GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 1 – Giugno 2017
GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista Trimestrale on-line Numero 1 - Giugno 2017
Coordinatore editoriale: Giuseppe Ragusa
In questo numero: 1° Copertina: Simone Martini, Dettaglio dei musici da “Investitura di San Martino” (Cappella di San Martino, Basilica inferiore di san Francesco d’Assisi) 4° Copertina: Vincenzo Bellini (Museo internazionale e Biblioteca della musica, Bologna) [3] [4] [30] [40] [41] [43] [45]
Editoriale: Il precedente… I Canti profani Medievali Laudi e Cantigas Antichi strumenti musicali: la Ghironda Musica classica e cinema: Melancholia, di Lars von Trier Guida all’ascolto: J.S. Bach - Oratorio di Natale BWV 248 (di Roberto Simeoni) Melomania: Norma, di Vincenzo Bellini
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Il precedente… Il 15 Dicembre 2011, nella storica Osteria “Da Lauro”, a Serravalle, antico borgo di Vittorio Veneto, fecero la loro prima apparizione ufficiale “Gli Amici del Loggione”, costola anomala degli “Amici del Vinile”, un gruppo di amici che, guidato dal Presidente Nicola, lì si ritrovava ogni mese per ascoltare della buona musica prog, pop, rock, metal, jazz et similia, il tutto sapientemente accompagnato dai piaceri del convivio enogastronomico dello Chef Egidio. Noblesse oblige: era di rigore allora riprodurre la musica su dischi di vinile, ma adesso Cd e video la fanno da padroni… Quella sera, umida e fredda, quasi siberiana, il Loggionista Giuseppe (fondatore del nuovo piccolo gruppo, che tale è rimasto…) ebbe il coraggio - o l’incoscienza - di proporre ad un incuriosito (e per molti versi vergine) pubblico una serata diversa, improntata all’ascolto solo di musica classica. Fu la prima volta che, tra le pareti dell’Osteria, risuonarono immacolate le note della musica medievale e barocca! Per la serata, intitolata L’AMOR CORTESE, LE PUTTE E LE MUCCHE DEL WISCONSIN scrissi una premessa che così (testualmente) diceva: “Uno studio dell’Università di Madison, nel Wisconsin, ha accertato che la produzione di latte nelle mucche che ascoltano musica sinfonica aumenta del 7,5 %. Non si hanno dati scientifici altrettanto probanti sulla musica di Frank Zappa. Se si chiede alla gente cosa mai distingua la musica “colta” da quella popolar-leggera, emergono alcune argomentazioni-base del tipo “la musica colta è più difficile, più complessa” oppure “la musica leggera è un fatto di consumo e basta, quella classica invece ha un contenuto, una natura spirituale, un ideale”. Tutti sappiamo che non è così, che non deve essere così. Nell’attesa, io sto con le mucche.” Questo primo numero on-line della Rivista (che nelle intenzioni avrà una cadenza trimestrale) ripercorre fedelmente la prima parte di quella “storica” serata, cioè quella dedicata alla Musica del Medioevo, così come era stata allora ideata e proposta: i testi sono rigorosamente quelli originali, solo arricchiti da immagini tratte da manoscritti medievali. In coda, viene riportata la scaletta dei brani che in quella occasione vennero proposti. Completano la Rivista altre Rubriche su temi di musica classica e lirica. Ad onor della cronaca, la serata medieval-barocca ebbe un successo clamoroso, e l’avventura continua ancora…
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I Canti profani Medievali I Trovatori e Trovieri Attorno all’anno Mille vi fu un generale risveglio di civiltà, il mondo chiuso del feudo si aprì e animò le città, che diventarono centri di produzioni e di commercio, e anche l’arte e la cultura trovarono nuove vie di sviluppo. I primi esempi furono i Menestrelli (dal latino minister, servitore) che allietavano le feste di corte al servizio di un signore, ed i Giullari, cantastorie erranti che cantavano e suonavano nelle piazze e nelle fiere diffondendo notizie di vicende vissute o di cui avevano sentito parlare. I loro racconti rappresentavano l’unica opportunità per gli abitanti di un castello o di un borgo di conoscere quanto avveniva al di là del breve orizzonte delle mura entro cui vivevano. Contribuirono così non soltanto a diffondere mode e costumi di genti diverse, ma anche assunsero la funzione della “circolazione delle idee”, il che causò loro una forte ostilità da parte del potere civile e religioso. Menestrelli e giullari erano cantori, abili suonatori, danzatori, acrobati e buffoni; per le loro musiche utilizzavano vari tipi di strumenti musicali, molti dei quali sono gli antenati degli strumenti attuali. Le loro canzoni erano basate su semplici melodie ripetute e narravano storie di eroi e condottieri: Carlo Magno e i suoi Paladini contro gli infedeli Saraceni (“La chanson de Roland”), Re Artù e i Cavalieri della Tavola rotonda, le spedizioni dei Crociati in Terra Santa. Le melodie di queste canzoni erano quasi sempre improvvisate sul momento, quindi nessuno si preoccupava di trascriverle, ed è per questo motivo che esse non sono giunte fino a noi. In Francia, a partire dal XII secolo nasce una nuova figura di poeta-musicista: i Trovatori e i Trovieri (Troubadours e Trouvéres). I Trovatori (dal provenzale trobar, "poetare”) erano nobili, feudatari, cavalieri ma anche dame, comunque sempre personaggi della corte che non facevano i musicisti di mestiere, ma si dilettavano nella poesia e nella musica, componendo versi e a volte anche la melodia sulla quale cantarli durante qualche festa.
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Furono
attivi
nel
Sud
della
Francia
(Provenza), tra il 1070 e il 1220, ed usavano la lingua provenzale detta lingua d'oc. I Trovieri invece fiorirono ed operarono tra il 1145 e il 1300, nelle regioni della Francia del nord; la loro poesia venne espressa nella lingua d’oïl, che darà origine al francese moderno. Al contrario dei trovatori, erano persone che provenivano in larga parte dal mondo monastico o dalla piccola borghesia. Complessivamente sono giunte a noi 264 melodie di trovatori e quasi 2000 di trovieri. Dal punto di vista musicale queste melodie risentono dell’influsso del canto gregoriano, il genere musicale più diffuso a quel tempo, del quale conservano l’andamento monodico. A differenza di quella dei menestrelli, la musica dei trovatori veniva trascritta, e questa è una conferma della sua origine colta; purtroppo una gran parte di essa è andata quasi completamente perduta. Gli argomenti trattati dai trovatori e dai trovieri erano vari, ma erano tutti accomunati da una visione poetica che esaltava i temi dominanti del fin’amor e dell’amor cortese: un amore che aveva sempre i connotati della passione
ideale,
sublime,
esclusiva,
nei
confronti della donna, la quale possedeva tutte le virtù e arrivava perciò a rendere migliore e più valoroso l'uomo che l'amava. Douce Dame Jolie, un virelai composto dal trovatore francese Guillaume de Machaut, ne è un classico esempio. Il virelai è un componimento poeticomusicale in lingua d'oil, generalmente in tre stanze, con refrain, strofa e volta, in origine accompagnato dalla danza.
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DOUCE DAME JOLIE, di Guillaume de Machaut Douce dame jolie, pour dieu ne pensés mie que nulle ait signorie seur moy fors vous seulement.
Bella dolce dama, per l’amor di Dio, non penso che nessun altro regni su di me se non voi solamente.
Qu'adès sans tricherie, chierie, vous ay et humblement tous les jours de ma vie servie sans villain pensement. Helas! Et je mendie d'esperance et d'aïe; dont ma joie est fenie, se pité ne vous en prent.
E sempre senza inganni, mia cara, umilmente tutti i giorni della mia vita vi ho servito senza altri vili pensieri. Ahimè! Vi prego di darmi speranza e conforto, ma la mia gioia svanirà se voi non avrete pietà di me
Douce dame jolie, pour dieu ne pensés mie que nulle ait signorie seur moy fors vous seulement.
Bella dolce dama, per l’amor di Dio, non penso che nessun altro regni su di me, se non voi solamente.
Mais vo douce maistrie maistrie mon cuer si durement qu'elle le contralie et lie en amour tellement cu'il n'a de riens envie fors d'estre en vo baillie. Et se ne li ottrie vos cuers nul aligement.
La vostra dolce potenza domina così completamente il mio cuore, che anche ciò che lo contraddice si lega con così tale amore che non ha altro desiderio di far parte della vostra vita. E anche se non ha speranza, il mio cuore si dona a voi.
Douce dame jolie, pour dieu ne pensés mie Que nulle ait signorie seur moy fors vous seulement.
Bella dolce dama, per l’amor di Dio, non penso che nessun altro regni su di me se non voi solamente.
Et quant ma maladie Garie ne sera nullement sans vous, douce anemie, qui lie estes de mon tourment, a jointes mains deprie vo cuer, puis qu'il m'oublie, que temprement m'ocie, car trop langui longuement.
E quando la mia malattia sarà guarita, nulla avverrà senza di voi, dolce nemica, che guardate e godete del mio tormento, io prego con le mani giunte il vostro cuore, perché mi dimentichi, o che mi uccida per pietà, perché ha languito per troppo tempo.
Douce dame jolie, pour dieu ne pensés mie que nulle ait signorie seur moy fors vous seulement.
Bella dolce dama, per l’amor di Dio, non penso che nessun altro regni su di me se non voi solamente.
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Fondamentale nel concetto di amor cortese è la mezura, cioè la capacità di controllare gli impulsi, gli istinti: la "misura" consiste nel provare alla Signora che ella non è solo oggetto di desiderio, ma che l'amore è anche sentimento e rispetto. Se così sarà, l’uomo sarà ammesso all'intimità della Domina. Gli elementi che caratterizzavano la poetica dell’amor cortese erano tre: - l’amore doveva nascere al di fuori del matrimonio: l’oggetto d’amore doveva essere sempre una donna sposata e quindi vi era l’esigenza della segretezza in questo rapporto. - il poeta-amante doveva avere un atteggiamento trepido e sottomesso [metafora feudale del rapporto amante (vassallo) / amata (signore)] - la presenza del cattivo (cioè il marito della donna amata) e dei cosiddetti lauzengiers, i maldicenti, che si adoperavano per ostacolare l’amore. Anche le fasi dell’evolversi della passione amorosa erano ordinate seguendo uno schema prestabilito nel quale, a seconda della accoglienza via via concessa dalla donna, l’amante assumeva un ben preciso appellativo: feignedor (il timido amante cela ancora il suo amore), prejador (l’amante trova il coraggio per implorare amore), entendedor (la donna consente ad ascoltarlo), drutz (l’amante è ricambiato). Il fin’amor trovadorico, pur conservando una colorazione carnale, però non celebrava l’adulterio bensì la continenza, e forse, proprio per questo motivo, riusciva gradito alla nobiltà in seno alla quale era fiorito e veniva praticato. Il punto più alto, ovvero l’acme amoroso, era rappresentato generalmente da un casto bacio. Il perfetto amante, nell’intimità come in società, era semplicemente un servitore della sua dama, suo dovere era quello di piacerle, di esserle fedele, di decantarne le virtù. Ma è pur vero che, oltre al bacio, il cavaliere poteva aspirare ad avere altre due ricompense: contemplare il corpo nudo della dama e essere sottoposto all’asag, ovvero alla “prova” in cui tutto era permesso, eccetto l’amplesso vero e proprio. Un’eco di questa pratica potremmo scorgerlo in alcuni versi della trovatrice Beatriz, contessa di Dia, vissuta nella 2° metà del XII secolo. Questa civiltà del tardo XII secolo nel sud della Francia è sperimentale, coraggiosa, fiera della sua appena conquistata laicità; intorno alle corti
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si sta sviluppando un dibattito culturale che coinvolge sia i nobili che i giullari giramondo, le idee appena lanciate vengono discusse, rovesciate, parodiate. E’ in quel clima che nacque il fenomeno delle “trobairitz”, le donne trovatrici; poche a dir la verità, dai tratti autobiografici confusi, autrici di pochi testi. Questa Contessa di Dia è un mistero: la sua biografia (scritta molti anni dopo) la proclama moglie di un Guglielmo di Poitiers e amante di Raimbaut d’Aurenga: forse si chiamava Beatrice, forse Isoarda. Dai suoi scritti traspare una libertà di pensiero tale da fare invidia alle donne del secolo attuale, allorquando desidera fortemente di riconquistare i favori di un cavaliere al quale ancora non ha avuto il coraggio di concedere l’amore. L’amore trasgressivo della contessa Beatriz de Dia. “Estât ai en greu cossirier” è una canzone di rimpianto, desiderio e promessa, equamente distribuiti nelle tre strofe. Non è purtroppo arrivata a noi la parte musicale. Nella prima strofa la donna si pente di non essersi concessa all’uomo pur amandolo moltissimo, e per la sua ritrosia l’uomo l’ha abbandonata; ora, per riscattarsi, dichiara il proprio amore ad alta voce, che tutti lo sappiano e per sempre.
Si
rimprovera
lo
sbaglio, che paga con tormento e confusione (“error” è il non saper districarsi tra le emozioni, la pena della mancanza di lucidità). Nella
seconda
sensualità:
il
emerge suo
la
desiderio
recondito è allora quello di giacere a letto con lui, i due corpi
nudi
abbracciati,
ed
offrirgli il suo seno come cuscino. E’ una dichiarazione in piena regola, avvalorata dal riferimento letterario agli amanti di un romanzo famoso (e lei si paragona all’uomo, cioè a Florio, non a Biancofiore). Nella terza parte arriva la promessa-preghiera: quando potremo finalmente stare insieme, rifacendoci di quel che si è perso? La donna è sfacciata, non vuole ripetere l’errore, stavolta glielo dice chiaro: “Vi vorrei al posto di mio marito”, ma non cede in dignità, nella coppia si sente ancora in diritto di comandare: è ben consapevole che lui non oserà mai andare oltre ciò che lei (e la ritualità dell’amor cortese) gli avrà consentito.
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ESTÂT AI EN GREU COSSIRIER, di Beatriz de Dia Estat ai en greu cossirier per un cavallier q'ai agut, e voill sia totz temps saubut cum eu l'ai amat a sobrier; ara vei q'ieu sui trahida car eu non li donei m'amor, don ai estat en gran error en lieig e qand sui vestida.
Sono stata in un grave tormento per un cavaliere che ho avuto, e voglio si sappia come sempre che l'ho amato di immenso amore; ora vedo d'esser tradita poichè non gli concessi il mio amore: è per questo che provo gran pena nel letto e quando son vestita.
Ben volria mon cavallier tener un ser e mos bratz nut, q'el s'en tengra per ereubut sol q'a lui fezes cosseillier: car plus m'en sui abellida no fetz Floris de Blanchaflor: eu l'autrei mon cor e m'amor, mon sen, mos huoills e ma vida.
Vorrei ardentemente il mio cavaliere tenere a sera tra le mie braccia nudo, e ch’egli provasse soddisfazione se solamente gli servissi da cuscino: chè ne sono invaghita più che Fiorio di Biancofiore: gli concedo il mio cuore e il mio amore, il mio senno, i miei occhi e la mia vita.
Bels amic, avinens e bos, cora us tenrai e mon poder? E que jagues ab vos un ser e qu'us des un bais amoros! Sapchatz, gran talan n'auria qu'us tengues en luoc del marit, ab so que m'aguessetz plevit de far tot so qu'eu volria.
Caro amico, cortese ed affascinante, quando potrò avervi in mio potere? Per giacere accanto a voi una sera e darvi un bacio d’amor! Sappiate che muoio dal desiderio di avervi al posto del mio sposo, purchè manteniate la promessa che facciate tutto quelche io vorrò.
Le canzoni dei Trovatori e Trovieri erano molto diverse dal canto gregoriano: il gregoriano era basato su un testo latino, mentre le canzoni trobadoriche erano basate su testi in volgare; il canto gregoriano era sacro, mentre le canzoni trobadoriche erano di argomento profano; il gregoriano era cantato da cori abbastanza numerosi, mentre le canzoni trobadoriche erano cantate da una voce solista, eventualmente accompagna da uno strumento che ripeteva la stessa melodia della voce. Infine, mentre il gregoriano era anonimo, noi conosciamo molti nomi di trovatori e trovieri. I più importanti trovatori furono Guglielmo IX d'Aquitania, Marcabru, Bernart de Ventadorn, Arnaud Daniel, Raimbaut de Vaqueiras; fra i trovieri, il più celebre è Adam de la Halle. Bernart de Ventadorn (1130-1190) è considerato il più grande dei trovatori ed uno dei più importanti poeti d’amore di tutti i tempi. Le sue liriche, apprezzatissime in vita, e oggi considerate il meglio della produzione trobadorica, sono tutte di carattere amoroso. Ebbe umili natali: la madre era cuciniera, il padre fornaio ed anche uomo d'arme nel palazzo dei
duchi
di
Ventadorn;
alcune
fonti
suppongono che Bernart fosse figlio illegittimo del grande signore Ebolo II di Ventadorn o addirittura
dello
stesso
Guglielmo
IX
d'Aquitania. Di bell’aspetto e di nobile portamento, fu iniziato all’arte trobadorica dallo stesso Duca di Ventadorn, il quale poi lo cacciò via quando seppe della sua storia d’amore con Margherita di Turenna, la donna del figlio del duca. Si recò quindi presso la corte di Eleonora d’Aquitania, dove divenne ben presto il favorito tra quanti, poeti e cantori, animavano la corte della nipote di Guglielmo IX. In questa corte ebbe modo di entrare in rapporto con i più grandi poeti del tempo (Raimbaut d'Aurenga, Chrétien de Troyes). Allorché Eleonora andò sposa in seconde nozze con Enrico II Plantageneto, che, divenuto re d’Inghilterra, la portò oltre Manica, Bernart secondo alcune fonti sarebbe rimasto in territorio francese “triste e addolorato”, ma secondo altri avrebbe seguito i sovrani in Inghilterra. Tornato dopo alcuni anni nel continente, Bernart si recò a Tolosa: qui si innamorò della contessa Ermengarda e in questa Corte rimase fino alla morte del suo protettore Raimondo V di Tolosa. Si ritirò infine nell'abazia cistercense di Dalon, dove morì. Ci sono pervenuti 45 testi di cui 18 con musica: nelle sue poesie la sensualità, la contemplazione “cortese” della bellezza femminile, gli abbandoni al sentimentalismo si alternano alla meditazione sul tempo che passa e allo sfiorire della giovinezza.
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La sua composizione più celebre è “Can vei la lauzeta mover” (Quando vedo l’addoletta muoversi), presente in ben 23 manoscritti e che ha molto influenzato i successivi trovatori. Il testo è in prima persona: il personaggio dell'amante infelice osserva triste il volo gioioso dell’allodola, e canta la sue pene amorose. Nella tornada Bernart si paragona a Tristano, emblema dell'amante tormentato da un amore infelice. Pochi sanno della fama di poeta e compositore che accompagna la figura di Riccardo I Cuor di Leone (1157-1199), re di Inghilterra dal 1189 al 1199. Fu tra i sovrani che parteciparono alla terza Crociata in Terra Santa, dove si scontrò con Saladino, il grande sultano dell’Egitto. Le sue imprese eroiche furono raccontate dai poeti del Medioevo, che lo dipinsero come un campione della fede cristiana e un soldato coraggioso e intrepido. Nel 1192, conclusa la spedizione in Terra Santa, dopo aver stipulato con Saladino una tregua di tre anni, Riccardo decise di rientrare in Europa. Durante il viaggio di ritorno, travestito da pellegrino per sfuggire alle trappole del Re di Francia Filippo Augusto, fu riconosciuto e catturato dal duca d'Austria Leopoldo V, che riteneva Riccardo responsabile della morte di Corrado del Monferrato; inoltre si riteneva offeso per una ingiuria ricevuta dallo stesso Riccardo al tempo della Crociata. Re Riccardo fu rinchiuso a Dürnstein, e, dopo una prigionia durata circa 2 anni, fu liberato grazie al pagamento di un forte riscatto; quindi sbarcò in Inghilterra giusto in tempo per domare la ribellione di Giovanni Senza Terra, che voleva strappargli il trono. "Ja nus hons pris" (Mai nessun prigioniero) fu scritta durante la prigionia ed è una composizione diretta alla sorella Maria di Champagne, dove il re prigioniero esprimeva il senso d'abbandono che lo aveva colto, lontano dal suo popolo e dai suoi familiari.
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CAN VEI LA LAUZETA MOVER, di Bernart de Ventadorn Can vei la lauzeta mover de joi sas alas contra·l rai, que s'oblida e·s laissa chazer per la doussor c'al cor li vai, ai! tan grans enveya m'en ve de cui qu'eu veya jauzion! Meravilhas ai, car desse lo cor de dezirer no’m fon.
Quando vedo l’allodoletta battere di gioia le sue ali verso i raggi del sole, tanto che dimentica tutto e si lascia cadere per la dolcezza che le va al cuore, ah! tanta grande invidia mi prende di chiunque veda gioioso! Subito mi meraviglio che il cuore non mi si strugge dalla nostalgia.
Ai, las! tan cuidava saber d'amor, e tan petit en sai, car eu d'amar no·m posc tener celeis don ja pro non aurai. Tout m'a mo cor, e tout m'a me, e se mezeis e tot lo mon; e can se·m tolc, no·m laisset re mas dezirer e cor volon.
Ahi, me infelice! tanto credevo di sapere d'amore e tanto poco ne so, perché io non posso trattenermi dall'amare colei da cui mai otterrò nessun vantaggio. Mi ha tolto il cuore, e tutto me stesso, e a se stessa, e a tutto il mondo: e al togliermisi, non mi lasciò nulla tranne la nostalgia e il cuore voglioso.
Anc non agui de me poder ni no fui meus de l'or'en sai que·m laisset en sos olhs vezer en un miralh que mout me plai. Miralhs, pus me mirei en te, m'an mort li sospir de preon, c'aissi·m perdei com perdet se lo bels Narcisus en la fon.
Non ebbi più il dominio di me stesso e da allora non fui più mio da quando mi lasciò guardare nei suoi occhi in uno specchio che molto mi piace. Specchio, dopo che mi rispecchiai in te, mi hanno ucciso i profondi sospiri che così mi persi [nei tuoi occhi, ndA] come si perse il bel Narciso nella fonte.
De las domnas me dezesper; ja mais en lor no’m fiarai, c'aissi com las solh chaptener, enaissi las deschaptenrai. Pois vei c'una pro no m'en te vas leis que·m destrui e'm cofon, totas las dopt'e las mescre, car be sai c'atretals se son.
Non ho più speranza in nessuna donna; e mai più mi fiderò di loro, che così come sono solito elogiarle, nello stesso modo toglierò le mie lodi. Poiché vedo che nessuna mi viene in aiuto contro colei che mi distrugge e mi rovina, tutte io le temo, e di tutte diffido perché so bene che son tutte eguali.
D'aisso.s fa be femna parer ma domna, per qu'e·lh o retrai, car no vol so c'om deu voler, e so c'om li deveda, fai. Chazutz sui en mala merce, et ai be faih co·l fols en pon; e no sai per que m'esdeve, mas car trop puyei contra mon.
In ciò si rivela veramente femmina la mia donna, perciò io la biasimo, perché non vuole ciò che si deve volere e fa ciò che le si vieta. Sono caduto in mala grazia e ho fatto come lo stolto sul ponte; e non so perché ciò avvenga se non perché io volli mirare troppo in alto.
Merces es perduda, per ver (et eu non o saubi anc mai!), car cilh qui plus en degr'aveI, no·n a ges; et on la querrai? A! can mal sembla, qui la ve, qued aquest chaitiu deziron que ja ses leis non aura be, laisse morir, que no l'aon!
Pietà è perduta, è vero, (ed io non seppi mai nulla!) perché colei che più ne dovrebbe avere, non ne ha affatto; e dove la cercherò? Ah, quanto dispiace a chi la vede, che questo infelice spasimante che mai senza lei avrà bene, lei lo lasci morire, e non l’aiuti!
Pus ab midons no·m pot valer precs ni merces ni·l dreihz qu'eu ai, ni a leis no ven a plazer qu'eu l'am, ja mais no·lh o dirai. Aissi·m part de leis e·m recre; mort m'a, e per mort li respon, e vau m'en, pus ilh no·m rete, chaitius, en issilh, no sai on.
Poiché presso la mia signora non può valere né preghiera né grazia né il diritto che ho io, e non le piace ch'io l'ami, e giammai glielo dirò. Così mi separo da lei, e mi ricredo: mi ha ucciso e in quanto morto non le rispondo, / me ne vado, poiché ella non mi trattiene, /infelice in esilio non so dove.
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JA NUNS HONS PRIS, di Re Riccardo I Cuor di Leone Ja nuns hons pris ne dira sa raison a droitement, se dolantement non: mais par esfort puet il faire chançon. mout ai amis, mais povre sunt li don. Honte i avront, se por ma reançon Sui ça deus yvers pris.
Mai nessun prigioniero potrà esprimere bene quel che sente, senza lamentarsi: ma sforzandosi può comporre una canzone. Ho molti amici, ma i loro doni sono poveri. Saranno biasimati, se per non darmi riscatto, son già due inverni che sono qui prigioniero.
Ce sevent bien mi home e mi baron, Ynglois, Normanz, Poitevin et Gascon que je n'ai nul si povre compaignon que je lessaisse, por avoir, en prison. Je nou di mie por nule rentrançon, car encor sui pris.
Ma i miei uomini e i miei baroni, Inglesi, Normanni, Pittavini e Guasconi, sanno che neanche l'ultimo dei miei compagni io lascerei marcire in prigione per denaro. E non lo dico certo per rimproverarvi, ma perché sono ancora qui prigioniero.
Or sai je bien de voir, certeinnement, que je ne pris ne ami, ne parent, quant on me faut por or ne por argent. Mout m'est de moi, mès plus m'est de ma gent; qu'après ma mort a vront reprochement, se longuement sui pris.
Ora so bene, con certezza, che un prigioniero non ha più parenti né amici, poiché mi si tradisce per oro o per argento. Soffro molto per me, ma più per la mia gente; poiché, dopo, la mia morte sarà biasimata se resterò prigioniero a lungo.
N'est pas mervoille se j'ai le cuer dolant, quant mes sires mest ma terre en torment. S'il li membrast de nostre soirement que nos feïsmes andui communement, je sai de voir que ja trop longuement ne seroie ça pris.
Nessuna meraviglia se ho il cuore addolorato, dato che il mio signore la mia terra tormenta. Se si ricordasse del nostro giuramento che entrambi facemmo di comune accordo, so con certezza che mai, da così tanto tempo io sarei prigioniero.
Ce sevent bien Angevin et Torain, cil bacheler qui or sont riche et sain, qu'encombrez sui loing d'aus, en autre main. Forment m'aidessent, mais il n'en oient grain. De beles armes sont ore vuit et plain, por ce que je sui pris.
Lo sanno bene gli Angioini e i Turennesi, quei novizi che ora son sani e ricchi, mentre io sono lontano da loro, in mano ad altri. Mi aiuterebbero molto, ma non ci sentono. Di belle armi e di scudi sono privi, perché io sono qui prigioniero.
Contesse suer, vostre pris soverain vos saut et gart cil a cui je m'en clain; e por ce que je sui pris. Je ne di mie a cele de Chartrain, la mere Loëys.
Sorella Contessa, che il vostro alto pregio lo conservi e protegga colui a cui mi appello e per cui sono prigioniero. E non mi appello certo a quella di Chartres, la madre di Luigi.
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I Minnesänger Dalla Francia l’innovativo fenomeno poetico si trasferì nelle regioni del nord e, prima di spegnersi alla fine del sec. XIII, riuscì ad improntare la produzione poetica in volgare di altri paesi quali la Spagna, l’Italia, la Germania, ed anche nazioni più refrattarie come l’Inghilterra e l’Ungheria. La musica profana si affermò soprattutto per merito della “canzone amorosa” e Minnesänger è il nome con il quale furono chiamati i poeti-musici tedeschi, in quanto Minnesang (letteralmente da Minne = amor cortese e Sang = canto) era il movimento dal quale essi presero le mosse. I più noti furono Neidhart von Reuenthal, Reimnar von Hagenau, Oswald von Wolkenstein e Walter von der Vogelweide.
Il Calendimaggio Le origini del Calendimaggio si perdono nel tempo, si riallacciano a consuetudini pagane che celebravano - con riti diversi ma tutti improntati alla ritrovata gioia di vivere dopo le giornate aspre e fredde dell'inverno - il ritorno della primavera e quindi la rinata fecondità della terra, il rinnovarsi del ciclo della vita, la vittoria della luce sulle tenebre. Si ballava, si beveva il vino dell'annata precedente, si cantavano testi poetici per rendere omaggio alla stagione dei fiori, si intonavano inni all’amore. Prima di buttarsi nelle danze, le giovani ragazze si lavavano e si purificavano nell'acqua di fonte con molta cura, e si abbellivano per cercare di catturare l'occhio dei ragazzi. Il maypole (palo inghirlandato con fiori) un evidente simbolo di fertilità, viene eretto e ragazzi e ragazze vanno a passeggiare, incontrarsi e "flirtare" sotto di esso. In quel tempo, poiché Calendimaggio era conosciuta come la festa della vera fertilità, capitava spesso che si celebrassero riti d'amore nelle foreste, che terminavano con l'abbandono alle passioni. Si trattava di un rituale col quale i
giovani ragazzi "conoscevano" per la prima volta l'amore, detto anche "la sfida" (nel senso di un rituale di iniziazione maschile), o "foresta verde", per dove esso avveniva. Le ragazze che rimanevano gravide in questo giorno generalmente si sposavano poi a Giugno, che è ancora oggi il mese più popolare per i matrimoni.
In questa festa comparivano due figure: la Regina di Maggio, che veniva eletta in ogni paese, dove passava a benedire le case, e i Benandanti, vestiti di verde e con un cappello rosso, che giravano da un paese all'altro, portando i saluti alle Regine. Molta gente stendeva panni verdi sulla porta o spargeva petali di rosa per attirare i Benandanti a celebrare dentro le loro case. Tutti questi petali e i fiori che venivano usati dovevano essere tagliati senza l'uso di coltelli o altre lame metalliche, considerate di cattivo auspicio. “Kalenda maya” di Raimbaut de Vaqueiras, giullare presso le corti liguri (Genova), lombarde (Tortona) e piemontesi, è la notissima estampida (danza) che celebra questa festa popolare. Raymbaut canta la rinascita della natura: così come dall'inverno si passa alla primavera anche dalle sventure si trova uscita apprezzando persino le piccole gioie quotidiane. Il pensiero della morte è sempre presente ma la semplicità e essenzialità delle note emanano la voglia di vivere, sopravvivendo alle carestie e alle pestilenze tipiche di quel periodo. Tuttavia è il tema dell'amore che predomina nella canzone: in perfetto stile cortese, il trovatore esprime il suo sentimento alla donna amata, la gentilissima, da lui riverita e decantata come se fosse un fiore che con la sua bellezza incanta e domina le emozioni degli amanti. “A l’entrada del tens clar” è una “danza vocale” anonima del XIII secolo, e parla di ciò che avviene all’ingresso della primavera allorché la Regina di Maggio indice un ballo aperto a tutte le belle fanciulle, ma dal quale debbono stare alla larga in primis il re vecchio
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e geloso e, con lui, tutti gli altri mariti gelosi: “Via, via, geloso, lasciaci, lasciaci danzare tra noi!” ripete allegramente il ritornello tutto femminile.
KALENDA MAYA, di Raimbaut de Vaqueiras Kalenda maya, ni fuelhs de faya ni chanz d'auzelh, ni flors de glaya non es que'm playa pros domna guaya, tro qu'un ysnelh messatgier aya del votre belh cors, que'm retraya plazer novelh qu'amors m'atraya e iaya e 'm traya vas vos, Domna veraya; e chaya de de playa 'l gelos ans que'm n'estraya.
Calendimaggio, nè foglie di faggio, nè canti di uccelli, né fiori di gladiolo mi sono graditi o nobile e felice signora, finchè io non abbia un rapido messaggero della vostra bella persona a raccontarmi nuovi piaceri che porteranno Amore e gioia; e mi reco da voi, vera donna, e lasciatemi schiacciare e colpire il geloso, prima che io parta da qui.
Ma bel'amia, per Dieu non sia que ja'l gelos de mon dan ria, que car vendria sa gelosia, si aitals sos amantz partia; qu'ieu ja joios mais non seria, ni jois ses vos pro no'm tenria. Tal via faria qu'oms ja mais no'm veiria, cel dia morria Domna pros, qu'ie'us perdria.
Mia bella amica, per Dio non sia che uno per la gelosia mi derida a mio danno perché venderebbe a caro prezzo la sua gelosia se ottenesse di separare i due amanti; perché da allora non sarei mai più felice, né senza di voi conoscerei felicità. Prenderei una strada che nessun uomo mi vedrà ancora, quel giorno morirò, donna coraggiosa, in cui ti avrò persa.
Com'er perduda ni m'er renduda, Domna, s'enanz non l'ai aguda?
Come potrei perdere o ritrovare una donna, prima di averla avuta?
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Que drutz ni druda non es per cuda; mas quant amantz en drut se muda. L'onors es granz que'l n'es creguda, e'l bels semblanz fai far tal bruda; que nuda tenguda no'us ai ni d'als vencuda, Volguda, Cresuda, vos ai ses autr'ajuda.
Nè un uomo nè un amante, è così solo per immaginazione; ma quando un corteggiatore si trasforma in amante grande è l'onore che ha accumulato, e un dolce sguardo produce tale fama; nuda non vi ho tenuta ancora mai, nè altri ti hanno vinto, vi ho desiderata, obbedita, senza alcun premio.
Tart m'esjauzira, pos ja'm partira, Bels Cavaliers, de vos ab ira, qu'alhors no's vira mos cors, ni'm tira mos desiriers qu'als non desira; qu'a lauzengiers sai qu'abelira, Domna, qu'estiers non lur garira: tals vira sentira mos danz, qui'ls vos grazira, que'us mira cossira cuidanz, don cors sospira.
Difficilmente proverei gioia se mi separassi mio Bel Cavaliere, da voi, nella disperazione da quando non si rivolge da nessun altra parte/ il mio cuore, né mi lascia andare via il mio desiderio, perché altro non desidera; i lusinghieri, lo so, sarebbero soddisfatti, mia donna, altrimenti non troverebbero pace: un uomo tale vedrebbe, ascolterebbe la mia disavventura, che sarebbe indetta per voi per questo perché lui vi guarda e considera nella sua presunzione, per cui il mio cuore sospira.
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Tant gent comensa, part totas gensa, na Beatritz, e pren creissensa vostra valensa; per ma credensa, de pretz garnitz vostra tenensa e de bels ditz, senes failhensa; de faitz grazitz tenetz semensa; siensa, sufrensa avetz e coneissensa; valensa ses tensa vistetz ab benvolensa.
Così gentilmente fiorisce splendendo sopra a tutto, nobile Beatrice, e così gentilmente cresce la vostra virtù; secondo me la vostra signoria è adornata con ricco e giusto discorso, senza dubbio; Voi siete la fonte di graziose gesta; sapienza, grazia avete, con conoscenza; virtù impossibile da contraddire, voi vestite con gentilezza.
Domna grazida, quecs lauz' e crida, vostra valor qu'es abelida e qui'us oblida, pauc li val vida per qu'ie'us azor, Domn'eissermida; quar per gencor vos ai chausida e per melhor de pretz complida, blandida, servida genses qu'Erecs Enida. Bastida, finida, n'Engles, ai l'estampida.
Graziosa donna, ognuno prega e proclama la vostra virtù, che dà un tale piacere; e colui che ti dimentica, giudica poca cosa la vita e così io vi adoro, distinta donna; da quando vi ho scelto come la gentilissima e la migliore, virtuosa signora, vi ho blandita e servita più gentilmente di quanto Eric fece con Enid. Ho composto e finito, o Dame Inglesi, l'estampida.
A L’ENTRADA DEL TENS CLAR A l'entrada del tens clar, eya per joia recomençar, eya e per jelos irritar, eya vol la regina mostrar qu'el es si amoroza A la vi' a la via gelos laissaz nos, laissaz nos ballar entre nos, entre nos
Quando arriva la bella stagione, eya, per ridonare la gioia, eya, e per irritare il geloso, eya, la regina vuol mostrare quanto è amorosa. Vattene via, vattene via geloso, lasciaci, lasciaci danzare tra noi, tra noi!
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El'a fait per tot mandar, eya non sia jusqu'à la mar, eya pulcela ni bachelar, eya que tuit non venguan dançar en la dansa joioza. A la vi' a la via gelos laissaz nos, laissaz nos ballar entre nos, entre nos
Ella ha mandato un bando in tutte le sue terre, eya, / affinchè non ci sia fino al mare, eya, né fanciulla né giovane, eya, che non vengano a danzare la danza gioiosa. Vattene via, vattene via geloso, lasciaci, lasciaci danzare tra noi, tra noi!
Lo reis i vien d'autra part, eya per la dansa destorbar, eya quel el es en crementar, eya que om no li voill'emblar la Regina Aurilloza. A la vi' a la via gelos laissaz nos, laissaz nos ballar entre nos, entre nos
Ed ecco che arriva il re, eya, per disturbare la danza, eya, poichè egli teme, eya, che gli vogliano rubare la Regina dell'Aprile. Vattene via, vattene via geloso, lasciaci, lasciaci danzare tra noi, tra noi!
Mais per nient lo vol far, eya qu'ela n'a sonh de viellart, eya mais d'un leugier bachelar, eya qui ben sapcha solaçar la Domna savoroza. A la vi' a la via gelos laissaz nos, laissaz nos ballar entre nos, entre nos
Ma tutto è vano ciò che fa, eya, perchè Ella non si cura di un vecchio, eya, ma di un giovane ballerino, eya, che sa bene come sollazzare la donna vogliosa. Vattene via, vattene via geloso, lasciaci, lasciaci danzare tra noi, tra noi!
Qui donc la vezes dançar, eya e son gens cor deportar, eya ben pogrà dir de vertat, eya qu'el mont non aja sa par la Regina joiosa. A la vi' a la via gelos laissaz nos, laissaz nos ballar entre nos, entre nos
Chi dunque la vedesse danzare, eya, e vedesse volteggiare il suo bel corpo, eya, ben potrà dire in verità, eya, che al mondo non ha pari la Regina gioiosa. Vattene via, vattene via geloso, lasciaci, lasciaci danzare tra noi, tra noi!
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Le danze
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Pare che nel Medioevo esistesse una vera e propria passione per il ballo. Nelle piazze il flauto diritto, accompagnato dal tamburello, dava vita a danze allegre e vivaci, le “saltationes”, eseguite in più combinazioni di ballerini e con elementi di evidente espressività erotica, tanto che non pochi interventi della Chiesa in epoca tardo-imperiale e medievale cercarono di contenere l’uso delle “saltationes” durante le feste e durante gli stessi rituali liturgici. Vi sono addirittura numerosi editti che proibiscono il ballo nei cimiteri! Le
danze
medievali
hanno
lasciato poche tracce scritte e, se qualche cronista dell'epoca ne parla, nessuno le descrive, tanto che oggi è quasi impossibile sapere come venivano eseguite. A questa difficoltà vi si aggiunge il problema del deciframento musicale: la notazione musicale si faceva in quest'epoca tramite un pentagramma di quattro linee (e non di 5 come oggi), il che rende l'interpretazione delle frasi melodiche abbastanza difficile. Le fonti per una comprensione della danza in Europa durante il Medioevo sono perciò limitate e frammentarie, composte perlopiù da qualche raffigurazione in dipinti e miniature; alcuni esempi possono essere le danze e le allusioni sparse nei testi letterari. In Italia, le primi descrizioni dettagliate della danza risalgono appena al 1450, dopo l'inizio del Rinascimento. Le danze più comuni erano: - la ballata, una danza generica, generalmente in file - il rondeau, una danza in cerchio - l’estampida, una danza talvolta cantata - la carola, nota già dal XII e XIII secolo nell'Europa occidentale in ambienti di corte e rurali. È costituita da due gruppi di danzatori che di solito si tengono le mani formando un cerchio, con un capogruppo che conduce la danza e il canto e gli altri che ripetono il ritornello. - il saltarello, che è una danza di origine italiana eseguita con passi saltellati. Nelle sale dei castelli e dei palazzi si preferivano danze più aggraziate e lente che venivano accompagnate da strumenti dal suoni più dolce, come il liuto e la viella. Il brano prescelto da far ascoltare è un Saltarello, scritto da un anonimo italiano del XIV secolo.
I Carmina burana
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In Germania è conservato il manoscritto dei Carmina Burana (così detti dal Convento
benedettino
di
Beuren,
l'antica Bura Sancti Benedicti in Baviera, dove furono scoperti) una singolare raccolta di 315 composizioni dell’XI-XII secolo
nei
quali
un
latino
quasi
maccheronico si mescola alle nascenti lingue volgari. Queste composizioni non vanno confuse con la rivisitazione operata da Carl Orff tra il 1935-36 ed oggi largamente rappresentata nei teatri di tutto il mondo. Come nacquero queste composizioni? Nel XII secolo, con il rifiorire delle attività produttive e dei commerci che consentivano una più diffusa ricchezza ma soprattutto più stabili condizioni del vivere, cominciarono a svilupparsi - accanto alle scuole episcopali ed a quelle monastiche - anche le scuole laiche, di natura privata: gli Studia. Si studiava giurisprudenza a Bologna, medicina a Salerno, retorica ad Orléans, matematica e scienze naturali a Chartres, teologia a Reims e Tour, ma chi amava dedicarsi alle arti liberali e amava i dibattiti di pensiero, se già non lo era, diventava chierico nel senso che, indipendentemente dall’abbracciare in futuro la carriera ecclesiastica, era pur sempre un “libero uomo di lettere” che, senza controllo e con disponibilità di documentazione, poteva dedicarsi allo studio dei classici. Questo permetteva a giovani di varia estrazione sociale, figli di mercanti o artigiani (talvolta anche di nobili), di lasciare le proprie case e vagare per anni, da una università all’altra, richiamati dalla presenza di celebri insegnanti. Nell’ambito di questi Clerici sive scholares, nacque un particolare gruppo, detto Clerici vagantes che costituivano una frangia anticonvenzionale, di cultura classica e di spontaneità popolaresca, vistosa e ribelle, in perenne e petulante ricerca di mezzi di sussistenza e anche in serrata e aperta polemica sia contro la Curia romana, accusata di corruzione, sia contro il soffocante integralismo monastico, nemico della nuova cultura. Nelle corti ecclesiastiche vennero qualificati, con epiteto diffamatorio, goliart o guliart (capaci di gola, voraci), riallacciandosi alla definizione di “nuovo Golia” (ovvero “nemico di Dio” alla maniera di S. Agostino).
Questi chierici preferivano girare il mondo, come i giullari loro contemporanei, ricantando i ritmi più famosi, rimaneggiandoli, creandone dei propri, sempre in cerca di un uditorio generoso o di munifici intenditori. Con l’avvento del secolo XIII, questo mondo volse inesorabilmente
al
tramonto.
Una
serie
di
interdizioni e di divieti, emessi dall’apparato ecclesiastico, ne decretò la fine: fortunatamente un abate della Baviera commissionò a degli amanuensi la raccolta dei frutti sparsi della “poesia clericale” che era tutt’altra e irripetibile cosa rispetto all’avanzare della nuova poetica in volgare. Sono quasi tutte in latino, ad argomenti molto diversi tra di loro, dai ben noti inni bacchici, alle canzoni d'amore ad alto contenuto erotico, alle parodie blasfeme della liturgia; emergono però molte composizioni moralistiche, dal rifiuto della ricchezza alla sferzante condanna della curia romana, nella quale molti membri erano sempre e solo dediti alla ricerca del potere, tuttavia non sono contro la Chiesa come istituzione divina, anzi, il concetto è dato per scontato in ogni canto. Nessun canto attacca la Chiesa cattolica, ma solo i suoi membri corrotti. Solo di una cinquantina dei Carmina Burana è riportata la linea melodica del canto secondo la scrittura neumatica (mancante quindi delle indicazioni sul ritmo e l'armonia), per cui gli arrangiamenti musicali sono sempre delle interpretazioni più che delle riproposizioni filologiche. Dei Carmina burana originali, ho scelto due brani. Il primo canto è Tempus est jucundum (E’ giunto il tempo felice), carme 179 del Codex Buraneus, Il testo è un inno al risveglio primaverile dei sensi, con il giovane gaudente che arde dal desiderio sessuale per una giovane vergine: infatti la rosa delle rose a cui egli aspira non è un fiore in senso botanico. Il 2° brano è il celeberrimo In taberna quando sumus (Quando siamo in osteria), carme 196 del Codex
Buraneus,
conosciuto
come “Il canto dei bevitori”. E’ un inno goliardico tra i più noti della tradizione medievale, in
cui
la
taverna
viene
rappresentata come luogo di gioia trasgressiva dove si dimenticano le preoccupazioni del vivere quotidiano: il vino, il gioco, i piaceri dell’amore sono pratiche di vita viste come “virtù”, che distolgono dalla malinconia.
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In questi versi il bere all’osteria accomuna ricchi e poveri, preti e vagabondi, giovani e vecchi, fino alle massime autorità dell’epoca, evidente satira ai vizi del clero allora imperante.
TEMPUS EST JOCUNDUM Tempus est jocundum, o virgines, modo congaudete vos iuvenes. Oh - oh, totus floreo, iam amore virginali totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo. Cantat philomela sic dulciter et modulans auditur intus caleo. Oh - oh, totus floreo, iam amore virginali totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo.
E’ giunto il tempo felice, o vergini insieme con noi godete, voi giovani. Oh! Oh! Tutto in fiore sto, e di un amore virginale tutto brucio nuovo, nuovo amore, mi farà morire. L'usignolo canta si dolcemente e lo si ode modulare e io dentro brucio. Oh! Oh! Tutto in fiore sto, e di un amore virginale tutto brucio nuovo, nuovo amore, mi farà morire.
Flos est puellarum quam diligo et rosa rosarum quam sepe video. Oh - oh, totus floreo, iam amore virginali totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo. Mea me confortat promissio mea me deportat negation. Oh - oh, totus floreo, iam amore virginali totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo.
Delle ragazze è il fiore ciò che amo e la rosa delle rose quella che spesso vedo. Oh! Oh! Tutto in fiore sto, e di un amore virginale tutto brucio, nuovo, nuovo amore, mi farà morire. La promessa mi dà coraggio il rifiuto mi raffredda. Oh! Oh! Tutto in fiore sto, e di un amore virginale tutto brucio, nuovo, nuovo amore, mi farà morire.
Mea mecum ludit virginitas mea me detrudit simplicitas. Oh - oh, totus floreo, iam amore virginali totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo. Sine philomela pro tempore surge cantilena de pectore. Oh - oh, totus floreo, iam amore virginali totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo.
La verginità mi stuzzica l'ingenuità mi facilita Oh! Oh! Tutto in fiore sto, e di un amore virginale tutto brucio, nuovo, nuovo amore, mi farà morire. Taci, usignolo, per un momento Sorgi, canzone, dal petto Oh! Oh! Tutto in fiore sto, e di un amore virginale tutto brucio, nuovo, nuovo amore, mi farà morire.
Tempore brumali vir patients animo vernali lasciviens Oh - oh, totus floreo, iam amore virginali totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo. Veni domicella cum gaudio Veni veni pulchra iam pereo. Oh - oh, totus floreo, iam amore virginali totus ardeo, novus, novus amor est, quo pereo.
In inverno l'uomo è svogliato L'animo della primavera rende lascivi Oh! Oh! Tutto in fiore sto, e di un amore virginale tutto brucio, nuovo, nuovo amore, mi farà morire. Vieni mia padroncina con gioia Vieni, vieni bella. Sto già morendo. Oh! Oh! Tutto in fiore sto, e di un amore virginale tutto brucio, nuovo, nuovo amore, mi farà morire.
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IN TABERNA QUANDO SUMUS In taberna quando sumus non curamus quid sit humus sed ad ludum properamus cui semper insudamus quid agatur in taberna ubi nummus est pincerna. Hoc est opus ut queratur si quid loquar, audiatur.
Quando siamo all'osteria non ci curiamo più del mondo, ma ci affrettiamo al gioco al quale sempre ci accaniamo che si faccia all'osteria dove il soldo fa da coppiere. Questa è cosa da chiedere, si dia ascolto a ciò che dico.
Quidam ludunt, quidam bibunt quidam indiscrete vivunt sed in ludo qui morantur ex his quidam denudantur; quidam ibi vestiuntur quidam saccis induuntur. Ibi nullus timet mortem sed pro Baccho mittunt sortem.
C'è chi gioca, c'è chi beve, c'è chi vive senza decenza, ma tra coloro che attendono al gioco c'è chi viene denudato; chi al contrario si riveste, chi di sacchi si ricopre. Qui nessuno teme la morte, ma per Bacco tentano la sorte.
Primo pro nummata vini ex hac bibunt libertini semel bibunt pro captivis post hec bibunt ter pro vivis quater pro Christianis cunctis quinquies pro fidelibus defunctis sexies pro sororibus vanis septies pro militibus silvanis octies pro fratribus perversis nonies pro monachis dispersis decies pro navigantibus undecies pro discordaniibus duodecies pro penitentibus tredecies pro iter agentibus.
Il primo è per il mercante di vino, per il quale brindano i libertini, il secondo per i prigionieri, il seguente lo bevono per i vivi, il quarto per tutti i Cristiani, il quinto per i morti nella fede, il sesto per le sorelle smarrite, il settimo per i guardiacaccia, l'ottavo per i fratelli che peccano, il nono per i monaci dispersi, il decimo per i marinai, l'undicesimo per i contestatori, il dodicesimo per i penitenti, il tredicesimo per i viaggiatori.
Tam pro papa quam pro rege bibunt omnes sine lege. Bibit hera, bibit herus bibit miles, bibit clerus bibit ille, bibit illa bibit servis cum ancilla bibit velox, bibit piger bibit albus, bibit niger bibit constans, bibit vagus bibit rudis, bibit magnus bibit pauper et egrotus bibit exul et ignotus bibit puer, bibit canus bibit presul et decanus bibit soror, bibit frater bibit anus, bibit mater bibit ista, bibit ille Bibunt centum, bibunt mille.
Tanto il Papa quanto il Re, bevono tutti senza legge. Beve la donna, beve l'uomo, beve la milizia, beve il clero, beve quello, beve quella, beve il servo con l'ancella, beve il veloce, beve il lento, beve il bianco, beve il nero, beve il costante, beve il distratto, beve il grezzo, beve il raffinato, beve il povero e il malato, beve l'esule e lo straniero, beve il fanciullo, beve l'anziano, beve il vescovo ed il decano, beve la suora, beve il frate, beve la vecchia, beve la madre, beve questa, beve quello, bevono in cento, bevono in mille.
Parum sexcente nummate durant, cum immoderate suffice bibunt omnes sine meta quamvis bibant mente leta sic nos rodunt omnes gentes. Et sic erimus egentes qui nos rodunt confundantur et cum iustis non scribantur
Difficilmente 600 denari durano, quando immoderatamente bevono tutti senza limite,/benché bevano a mente lieta siamo noi gli unici che tutti impoveriamo. E così siamo mendicanti, coloro che ci calunniano e che non vengano ricordati tra i giusti siano maledetti.
Musica rinascimentale inglese Greensleeves (“Maniche verdi”) è tra le più note composizioni del Rinascimento inglese. Noi non ne conosciamo l’autore, anche se c’è una convinzione persistente che sia stata composta da Enrico VIII per la sua amante e futura regina Anna Bolena, che si racconta avesse una malformazione ad una mano che la costringesse a coprirla con delle lunghe maniche. E’ un’ipotesi suggestiva in quanto sia la melodia che il testo ben si adattano al personaggio, che di suo ha scritto svariati brani ancora oggi nel repertorio di molti artisti di musica antica; tuttavia la poesia non è stata
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trascritta in nessun manoscritto dell’epoca e quindi non possiamo essere certi dell’attribuzione. Un’altra possibile interpretazione è che la Signora dalle maniche verdi fosse una giovane prostituta: a quel tempo la parola “verde” aveva connotazioni sessuali, in particolare “un abito verde” può essere interpretato come un abito con macchie d’erba per un rapporto sessuale consumato sui prati. In realtà, è più probabile che l'anonimo autore, forse un amante tradito da una donna di facili costumi, abbia scritto questa canzone verso la fine del XVI secolo, successivamente quindi alla morte di Enrico stesso.
Enrico VIII Vi propongo questo brano nella interpretazione solo strumentale di Jordi Savall, che ci permette di cogliere appieno tutta la poesia e la delicatezza di questa musica.
GREENSLEEVES Greensleeves was all my joy Greensleeves was my delight, Greensleeves was my heart of gold and who but my lady Greensleeves.
Greensleeves era la mia gioia, Greensleeves era la mia felicità, Greensleeves era il mio cuore d’oro nessuno c’è al di fuori di te la mia Signora dalle Maniche Verdi.
Alas my love you do me wrong to cast me off discourteously, and I have loved you oh so long delighting in your company.
Ahimè amore mio voi mi ferite, rifiutandomi scortesemente mentre io vi ho amato così a lungo godendo della vostra compagnia.
Your vows you've broken, like my heart, Oh, why did you so enrapture me? Now I remain in a world apart but my heart remains in captivity.
Le vostre promesse avete spezzato, come il mio cuore. /Oh perché mi avete così rapito? Ora sto in un mondo a parte ma il mio cuore resta in prigione.
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I have been ready at your hand, to grant whatever you would crave.I have both wagered life and land, your love and good-will for to have.
Ero pronto al vostro fianco, a concedervi ogni cosa aveste bramato. E avevo impegnato la mia vita e le mie terre per mantenermi nelle vostre grazie.
Thy petticoat of sendle white with gold embroidered gorgeously; thy petticoat of silk and white and these I bought gladly.
Vi ho comprato la gonna di zendalo bianco sfarzosamente ricamata d’oro, la gonna di seta bianca vi ho comprato con gioia.
If you intend thus to disdain, it does the more enrapture me, and even so, I still remain a lover in captivity.
Se così intendete disprezzarmi ciò mi rende più avvinto e anche così, continuo a rimanere un amante imprigionato
My men were clothed all in green, and they did ever wait on thee; all this was gallant to be seen, and yet thou wouldst not love me.
I miei uomini erano vestiti tutti di verde ed erano al vostro servizio; tutto ciò era galante da vedersi, e tuttavia voi non volete amarmi.
Thou couldst desire no earthly thing, but still thou hadst it readily. Thy music still to play and sing; and yet thou wouldst not love me.
Voi non potete desiderare cosa terrena, senza che l'abbiate prontamente. La vostra musica è ancora da suonare e cantare; /e tuttavia voi non volete amarmi.
Well, I will pray to God on high, that thou my constancy mayst see, and that yet once before I die, thou wilt vouchsafe to love me.
Si, pregherò Iddio lassù che voi possiate riconoscere la mia costanza,/e che una volta prima che io muoia,/voi possiate infine amarmi.
Ah, Greensleeves, now farewell, adieu, to God I pray to prosper thee, for I am still thy lover true, come once again and love me.
Ed ora Greensleeves, vi saluto, addio, pregherò Iddio che voi prosperiate, sono ancora il vostro fedele amante, venite ancora da me ad amarmi.
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Laudi e Cantigas
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Le Laudi Nel secolo XIII in Umbria e Toscana nacquero le laudi, canzoni religiose in volgare, non ufficiali della Chiesa, ma liberamente sorte dalla spontanea religiosità delle masse popolari. Il contesto storico era assai complesso: i Comuni italiani, vere città stato, godevano di un notevole sviluppo politico, economico e culturale; l’espansione dei rapporti commerciali, anche a seguito delle Crociate, rafforzò la potenza e la ricchezza di città portuali che diventarono Repubbliche marinare (Venezia, Genova, Pisa, Amalfi); nacquero inoltre le prime Università: Bologna (1119), Padova (1222), Napoli (1224), Roma (1244). A questo scenario positivo si contrappose tuttavia un clima di forte rivalità tra varie città che si contendevano zone d’influenza territoriale (Firenze contro Siena; Genova contro Pisa per citare alcuni esempi), un altrettanto clima di forte attrito si instaurò tra potere spirituale e potere temporale (lotte tra papato e impero); non ultima, emerse una contrapposizione tra clero secolarizzato e riformatori ortodossi e anche eretici (Valdesi, Albigesi e Catari). In questo scenario, si staglia la figura di Francesco d’Assisi,
predicatore
di
una
riscoperta
semplicità
evangelica che, nel suo “Cantico delle Creature” trova non soltanto la più alta espressione spirituale, ma il prototipo di un innovativo genere poetico, quello appunto della “lauda”, ovvero del canto di lode. La “lauda” si diffonderà rapidamente e diventerà un messaggio di rinnovamento spirituale; si formeranno le confraternite laiche (“Laudesi” e “Flagellanti”) che percorrevano le strade del centro Italia cantando lodi in onore di Dio, dei Santi, ma soprattutto della Madonna. Le fonti che oggi documentano questo particolarissimo genere poetico-musicale sono rappresentate da due codici: - Il Laudario Cortonese, giuntoci in un unico esemplare molto consunto a testimonianza di un suo prolungato utilizzo: comprende 46 laude in lingua volgare, ad uso della Confraternita di Santa Maria della Laude di Cortona.
Le prime 16
composizioni sono di soggetto mariano, le altre ricalcano il calendario liturgico. - Il Laudario Magliabechiano, composto nei primi decenni del sec. XIV, viene indicato anche con il nome di Laudario Fiorentino perché appartenuto
dapprima
alla
Confraternita
fiorentina di Santa Maria, che si riuniva presso gli agostiniani di Santo Spirito, e poi alla Confraternita degli Umiliati d’Ognissanti. Il contenuto di questo secondo Laudario è più ampio di quello di Cortona: vi compaiono infatti 97 laude delle quali 20 sono comuni con il “cortonese”. I testi musicati sono 88 e 10 di loro hanno somiglianza di melodia in entrambi i codici. La lauda Venite a laudare apre il Laudario di Cortona. L’invito a laudare la Vergine è solenne, ma semplice e privo di ornamenti. Le Cantigas Posizione musicale analoga a quella delle laude italiane, sono le Cantigas de Santa Maria, opera poetica di Alfonso X El Sabio, re di Castiglia e Leòn dal 1252 al 1284, che rappresentano uno tra i più preziosi monumenti della poesia religiosa e della musica medievale. Si tratta di una raccolta di 427 composizioni scritte degli artisti galiziano-portoghesi presenti alla corte di Alfonso X, detto El Sabio (Il saggio). La grandezza di Alfonso X sta soprattutto
nella
sua
intensa
attività culturale. Egli innanzitutto cercò di riunire tutto il sapere della sua epoca nella lingua corrente parlata dai suoi sudditi, e per tale motivo è considerato il fondatore della prosa letteraria castigliana. Fece anche trascrivere e raccogliere in modo unitario le Cantigas, canti dedicati al culto mariano, attualmente conservate a Madrid e Firenze in quattro manoscritti, Non vi è dubbio della partecipazione diretta del Re come compositore in almeno una decina di esse; addirittura un'ipotesi basata su di una nota del manoscritto toledano attribuisce al re la paternità di un centinaio di cantigas. Le Cantigas seguono il modello trobadorico e trovierico (alcuni trovatori esercitarono la propria arte nella penisola iberica). Il manoscritto è di particolare interesse anche per le numerose illustrazioni di musici e strumenti dell'epoca: possiamo riconoscere flauti, tamburi, cornamuse, symphonie (le antenate della ghironda) oltre a salteri, arpe, cetre e organi. Attraverso il canto monodico si narrano le vicende di numerosi personaggi miracolati dalla Vergine Maria. Queste "Cantigas de miragres" (dei
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miracoli) sono intervallate ogni dieci da una "Cantiga de loor" (di lode) componimenti più solenni, profondi, quasi inni mistici, nei quali invece di cantare i miracoli della Vergine si fanno delle riflessioni su di Lei, come in una preghiera. I testi raccolgono tutta la tradizione mariana dell'Europa occidentale e mostrano particolare attenzione agli ambienti sociali più poveri ed emarginati così come a brani di storia sacra. Non meno importanti sono le cantigas che vedono lo stesso re Alfonso ed i suoi sudditi più volte miracolati: in questo caso è proprio il re, abile trovatore, ad innalzare "Cantigas de loores" alla Vergine Santa. In questo universo medievale è presente una continua fusione dell'elemento umano e divino, una sintesi fra il terreno e il soprannaturale,
del
meraviglioso
nel
quotidiano; in tutti i casi la Vergine compare in
un
momento
cruciale
a
dispensare
misericordia e giustizia. Annotazione “politica”: la situazione politico-religiosa della penisola iberica di quel periodo produsse una compresenza di razze, culture e religioni diverse (arabi, ebrei, cristiani spagnoli ed europei): questo è il tema di alcune cantigas che vedono Maria intervenire a favore delle conversioni religiose e a sostegno dei cristiani minacciati dai mori. Ho scelto due brani. Il primo è il Prologo delle Cantigas "Porque Trobar”, in cui l’autore (quasi sicuramente lo stesso re Alfonso) spiega i motivi per cui sono stati scritte queste composizioni in onore della Vergine Maria. Dice il testo: “Quello che voglio è la lode della Vergine, Madre del Signore, Santa Maria, che è la cosa migliore che ha fatto, e, quindi, voglio essere oggi il suo menestrello…”: in un periodo in cui la poesia trobadorica è completamente associata all'idea dell'amore cortese, Alfonso X è un trovatore che canta alla Dama idealizzata, la Vergine Maria. Il secondo brano è la Cantiga n°10 "Rosa das Rosas" (Rosa tra le rose), che appartiene al gruppo delle Cantigas de loor. Anche in questo pezzo rileviamo l’influenza dei trovatori provenzali, ed anche qui l'amore cortese, caratteristico della poesia profana, viene sostituito dalla devozione alla Madonna. La rosa nella cultura occidentale rappresenta ciò che il loto simboleggia in Oriente, cioè purezza e bellezza; nel Medioevo questo splendido fiore profumato divenne il simbolo stesso della Vergine Maria.
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Il Llibre Vermell de Montserrat
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E’ così chiamato per il colore vermiglio della sua copertina, è un manoscritto anonimo redatto alla fine del XIV secolo in Spagna dai monaci dell’abbazia di Montserrat. Il libro riporta dieci canti di carattere sacro, in lingua latina e catalana, corredati da indicazioni e suggerimenti per la danza. È un esempio di religiosità squisitamente popolare: canti devozionali, danze processionali, cori d’invocazione e preghiera intonati dai pellegrini davanti alla statua della Vergine Maria, per ringraziarla dei miracoli ricevuti. I fedeli intonavano questi canti lungo il «camin de l’angel» per raggiungere l’abbazia, accompagnandosi con ogni sorta di strumento musicale, e, giunti al monastero, danzavano in “tondo” attorno all’altare. Il Monastero di Montserrat, in Catalogna, sede, dal secolo XI, di un monastero benedettino collocato lungo l’Iter Hispanicum del Cammino di Santiago e, sin dalla sua fondazione, era una delle più e mete più frequentate di pellegrinaggi. Nel Libro vennero raccolti canti e danze con i quali intrattenere i pellegrini che lì vi si dirigevano. Nella Cattedrale si svolgeva una pratica devozionale-terapeutica già nota ai Latini (la Procumbatio), consistente nella veglia all’interno del recinto sacro di una Cattedrale considerata luogo taumaturgico. Ed è proprio in questa veglia che si alternano canti, preghiere e danze, e qui si fondono in un unico linguaggio le diverse tradizioni musicali
dell’Europa
cristiana,
dalla monodia liturgica alle canzoni dei trovatori, dalle danze carnevalesche alla polifonia. Il brano più famoso è Stella splendens, cioè la Santa Vergine, alla quale, si canta, «tutti accorrono gioiosamente, ricchi e poveri, potenti ed indifesi.» Stella Splendens è un virelai, una forma poetica in rima tipica dei trovieri francesi. Si alternano due sole idee musicali: una è quella del ritornello, destinato probabilmente a essere cantato da tutti, l’altra è presente nelle varie strofe, affidati a voci soliste oppure, a turno, alle soli voci maschili e alle soli voci femminili. Prima del tetragramma con la melodia di Stella splendens, l’anonimo autore del Llibre Vermell inserisce una nota esplicativa: «Quando i pellegrini vegliano nella chiesa della Beata Maria di Montserrat, a volte cantano e danzano, anche di giorno nel sagrato. In quel luogo si devono cantare solo oneste e devote canzoni […]. Queste, pertanto, dovranno essere eseguite in modo onesto e sobrio, affinché non siano disturbati i fedeli intenti alle preghiere e alle devote contemplazioni alle quali tutti devono ugualmente attendere e devotamente dedicarsi con devozione».
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VENITE A LAUDARE Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Maria gloriosa, biata sempre sia molto laudata: preghiam ke ne si’avocata al tuo filiol, virgo pia! Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Pietosa regina sovrana, conforta la mente ch’è vana, grande medicina ke sana, aiutane per tua cortisia. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Cortese, ke fai grandi doni ,l'amor tuo mai non ci abandoni: pregànte che tu ne perdoni tutta la nostra villania. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Villani peccatori semo stati amando la carne e li peccati; vidén ke n'à 'l mondo engannati: defendane la tua gran bailia. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Bailia ne dona e potentia, o madre, de far penitentia: volemo a te fare obedentia e stare a la tua signoria. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Signoria k'afranchi lo core è la tua, madre d'amore! Se 'l sapesse lo peccatore a te, donna, retornaria! Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Retorni a tua gran fidança l'omo, cum grande sperança ke tu li farai perdonança più k'adomandar non saperìa. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Sapesse la gente cristiana, k'è sconoscente e villana gustar de te, dolçe fontana,d'amarte più gran sete avarea. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Avénte per nostra richeça, volénte, sovrana belleça: ki tua non sente dolceça tropp'è la sua vita ria. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Ria vita dei peccatori che non pensano nelli lor cori: de tanto gaudio son fuori ke lingua contar nol porrea. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria!
Potrebbet' aver per amançae tutta sentir delectança chi ben ti portasse lïança nel cuor, sì come dovrea. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Doverebbe ciascun rifrutare per te, tutto 'l mondo d'amare, e te, dolçe madre, laudare col più dolçe filiol che sia. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Sìate a piacere, gloriosa, ki canta tua lauda amorosa de farli la mente studiosa ke läudi ben, nocte e dia. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Diana stella lucente, letitia de tutta la gente, tutto ‘l mondo è perdente senza la tua vigoria. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria! Vigorosa potente beata, per te è questa laude cantata: tu se' la nostra avocata, la più fedel ke mai sia. Venite a laudare per amore cantare l’amorosa Vergene Maria!
PORQUE TROBAR Este é o prólogo das Cantigas de Santa Maria, ementando as cousas que há mester eno trobar.
Questo è il Prologo delle Cantigas di Santa Maria, dove si spiega cosa vuol dire essere Trovatore.
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Porque trobar é cousa em que jaz entendimento, porém que-no faz há-o d' haver, e de razom assaz, per que entenda e sábia dizer o que entend' e de dizer lhe praz, ca bem trobar assi s' há de fazer. E, macar eu estas duas nom hei com' eu querria, pero provarei a mostrar ende um pouco que sei, confiand' em Deus, ond' o saber vem; ca per Ele tenho que poderei mostrar, do que quero, algũa rem.
Perchè comporre è una cosa per la quale occorre capacità, quel che si fa lo si deve saper fare, e bene, per chi comprenda e sia capace di raccontare o abbia il piacere di raccontare, chè ciò che si deve fare è comporre bene. E per quanto dubiti di saper fare quel che vorrei fare, proverei comunque a dimostrare anche una minima parte di quel che posso, / confidando in Dio, che mi dia conoscenza, /ché per Lui io potrei mostrare, di quello che ho, il mio meglio.
E o que quero é dizer loor da Virgem, madre de Nostro Senhor, Santa Maria, que ést' a melhor cousa que El fez; e por aquest' eu quero seer hoimais seu trobador, e rogo-lhe que me queira por seu trobador e que queira meu trobar receber, ca per el quer' eu mostrar dos miragres que ela fez; e ar querrei-me leixar de trobar des i por outra dona, e cuid' a cobrar per esta quant' enas outras perdi.
E quel che voglio è lodare la Vergine, Madre di nostro Signore, Santa Maria, ciò che di meglio Egli ha creato, e per questo io desidero essere il suo trovatore e desidero ardentemente che anche Lei mi voglia come suo/trovatore e che gradisca il mio cantare, /che io possa raccontare i miracoli che ella compie; e non vorrei fare il trovatore per nessun’altra donna, e desidero raccogliere per Lei quanto gli altri hanno disperso.
Ca o amor desta senhor é tal que que-no há, sempre per i mais val, e, poi-lo gaanhad' há, nom lhe fal, senom se é per sa grand' ocajom, querendo leixar bem e fazer mal (ca per esto o perd', e per al nom). Porém dela nom me quer' eu partir, ca sei de pram que, se a bem servir, que nom poderei em seu bem falir de o haver, ca nunca i faliu quem lho soube com mercee pedir, ca tal rogo sempr' ela bem oiu.
Perché l’amore che provo per questa donna è tale / che non ve ne è di più e sempre di più, e non vi è menzogna o falsità che mi faccia perdere questa opportunità, vanificando ogni sforzo positivo (chè per questo non vorrei perdere il suo favore). /Ma il nome di Lei vorrei celebrare in grande pompa, e ben servirla, e non posso fallire nel farlo, e mai mancherei di aver fatto conoscere come Lei elargisce le sue grazie,/ed io desidero ardentemente che Lei me lo ispiri.
Onde lhe rogo, se ela quiser, que lhe praza do que dela disser em meus cantares, e, se lh' aprouguer, que me dé galardom com' ela dá aos que ama; e que-no souber, por ela mais de grado trobará.
Onde io desidero, se Ella lo vorrà, che si segua nelle preghiere quel che io racconto/nelle mie canzoni, e che, se ciò avverrà, /che mi dia le sue grazie come le dà a quelli che ama; e se voi lo saprete, per Lei canterò al colmo della felicità.
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ROSA DAS ROSAS Rosa das rosas e Fror das frores, Dona das donas, Sennor das sennores.
Sei la Rosa tra le rose, il Fiore tra i fiori, la Dama tra le dame, Signora d’ogni signore.
Rosa de beldad' e de parecer e fror d'alegria e de prazer, Dona en mui piadosa ser Sennor en toller coitas e doores. Rosa das rosas e Fror das frores, Dona das donas, Sennor das sennores.
Rosa di bellezza e di eleganza e fiore di gioia e di grazia, sei Dama di grande misericordia e Signora nell'alleviare sofferenza e affanni Sei la Rosa tra le rose, il Fiore tra i fiori, la Dama tra le dame, Signora d’ogni signore.
Atal Sennor dev' ome muit' amar, que de todo mal o pode guardar; e pode-ll' os peccados perdõar, que faz no mundo per maos sabores. Rosa das rosas e Fror das frores, Dona das donas, Sennor das sennores.
Una tale Dama l'uomo deve molto amare, che da ogni male lo può proteggere; e perdonare qualsiasi peccato, per rendere il mondo migliore Sei la Rosa tra le rose, il Fiore tra i fiori, la Dama tra le dame, Signora d’ogni signore.
Devemo-la muit' amar e servir, ca punna de nos guardar de falir; des i dos erros nos faz repentir, que nos fazemos come pecadores. Rosa das rosas e Fror das frores, Dona das donas, Sennor das sennores.
Dobbiamo amarla e servirla lealmente perchè lei può proteggerci dai peccati e farci pentire del male che abbiamo commesso come peccatori Sei la Rosa tra le rose, il Fiore tra i fiori, la Dama tra le dame, Signora d’ogni signore.
Esta dona que tenno por Sennore de que quero seer trobador, se eu per ren poss' aver seu amor, dou ao demo os outros amores. Rosa das rosas e Fror das frores, Dona das donas, Sennor das sennores.
Voglio essere il trovatore di questa dama che scelgo a mia signora. Oh, se io potessi avere il suo amore, lascerei ogni altro amore. Sei la Rosa tra le rose, il Fiore tra i fiori, la Dama tra le dame, Signora d’ogni signore.
STELLA SPLENDENS Stella splendens in monte ut solis radium miraculis serrato exaudi populum.
Stella splendente sul monte, illuminata dal miracolo come da un raggio di sole, /ascolta il tuo popolo.
Concurrunt universi gaudentes populi divites et egeni grandes et parvuli ipsum ingrediuntur ut cernunt oculi et inde revertuntur gracijis repleti.
Dal mondo intero tutti accorrono gioiosamente, ricchi e poveri, potenti ed indifesi,/con i nostri occhi li vediamo arrivare /e ripartire pieni di grazie.
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Principes et magnates extirpe regia saeculi potestates obtenta venia peccaminum proclamant tundentes pectora poplite flexo clamant hic: Ave Maria.
Principi e grandi di stirpe reale, potenti del secolo, toccati dalla Tua grazia, confessano i loro peccati, colpendosi il petto, e qui, in ginocchio, esclamano “Ave Maria�.
Prelati et barones comites incliti religiosi omnes atque presbyteri milites mercatores cives marinari burgenses piscatores praemiantur ibi.
Prelati, baroni, conti illustri, religiosi tutti e anche preti, soldati, commercianti, cittadini, marinai, borghesi, pescatori, portano qui le loro offerte.
Rustici aratores nec non notarii advocati scultores cuncti ligni fabri sartores et sutores nec non lanifici artifices et omnes gratulantur ibi.
Contadini, aratori, ed anche notai, avvocati, tagliapietre, falegnami, sarti e calzolai, ed anche tessitori, artigiani, tutti chiedono grazia qui.
Reginae comitissae illustres dominae potentes et ancillae juvenes parvulae virgines et antiquae pariter viduae conscendunt et hunc montem et religiosae.
Regine, contesse, donne illustri, padrone e domestiche, bambini piccoli, vergini e vecchie donne, ed anche vedove e religiose, salgono su questo monte.
Coetus hic aggregantur hic ut exhibeant vota regratiantur ut ipsa et reddant aulam istam ditantes hoc cuncti videant jocalibus ornantes soluti redeant.
Tutti si radunano qui, per presentare le loro offerte e, rendendo grazia, le depongono, arricchendolo, agli occhi di tutti, /questo luogo che lasciano assolti dalle loro colpe.
Cuncti ergo precantes sexus utriusque mentes nostras mundantes oremus devote virginem gloriosam matrem clementiae in coelis gratiosam sentiamus vere.
Uniti quindi, uomini e donne, purificando le nostre anime, preghiamo devotamente la Vergine gloriosa Madre di clemenza, possiamo noi vedere in Cielo Colei piena di grazia.
Elaborato e traduzioni italiane originali dei testi medievali sono di Giuseppe Ragusa
Brani ed esecutori della serata musicale Douce dame Jolie Album: Orbis Alia (Curzweyhl – 354.5069.2) Interprete: Annwn Can vei la lauzeta mover Album: Troubadours songs (Erato 256467986-4) Interprete: Camerata Mediterranea, dir. Joel Cohen Ja nus hons pris Album: Minnesanger, Troubadours, Trouvères (Arte Nova - 74321 58968.2) Interprete: Ensemble Perceval Kalenda Maya Album: Calendimaggio di Assisi (Micrologus CDM0001.1) Interprete: Ensemble Micrologus A la entrada del tens clar Album: Codex Manesse (Christophorus CHE018-2) Interprete: I Ciarlatani Saltarello Album: Mediterraneum (Deutsche Harmonia Mundi 88697633802) Interprete: Ensemble Oni Wytars Tempus est jocundum Album: Carmina burana (L’Oiseau-Lyre 421062-2) Interprete: New London Consort, dir. Philip Pickett In taberna quando sumus Album: Carmina burana (L’Oiseau-Lyre 421062-2) Interprete: New London Consort, dir. Philip Pickett Greensleves Album: Ostinato (Alia Vox – AV 9820) Interprete: Hespèrion XXI, Jordi Savall Venite a laudare Album: Canto novello (WDR,Westdeutschen Rundfunks Köln RK2809) Interprete: Ars Choralis & Oni Wytars Porque trobar Album: Cantigas de Santa Maria (Ambroise AMB9973) Interprete: Ensemble Gilles Binchois Rosa das rosas Album: Rosa de las Rosas (Pneuma PN-700) Interprete: Musica Antigua, dir. Eduardo Paniagua Stella splendens Album: Llibre Vermell (Micrologus CDM0002.2) Interprete: Ensemble Micrologus
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Strumenti musicali antichi : la Ghironda La Ghironda è uno strumento musicale a corde, formato da una cassa armonica di forma varia e a fondo piatto sulla quale sono tese un numero variabile di corde (da 4 a 6); il suo antenato è l'Organistrum (X-XI secolo), spesso usato per accompagnare il canto gregoriano. Nel Medioevo la ghironda (chiamata a quel tempo Symphonia) fu usata dai menestrelli, per accompagnare danze e Chansons de geste. La sua popolarità era tale da adottarne l’uso anche alle processioni religiose; cadde poi nel dimenticatoio, relegata ai suonatori mendicanti (infatti è nota anche come “viola da orbi” perché veniva suonata da mendicanti ciechi). Conobbe un periodo di rivalutazione nel XVII secolo, nelle corti francesi, dove assunse la forma che noi conosciamo, e in Germania. Il gran numero di opere d’arte del periodo che raffigurano la ghironda e i molti componimenti eseguiti sono prova della popolarità dello strumento. Haydn scrisse cinque concerti e numerose composizioni per ghironda. Nella ghironda il suono si ottiene mediante un ingegnoso meccanismo: una manovella esterna aziona una ruota di legno (situata all’interno della cassa armonica e rivestita di pece), il cui bordo, sfregando, fa a sua volta vibrare le corde (da un minimo di 3 ad un massimo di 6). Il suono della melodia viene gestita da una tastiera, composta da una serie di piccoli tasti, di numero variabile da 10 a 15, che agiscono sulle due-tre corde centrali; le altre corde di bordone non sono comandate da tasti e producono un suono continuo, di accompagnamento. Un’altra corda, posta su un ponticello mobile, produce il tipico ronzio dello strumento. La ghironda si tiene normalmente poggiata sulle gambe del suonatore, con la mano destra si aziona la manovella, mentre con la sinistra si aziona la tastiera. La ghironda è uno strumento polifonico, e consente di controllare sia l’armonia che l’accompagnamento ritmico anche attraverso suoni di percussioni ottenuti con la tecnica dei “colpi di manovella”. Negli ultimi anni è diventata protagonista del revival della musica occitana, e di gruppi folk.
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Musica classica e Cinema Melancholia, di Lars von Trier I protagonisti di questo film del 2011 sono Melancholia, un grande pianeta errante destinato a distruggere la Terra, e due sorelle. La prima, Justine non ha mai capito quale sia il suo posto nel mondo, e nella sua malinconica accettazione della morte imminente, saprà andare incontro all’annientamento con serenità e rassegnazione; la seconda, Claire; invece è una donna che vive nel mondo e trova difficile dire addio ad esso.
Lo stesso regista affermò che in Justine egli rappresentava se stesso: “Lei si basa molto sulla mia persona, sulle mie esperienze con profezie apocalittiche e sulla depressione”. E’ noto che Lars von Trier ha sempre vissuto un’esistenza governata dall’ansia, e che da ragazzo correva disperato quando sentiva passare un aereo, credendo che fosse iniziata la terza guerra mondiale. Il pianeta, emblema della fine della vita e della speranza, è la costante angosciosa che percorre tutto il film. Le immagini del pianeta in avvicinamento sono sempre precedute e accompagnate dalle note del Preludio del Tristano e Isotta, tra le pagine in assoluto più famose di Richard Wagner, e non si tratta di una musica catastrofica, apocalittica, da fine del mondo, bensì sembra esprimere una malinconica accettazione del susseguirsi degli eventi. Trovo bellissimo il prologo del film, che è una sequenza di immagini di tipo onirico, lente, prive di una narrazione unificante, che si accompagna, anzi si fonde in perfetta simbiosi, con la musica del Preludio. Tristano e Isotta costituisce il capolavoro del Romanticismo tedesco e, allo stesso tempo, viene considerato uno dei pilastri della musica moderna, soprattutto per il modo in cui si allontana dall'uso tradizionale dell'armonia tonale.
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L’opera venne scritta durante la travagliata relazione amorosa di Wagner con Mathilde, moglie del suo migliore amico: «Poiché in mia vita non ho mai gustato la vera felicità dell'amore, voglio erigere al più bello dei miei sogni un monumento nel quale dal principio alla fine sfogherò appieno questo amore. Ho sbozzato nella mia testa un Tristano e Isotta; un concetto musicale della massima semplicità, ma puro sangue; col bruno vessillo che sventola in fine del dramma, voglio avvolgermi per morire!». Con queste parole, in una lettera a Liszt della fine del 1854, Wagner annunciava l'opera sua più profondamente e autobiograficamente vissuta, quella per la quale non esitò, in preda a un sacro furore che lo trascinava oltre il suo controllo, a interrompere a metà e per lungo tempo la composizione del ciclo nibelungico dell'Anello. Il soggetto dell’opera è tratto da antichi miti celtici sul tema - tipico del Romanticismo - della impossibilità di raggiungere in vita l’appagamento della passione amorosa, e della conseguente necessità per gli amanti di cercarne la realizzazione nella morte, che diventa così liberazione ed eterno rifugio. Nel Preludio sono già presenti alcuni dei motivi conduttori di tutta l’opera: Wagner impiega - da subito e per tutta l’opera - la tecnica del Leitmotiv, consistente nell’associare un’idea musicale diversa ad ogni entità di rilievo sul piano drammatico, sia che questa venga rappresentata da un personaggio, o da un sentimento o anche da un oggetto. Questa tecnica portò un notevole smarrimento
nel
rappresentazione
pubblico, accolse
che
alla
freddamente
prima
tutta
la
composizione. All’inizio le prime tre battute affidate ai violoncelli rappresentano il tema della sofferenza (è il cosiddetto celebre accordo del Tristano); segue il sensuale motivo del “desiderio d’amore”, affidato all’oboe; e poi ancora il tema dello sguardo, del filtro d’amore e tanti altri ancora, a rappresentare il doloroso intreccio della storia di amore-odio di Tristano e Isotta.
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Guida all’ascolto
Weihnachtsoratorium [Oratorio di Natale] BWV 248, di J.S. Bach Interpretazioni ascoltate: 1) John Eliot Gardiner, The Monteverdi Choir - The English Baroque Soloist 1987 Archiv 423232-2 2) René Jacobs , Akademie für Alte Musik Berlin - RIAS Kammerchor 1997,1999 Harmonia Mundi 2908321/2 3) Jan W. De Vriend , Combattimento Consort Amsterdam - Cappella Amsterdam 2007 Sony DADC SACD Challenge Classics cc 76607. Oratorium Temporem Nativitatis Christi, così dalla partitura originale di Bach. La Storia Sacra che viene narrata riguarda i racconti che gli Evangelisti Luca e Matteo fanno della Natività e degli eventi seguenti, sino all'adorazione dei Magi. È quindi una composizione celebrativa della Natività. Nell'anno 1734/35 Bach compone il suo Oratorio per le festività natalizie, un ciclo di sei Cantate riguardanti il periodo di Natale, Capodanno ed Epifania, ognuna delle quali copre un diverso giorno di tali festività. Possono essere considerate sia come opere separate da eseguire a puntate, sia intese come insieme unitario da eseguire interamente. A differenza di altre composizioni sacre di Bach, in questo caso non sono mai sorti dubbi riguardo i tempi della composizione di questo Oratorio, giacché sia nel libretto stampato che nella partitura autografa, si specifica che quest'opera era destinata alle celebrazioni delle festività Natalizie dell'anno liturgico 1734/35. A quel tempo egli aveva già composto numerose Cantate, la Passione Secondo Matteo e la Passione Secondo Giovanni. Difatti, ascoltando le prime volte l'Oratorio di Natale, lo trovai in qualche modo "familiare", scoprendo poi che alcune composizioni erano state composte precedentemente per le Cantate. In realtà le arie sono spesso delle parodie: vale a dire che la musica era già stata composta in un'altra occasione e che ad essa veniva ora applicato un testo nuovo. In un periodo in cui concetti quali copyright o plagio non erano ancora stati inventati, e lo stato dell'arte come qualcosa di originale ed unico non era cristallizzato, era abbastanza normale per i compositori "disegnare musicalmente" su materiale esistente. È noto per esempio, che Bach stesso studiò ed arrangiò un certo numero di lavori di Antonio Vivaldi, persino rimaneggiando alcune sue opere in composizioni successive. L'Oratorio di Natale può essere addirittura inteso come un primo esempio di tale metodo, in particolare con i suoi forti riferimenti alle Cantate BWV 213, 214 e 215 (cit. Frits de Haen). Riutilizzare dei brani con la tecnica della parodia (che in termini musicologici assume altro
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significato rispetto alla linguistica), non era raro nei tempi di Bach. Come accade anche per molte altre sue composizioni e in genere, di quell'epoca, la musica di molti brani (17 per l'esattezza) è tratta da precedenti composizioni dello stesso autore. Ciononostante, dice Albert Schweitzer: “L'Oratorio di Natale, che insieme al Magnificat ̀ l'opera pì idealmente popolare di Bach, non ha perso niente della sua perfezione quantunque vi confluiscano brani di cos̀ diversa derivazione. La musica ̀ semplice e graziosa, ricca di meravigliose melodie e di una ingenuità che incanta: si capisce da qui come la poesia del Natale fosse intensamente sentita da Bach che ogni anno ne celebrava la festa nella pace familiare. Particolarmente belli sono i corali, soprattutto quelli intercalati da piccoli interludi d'orchestra." Se avrete la pazienza di leggere e provare ad ascoltare le interpretazioni proposte (premettendo il taglio da amatore e non da musicologo), metterò a confronto le tre interpretazioni con i tre ensemble citati all'inizio, portando qualche impressione d'ascolto. A mia percezione sono tre magnifiche riletture dell'Oratorio. Mi soffermerò su due brevi pezzi l'uno consecutivo all'altro, che in totale coprono appena 1 minuto e 24 secondi. Si tratta delle tracce 5 e 6 del CD n. 1. Il Corale : "Wie soll ich dich empfangen" ("Come dovrò accoglierti"), ed il successivo Recitativo dell'Evangelista : "Und sie gebar ihren ersten Sohn", ("E diede alla luce il suo Figlio primogenito"). Di rilievo trovo in Gardiner la potenza espressiva dell'interprete dell'Evangelista e la rispondenza del Coro ai momenti emozionali dei passi citati. Renè Jacobs porta una attenuazione modulata anche nel Coro, l'impressione è, in ultima analisi, di minor espressività dinamica e pathos partecipativo nei confronti delle altre due interpretazioni. La sorpresa infatti avviene con il Direttore olandese Jan Willem de Wriend, meno famoso degli altri e con ensemble meno prestigioso, il quale fa venire la pelle d'oca dirigendo una coralità emozionata e sintonica tra voci e strumenti. Il pregio di questa ultima interpretazione viene reso ancora più apprezzabile dalla capacità dell'ingegnere del suono in sala d'incisione, incluso il sistema di masterizzazione in SuperAudioCD, che dà maggiore dinamica e "aria" tra gli strumenti e gli interpreti.
Roberto Simeone
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Melomania Norma, di Vincenzo Bellini Norma è un'opera in due atti di Vincenzo Bellini su libretto di Felice Romani, tratto dalla tragedia Norma, ou L'Infanticide di Louis-Alexandre Soumet, che si ispirò a sua volta al mito di Medea. Fu composta in meno di tre mesi, nel 1831, e la prima rappresentazione avvenne al al Teatro alla Scala di Milano il 26 dicembre dello stesso anno. Il soprano Giuditta Pasta (nell’immagine), che interpretava il personaggio di Norma, fece in quell’occasione il suo debutto scaligero. Quella sera l'opera, destinata a diventare la più popolare tra le dieci scritte dal compositore catanese, andò incontro a un fiasco clamoroso: infatti ma l'inconsueta severità della drammaturgia e l'assenza del momento più sontuoso e atteso, il concertato che tradizionalmente chiudeva il primo dei due atti, accentuando l’acme drammatico dell’opera, spiazzò il pubblico milanese. Fu lo stesso Bellini a descrivere il fatto in una sua lettera ad un amico: “Ti scrivo sotto l’impressione del dolore; di un dolore che non posso esprimerti, ma che solo tu puoi comprendere. Vengo dalla Scala: prima rappresentazione della Norma. Lo crederesti? Fiasco!!! Fiasco, solenne fiasco!!!”. Fortunatamente Bellini credeva fortemente in quest’opera, che andò incontro ad un crescente successo, con ben 34 repliche nella stagione. Lo stile molto elevato, il fascino dell’arcaico, la commozione dei sentimenti, la passione e il sacrificio che scaturiscono dalla tragedia di Norma, hanno fatto di quest’opera il capolavoro di Bellini, tuttora tra le opere maggiormente rappresentate nel grande repertorio internazionale. Trama dell’opera Atto I Antefatto: L'azione si svolge nelle Gallie, all'epoca della dominazione romana. La sacerdotessa Norma, figlia del capo dei Druidi Oroveso, ha amato in segreo il proconsole romano Pollione, dal quale ha avuto due figli, custoditi dalla fedele Clotilde all'insaputa di tutti. Scena prima: Foresta sacra dei Druidi, i guerrieri Galli, con i Druidi ed il gran sacerdote Oroveso, si riuniscono nella notte presso la quercia sacra. Oroveso annuncia che al sorgere del sole, Norma, sacerdotessa suprema del dio Irminsul, verrà a celebrare i sacri riti e a mietere il vischio (Ite sui colli, o Druidi). I Galli e Oroveso intonano una preghiera a Irmisul perché ispiri alla sua sacerdotessa odio verso i Romani soppressori e spinga alla rivolta (Dell’aura tua profetica); quindi si allontanano. Sopraggiunge il proconsole Pollione accompagnato dall’amico Flavio. Pollione confida all'amico come il suo amore per Norma si sia esaurito e di essersi innamorato, ricambiato, di una giovane novizia del tempio d'Irminsul, Adalgisa. Egli teme però l’ira di Norma, spaventato anche da un sogno premonitore di sventura per sé ed i figli (Meco all’altar di Venere).
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Sorge la luna ed uno squillo di tromba e i canti druidici annunciano l’arrivo di Norma (Norma viene: le cinge la chioma). I due romani sono costretti a fuggire. Norma compie la cerimonia raccogliendo il sacro vischio e supplica la luna ad ascoltare le sue preghiere (Casta diva).
Mentre tutti invocano la ribellione, Norma pensa a Pollione che ormai sente lontano da lei. Terminata la cerimonia si allontanano tutti tranne Adalgisa, che viene raggiunta da Pollione del quale ella ignora la relazione con Norma. Il proconsole romano la invita ad abbandonare il suo dio e a seguirlo a Roma, dove egli deve tornare (Va, crudele, al dio spietato): Adalgisa è esitante ma si lascia convincere a seguire il suo innamorato, al quale promette di farsi trovare l’indomani alla medesima ora, per fuggire. Scena seconda. Abitazione di Norma. La sacerdotessa abbraccia i suoi figli e a Clotilde, che li accudisce, confida i suoi timori su Pollione. Sopraggiunge Adalgisa, che confessa a Norma la sua passione amorosa e di aver mancato al voto di castità, senza però rivelare il nome dell'uomo amato (Sola, furtiva, al tempio). Norma, che riconosce nella novizia i propri sentimenti e il proprio peccato, la scioglie dai voti, quindi le chiede chi sia l'innamorato: Adalgisa indica Pollione, che sta sopraggiungendo proprio in quel momento. Furiosa, Norma rimprovera all’amato il suo tradimento (O non tremare, o perfido), e rivela tutto ad Adalgisa, che sdegnata respinge Pollione e promette a Norma il suo aiuto affinchè Pollione torni da lei. Squillano le campane del tempio che richiamano Norma ai suoi doveri sacerdotali, mentre Pollione si allontana irato.
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Atto II
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Scena prima. Nella sua abitazione, Norma, sconvolta dalla rivelazione, ha deciso di uccidere i due figli, brandisce un pugnale ma cede al sentimento materno (Dormono entrambi). Decisa a suicidarsi, fa chiamare Adalgisa e la prega di adottare i bambini e di portarli a Roma, dopo essersi sposata con Pollione (Deh! con te, con te li prendi). Ma Adalgisa rifiuta e promette a Norma di convincere Pollione a tornare da lei. Scena seconda. I Druidi, guidati da Oroveso si incontrano in un luogo solitario. I guerrieri commentano la prossima partenza di Pollione, ma Oroveso li avverte che il nuovo successore sarà ancora più temibile e li invita a pazientare in attesa della rivolta (Ah! Del tebro al giogo indegno). Scena terza. Tempio di Irminsul. Norma apprende da Clotilde che Adalgisa non ha ottenuto nulla dal colloquio con Pollione, il quale anzi intende rapirla dal tempio. Irata, chiama i Galli a raccolta e proclama guerra ai Romani (Guerra, guerra! Le galliche selve). Sta per pronunciare il nome della vittima sacrificale da immolare al dio, quando giunge notizia che un romano è penetrato nel chiostro: è Pollione, venuto a rapire Adalgisa. Norma sta per colpirlo con un pugnale, ma poi si ferma, invita tutti a uscire col pretesto di interrogarlo e, sola con Pollione, gli offre la vita purché egli abbandoni Adalgisa (In mia man alfin tu sei). L'uomo rifiuta e Norma minaccia invano di far uccidere i figli e di far morire Adalgisa tra le fiamme. Norma richiama i suoi a raccolta. Ha deciso quale sarà la vittima sacrificale: una sacerdotessa che ha infranto i sacri voti e tradito la patria. Sta per pronunciare il nome di Adalgisa, quando si rende conto che la colpa di Adalgisa è la sua e, nello sbigottimento generale, pronuncia il proprio nome. Pollione comprende la grandezza di Norma e decide di morire con lei. In segreto, Norma confida a Oroveso (Padre, tu piangi) di essere madre e lo supplica di prendersi cura dei bambini, affinché possano salvarsi, raggiungendo Roma insieme con Clotilde. Quindi sale sul rogo con l'uomo amato (Qual cor tradisti). [Nella foto: Maria Callas (Norma) e Giulietta Simionato (Adalgisa)]
Commento all’opera Nella musica di Norma troviamo tutti i caratteri salienti dello stile belliniano: la prodigiosa vena melodica, l’incredibile pathos, capace di esprimere i più diversi stati d’animo, la sua concezione musicale, basata sul primato del canto, sia esso vocale o strumentale, che si rivela di una straordinaria e limpidissima bellezza. L’orchestrazione è semplice e scarna, anche se in alcuni pezzi, come ad esempio nel finale, anche per l’intervento del coro, raggiunge una struttura imponente.
L’opera ricorda le tragedie greche, ed il suo celeberrimo finale (Padre, tu piangi) costituisce un insuperato esempio di "catarsi" attraverso la musica, cioè di una musica che, dopo il crescente accendersi delle passioni, sfocia in uno slancio liberatorio e in una serenità che tutto purifica. L’ultima parte dell’opera (che, assieme all’aria "Casta diva " viene unanimemente considerata una delle più alte creazioni musicali di tutti i tempi) descrive, attraverso melodie veramente sublimi, il grande sacrificio d’amore di Norma, ma, a differenza di altre opere con un analogo epilogo (si pensi ad Aida, nella quale la protagonista volontariamente va a morire assieme al suo amato, rinchiudendosi con esso nella tomba, cantando la sua apoteosi finale), Norma non si conclude con il canto d’amore della sacerdotessa e del suo amato Pollione, ma ha un finale che si sviluppa in tre fasi successive. La prima è, appunto, il canto d’amore dei due amanti che decidono di morire insieme; ma non dimenticano i loro bambini, ed ecco il secondo momento, nel quale Norma si getta ai piedi del padre Oroveso ed implora pietà per i suoi figli, esprimendo tutto il suo essere madre. Segue la terza ed ultima fase, nel quale Norma e Pollione, accortisi che il padre, piangendo, acconsente a salvare i loro figlioletti, si avviano felici verso il rogo: la musica che accompagna il loro sacrifico esprime, in un tutt’uno ricco di sentimenti, l’amore dei due amanti, l’amore materno ed il dolore disperato dell’anziano genitore. Ha scritto Alfred Einstein "Nessuno può dire di sapere cosa sia la musica se non lascia l’ultimo atto di Norma con il cuore sopraffatto dall’emozione". Si narra che il grande Maestro Ildebrando Pizzetti, trovandosi ad ascoltare alla radio, in presenza di altri, l’ultimo atto di Norma (che pure, quale musicista, aveva ascoltato numerose volte), spense bruscamente la radio per non essere sopraffatto dall’emozione fino alle lacrime. Brani consigliati 1. Ouverture La sinfonia della "Norma" è un brano vivace ed energico, che presenta qualche riferimento allo stile rossiniano (dalla partenza esplosiva al concitato tema con il ribattuto degli archi) ma che cambia improvvisamente direzione in una sezione finale, assai diversa, più elegiaca e ricca di pathos, grazie anche all'utilizzo dell'arpa e dei fiati. Nel suo insieme, sottolinea in maniera suggestiva i contrasti fra i caratteri e le psicologie dei vari personaggi: si passa infatti da un tema marziale e solenne (per i guerrieri e i sacerdoti) ad uno più romantico e contemplativo. 2. “Casta Diva” [Casta diva, che inargenti / queste sacre antiche piante, / a noi volgi il bel sembiante / senza nube e senza vel. /…/ Tempra Dio, tempra tu de' cori ardenti, / tempra ancor lo zelo audace, / spargi in terra quella pace / che regnar tu fai nel ciel.] E’ la preghiera che Norma dedica alla Luna affinché porti la pace, una delle più celebri arie della storia del melodramma. Di inusitata lunghezza, e di estrema difficoltà esecutiva, inizia con un andamento dolce e maestoso, per poi salire sempre di più, impennandosi in vibrazioni di drammatica intensità; poi progressivamente si placa in un finale sereno, lasciando l’ascoltatore come incantato.
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Un vero miracolo di bellezza: il compositore francese Fromental Halévy dichiarò che avrebbe barattato tutta la sua musica per quest'aria. 3. “Qual cor tradisti” ["Norma: Qual cuor tradisti, / qual cuor perdesti, / quest'ora orrenda / ti manifesti; / da me fuggire / tentasti invano; / crudel romano, / tu sei con me. / Un Nume, un fato / di te più forte, / ci vuole uniti / in vita e in morte. / Sul rogo istesso / che ci divora, / sotterra ancora / sarò con te. / Pollione: Ah! troppo tardi / t'ho conosciuta / sublime donna! / io t'ho perduta. /Col mio rimorso / è amor rinato, / più disperato, / furente egli é. / Moriamo insieme, / Ah si, moriamo: / l'estremo accento / sarà ch'io t'amo / ma tu morendo, / non m'abborrire, / pria di morire / perdona a me".] E’ il canto del cuore innamorato di Norma (che ha deciso di morire sul rogo assieme a Pollione) e dell’amore disperato che è rinato nel cuore di Pollione dopo l’estrema dimostrazione d’amore da parte di Norma. La musica, impregnata di altissimo lirismo, riesce ad esprimere la grande passione d’amore dei due amanti, trasfigurata e resa quasi sovrumana dalla loro morte ormai inevitabile. Il fascino di questo brano è messo ancor più in risalto dal contrasto con il tema del coro e del padre di Norma, che esprimono incredulità e dolore. 4. “Padre, tu piangi” [Norma: Padre, tu piangi! / Oroveso: Oppresso è il core. / Norma: Piangi e perdona! / Oroveso: Ha vinto amore. / Norma: Ah, tu perdoni, quel pianto il dice! / Io più non chiedo, io son felice: / contenta il rogo io ascenderò! Oroveso: Ah consolarmene mai non potrò. /…/ Oroveso: Va infelice! Norma: Padre addio! / Pollione: Il tuo rogo, o Norma, è il mio. / Là più puro, là più santo / incomincia eterno amor. / Oroveso: Sgorga alfin, prorompi, o pianto: sei concesso a un genitor"] E’ il celeberrimo "finale" della Norma, uno dei più grandi finali della storia dell’opera. In esso, come già detto, vengono espressi in una sintesi mirabile la passione dei due amanti, il sentimento materno (appagato per sapere salvi i figlioletti) ed il dolore del padre di Norma, il tutto trasfigurato e trasposto ad un livello quasi sovrumano, come può esserlo il canto di chi, per amore, si è votato a sicura morte. Il brano inizia con una toccante implorazione di Norma al padre perché perdoni e salvi i figlioletti, segue un lungo "crescendo" di impressionante efficacia e bellezza, che giunto al culmine si risolve in un "fortissimo" sfogo liberatorio, a cui segue un progressivo placarsi della musica. Questo epilogo, che è un canto di amore e di morte, con il suo crescendo ed il senso catartico che lascia in chi l’ascolta, ha colpito profondamento i romantici dell’Ottocento e il suo fascino sedusse perfino Wagner, che ne imitò la linea evolutiva nella "Morte di Isotta", nell’opera Tristano e Isotta.
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Per la sua inusitata altezza ed il senso di tragica grandezza che lo pervade, questo brano (come tutto l’ultimo atto di Norma) deve essere ascoltato con particolare attenzione e ben consci delle grandi emozioni che offre. Discografia Nel panorama delle registrazioni di quest'opera uno è il nome che giganteggia su altri: Maria Callas, che interpretò la Norma ben 92 volte, ruolo ritenuto da ogni appassionato d'opera lirica come il migliore della soprano greca. La
partitura
dell’opera
è
tecnicamente
molto
impegnativa dal punto di vista interpretativo per la protagonista. Il grande direttore d’orchestra Richard Bonynge scrisse “che la cantante che potrebbe interpretare una perfetta Norma, non è mai esistita e forse non esisterà mai. L’opera pretende quasi troppo da un soprano: il più grande potenziale espressivo drammatico, una forza emotiva sovrumana, una tecnica di Belcanto perfetta, una voce di classe e grandezza e diverse altre infinite qualità”. Ma è proprio nel ruolo di Norma che Maria Callas mise in luce le sue grandi doti di interprete. Scrisse Friedrich Lippmann, uno dei principali studiosi delle opere di Vincenzo Bellini: “La sua interpretazione non solo rimane ineguagliabile ma anche senza alternative convincenti. Persino le migliori interpreti di Norma non riescono a uscire dall’ombra della Callas con una soluzione interpretativa individuale. Per Maria Callas il personaggio di Norma è una parte assegnata dal destino: lei stessa sosteneva che, quando non sarebbe stata pì capace di cantare l’eroina di Bellini, avrebbe abbondonato per sempre la scena.” Maria
Callas
registrò
su
disco
quest'opera addirittura otto volte, anche
se
purtroppo
queste
registrazioni non sono tutte del medesimo valore. L’edizione che giganteggia su tutte è quella registrata il 29 Giugno 1955 dal vivo alla Rai di Roma: Maria Callas (Norma), Mario del Monaco (Pollione), Ebe Stignani (Adalgisa), Giuseppe Modesti (Oroveso); Orchestra Sinfonica e Coro di Roma della Radiotelevisione Italiana, direttore Tullio Serafin (Etichetta: Myto 00140).
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Di altrettanto valore è la registrazione della Prima alla Scala di Milano del 7 dicembre di quello stesso anno: Maria Callas (Norma), Mario del Monaco (Pollione), Giulietta Simionato (Adalgisa), Nicola Zaccaria (Oroveso); Orchestra Sinfonica e Coro di Roma del Teatro alla Scalea di Milano, direttore Antonino Votto (Etichetta: Myto MCD 00153). In queste due incisioni la voce della Callas è molto costante e raffinata. L’aria della Casta Diva è cantata con virtuosismo inimmaginabile ed è drammaticamente meravigliosa e commovente. L’ho ascoltata moltissime volte e ogni volta è un’emozione fortissima. Mario del Monaco canta Pollione, con energia e tempra impressionante; Ebe Stignani nel ruolo di Adalgisa non risulta essere all’altezza dei suoi colleghi, mentre successivamente Giulietta Simionato, scritturata per le otto repliche in programma alla Scala, offre un’eccellente interpretazione. Altre incisioni che l’appassionato può acquistare sono (a mio parere): - Montserrat Caballè (Norma), Placido Domingo (Pollione), Fiorenza Cossotto
(Adalgisa),
Ruggero
Raimondi
(Oroveso);
London
Philharmonic Orchestra, Ambrosian Opera Chorus, direttore Carlo Felice Cillario. Anno 1972. (Etichetta: RCA Red Seal – 88875073482). - Joan Sutherland (Norma), Luciano Pavarotti (Pollione), Montserrat Caballé (Adalgisa), Samuel Ramey (Oroveso); Orchestra and Chorus of the Welsh National Opera, direttore Richard Bonynge. Anno 1984. (Etichetta: London Records - POCL 2891-3). In DVD è imperdibile la registrazione del 1974 dal vivo al Theatre Antique d'Orange con Montserrat Caballè e Jon Vickers; Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino, direttore Giuseppe Patanè (Etichetta: Vai Music - 4229). Questa è probabilmente la migliore performance di Montserrat Caballè come Norma. Caballè è semplicemente magnifica, il suo canto è limpido ma intenso e, mentre non ha la drammatica intensità di Callas, i suoi gesti, i movimenti e le espressioni sono ammirevoli, soprattutto nei duetti con Vickers e Veasey.
Arrivederci al prossimo numero di Ottobre 2017, dedicato alla Serata su W.A. Mozart
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