ai presenti (Cessa di più resistere). (Questo brano presenta molte difficoltà tecniche, e per molto tempo venne tagliato a causa della tradizione del tenore rossiniano evanescente e adolescenziale: è necessaria una estrema sicurezza nella coloratura, un’alta eloquenza mista ad agilità di forza, un virtuosismo fuori dal comune8.)
♫♫ Cessa di più resistere CONTE. Cessa di più resistere, /non cimentar mio sdegno. Spezzato è il gioco indegno / di tanta crudeltà. Della beltà dolente, / d'un innocente amore l'avaro tuo furore / più non trionferà. (A Rosina) E tu, infelice vittima / d'un reo poter tiranno, sottratta al giogo barbaro, / cangia in piacer l'affanno e in sen d'un fido sposo / gioisci in libertà.
Questo brano fu musicato da Rossini su misura del p i o i te p ete dell’ope a, Ma uel Ga ia. I epo a Rockwell Blake (edizione con Abbado nel 1972) è un modello oggi ancora insuperato.
8
92
ode a,
Don Bartolo è affranto, ha perso la sua pupilla e conseguentemente qualsiasi speranza di accaparrarsi il suo patrimonio; è stato tradito anche dal fido don Basilio; ha preso l’”inutil precauzione” di levare la scala appoggiata alla finestra, non immaginando che in questo modo avrebbe accelerato la stipula del contratto di nozze. Solo quando il Conte decide di rinunciare alla dote portata da Rosina, il non troppo disinteressato don Bartolo tira un sospiro di sollievo e benedice gli sposi. Gli amanti coronano dunque il loro sogno. L’opera si conclude con Figaro che riconquista il proscenio e guida il commiato della compagnia dal pubblico. Si celebra il trionfo dell’amore, ma anche la soddisfazione (materiale) degli altri partecipanti. Il principale artefice di ciò, Figaro il barbiere, può finalmente spegnere la lanterna ed accomiatarsi.
93
DISCOGRAFIA La discografia del Barbiere è ampia, l‘incisione più antica risale al 1929, con Riccardo Stracciari (Figaro), Mercedes Capsir (Rosina), Dino Borgioli (Almaviva), Salvatore Baccaloni (Bartolo), Vincenzo Bettoni (Basilio). Coro ed Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, diretta da Franco Ghioni [Arkadia]. Tra le varie incisioni, vi propongo quelle che a mio avviso sono le migliori, e fra tutte - come primo acquisto - consiglio la versione di Claudio Abbado del 1972, con la quale inizio questa carrellata.
Hermann Prey, Teresa Berganza, Luigi Alva, Enzo Dara, Paolo Montarsiolo. London Symphony Orchestra, dir. Claudio Abbado - Regia teatrale Jean-Pierre Ponnelle Deutsche Grammophon - The Originals Nel 1972 Claudio Abbado e Jean–Pierre Ponnelle presentarono alla Scala un’edizione de “Il Barbiere di Siviglia” divenuta una pietra miliare dello spettacolo lirico. Si dotarono di un cast stellare e rispettarono la versione originale senza intervenire sul libretto. Hermann Prey è semplicemente fantastico come Figaro. La sua interpretazione di "Largo al factotum", il numero introduttivo del primo atto che è probabilmente la più famosa aria di Rossini, è eccezionale, è cantata con entusiasmo. Successivamente canta in duetto con Teresa Berganza (Rosina), in un virtuoso "Dunque io son", che è memorabile. Teresa Berganza ha una vocalità da mezzosoprano ideale per Rosina, sa inoltre come gestire i passaggi di coloratura e possiede un grande senso teatrale. L'Almaviva cantato da Alva è ad altissimo livello. La sua voce è così dolce e modulata, molto adatta al ruolo di amante. E la sua coloratura è bella. Luigi Alva è considerato il tenore rossiniano per eccellenza,e ha registrato su disco il ruolo di Almaviva per ben quattro volte. La ricca e potente voce di basso di Paulo Montarsolo come Don Basilio fa valere l'intero acquisto: i suoi talenti comici brillano anche senza le immagini. La versione di "La Calunnia" di Montarsolo è la migliore, musicalmente e drammaticamente, di sempre. La direzione di Abbado (ascoltate la celeberrima Overture!) è eccezionale. Il suono registrato è molto buono. Una grande registrazione. Accanto alla versione audio vi è una versione video in DVD altamente raccomandata. Questo film è divertente, divertente, intelligente e trasuda con l'aspetto accurato della Spagna all'inizio del XVIII secolo, piuttosto che l'era della rivoluzione pre-francese della storia originale di Beaumarchais. Jean-Pierre Ponnelle non ha mai dimenticato che questo è essenzialmente ambientato in spagnolo e, come un grande tocco, il ritratto del Dr. Bartolo (che ha un ruolo preminente nella commedia del primo atto) ha più di una sorprendente somiglianza con l'autoritratto di Salvador Dalì, aggiungendo un ulteriore tocco di follia all’esecuzione.
94
Una necessaria precisazione: Abbado nel 1992 fece una seconda incisione dell’opera rossiniana dirigendo la sua creatura The Chamber Orchestra of Europe. Non lasciatevi suggestionare dal cast: Abbado qui è irriconoscibile, totalmente senz'anima; Placido Domingo è poi improponibile in questo ruolo! L’unico pregio di questa incisione è il fatto che è in versione integrale, senza tagli, tutti i numeri originali sono inclusi, ciò che rende l'opera 2 ore e 35 minuti invece dei 120 minuti che siamo abituati a sentire.
Leo Nucci, Cecilia Bartoli, William Matteuzzi, Enrico Fissore, Paata Burchuladze. Orchestra del Teatro Comunale di Bologna, dir. Giuseppe Patanè. Decca 425 520-2 Quello che risalta immediatamente in questa incisione è la gioia di far musica di tutti gli artisti. L'orchestra ha chiaramente queste note nel sangue e suona con precisione e brio, sottolineando ciò che un talentuoso orchestratore quale Rossini era. Un altro punto di forza è una giovane (23 anni) Cecilia Bartoli nei panni di Rosina, un ruolo che l'ha portata alla ribalta nell'anno precedente a questa registrazione. Lei è esuberante ma ha completamente il controllo della sua voce. Leo Nucci è un ottimo Figaro, ma Hermann Prey rimane di tutt’altro pianeta. Paata Burchuladze, nel ruolo comico di Basilio è eccellente, vocalmente agile e preciso, e in grado di trasmettere l'ampio umorismo del lussurioso estirpatore di denaro di Basilio. Ad esempio, ascoltate l'aria rabbiosa, piena di balbuzie, del primo atto "A un dottore della mia sorte". La registrazione è di livello audiofilo e rappresenta una di quelle registrazioni davvero eccellenti della prima decade del suono digitale.
Tito Gobbi, Maria Callas, Luigi Alva, Fritz Ollendorff , Nicola Zaccaria. Philharmonia Orchestra and Chorus, dir. Alceo Galliera. Londra, 1957 PU UK Classics – EMI Classics (remastered) La coppia Gobbi e Callas lasciano ancora un altro grande frutto della loro collaborazione. Tito Gobbi è un grandissimo Figaro: raramente si è visto e sentito un cantante che abbia saputo fondere precisione canora e qualità attoriali quanto lui; la celebre cavatina "Largo al factotum" è sfavillante, e nel duetto con la Callas "Dunque io son, tu non m'inganni?" c'è una complicità eccezionale, a mio parere tuttora
95
imbattuta: quando, nel tentativo di convincere Rosina a scrivere un biglietto a Lindoro, Figaro rimane gabbato dall'astuta giovane (che prontamente ne estrae uno scritto di suo pugno) ed esclama "Già era scritto? Ve' che bestia...il maestro faccio a lei?", sembra proprio di vederlo Gobbi, con quell'espressione stralunata e lo sguardo sbalordito che solo lui sapeva fare!. Quanto alla Callas, essendo la registrazione del 1957, si può dire che fosse ancora in un momento florido della sua carriera (il vero e triste declino inizierà negli anni Sessanta): sia nel sopracitato duetto che nella celeberrima "Una voce poco fa", l'inconfondibile timbro della Callas si abbandona a gorgheggi e giochi belcantistici sbalorditivi. Il resto del cast annovera il Conte d'Almaviva di Luigi Alva (presente nello stesso ruolo anche nell'incisione abbadiana), un notevole Nicola Zaccaria come Basilio (bella la sua "Calunnia") e la Berta di Gabriella Carturan (divertente in "Il vecchiotto cerca moglie"); volendo esser pignoli, l'unica nota stonata è il teutonico Bartolo di Fritz Ollendorff, dalla pronuncia marcatamente tedesca ma dalla tecnica più che buona. La direzione di Galliera è energica, ci presenta un "Barbiere" che è puro divertimento, splendido esempio di quella "follia organizzata" tipicamente rossiniana, con una Philharmonia Orchestra in forma davvero smagliante. Peccato che la qualità della registrazione (da lodare comunque l’ottimo il lavoro di rimasterizzazione dei tecnici Warner) non permetta di apprezzare le sfumature e gli effetti orchestrali come in altre incisioni più moderne. Nel complesso, è questa un'incisione da avere, perché si tratta di un pilastro della tradizione operistica nostrana accanto alla già lodata edizione Abbado/DG.
Richard Croft, Renato Capecchi, Jennifer Larmore, David Malis, Simone Alaimo The Netherland Orchestra and Chorus. Dir: Alberto Zedda - Regia Teatrale: Dario Fo Ducale Chiudo queste segnalazioni del Barbiere con la “particolare” edizione che nel 1992 Dario Fo allestì per la Netherlands Opera. Il canto è di altissima qualità dappertutto. David Malis è un Figaro meraviglioso, soprattutto perché sa recitare bene. Jennifer Larmore è semplicemente favolosa come Rosina. Il suo mezzo ricco e profondo è sorprendentemente agile nelle porzioni di coloratura del suo ruolo, e la sua presenza scenica assai vivace. Richard Croft ha una voce potente e chiara. Il resto del cast è gradevole e di ottimo livello. Il ritmo della partitura sotto la bacchetta di Albero Zedda è esattamente quello che ci si aspetterebbe da un profondo conoscitore di Rossini.
96
La delicatezza e il senso comico di questa opera sono sopraffatti dall'intensità di ciò che succede nel palcoscenico, come la gente che corre con striscioni, scale, mobili e ogni sorta di cose che distolgono nettamente dalla trama, dalla vera azione e dal canto. Forme, ritmi e figurazioni sono della Commedia dell’Arte con Arlecchino e altre maschere. Non lo consiglio ad un neofita dell’opera, ben altre interpretazioni sono da preferire come primo acquisto: questa non è una vera messa in scena del Barbiere, ma un esuberante spettacolo di Dario Fo con musiche di Rossini: rimane comunque uno spettacolo tutto da godere.
[Archivio Dario Fo e Franca Rame: Bozzetto realizzato da Dario Fo per la messa in scena de "Il barbiere di Siviglia"]
97
Gioachino Rossini
98