Gli Amici del Loggione n° 8 - Maggio 2019

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GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 8 – Maggio 2019


GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista Quadrimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 8 - Maggio 2019

Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa

In questo numero: 1a Copertina: Fryderyk Chopin (ritratto di P. Schick) 4a Copertina: Ruggero Leoncavallo Editoriale [pag.3] Serate degli Amici del Vinile: Fryderik Chopin, il poeta del pianoforte [pag.5] Chopin, la discografia [pag.20] I grandi direttori del 900: Karl Ancerl [pag.40] Gli Amici del grammofono: “i fo ia °9 Dal uovo o do , di A to i Dvo àk [pag.49] Musica classica e cinema: 2001, Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick [pag.57] Musica medievale: Messe di Notre-Dame, di Guillaime de Machaut [pag.67] Strumenti musicali antichi: La tromba marina [pag.79] Melomania: Pagliacci, di Ruggero Leoncavallo [pag.82]

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E.mail: raggius@tim.it

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Editoriale Cari Amiche ed Amici, con questo ottavo numero inizia il terzo anno di vita della Rivista Gli Amici del Loggione, per me un bel traguardo alla fine insperato. Ogni numero, come ben sapete, è dedicato nelle prime pagine ad un mio incontro musicale con gli Amici del Vinile di Vittorio Veneto (quest’anno si celebra il decennale della loro fondazione, auguri!), dei quali mi onoro di far parte: questa volta ripercorro la storia del mio secondo incontro, ormai lontano nel tempo (il 25 novembre 2012, quasi 7 anni fa!), che riguardava due grandissimi compositori. Avevo suddiviso la serata musicale in due parti, la prima dedicata a Ludwig van Beethoven (per la quale vi rimando al n° 3 de Gli Amici del Loggione), la seconda a Fryderik Chopin, il primo da molti definito il vero protoromantico, il secondo uno dei maggiori e più conosciuti interpreti del Romanticismo. La prima parte colpì molto il pubblico presente, soggiogato dalla straripante personalità musicale e dalla tragedia umana di Beethoven, presentato (in modo pressoché inedito) in un felice e suggestivo alternarsi tra arte e vita privata. La seconda (quella di cui parleremo in questo numero) avvolse tutti in un’aura serena e lirica, con il pianoforte protagonista assoluto. Fu una serata bellissima, anche se – come sempre, causalo scorrere tiranno del tempo – il materiale preparato (che troverete integralmente in questo numero) era molto più corposo di quello fatto ascoltare.

PRESENTAZIONE DELLA SERATA Dopo l’atmosfera irruenta di Beethoven, questa seconda parte della serata sarà dedicata a Fryderik Chopin, una delle personalità più intense e rappresentative del Romanticismo, colui che per antonomasia è definito il “poeta del pianoforte”. Molti accostano Chopin alla figura del poeta Giacomo Leopardi: entrambi uomini malinconici e infelici, sofferenti nel corpo e nell’anima, sommi artisti che con la loro arte seppero esprimere la loro inquietudine nel vivere. Chopin e Leopardi: nati a dodici anni di distanza ma coetanei nella morte, per entrambi giunta a soli trentanove anni. Due giganti solitari…

Dol e e hia a è la otte e se za ve to/ E ueta sov a i tetti e i ezzo agli o ti posa la lu a/ E di lo ta rivela serena ogni montagna/ O Donna mia, già tace ogni sentiero, e pei balconi, rara traluce la notturna la pa… [Sono i primi versi di La sera del dì di festa, di Giacomo Leopardi, che racconta un classico notturno italiano fatto di luce riflessa dalla luna, di montagne, di tetti, di orti, di cieli stellati, che richiama molte delle atmosfere crepuscolari di Chopin.] Mentre Beethoven scrisse per vari strumenti (soprattutto pianoforte ed archi) da soli o con orchestra, Chopin scelse di comporre quasi esclusivamente musica per un unico strumento, il pianoforte, cui diede

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un’intensità lirica senza precedenti. Nel pianoforte Chopin rivelò gli angoli più reconditi dell’animo umano, racchiudendo la sua espressività in una dimensione interiore ed intima: fu questo strumento il “confidente” privilegiato di Chopin, da lui prescelto per veicolare ogni sfaccettatura emotiva, ogni tormento, ogni sospiro, ogni slancio di dolore. Chopin è autore di alcune tra le pagine pianistiche più memorabili della storia della musica occidentale. Oltre alle composizioni per pianoforte solista, scrisse due concerti, quattro ulteriori composizioni per pianoforte e orchestra, la Sonata op. 65 per pianoforte e violoncello ed un numero esiguo di musiche da camera. Gli Studi (che con Chopin perdono il loro scopo didattico per assumere una valenza puramente artistica), le Ballate pianistiche (una vera e propria innovazione nel campo della musica strumentale), i Preludi e soprattutto i Notturni sono diari nei quali il compositore sviscerò i segreti della propria anima. Non solo intimismo ma anche patriottismo: con le Mazurke e le Polacche, Chopin volle rivelare il suo aspetto nazionalistico, di volta in volta nostalgico o guerriero e combattivo. Chopin ci ha lasciato un testamento musicale di immani proporzioni artistiche, che ci mostra un compositore attento al più piccolo dettaglio, dotato di una notevole creatività, oltre che di una espressività musicale che raramente ha trovato pari nella storia della musica: la sua musica è così particolare che, quando si sentono le prime note di una sua qualsiasi composizione, anche l’ascoltatore meno erudito esclama “Questo è Chopin!”.

Qualcosa di torbido, di malato fermenta indubbiamente sotto il velo di fragile candore che ammanta le opere di Chopin: è il ale o a ti o dell i ettitudi e a vive e, la sostituzio e dell a te alla vita, il ti o e della ealtà, e l a elito i soddisfatto a chimerici sogni. [M. Mila, Breve storia della Musica]

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Serata degli Amici del Vinile: Fryderyk Chopin, il poeta del pianoforte Fryderyk Chopin (noto anche con il nome francesizzato di Frédéric François Chopin) nacque il 22 febbraio 1810 a Zelazowa Wola a pochi chilometri da Varsavia, da una famiglia che possedeva una notevole tradizione musicale: il padre (che era di origine francese) suonava il flauto e il violino, la madre cantava accompagnandosi al piano, e anche le sorelle erano pianiste. Sei mesi dopo la nascita di Fryderyk, la famiglia si trasferì a Varsavia, dove al padre era stato assegnato il posto di insegnante di francese al Liceo di Varsavia. Fryderyk iniziò giovanissimo lo studio del pianoforte. Fu un bambino prodigio: a otto anni, quasi novello Mozart, diede il suo primo concerto pubblico e compose le sue prime Polacche. Nel 1827 si iscrisse al Liceo di Varsavia, dove il suo talento ebbe modo di farsi rapidamente valere. Abbiamo un giudizio scritto del suo maestro: "Chopin Frédéric, studente al terzo anno, eccezionale talento, genio musicale". Completò gli studi musicali alla Scuola superiore di Musica al Dipartimento delle Arti e Scienze dell’Università di Varsavia. A quel tempo fu un attivo partecipante alla vita culturale della capitale polacca. Gli anni 1829-1831 sono per Chopin gli anni del primo amore per la cantante Kostancja Gladkowska e dei suoi primi successi. In quel periodo scrisse anche i suoi due (unici) Concerti per pianoforte. Resta singolare che nella seconda metà della sua esistenza, dopo aver abbandonato la Polonia, Chopin non abbia più scritto alcun lavoro per pianoforte con accompagnamento d'orchestra. ♫♫ Dei due Concerti ho scelto il n° 1 op. 11 in mi minore (in realtà fu composto dopo l’altro concerto, il n° 2, ma venne pubblicato prima). Ascolteremo il 2° movimento, Larghetto (Romanza) Chopin, secondo una lettera all'amico Tytus, precisava che questo movimento non doveva essere "energico, ma piuttosto romantico, tranquillo, malinconico, per dare l'impressione di uno sguardo gentile al luogo che risveglia nel pensiero mille cari ricordi. È una meditazione nel bel tempo primaverile, ma durante il chiaro di luna: perciò l'accompagno con le sordine". Dopo una breve introduzione dell'orchestra, il pianoforte espone il tema principale, caratterizzato da una estrema dolcezza; un episodio intermedio viene dipanato dal pianoforte accompagnato dagli archi in sordina; ricompare poi al pianoforte, con vari abbellimenti e sviluppi, il tema principale, che viene affidato alla fine agli archi, mentre il pianoforte esegue eleganti e quiete figurazioni.

ASCOLTO: La splendida esecuzione (di ife i e to ) è uella di Krystian Zimerman al pianoforte, con la Los Angeles Philharmonic Orchestra, diretta da Carlo Maria Giulini.

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♫♫ Rimaniamo ancora nel romantico mondo pianistico di Chopin, con l’ascolto dello Studio op. 10 n. 3, conosciuto anche con il titolo apocrifo di “Tristesse” (Tristezza). Questa composizione giovanile (il musicista era poco più che ventenne) fu considerato dallo stesso Chopin come uno dei suoi lavori più intimi; di essa ebbe a dire: “In tutta la mia vita non sono mai stato in grado di trovare una melodia così bella”. Questo brano è un Lento ma non troppo in mi maggiore; all’inizio il tema si presenta dolce, calmo e lirico, sembra quasi un Notturno, si increspa appena nel suo prosieguo e solo nella parte centrale cambia volto, diviene agitato, scosso nel profondo. Infine, come d'incanto, la velocità si attenua, il clima si ridistende, torna l'aura espressiva iniziale e il brano termina con serenità.

ASCOLTO. Al pianoforte Maurizio Pollini, uno dei massimi pianisti della nostra epoca. Ha vinto nel 1960 il Concorso Chopin a Varsavia.

Chopin è sempre stato un artista fortemente legato alla sua terra, la Polonia: sin da giovane, egli coltivò quell'interesse per la vita del suo Paese che sarebbe divenuto un elemento costante della sua personalità e della sua ispirazione: infatti le sofferenze, le aspirazioni, i desideri di libertà della sua Polonia si esprimeranno spesso attraverso i suoni "disperati" (come egli li definì) del suo pianoforte. Nel 1830, a seguito della repressione russa della Rivolta di Novembre del 1830, soffocata nel sangue dallo zar Alessandro I, Chopin si trasferì a Vienna, dove conobbe notevoli difficoltà sia di inserimento sociale che di carattere economico, aggravate dalle notizie tragiche sull'avanzata russa in Polonia, sulla disperazione dei suoi connazionali e sul dilagare di una epidemia di colera che colpì molti dei suoi connazionali.

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[Marcin Zaleski: ‘ivolta di Nove

e, l A se ale di Va savia]

Quando nel 1831 arrivò la notizia che Varsavia era caduta in mano russa, con il conseguente fallimento dei moti nazionalistici in cui lui stesso aveva creduto e riposto speranze, Chopin, disperato, compose di getto lo Studio op.10 n.12, noto come "La caduta di Varsavia", un brano ricco di impeti drammatici ed appassionati. ♫♫ Sopra un turbinoso ed incalzante movimento di semicrome ascendenti e discendenti della mano sinistra, si staglia un tema dolente ma perentorio, enfatico, eroico. L’ambientazione armonica cupa e tempestosa del brano rimanda con l'immaginazione ad eventi tragici, ma soprattutto la musica riflette uno stato d'animo, il moto interiore di un uomo avvilito, eppure non vinto, avvolto dalla speranza che un giorno la sua Polonia risorgerà.

ASCOLTO: Maurizio Pollini al pianoforte.

Dopo un anno di solitudine e smarrimento trascorso a Vienna, Chopin si trasferì stabilmente a Parigi. Aveva vent’anni e non sarebbe mai più tornato in patria. Nella capitale francese entrò in contatto con musicisti quali Friedrich Kalkbrenner, Ferdinand Hiller, Vincenzo Bellini, Hector Berlioz e soprattutto Franz Liszt, l’emblema del virtuosismo pianistico trascendentale.

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Nonostante avesse ottenuto la cittadinanza francese, Chopin rimase sempre profondamente legato alla Polonia; la sua nostalgia, il suo senso di sradicamento non poterono non manifestarsi nella sua produzione musicale, spesso traboccante di quegli elementi con cui era venuto a contatto prima di allontanarsi dall’amata patria. In breve tempo il fascino discreto del giovane compositore dai modi eleganti e con l’aureola dell’esule e dell’artista, lo rese il prediletto dell’alta società parigina. I suoi brani riscossero successo specialmente nei salotti, dove egli stesso si esibiva. Inoltre le sua

finanze

si

risollevarono

grazie alle molte lezioni private. [Henrik Siemiradzki: Chopin suona il pianoforte nel salone del principe Radziwill]

Fryderyk Chopin non amava esibirsi di fronte ad un pubblico numeroso: si dice che, negli ultimi diciotto anni della sua breve vita, si esibì pubblicamente circa trenta volte; preferiva di gran lunga i salotti privati e le pareti del proprio appartamento, spazi ridotti, intimi, in cui rivelare squarci della propria interiorità. Ciononostante, divenne uno dei pianisti più famosi di tutti i tempi.  Ascoltiamo adesso l’Improvviso-Fantasia op. 66, pubblicato postumo da Julian Fontana, grande amico di Chopin e curatore di molti suoi lavori pubblicati postumi. Gli Improvvisi sono forme musicali dalla struttura tripartita, con un movimento lento e simile ad una cantilena dagli accordi sfumati e leggeri che si trova nel mezzo di due tempi più vivaci e allegri. Questa è una delle più conosciute composizioni di Fryderyk Chopin, scritta per solo pianoforte nel 1834 e dedicata appunto a Julian Fontana. Chopin si era pentito di averla composta in quanto considerava alcuni passaggi troppo simili ad alcuni della Sonata per pianoforte n. 14 Al Chiaro di Luna di Beethoven. In questo brano il musicista polacco è riuscito a fissare, attraverso un pianismo sottilmente espressivo, le immagini del suo tormentato mondo interiore e di quella Sehnsucht1 romantica, di cui fu uno dei massimi interpreti. ♫♫ L'op. 66 ha una tessitura armonica, fluida e trasparente. L'Allegro agitato iniziale, con i suoi accordi freschi e brillanti, suggerisce la sensazione di risveglio della natura in un limpido mattino di primavera. Il Moderato cantabile centrale, quasi fosse un notturno, con spunti melodici di delicata fattura, segna una pausa di assorto ripiegamento psicologico, di tinta leggermente malinconica; con la ripresa ritorna il tema

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Sehnsucht è una parola che incarna un concetto tipico della cultura romantica tedesca, che possiamo tradurre in "struggimento". Indica la dolorosa sensazione che si prova nel non potere soddisfare un desiderio interiore rivolto ad una persona o una cosa che si ama o si desidera fortemente.

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principale con l'aggiunta di una coda che man mano perde spinta sino a rallentare visibilmente; il pezzo si conclude con la fusione delle due melodie in una sola figurazione armonica.

ASCOLTO: Al pianoforte il russo Nikita Magaloff, musicista dallo stile nobile e riservato, tra i più alti interpreti di Schumann e Chopin, del quale ha eseguito l'intera opera per pianoforte.  I Notturni sono considerati tra le composizioni più emblematiche del romanticismo chopiniano. Come genere musicale, il “Notturno” proviene dal classicismo viennese, come sinonimo di Serenata, Divertimento, Cassazione, quindi una musica da suonare all’aperto, alle feste, tra i circoli della nobiltà: il Settecento aveva celebrato la notte in senso eminentemente sociale, come il luogo dello svago, non c’era traccia dei misteri, delle emozioni, delle sensazioni che

essa,

anche

poeticamente,

in

letteratura, ha sempre portato con sé. Possiamo tranquillamente affermare che il “Notturno” settecentesco non aveva alcunché di notturno. L’Ottocento, invece, celebrò la notte come il rifugio dell’io che si ritrae in se stesso, isolato dal mondo e, non di rado, preda di fantasmi. Questo nuovo modo di concepire e vivere la notte iniziò a trovare, nella poetica romantica che si faceva largo nel cuore dell’Europa, un diverso spazio sul pentagramma. Il primo a usare il titolo di Notturno per alcune brevi musiche fu il compositore irlandese John Field (1782-1837), [nel riquadro], allievo a Londra di Muzio Clementi. Fu lui a dare il soffio di vita al “notturno pianistico”, pensato come una pagina lirica sentimentale, malinconica, intimistica, organizzata su melodie accompagnate da semplici accordi arpeggiati: questo tipo di composizione non obbediva a una forma precisa prestabilita, né per esso era prescritto un determinato giro tonale e nemmeno vi erano indicazioni speciali di misure e di tempo: esso è una forma di libera ispirazione, ove la espressione musicale può fiorire spontanea e senza incitamenti esteriori, quindi in grado di soddisfare a pieno il gusto del Romanticismo. E’ questo stile che colpì il giovane Chopin: ne rimase affascinato tanto da scrivere nel 1827 a soli 17 anni il primo Notturno, al quale ne seguirono altri 19, che costituiscono il corpus di maggiore spessore compositivo e lirico di questo genere. Nel romanticismo chopiniano il Notturno è considerato la composizione più emblematica, una sorta di diario intimo che manifesta di volta in volta le emozioni recondite del compositore, intime e crepuscolari, ora più sognanti (opera 9 n.2 in Mi bemolle maggiore o l’opera 55 n. 2 in Mi bemolle maggiore) ora più cupe (opera 48 n.1 in Do minore), ora più enigmatiche (opera 9 n.3 in Si maggiore).

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Si può in sintesi ripercorrere e riassumere l’intera vita di Chopin lasciandosi trascinare dalla successione dei suoi Notturni: secondo il maestro Maurizio Pollini, essi sono come un riflesso "compositivo ed esistenziale" di Chopin, una sorta di "diario intimo, che attraversa la sua vita". Se il merito dell'invenzione del Notturno al pianoforte è di Field, Chopin ne ha senza dubbio arricchito il genere portandolo, come altre volte è accaduto nella storia della musica tra iniziatori e maestri assoluti, sulla vetta musicale. Chopin ha reso più complessa la costruzione armonica e meno banale l’invenzione delle linee melodiche e gli slanci nostalgici che ne costituiscono l’ossatura formale. Temi ricorrenti sono lo spirito polacco e il Belcanto italiano 2. ♫♫ Di tutti i 19 Notturni chopiniani, i tre dell’Op. 9 sono i più celebri, soprattutto l’Op. 9 n°2, che ha un andamento sognante, e che si può annoverare fra i pezzi più conosciuti del repertorio pianistico. L’accompagnamento, sempre uguale, è affidato alla mano sinistra del pianista, mentre la mano destra esegue un tema raffinato e sognante. La composizione procede malinconicamente ripetendo il tema iniziale, sempre arricchito di nuovi elementi melodici, tipici della scrittura pianistica di Chopin. La melodia è di stampo prettamente vocale, di tipo belliniano, e richiama il gusto belcantistico italiano, ma ecco che all’improvviso, verso la fine, la melodia diventa più aggressiva: dopo questo breve episodio drammatico la musica ritorna verso la delicata malinconia dell’inizio, per concludere su morbidi accordi finali. Chopin eseguiva spesso questo Notturno, con continui nuovi interventi sugli abbellimenti che insegnava agli allievi, tanto che oggi possediamo di esso almeno quattordici varianti.

ASCOLTO: Al pia ofo te A thu ‘u i stei , o side ato il più g a de i te p ete di og i te po dell ope a chopiniana. ♫♫ Il secondo notturno che ho scelto per questa serata è il Notturno in do diesis minore op. 20. Sembra sia il primo dei Notturni scritti da Chopin. Fu composto nel 1830 e pubblicato postumo nel 1870. Era dedicato alla sorella Ludwika. E’ uno dei capolavori chopiniani più celebrati e conosciuti. Questo Notturno ha una carica romantica intensissima, il tema è semplice e delicato, molto intimista.

ASCOLTO: P opo go al vost o as olto l i te p etazio e del pia ista e di etto e d o hest a usso Vladi i Ashkenazy, All'edizione del 1955 del prestigioso Concorso pianistico internazionale Frédéric Chopin di Varsavia arrivò secondo, nonostante a lui fossero andate le preferenze di Arturo Benedetti Michelangeli, giurato del concorso, che per questo motivo abbandonò anzitempo la manifestazione. ♫♫ Il terzo Notturno che ascoltiamo è il n.2 dell’op. 27. 2

Stile di canto caratterizzato da notevole virtuosismo, spesso non legato a reali esigenze drammatiche o sceniche; fu tipico della tradizione melodrammatica italiana compresa tra il sec. 17° e l’i izio del 19°.

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L’Op. 27 è composta da due Notturni: Il primo è misterioso, a tratti drammatico, evoca sentimenti di angoscia e tormento; il secondo è luminoso, quieto, cantabile, con un'unica melodia che genera incessantemente se stessa, come in un continuo processo di autogemmazione. Esso infonde in chi ascolta, già dalle prime battute, un senso di calma e serenità. Contrasta con la situazione personale che Chopin stava vivendo: egli in quegli anni si trovava in Austria, deluso e amareggiato per l’accoglienza non calorosa da parte dei viennesi e malato di nostalgia per la patria.

ASCOLTO: Ancora una grande interpretazione di Arthur Rubinstein.  I Valzer. Se volessimo allargare l’orizzonte e considerare il Valzer in un’accezione più ampia dovremmo fare una lista che comprenda i valzer viennesi della famiglia Strauss, oppure i Valzer di Tschaikowskij, o il Valzer di Musetta nella Bohème di Giacomo Puccini, o il Valzer di Salomé di Richard Strauss, o il Valse triste di Jean Sibelius. Ma se pensiamo al Valzer per solo pianoforte la mente va solo ai Valzer di Chopin. Essi presentano forme svariate e si lasciano ammirare per raffinatezza dei temi e ricercatezza della scrittura. Chopin li pensò come brani puramente musicali e non perché venissero ballati dai membri di quella buona società parigina della quale faceva parte egli stesso. ♫♫ Il Grande valse brillante op. 18, composto a Viena nel 1831, non può essere assolutamente definito né per stile né per sentimento un valzer “viennese”, quanto piuttosto “parigino” in sintonia con l’eleganza e la briosità dell’ambiente salottiero della capitale francese del tempo. Fu scritto in una forma composta da una successione di temi di danza (ce ne sono sette in tutto), ciascuno dei quali porta un diverso carattere melodico.

Viene definito dai critici “una vera foto da sala da ballo, vivace e contagioso nei ritmi".

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ASCOLTO: Propongo al vostro ascolto la brillante interpretazione di Vladimir Ashkenazy. ♫♫ Il secondo valzer che vi propongo è il Valzer del Minuto, op.64 n.1 L’ispirazione per questo breve e delizioso pezzo la si deve al piccolo cane di George Sand, che spesso, per gioco, si metteva a rincorrere la propria coda. Nasce da qui il tema iniziale, costituito dalla ripetizione di quattro suoni “il girotondo”. Questo piccolo spunto è solo l’avvio di un episodio vivacissimo e avvincente, a cui si contrappone la seconda idea tematica, più tranquilla e suadente. La ripresa della prima parte sembra quasi un’immagine che svanisce a poco a poco, per riaffermarsi soltanto col passaggio conclusivo, forte e deciso.

ASCOLTO: Vladimir Ashkenazy al pianoforte.

Ritorniamo alle note biografiche finali della breve vita di Chopin. Dopo il fallimento della relazione con la contessa Maria Wodzinska (la famiglia di lei, dapprima propensa al matrimonio, lo osteggiò per le condizioni di salute del musicista) che durò tra il 1835 e il 1837, Chopin fu assorbito dalla turbolenta storia d’amore con l’anticonformista scrittrice George Sand3 (pseudonimo di Amantine Aurore Lucile Dupin), più grande di lui di sei anni, con la quale ebbe una relazione passionale e tormentata che durerà una decina di anni.

[Eugène Delacroix: Ritratto di Fryderyk Chopin e George Sand]

Nel 1838, a causa delle precarie condizioni di salute del compositore, i due amanti (insieme ai due figli di lei) andarono a vivere nelle Baleari, a Valldemossa, vicino a Palma di Maiorca, alla ricerca di un clima più salubre rispetto alla piovosa

Parigi.

Si

stabilirono

alla

Cartuja

(Certosa, un ex-convento). Molte leggende più o meno morbose riguardanti alcune note composizioni del musicista polacco hanno come teatro di svolgimento l'ex-convento della cittadina collinare spagnola.

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L'uso di uno pseudonimo maschile per una scrittrice non era affatto una scelta originale; ciò era dovuto alla diffidenza che il pubblico medio provava nei confronti di una donna, pregiudizialmente ritenuta, proprio in quanto tale, artista di qualità inferiore. Quanto al vestirsi da uomo, oltre a essere più economico, come ella stessa confessa nelle sue Memorie era anche un modo per poter frequentare luoghi interdetti alle donne. Fu un modo di manifestare la propria volontà di indipendenza da ogni pregiudizio e il rifiuto del conformismo in nome della libertà dello spirito. «Presi subito, senza tante ricerche, il nome di George. Che cos'è un nome nel nostro mondo rivoluzionato e rivoluzionario? Un numero per coloro che non fanno niente, un'insegna o una divisa per coloro che lavorano o combattono. Io me lo sono fatto da sola, con la mia fatica».

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Di aspetto emaciato, Chopin aveva scarsissima resistenza fisica, soffriva di frequenti attacchi di bronchite purulenta, laringite ed episodi di emottisi. Era, sin dalla prima infanzia, di salute cagionevole, e già intorno ai 9 anni cominciò a soffrire di una tosse incessante (verosimilmente di natura tubercolare) che lo accompagnò fino alla morte; a trent'anni pesava meno di 45 chilogrammi per una statura di circa un metro e 70. Purtroppo le disagiate condizioni del viaggio ed il clima umido peggiorarono ancora di più la sua salute. I due ripartirono dapprima a Marsiglia, e quindi a Nohant, nel Berry, nella grande casa di Sand circondata da parchi e boschi, circondati da un «piccolo mondo» di artisti con i quali conversare a lungo di musica e pittura. Chopin conobbe a Nohant un periodo sereno, confortato dalle cure premurose e quasi materne della scrittrice. Furono anni di intensa creatività, che però coincisero con un inesorabile peggioramento della malattia del compositore. Tra le opere di quel periodo, la Barcarola in fa diesis maggiore op.60, che alcuni giudicano una composizione gradevole ma minore: è invece una delle creazioni più geniali di Chopin. Scritta tra l'autunno del 1845 e l'estate del 1846, dedicata alla baronessa De Stockhausen, rappresenta il massimo tributo pagato da Chopin a uno dei miti più cari al Romanticismo europeo: quella trasfigurazione poetica dell'Italia - un'Italia, in questo caso, addirittura mai vista - che dette argomento a una serie infinita di esercitazioni letterarie, musicali e pittoriche. Di quel mito, Venezia fu una componente di particolare importanza: la più consona, con le suggestioni coloristiche delle sue luci, delle sue nebbie, della sua irrealtà di città sull'acqua, alla sensibilità di Chopin. La struttura e il carattere della Barcarola rimandano ai maggiori Notturni, anche se la dilatazione delle forme e degli orizzonti espressivi la accomuna alle grandi composizioni poematiche, come le Ballate o la Fantasia. La Barcarola è anche uno dei pezzi in cui meglio emergono l’equilibrio e la perfezione classica in cui consiste forse il miracolo dell'arte di Chopin, che è riuscito a coniugare la libertà romantica col senso della forma, la limpidezza delle strutture, la chiarezza dello stile. La Barcarola è anche uno degli esiti più interessanti dell'audace e libera concezione dell'armonia di Chopin, che in alcuni momenti (specie nel finale) si trasforma in una nuova ricerca di timbri, quasi una sorta di impressionismo ante litteram, tanto che Ravel ebbe a scrivere, in un suo articolo, parole di profonda ammirazione per questa pagina straordinaria. ♫♫ Con una pennellata di colore delle tre battute introduttive, prende il via il cullante accompagnamento di barcarola della mano sinistra che sostiene il dolce e frastagliato disegno melodico. Il tema evolve quindi in un libero fluire di nuove invenzioni melodiche arricchite di trilli e rapide fioriture. Un breve episodio interlocutorio di collegamento riporta al tema principale riesposto con varianti armonico-melodiche. La sezione centrale è caratterizzata da un nuovo tema, d'un lirismo magnifico (come lo definì Ravel), tutto italiano, che esplode in un continuo proliferare di nuove proposte e poi si calma.

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Nella parte finale i movimenti contrappuntistici vengono improvvisamente abbandonati, compare una conclusione di sapore quasi impressionistico, che scaldò anche Ravel, solitamente molto freddo e controllato: «Dal grave s'eleva una linea rapida, come un brivido, che si libra sulle armonie preziose e tenere. Si pensa a una misteriosa apoteosi».

ASCOLTO: Al pianoforte Martha Argerich, artista raffinata dalla dirompente personalità, dal carattere libero e indipendente, un vero genio del pianoforte. Nel 1965 ha vinto il Concorso Chopin di Varsavia. Dopo questa “pausa” musicale, riprendiamo la biografia di Chopin. La sua salute andò sempre più in declino, minata maggiormente da alcuni luttuosi accadimenti che funestarono quegli anni: la morte del suo maestro Zivný, quella del migliore amico Jan Matuszynski e la morte del padre Nicholas. Inevitabilmente al crollo del suo stato di salute corrispose l'inaridimento della vena artistica con una repentina diminuzione dell'attività di composizione. Nel 1847, come se non bastasse, in seguito ad insanabili contrasti tra Chopin e Maurice, figlio di George Sand, avvenne la rottura definitiva tra i due amanti. Chopin tornò a Parigi, ma cadde in una profonda depressione. Nel 1848 Chopin, accompagnato da una sua allieva, Jane Sterling, e della di lei sorella Mrs. Erskine, partì per l'Inghilterra dove conobbe Charles Dickens; a Londra tenne il suo ultimo concerto a favore dei profughi polacchi. Il rigido clima inglese e la vita mondana nella quale le due sorelle vollero portarlo, diedero il colpo di grazia alla salute del compositore, che nel gennaio successivo tornò definitivamente a Parigi in pessime condizioni fisiche ed in serie difficoltà economiche. Assistito dalla sorella Luisa e dagli intimi amici Eugene Delacroix, e Delfina Potocka, Fryderyk Chopin morì al 12 di Place Vendôme, il 17 ottobre del 1849, alle 2 del mattino. Aveva solo 39 anni.

[Félix-Joseph Barrias: La Mort de Chopin, 1885, Museo nazionale di Cracovia] Ebbe grandiose onoranze funebri, e venne sepolto nel celebre cimitero parigino di Père Lachaise, accanto a Bellini e Cherubini; nella tomba c’è la tazza di terra polacca che aveva portato con sé a vent’anni. Il suo cuore è conservato a Varsavia, nella Chiesa di Santa Croce: Chopin, sul letto di morte aveva infatti chiesto che il suo cuore fosse separato dal corpo e custodito in Polonia, sua terra natale (anche perché - si dice - aveva il terrore di essere sepolto vivo).

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Il cuore del compositore polacco è stato protagonista di traversie turbolente: si racconta che fosse stato chiuso in un barattolo pieno di cognac per poi essere contrabbandato da sua sorella, che, oltrepassando la frontiera russa, lo portò a Varsavia. Una volta lì, il cuore di Chopin passò per le mani di diversi suoi parenti (e dei nazisti, che lo custodirono con rispetto durante la seconda guerra mondiale) prima di essere posto nella chiesa barocca di Santa Croce, nel centro di Varsavia, al di sotto di un pilastro recante la scritta biblica: "Dov'è il tuo tesoro, là vi è il tuo cuore". Il cuore di Chopin in Polonia è custodito come la reliquia di un santo, perché per i polacchi le composizioni del pianista sono un simbolo dello spirito nazionale. La chiesa e il governo polacco, custodi ufficiali del cuore, hanno rifiutato da allora ogni tipo di test invasivi, ma, in seguito all’ipotesi di uno scienziato che dopo 150 anni l'alcool nel barattolo potesse essere evaporato rovinando i tessuti del cuore, in tutta segretezza alla mezzanotte del 14 aprile del 2014 alla presenza dell’arcivescovo di Varsavia, del Ministro della Cultura, di due scienziati e di un gruppo di politici, il cuore è stato esumato. Il team ha realizzato centinaia di foto e portato a termine una vera e propria analisi del cuore di Chopin. La teca che lo contiene è stata sigillata con nuova cera, che dovrebbe impedire l’ulteriore evaporazione del cognac originale. L’arcivescovo ha quindi recitato una serie di preghiere prima che la teca fosse ricollocata al suo posto, all’interno della colonna. Nessuna delle foto dell’esumazione, comunque, è stata diffusa per evitare il clamore mediatico che ne sarebbe potuto seguire. Un giornalista dell’agenzia Associated Press, però, avrebbe visto le foto e avrebbe descritto il cuore di Chopin come “un grosso grumo bianco immerso in un fluido color ambra in una teca di vetro”. La prossima "visita di controllo" è prevista per il 2064. ♫♫ Ricordiamo i tristi momenti della morte di Chopin ascoltando la sua celeberrima Marcia funebre, 3° movimento della Sonata n. 2 op. 35 in si bemolle minore. Questo brano è spesso usato in trascrizione per banda nei cortei funebri, nonostante fosse nato per essere eseguito al pianoforte; solamente questo strumento rende giustizia al livello della pagina, specialmente nella parte centrale: una dolcissima

melodia

in

tonalità

maggiore,

accompagnata solo da incessanti arpeggi della mano sinistra.

ASCOLTO: Al pianoforte Martha Argerich.

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♫♫ Ascolteremo adesso il Preludio op.28 n° 4, considerato da molti come uno dei più famosi dei Preludi di Chopin. Su richiesta di Chopin, il pezzo venne suonato al suo funerale, assieme al Requiem di Mozart. I Preludi op. 28 sono una raccolta di 24 composizioni per pianoforte dell'autore polacco, una per ogni tonalità musicale, sia in modo maggiore che minore. Nonostante il termine preludio sia abitualmente utilizzato per indicare una composizione con il compito di introdurne un'altra, più lunga e articolata, i 24 Preludi chopiniani possono essere eseguiti e analizzati come piccole opere a sé stanti. La pubblicazione dei Preludi provocò molto scalpore nell'ambiente musicale dell'epoca, principalmente per due motivi: da una parte, Chopin sfidava qualsiasi regola classica, votando le sue creazioni a una mancanza di forma evidente, e dall'altra sfidava le convenzioni del periodo per la breve durata delle composizioni contenute nell'opera 28 (basti considerare come nessun preludio sia più corto di 13 battute, ma contemporaneamente nessuno superi le 89 battute di lunghezza).

ASCOLTO: Al pianoforte Maurizio Pollini. Non possiamo chiudere questa parte delle serata dedicata a Chopin, senza dimenticare che egli è considerato uno dei massimi esponenti del nazionalismo polacco. Gli ultimi due brani della serata saranno quindi composizioni che esaltano la sua anima di patriota e di esule. Il primo brano è la celeberrima Ballade n° 1, una delle sue pagine più toccanti: musica pianistica pura, tenera di una tenerezza che guarisce, bella di una bellezza a tratti cantabile, in altri drammatica, in altri ancora “politica”, tumultuosa, libertaria. In una parola, romantica, nell’accezione più vera. “Ballata” è una forma musicale attorno a un testo poetico che risale al XIV secolo, diffusa in Francia e in Italia grazie ai lavori di Guillaume de Machaut e Francesco Landini. Nelle ballate, i poeti romantici evocano leggende d'amore, d'armi, di cavalleria, vagheggiate in un favoloso Medioevo, con ricchezza di elementi fantastici: la ballata puramente strumentale non rappresenta che un trasferimento, nei domini propri della musica, del mondo poetico caratteristico di quel genere letterario. Chopin fu ispirato dalle Ballate lituane del poeta polacco Adam Mickiewicz [nel riquadro], che aveva narrato in chiave lirica miti e leggende di una Polonia idealizzata, ancora indipendente, e cioè non ancora spartita politicamente e militarmente - come accadde dalla fine del Settecento - fra Russia, Prussia e Austria. ♫♫ Un preambolo segnato da una nota “in fortissimo” e di grande dinamismo dà inizio alla composizione, e procede con una narrazione ricca di pathos e di slanci melodici, con arpeggi velocissimi e incantevoli. Di un'inattesa drammaticità è la sua conclusione: una vera tempesta sonora che può paragonarsi alla paurosa fine dei fatti evocati in un racconto poetico.

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ASCOLTO: Vi propongo la splendida interpretazione di Krystian Zimerman, pianista e direttore d o hest a pola o. E considerato uno dei più autorevoli interpreti viventi di Chopin. Nel 1975, a soli diciotto anni, vinse il celebre Concorso Chopin di Varsavia, che gli conferì immediata fama mondiale. ♫♫ Il secondo brano è la celeberrima Polacca in la bemolle maggiore op. 53 detta "Eroica", che per molti è e rimane la Polacca per antonomasia di Chopin, scritta nel 1842 Le Polacche sono composizioni fastose, eroiche, rievocano un passato glorioso e cavalleresco. La Polacca op.53 è sicuramente l’esempio più completo e mirabile di questo genere di composizione. Le sedici battute iniziali sono già esse sole un vero capolavoro. Due idee opposte, una ascendente e l’altra discendente, si fronteggiano sino a far scaturire da un crescendo caparbio il primo episodio, smagliante e virile, reso aggressivo dal ritmo incalzante e dalla ricchezza armonica; il secondo episodio marziale crea un efficacissimo momento di stacco, su cui si staglia la ripetizione della fanfara iniziale. Nella zona centrale della Polacca il primo tema, invece di essere - come è abitudine - ripetuto, viene totalmente sostituito da un terzo motivo, che crea varietà emotiva e diminuisce la tensione. Un ostinato melodico di ottave discendenti, vero e proprio test di bravura per il pianista, interrompe il clima sempre eroico mantenuto sin qui. La ripresa del motivo iniziale, ma in forma accorciata, chiude, con foga travolgente e ricca di irruenza, l’intera composizione.

ASCOLTO: Al pianoforte Maurizio Pollini. Questo brano, spesso suonato con piglio trionfante viene trasfigurato da Pollini in un alone di decadenza ed amarezza più aderente al rimpianto di Chopin per la sua Polonia, ormai distante, perduta, segnata dall'occupazione russa.

In genere era sulla mezzanotte che lui si a a do ava, ua do i g a di avatto i se e a o a dati, ua do l a go e to politi o del ovi e to e a stato esau ie te e te di attuto, ua do tutti i maldicenti avevano dato fondo ai loro aneddoti, tutte le insidie erano state tese, tutte le perfidie consumate, solo allora, obbedendo alla muta richiesta di due occhi intelligenti, diveniva poeta e a tava gli ossia i i a o i degli e oi dei suoi sog i… i dolo i della pat ia lo ta a, la sua cara Polonia, sempre pronta a vincere e sempre battuta. Hector Berlioz, Mort de Chopin, in: Journal des Débats, 27 ottobre 1849

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[Cartuja de Valldemosa: il pianoforte di Chopin]

[Il pianoforte Pleyel, lo strumento che Chopin suonò durante il suo ultimo concerto a Parigi, nel febbraio 1848]

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[La sola foto esistente di Chopin. Anno 1849 circa]

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Chopin, la discografia E’ opinione di tutti gli studiosi della storia della musica classica che vi sia più di un artista che possa essere definito un grandissimo interprete del compositore polacco. Indubbiamente esecutori come Rubinstein o Zimerman (che per altro sono anch’essi polacchi) hanno un quid che li rende particolarmente espressivi, ma eccezionali interpreti sono stati anche Alfred Cortot, Vladimir Horowitz, Maurizio Pollini, Vladimir Ashkenazy, Martha Argerich. La mia personale preferenza va senza dubbio alcuno ad Arthur Rubinstein, un artista veramente straordinario per virtuosismo pianistico ed espressività. Quest’articolo è una piccola guida su quelle che per me rappresentano le migliori incisioni delle opere di Fryderyk Chopin. Resta inteso che “de gustibus…” e che ognuno può preferire altre incisioni che qui non ha trovato!

The Chopin Collection Arthur Rubinstein (pianoforte). RCA Red Seal (11 CD) Privarsi dell'ascolto delle interpretazioni che Arthur Rubinstein ci ha lasciato di Chopin è un imperdonabile ed incomprensibile atto di masochismo musicale! Lo Chopin di Rubinstein rimane impresso e riconoscibile per il magico punto di equilibrio fra eleganza, energia e lirismo che, prima ancora che le sue esecuzioni, è la fonte della bellezza della musica di Chopin. Dopo le mitiche incisioni con la EMI negli anni '30 Rubinstein continuò lo studio e l'approfondimento dell'amato e conterraneo Chopin, ne ampliò il repertorio eseguito e tornò in sala di registrazione a partire dagli anni '60 per registrare l'integrale delle opere chopiniane; il fatto stupefacente è che il meglio delle interpretazioni è arrivato quando Rubinstein aveva più di 70 anni! Il lascito è notevole e conferma ancora una volta la quasi identificazione dell'esecutore con l'autore, consolidando il mito del binomio Chopin-Rubinstein, come se altri pianisti non avessero eseguito alla perfezione Chopin e se lo stesso Rubinstein non avesse spaziato nell'intero repertorio pianistico esistente. A differenza di altri pianisti che hanno interpretato Chopin in chiave eminentemente romantica, forzando ora la malinconia, ora lo sconforto, ora l'eroismo, ora la delicatezza, ed eccellendo quindi nel singolo brano caratterizzato da tale aspetto, la visione di Rubinstein è sempre molto equilibrata, direi apollinea: Chopin ha sì slanci eroici e, agli antipodi, momenti di angoscia, ma sempre calati in un classicismo di fondo, la sua musicalità nasce dal cuore e dalla passione, ma senza forzature ed eccessi. Sono tutte incisioni in stereo e, anche se datate, tecnicamente molto belle e ben riuscite.

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Un’osservazione: per fortuna ai nostri giorni abbiamo uno sfolgorante Maurizio Pollini che in Chopin regala interpretazioni superbe e altrettanto piene di fascino e magia, ma il punto di vista interpretativo è così diverso, e così distanti sono gli approdi sonori finali, che per apprezzare appieno Pollini è indispensabile avere già ascoltato Rubinstein...!

 Chopin - Piano Works: Preludes, Impromptus, Waltzes, Ballades, Scherzos, Nocturnes, Piano Concertos. Claudio Arrau, pianoforte. Philips (7CD) Arrau è stato sicuramente un grandissimo interprete del compositore polacco, e ogni sua incisione è stata ed è tuttora un riferimento imprescindibile per conoscere a fondo Chopin. Stile ed interpretazioni sono incomparabili. Iniziamo dai due Concerti per piano e orchestra (con la London Philarmonic diretta da un giovane Inbal), che sono affrontati da Arrau con tempi ampi e mai frettolosi, tempi che consentono al pianista cileno di far sentire a chi lo ascolta ogni singola nota degli ampi arpeggi e delle impervie scale. Non si toglie nulla ai Rubinstein o alle Argerich, che restano sommi, ma non c'è altra registrazione dove l'unità del solista col direttore d'orchestra sia così perfetta e dove le parti orchestrali, generalmente un po' snobbate, siano così convincenti. I Notturni mantengono sempre quell'atmosfera di "sogno" ottenuta dal tocco raffinatissimo del pianista cileno che però talvolta ha la tendenza a soffermarsi troppo in alcuni dei brani. Bellissimi,

potenti,

gli

Scherzi.

Stupendi

gli

Improvvisi.

Conquistante l'epos delle Ballate, ove Arrau trova il senso delle grandi narrazioni puramente musicali e trasmette le strutture narrative eroiche e talvolta strazianti di questi pezzi meglio di Horowitz, Richter e Michelangeli. E la Barcarola, che segue immediatamente le Ballate, non ammicca all'impressionismo, né è una sorta di Notturno: nella visione di Arrau è piuttosto come una meravigliosa quinta Ballata. I Walzer e i Preludi mantengono con Arrau un sapore di "poesia sonora" che pochi altri pianisti sono riusciti a conferire a queste pagine. Ancora, l'opera Polonaise-Fantasie op. 61 riceve una delle più grandi esecuzioni mai registrata; lo stesso si può dire per il sorprendente resoconto della Fantasia op. 49, che trasmette un senso di narrativa trascinante. Arrau penetra più profondamente oltre le bellezze superficiali di queste opere rispetto alla maggior parte di altri pianisti, incluso Rubinstein. Insomma questa è una raccolta che, pur non essendo una "integrale" delle opere di Chopin (mancano le Polacche che Arrau non ha mai inciso, gli Studi che Arrau incise per la EMI da giovane, le Mazurche, e tanti altri pezzi celebri e meno celebri di Chopin) è una delle due o tre raccolte di assoluto riferimento per la musica di Chopin. In una parola, classe.

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Eccellente la rimasterizzazione, favorita dalla qualità di incisione che negli anni '70 solo la Philips era riuscita a mantenere così alta. Un cofanetto che ritengo sia da avere assolutamente.

 Horowitz plays Chopin, Vol. 1-2-3 RCA Victor Gold Seal

VOL. 1: Polonaise-Fantasie, Op. 61 - Ballade n° 1, Op. 23 - Barcarolle, Op. 60 - Étude, Op. 25, n° 7 - Étude, Op. 10, n° 5 - Ballade n° 4, Op. 52 - Waltz, Op. 69, n° 1 - Andante Spianato - Grande Polonaise Op. 22 VOL. 2: Sonata n° 2, Op. 35 - Nocturne, Op. 9, n° 2 - Nocturne, Op. 55, n° 1 - Impromptu n° 1, Op. 29 Étude, Op. 10, n° 3 - Étude, Op. 10, n° 4 - Ballade n° 1, Op. 23 - Mazurka, Op. 30, n° 4 - Scherzo n° 1, Op. 20 VOL. 3: Scherzo n° 1, Op. 20 – Scherzo n° 2, Op. 31 - Mazurka, Op. 41, n° 1 - Mazurka, Op. 7, n° 3 Mazurka, Op. 50, n° 3 - Mazurka, Op. 59, n° 3 - Mazurka, Op. 63, n° 2 - Mazurka, Op. 63, n° 3 - Nocturne, Op. 9, n° 3 - Nocturne, Op. 15, n° 1 - Nocturne, Op. 72, n° 1 - Waltz, Op. 34, n° 2 - Ballade n° 4, Op. 52 Polonaise-Fantaise, Op. 61 Sfido chiunque a trovare un pianista in grado di suonare con la dinamica di Horowitz, passaggi da pianissimo a fortissimo impossibili, note ribattute ad una velocità inumana, virtuosismo intriso di una sensibilità ed espressività ineguagliabile... per non parlare della chiarezza anche nelle parti veloci (cosa che invece è sempre mancata a Rubinstein). E non voglio non parlare della capacità di Horowitz di rendere unica e magica qualsiasi cosa suonasse; la visione pluridimensionale che aveva Horowitz nel suonare lo strumento è unica nella storia del pianismo: è come se un essere umano cercasse di vedere in quattro dimensioni, impossibile da concepire. Questi tre album sono un must per tutti coloro che amano le opere pianistiche di Chopin, ma soprattutto per coloro che bramano l'approccio romantico a questi meravigliosi pezzi. Horowitz è un grande interprete di Chopin e lo dimostra in molti dei brani eseguiti; alcune volte però è rigido, altre volte è

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purtroppo discontinuo. Rimane comunque stupefacente la sua padronanza dell'intera gamma della tastiera. La rimasterizzazione della RCA è eccellente: anche se queste performances non sono recenti, quasi ogni dettaglio del pianista è catturato in modo splendido e il tono del pianoforte è eccezionale.

 Chopin: Solo piano works Vladimir Ashkenazy (pianoforte). Decca (13 CD) Questa serie completa di opere per pianoforte di Chopin è una delle serie più coinvolgenti e ammalianti che sia mai stata incisa. Tredici cd che racchiudono preludi, improvvisi, studi, notturni, valzer, mazurche, polacche, sonate per quasi tredici ore di musica. Magistrale interpretazione di Ashkenazy, soprattutto in molti passaggi che richiedono enorme delicatezza e un tocco flebile sui tasti. La produzione pianistica di Chopin è qui resa al meglio, si ascolta per ore un cd dietro all'altro senza mai stancarsi. Impossibile

indicare

i

vertici,

perché

sono

tantissimi,

dall'Improvviso op. 66, alla Ballata n° 3, per non parlare della Sonata n° 2 con una sublime Marcia funebre, alla Polacca op. 40. Discretamente buona la qualità media tecnica, essendo per lo più costituita da registrazioni degli anni '70 e '80. Forse i puristi dell’alta fedeltà storceranno un po’ il naso: il suono del pianoforte risulta infatti talvolta purtroppo un po’ duro, ma possiamo considerarlo più che accettabile e largamente compensato dalla strepitosa interpretazione.

 Chopin: Preludes, Improptus, Barcarolle, Berceuse Alfred Cortot (pianoforte). Emi Classics Come pianista, Alfred Cortot (1877-1962) era particolarmente famoso per le sue interpretazioni di Chopin, Schumann e Liszt, e contribuì alle edizioni (e revisioni) delle loro opere, corredandole di meticolosi commenti. Come concertista Cortot rimase famoso per la sua "imperfezione" che lo portava a suonare spesso note sbagliate. Persino nelle sue registrazioni si avvertono imprecisioni, tuttavia Cortot - grazie al dono naturale di una sublime sensibilità interpretativa (fra le più raffinate del secolo scorso) - fu in grado di incantare ugualmente il pubblico con esecuzioni tuttora affascinanti ed emozionanti.

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Cortot è considerato uno dei più grandi interpreti del ‘900 e probabilmente rappresentò la fine di un'era: è infatti ritenuto l'ultimo esponente di una corrente di pensiero che prediligeva uno stile personale e soggettivo rispetto ad una tecnica precisa, con lo scopo di favorire un'interpretazione intuitiva ed autentica. Le incisioni di Cortot costituiscono anche per tale motivo dei documenti di grande valore. Cortot è uno dei pochi che poteva permettersi di suonare qualsiasi cosa di Chopin con un eleganza, uno stile e una raffinatezza unica: la sua continua ricerca di uno stile interpretativo denso di emotività lo condusse ad acquisire un controllo assoluto delle variazioni di intensità del tocco, grazie al quale riuscì ad esplorare sfumature timbriche e di colore sul suono fino ad allora inaudite. Questo disco contiene alcuni dei migliori brani di Chopin suonati da Cortot. La registrazione del 1933 dei Preludi stabilisce uno standard per tutte le registrazioni successive, anche se va detto che la registrazione del 1926 [la prima realizzata in assoluto] è più fresca e pulita, anche se malamente registrata. Il suono intensamente personale di Cortot è molto evidente nel complesso, così come il suo altrettanto personale "tempo rubato" Questa registrazione è eccellente, nonostante le registrazioni risalgano alla fine degli anni '30 e ai primi anni '40, ma la chiarezza e la qualità del suono sono ad alto livello e catturano davvero tutte le sfumature del suo modo di suonare.

 Chopin: Polonaise in la bemolle maggiore op. 53 "Héroïque" Vladimir Horowitz (pianoforte). Dall'album “Chopin: Ouvres pour piano - La discothèque idéale de Diapason, vol. 2. Se mai un brano fosse stato scritto specificatamente per un pianista, allora questa Polonaise Op. 53 è nata per essere suonata da Vladimir Horowitz. Certo che Horowitz fa qualche errore - chi non ne fa? - però l’emozione e la passione che trasmette in questo pezzo lasciano senza fiato. Ammiriamo la maestria pianistica dell’esecutore, autore di una lettura dal vivo di una forza impressionante per potenza dinamica, ardente, quindi “romantica” nel senso più pieno. Chopin fu artista di accese e tumultuose passioni, uomo lacerato da angosce e ossessioni profonde, dalla malinconia, dalla tristezza per la lontananza dalla sua terra. Egli reagisce al dolore “patriottico” con la musica, con pagine ispirate dalle notizie che gli arrivano dalla Polonia lontana. Il pianoforte si rivela strumento totale, capace di esprimere la coralità di tutto un popolo in rivolta. E già dopo le prime battute, magnificamente sorrette da Horowitz, apprezziamo l’impetuosa forza di questa

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composizione. Dopo una breve e possente introduzione, sboccia un canto appassionato: anzi, più che un canto, è un grido, un grido tempestoso, in cui la tastiera è impegnata in tutta la sua estensione.

 Chopin: 19 Nocturnes Arthur Rubinstein (pianoforte). Rca Red Seal Per chi non volesse acquistare tutto il corpus delle incisioni chopiniane di Rubinstein, vi sono interpretazioni “mirate”. I due CD contengono 19 Notturni di Chopin, incisi nel 1965. Non ci si può credere che la qualità del suono di oltre 40 anni fa possa essere così cristallina! Rubinstein non ha bisogno di commenti, nei Notturni resta comunque e sempre insuperabile: la giusta energica sonorità della sua esecuzione si combina con l'intensità emotiva che trapela dalla leggerezza del tocco. Questa è la mia registrazione preferita. Penso di aver ascoltato questo disco centinaia di volte, e non mi stanco mai di ascoltare Rubinstein mentre esegue questi Notturni. Un classico irrinunciabile!

 Chopin: Nocturnes Vladimir Ashkenazy (pianoforte). Decca Per me la versione di Ashkenazy è godibilissima, vi è un giusto equilibrio della musica di Chopin. L’interprete è sensibile, mai troppo rubato, ci sono diversi passaggi di arpeggi che sembrano volare verso il cielo. Inoltre il suono del pianoforte è molto bello ed anche la registrazione è eccellente. Un ottimo disco, che non dovrebbe mancare (assieme ad altri) nella collezione degli appassionati del compositore polacco.



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Alfred Cortot

Arthur Rubinstein

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 Chopin: Nocturnes Maurizio Pollini (pianoforte). Deutsche Grammophon Maurizio Pollini è considerato da oltre 50 anni il continuatore di Rubinstein, il quale in occasione del Concorso di Varsavia del 1960, che lanciò proprio Pollini nel firmamento concertistico, ebbe a dire del pianista italiano: «Questo giovane suona meglio di tutti noi, tecnicamente meglio di qualsiasi componente della giuria». La prima registrazione di Pollini dei Notturni di Chopin (singoli brani) risale agli anni '60 su EMI. Dopo quasi quattro decenni, il grande pianista italiano li registra in un unico insieme; Pollini non li tratta come semplici pezzi separati, ma come se fossero una singola composizione. Questo approccio consente all'artista e ai suoi ascoltatori di ascoltare i brani in un affascinante continuum. Confrontando le interpretazioni di 40 anni fa, non solo il modo di suonare di Pollini ha acquisito maggiore intuizione e ponderatezza, ma ha anche guadagnato molto più stile ed eleganza, specialmente quest'ultimo aspetto. Sotto le mani di Pollini, questi Notturni formano un insieme squisitamente elegante, ritmicamente e armonicamente compatto, senza alcuna traccia di confusione o affettazione. Gli ascoltatori sono portati a confrontarsi direttamente con il compositore senza alcun indebito abbellimento sia in forma di "rubato" che di eccessiva dinamica. I tempi sono più brillanti della maggior parte delle altre interpretazioni. È sorprendente come all'interno di un quadro così apparentemente stretto, Pollini trovi ancora ampio spazio per espressioni di dramma e passione, il tutto senza sacrificare l'innata poesia delle composizioni. Come se l'interprete fosse inesistente, questi Notturni vengono portati a una luce completamente nuova. Pollini è un pianista chopiniano dall’intensità cantabile, dal rigore nella lettura della partitura, con una gestualità appena accennata che non antepone la propria personalità a quella del compositore, senza le esagerazioni istrioniche tipiche dei nuovi pianisti cinesi come Yundi Li o Lang Lang. L’approccio di Pollini a Chopin è soprattutto di infinito rispetto: sono sue le più belle sonorità che si possano ottenere dal pianoforte.

 Chopin: The Nocturnes Maria Joao Pires (pianoforte). Deutsche Grammophon

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In questo disco possiamo apprezzare l'arte della grande pianista portoghese Maria Joao Pieres che esegue la serie completa di Notturni di Chopin in una splendida versione che è stata insignita di numerosi premi discografici. Elemento notevole è la presenza di tutti i 21 notturni di Chopin che invece non sempre ci sono in altre edizioni (che si definiscono complete), le quali abitualmente contengono solo 19 o 20 pezzi. I vari Notturni sono suonati con grande lirismo e delicatezza, tali da procurare all’ascoltatore profonde sensazioni emotive. E’ una grandissima e leggendaria interpretazione che rivaleggia, senza timore alcuno, con quelle di Rubinstein e Ashkenazy. E’ sorprendente constatare che la registrazione della Deutsche Grammophon, degli anni '80, è eccellente, cosa che non sempre avviene con questa etichetta, specialmente con le registrazioni di pianoforte.

 Chopin: Nocturnes Fou Ts'ong (pianoforte). Sony Essential Classics Questo CD sarà molto gradito a chi vuole ascoltare qualcosa di nuovo nell’interpretazione dei Notturni. Fou Ts'ong è un pianista cinese molto raffinato ma un po' dimenticato, ed è stato un eccellente interprete della musica di Chopin. Fou Ts'ong è originario di Shanghai, proveniente da una famiglia aristocratica della vecchia Cina. Ha studiato al Conservatorio di Varsavia. Per un certo periodo, fu sposato con la figlia di Yehudi Menuhin, anch'essa musicista. Questa ristampa di una registrazione del 1978 contiene molte gemme. Ognuno dei Notturni suonati da Fou ha una sua indipendenza: con questo artista si può sentire qualcosa che per ogni brano può essere vivace, oscuro, sognante, romantico, fantastico o virtuoso. Alcuni hanno commentato che il tempo in alcuni dei suoi Notturni è più veloce della media ed è oggettivamente vero, ma questo non è necessariamente un male se l'interpretazione rende il Notturno altrettanto godibile. Ad esempio, il tempo leggermente più veloce funziona bene nell'op. 72 n° 1. Per quanto riguarda la qualità del suono, il suo piano suona bene; la qualità della registrazione non è eccezionale ma soddisfacente. Di Fou Ts'ong consiglio anche l’interpretazione delle Ballate, considerata la migliore esecuzione di queste composizioni. [CBS Masterworks]

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Martha Argerich

Maurizio Pollini

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 Chopin: 4 Ballades - Barcarole - Fantasie op. 49 Krystian Zimerman (pianoforte). Deutsche Grammophon Definito da molti “il pianista perfetto” (e sicuramente uno tra i migliori in circolazione attualmente) il polacco Krystian Zimerman, vincitore del concorso “Chopin” di Varsavia nel 1975, non poteva che essere per forza di cose uno dei maggiori interpreti del suo compatriota Fryderyk Chopin. Questa registrazione del 1987, appassionata, ricca di pathos, ormai divenuta celebre tra i melomani grazie anche alla versione in video, presenta il corpus delle 4 Ballate, la Barcarola e la Fantasia in fa minore. Le 4 Ballate (la prima semplicemente favolosa!) di Chopin nelle mani di Zimerman assumono un colore metafisico di malinconica bellezza, un abbandono al deliquio inarrestabile. Le cascate finali sono armonicamente risolte con una graniticità da antologia, il tutto senza mai perdere di vista la linea melodica tenue, ma ben presente, del cantabile. Una interpretazione eccezionale. Superfluo aggiungere che questa è assolutamente “la” incisione di riferimento delle Ballate, di gran lunga una delle migliori edizioni mai registrate!

 Chopin: Polonaises Arthur Rubinstein (pianoforte). Naxos Questa registrazione delle Polacche è forse la migliore effettuata da Rubinstein. E’ superiore a quella degli anni '30 non solo per la qualità acustica ma per i tempi, che là erano un po' frettolosi e qua hanno la maestosità (quando serve) che un tempo troppo rapido precluderebbe. E' un'esecuzione regale (lasciatevi avvolgere dal nobile pathos della Polacca in Do minore!), dove alle parti vigorose, d'un vigore e d'un peso naturale che non nuoce mai al suono, le parti liriche e i pianissimi si collegano con una varietà assolutamente eccezionale. Forse quel che più colpisce è che queste meraviglie sgorghino dalle mani di Rubinstein con una spontaneità totale ed assoluta.



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Chopin: Polonaises Maurizio Pollini (pianoforte). Deutsche Grammophon – The Originals Pollini è un pezzo di storia pianistica italiana, è conosciuto a livello mondiale e continua a tenere alto il blasone e la tradizione della scuola Italiana. Allievo di Arturo Benedetti Michelangeli, Pollini è una garanzia per il suo approccio filologico, e quel che mi ha colpito di più in queste Polacche di Chopin è la forza della sua mano sinistra, un pestare dei tasti molto percussivo. E' paragonabile per certi aspetti alla registrazione di Rubinstein (vedi recensione precedente), che è un po' sulla medesima lunghezza d'onda, pur con le ovvie differenze (ad esempio gli episodi lenti sono più lenti che in Rubinstein). Incisione ottima, pianoforte naturale e ben bilanciato.

 Chopin: Concerto n° 1 per pianoforte e orchestra New Symphony Orchestra of London, dir. Stanislaw Skrowaczewski. Concerto n° 2 per pianoforte e orchestra Symphony of the Air Orchestra, dir. Alfred Wallenstein. Arthur Rubinstein (pianoforte). RCA Red Seal Gli unici due concerti per pianoforte e orchestra furono composti nel 1829 e nel 1830, il primo era in realtà il secondo di Chopin, mentre il secondo era il primo. Rubinstein aveva inciso queste composizioni nel periodo pre-bellico al culmine del suo periodo d’oro (1931 il n° 2, 1937 il n° 1) con John Barbirolli e la London Symphony Orchestra. A causa della scarsa qualità del suono la consiglio solo agli appassionati ed esperti. Questo disco invece contiene le incisioni dei due Concerti, eseguite dal 1958 al 1961. Il livello tecnico pianistico è elevatissimo: legato impeccabile, fraseggio perfetto, luminosità interpretativa.

Il 2°

Concerto sfiora la perfezione assoluta! Questo CD di Chopin di Rubinstein sarebbe meraviglioso se non fosse presente uno squilibrio sonoro tra l'orchestra e il pianoforte solo: l'orchestra suona troppo forte per sentire suonare il piano ad un volume abbastanza alto.



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Chopin: Concerti per pianoforte 1 & 2 Israel Philharmonic Orchestra, dir. Zubin Metha. Murray Perhaia (pianoforte). Sony Classical Murray Perahia è un artista sensibile, e non è un virtuoso legato ad interpretazioni muscolari (né lo era Chopin, del resto!). Tutte le sue interpretazioni sono preparate con cura e sensibilità, colgono le sfumature della musica, ma non sembrano mai rigide o studiate: la sua naturale eloquenza e grazia alla tastiera lo rendono un pianista ideale di Chopin. In perfetta armonia con il pianista è il Maestro Zubin Mehta che dirige l'Israel Philharmonic Orchestra: insieme offrono una interpretazione sensibile, sobria, romantica, in maniera particolare nel Concerto n° 2 che non è azzardato definire sublime. Da acquistare senza indugi!



Chopin: Concerti per pianoforte n. 1 & 2 Los Angeles Philharmonic Orchestra, dir. Carlo Maria Giulini. Krystian Zimerman (pianoforte). Deutsche Grammophon – The Originals I concerti di Chopin del binomio Zimerman-Giulini sono una interpretazione classica e tuttora sempre attuale. Nonostante queste esibizioni siano datate (1986), sono ancora esempi significativi di come i due concerti di piano di Chopin possano brillare con la giusta combinazione di solista, direttore d'orchestra e orchestra. Giulini

grandissimo

concertatore

e

Zimerman

interprete

appassionato, impetuoso e lirico: una coppia formidabile. Entrambe le letture trovano un giovane Zimerman tecnicamente impeccabile con un raffinato senso della musica.

Il giovane

pianista polacco in queste incisioni dovette rapportarsi (e sottomettersi) con un vate della musica come il maestro Carlo Maria Giulini che non ha mai amato la fretta e il fraseggio scattante e asciutto, ma piuttosto sonorità pastose, morbide e tempi comodi: ne è scaturita un’interpretazione indimenticabile per la poesia, la struggente delicatezza e la brumosa patina che la avvolge. La qualità della registrazione è eccellente, il suono è abbastanza soddisfacente nella maniera delle registrazioni pre-digitali Deutsche Grammophon (primi anni '70) con un equilibrio incredibile tra il solista e l'accompagnamento orchestrale.

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Chopin: Concerti per pianoforte n. 1 & 2 Orchestra Symphonique di Montreal, dir. Charles Dutoit. Martha Argerich (pianoforte). Emi Classics Nei due concerti scritti da Chopin, il pianoforte è la stella assoluta, tutti gli elementi orchestrali sono impostati per valorizzare lo strumento solista, evidenziandone la voce così come concepita dal compositore (in quel momento lasciava la sua amata Varsavia per un esilio senza fine). La loro esecuzione richiede un pianista con abilità eccezionali e sensibilità speciale, poiché la combinazione di sentimenti emotivi e passaggi audacemente audaci richiede più di una semplice empatia da parte dell'interprete. L'arte di Martha Argerich ha tutti gli ingredienti necessari per eseguire questo repertorio con assoluta bravura. In questa registrazione, risalente al 1998, la grande pianista argentina ha prodotto un’interpretazione assoluta: ella utilizza le più profonde risorse musicali della partitura con una tecnica impeccabile e un senso fermo della frase, con lirismo misurato e virtuosismo abbagliante dove richiesto, professando un rubato intelligente e una cura ispirata per il qualità del suono in tutto, Questo disco può essere considerato una pietra angolare nel catalogo discografico di queste composizioni.

 Chopin: Concerto per pianoforte n°1 / Listz: Concerto per pianoforte n° 1 London Symphony Orchestra, dir. Claudio Abbado. Martha Argerich (pianoforte). Deutsche Grammophon – The Originals Al proposito della maestria della Argerich, è indispensabile citare l’intensa esecuzione del Concerto n° 1, accompagnata dalla straordinaria esecuzione della London Symphony Orchestra diretta da Claudio Abbado, del 1968, nel disco abbinata al Concerto n° 1 di Listz. La lunga introduzione orchestrale è insolitamente ampia, come se fosse una parte riscoperta della Sinfonia Incompiuta di Schubert. Questa ampiezza permane per il resto del movimento, facendo luce su dettagli preziosi che altrimenti sarebbero stati troppo fugaci per essere apprezzati. Il movimento lento è un delicato poema d'amore. Infine, nel Rondò tutte le inibizioni sono gettate ai venti: la musica si muove potente e turbolenta.

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The legendary 1984 Moscow Concert. Chopin: Concerti per pianoforte n° 1 e 2 Moscow Philharmonic Orchestra, dir. Dmitri Kitajenko. Evgeni Kissin (pianoforte). RCA Victor Red Seal La registrazione di Kissin in CD dei due Concerti di Chopin è del 27 marzo 1984, quando il giovanissimo pianista aveva appena 12 anni e 5 mesi! Ciò dimostra chi è Kissin. Registrata dal vivo al Conservatorio di Mosca, questa è una performance davvero leggendaria: che un dodicenne possedesse la tecnica necessaria, la comprensione musicale, la maturità espressiva e la concentrazione sostenuta, è quasi incredibile. Kissin sembra giocare con il pianoforte con grazia e delicatezza; il suo tono caldo, musicale, a volte potente rivela in pieno l’impressionante precoce talento musicale del giovane musicista. La sua mano sinistra gioca con il potere di un adulto robusto, la sua mano destra gioca con la fluidità, la precisione e le sfumature di un pianista di altissimo livello. I concerti per piano di Chopin sono entrambi molto conosciuti al pubblico. Nel primo Kissin è più melodioso, lirico e accattivante, ma dimostra anche un sentimento innato per l'oscura malinconia e drammaticità del secondo concerto, i cui numerosi passaggi virtuosistici vengono svolti con incredibile facilità: il fraseggio, le libertà e le transizioni hanno un equilibrio naturale perfettamente bilanciato, raro anche tra gli artisti esperti. Questa è davvero una vera performance leggendaria di un virtuoso in così giovane età.

 Chopin: Concerto per pianoforte n. 1 in mi minore op.11. Mazurka in la minore op. 17/4 Orchestra Filarmonica di Varsavia, dir. Antoni Wit. Nikolai Demidenko (pianoforte). Concerto per pianoforte n.2 in fa maggiore, op.21 - Studio in do minore, op. 10/12 - Valzer in mi minore op. postuma Orchestra Filarmonica di Varsavia, dir. Antoni Wit. Evgeny Kissin (pianoforte). Accentus Music Questo è il DVD (anche in versione blu-ray) del concerto tenuto da Evgeni Kissin nella sala della Filarmonica di Varsavia per il bicentenario della nascita di Chopin: suona il Concerto n.2 (il n. 1 lo suona Nikolay Demidenko). Nulla dico della grandezza, del virtuosismo e della poesia di questo concerto che non sia già detto prima (temo inevitabilmente di ripetermi), dico solo di ascoltare e guardare, perché Kissin che suona è uno spettacolo anche visivo. Kissin suona anche due bis, il cui livello varrebbe da solo un disco a parte: lo studio op. 10 "Il rivoluzionario" e il Valzer in Mi minore opera postuma.

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Da guardare (sono uno spettacolo nello spettacolo) le facce dei primi violini dell'orchestra che ascoltano i bis seduti dietro a Kissin..... E’ una mia personale impressione, ma il duo Zimerman-Giulini a confronto con il giovane Kissin mi sembra lento e fiacco, anche se indiscutibilmente molto raffinato.

 Chopin: Improptus. Fantasie op. 49. Barcarolle. Berceuse. Murray Perahia (pianoforte). CBS Records Masterworks Questo disco, molto ben registrato e pubblicato nel 1987, ha ottenuto premi considerevoli, incluso il Grand Prix du Disc 1987. I quattro Improptus sono fondamentalmente musica da salotto, ma i tre pezzi che completano questo CD sono qualcos'altro: la Barcarola è una delle creazioni più belle di Chopin; il Berceuse è un brano silenzioso, rapito, quasi religioso; e la Fantasia in Fa minore è semplicemente una delle ispirazioni più profonde di Chopin. Lo stile di Perahia su questo disco è marcatamente lirico: già al primo ascolto, si coglie in pieno l’anima di questo grande pianista statunitense che suonava Chopin, sfumata, poetica, precisa, ma non troppo tragica e percussiva come quella che a volte troviamo con altri pianisti. Perahia è il pianista da salotto ideale, tocco leggero, tono piacevole, tecnica solida e gusto impeccabile (lo stesso stile lo troviamo nei suoi godibilissimi Concerti di Mozart!): alcuni critici musicali però preferiscono un approccio più apertamente drammatico in questi brani e potrebbero trovare l'approccio di Perahia un po’ affievolito.. Penso che gli appassionati di Chopin (che amano acquistare più di una versione di questi brani, soprattutto degli Improvvisi e della Fantasia) troveranno questo disco avvincente e gratificante, ma vorranno anche possedere un’altra incisione che offre un’anima drammatica e una potenza muscolare più evidenti. Questo disco comunque è altamente raccomandato.

 Chopin: Sonate per pianoforte 2 & 3 Maurizio Pollini (pianoforte). Deutsche Grammophon

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La Sonata n. 2 op. 35 in si bemolle minore fu composta tra il 1837 e il 1839 a Nohant, e deve la sua celebrità al terzo movimento, noto come Marcia funebre, di cui in era moderna sono stati eseguiti moltissimi arrangiamenti orchestrali e che ancora oggi è uno dei brani più eseguiti in tutto il mondo. Chiamerei melodrammaticamente l’intera sonata una danza della morte in quattro movimenti. Di notevole rilievo le esecuzioni pianistiche di Maurizio Pollini, che ha fatto spesso di questa composizione il suo cavallo di battaglia nei concerti. L’esecuzione è eccezionale. I primi due movimenti hanno un abbandono selvaggio, quasi folle, che rende l'atmosfera silenziosa del movimento lento ancora più minacciosa e intensa. Autorevole è la parola chiave qui: gli audaci contrasti dinamici di Pollini e il suo battito deciso e mai in ritardo nella stessa Marcia funeraria rendono subito chiaro il motivo di questo aggettivo. Il modo aristocratico e autoritario di Pollini suonare è superbo. Nel Finale Pollini accentua la visione chopiniana di un pessimismo e un modo di concepire l'aldilà che lascia davvero poco spazio alla speranza; riporto la definizione pittoresca che Anton Rubinstein diede di questo movimento: “vento ululante fra le tombe.” La Sonata n° 3 è praticamente sconosciuta, ma è molto simile ad altri lavori di Chopin (la Bacarolle, la Ballade n° 4) con le sue qualità introspettive, serene e meditative. Anche qui la performance di Pollini è perfetta. Questa registrazione è una delle più grandi interpretazioni di Chopin mai incise su disco.

 Chopin: Preludes - Piano sonata n°2 Martha Argerich (pianoforte). Deutsche Grammophon Nella loro folgorante escursione attraverso le ventiquattro tonalità in un onnicomprensivo caleidoscopio di forme e di climi espressivi, i Preludi op. 28 rappresentano una delle più complete quintessenze del genio di Chopin, della sua capacità di creare dal nulla forme musicali perfettamente compiute e originali e di racchiudere in poche battute significati universali. Come spirito e struttura, molti Preludi presentano affinità, senza però identificarvisi totalmente, con alcune delle forme chopiniane più tipiche: ad esempio i n. 13 e 15 sono contigui ai Notturni, il n. 7 alle Mazurke, il n. 11 ai Valzer, i n. 3,5,8,10,12,16 agli Studi; altri invece presentano soluzioni del tutto nuove ed aperte, come i nn. 1, 14,18 e 22, sorta di recitativi abissali ed inquietanti.

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Fra le numerose incisioni presenti, una delle più affascinanti è sicuramente quella del 1977 di Martha Argerich, contrassegnata da tempi piuttosto rapidi (per rendere l’idea, la durata complessiva è di quasi cinque minuti in meno rispetto alla coeva versione di Pollini!) e concepita nel segno di una magnetica e personalissima sintesi di passionalità febbrile e sottigliezza espressiva. Viraggio interpretativo che raggiunge gli esiti più strabilianti in momenti come il vorticoso Preludio n. 16, affrontato con una velocità, un’energia, una luminosità e una precisione che lasciano senza fiato; e lo stesso discorso vale per l’agilità percussiva del n. 14, i fraseggi tormentati dei nn. 2 e18, le girandole di luce dei nn. 3 e 10. Ma i vertici interpretativi sono davvero ovunque: si pensi, per non citare che due delle pagine più note, alla luminosa e incantata morbidezza del n. 7, o al graduale scivolare dall’idillio all’incubo nel celeberrimo n. 15. Per non dire dei due preludi supplementari, con l’innocente impalpabilità dell’opera postuma e il sottile senso di malessere dell’op. 45. Altra mirabile riuscita è la Sonata op. 35 incisa nel 1975, pagina spigolosa che la virtuosa argentina concepisce nel segno della morbidezza: si vedano la prima parte dello sviluppo del primo tempo o gli eterei trii dello scherzo e della marcia funebre. Il momento più personale sta però probabilmente dove meno lo si aspetterebbe, vale a dire nel brevissimo ed enigmatico finale, affrontato con una fluidità ritmica

e

una

liquidezza

timbrica

di

sapore

decisamente

impressionistico. L’incisione dei Preludi è disponibile in due diversi abbinamenti (con capolavori parimenti essenziali): nel CD della collana Originals li troviamo associati alla Sonata op. 35 e in quello della Galleria alla Polacca Eroica, alla Barcarola e allo Scherzo n. 2.

 Chopin: I Preludi Rafal Blechacz (pianoforte) Deutsche Grammophon Il polacco Rafal Blechacz è un artista che rappresenta una delle più grandi promesse del pianismo internazionale, uno dei giovani pianisti geniali del nuovo millennio. Vincitore del primo premio e di tutti i premi speciali al concorso “Chopin” di Varsavia del 2005 (al termine del concorso, uno dei giudici

disse:

"Blechacz

era

così

superiore

da

impedire

l'assegnazione del secondo premio agli altri finalisti"), Rafal Blechacz ci regala in questa registrazione di debutto per la Deutsche Grammophon (2006) una memorabile interpretazione dei Preludi di Chopin, un vero gioiello della discografia per pianoforte.

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Chopin: 10 Mazurkas - Preludio op. 45 - Ballade op. 23 - Scherzo op. 31 Arturo Benedetti Michelangeli (pianoforte). Deutsche Grammophon Arturo Benedetti Michelangeli era conosciuto come un perfezionista ossessivo, probabilmente è questa la ragione per la dimensione limitata del suo repertorio. E’ stato uno dei più grandi interpreti di Chopin, io però trovo che le sue interpretazioni del musicista polacco sono fredde e poco coinvolgenti, anche se impeccabili. Non ha registrato nessuna opera completa di Chopin, preferendo suonare in recital con programmi di vari pezzi anche di più compositori. In questo disco Michelangeli suona 10 delle 49 Mazurke, il Preludio op. 45, la Ballade op. 23 n° 1, e lo Scherzo op. 31. Le 10 Mazurke sono suonate con emozioni non eccessive. Il Preludio è sorprendente: il suo pianissimo è morbido come un respiro e superbamente controllato. Anche la Prima Ballata è superba, una performance meravigliosa, ma si avverte l'intensità espressiva eccessivamente controllata: sappiamo che il suo modo di suonare è sempre stato privo di emozioni, e dobbiamo prendere atto della sua freddezza. A me piace poco. Commenti sovrapponibili possono essere fatti per quanto riguarda lo Scherzo.

 Chopin: 14 Valzer e altri brani Dinu Lipatti (pianoforte) Emi Classics Chi conosce Dinu Lipatti sa quanto siano preziose le sue incisioni, in molti casi considerate come un punto di riferimento per tecnica e interpretazione. Questo disco è un’ulteriore grande performance del pianista dalla "spiritualità divina", come molti critici l'hanno definito. Sono personalmente rimasto rapito dalla bellezza di questi brani, Lipatti sa davvero infondere nella sua musica qualcosa di magico che arriva dritto al cuore. Consiglio fortemente l'acquisto di questo CD, non solo a chi già conosce Lipatti, ma anche e soprattutto a chi non l'ha mai ascoltato: acquisterete un piccolo tesoro musicale.

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Chopin: 14 Valzer e altri brani Arthur Rubinstein (pianoforte). RCA Red Seal Arthur Rubinstein ha dato nuova linfa a Chopin e i Valzer non fanno certo eccezione. Registrati dalla RCA nel 1963, sono molto espressivi, e nessuno di essi presenta un tempo troppo veloce o troppo lento, nessun esibizionismo, solo musica sublime suonata da un artista sublime. Il suono del pianoforte non è brillante ma presenta un leggero suono metallico per gli acuti.

 Chopin: Waltzes Vladimir Ashkenazy (pianoforte). Decca Ashkenazy ha sempre prodotto un suono molto particolare alla tastiera, indipendentemente da cosa stia suonando. Il suo tono è sontuoso e pieno, quasi dolce, con le note superiori che suonano come una campana. Naturalmente, l'esecuzione è invariabilmente impeccabile da cima a fondo, dall'inizio alla fine. Lucida anche i passaggi più difficili con una naturale disinvoltura. Le sue interpretazioni tendono ad essere semplici, evitando la bravura fine a se stessa. Questa registrazione dei Walzer di Chopin mostra Ashkenazy su vette molto alte. Il suo suono è sfumato, risonante e fluido. Queste sono letture splendide, degne di un posto accanto alle registrazioni di Arthur Rubinstein del 1963 e con un suono migliore e più pulito. Altamente raccomandato!

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I grandi Direttori del ‘900: Karel Ancerl CENNI BIOGRAFICI Karel Ancerl nacque l'11 aprile 1908 nel piccolo distretto di Tucapy vicino a Sobeslav, in Boemia in una famiglia che, pur essendo molto colta, non aveva alcun tradizione musicale. Sin da bambino imparò a suonare il violino ed il pianoforte e, grazie alle sue doti, già all'età di 11 anni suonava nell'orchestra del suo paese. Contro la volontà dei suoi genitori, nel 1926 si iscrisse al Conservatorio di Praga dove studiò violino, composizione e direzione d'orchestra fino al 1929 con Václav Talich. Fu poi assistente di Hermann Scherchen a Strasburgo, dal 1929-1931 fu a Berlino e successivamente a Monaco di Baviera. Ritornò in Cecoslovacchia tra il 1930 e il 1933 e acquisì grande fama con la direzione dell'orchestra jazz del Libero Teatro. Dal 1933 al 1939 (fino alla Seconda guerra mondiale) egli diresse l’Orchestra della Radio cecoslovacca, poi, con l’annessione della Cecoslovacchi al Terzo Reich, le leggi razziali (Ancerl è ebreo) lo esclusero da ogni contesto pubblico. Nel 1942 fu deportato dai nazisti al Campo di concentramento di Theresienstadt (Terezin), la città-ghetto voluta dai nazisti al duplice scopo di gettare polvere agli occhi della Croce Rossa e di servire da stazione di smistamento verso i campi di sterminio. Tra i prigionieri, molti dei quali intellettuali ed artisti, si organizzò un’attività musicale ricca di opere prime assolute, quelle degli spartiti scritti dai compositori prigionieri, ad esempio Studio per un'orchestra d'archi di Pavel Haas.

[Musica a Terezìn]

Mentre l'iniziativa di Ancerl era la prima del suo genere a Terezín, nel 1944 c'erano altre quattro orchestre e diversi gruppi minori attivi nel campo. L'orchestra d'archi di Ancerl prosperò fino all'ottobre del 1944, quando Ancerl e la maggior parte dei musicisti che condusse furono deportati ad Auschwitz. Egli sarà l’unico della sua famiglia a sopravvivere. Dopo la fine della guerra, fino al 1950 diresse l'Orchestra sinfonica di Radio nazionale dal 1950 al 1968 quando venne nominato direttore principale dell'Orchestra Filarmonica Ceca. All'inizio l'orchestra lo accolse con una certa esitazione, ma i membri si adattarono gradualmente all'intenso programma di lavoro e alle elevate esigenze artistiche di Ancerl (era un direttore instancabile ed esigentissimo); l'orchestra iniziò a riscuotere successi all'estero e raggiunse fama internazionale.

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L'invenzione rivoluzionaria del disco di lunga durata durante gli anni '50 e la perfezione della tecnologia di registrazione in quel periodo portarono ad una incredibile espansione delle performances discografiche dell’Orchestra.

[Karel Ancerl e l O hest a Filarmonica ceca]

Le registrazioni di Ancerl avrebbero presto ottenuto riconoscimenti con prestigiosi riconoscimenti internazionali di grammofono; le loro riedizioni su CD (sono 42 i dischi ristampati dalla Supraphon nei 42 volumi della Gold Edition!) ancora oggi stupiscono gli ascoltatori con la loro perfezione tecnica e la qualità del suono. Se si dà un'occhiata ai programmi di quegli anni (è di 776 il numero totale dei suoi concerti con la Filarmonica Ceca!), si noterà la frequenza con cui egli eseguì le opere dei compositori cechi e come servì consapevolmente la promozione della musica ceca. Con la Primavera di Praga una nuova svolta: Ancerl credette nel cambiamento e per inaugurare il festival puntò sul ciclo dei poemi sinfonici La mia patria di Bedric Smetana. Non c'è dubbio che, grazie a Karel Ancerl, la Filarmonica Ceca arrivò all'élite delle migliori orchestre internazionali: tanto più dolorosa per l'orchestra fu la decisione del direttore principale di emigrare dopo l'invasione sovietica della Repubblica Socialista Cecoslovacca nel 1968. Ancerl emigrò in America e nel 1969 succedette a Ozawa sul podio della Toronto Symphony Orchestra, ruolo che ricoprì fino al 1973, anno della sua morte. La nostalgia per la patria lontana rimarrà sempre grande, e Ancerl tornerà a Praga per due concerti. Dopo qualche anno, le afflizioni che aveva sofferto durante la guerra cominciarono a pesare sulla sua salute, vieppiù gravata da eventi negativi familiari. Morì a Toronto il 3 luglio 1973.

STILE DIRETTORIALE Senza sottovalutare l'enorme debito artistico di Vaclav Talich e Rafael Kubelik verso la creazione del carattere estetico fondamentale della Filarmonica Ceca, possiamo dire che Karel Ancerl fu il suo primo

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direttore d'orchestra di fama internazionale: egli guidò l'orchestra verso virtuosismi magistrali e le diede grande risonanza internazionale. Le sue performances artistiche erano una sintesi di una concezione perfettamente calcolata e di un lavoro minuzioso con la cura dei dettagli: erano fondate su una perfetta conoscenza di ogni aspetto della partitura, sulla capacità di cogliere perfettamente la costruzione del brano da suonare, su uno stile raffinato e, ultimo ma non meno importante, su un linguaggio

gestuale

meravigliosamente

comunicativo

e

perfettamente comprensibile. Tutte le sue interpretazioni post-belliche sono animate da un'energia impressionante che dà un respiro epico, una dimensione inaspettata. Con Ancerl, ogni opera sembra un inno alla vita. Ancerl portò i migliori artisti cechi a far parte dell'orchestra, lavorò con loro sistematicamente e riuscì a convincere i suoi musicisti della correttezza della sua concezione, forse la condizione più importante per il successo artistico in questo campo. Fra i suoi allievi si ricorda Libor Pešek. Ancerl è noto per le sue interpretazioni di musiche di autori del XX secolo, quali Igor Stravinskij, Arnold Schönberg, Béla Bartók e Sergej Prokof'ev, e di compositori cechi come Antonín Dvorák e Bohuslav Martinu.

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DISCOGRAFIA La discografia di Ancerl è ampia e copre una vasta gamma di compositori. La Casa discografica Supraphon ha concepito un grandioso progetto di riedizione delle interpretazioni del direttore boemo sotto la voce comune di Karel Ancerl Gold Edition. Questa serie è stata premiata nel 2006 dal Grand Prix du Disque dell'Accademia di Charles Cros, il premio più prestigioso, assegnato insieme per l’eccezionale livello artistico e tecnico delle registrazioni. La Karel Ancerl Gold Edition è composta da un totale di 42 titoli, e ogni disco è corredato da una copiosa documentazione informativa. E’ un compito titanico elaborare la critica di ciascun singolo pezzo, che riservo volentieri ai professionisti del settore: mi limiterò pertanto a segnalare quelle che sono ritenute le sue interpretazioni migliori.  SMETANA: MÀ VLAST Questa versione è una rimasterizzazione del 2002 di una registrazione in studio di Praga del gennaio 1963. Questa è una performance eccezionale. Ancerl riproduce nella musica il ritmo della musica ceca. Anche l’orchestra è splendida: a causa delle abitudini musicali del tempo e dei piccoli strumenti utilizzati da molti dei suonatori di ottoni e di fiati, tutti di nazionalità ceca, la musica viene riprodotta con uno stile del tutto personale (e “indigeno”!) che al giorno d’oggi non è più udibile a causa della composizione internazionale degli orchestrali. Altamente raccomandato!

 DVORAK: SINFONIA N° 9 “DAL NUOVO MONDO” Ancerl è il più ceco fra tutti i direttori che si sono cimentati con questa composizione. E’ una delle grandi registrazioni della Sinfonia del" Nuovo Mondo ", un racconto ardente e appassionato. Karel Ancerl vede questa composizione come un

pezzo tragico: la sezione di

sviluppo del primo movimento e coda, e in particolare nel finale in cui gli accordi di apertura del secondo movimento ritornano sui timpani martellanti, hanno una forza e un impatto devastanti. L'orchestra e il direttore sono un’unica entità, con una dinamica esaltante, resa ancora più splendente dalla rimasterizzazione veramente ai limiti della perfezione.

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 DVORAK: CONCERTO PER VIOLINO Vorrei eludere la questione se questo di Dvorak sia o meno uno dei "grandi" concerti per violino. Se si vuole una grande interpretazione “internazionale” la migliore è la recente registrazione di Anne-Sophie Mutter con Manfred Honeck e i Berliner Philharmoniker (2013); se invece si preferisce un'interpretazione che esalti il sapore ceco e lirico della scrittura, questa è veramente la versione di riferimento. Tralaltro Suk è il pronipote del compositore! Questa

registrazione

del

1960

rimane

particolarmente

convincente per il suono dal timbro costantemente dolce del violino di Suk, accompagnato dalla sensibilità interpretativa di Ancerl, che interpreta sempre il flusso e il riflusso delle emozioni di cui questa musica è piena. Ciò che è particolarmente meraviglioso è il modo in cui Suk e Ancerl distribuiscono i temi principali e si sostengono a vicenda mentre il solista e l'orchestra, rispettivamente, diventano dominanti. L’orchestra, come sempre, offre un suono di eccezionale qualità. L'attrazione principale di questo intero CD è il suo ricordo nostalgico di uno stile di musica “innocente” che è andato alla deriva con il tempo.  DVORAK: REQUIEM OP. 89 La decisione di Dvorak di scrivere un Requiem non fu motivata dalla morte di qualcuno vicino a lui o da una premonizione della propria morte; l'impulso per la composizione era molto più prosaico, cioè una commissione del festival musicale di Birmingham per un'opera "di primaria importanza". Il Requiem è uno dei lavori più intellettuali di Dvorak. È privo di qualsiasi

forma

di

ostentazione

superficiale,

pathos

o

malinconia; la contemplazione della morte non evoca terrore, ma il dolore nel dover dire addio a quelli più vicini a lui, alla natura e alla sua amata musica. Tutte queste sensazioni di Dvorak vengono lucidamente rappresentate da Ancerl in questa registrazione, che è considerata la versione di riferimento per la sua bellezza ineguagliabile. Il cast è decisamente di livello altissimo: Maria Stader (soprano), Sieglinde Wagner (contralto), Ernst Haefliger (tenore), Kim Borg (basso), il Chœur Philharmonique de Prague.

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 JANACEK: SINFONIETTA / MARTINU: THE PARABLES La registrazione incomparabile di Karel Ancerl della risplendente barbarica Sinfonietta di Janácek rimane non solo la migliore versione disponibile del lavoro, ma è anche la migliore registrata, in particolare in questo nuovo trasferimento incredibilmente vivido. Sebbene sia stata registrata nel lontano 1961, nessun'altra versione trasmette in modo così efficace lo splendore panoramico dell'apertura a tromba, nessun'altra offre una tale chiarezza in passaggi come la scrittura del vento che fa increspare il sole e nessun altro equilibra l'orchestra con i massicci ottoni delle ultime pagine in modo così naturale e pulito. Eccitazione, accuratezza, passione, colore ed immediatezza espressiva sono i colori della splendida orchestra e del suo direttore. The Parables è uno dei tardivi capolavori di Martinu, registrato meno frequentemente e quindi i confronti sono pochi. Il suono è splendido, e l'opera stessa è un piacere scintillante e sensuale. L'apertura del terzo movimento, con gli archi e lo xilofono in primo piano, è indimenticabile.  JANACEK: TARAS BULBA / MESSA GLAGOLITICA Queste registrazioni sono servite come edizioni di riferimento in questo repertorio dal giorno in cui sono state registrate, e così rimangono. Taras Bulba di Karel Ancerl cattura il dramma, la forza e il colore della musica come poche altre versioni hanno: per esempio, basta ascoltare l'apertura del secondo movimento, con la sua increspata arpa contro gli archi taglienti. Le poche modifiche alla stravagante orchestrazione di Janácek (i timpani alla fine, per esempio) sono logiche e apprezzabili. Il glorioso suono della Czech Philharmonic e la registrazione perfettamente

bilanciata

completano

un

quadro

entusiasmante. Nella Messa glagolitica emerge il meraviglioso canto del Coro Filarmonico di Praga e una schiera stellare di solisti (incluso il leggendario tenore ceco Beno Blachut), e il risultato è una performance indimenticabile Il suono rimasterizzato di queste esibizioni rimane tra i migliori di quelli prodotti dalla Supraphon. C'è tanta saggezza musicale, calore e gioia di affermazione della vita in queste esibizioni che non sarei per nulla sorpreso se vedessi l’ascoltatore commuoversi fino alle lacrime.

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 MAHLER: SINFONIA N° 1 Questa registrazione è riconosciuta una delle migliori interpretazioni della Sinfonia n° 1 di Mahler, da non sfigurare con quelle (stratosferiche) di Bruno Walter, Rafael Kubelik, Leonard

Bernstein (il primo ciclo) e Seiji

Ozawa. Il carattere giovanile della sinfonia è catturato in modo superbo: l'interpretazione è vivace, ispirata, e l'orchestra suona con un'enorme energia, abilità e concentrazione. Ricchissima di sfumature e contrasti, è una lettura che impressiona per la compattezza e la teatralità. Il suono è buono anche grazie all'eccellente ingegneria di F. Burda, che cattura l'acustica spaziosa della Dvorák Hall of Rudolfinum a Praga.  MUSSORGSKIJ: QUADRI DI UN’ESPOSIZIONE - UNA NOTTE SUL MONTE CALVO / BORODIN: NELLE STEPPE DELL’ASIA CENTRALE Questo disco è uno splendido omaggio di Ancerl a Mussorgskij e Borodin. I Quadri di un’esposizione nella versione di Ravel: ‘900 puro, tempi veloci, ritmo e dinamica in evidenza, chiaroscuri con naturalezza e vigore. Raramente questa composizione è stata mai interpretata con tanta ampiezza di colori e così ricca di emozioni. Nella Notte sul Monte Calvo, il direttore d'orchestra dà corpo alla potenza fantasmagorica voluta da Mussorgskij. La lettura di Ancerl dipinge perfettamente, in un ritmo frenetico, questo fantastico paesaggio che il compositore ci dà per vedere e evidenzia perfettamente nei colori incandescenti dell'epilogo, il rassicurante avvento dell'alba. Nelle steppe dell'Asia centrale, Borodin ha composto un poema sinfonico

la

cui

interpretazione

di

Ancerl

riproduce

perfettamente la sensualità orientale attraverso una lenta contemplazione di spazi infiniti. Sottolinea inoltre, con questa dolce lettura, il fascino slavo dell'opera, sublimato dagli strumenti a fiato di un'ammirevole sonorità.

 SHOSTAKOVICH: SINFONIA N° 7 “LENINGRADO” Negli ultimi anni vi è stato un prezioso lavoro di riabilitazione sulla sinfonia "Leningrado", che lo stesso Shostakovich disprezzava. Ora questa Sinfonia è (tardivamente) amata, in parte a causa delle due famose registrazioni di Leonard Bernstein (Sony e DG), ma soprattutto per l'afflusso di direttori post-sovietici, come Valery Gergiev, per i quali tutto questo è musica sacra, dato che si concentra sulla lotta più disperata del loro Paese per respingere l'invasione straniera.

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L'alta emotività e il dramma tragico di Shostakovich non possono essere più credibili da nessun'altra parte che in questa incisione, consegnata da un direttore d'orchestra la cui amara esperienza di guerra è rimasta con lui per tutto il resto della sua vita: il suono è vivido, energico, espressivo, mostra tutto il suo pathos. I tempi sono perfetti. Tecnicamente, è una registrazione mono del 1956 e non può essere paragonata dal punto di vista di resa sonora alle versioni moderne: tuttavia è dignitosa, abbastanza chiara e ben bilanciata, bella da ascoltare. Questa è ancora una versione molto coinvolgente di questa sinfonia, altamente raccomandata.  BARTOK: CONCERTO PER VIOLINO N° 2 / CONCERTO PER PIANOFORTE N° 1 Questo disco mette insieme i due più grandi concerti che Bartok ha scritto in versioni particolarmente belle e autentiche e in registrazioni ben rimasterizzate. La registrazione del Concerto per violino risale al 1965 e il Concerto per pianoforte al 1961. Le due interpretazioni differiscono in enfasi da molte registrazioni più recenti ponendo più enfasi sul lirismo piuttosto che sulla spinta drammatica. Andre Gertler era un amico intimo di Bartok e tra il 1925 e il 1938 si unì a Bartok per una lunga sequenza di concerti congiunti con molte prime esibizioni delle composizioni di Bartok. Chiaramente i due uomini hanno avuto una relazione artistica stretta e sostenuta, e l'empatia di Gertler con la visione di Bartok non può mancare in questa registrazione. L'approccio alla linea melodica è molto lirico. L'ultimo movimento porta un senso più chiaro dell'elemento "danza". Il concerto per pianoforte è stato scritto proprio alla fine della vita di Bartok e l'enfasi è lontana dai ritmi dei primi due concerti. Il secondo movimento in queste esibizioni è in particolare profondamente pastorale e pieno di suoni notturni. I movimenti esteriori sono più simili alla danza piuttosto che drammatici. Brava Eva Bernathova, pianista ceca, a cogliere gli spunti più suggestivi e ad esporli con impressionante chiarezza. In entrambi i concerti, Ancerl offre un accompagnamento attento e preciso. L'orchestra ceca suona come nessun’altra con le sue qualità tonali distintive. I timbri caratteristici dei venti slavi, il virtuosismo dei violini, le trombe dalle tonalità tenui ma incisive, è un fenomeno culturale purtroppo perso nelle interpretazioni più recenti del repertorio internazionale. Questo è un disco dal suono molto raffinato e particolarmente autentico, anche se non sono le versioni migliori di entrambi i concerti, ma sono comunque una grande testimonianza dell'arte di Ancerl. Le versioni di riferimento rimangono quelle di Kovacevich/Colin Davis e Szeryng/Haitink per il Concerto per violino o Donohoe/Rattle e Sitkovetsky/Pesek per il Concerto per pianoforte.

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 STRAVINSKIJ: PETRUSHKA / LE SACRE DU PRINTEMPS Questa rimasterizzazione della Petrushka del 1962 è a dir poco miracolosa. Tutta l’atmosfera del balletto è animata e piena di colori, e anche se i ritmi non sono molto veloci, l’insieme è uniformemente pertinente a quello che lo stesso Stravinskij faceva quando ha diretto le sue opere. La registrazione è cristallina e l'orchestra è superba in ogni momento (basta ascoltare la compattezza dell'insieme di archi e la precisione del vento nella Danse Russe!), consentendo ad Ancerl di esaltare l'acerbo spirito di Stravinskij in modo più eloquente di molti altri direttori. Tuttavia, anche questa vitalità di Petrushka quasi impallidisce di fronte a Le Sacre du Printemps, una delle versioni più soddisfacenti che vi sia su disco. Per la precisione assoluta, questa elettrizzante performance è mozzafiato, e le qualità ritmiche primordiali di questa musica sono rese al massimo. Ancerl non dimentica mai che questa è musica nata dalla danza. Passaggi come "Rondes printanic res" e (soprattutto) la conclusiva "Danse sacrale" suonano straordinariamente contemporanei. Questa Danza inoltre, ha una qualità maniacale che è la più eccitante, suona davvero come se la musica si esaurisse e dovesse riprendersi più volte. Nessuna sorpresa, quindi, che il gesto di chiusura sia così forte e sprezzante. Un documento notevole che dovrebbe essere ascoltato senza indugio.

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Gli Amici del‌ grammofono

Sinfonia n. 9 in mi minore "Dal Nuovo Mondo", op. 95 di Antonin DvorĂ k

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LA STORIA Antonin Dvoràk è stato uno dei maggiori esponenti della musica boema dell'ultimo '800. La Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95, nota anche col titolo di Sinfonia "Dal Nuovo Mondo", fu pubblicata come sinfonia n. 5, ma è in realtà la nona ed ultima fra le sinfonie di Dvoràk. Fu composta quando il compositore ceco era direttore del New York National Conservatory of Music ed il titolo si riferisce genericamente al continente americano. Dvorak era stato invitato nel giugno 1891 a trasferirsi a New York, per assumere la direzione artistica del locale Conservatorio, da Jeannette Thurber, moglie di un ricco commerciante di generi coloniali; invito accolto dopo qualche esitazione e l'assicurazione di comprensibili garanzie (fra l'altro il ragguardevole stipendio di 15 mila dollari annui). Il progetto era maturato dopo che Lady Thurber [nel riquadro] era rientrata negli Stati Uniti dai suoi studi musicali parigini: aveva deciso di usare le considerevoli risorse finanziarie del marito, un dotato uomo d’affari, per dare vita a un Conservatorio americano a somiglianza di quelli francesi; un luogo, cioè, nel quale studenti di ogni provenienza potessero essere sostenuti a spese del governo, indipendentemente dal loro sesso, dall’appartenenza razziale o dalle possibilità economiche. Nel 1891 riuscì ad ottenere il riconoscimento della scuola da parte del Congresso e dunque il Conservatorio poté aprire le proprie porte. Nel frattempo la signora Thurber aveva riunito un importante numero di musicisti, per dar vita ad un corpo insegnante di prim’ordine. Assicurarsi la presenza di un eminente compositore europeo come Dvoràk come direttore sarebbe stato un colpo eccezionale. Non fu un caso che la scelta fosse caduta proprio su Dvoràk. Proveniente da una famiglia di piccola borghesia, precocemente avviato alla musica, Dvoràk aveva colto il suo primo vero successo nel 1873, a 31 anni, con un Inno patriottico che si inseriva compiutamente nella corrente irredentista propria degli ambienti culturali boemi. L'anno seguente conquistò un riconoscimento prestigioso, con la vittoria di una borsa di studio del governo austriaco, assegnata da una giuria composta, fra gli altri, da Eduard Hanslick e Johannes Brahms. In seguito il lancio internazionale: al 1884 risale il primo personale trionfo in Inghilterra, che comportò la nomina a membro onorario della London Philharmonic Society; nel 1890 giunse la Laurea honoris causa dell'Università di Cambridge. L'invito in America ebbe dunque il significato di una consacrazione. Il 26 settembre 1892 Dvoràk e parte della sua famiglia (due dei suoi sei figli) sbarcarono a New York e presero casa a pochi passi dal neonato Conservatorio, sulla diciassettesima strada. La sua esperienza

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newyorkese durerà sino al 1895. Per la cronaca, il National Conservatory continuò la sua storia di eccellenza per una ventina di anni dopo la partenza di Dvoràk; dal 1915, invece, la sua reputazione cominciò a declinare e, dopo una serie di trasferimenti a vari indirizzi della città, fu definitivamente chiuso nel 1928. Il contatto con una cultura musicale composita, in evoluzione e così dissimile da quella europea non poté non avere ripercussioni sull’arte compositiva del musicista boemo. La cultura americana stimolò e arricchì Dvoràk, che volle comporre una sinfonia di matrice classica europea, ma contaminata dalla musica autoctona: alcuni studenti di colore avevano messo in contatto il maestro con la musica dei neri americani, con gli spirituals e i canti delle piantagioni; a Spilville, nello lowa, il compositore ebbe inoltre modo di ascoltare canti della comunità indiana. Fu così che ascoltò con attenzione musiche e cerimonie, trascrisse melodie, fu attratto dalle potenzialità delle scale pentatoniche4. La Sinfonia in mi minore, composta tra il 1892 e il 1893, fu la prima importante risposta a tali stimoli. Dvoràk illustrò il titolo dell'opera spiegando che si riferiva semplicemente a «impressioni e saluti dal nuovo mondo»; ancora nel corso della stesura affermò che «l'influenza dell'America può essere avvertita da chiunque abbia "fiuto"». E ancora: «Credo che la terra americana influenzerà in modo benefico i miei pensieri, e potrei quasi dire che qualcosa del genere si sente già nella nuova Sinfonia». E in effetti la presenza di melodie del folklore americano è innegabile; nel primo tempo appare lo spiritual «Swing low, sweet chariot», e

alcune melodie dei

movimenti centrali presentano una generica ispirazione "indiana". Non mancano comunque nella partitura chiari tratti del folklore boemo. Sin dalla sua prima esecuzione, avvenuta alla Carnegie Hall di New York il 16 dicembre 1893, la Sinfonia "Dal Nuovo Mondo" ebbe un successo enorme e acquistò da allora una grandissima

popolarità nel repertorio

sinfonico. Il critico Henry T. Finck sul “New York Evening Post” dichiarò la partitura “il più grande lavoro sinfonico mai composto in questo paese”, cosa che in quel momento era probabilmente vera.

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Le scale pentatoniche sono scale musicali formate solo da cinque suoni. La scala pentatonica è simile alla scala maggiore ma differisce da questa perché non ha la quarta e la settima nota. Queste scale si usano nella musica rock, nella musica etnica araba, cinese, sud americana, nel jazz nella musica leggera o pop, nel blues, nel soul e in molte altre forme musicali. Anche la musica classica è ricca di queste scale: Debussy ne è un esempio.

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Molti vollero vedervi una musica piena di sentimenti patriottici, costruita su melodie della tradizione popolare negra o indo-americana, salutando addirittura la nascita di una scuola nazionale statunitense. Ma si sbagliavano. Se la si vuole porre in un panorama musicale più ampio, al di là del sottotitolo, va detto che la Sinfonia è tanto vicina ad ispirazioni americane quanto ad un certo spirito slavo. Ritmi sincopati e melodie modali, ad esempio, sono tipiche di molte tradizioni popolari, incluse quelle boeme e quelle statunitensi, e probabilmente Dvoràk non si sentiva molto lontano da casa quando usava quel materiale tematico. Schiettamente europea (tedesca, soprattutto brahmsiana) è la costruzione sinfonica, ed europeo è ovviamente il suono che riveste la partitura: “Ho semplicemente scritto temi originali incorporandovi le caratteristiche della musica nera e di quella indiana”, dichiarò Dvoràk alla rivista “Harper”, “e usando questi temi come soggetti, li ho sviluppati con le risorse del ritmo, dell’armonia, del contrappunto e dei colori orchestrali moderni.. C'è infine da sottolineare che le assunzioni nella sinfonia di motivi presi dal canto popolare americano non sono mai dirette, ma fortemente mediate e filtrate attraverso la sensibilità europea. Contrariamente a ciò che si pensa, non si trova alcuna citazione precisa di melodie attinte dal patrimonio popolare indiano: la stessa celebre melodia del corno inglese che si ascolta nel Largo e che viene considerata una ninna-nanna o un canto funebre pellerossa, è originale di Dvoràk e, per certi aspetti, potrebbe anche avere origini boeme. In fondo la Sinfonia "Dal nuovo mondo" resta un lavoro isolato nella cultura musicale americana, perché pochi anni dopo gli elementi popolari della musica americana, soprattutto negra, avrebbero trovato una via completamente diversa con il jazz.

[The Buddy Bolden Band, New Orleans, inizi 1900]

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GUIDA ALL’ASCOLTO La Sinfonia si compone di 4 movimenti:

 Il primo movimento, Adagio-Allegro molto, è ispirato allo spiritual Swing Low Sweet Chariot, il cui tema tornerà come leitmotiv della sinfonia. Questo movimento è strutturato in forma-sonata con un’introduzione lenta che precede il celebre tema eroico e quasi wagneriano lanciato dal corno. Sarà un tema importante, e si fisserà nella memoria perché Dvoràk lo utilizza, in modo più o meno evidente, in tutti i quattro movimenti della Sinfonia. Un secondo tema al flauto e all’oboe è segnato dal ritmo di polka mentre un tema ancora successivo, al flauto, derivato da quello iniziale del corno, si rivelerà determinante nella costruzione dello sviluppo.  Il secondo movimento (il più celebre della Sinfonia) è il Largo, che si apre con un corale degli ottoni seguito da una nostalgica melodia particolarmente cantabile del corno inglese (divenuta molto popolare negli Stati Uniti); la melodia viene ripresa alla fine del movimento, dopo un episodio dal carattere pastorale, introdotto da un disegno staccato dell'oboe, seguito da trilli dei flauti. Saranno poi nuovamente la melodia del corno inglese ed un ritorno del corale iniziale a chiudere il Largo. Questo movimento e il successivo Scherzo sono entrambi ispirati a un poemetto di Henry Longfellow, intitolato Song of Hiawatha, che Jeannette Thurber aveva donato al compositore: il Largo evoca i funerali della sposa dell'eroe; lo Scherzo richiama una danza di pellirosse nella foresta.  Come detto prima, a Longfellow si ispira anche il terzo movimento (Scherzo, molto vivace), dove ritroviamo il gusto di Dvorak per la vitalità ritmica e la varietà coloristica: inizialmente vi è un riferimento ad una “festa nella foresta” con danza di Pellerossa; la parte centrale del movimento è derivata da una danza popolare dell’Europa centrale; nella coda poi, troviamo una perentoria affermazione del tema che ha assicurato alla Sinfonia la sua celebrità, e che viene poi ribadito al termine.

 La Sinfonia si conclude con il trascinante ed esaltante

finale, Allegro con fuoco, che, dopo una

brevissima introduzione, si presenta come una marcia, monolitica, austera, che, alla fine di un diminuendo, lascia il posto ad una seconda idea tematica, al clarinetto e poi ai violini. Prende quindi avvio un gioco di riprese e di incastri, nel quale ritornano temi dello Scherzo e del Largo, qui riproposti in una veste parzialmente nuova. Ma Dvoràk non si accontenta di riesporre tali idee; le elabora e le intreccia con il tema principale del finale, sì che il movimento conclusivo si prospetta come una sintesi del contenuto dell'intera Sinfonia, con la forza di una apoteosi, e che appare, nel suo sviluppo multiforme e nella duttilissima orchestrazione, come una perfetta sintesi delle componenti boeme, mitteleuropee e americane del linguaggio sinfonico di Dvoràk.

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DISCOGRAFIA All’apice della discografia della 9a Sinfonia di Dvorak, a giudizio unanime della critica, vi è l’interpretazione

di

Rafael

Kubelik

con

i

Berliner

Philharmoniker, del 1972. Kubelik rende i chiaroscuri e le zone di tristezza in maniera eccezionale, lanciandosi poi nei momenti più vivi di Dvoràk riuscendo a conservare sempre quella malinconia ineludibile che permea la composizione. I Berliner suonano in modo davvero incredibile in questa registrazione: un suono migliore lo abbiamo solo ascoltandoli in una performance dal vivo. Ottimi sia il vinile che il CD, brillante esecuzione, assenza di compressione nei pieni orchestrali. [Deutsche Grammophon]

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Sullo stesso piano di Kubelik si pone l’interpretazione di Ferenc Fricsay con i Berliner Philharmoniker. Ferenc Fricsay è stato una delle bacchette più geniali del '900, dotato di una spiccata musicalità e di estrema modernità di visione interpretativa. Questo direttore ungherese prematuramente scomparso nel '63 a soli 49 anni ci ha lasciato purtroppo poche incisioni, peraltro di grande valore. Questa è una grande esibizione condotta da Fricsay nei suoi ultimi anni di vita, lo consiglio a tutti i fan di Dvoràk o della musica romantica d'epoca in generale, veramente un capolavoro. La partitura viene riportata nel solco del sinfonismo europeo, sa di "fascino antico" come giustamente si espresse la Penguin Guide, i tempi sono piuttosto lenti e rilassati (soprattutto nel secondo movimento che è pur sempre un Adagio, ma anche nel terzo che invece è uno Scherzo e nel finale), il tocco è assolutamente morbido (prevale sovente il tocco caldo e pastoso delle viole e dei violoncelli su quello dei violini), l'atmosfera è pastorale e niente affatto folkloristica. La qualità tecnica del disco è veramente ottima, fantastica per una registrazione del 1959. [Deutsche Grammophon]

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

Assieme a Fricsay & Berliner (1959) e Kubelik & Berliner (1972), questa di Kertesz con i Wiener Philharmoniker (1961) è la migliore interpretazione della Sinfonia "Dal Nuovo Mondo", superiore a quella dello stesso direttore con la London Symphony del 1966. Per Kertesz, Dvoràk rappresentò davvero l'apice di una carriera troncata a 43 anni da una morte violenta (e si dice, misteriosa). La qualità tecnica del disco non è eccellente, ma la qualità artistica (interpretazione ed esecuzione) compensa tutto. [Decca]



Nella biografia affidata da Karajan a Roger Vaughan, si legge che il leggendario direttore si fosse dato (ancora nel 1981) dieci anni di tempo per “terminare” la sua opera, la quale consisteva principalmente nell'affidare gran parte del suo repertorio al supporto digitale, con una tecnica di registrazione superiore e col neonato compact-disc. Karajan morì nel 1989, a un passo dal termine che si era imposto (in effetti si trattò dell'unica cosa che non poteva decidere) ma riuscì in gran parte del suo piano. Nel 1993 quasi tutto ciò che Karajan aveva inciso nell'ultimo decennio fu rimasterizzato con cura estrema e pubblicato nella serie Karajan gold (come in questo caso) dal lussureggiante libretto. La veste nuova non cambia però la sostanza, ossia che le ultime interpretazioni del maestro non erano necessariamente migliori delle precedenti, incise magari già quattro o cinque volte nel corso di mezzo secolo. In generale rimane un colore splendido nell'orchestra ma qualche volta l'esecuzione appare solo tirata a lucido mentre nell'anima latita quel qualcosa in più. Qui c'è una Nona sinfonia di Dvorak “dal Nuovo Mondo” del 1985: di grande effetto, con enormi escursioni dinamiche e i soliti vezzi formali (quali ad esempio saltare la ripetizione nel primo movimento) con il risultato finale di una costruzione bella a sentirsi ma, nonostante i tempi serrati, un po' troppo pesante. L'orchestra qui impiegata è quella dei Wiener Philharmoniker, splendenti come non mai: si senta il finale, con gli ultimi arpeggi degli archi, tesi ma dolcissimi in un legato sempre elegante e “luminoso”. Essa però nulla toglie a quella magnifica interpretazione di Karajan coi Berliner degli anni Settanta. [Deutsche Grammophon]

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Nell’anno (2007) in cui il mondo della musica ha ricordato il 50° anniversario della scomparsa di Arturo Toscanini è stato pubblicato un disco di grande interesse della JVC, che vede il grande direttore parmense alla testa della “sua” NBC Symphony Orchestra in una delle partiture più amate del repertorio tardo romantico. Toscanini si accosta alla Sinfonia «Dal Nuovo Mondo» con un piglio trascinante e con un’energia che oggi capita di ascoltare solo di rado. Come loro abitudine, i tecnici del suono dell’etichetta giapponese

hanno

restituendo

a

compiuto

questa

veri

e

propri

registrazione

miracoli,

effettuata

quasi

sessant’anni fa un profilo sonoro di sorprendente fedeltà. Da non perdere. [JVC, JMMXR02]

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Fra le innumerevoli versioni, quella realizzata nel 1979 da Kirill Kondrashin (da accostare a Mravinskij tra le figure più geniali della scuola direttoriale sovietica) con i Wiener Philharmoniker non è certo fra le prime cui riesca naturale pensare. Eppure, chi abbia la ventura di ascoltarla non potrà fare a meno di riconoscere che si tratta di una delle più belle, per la luminosità e la trasparenza del suono e per la capacità di far coesistere impeti barbarici e cantabilità affettuosa convogliandoli nell'equilibrio di una fluida e coerente visione d'insieme. Una di quelle interpretazioni che sembrano nascere nel segno dell'entusiasmo, dell'immediatezza, della naturale sintonia culturale ed etnica dell'interprete col mondo dell'autore, ma che in realtà hanno alle spalle un complesso e articolato lavoro di analisi e di sintesi, di svisceramento dei dettagli e di attitudine a coordinarli in un'unità vivente. Il "Nuovo mondo", del resto, aveva contato parecchio anche nella vicenda personale del direttore sovietico, che proprio negli Stati Uniti aveva ottenuto il suo successo più clamoroso, accompagnando Van Cliburn in quella leggendaria incisione del Primo Concerto di Tschaikovkij che sfondò il muro del milione di copie vendute. [Decca]



Vedi infine l’interpretazione della Sinfonia con Karel Ancerl e la Filarmonica Ceca, per la quale rimando alla pagina 43 di questo numero.

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Musica classica e Cinema: 2001: Odissea nello spazio, di Stanley Kubrick «Ognuno è libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film, io ho tentato di rappresentare un'esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell'inconscio.». Così Stanley Kubrick parlava del suo film “2001: Odissea nello spazio”, del 1968, definito dalla critica tra i 15 migliori film americani di tutti i tempi: questo film rappresenta una delle più esaltanti espressioni del clima del 1968 anche nel cinema. 2001: Odissea nello spazio è una cavalcata spazio-temporale della nostra immaginazione, un viaggio psichedelico oltre le soglie della realtà che ci circonda, un film dove anticipazione tecnologica e pura poesia convivono; è un film che più che essere un semplice racconto di fantascienza è una complessa parabola sul rapporto tra uomo e l'Universo, un’allegoria dell'evoluzione dell'intelletto e dello spirito umano. Kubrick volle che a raccontare la storia fossero non i dialoghi ma le immagini, come se l’intera struttura portante del film fosse un’esperienza non verbale, destinata direttamente all’inconscio, simile ad una sinfonia musicale. Data la quasi totale assenza di dialogo, immagini e musica dovevano formare un corpo unico capace di guidare lo spettatore in un’esperienza mistico-tecnologica, il cui fine ultimo era quello di chiarire, almeno in parte, il mistero delle origini e del destino dell'umanità. Il monolito a forma di parallelepipedo rappresenta Dio, ciò che non è conoscibile, ma che simboleggia anche la ragione e la coscienza, all'arrivo delle quali corrisponde la nascita della violenza. Nella preistoria, così come nel futuro, in una circolarità inesauribile.

Trama del film. Il film si divide in quattro parti: 1a parte: L’alba dell’uomo. Africa. Quattro milioni di anni fa. Il film inizia con immagini cosmiche che gradualmente si soffermano su una terra desertica nella quale pochi arbusti e qualche pozza d’acqua

e

qualche

caverna

consentono la sopravvivenza di alcune

specie

animali,

che

lottano fra loro per il cibo e il territorio. In questo ambiente arido e ostile un gruppo di ominidi sopravvive a fatica.

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Un giorno, davanti alla loro grotta appare misteriosamente un grande e misterioso monolito nero. Gli ominidi fra spaventati e incuriositi gli danzano attorno. Nei giorni successivi questi ominidi si rendono conto che possono utilizzare diversi oggetti che la natura offre loro, e che prima erano passati inosservati, per svolgere alcuni compiti: primo esempio di tale nuovo raziocinio, l’intuizione di poter fare di un osso abbandonato un’arma di difesa/offesa. Questa prima parte termina con il lancio dell’osso femorale (che poi diventa inspiegabilmente una tibia…), nuova arma degli ominidi, verso il cielo. 2° parte: TMA-1 Il secondo atto del film si svolge nell'anno 1999, un anno del lontano futuro rispetto a quando fu realizzato il film. Ci voleva il colpo di genio di un artista come Stanley Kubrick per realizzare, nel momento di passaggio fra la prima e la seconda parte del film la più strepitosa associazione e stacco d’inquadratura della storia del cinema di sempre: l’osso lanciato nel cielo dall’ominide si trasforma magicamente in un’astronave che sta navigando nello spazio. In tale mirabile sintesi si concretizza, nel giro di pochi secondi, il processo evolutivo della scienza e quindi della conoscenza intercorso in alcuni milioni di anni. Il dottor Heywood Floyd, presidente del Comitato Nazionale Americano per l'Astronautica, è inviato in missione segreta sulla base lunare Clavius. Vicino al cratere Tycho, sepolto sotto il suolo lunare è stato scoperto un monolite di materiale sconosciuto, a forma di parallelepipedo, che si presume sia una forma di vita intelligente extraterrestre e che si trovi in quel posto da 4 milioni di anni. Gli astronauti giungono sulla base: nel buio della notte lunare all'improvviso il monolite viene colpito dai primi raggi dell'alba lunare ed emette un forte segnale radio nel cosmo diretto verso il pianeta Giove.

3° parte: Missione Giove 18 mesi dopo, nel 2001, una grande nave spaziale è in navigazione verso Giove. L’equipaggio è formato da 5 membri umani, di cui due in attività, il comandante David Bowman, il suo vice Frank Poole e tre altri astronauti ibernati in appositi contenitori, più un elaboratore elettronico della serie 9000, chiamato HAL, dotato di intelligenza artificiale e in grado di interloquire con le persone.

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HAL controlla tutti i sistemi della nave spaziale riguardanti la navigazione, il contatto con la Terra, il funzionamento dei vari sistemi e il controllo degli stati di ibernazione dei tre uomini dell’equipaggio; obbedisce agli ordini dei due astronauti in attività, anche discutendo con loro e fornendo loro i dati necessari per l’assunzione delle decisioni riguardanti la navigazione. Le macchine della serie 9000 sono note per non aver mai commesso errori e/o omissioni di alcun tipo. Ad essere informati del reale obiettivo della missione (valutare la presenza di civiltà extraterrestre su Giove) sono solo HAL e i tre astronauti ibernati, mentre Bowman e Poole ne sono ignari. Una notte HAL, mentre colloquia con Bowman, segnala improvvisamente un'avaria, ma il guasto risulta inesistente. Viene contattato il controllo della missione sulla Terra, il quale comunica che probabilmente HAL ha sbagliato. Bowman e Poole, preoccupati, si rinchiudono dentro la capsula per discutere della situazione facendo in modo che HAL non possa udirli: per la sicurezza della missione decidono di disattivare HAL, ma il computer, leggendo i loro labiali si accorge della loro intenzione e adotta un piano per impedire che ciò avvenga. Prima fa in modo che a Poole, nel corso di una fuoriuscita per ricontrollare il modulo, vengano a mancare i contatti che lo mantengono in vita durante le attività extra-veicolari; poi, quando Bowman esce con la capsula per riportare sulla nave il cadavere del collega, toglie il controllo delle funzioni vitali agli ibernati che così muoiono; e infine cerca di impedire all’astronauta il rientro sulla nave. Fortunatamente Bowman riesce a entrare, e disattiva HAL: in una mirabile scena, mentre l’astronauta spegne i vari elementi della memoria del computer, questi prima supplica di non disattivarlo, poi fa autocritica per aver preso decisioni discutibili, poi fa promesse di comportarsi

al

meglio,

e

davanti

all’intransigenza dell’astronauta che prosegue nella manovra di disattivazione, finisce per cantare una filastrocca infantile che via via si spegne fino all’arresto. 4° parte: Giove e oltre l'infinito. Ora la nave è nelle prossimità di Giove. Bowman avvista, vicino al grande pianeta, un nuovo, gigantesco monolito nero che fluttua nello spazio. Prova allora ad avvicinarsi salendo su una capsula dell’astronave, ma viene risucchiato in un’altra dimensione spazio-temporale. La capsula su cui è salito Bowman fa una corsa allucinante nell’atmosfera del pianeta, accesa da infiniti colori e luci che si intrecciano, si aprono, si richiudono, si dilatano, cambiano in continuazione. Dopo le immagini dell’atmosfera la capsula, sempre a folle velocità, sorvola una superficie fatta soprattutto da rocce scure, percorse da rivoli incandescenti di luce azzurra e blu, vasti laghi di vario colore, mari, isole di varia grandezza e forma, che scorrono tutte in successione sotto gli occhi di David, finché a un certo

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punto, dopo oltre 15 minuti di questa folle corsa, la capsula atterra. E non in una landa sperduta, ma all’interno di una casa con bellissime sale, ammobiliate in modo raffinato. L’astronauta esce dalla capsula e si guarda attorno. Gira per la casa in un profondo silenzio. A un tavolo apparecchiato siede una persona matura, che sta consumando il pranzo: questa persona matura non è altro che l’astronauta che guarda se stesso come sarà dopo che tempo è passato. Lo sguardo si dirige poi in una camera da letto nella quale domina il colore bianco: lo stesso al quale siamo soliti associare l’aldilà. Nel letto giace un vecchio morente, che è sempre lo stesso Bowman, dopo che ulteriore tempo è trascorso. David sta quindi assistendo alla conclusione in rapida sequenza della sua vita. Di fronte a lui, ai piedi del letto, c’è il monolito che lui stesso indica con un dito nel più assoluto ed impressionante silenzio, come se ne avesse finalmente compreso il significato. Nel letto, al posto del vecchio morente, appare un feto racchiuso nella sua membrana amniotica (Il bambino delle stelle), che si proietta nel cosmo verso la Terra.

Colonna sonora. Non credo esista un altro film che abbini in maniera altrettanto elegante, armoniosa e complementare musica classica ed immagini, peraltro di contrastante impronta avveniristica. Alcuni dei brani utilizzati sono rimasti indelebilmente associati a questo film, anche in contesti diversi dal cinema, a testimonianza dell’influenza che hanno avuto le immagini e la musica di quest’opera. La scelta della colonna sonora fu molto tormentata. All’inizio, fu scelto dalla casa di produzione il compositore Alex North [nel riquadro], che aveva già lavorato con Kubrick nel film Spartacus. Fin dai primi contatti con il musicista, Kubrick aveva però lasciato intendere di voler impiegare anche brani di musica classica, in particolare aveva insistito per mantenere, nell'inizio della pellicola, il brano di Strauss Also sprach Zarathustra, che aveva scelto come brano provvisorio, ma del quale si era definitivamente innamorato. North provò a proporre al regista un brano di produzione propria, scritto in modo da mantenere un'atmosfera musicale analoga a quella del brano di Strauss. Compose musica anche per alcune scene

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successive, ma sempre collocate nella prima parte del film: in particolare, scrisse brani relativi al volo della stazione orbitale e al viaggio verso la Luna dello Shuttle del Dr. Floyd. Successivamente a North venne detto che la seconda parte del film sarebbe stata realizzata senza usare alcun commento musicale e gli quindi chiesto di sospendere la produzione di ulteriori nuovi brani. Un’amara sorpresa per il compositore avvenne durante la proiezione della prima del film a Londra: North, invitato a presenziare e convinto di essere parte dello staff produttivo, scoprì invece che tutto il materiale da lui composto e registrato era stato alla fine scartato da Kubrick, che aveva seguito il suo proposito iniziale e aveva quindi utilizzato, oltre a quello di Strauss, anche altri brani di musica sinfonica di autori classici del XIX e XX secolo. Nessuno dei brani di North è quindi nella colonna sonora del film. Anche con György Ligeti [nella foto] il rapporto fu burrascoso: Ligeti si dichiarò colpito dall'utilizzo che il regista aveva fatto delle sue opere, ma assolutamente contrariato di non essere stato né avvisato e né remunerato. Il compositore intentò e vinse una causa legale contro il regista (fu compensato con 3000 dollari), ma in seguito i rapporti si distesero e Kubrick si servì nuovamente delle composizioni del musicista ungherese per altri suoi lavori: il componimento Lontano, datato 1967, fu ad esempio utilizzato da Kubrick per il film Shining. Nelle oltre due ore di film, immagine e musica sono integrati in modo indissolubile: certo, questo avviene in tutte le opere di Stanley Kubrick, che fa proprio della materia sonora una colonna portante della sua estetica, ma in questo caso i risultati espressivi sono fuori del comune.  Odissea 2001 inizia nell’oscurità, con il brano orchestrale Atmosphères di Ligeti che suona nei primi tre minuti del film, prima che appaia anche il logo dello studio. Non è un'introduzione, ma un'ouverture. È musica per creare l'atmosfera, per sedare il rumore, un’esortazione allo spettatore di stare in silenzio. Pochissimi film di Hollywood sono abbastanza coraggiosi da aprire con una musica così insistentemente dissonante.

♫♫ Atmosphères è come un delicato caos orchestrale, una rete complessa di note musicali e sfumature contrastanti: era stato pensato da Ligeti come un Requiem che si innalza dal sottosuolo, in lontananza. Di Atmosphères Ligeti ha osservato che "la trama sonora è così densa che le singole voci strumentali intrecciate vengono assorbite nella trama generale e perdono completamente la loro individualità”. All’improvviso (la composizione non è ancora terminata), il suono si interrompe. Sullo schermo appare un'immagine primordiale e maestosa: tre sfere su una tela nera, luna, terra e sole. Inizia la martellante Introduzione di Così parlò Zarathustra op. 30, uno dei poemi sinfonici più noti di Richard Strauss, ispirato all'omonima opera poetico-filosofica del filosofo tedesco Friedrich Nietzsche.

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♫♫ Il saluto aurorale di Zarathustra al sole nascente costituisce l'impulso al memorabile avvio del brano. La musica sorge dal nulla, su un suono grave, quasi primordiale (richiama il tema della spada simbolo della nascita del mondo umano nell'Oro del Reno wagneriano), insieme indistinto e definito (tremolo dei contrabbassi, rullio della grancassa percossa con bacchette di timpani, controfagotto e organo). Quattro trombe intonano tre volte il motivo della natura (do-sol-do), c'è poi il crescendo abbagliante dell'orchestra, ma quando questa (in tutto 22 battute) alla fine tace, le note si spengono su se stesse, con il suo o dell'o ga o he i a e sospeso sull ulti a ota.

Questo incipit, come una vera e propria ouverture operistica, racchiude già in sé il susseguirsi di ordine e caos, progresso e regressione, cromatismi e oscurità, suono deflagrante e puro silenzio che caratterizzano la struttura del film. Mentre il suono sparisce in una misteriosa attesa, si apre il primo atto del film (L’alba dell’uomo) con le immagini delle pianure africane. La musica, che fino ad ora era stata così importante, svanisce per sei minuti, e nello schermo vediamo scorrere la vita difficile di un gruppo di ominidi che sopravvive a fatica in un ambiente arido e ostile. Un giorno, davanti alla loro grotta appare misteriosamente un grande monolite, la lastra nera che ricorre spesso durante il film, e solo adesso la musica ritorna, con voci che sembrano provenire dal grande oggetto. È un'altra opera di Ligeti, il Kyrie dal suo Requiem, scritta per soprano, coro e orchestra. Il compositore utilizza la micropolifonia, come ha fatto Atmosphères, ma questa volta le singole melodie sono più facili da distinguere perché sono cantate piuttosto che suonate. Si uniscono e si intrecciano e si

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sovrappongono, creando un picco acuto mentre la cinepresa alza lo sguardo dal fondo del monolite alla luna e al sole, allineati sul misterioso artefatto.

♫♫ Nel Kyrie, vengono evidenziati toni altamente drammatici ed espressionistici, con la triplice invocazione «Kyrie eleison, Christe eleison, Kyrie eleison» (Signore pietà, Cristo pietà, Signore pietà) intonata dal coro. Poi, all'improvviso, la musica si interrompe di nuovo, mentre tornano le immagini delle desolate pianure africane. Il film si concentra su Moonwatcher (Guarda-la-luna), il capo della tribù degli ominidi, che vede il monolite. Raccoglie un osso e realizza lentamente che può essere usato come arma, lo solleva in alto sulla testa e colpisce ripetutamente uno scheletro animale, frantumandolo.

Questo importante e profondo, anche se primitivo, momento nella storia evolutiva dell’uomo, viene sottolineato ancora una volta dalle possenti note di Così parlò Zarathustra. Alla fine, Moonwatcher lancia trionfalmente il suo osso in aria. Il secondo atto del film inizia con una perfetta simbiosi fra musica (Sul bel Danubio Blu di Johann Strauss figlio) ed immagini di fantasia nello spazio, di eccezionale realismo scenico, che colpiscono ancora oggi a distanza di così tanti anni dall’uscita del film,

relative

ad

un’astronave

fluttuando nello spazio infinito,

che, si sta

dirigendo verso una stazione orbitante muovendosi

seguendo

perfettamente

coordinato

un con

ritmo le

note

musicali. Si tratta di un’altra sequenza che è diventata un simbolo di genialità applicata al cinema e quando l’azione si sposta all’interno

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Kubrick si lascia andare ad alcuni momenti ad effetto, sottolineando la diversità ambientale nella quale l’uomo si trova ad agire nello spazio e mostrando, ad esempio, una penna che ondeggia in assenza di gravità, o la hostess che si muove con molta difficoltà ma rotea innaturalmente su se stessa nel passaggio da una capsula all’altra; e altro ancora. "È difficile trovare qualcosa di molto migliore di Sul bel Danubio Blu per rappresentare la grazia e la bellezza nel girare", ha spiegato lo stesso Kubrick.

♫♫ Sul bel Danubio blu (An der schönen blauen Donau) op. 314, è un valzer di Johann Strauss figlio, riconosciuto a livello mondiale come il valzer più celebre scritto dal compositore e come uno fra i più famosi brani di musica classica di tutti i tempi. Venne commissionato nel 1867 per un carnevale ed è accompagnato da un testo scritto: le parole dovevano esortare gli austriaci a festeggiare il carnevale nonostante la situazione politica non fosse delle migliori. Non è un valzer unico, bensì un insieme di cinque valzer interconnessi. Il tema del primo valzer, con un diseg o agile e o ido, è p ese te dall i t oduzio e alla oda fi ale; la du ata dell ese uzio e è di i a 9 minuti e mezzo e il rischio di ripetitività è scongiurato dai numerosi cambiamenti di tonalità da un valzer all alt o. La musica che accompagna il trasbordo tra la stazione spaziale e il luogo lunare dove è stato scoperto il monolito è di un'altra opera di Ligeti, Lux Aeterna, una sezione (Communio) della "Messa dei Defunti", eseguita da un coro di sedici voci a cappella. Sappiamo tutti che non c'è suono nello spazio a causa del vuoto, ma se lo spazio avesse un suono, a me piacerebbe pensare che sia questo. Quando rivediamo il monolite sulla luna, riappare il Kyrie, che aumenta di intensità in pochi minuti, prima di

essere

travolto

dal

misterioso

segnale, quasi un urlo, che si trasmette dal misterioso oggetto nelle profondità dello spazio. Il terzo atto si apre sull'astronave Discovery, in viaggio verso Giove. Compare un

nuovo brano musicale,

l’Adagio dalla Suite del balletto Gayane di Aram Khachaturian. Gayane è l'avvincente storia d'amore di una coppia i cui due innamorati provengono da diverse classi sociali. Molti elementi sull'amore interetnico, sul tradimento e sull'amicizia interagiscono in una ambientazione armena.

♫♫ L Adagio, dalle

elodie vaga ti e solitarie, inizia con una melodia lenta e solitaria, alla quale su essiva e te si u is o o alt i due te i, he si svolgo o se za fo de si l u o o gli alt i. Sembra nato per esprimere la solitudine e il vuoto dello spazio!

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Inizia il quarto ed ultimo atto del film. Si parte un’altra volta dal buio completo dello schermo che dura oltre due minuti e sulle note ossessive e quasi del tutto monotone della musica di Ligeti: la folle corsa della capsula di Bowman nella variegata e policroma atmosfera di Giove, attorniata da infiniti colori e luci che si intrecciano, si aprono, si richiudono, si dilatano, cambiano in continuazione, mentre la musica del Requiem di Ligeti si espande fondendosi con queste immagini delle

quali

sembra

essere

il

substrato portante. Le note del Requiem si uniscono e si perdono nelle Atmosphères, ancora di Ligeti, una composizione usata proprio in questa occasione da Kubrick e misconosciuta dal musicista che intentò persino una causa nei confronti del regista accusandolo di averla manipolata senza il suo assenso. Quando tornano le immagini vediamo il monolito che fluttua nello spazio in direzione del più grande pianeta del sistema solare. Sono circa dieci minuti in cui la musica, le immagini e gli effetti sonori si combinano in una delle esperienze più maestose e terrificanti del cinema. E’ quella musica che lo stesso compositore definì micropolifonica. In Atmosphères, Ligeti ha voluto mostrare cosa è successo quando si rimuovono tre dei principali ingredienti della musica: armonia, melodia e ritmo. Ci sono poche transizioni, o forse è tutta transizione: le atmosfere fluiscono l'una nell'altra. Mentre la nave atterra, appare una quarta opera di Ligeti, Aventures.

♫♫ È scritta per tre voci e sette strumentisti, e le cantanti sussurrano, urlano, cantano, strillano, fischiano, ridono, a volte chiaramente, a volte percepiscono suoni nei loro denti o nella gola. Sono i ue sto ie sov apposte o te po a ea e te, ge e a do l effetto d u to dell assu do. Per la penultima scena, in cui Bowman si osserva a vivere la sua vita in un appartamento alieno, Kubrick ha manipolato Aventures in modo pesante e non ordinato. Le già strane vocalizzazioni sono ulteriormente distorte, voci e suoni sembrano a volte andare alla deriva in sottofondo, a volte a sussurrare, alla fine la musica scompare e la maggior parte delle scene finali si svolge in silenzio. Solo negli ultimi minuti, mentre il monolito riappare, la musica ritorna. Questa volta per il monolite non è Kyrie, ma a sorpresa Così parlò Zarathustra. Per tutto il tempo, la musica di Ligeti è stata collegata in un modo o nell'altro con misteriose nuove frontiere: Kyrie per il monolite; Lux Aeterna per il viaggio verso il lato oscuro della luna; Atmosphères per lo il viaggio attraverso il tempo; Avventure per l'appartamento alieno. Il fatto che la musica di Ligeti non sia usata qui suggerisce che, mentre potremmo ancora non capire il monolite, David Bowman lo fa. Così parlò Zarathustra chiude così, accompagnando il viaggio del bambino delle stelle, questo viaggio nell’evoluzione umana.

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L'ultimo pezzo di musica nel film, oltre i titoli di coda, è Sul bel Danubio blu, suonato interamente (tranne l’introduzione); gli ultimi quattro minuti e venti secondi suonano su uno schermo nero, dopo le parole "The End". Perché Kubrick abbia deciso di finire con la musica che aveva usato come leitmotiv per la danza della nave spaziale, nessuno lo ha mai saputo.

Gli esecutori della colonna sonora di 2001: Odissea nello spazio  Richard Strauss: Also Sprach Zarathustra Wiener Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan  György Ligeti: Requiem, for Soprano, Mezzo-Soprano, 2 Mixed Choirs & Orchestra Bavarian Radio Orchestra and the Bavarian Radio Choir, dir. Francis Travis  György Ligeti: Lux Aeterna" Schola Cantorum Stuttgart, dir. Clytus Gottwald  György Ligeti: Atmospheres The Sudwestfunk Orchestra. Dir. Ernest Bour  György Ligeti: Adventures The International Chamber Ensemble Darmstadt, dir. Bruno Maderna  Johann Strauss figlio: An der schönen, blauen Donau, op. 314 Berliner Philharmoniker, dir. Herbert von Karajan  Aram Khachaturyan: Gayaneh, Ballet Suite, adagio The Leningrad Philharmonic Orchestra, dir. Gennadi Rozhdestvensky

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Inauguriamo con questo numero de Gli Amici del Loggione una nuova sezione fissa dedicata alla Musica del Medioevo. Mi auguro che possa essere un gradito appuntamento per i cultori dell’argomento e che parimenti, per chi non conoscesse questa meravigliosa musica, si aprano nuovi ed interessanti orizzonti culturali musicali.

LA MUSICA MEDIOEVALE

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“Messe de Notre-Dame”, di Guillaume de Machaut  GUILLAUME DE MACHAUT Poeta e musicista, Guillaume de Machaut può essere considerato per molti aspetti come l’ultimo dei trovieri, ma allo stesso tempo, paradossalmente, è il primo dei poeti moderni a sancire il divorzio tra musica e poesia. Da numerosi storici della musica moderna e contemporanea è indicato come il più importante e il più influente compositore del XIV secolo. Guillaume nacque attorno al 1300 a Machaut, un villaggio dello Champagne vicino a Reims. Prese gli ordini religiosi e nel 1323 entrò come segretario al servizio della corte di Giovanni di Lussemburgo, re di Boemia, che accompagnò durante i suoi innumerevoli viaggi e campagne in Lituania, Polonia, Slesia. Più tardi, nel 1335, grazie all’appoggio del suo protettore diventò canonico a Reims e vi rimase per un lungo periodo, dedicandosi alla creazione delle sue opere. Nel 1346 il re Giovanni perse la vita nella battaglia di Crécy: iniziò così una nuova fase per il compositore che, sopravvissuto alla peste nera che devasta l’Europa nel 1348, entrò al servizio di principi e nobili, tra cui Carlo II re di Navarra, Giovanni duca di Berry e Carlo di Normandia, incoronato re di Francia sotto il nome di Carlo V nel 1364. Il musicista passò gli ultimi anni della sua vita a Reims, dove muore nel 1377. Machaut ha lasciato una produzione poetico-musicale a dir poco imponente, che ci è stata tramandata da cinque manoscritti riccamente illustrati, in chiara evidenza della loro importanza, dedicati e presentati alla nobiltà della Francia. Il più antico è datato 1350 circa, mentre il manoscritto più completo e affidabile (Paris, Bibliothèque Nationale de France, fr. 1584) risalirebbe al 1370 circa: questo è un dato di eccezionale importanza in quanto non solo il compositore era in vita durante la compilazione dei manoscritti, ma lui stesso supervisionò e curò l’edizione delle sue opere, stabilendo l’ordine e la forma in cui intendeva consegnarle alla posterità.

[Guillaume de Machaut, miniatura, XIV secolo (Bibliothèque nationale de France, Paris)] Sua è la prima messa polifonica composta da un solo musicista di cui si abbia notizia; egli lasciò inoltre la musica di 41 ballate, 21 rondeaux, 33 virelais, 23 mottetti, 19 lais, un doppio hoquet, una complainte, un canto reale, una balladelle.

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 LA MESSA DI NOTRE DAME (di Reims) Opera eccezionale per moltissimi aspetti, si tratta della prima Messa a quattro voci pervenutaci nella sua interezza, e concepita come un’unità compositiva. Essa è uno dei più grandi capolavori della musica religiosa medievale. Prima del XV secolo, la maggior parte degli ambienti musicali dell'Ordinario della Messa erano raggruppati in base al movimento. Ad esempio, il Codice di Ivrea e il Codice degli Apt contengono entrambi movimenti di massa, e questi movimenti sono raggruppati in modo che tutti i Kyrie siano insieme, tutti i Gloria siano insieme, e così via. Il sacerdote celebrante sceglie uno per ogni gruppo da cantare, e quindi qualsiasi impostazione di un movimento potrebbe essere usata in combinazione con qualsiasi altra. La Missa Tournai è la prima Messa nota che è stata scritta in un manoscritto come se fosse un'unica impostazione unificata di tutto l'Ordinario: è del XIV secolo, francese, ed è costituita da 6 movimenti (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei, Ite Missa est). A causa delle ampie disparità di stile e notazione, e poiché tra i movimenti della Messa non è stata notata alcuna struttura musicale sottostante (come un comune cantus firmus5) si ritiene che la Messa di Tournai sia stata composta indipendentemente da diversi musicisti su un periodo di cinquanta o più anni, e fu successivamente compilato da uno scriba per essere eseguito nel suo complesso. Tre altre masse similmente compilate risalenti al XIII e all'inizio del XIV secolo sopravvivono: la Messa di Tolosa, la Messa di Barcellona e la Messa della Sorbona (anche conosciuta come la Messa di Besançon). La prima Messa nota ad essere stata concepita e composta come una singola opera unificata è la Messe de Notre-Dame di Guillaume de Machaut , che probabilmente conosceva la Messa di Tournai e potrebbe averla usata come modello. Machault fu il primo compositore a proporre il concetto

di

un

singolo

compositore

che

organizzava l'intero ordinario della Messa in un insieme artistico. In passato si riteneva che la Messe de Notre-Dame fosse stata composta per l’incoronazione del re Carlo V a Reims il 19 maggio 1364, molto più probabilmente si tratta invece di una Messa votiva: i musicologi hanno dimostrato come le sezioni della Messa siano costruite su canti liturgici associati al culto mariano, da cui l’appellativo de Notre-Dame. La Messa sarebbe stata composta da Machaut alla memoria futura di se stesso e del fratello Jean de Machaut, anch’egli canonico della Cattedrale. Lo dimostra un epitaffio, ora perduto, in cui il musicista prescrive che tutti i sabati venga cantata la Messa (che quindi diverrebbe una specie di Requiem) alla

Nella pratica della polifo ia dagli ulti i secoli del edioevo ai pri i dell’età oder a, è chia ato cantus firmus (canto fermo) la melodia che veniva eseguita da una voce (tenor) lungo tutta la composizione e costituiva la base per il contrappuntistico delle altre voci.

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Cattedrale di Notre-Dame di Reims in onore dei due fratelli, in un altare laterale dove sembra vi fosse un’immagine della Vergine molto venerata. La Messa risulta quindi una sorta di testamento musicale, la cui datazione si collocherebbe dopo il 1360, nel periodo di piena maturità dell’attività del compositore. Ignoriamo per quanti anni questo capolavoro abbia continuato a essere cantato a Notre-Dame di Reims per i due fratelli: secondo alcune fonti la Messa di Machaut sarebbe stata eseguita tutti i sabati almeno fino al 1411.

LA STRUTTURA L'Ordinario della Messa si riferisce alle sezioni che mantengono lo stesso testo da un giorno all'altro, in contrasto con il Proprio, che cambia in base al giorno o al periodo: consiste nelle parti che vengono cantate, piuttosto che semplicemente recitate in formule, e cioè il Kyrie, il Gloria, il Credo, il Sanctus e l'Agnus Dei. La Messe de Notre-Dame è costituita dalle cinque parti fisse dell’Ordinario e chiude con la formula benedicente Ite missa est. Nella liturgia della Messa, nel Medioevo i numeri dell'ordinario non venivano eseguiti in successione ma erano intervallati da preghiere e canti, Machaut invece li unificò. La Messe de Notre-Dame è scritta per quattro voci anziché le solite tre: Machaut aggiunse un "controtenor bassus" (che in seguito diventerà la voce di basso tipica dell'armonizzazione a quattro parti) che cantava nello stesso registro basso del tenore, alcune volte sostituendosi ad esso nelle note più basse. Le linee più agili sono affidate al triplum (la voce più acuta) e al motetus (la voce immediatamente inferiore), mentre al tenor e contratenor sono riservate le aree medio-basse: le voci si contrappongono le une con le altre in figure ritmiche ampie segnate da pause distese che danno all’insieme un andamento generale più leggero e meno ieratico. Nel Kyrie, canto di contrizione e di pentimento, che suggella il canto d’apertura della Messa. La vivezza della voce acuta aumenta di pari passo con l’avvicinarsi al secondo Kyrie.

KYRIE Kyrie eleison. Christe eleison. Kyrie eleison. [Signore, pietà. Cristo, pietà. Signore, pietà] Il Gloria è contrassegnato da passi più fissi, a tempi uguali, alternati ad episodi più movimentati, che assecondano lo scorrere di un testo così denso quale è la professione di fede.

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GLORIA IN EXCELSIS DEO Glória in excélsis Deo et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te, benedícimus te, adorámus te, glorificámus te, grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam, Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili Unigénite, Jesu Christe, Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris, qui tollis peccáta mundi, miserére nobis; qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram, qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus, tu solus Dóminus, tu solus Altíssimus, Jesu Christe, cum Sancto Spíritu: in glória Dei Patris. Amen. [Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente. Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre; tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica. tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi. Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l'Altissimo: Gesù Cristo, con lo Spirito Santo: nella gloria di Dio Padre. Amen.] Nel passaggio al Credo, Machaut scrive una parte che ha una evidente somiglianza al Gloria, con il tenore (conductus) che presenta un canto sillabico similmente cantato dalle altre voci (in senso musicale quindi un’interpretazione polifonica omogenea in opposizione al mottetto tipicamente eterogeneo), che consente al testo di spiegarsi con andamento regolare.

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CREDO (Niceno-Costantinopolitano) Credo in unum Deum, Patrem omnipoténtem, Factorem cæli et terræ, visibílium ómnium et invisibilium. Et in unum Dóminum Iesum Christum, Filium Dei unigénitum et ex Pat e atu a te ia sǽ ula: Deum de Deo, Lumen de Lúmine, Deum verum de Deo vero, génitum, non factum, consubstantiálem Patri: per quem ómnia facta sunt; qui propter nos hómines et propter nostram salútem, descéndit de cælis, et incarnátus est de Spíritu Sancto ex Maria Víirgine et homo factus est. Crucifíxus étiam pro nobis sub Póntio Piláto, passus et sepúltus est, et resurréxit tértia die secúndum Scriptúras, et ascéndit in cælum, sedet ad déxteram Patris, et íterum ventúrus est cum glória, iudicáre vivos et mórtuos, cuius regni non erit finis. Credo in Spíritum Sanctum, Dominum et vivificántem, qui ex Patre Filióque procédit, qui cum Patre et Fílio simul adorátur et conglorificátur, qui locútus est per prophétas. Et unam sanctam cathólicam et apostólicam Ecclésiam. Confíteor unum Baptísma in remissiónem peccatórum. Et exspécto resurrectiónem mortuórum, et vitam ventúri sæculi. Amen. [Costantino con i Padri del Concilio di Nicea]

[Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre, per mezzo di lui tutte le cose sono state create; per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, mori e fu sepolto, e il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio, con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica, professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati.

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Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.] Diversamente dalle prime tre sezioni della Messa, il Sanctus e l’Agnus hanno un andamento più gioioso, mantenuto anche nell’Ite Missa est, per cui questa seconda parte della messa muta sensibilmente colore, svolgendosi in una tessitura più acuta.

SANCTUS Sanctus, sanctus, sanctus Dominus Deus Sabaoth. Pleni sunt caeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis. [Santo, santo, santo il Signore Dio dell'universo. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Osanna nell'alto dei cieli. Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Osanna nell'alto dei cieli.]

AGNUS DEI Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis. Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem. [Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi. Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace.] [Jan van Eyck: Agnus Dei]

ITE, MISSA EST Ite, Missa est. Deo gratias. [La Messa è finita, andate in pace. Rendiamo grazie a Dio.]

DISCOGRAFIA Guillame de Machaut: Messe de Notre Dame / Le lai de la fontienne / Ma fin est mon commencement The Hilliard Ensemble Hyperion

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La registrazione è del 1987, il gruppo era al massimo della sua espressività e maturità vocale, e questa è ancora una delle versioni migliori disponibili. C’è però da dire che, come nel caso della maggior parte dei gruppi inglesi, l'approccio stilistico potrebbe non soddisfare tutti, specialmente quelli che preferiscono una vocalità più grintosa, più simile al modo in cui la polifonia veniva messa in scena durante il periodo di Machaut.

 Guillame de Machaut: Messe de Notre Dame Taverner Consort & Choir, dir. Andrew Perrot EMI Questa è veramente una splendida performance di Andrew Parrott con il Taverner Consort. Molto suggestiva l’intensità ritmica dell’interpretazione. Parrott abbassa il tono di un quarto, che conferisce all'opera un suono più scuro del solito; adotta anche una ricostruzione congetturale della pronuncia francese medievale del latino.

 Guillaume de Machaut: La Messe de Nostre Dame / Songs from Le Voir Dit Oxford Camerata, dir. Jeremy Summerly Naxos Early Music-Alte Musik E’ probabilmente il modo di interpretare questa Messa più vicino alle intenzioni di Machaut. La lettura di Summerly ha il vantaggio di essere stata registrata nello stesso edificio in cui la Messa potrebbe essere stata ascoltata più di 600 anni fa, la Cattedrale di Reims. Veramente bellissimo e armonioso il canto: ci sono quattro parti piuttosto che le tre convenzionali, con il contratenore (un magnifico Robin Blaze) che si muove attorno alla stessa tessitura del tenore. La dizione è nettissima e comprensibilissima nonostante alcuni errori di pronuncia. Il suono non è opprimente, è pieno, ricco e appassionato.

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La registrazione è molto nitida: l'acustica della Cattedrale di Reims è perfetta, chiara ma spaziosa con riverbero sufficiente a suggerire lo spazio verticale. I tecnici audio hanno usato un gruppo audio chiamato Sensaura che cattura l'atmosfera della Cattedrale in modo sorprendente. La seconda parte del recital è composta da canzoni di "Le Voir Dit" e ha l'acustica più intima derivante da una registrazione in studio, come si addice a queste appassionate effusioni della tradizione di corte che tracciano il percorso di una storia d'amore tra il poeta e il compositore di dicembre-maggio e un giovane ammiratore. il primo romanzo epistolare della letteratura francese. Vi si narra l’amore senile del poeta per una giovane dama, Péronne d’Armentières; e anche in questo caso vi sono contenute alcune composizioni liriche musicate.

 Guillaume de Machaut: La Messe de Nostre Dame Clemencic Consort, dir. Rene Clemencic Arte Nova Questa registrazione del 1999 di Rene Clemencic, accompagnato da Clemencic Consort, Ensemble Nova e Polifonica Lucchese e Capella Santa Cecilia, presenta una raccolta di 24 brani che offrono un panorama della musica medievale dall'XI al XIV secolo, sacro e profano, vocale e strumentale. Il fulcro del disco è naturalmente la Messe de Nostre Dame di Machaut, ma le sezioni sono mescolate tra gli altri pezzi. La visione di Clemencic del Medioevo ha poco in comune con le delicate, spesso noiose, esibizioni, la musica è vigorosa, molto godibile.

 Guillaume de Machaut: Messe à Nostre Dame Deller Consort, Collegium Aureum, dir. Alfred Deller Deutsche Harmonia Mundi Questo disco è rappresentativo di un certo momento storico della musicologia e della pratica esecutiva di Machaut. Potrebbe essere stato all'avanguardia quando fu registrato nel 1961, ma non di più: cantare la Messa di Machaut con strumenti di accompagnamento è una prassi ormai superata per l'odierna musicologia.

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Ma poco importa la non conformità agli attuali dettami: la musica è bella e ricca di fascino, con il suo incredibile virtuosismo vocale! Ho provato un vago senso di intimidazione personale di fronte a questa musica che appare imponente e quasi minacciosa nella sua grandezza, ma probabilmente è la mia immaginazione più che la musica stessa, ma ascoltandola non posso non immaginare di vivere quel tempi oscuri e travagliati di pestilenze e carestie, di violenza diffusa e guerre lunghissime, di zelo religioso ed eresie. Impressionante!

 Guillaume de Machaut: Sacre and secular music / Messe de Notre Dame Ensemble Gilles Binchois, dir. Dominique Vellard Brilliant Classics Questa è una bellissima raccolta di varie opere di Guillaume de Machaut costituita da 4 CD, i primi tre contenenti i brani musicali, il 4° contiene i testi cantati completi con traduzioni in inglese, tedesco, francese e spagnolo. La Messe de Notre Dame costituisce l'intero primo cd: il suono è magico, le voci liriche, l'opera offre spiritualità e bellezza combinate. Il secondo e il terzo cd sono dedicati alle opere secolari di Machaut. Il secondo cd mostra l'opera Le vray remede d'amour, una selezione di opere poetiche e musicali di Machaut, Machaut era un poeta affermato oltre che un compositore, e ha influenzato pesantemente il suo contemporaneo Chaucer di cui gli artisti hanno ricostruito una storia di amore e desiderio. Ci sono brani strumentali e cantati; altri brani (in francese) sono intensamente interpretati da Jean-Paul Racodon, un attore francese. (non è necessario padroneggiare il francese medievale per commuoversi con la musicalità e la passione dei testi). Il terzo cd contiene brani di Le Jugement du Roi de Navarre, anche questo comprende brani vocali e strumentali. L'opera originale era divisa in due parti, la prima delle quali rappresenta episodi della Morte Nera e della Guerra dei Cent'anni, e la seconda parte sviluppa una scena di corte proposta dal Re di Navarra. L'ensemble Gilles Binchois ha messo insieme alcune poesie con alcune delle opere musicali per fornire un contesto coerente alla storia. L'Ensemble Gilles Binchois è riuscito egregiamente a presentare Machaut in tutte le sue sembianze: se chiudi gli occhi, puoi ritrovarti trasportato nella Francia medievale. Raccomandato caldamente.

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Guillaume de Machaut: Messe de Notre Dame Ensemble Organum, dir. Marcel Peres Harmonia Mundi France Questa interpretazione dell’Ensemble Organum è considerata una delle più controverse registrazioni della Messa di Machaut. Marcel Peres, prendendo spunti dalla documentazione storica, in questa edizione ha ripristinato l'arte dell'ornamento, cioè il completamento della melodia originale con l’aggiunta di note che possano produrre l’abbellimento della frase musicale. Il tipo specifico di ornamenti che Ensemble Organum introduce in questa musica produce un risultato molto vicino al suono della musica corale del Caucaso, al canto nelle Chiese ortodosse e, soprattutto, ai canti dei Sufi nella Spagna moresca. Naturalmente questo sarebbe discutibile se il CD fosse mal eseguito, invece questa è una versione spettacolare del lavoro di Machaut. La registrazione è tecnicamente di alto livello, e ben si apprezza che sia stata fatta all'interno di un ambiente di Cattedrale.

 Missa Tournai Ensemble de Caelis, dir. Laurence Brisset Ricercar In calce alla discografia della Messa di Notre Dame di Machaut, ho pensato (per completezza espositiva e per dare una traccia a chi volesse approfondire l’argomento) di mettere una breve recensione della Messa di Tournai, il cui ascolto è raccomandato per ben delineare il percorso musicale che unisce le due composizioni, le quali rappresentano un anello importante nella storia della musica sacra occidentale. Nata dal fermento creativo attorno alla cappella papale di Avignone, la Messe de Tournai è senza dubbio la più antica messa polifonica a noi pervenuta. Dedicata alla Vergine Maria, ha l'ampiezza e la maestosità della più grande architettura gotica. Si trova in un manoscritto conservato negli archivi della Cattedrale di Notre Dame nella città belga di Tournai. Comprende sei movimenti (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei e un mottetto aggiunto, Ite missa est) ognuno dei quali è per tre voci. Vi sono ampie disparità nello stile e nella notazione tra i movimenti, e non sembra esserci una struttura musicale di fondo sistematica come un cantus firmus comune. Per questa ragione, si ritiene che la Messa sia stata composta agli inizi del 1300 in modo indipendente da diversi

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musicisti, e solo dopo, tra il 1325 e il 1330, venne compilata da uno scriba per essere eseguita nel suo complesso. Il Kyrie, il Sanctus e l’Agnus Dei sono probabilmente le sezioni più antiche, sono scritte con un’identica calligrafia e non sono note in nessun'altra fonte; il Gloria, il Credo e il mottetto Ite missa est sono di una mano diversa. Il Credo si trova nei manoscritti in Spagna e nel sud della Francia, suggerendo che la composizione potrebbe aver avuto origine lì; l’Ite missa est compare anche in un frammento manoscritto a Breslau (Polonia). Il Gloria è il più avanzato nella sua notazione musicale. Fa uso delle innovazioni di Ars Nova, cioè la presenza di più ritmi diversi. Una caratteristica notevole di questa sezione è la lunga espansione della parola "amen", lunga quasi quanto il resto della sezione. In questo amen si usa la cosiddetta tecnica hoquet: due voci alternano una nota in modo tale che sembra che solo una voce stia cantando Il mottetto Ite Missa est è piuttosto diverso dalle altre sezioni. Ciascuna delle tre voci ha un testo diverso: il tenore canta a lungo le parole "Ite missa est", che sono le ultime parole della Messa; la seconda voce ha un testo latino che spinge i ricchi a ricordare i poveri; la terza voce ha un testo francese secolare. Non esistono molte incisioni discografiche della Messa di Tournai, la migliore, per tecnica, timbro e musicalità, è senza dubbio l’incisione dell’Ensemble De Caelis.

[Machaut (a destra) riceve la Natura che gli offre tre dei suoi figli, da una illustrazione di un manoscritto parigino del 1350]

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Strumenti antichi: la Tromba marina La tromba marina è uno strumento musicale ad arco. Di origine verosimilmente tedesca, contrariamente a quanto il nome sembra suggerire, la tromba marina non ha alcuna attinenza né con lo strumento musicale chiamato tromba (o altri strumenti della famiglia degli ottoni), né tantomeno ha qualcosa di attinente al mare, ma è una sorta di grezzo violoncello di rilevante altezza (oltre i due metri). La sua denominazione deriverebbe, per deformazione, dall'aggettivo "mariana": il suo utilizzo sarebbe quindi da associare al culto per la Madonna. Questa ipotesi religiosa sarebbe giustificata dal fatto che moltissimi degli esemplari pervenutici provengono da antichi istituti religiosi femminili: del resto, in tedesco la tromba marina è chiamata anche Nonnengeige (letteralmente, violino delle suore). Secondo il parere degli storici musicali, la tromba marina deriva dal medievale monocordo6, del XV secolo. Lo strumento fu ufficialmente classificato al tempo di re Francesco I ed ebbe il suo apice nella seconda metà del Settecento per poi eclissarsi nell'oblio fino a una più recente riscoperta. In quel lasso di tempo la tromba marina ebbe una certa importanza artistica e contò cultori appassionati e amatori che su di essa eseguivano arie e danze. Il corpo dello strumento era formato, negli esemplari più antichi, da tre tavole connesse a forma di triangolo; negli esemplari successivi sulla cassa armonica venne innestato un manico. Originariamente aveva una sola corda, che veniva fatta suonare mediante un archetto; più tardi si aggiunsero una, due o più corde che poggiavano sopra una specie di ponticello di speciale foggia. Questo ponticello infatti aveva uno dei piedi sollevato e sovrastava a una lastra di vetro o di lamina sicché col vibrare della corda, sfiorandola, rendeva una sonorità tremolante e rude che assomigliava a quella della tromba. Di qui il nome che le fu dato. Non si tratta, però, dell'unica analogia con la tromba: la tromba marina è suonata sugli armonici naturali della corda, in modo tale da rifarsi alla stessa scala, incompleta e talvolta naturalmente stonata, delle trombe dell'epoca, sprovviste di pistoni. La somiglianza timbrica, in effetti, è elevata.

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Il monocordo è uno strumento composto da una sola corda, tesa sopra una cassa di risonanza tra due ponticelli, e

posata su un terzo ponticello intermedio che può essere spostato; così facendo si può dividere la corda a piacere e ottenere suoni di altezza (frequenza) variabile. Secondo Boezio questo strumento fu inventato in Grecia nel VI secolo a.C. da Pitagora (e comunque era già esistente ai suoi tempi) per studi di acustica. In epoca medievale venne impiegato sia come mezzo per la verifica sperimentale delle leggi dell'armonia, sia come ausilio pratico per l'istruzione dei cantori.

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Per suonarlo, l'esecutore teneva lo strumento appoggiato contro il petto. I suoni erano ottenuti col metodo del capo-tasto, come negli altri archi di registro basso. Repertorio Lo strumento è utilizzato principalmente come rinforzo del basso continuo e come coloritura timbrica nelle musiche di scena. Esiste un interessante ma scarso e raro repertorio per tromba marina, soprattutto nella musica medievale e rinascimentale, sicché numerosi ensembles di musica antica ne prevedono la presenza in organico: cito l’Ensemble Karmina, Stupor Mundi Chorus, Ensamble Musica Antiqua, Anima Mundi Consort, Ensemble Oswald Von Wolkenstein, Clemencic Consort e altri. Antonio Vivaldi scrisse due concerti con violini in tromba marina, RV 221 e RV 588; in alcune opere la tromba marina è presente come coloritura timbrica, per esempio nel balletto del Serse di Jean Baptiste Lully. Il repertorio solistico è estremamente raro, cito le Sonate di Lorenzo De Castro.

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[Gaudenzio Ferrari: Paradiso (Particolare degli Angeli: il secondo da sinistra suona una tromba marina) Santuario della Beata Vergine dei Miracoli, Saronno.]

[Suonatore di Tromba marina, da Gabinetto armonico" di Arnold van Westerhout. 1723]

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Melomania: la pagina della Lirica

Ruggero Leoncavallo Pagliacci

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Origine dell'opera La genesi di Pagliacci si rifà ad un episodio, narrato dallo stesso Leoncavallo nella sua autobiografia, del quale si era occupato il padre, giudice istruttore a Montalto Uffugo (Cosenza). Siamo nel 1865, i protagonisti del fatto realmente accaduto sono Gaetano Scavello, trentenne e domestico della famiglia Leoncavallo e il calzolaio Luigi D’Alessandro; entrambi sono innamorati della stessa ragazza. Un giorno di marzo Gaetano vede passeggiare la giovane con il garzone dei D’Alessandro; Gaetano cerca di convincerla ad andare con lui, ma la giovane non acconsente e decide di seguire il garzone con il quale, poi, entrerà in un casolare. Scavello va su tutte le furie, chiede spiegazioni che gli vengono negate e, per la rabbia, frusta alle gambe con alcuni rami il garzone. L’ accaduto viene raccontato a Luigi D’Alessandro e al fratello Giovanni che decidono di vendicare l’affronto subito. L’occasione si presenta poche sere dopo. Al termine di uno spettacolo teatrale i fratelli D’Alessandro si presentano minacciosi di fronte a Gaetano, che ha per mano il piccolo Ruggero: mentre uno finge di colpirlo al fianco, l’altro approfitta del momento propizio e gli infligge una profonda coltellata all’addome. Gaetano muore il giorno dopo. L’istruttoria del processo fu affidata a Vincenzo Leoncavallo, e alla fine del processo nel luglio del 1865 i fratelli D’Alessandro vennero condannati. Il fatto di per sé non contiene elementi drammaturgici clamorosi, trattandosi di un “normale” episodio di sangue motivato dalla gelosia, che però da sempre è un potente richiamo teatrale. Un secondo spunto venne da Parigi, dove Leoncavallo aveva assistito ad una commedia di successo, La femme du tabarin, dove si raccontava la tragica vicenda di un’artista uccisa dal marito geloso proprio durante una rappresentazione teatrale. L’unione tra gelosia, morte e spettacolo teatrale risultano in genere elementi importanti per attirare la morbosa curiosità del pubblico, e di questa tragica vicenda il compositore colse quegli aspetti teatrali che poi decretarono il successo dell’opera. Ruggero Leoncavallo aveva solide basi culturali (era infatti laureato in lettere), cosa che gli permise di scrivere da sé i libretti di alcune sue opere, tra i quali anche quello di Pagliacci. Pagliacci si muove in un contesto drammaturgico assai efficace, una vicenda inserita all’interno di un’altra rappresentazione: un teatro nel teatro, come in Pirandello. Il titolo dell’opera era in origine Pagliaccio, ma venne modificato al plurale in seguito alla richiesta che il baritono Victor Maurel [nel riquadro] fece al compositore: il grande cantante francese disse a Leoncavallo che tra i personaggi dell’opera non vi era alcuno che sovrasta gli altri, né dal punto drammatico né per impegno vocale; inoltre fece notare che, mettendo il titolo al plurale, l’ascoltatore si sarebbe subito reso conto, ancor prima che si alzasse il sipario, di come Canio, Tonio, Nedda e gli altri siano tutti egualmente pedine e vittime di un tragico gioco.

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Secondo un’altra più malevole versione, il baritono francese non voleva che il suo ruolo (Tonio) passasse in secondo piano in favore di quello del tenore (Canio); l'editore a quel punto, per evitare di mettere a rischio la prima, avrebbe mutato il titolo in Pagliacci. Oltre al cambiamento del titolo originale, Maurel chiese ed ottenne da Leoncavallo un brano solo per sé: nacque così il Prologo, da alcuni considerato il manifesto del Verismo in musica anche se Pagliacci fu scritto due anni dopo Cavalleria rusticana di Mascagni, che viene considerata dagli storici la prima opera verista italiana. Cavalleria e Pagliacci: tra di loro il filo della modesta estrazione sociale dei protagonisti, il ritmo incalzante degli episodi, l’amore tradito, il tragico destino finale. La crudele fatalità è la vera protagonista di entrambe le opere: anche Turiddu, Santuzza ed Alfio sono vittime di un destino ineluttabile, quella condanna morale frutto di tutta una cultura meridionale di quel tempo (e purtroppo a volte anche nei nostri attuali). L'opera fu rappresentata per la prima volta a Milano il 21 maggio 1892, diretta da un giovane venticinquenne e poco conosciuto Arturo Toscanini, e ottenne subito un grande successo, che Leoncavallo purtroppo non riuscì ad ottenere con le sue successive opere; nel giro di due anni fu tradotta in molte lingue europee. Per via della sua brevità (circa un'ora), in teatro viene quasi sempre rappresentata assieme a Cavalleria rusticana di Mascagni, anch’essa di breve durata.

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Guida all’ascolto PROLOGO Un’introduzione orchestrale eseguita a sipario chiuso, quasi un breve preludio sinfonico, costituisce la parte iniziale del prologo. Accanto ad un tema di carattere brillante e pomposo, si susseguono citazioni di tre melodie fra quelle che caratterizzeranno i momenti salienti dell’opera: il primo tema presentato dai corni (nella partitura suonato dolorosamente), quindi il tema d’amore, esposto dai violini con l’accompagnamento dell’arpa, infine, suonato dai violoncelli, un terzo tema fosco e misterioso, che rappresenta la cieca gelosia del protagonista. All’improvviso il prologo viene interrotto dall’apparizione, al di qua del sipario ancora calato, di uno dei personaggi che poco dopo entreranno in scena, il gobbo commediante Tonio, che si presenta nelle vesti del personaggio che interpreta nell’opera, Taddeo.

[Ettore Bastianini (Tonio). Teatro Regio Torino, 1962]

Tonio dichiara di essere il Prologo e di presentarsi in scena per introdurre la trama della rappresentazione. Questo espediente letterario permette all’Autore di esplicitare l’argomento principale del dramma e di esprimere, in questo caso, la tragica alternanza tra finzione e realtà, a teatro come anche nella vita. Attraverso la voce di Tonio, Leoncavallo sostiene che dipingere onestamente uno “squarcio di vita” significa rappresentare assolutamente il vero, svelando cosa si celi dietro alle maschere che si è costretti a indossare. Durante il monologo, riappariranno i tre temi principali suonati all’inizio, ed appena Tonio termina di cantare, il tema orchestrale riprende con irruenza per una rapida incursione finale.

TONIO: Si può?... (poi salutando) Signore! Signori!... Scusatemi se da sol me presento. Io sono il prologo: poiché in iscena ancor le antiche maschere mette l'autore, in parte ei vuol riprendere le vecchie usanze, e a voi di nuovo inviami. Ma non per dirvi come pria: «Le lagrime che noi versiam son false! Degli spasimi e de' nostri martir non allarmatevi!» No! No. L'autore ha cercato invece pingervi uno squarcio di vita. Egli ha per massima sol che l'artista è un uomo e che per gli uomini scrivere ei deve. Ed al vero ispiravasi. Un nido di memorie in fondo a l'anima

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cantava un giorno, ed ei con vere lagrime scrisse, e i singhiozzi il tempo gli battevano! Dunque, vedrete amarsi come s'amano gli esseri umani; vedrete de l'odio i tristi frutti. Del dolor gli spasimi, urli di rabbia, udrete, e risa ciniche! E voi, piuttosto che le nostre povere gabbane d'istrioni, le nostr'anime considerate, poiché noi siam uomini di carne e d'ossa, e che di quest'orfano mondo al pari di voi spiriamo l'aere! Il concetto vi dissi... Or ascoltate com'egli è svolto. (gridando verso la scena) Andiam. Incominciate!

ATTO I Scena I Sono le tre del pomeriggio di un 15 agosto di un anno compreso dal 1865 al 1870. Al limitare di una strada si scorge un teatrino di campagna che, proprio in quei giorni, è giunto in un paesino calabrese al fine di rappresentare una commedia tradizionale che ha come oggetto le consuete vicende (amore e tradimento) della commedia dell’arte. La scena rappresenta un bivio di strada in campagna, all'entrata di un villaggio. A sinistra una strada che si perde tra le quinte, in fondo al viale si scorgono, fra gli alberi, due o tre casette. La destra del proscenio è quasi tutta occupata obliquamente da un teatro di fiera. Il sipario è calato. Su un gran cartello su cui è scritto rozzamente imitando la stampa: «Quest'ogi gran rappresettazione». Poi a lettere cubitali: PAGLIACCIO. Attirati dal suono e dal frastuono i contadini di ambo i sessi, in abito da festa, accorrono a frotte dal viale, mentre Tonio lo scemo, annoiato dalla folla che arriva, si sdraia dinanzi al teatro. Questa prima scena fa vedere l’ambientazione della vicenda con il suo clima di festa paesana e la gioiosa frenesia per l’arrivo degli artisti girovaghi. All'alzarsi del sipario si sentono squilli di tromba stonata alternantisi con dei colpi di cassa, ed insieme risate, grida allegre, fischi di monelli e vociare che vanno appressandosi. Stanno arrivando i saltimbanchi!

[Au elia o Pe tile el uolo di Ca io. Teat o dell Ope a di ‘o a. Terme di Caracalla, 1939] La gente acclama con esultanza Canio, il capocomico, ben conosciuto da tutti, e lo spettacolo annunciato. Canio, suonando la grancassa, zittisce il suo pubblico ed annuncia la commedia che si rappresenterà la sera alle ore 23 anticipandone sommariamente la trama.

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Lo stile del suo canto è sillabico e declamatorio, come se fosse un cantastorie (come quelli conosciuti da Leoncavallo durante la sua infanzia). Tonio fa per aiutare Nedda (moglie di Canio e Colombina nella commedia) a scendere dal carretto, ma Canio, stizzito, gli dà uno schiaffo e lo allontana (questo gesto rivela il carattere possessivo ed impulsivo del personaggio), quindi prende fra le braccia la moglie e la depone a terra. I contadini invitano Canio a bere con loro, ma nel frattempo lo stuzzicano, insinuando che Tonio voglia corteggiare Nedda; Canio risponde con vera gelosia e veemenza alla provocazione, e precisa che il teatro e la vita non sono la stessa cosa: Pagliaccio, il suo personaggio, accoglie con leggerezza il tradimento di Colombina; lui reagirebbe in ben altra maniera.

UN ALTRO CONTADINO (scherzando): Bada, Pagliaccio, ei solo vuol restare per far la corte a Nedda! CANIO (sorridendo forzatamente, ma con cipiglio): Eh! Eh! Vi pare?... Un tal gioco, credetemi, è meglio non giocarlo con me, miei cari; e a Tonio...e un poco a tutti or parlo!... Il teatro e la vita non son la stessa cosa; no... non sono la stessa cosa!!... (indicando il teatro) E se lassù Pagliaccio sorprende la sua sposa col bel galante in camera, fa un comico sermone, poi si calma od arrendesi ai colpi di bastone!... Ed il pubblico applaude, ridendo allegramente!... (cangiando tono) Ma se Nedda sul serio sorprendessi... altramente finirebbe la storia, o è ve he vi pa lo!... Un tal gioco, credetemi, è meglio non giocarlo!... L’arrivo degli zampognari (il tema viene intonato dall’oboe ad imitazione di una cornamusa) ed il suono delle campane allentano la tensione. I contadini e le contadine vestiti a festa si allontanano cantando. Canio entra dietro al teatro e lascia la sua giubba da Pagliaccio, poi ritorna, fa un cenno di saluto a Nedda e va all’osteria con alcuni contadini.

Scena II Nedda effettivamente ha qualcosa da nascondere, e teme molto la reazione di Canio, che sarebbe veramente brutale se egli la scoprisse: ciononostante si lascia alla spalle ansie e paure, abbandonandosi alla gioia di essere innamorata. Nella sua solitaria palpitazione amorosa, i violini intonano il tema d’amore già apparso nel Prologo. La sua gioia è annunciata dal suono dolcissimo dei violini e dell’arpa mentre gli altri strumenti dell’orchestra simulano un volo d’uccelli. Dall’angoscioso momento iniziale si scivola quindi in un episodio nostalgico e dolce. Il volo degli uccelli ricorda a Nedda una canzoncina che, quand’era bambina, le veniva cantata dalla madre. Il tono popolare e semplice va letto come una prima presentazione del carattere ingenuo e superficiale di questo personaggio femminile.

NEDDA (pensierosa): Qual fiamma avea nel guardo! Gli occhi abbassai per tema

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h ei leggesse il mio pensier segreto! Oh! s ei i so p e desse... brutale come egli è!... Ma basti, or via. Son questi sogni paurosi e fole! Oh che bel sole di ezz agosto! Io so pie a di vita, e, tutta illanguidita per arcano desio, non so che bramo! (guardando in cielo) Oh! he volo d augelli, e ua te st ida! Che chiedon?... dove van?... chissà! La mamma mia, che la buona ventura annunziava, comprendeva il lor canto e a me bambina così cantava: Hui! st ido o lassù, liberamente lanciati a vol come freccie, gli augel. Disfida o le u i e l sol o e te, e vanno, e vanno per le vie del ciel. Las iateli vaga pe l at osfe a, uesti assetati d azzu o e di sple do : seguo o a h essi u sog o, u a hi e a, e va o, e va o f a le u i d o . Che incalzi il vento e latri la tempesta, o l ali ape te sa tutto sfida ; la pioggia, i lampi, nulla mai li arresta, e vanno, e vanno sugli abissi e i mar. Vanno laggiù verso un paese strano che sognan forse e che cercano invan. Ma i oe i del iel seguo l a a o poter che li sospinge... e van!... e van! Nedda intanto si accorge che Tonio la osserva. L’uomo rivela a Nedda il trasporto amoroso che nutre per lei, ma la donna lo schernisce crudelmente; Tonio, sentitosi umiliato, esplode di rabbia, tenta di ghermire Nedda e di strapparle un bacio. La donna lo colpisce con la frusta, guadagnandosi orribili minacce (con gli archi in fortissimo), ma riesce a scacciarlo.

Scena III Entra in scena Silvio, un uomo del luogo, il vero amante di Nedda, ed è dunque in questa scena che prende corpo il duetto d’amore, con quel tema già precedentemente ascoltato. Nedda racconta a Silvio l’aggressione appena subita da Tonio (e qui la musica riprende il tema musicale appena ascoltato durante il gesto di Tonio: si crea così una stretta correlazione musicale fra i due duetti). La situazione fra i due amanti è triste, perché Nedda con tutta la sua compagnia teatrale è in procinto di partire. Silvio vorrebbe che lei lasciasse il marito, ma Nedda lo invita a pazientare perché ha paura della reazione di Canio:

NEDDA: Non mi tentar, vuoi tu perdere la vita mia?

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Il duetto prolungato fra i due amanti ha dato intanto a Tonio il tempo di tornare indietro, e, non visto, di sorprenderli assieme. Silvio e Nedda continuano il loro duetto amoroso e si dichiarano reciprocamente amore e desiderio di vivere insieme per sempre. Si promettono di non lasciarsi mai più e di fuggire quella notte stessa: si abbandonano ai baci, mentre l’orchestra suggella questo momento impreziosito dalle cadenze dell’arpa.

NEDDA: Nulla s o dai […]. Vive voglio a te avvi ta! Tonio è andato a riferire a Canio il tradimento di Nedda e lo conduce sul posto perché sorprenda la moglie e l’amante: questa è la sua vendetta per essere stato rifiutato da Nedda. Gli archi ripetono ancora in ritornello il tema d’amore mentre i due incauti amanti si stanno salutando; all’improvviso appare un ritmo marziale, violento, culminante in colpi di timpano e piatti: Canio irrompe nella scena. Nedda, spaventata, si para davanti al marito per proteggere la fuga dell’amante, Canio, dopo breve lotta, la spinge via e si muove all’inseguimento di Silvio, che però è riuscito a scappare.

Nedda e Tonio si ritrovano per un breve istante soli l’uno di fronte all’altra: in un’atmosfera tesa e carica di odio reciproco, il loro rapporto ha ormai preso una tragica piega. Canio rientra in scena, pallido e furente. Dopo il fallito tentativo di acciuffare il rivale, Canio si getta con violenza contro la moglie, minacciandola con un pugnale per costringerla a dirgli il nome dell’amante. Nedda resiste. L’orchestra, concitata, con ottoni, timpani e colpi di piatti, accompagna questa scena di violenta gelosia. Accorre Peppe (altro attore della compagnia) che strappa il pugnale a Canio e lo invita a calmarsi ed a prepararsi per lo spettacolo che sta per incominciare. L’impeto di violenza del marito tradito si placa solo

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alle velenose parole di Tonio, il quale con sottile astuzia lo convince ad aver pazienza: il rivale di certo si farà vivo allo spettacolo. Canio si ritrova adesso solo in scena, e la sua riflessione sconsolata riporta ancora il tema del contrasto fra verità e scena: per un tragico destino, quello che accade al personaggio di Pagliaccio nella commedia da recitare sul palcoscenico sta realmente accadendo a Canio e nel medesimo modo. Egli si abbandona ad amare constatazioni sulla propria condizione di saltimbanco che lo costringe a far ridere il pubblico nonostante il suo personale vero dolore.

La melodia intonata da Canio è tutta tesa al suo punto d’approdo conclusivo, quel Ridi Pagliaccio sul tuo amore infranto!, che tanto emoziona e colpisce, uno dei brani più emozionanti e amari di tutto il repertorio lirico.

CANIO: ‘e ita !… e t e p eso dal deli io non so più quel che dico e quel che faccio! Eppu … è d uopo… sfo zati! Bah! Sei tu forse un uom? Tu se' Pagliaccio! Vesti la giubba, e la faccia infarina. La gente paga e rider vuole qua. E se A le hi t i vola Colo i a, ridi, Pagliaccio, e ognun applaudirà! Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto, in una smorfia il singhiozzo e l dolo — Ah! Ridi, Pagliaccio, sul tuo amore infranto. ‘idi del duol he t avvele a il o .

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INTERMEZZO Segue quindi uno tra i più bei intermezzi di tutta la storia del melodramma che ben rappresenta, con le sue sonorità intensissime e profondissime, il dramma che permea in profondità l’opera. L’Intermezzo è un importante cardine di equilibrio di tutta l’opera: i temi riemergono mestamente, come lugubri reminiscenze degli avvenimenti precedenti e come presagio di sventura per i protagonisti del dramma. E’ quasi come se tutto il primo atto si configuri come l’antefatto della tragedia, mentre invece il secondo è un nuovo inizio, che necessita proprio di una sua ouverture. Ad avvalorare questa idea, finito l’Intermezzo, riappariranno le stesse trombe e gli stessi colpi di grancassa uditi nell’apertura del sipario al primo atto.

ATTO II Scena I Come nel primo atto, la scena inizia con un numero corale: sta per iniziare la commedia che la compagnia ha portato in paese, ed i popolani gridano cercando di avere il posto più vicino al palco, facendosi strada nella grossa calca che si è creata per l’occasione. Tra gli spettatori è presente anche Silvio. Nedda, vestita da Colombina, gira tra il pubblico per incassare i soldi dei biglietti, ne vende uno anche a Silvio, con il quale ha un rapidissimo scambio di battute.

[Verona, Teatro Filarmonico. Allestimento di Franco Zeffirelli, 2017]

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Scena II La tela del teatrino si alza. La scena, mal dipinta, rappresenta una stanzetta con due porte laterali ed una finestra. L’arredamento è semplice: un tavolo e due sedie rozze di paglia. In assenza del marito, Pagliaccio (Canio), Colombina (Nedda) passeggia nervosa in attesa del suo amante Arlecchino (Peppe). Da dietro le quinte arriva la voce di Arlecchino, che canta una serenata d’amore di vago sapore antico per Colombina, la quale gli dice di aspettare un suo segno per avvicinarsi. Giunge Taddeo (Tonio) che - in perfetta corrispondenza con la realtà vissuta prima - le confessa il suo amore. Arlecchino sopravviene a salvare Colombina dalle insidie di Taddeo, e lo caccia prendendolo per l’orecchio e dandogli un calcio, suscitando l’ilarità del pubblico. Colombina e Arlecchino si siedono a tavola per cenare. Arlecchino consegna a Colombina un sonnifero per Pagliaccio: quando tornerà a casa, lei glielo farà bere e i due amanti potranno fuggire. Taddeo rientra con enfasi esagerata ed annuncia l’arrivo di Pagliaccio, che sta per sorprenderli ed è armato. L’atmosfera si fa tesa, la musica diventa irruenta e carica di paura, con l’ascesa verso i toni acuti dei violini, che ripetono più volte la stessa configurazione, fino alla discesa a precipizio dei fiati. Taddeo corre a nascondersi, mentre il pubblico ride. Colombina si congeda dal suo amante, pronunciando le stesse parole che Canio aveva ascoltato da sua moglie Nedda nella realtà:

COLOMBINA. A sta otte… E pe se p e io sa CANIO. Nome di Dio! Quelle stesse parole!

tua!

Canio non è più la maschera della commedia, ma l’uomo tradito in preda alla gelosia e alla furia. Nedda cerca inutilmente di frenare il marito e indurlo a recitare la parte; il pubblico intanto non si rende ancora conto che non sta assistendo ad una messa in scena bensì all’inizio del tragico finale. L’orchestra è cupa, e gli ottoni soprattutto presentano un timbro brunito e minaccioso.

CANIO. Vo' il nome de l'amante tuo, del drudo infame a cui ti desti in braccio, o turpe donna! NEDDA (sempre recitando la commedia). Pagliaccio! Pagliaccio! CANIO. No! Pagliaccio non son! Se il viso è pallido, è di vergogna, e smania di vendetta! L'uom riprende i suoi dritti, e 'l cor che sanguina vuol sangue a lavar l'onta, o maledetta! No, Pagliaccio non son! Son quei che stolido ti raccolse orfanella in su la via quasi morta di fame, e un nome offriati, ed un amor ch'era febbre e follia! CONTADINE. Comare, mi fa piangere! Par vera questa scena! CONTADINI. Zitte laggiù! Che diamine! SILVIO. (Io mi ritengo appena!) CANIO (riprendendosi ed animandosi a poco a poco). Sperai, tanto il delirio acciecato m'aveva, se non amor, pietà ... mercé! Ed ogni sacrifizio al cor lieto, imponeva, e fidente credeva più che in Dio stesso, in te!

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Ma il vizio alberga sol ne l'alma tua negletta; tu viscere non hai... sol legge è 'l senso a te! Va', non merti il mio duol, o meretrice abbietta, vo' ne lo sprezzo mio schiacciarti sotto i piè. Nedda comincia ad essere presa dal panico e, nel tentativo di dare una qualche forma di risposta all’ira furibonda di Canio, per quanto può si attiene alla finzione scenica, anzi irride Pagliaccio. Un’esplosione di timpani e piatti nel fortissimo raggiunto precipitosamente dall’orchestra ci fa presagire la fase conclusiva del dramma. Il pubblico si rende finalmente conto che il fatto è reale e non inscenato, e balza in piedi inorridito: nessuno però sa reagire con prontezza, soltanto Peppe vorrebbe intervenire, ma viene fermato dal perfido Tonio che vuole che la sua vendetta sia consumata fino all’estremo. Canio è al parossismo della collera, afferra un coltello dal tavolo e piomba su Nedda. Silvio, che era tra il pubblico, snuda il suo pugnale, tenta di salire sul palco per salvare l’amata ma è troppo tardi, ostacolato dal pubblico in subbuglio. Canio è ossessionato dal conoscere il nome dell’amante della moglie, la quale persiste a negare:

NEDDA. Non parlerò! No! A costo de la morte! Canio colpisce alle spalle Nedda mentre tenta di fuggire verso il pubblico: la donna prima di morire invoca il nome dell’amante. Il marito ne conosce finalmente l’identità e, come una belva, accecato dalla gelosia, uccide anche Silvio, che intanto era riuscito a salire sul palco.

[Teatro Opera di Roma, 2018]

Canio, immobile e stravolto, lascia cadere il coltello e annuncia:

CANIO: La commedia è finita!

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Discografia

A Pagliacci è legata la voce di Enrico Caruso che, incidendo l’aria Vesti la giubba, è stato il primo artista a vendere più di un milione di copie di dischi. La registrazione discografica di Enrico Caruso è rintracciabile nelle tre versioni incise rispettivamente il 30 novembre 1902, il 1° febbraio 1904 e il 17 marzo 1907. Il dolore di Canio, raffigurato nell'aria, esemplifica la nozione di "pagliaccio tragico", che sorride all'esterno ma piange all'interno. Questa contraddizione è ancora oggi visualizzata, in generale, con la figura del pagliaccio che presenta spesso la lacrima dipinta sulla guancia. [His Master's Voice]

Leoncavallo: Pagliacci Carlo Bergonzi (Canio), Joan Carlyle (Nedda), Giuseppe Taddei (Tonio), Rolando Panerai (Silvio), Ugo Benelli (Peppe) Coro e Orchestra del Teatro alla Scala, dir. Herbert von Karajan. Deutsche Grammophon, The Originals Questa è una registrazione del 1965 davvero meravigliosa, a detta di tutti i critici musicali una di quelle leggendarie esibizioni che (purtroppo) raramente capita di ascoltare. L’interpretazione di Karajan è superba. Il grande direttore austriaco è una certezza per un "Pagliacci" nuovo e riscoperto, esente da tutto quel verismo che, troppo spesso di moda, ha stravolto il contesto di questa opera. I tempi sono giusti, le dinamiche sono tutte come nella partitura, e le sottili sfumature e le variazioni nei tempi sono semplicemente

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incantevoli. Karajan controlla il progressivo accumulo di tensione dell’opera con una presa che pochissimi direttori possono eguagliare. L'Orchestra del Teatro alla Scala di Milano è nel suo periodo aureo e l'amalgama del suono esalta al massimo tutta l'esecuzione, veramente di primissimo ordine. Carlo Bergonzi guida questo splendido cast con il suo canto ricco di picchi emotivi, e lo slancio sostenuto sino alla conclusione tragica. E’ per sentimento, intonazione ed espressività a pieno agio nel personaggio, tra i migliori di tutti i tempi. Joan Carlyle è un’ottima Nedda, anche se non alla stessa altezza di Los Angeles o di Callas, ma comunque molto avvincente. Taddei è eccellente per fraseggio ed accentuazione del tono del suo personaggio. Rolando Panerai canta molto bene, anche se è un po’ troppo robusto nel ruolo baritonale lirico di Silvio. Ugo Bennelli, nel ruolo di Peppe-Arlecchino, canta il suo ruolo con una bellezza e una facilità senza eguali rispetto a qualsiasi altra registrazione. Consigliabilissimo sotto tutti i punti di vista, questo è veramente un "Pagliacci" stratosferico,!

Leoncavallo: Pagliacci Giuseppe Di Stefano (Canio), Maria Callas (Nedda), Tito Gobbi (Tonio), Rolando Panerai (Peppe), Nicola Monti (Silvio) Coro e Orchestra del Teatro alla Scala di Milano, dir. Tullio Serafin. Warren Classics Performance vicinissima ai livelli delle incisioni di Karajan. E’ in mono (l’incisione è del 1954), ma il suono è eccellente. Giuseppe Di Stefano canta divinamente, offrendoci un Canio indimenticabile per fraseggio, tono ed espressività. Maria Callas si esibisce in una grandissima interpretazione di Nedda, un ruolo voluto intensamente femminile, l'unica a creare una vera tensione all'idea di Canio che legge i suoi pensieri, l'unica a dare un significato al suo umore mentre gli uccelli volano in alto, e l'unica a salutare il suo amante con gioia. Anche nel duetto con Gobbi, i due offrono una splendida interpretazione: tra loro, il dramma che si sta creando è straordinariamente esplicito. Tullio Serafin e l’Orchestra della Scala danno un contributo elevatissimo per chiarezza del suono e drammaticità espressiva.

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Leoncavallo: Pagliacci Placido Domingo [Canio], Montserrat Caballé [Nedda], Sherril Milnes [Tonio], Barry McDaniel [Silvio], Leo Goerke [Peppe] London Symphony Orchestra, John Alldis Choir, dir. Nello Santi. RCA In questa registrazione del 1971, Domingo ha una voce giovanile di prima qualità, in grado di manifestare la gelosia e la rabbia crescente del protagonista Montserrat interpreta Nedda con grande bravura e convinzione: ascoltate nell’ultima scena il suo nervosismo e la ricerca di una compostezza forzata nonostante la veemenza di Canio per rendersene conto. Milnes è un Tonio malconcio e brutale con note alte forse un po’ troppo vistose ma elettrizzanti; Goeke come Peppe-Arlecchino dimostra ottima professionalità, anche se nell’opera il contributo del suo personaggio è limitato. La direzione di Santi percorre tutta l’opera in modo splendido ricco del senso del dramma. Il coro è molto bravo, ben calibrato, e l’orchestra è veramente in forma smagliante, ricca di colori e sfumature.

 Esiste un’altra performance di Placido Domingo (con Teresa Stratas, Juan Pons, Alberto Rinaldi e

Florindo Andreoli) con l’Orchestra del Teatro alla Scala, diretta da Georges Prêtre e la regia di Zeffirelli, in versione audio e DVD. Escludendo la prestazione dell’orchestra, la direzione di Prêtre e l’esibizione di Juan Pons, il resto del cast offre una performance non riuscita, pertanto non mi sento di consigliarla.

Leoncavallo: Pagliacci Luciano Pavarotti (Canio), Mirella Freni (Nedda), Ingvar Wixell (Tonio), Lorenzo Saccomani (Silvio) National Philharmonic Orchestra, dir. Giuseppe Patanè. Decca Siamo nel 1976, e Pavarotti viveva un momento magico della sua vocalità: in questa incisione la sua prestazione in Pagliacci è eccezionale (alcuni critici però lo definiscono poco adatto ad un’interpretazione “verista”, ma a me è personalmente piaciuto), delineando un Canio di assoluto riferimento e ponendosi al fianco delle migliori esecuzioni di Caruso e di Gigli. Mirella Freni in questa registrazione è molto brava, e fa ben emergere il carattere del suo personaggio, combattuta tra la speranza di un nuovo amore e la realtà della paura.

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Sempre eccellente la prestazione del Maestro Giuseppe Patanè, un direttore pieno di inventiva e creatività, uno che aveva il teatro nelle vene.

Leoncavallo: Pagliacci Luciano Pavarotti (Canio), Daniela Dessì (Nedda), Juan Pons (Tonio), Paolo Coni (Silvio), Ernesto Gavazzi (Peppe) Philadelphia Orchestra, dir. Riccardo Muti. (Live, 1992). Philips I punti di forza di questa edizione sono la direzione del Maestro Muti e la presenza di Luciano Pavarotti, nei panni del protagonista Canio. Diversamente da quanto si ascolta (e soprattutto si ascoltava allora) ad opera di direttori, per lo più stranieri, che tendono a dare una rappresentazione del mondo meridionale di circostanza, basata unicamente su elementi folkloristici, Riccardo Muti - che meridionale lo è veramente recupera sì i colori e l'ambientazione locale, ma dirige con un’acuta e sensibile raffinatezza, così da ricreare il clima corretto, attribuendo al contempo i giusti meriti ad una partitura troppo spesso trascurata e trattata con sufficienza. Sotto questo profilo, Muti conferma la linea interpretativa già seguita nella precedente registrazione effettuata nel 1979, dove la parte di Canio era appannaggio di José Carreras, peraltro con risultati piuttosto generici sia vocalmente che nel delineare il personaggio. Ovviamente non si tratta più del tenore che sedici anni prima (sotto la guida di Giuseppe Patanè, guarda caso altro direttore meridionale) aveva offerto una prestazione eccezionale, delineando un Canio di assoluto riferimento, ma anche nel 1992 Pavarotti rimaneva pur sempre il tenore contemporaneo maggiormente dotato sotto il profilo vocale e aveva ancora tutte le carte in regola per affrontare con grande spontaneità e sicurezza "Un tal gioco", "Vesti la giubba" e "No, Pagliaccio non son", delineando un personaggio vero e assecondando la linea melodica perseguita da Muti. Il cast è completato dalla presenza di Daniela Dessì, di Juan Pons, di Paolo Coni e di Ernesto Gavazzi: certo siamo su livelli inferiori rispetto a quello di Pavarotti e forse non tutti possiedono la gamma vocale più adatta per affrontare i rispettivi ruoli, ma nell’insieme la performance è di alto livello.

(Il dipinto di pag. 82 è di Sandra Bartoloni, del Teatro Regio di Torino)

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