GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 2 – Ottobre 2017
GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista Trimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 2 - Ottobre 2017
Coordinatore editoriale ed Autore dei testi: Giuseppe Ragusa
In questo numero: 1° Copertina: Mozart suona il piano a 12 anni (Thaddäus Helbling - Mozart Museum, Salisburgo) 4° Copertina: Giuseppe Verdi (Giovanni Boldini- Galleria nazionale d’arte moderna, Roma) [3] [4] [45] [48] [50] [54] [57] [59] [61] [63]
Editoriale Mozart, la “Voce di Dio” Medicina e musica: «Mi sia concesso…» L’Album dei Mozart Guida all’ascolto: Focus su W.A. Mozart I grandi direttori: Guido Cantelli I due volti di Anne-Sophie Mutter Strumenti musicali antichi: la Viella Musica classica e cinema: Morte a Venezia, di Luchino Visconti Melomania: Il Trovatore, di Giuseppe Verdi
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Editoriale Cari Amici,
dopo il lusinghiero esordio del numero 1 della Rivista “Gli Amici del Loggione” (al momento
dell’uscita di questo numero siamo a oltre 1200 accessi! Approfitto anche per ringraziare tutti delle belle parole di stima e di incoraggiamento che mi sono arrivate per questa
iniziativa), ecco l’edizione di questo 2° numero nel quale ripropongo, con assoluta fedeltà dei testi originali e delle musiche allora proposte (anche se non tutte, per motivi di tempo,
furono riprodotte), la serata “classica” del 31 Gennaio 2014, dedicata a Wolfgang Amadeus
Mozart. Vi riporto il testo di presentazione della serata: « Wolfgang Amadeus Mozart è annoverato tra i più grandi geni (per molti, il più grande) della storia della musica occidentale. Non potrò naturalmente tracciare un quadro esaustivo della figura del compositore salisburghese, immensa e geniale, ma cercherò di farvi scoprire quanto più possibile della sua musica, di farvelo amare trasmettendo anche a voi le emozioni che io provo
nell’ascoltare le sue opere. Vorrei soprattutto che, alla fine di questo percorso, veniate a
contatto con il lato più profondo di Mozart, che vi faccia dimenticare ogni stravaganza del suo carattere (che pure spiega tante sfaccettature della sua vita) e soprattutto scavalchi
quella fama esclusivamente apollinea e “galante” della sua musica, legata ad una lettura superficiale dei suoi brani più conosciuti. Perché Mozart è un grandissimo della musica?
La sua grandezza consiste nell’aver saputo unificare tutte le esperienze musicali allora
presenti, che assimilò e fece rinascere in uno stile nuovo in cui domina una assoluta perfezione stilistica, unita a una segreta malinconia che si farà, col tempo, sempre più struggente e drammatica.
Nell’arco della sua breve vita Mozart scrisse ben 626 composizioni - catalogate dallo studioso Köchel, il che spiega la numerazione delle stesse precedute dalla lettera K -, che comprendono la sonata, la sinfonia, il concerto, il divertimento, la serenata, la cassazione, la fantasia, il trio, il quartetto, il quintetto e i più vari raggruppamenti strumentali per archi e per fiati, la cantata, il Lied, la danza, la messa, la litania, il vespro, il canone, la fuga, la variazione, l'opera lirica: impressionante! »
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Mozart, la “Voce di Dio”
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Il protagonista di questa serata classica è Wolfgang Amadeus Mozart, definito dagli studiosi “il compositore più universale nella storia della musica occidentale”. Con Mozart, assieme ad Haydn, nasce il classicismo settecentesco, forma musicale che contrasta e supera la “stravaganza” barocca. La musica barocca era votata al desiderio di stupire e divertire l'ascoltatore: gli elementi che più caratterizzarono quel periodo musicale furono i cambi repentini di tempo, i passaggi di grande virtuosismo strumentale o vocale, l'uso del contrappunto [“La presenza, in una composizione, di linee melodiche indipendenti che si combinano tra di loro”] e della fuga
[“Forma
musicale
polifonica
basata
sull'elaborazione contrappuntistica di una, o più, idea tematica che viene esposta più volte, ricercandone tutte le possibilità espressive”], uno sviluppato senso dell'improvvisazione. Le caratteristiche del classicismo sono invece la linearità, l’equilibrio, la simmetria, l’armonia e l’eleganza delle forme; le orchestre si arricchiscono di molti strumenti ed i fiati entrano in modo stabile negli organici; il clavicembalo viene sostituito dal pianoforte, che permette una espressività di gran lunga maggiore e più profonda. Mozart scriveva di getto senza correzioni, gli spartiti nascevano perfetti: questo vuol dire che la musica era già presente nella sua testa; inoltre aveva il dono “dell’orecchio assoluto”, cioè sapeva riconoscere all’ascolto anche una sola nota.
Iniziamo questo incontro con uno dei brani più amati e più celebri di tutta la musica classica, la Serenata K 525, universalmente nota come Eine Kleine Nachtmusik (Piccola serenata notturna), che Mozart scrisse nel 1787, poco prima di partire per Praga, dove sarebbe andato a completare il Don Giovanni. I Divertimenti, le Cassazioni, le Serenate e i pezzi che prendono il nome di Musiche notturne (come questa serenata) sono legati al gusto settecentesco di far musica insieme: hanno tutti una identica struttura formale in cui si alternano movimenti di danza e passaggi solistici e virtuosistici. Sono musiche di piacevole ascolto, equilibrate e serene, dalla scrittura semplice e lineare, e dai segni armonici chiari e precisi, gli strumenti si fondono con omogeneità e scorrevolezza.
Questa serenata sembra richiamarsi alle deliziose composizioni giovanili salisburghesi (c'è una eco postuma dei Divertimenti per archi K 136, 137 e 138) e venne scritta molto probabilmente in occasione di una ricorrenza festiva o di un ricevimento, destinata ad una esecuzione da tenersi in un giardino o all’interno di un palazzo nobiliare, secondo le abitudini della società del tempo: infatti ogni famiglia aristocratica o alto-borghese esercitava una piccola azione di mecenatismo finalizzata a dare lustro alla propria casata - commissionando ai musicisti locali delle composizioni che celebrassero particolari occasioni o ricorrenze, o anche semplicemente allietassero la vita di tutti i giorni. La Serenata K 525 presenta quattro movimenti: doveva esserci anche - secondo un'annotazione autografa dello stesso Mozart – un secondo minuetto con un trio, ma è andato perduto o, molto più probabilmente, sarebbe stato spostato in un’altra composizione. In questa serenata Mozart portò una raffinatezza e una cura assolutamente stupefacente e inedita per il tempo. Pur utilizzando una semplice orchestra d'archi, trasformò la composizione in un insieme ineguagliabile di associazioni timbriche:
vi
sono
infatti
profuse numerose idee musicali che si susseguono con grande gioiosità, soavità e chiarezza espositiva. Semplicità del materiale tematico, raffinatezza della scrittura strumentale: in questa serenata i due aspetti si fondono in quell'equilibrio che costituisce l'essenza espressiva più profonda della musica mozartiana, se non di tutto il ‘700, e a ciò deve la sua fama universale. Il brano inizia con il celeberrimo Allegro che presenta un tema semplice, ma di grande impatto. Una purissima melodia contrassegna la Romanza, delicatissima ed in alcuni punti anche patetica. Il Minuetto è assolutamente coerente con gli altri movimenti e viene svolto in modo pacato, quasi una ulteriore romanza. Il Rondò ha il classico taglio gioviale e brillante degli allegri finali e dispiega quella facilità melodica e contrappuntistica tipica della personalità di Mozart. E’ trattato in forma non canonica (è presente un ritornello, viene ripreso il tema principale) e ricalca piuttosto il modello usato da Carl Philipp Emanuel Bach in questo genere di composizioni. Ascoltiamo il 1° movimento nella versione che, a giudizio unanime dei critici, è di riferimento: George Szell dirige la Cleveland Orchestra.
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La famiglia.
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Mozart nacque a Salisburgo il 27 gennaio 1756. Il suo nome di battesimo era Joannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus: Joannes Chrysostomus, perché il 27 gennaio è il giorno in cui si celebra
san
Giovanni
Crisostomo;
Wolfgangus
(letteralmente: «camminare come un lupo») deriva dal nome del nonno materno; Theophilus era il nome del padrino. Il nome Amadeus è la traduzione latina di quest’ultimo nome, cioè «colui che ama Dio» o anche «colui che è amato da Dio»: egli però non amava farsi chiamare Amadeus, bensì Amadè, tranne quando si firmava con enfasi scherzosa Wolfgangus Amadeus Mozartus. Il padre Leopold era anch’egli musicista, al servizio del principe arcivescovo di Salisburgo. Preferì dedicarsi all'insegnamento, e impartiva lezioni di violino e di composizione; tra i suoi trattati l’Insegnamento ragionato del violino, un testo molto conosciuto e largamente utilizzato tra i maestri di musica dell’epoca. La madre si chiamava Anna Maria Pertl: a proposito della coppia, lo scrittore francese Stendhal, autore del libro Vita di Mozart (per chi desiderasse leggerlo, consiglio: editore Passigli, Collana Le occasioni, 1998), scrisse che "erano nominati in tutta Salisburgo a causa della loro rara bellezza". Dalla loro unione nacquero sette figli, cinque dei quali vissero pochi giorni o pochi mesi, e solo due rimasero in vita: Maria Anna (chiamata in famiglia Nannerl, come dire "Nannina" o "Nannarella") e Wolfgang, che espressero entrambi, sin dalla tenera età, un’indiscutibile attitudine per la musica, tanto che il padre decise dedicò di insegnarla esclusivamente a loro.
L’infanzia. Il piccolo Wolfgang dimostrò un talento per la musica tanto precoce quanto straordinario, fu un vero e proprio bambino prodigio: a tre anni già iniziava a suonare il clavicembalo, a soli quattro anni "gli bastava una mezz'ora per imparare un minuetto, e appena il doppio per un brano di maggior respiro. Subito dopo li suonava con sorprendente pulizia, e perfettamente a tempo [Stendhal]"; a cinque compose il suo primo concerto per cembalo e violino. Un énfant prodige, ma dall'animo estremamente sensibile: quasi ossessionato dalla ricerca di affetto, trascorreva buona parte della giornata a interrogare le persone che giravano per
casa chiedendo loro se lo amassero davvero: e se una di queste, scherzando, rispondeva di no, Wolfgang scoppiava in un pianto a dirotto che terminava soltanto quando quella persona gli avesse detto si. Non poteva tollerare fisicamente il timbro forte e impetuoso della tromba. Una volta il padre chiamò dei suonatori di tromba, ma alla prima nota il piccolo Mozart impallidì e stramazzò sul pavimento; e verosimilmente sarebbe stato colto dalle convulsioni se non avessero smesso immediatamente di suonare. Solo col tempo, Wolfgang imparerà, se non ad amare, almeno a tollerare la presenza della tromba in orchestra. Quando non aveva neppure sei anni, il padre lo portò a Monaco assieme alla sorella affinché suonassero
per
la
corte
del
Principe
Massimiliano III. Anche Nannerl, come detto prima, aveva un precoce talento musicale: sin da bambina si esibiva al clavicembalo e al fortepiano al fianco del fratello durante le tournée organizzate dal padre. Avendo riscontrato le straordinarie qualità dei suoi figli, infatti, Leopold Mozart li portò fin da piccoli a suonare in molte città europee, tra le quali Vienna e Parigi. Ebbe iniziò così la lunga serie di viaggi lunghi e faticosi (si viaggiava con difficoltà, in carrozze scomode e su terreni accidentati) che portarono la famiglia Mozart per tutte le corti di Europa; il lato positivo fu che il giovane Wolfgang poté entrare in contatto con i vari fermenti artistici presenti in Europa. Venne tre volte in Italia, viaggio obbligatorio per chi volesse approfondire ogni forma di arte in generale. A Vienna i due fratelli si esibirono alla Corte imperiale e in varie case nobiliari, riscuotendo un grande successo da cui derivarono fama e denari. Durante questi viaggi, sia Wolfgang che Nannerl (nel riquadro a dx) si ammalarono gravemente a più riprese, anche di patologie potenzialmente mortali come il vaiolo e il tifo (a Nannerle una volta dovettero anche somministrare l’estrema unzione!). Malgrado i continui spostamenti, Wolfgang non abbandonò lo studio e gli esercizi volti a migliorarne l'approccio con la tastiera. La regolarità dello studio era una regola sacra, alla quale il padre Leopold non ammetteva trasgressioni. Fortunatamente, Wolfgang era - almeno in tenera età - il bimbo che tutti i genitori vorrebbero avere.
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Racconta
ancora
Stendhal:
"Non
espresse mai malcontento per ciò che gli ordinava suo padre. Anche dopo essersi fatto ascoltare per un'intera giornata, seguitava a suonare, senza manifestare il minimo disappunto, poiché così desiderava suo padre". Quel che più conta è che Leopold non dovette far ricorso a coercizioni o, peggio ancora, a violenze per ottenere da suo figlio obbedienza e dedizione. Per Mozart la musica fu sempre tutta la sua vita, e ogni momento della giornata sottratto ad essa era un momento che non valeva la pena di essere vissuto.
A dimostrazione della precocità del genio mozartiano, ho pensato di farvi ascoltare il Divertimento in re maggiore K 136 per soli archi, scritto all’età di 15 anni mentre si trovava a Salisburgo dopo due lunghi periodi trascorsi in Italia. I Divertimenti erano composizioni brevi da utilizzare come musica di sottofondo in occasione di cene sia nei palazzi che all’aperto, o durante ricevimenti o altre occasioni pubbliche; non erano legati a precise regole costruttive e al rispetto di un determinato organico strumentale; potevano essere brani di dimensioni impegnative o contenute, affidati a un solo esecutore o a un gruppo da camera. In definitiva ciò che li accomunava era la loro particolare destinazione d'intrattenimento. Il Divertimento K 136 (il titolo "Divertimento" sullo spartito autografo non fu però scritto da Mozart), appartiene alla produzione strumentale di un Mozart giovanissimo, che assorbe e assimila le esperienze e gli stili presenti in quel tempo, specialmente della scuola barocca e della sinfonia d'opera italiana. Il Divertimento K 136 e gli altri due successivi Divertimenti (numeri 137 e 138 del catalogo Köchel), sono conosciute come le “Sinfonie salisburghesi”, in quanto sono molto vicini strutturalmente alle sinfonie per archi, ma senza oboi e corni. Secondo il musicologo Alfred Einstein (cugino del celeberrimo scienziato Albert), nel suo celebre trattato sulla musica
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mozartiana, questi tre lavori sarebbero servirti da «riserva» nel caso che fosse stata richiesta a Mozart di comporre, nel successivo viaggio in Italia, qualche sinfonia: il compositore saliburghese non avrebbe dovuto far altro che aggiungere agli archi gli strumenti a fiato, per trovarsi tre piccole Sinfonie già pronte. Il Divertimento K. 136 si apre con un Allegro che si snoda agile e brioso sugli schemi riconosciuti della Sinfonia italiana, con il serrato dialogo delle due parti di violino e il discreto accompagnamento di viole e violoncello. Richiede un notevole impegno virtuosistico agli esecutori. L'Andante è più riflessivo, rispecchia lo stile galante all'italiana ed è formato da tre soggetti di breve respiro, cui fa seguito un lungo ritornello con il canto del primo violino in evidenza. Il Presto finale si apre in sordina, riprende i temi già esposti nei primi due tempi, e si impone per la sua musicalità spigliata e concitata, non senza qualche ispessimento contrappuntistico. Ho scelto, per l’ascolto, il 1° movimento (Allegro). L’interpretazione, molto briosa e festosa, è de I Musici, uno storico ensemble di archi italiano, fondato da alcuni membri dell’Orchestra di Santa Cecilia di Roma. In più riprese vi hanno suonato musicisti quali Felix Ayo, Pina Carmirelli, Salvatore Accardo, Dino Asciolla, Bruno Giuranna, praticamente il Ghota dei violinisti italiani del 1900.
La giovinezza. Il nostro immaginario ci porta ad raffigurare un Mozart giovane e bello seduto al cembalo o al fortepiano
nelle
corti,
attorniato
dalla
ammirazione e dalla reverenza dei nobili: il film “Amadeus” di Milos Forman ha un po’ idealizzato una realtà non proprio dorata. Fisicamente Mozart, anche se non era certamente
brutto,
non
era
un
uomo
particolarmente attraente. Era alto 1 metro e 52 centimetri, aveva una grande testa, un prominente
naso
aquilino,
ed
una
malformazione all’orecchio sinistro (nota tuttora nei testi di medicina come “orecchio di Mozart”, vedi pag. 45). Il volto portava i segni del vaiolo contratto da piccolo. Aveva grandi occhi azzurri e si ritiene che avesse una leggera miopia. Secondo quanto riferisce il tenore irlandese Michael Kelly, la capigliatura era bionda, folta e bella, e per la maggior parte del tempo egli teneva i capelli in ordine e incipriati con eleganza. Amava portare parrucche, in armonia con la moda del momento, e indossava abiti costosi dai colori vivaci, soprattutto rossi. Le mani erano grassocce.
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Ritratto di Mozart, di Barbara Kraft, Sammlung alter Musikinstrumente, Vienna
Per quanto riguarda il suo ruolo sociale, all'epoca i compositori o i maestri di cappella erano perlopiù considerati dei semplici artigiani piuttosto che artisti nel senso moderno del termine: per desinare sedevano al tavolo insieme alla servitù, portavano la livrea, erano spesso umiliati, come dimostra l’episodio in cui Mozart venne effettivamente cacciato a pedate dai servi del vescovo Colloredo, protettore suo e del padre nonché datore di lavoro, in seguito ad atteggiamenti ritenuti irrispettosi. A quei tempi il musicista, se voleva avere un lavoro e uno stipendio, doveva sottostare ai padroni, scrivere per il pubblico, cedere ai gusti del tempo; non esisteva il diritto d’autore, e se si voleva essere autonomi, ci si doveva assumere i rischi economici d’impresa della vendita e delle esecuzioni delle proprie opere. Sarà Beethoven a "riabilitare" la categoria dei musicisti, dando loro una dignità adeguata.
L’età adulta. Mozart adulto cambiò rispetto al bambino obbediente e studioso di un tempo; divenne un uomo meno regolare, che non lesinava sui piaceri della vita, tra i quali le donne e il biliardo. Prediligeva, per comporre, le prime ore del mattino, dalle sei alle dieci, e lavorava comodamente sdraiato nel letto. Attesi questi compiti - quasi di ordinaria amministrazione - si dedicava allo svago: frequentava le bettole, si ubriacava, andava a donne come pochi. Questi ritmi, tuttavia, non scandivano ogni sua giornata. Quando era ispirato, nessuno sarebbe riuscito a strapparlo alla sua creazione. Se lo distoglievano dalla musica, componeva in mezzo agli amici, e finiva per passare notti intere con la penna in mano. Molto si è parlato di alcuni lati non proprio “ortodossi” di Mozart. Il suo comportamento suscitava meraviglia e stupore tra coloro che venivano a contatto con il compositore, il quale si dimostrò una persona irrequieta, bizzarra, dalla condotta ipercinetica e compulsiva, spesso portata al turpiloquio. Inoltre aveva tic vocali. Amava e coltivava gli “scampanii suini”… Questi atteggiamenti si possono spiegare con l’ipotesi che Mozart sia stato affetto da una sindrome genetica detta di Gilles de la Tourette. Questa anomalia porta spesso il malato (e anche, ahimè, a quanto si suppone, il nostro amato Wolfgang) a comportamenti indicibili, quali la coprolalia e la coprografia, cioè ad un non controllabile impulso a dire e a scrivere parole oscene (riferite in genere agli escrementi, alla defecazione, alle parti non “nobili” del corpo, ecc.) e ad intrattenersi in puerili giochi verbali che hanno spesso come argomento il sesso. Persino gli spartiti originali mozartiani sono infarciti di volgarità indescrivibili!
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Un Mozart senza inibizioni, quindi, che istintivamente esprimeva tutto quello che pensava: questo atteggiamento fu forse la causa per cui, nonostante la sua genialità di musicista, non fu mai assunto presso le Corti reali o gli ecclesiasti. Cito, senza commenti, alcuni scurrili passi di due sue lettere (e mi perdonino i miei venticinque lettori di manzoniana memoria) ma vi assicuro che sono tra i più leggibili. “Oui, con quanto sentimento defeco sul tuo naso, così che ti coli sul mento”, alla cugina Anna Maria Thekla, chiamata affettuosamente Bäsle. “Ieri ascoltammo il re scoreggione. / Era dolce come torrone / e benché non fosse granché in voce / rumoreggiava in modo atroce”, alla madre.
Vi propongo adesso un brano di piacevole ascolto, dai giochi armonici chiari e precisi, con passaggi virtuosistici riservati ad esecutori di naturale e sicuro talento. E’ il Divertimento n° 17 K 334, per Sestetto (due violini, viola, contrabbasso e due corni) composto a Salisburgo nel 1779 per festeggiare la laurea in Legge di un amico stretto di Mozart, Sigmund Robinig, tralaltro violinista di buon talento. Musicalmente, la parte del primo violino è impegnativa e richiede la presenza di un musicista di alte doti tecniche e di interpretazione, mentre gli altri strumenti svolgono un intreccio di linguaggio espressivo ricco di trovate e di umori di brillante musicalità. Dei 6 movimenti che costituiscono questo Divertimento ho scelto di farvi ascoltare il terzo, un Minuetto non meno famoso di quello celeberrimo di Boccherini: la melodia svolta dal primo violino e dalla viola all’unisono viene sorretta dai pizzicati del secondo violino e del contrabbasso. Una curiosità: un except del Minuetto fu usato nel film d’animazione “Yellow submarine”, film d'animazione del 1968 diretto da George Dunning con protagonisti i Beatles. Il brano (trascritto per orchestra) è eseguito dai Berliner Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan, ed è svolto con grazia e con fraseggio delicato inaspettati da un’orchestra così imponente, e perciò tanto più piacevole all’ascolto.
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Mozart a Venezia Mozart visitò Venezia con suo padre durante i mesi di febbraio e marzo del 1771, ma l’identità della casa in cui ha vissuto è sempre stata un mistero. In alcune lettere scritte da Mozart stesso egli descrive la casa come: Venezia/Allogiato Rio San Fantin al Ponte di Barcaroli /in casa Cavalleti. Sfortunatamente, nei pubblici registri curati dalla Chiesa, non vi era traccia di una famiglia Cavalletti vissuta a Venezia nel XVIII secolo. Durante gli anni ’90 il musicologo Paolo Cattelan scoprì che Mozart visse in Ca’ Falletti, corrispondente a Palazzo Molin nella Calla privata del Cuoridoro (artigiano decoratore della pelle) Angelo Ceseletti, dove visse al piano terra, mentre il Conte Falletti viveva ai piani più alti (in basso Palazzo Molin del Cuoridoro). Cavalletti era il modo errato con cui Mozart scriveva Ca’ Falletti, dato che la “V” viene pronunciata come la “F” in tedesco. Il Conte Francesco Falletti fece parte della
decadente
aristocrazia
della
Repubblica di Venezia e fu condannato a morte
nel
1752
per
blasfemia
e
libertinismo. La sua casa era ancora nominata Ca’ Falletti quando Mozart ci visse nel 1771. La casa venne scelta per la vicinanza ai teatri della città, tra cui il famoso il Teatro San Benedetto, che divenne La Fenice nel 1792. Storie tratte dalla realtà influenzarono il lavoro del giovane Mozart, e si ritiene che il Conte Falletti potrebbe essere stato d’ispirazione per il Don Giovanni di Mozart, date le numerose somiglianze tra il personaggio della finzione e quello reale, non solo per il loro stile di vita, ma anche per il loro atteggiamento nei confronti delle autorità. C’è una targa a Venezia a casa Ceselletti, vicino al ponte dei Barcaroli a Venezia, a testimonianza del fatto che Mozart visse in quella casa.
Una grande rivoluzione: l’avvento del pianoforte. Si deve a Mozart la valorizzazione della musica per pianoforte: egli fu non solo autore ma anche validissimo interprete delle sue composizioni e virtuoso dello strumento (improvvisava delle variazioni, suonava con la tastiera coperta, o voltato con le mani incrociate dietro la schiena). Lo strumento di Mozart fu invero il fortepiano (a dx vediamo il suo strumento, conservato nella casa natale a Salisburgo), tecnicamente un cordofono a percussione, cioè, come
il
pianoforte
moderno,
produce suoni grazie a corde che vengono percosse per mezzo di martelletti, azionati da una tastiera. La sua caratteristica rispetto al moderno pianoforte è di essere interamente in legno, o tutt'al più con
alcune
strutture
interne
metalliche. Questo comporta una tensione delle corde decisamente inferiore, un volume sonoro notevolmente minore, con il risultato di produrre una timbrica parzialmente diversa rispetto allo strumento odierno: tuttavia non si può parlare di due strumenti diversi, ma di un unico strumento, che ha subito nel tempo una decisa e profonda evoluzione. La caratteristica peculiare, e nuova per l'epoca, del fortepiano fu la possibilità per l'esecutore di dosare la pressione sul tasto: questo permise di aprire nuovi orizzonti ai mezzi di espressione degli artisti, che durante la seconda metà del Settecento abbandonarono rapidamente il clavicembalo in favore di questo nuovo e duttile strumento. I più pregiati fortepiano venivano costruiti a Vienna, e non fu un caso che tanto Mozart, quanto Beethoven o Franz Joseph Haydn, tutti in qualche modo legati alla capitale austriaca, sviluppassero per primi le incredibili potenzialità del nuovo strumento. Quello che frenava la diffusione del pianoforte nascente era il suo altissimo costo, per cui esso andò affermandosi solo nelle corti reali, nei palazzi governativi e nei saloni delle principali famiglie nobili. Inoltre il suo livello sonoro non era neppure paragonabile all'attuale e questo permetteva il suo uso solo in salotti o saloni di dimensioni abbastanza contenute. Mozart pose per primo le basi del grandioso sviluppo di forma e contenuti che portò successivamente ai massimi vertici la musica per questo strumento: egli non inventò la forma del concerto per pianoforte, ma la plasmò in modo da renderla simile a quella sinfonica. Senza il suo intervento, che valorizzò il dialogo tra solista e orchestra, la storia della musica sarebbe stata molto diversa.
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Mozart scrisse complessivamente ventisette concerti per pianoforte, venticinque per un solo pianoforte, uno per due pianoforti e uno per tre pianoforti: li scriveva per eseguirli personalmente in pubblico. Quasi tutti godettero immediatamente di enorme successo, e ne spiega la ragione lo stesso Mozart in una sua lettera: «Sono esattamente una via di mezzo tra il troppo difficile e il troppo facile; brillanti, gradevoli all'orecchio, naturali senza cadere nel vuoto. Qua e là potranno soddisfare gli intenditori ma sempre in modo tale che anche gli incompetenti ne provino piacere senza sapere perchè.» L'ultimo concerto, il n. 27 in si bemolle maggiore (K 595), che molti
ritengono
il
più
bel
concerto per pianoforte che sia mai stato scritto, venne scritto nel gennaio 1791 e molti pensan0 che il carattere interiore delle linee melodiche fanno pensare che Mozart lo avesse composto nella consapevolezza della morte imminente. Beethoven non nascose mai la sua ammirazione per i concerti per pianoforte mozartiani, che gli servirono da modello per i suoi primi tre concerti.
E’ difficile fare una scelta tra le varie Sonate, Fantasie o per i meravigliosi concerti per pianoforte e orchestra scritti da Mozart. Il brano che alla fine ho scelto è il celeberrimo Andante del Concerto per pianoforte e orchestra n° 21 K 467, scritto nel 1785 all’età di 29 anni, la cui cantabilità tocca vette celestiali fino a quel momento mai raggiunte da questo strumento. Strutturalmente si riconoscono in questo movimento tre parti distinte: un preludio orchestrale; una parte centrale affidata al solista, in cui si susseguono numerosi stati d'animo ora tristi, ora angosciati, ora sereni, anche se i temi si distinguono appena, quasi si trattasse di un fiume sonoro lento e costante; una coda finale. L’atmosfera di questo concerto è alla fine magica, costruita da Mozart cambiando continuamente la tonalità del pezzo che comincia in fa maggiore e conclude nella stessa tonalità, ma che contiene in 102 battute ben 20 modulazioni verso tonalità diverse. Ve lo propongo nell’interpretazione di Claudio Abbado che dirige i Wiener Philharmoniker, al pianoforte Friedrich Gulda.
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Ricordo di Claudio Abbado.
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Come ben sapete, Claudio Abbado ci ha lasciato una decina di giorni fa (20 gennaio 2014, ndA): l’Italia e il mondo intero ha perso un protagonista eccezionale della cultura italiana, un grandissimo artista di fama mondiale che ha donato tutta la sua vita alla musica. E’ stato uno dei più illustri direttori d’orchestra del mondo, tra i più grandi di tutti i tempi: ha ricoperto le cariche di Direttore musicale della Scala, della Staatsoper di Vienna e Direttore artistico dei Berliner Philharmoniker. Abbado fu il primo direttore non austro-tedesco ad essere eletto, nel 1989, direttamente dagli orchestrali, e prese sulle sue spalle l'ingombrante eredità di una delle più grandi bacchette di tutti i tempi, Herbert von Karajan, che aveva guidato da vero padrone l'orchestra dal 1954, anno della morte dell’altro mitico direttore Wilhelm Furtwängler. L'impatto di Abbado sulla stagione musicale e, in generale, sulla vita culturale berlinese, fu assai notevole: sull'onda delle iniziative per ristrutturare la capitale della nuova Germania riunificata, i Berliner Philharmoniker diventarono uno dei fulcri più importanti: iniziarono a commissionare nuove composizioni e, da culla della musica romantica e classica, espansero il proprio repertorio verso la musica contemporanea, con un carnet che spazia da Beethoven a Nono. Grande merito di Abbado è inoltre l’aver fondato, in Italia e in Europa, nuove orchestre, formando nuove valenti generazioni di giovani musicisti.
“Alla turca” è uno stile musicale utilizzato da molti compositori europei, soprattutto del XVIII e XIX secolo. Lo stile alla turca era molto di moda soprattutto al tempo di Mozart e piaceva in special modo al pubblico viennese, da quello più aristocratico a quello popolare e meno colto: questo stile univa, infatti, un clima tipicamente esotico ad uno più festoso e casareccio, esplicitato dall'uso dei piatti, del triangolo e della grancassa. Sulla scia della moda della turquerie, che aveva avuto vastissima diffusione in tutta l'Europa nel corso del Settecento, Mozart aveva scritto, nel 1782, l'Opera Il ratto dal serraglio, che aveva raggiunto una piena affermazione presso il pubblico viennese.
Con un’altra composizione, il "Rondò alla Turca”, terzo e ultimo movimento della sua Sonata per pianoforte n° 11 K 331, Mozart volle reinserirsi sulla scia della turquerie teatrale per riproporre, nei salotti dell'aristocrazia, quegli stessi accenti che dovevano attribuire alla musica un sapore "turchesco". Questo brano, tra i più noti di Mozart, venne composto quando egli aveva 27 anni, ed il suo titolo è stato scritto dallo stesso compositore salisburghese; viene anche comunemente indicato come "Marcia Turca" perché in effetti è una marcia, cioè un tempo binario che segue la scansione regolare dell'alternanza nel movimento ritmico dei nostri passi. Mozart si ispirò alla musica militare delle bande dei Giannizzeri, che erano presenti in Austria e su tutto il territorio asburgico. La scrittura musicale si propone di ricreare sulla tastiera il suono esotico, misterioso e "selvaggio" delle bande militari turche che si avvalevano di tamburo, triangoli e campanelli. Tanto efficace è questa invenzione - che appariva ancor più efficace con i pianoforti dell'epoca, dal suono più aspro di quelli moderni - che il brano ha acquisito una fama intramontabile anche ai nostri giorni.
La musica è costituita da una alternanza di idee musicali scoppiettanti, ora vagamente inquiete e maliziose, ora più brillanti, ora scatenate in un allegro virtuosismo.
Al pianoforte una grande interprete mozartiana, Mitsuko Uchida.
Le composizioni per violino. Nella produzione musicale di Mozart il violino occupa un posto importante anche se non primeggiò come invece avvenne per il pianoforte. Mozart, oltre ad essere un virtuoso di pianoforte era anche un valente violinista (è possibile ancora vedere uno dei suoi violini nella sua casa natale a Salisburgo, vedi foto a dx), e aveva appreso l’arte dello strumento dal padre Leopold, anch’egli valente violinista. Mozart compose per questo strumento cinque concerti nell'arco di pochi mesi
del 1775, all'età di 19 anni; negli anni seguenti non tornerà mai più sul genere, dedicandosi quasi esclusivamente al pianoforte come strumento solista.
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I concerti per violino di Mozart sono considerati il banco di prova più arduo per un solista, offrendo poche possibilità di mascherare con effetti virtuosistici imprecisioni tecniche o una non convincente concezione interpretativa; per lo stesso motivo sono brani ideali a mettere in luce il senso artistico più raffinato di un interprete, cui non deve mancare il patrimonio completo delle sfumature tecniche, dai colpi d'arco al senso del vibrato, dall'articolazione del suono al colore ed alla dinamica. Il Concerto per violino n°5 K 219 è il più maturo e tuttora il più eseguito fra tutti i concerti per violino (anche di altri autori): la bellezza melodica, la forte contrapposizione dei singoli movimenti, l'uso sicuro delle possibilità espressive dello strumento sono tutte presenti e trattate con vera maestria, anche se però non sono portate ai massimi livelli per questo strumento, che saranno raggiunti solo nel secolo successivo.
L'ultimo movimento del Concerto per violino K 219 che sentiremo adesso è un Rondò: il soggetto iniziale, utilizzato come ritornello, è un minuetto; segue uno sviluppo musicale, che, iniziando all'ungherese, sfocia in uno scatenato movimento alla turca, come di gran moda a quei tempi. L’ascolto di questo brano vi farà sicuramente capire quanto ormai siamo lontani dal modello violinistico di Vivaldi del periodo barocco. Una nota. Uno stranissimo destino accomuna Vivaldi e Mozart: entrambi morirono a Vienna, vissero gli ultimi tempi della loro vita in condizioni di miseria, furono seppelliti in una fossa comune, ed i loro corpi non sono mai stati più ritrovati! Il Rondò del Concerto per violino e orchestra n° 5 in la maggiore K 219 è suonato dal grande violinista Josef Suk; Libor Hlavàcek dirige la Prague Chamber Orchestra.
Il 1779 fu uno degli anni più difficili e penosi della vita di Mozart. L'ex-fanciullo prodigio aveva ormai 23 anni e era dovuto tornare a Salisburgo, dopo un viaggio di sedici mesi che aveva avuto come tappe intermedie Mannheim e Monaco e come meta finale Parigi. Profondamente provato dalla morte della madre (vedi riquadro a sin), avvenuta mentre si trovava solo con lei a Parigi, rifiutato da Aloysa Weber, di cui s'era invaghito a Mannheim, amaramente deluso nella speranza di trovare una collocazione professionale più rispondente alle sue aspirazioni, si era dovuto rassegnare a
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ritornare nella sua città natale assai provinciale, riassumendo il suo ruolo di servitore del principearcivescovo. L'insoddisfazione e la rabbia non spensero ma anzi stimolarono la sua voglia di comporre. E’ del 1779 la Sinfonia concertante per violino, viola e orchestra K 364, opera di straordinaria Orchestra
bellezza,
di
destinata
Mannheim,
da
alla poco
trasferitasi a Monaco, della quale molti eccellenti musicisti erano suoi amici personali. La sinfonia concertante è una forma musicale originaria del classicismo ed è un misto tra la sinfonia e il concerto: è un concerto in quanto ha uno o più solisti, è una sinfonia in quanto non pone in particolare risalto i solisti, ma l'orchestra domina decisamente.
Mozart preferì dare a questa Sinfonia concertante un carattere serio e severo: il timbro scuro della viola attenua i toni brillanti del violino, il primo movimento si tiene lontano dai vivaci temi presenti nei tempi veloci di molte sinfonie mozartiane di quegli anni, il meditativo tempo lento centrale ha una dimensione e un ruolo ben superiori al consueto.
La composizione è in più movimenti, tutti molto belli. L'Andante, nella cupa tonalità di do minore, è un canto emozionante e ricco di pathos, in cui l'orchestra svolge la funzione di accompagnamento dei due strumenti solisti che, senza soluzione di continuità, alternano e compenetrano temi di soave bellezza ed irresistibile poesia, in un vero e proprio intenso dialogo d’amore. Una splendida interpretazione ce la offre l’Academy of Saint Martin in the Fields, diretta da Sir Neville Marriner. Al violino Anne-Sophie Mutter, alla viola Bruno Giuranna, interpreti di un delicatissimo fraseggio e dialogo dei loro strumenti.
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Wolfi e Stanzi
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Quando la famiglia Mozart e la famiglia Weber si conobbero a Mannheim, le mire del giovane musicista erano tutte per la sorella maggiore Aloysia, vivace e spigliata, soprano di grande talento, che però respinse le avances dello squattrinato Wolfgang e si sposò con Joseph Lange, un attore e impresario teatrale di fama. Riuscì comunque a sfruttare l’ammirazione di Mozart, deluso dal rifiuto eppure disposto a dimenticarlo, e ottenne molti ruoli nelle sue opere Per Mozart fu una delusione cocente, ma non serbò rancore e dopo alcuni anni spostò le sue attenzioni su Constanze, che non era per niente la prediletta fra le sue sorelle, anzi, d’aspetto era quasi la più insignificante. Quella sorella un po’ timida, defilata, con due occhioni neri tanto profondi, né bella né brutta, la dolce “Stanzi”. Lei sì, che subiva il fascino dell’artista; lei sì che amava veramente il suo “Wolfi”, e non per interesse. Anche lui le voleva un bene dell’anima, perché lei era umile, modesta, ingenua, senza la minima malizia, non gli avrebbe creato problemi per la mancanza di denaro, non aveva bisogno di cameriere e dame di compagnia, era abituata ad arrangiarsi. In una lettera al padre, Leopold Mozart, che non amava la famiglia Weber e non vedeva la futura nuora di buon occhio, Wolfgang la descrive in questi termini: "Prima che io smetta d'infastidirla con le mie chiacchiere, devo informarla meglio su Constanze. Non è di certo una brutta ragazza, ma al tempo stesso è lontana dall'essere bella. Tutta la sua bellezza consiste in un paio di piccoli occhi neri e in un aspetto abbastanza curato. Non è molto intelligente, ma ha sufficiente buon senso per adempiere ai doveri di moglie e madre. Dire che tende ad essere stravagante è una bugia bella e buona. Al contrario, è abituata ad essere vestita con modestia: quel poco che sua madre ha potuto fare per le sue figlie, l'ha fatto per le altre due e mai per lei. La maggior parte di ciò che serve a una donna, lei è capace di farlo con le sue mani, ed è lei stessa che si acconcia i capelli ogni giorno. Inoltre, ha una certa pratica di economia domestica e ha il cuore più gentile del mondo. Io amo lei e lei ama me con tutto il cuore. Mi dica lei se potrei augurarmi una moglie migliore!" Wolfgang e Constanze si sposarono nel 1782 e in nove anni di matrimonio ebbero sei figli, due soli dei quali arrivarono all'età adulta: Carl Thomas Mozart e Franz Xaver Wolfgang Mozart.
L’opera teatrale.
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Apriamo un capitolo importante non solo dell’attività compositiva mozartiana ma di tutta la musica occidentale: l’opera teatrale. Mozart fu uno straordinario compositore di opere teatrali musicali, e lo fece per tutta la sua vita: egli scrisse la sua prima opera (Apollo e Giacinto) quando aveva 11 anni, e l’ultima (Il Flauto magico) era ancora in rappresentazione la sera quando morì. Non si può dire di conoscere appieno Mozart se non si conosce questo suo ruolo importantissimo in questo genere musicale. I teatri, tranne quelli di corte, non erano come i nostri odierni; non c’era il caveau dell’orchestra, e i musicisti si sedevano nelle prime file; dietro a loro vi era la gente comune che per pochi soldi trovava posto su delle panche; chi se lo poteva permettere (aristocratici, borghesi) andava nei palchi dove accadeva di tutto: si parlava, si mangiavano pasti completi, si consumavano avventure galanti. Anche gli effetti speciali erano “nature”: ad esempio per indicare il sole che nasceva o per mettere delle luci particolari su un personaggio, sul palcoscenico venivano accesi dei fuochi che spesso erano cause di incendi. L’incontro determinante per Mozart operista fu quello con il librettista Lorenzo da Ponte, che per il compositore scrisse tre libretti che gli hanno dato l'immortalità: Le nozze di Figaro (1786) che egli adattò dalla commedia di Beaumarchais, Don Giovanni (1787, al cui libretto diede qualche contributo anche Giacomo Casanova) e Così fan tutte (1790).
Unanimemente considerato uno degli esempi più perfetti di drammaturgia musicale, Le Nozze di Figaro è una delle più famose opere di Mozart e dell'intero teatro musicale. Fu lo stesso Mozart a portare una copia della commedia di Beaumarchais (vedi riquadro a sin) a Da Ponte, che la tradusse in lingua italiana (a quei tempi la lingua ufficiale dell'opera lirica). Questo primo frutto della collaborazione fra Mozart e Lorenzo Da Ponte vide la luce fra non poche difficoltà, legate ai problemi di censura che la commedia di Beaumarchais si portava dietro (la commedia era stata vietata dall'imperatore Giuseppe II, poiché attizzava l'odio tra le varie classi sociali) e alle manovre segrete, talvolta meschine, dell’ambiente teatrale viennese, dominato dalla figura del direttore dei Teatri imperiali, il conte Rosemberg Orsini. Mozart scrisse l’opera in gran segreto e vi impiegò sei settimane per completarla.
Oltre ad aver rimosso ogni segno di satira politica, nella scena finale del terzo atto, che comprendeva un balletto e una pantomima, si dovette scontrare con un divieto imperiale di rappresentare balli in scena. Racconta Da Ponte, nelle sue Memorie, che lui e Mozart, non intendendo rinunciare al finale come l'avevano concepito, invitarono l'imperatore ad assistere a una prova, dove eseguirono quel pezzo muto. L'Imperatore Giuseppe II (nel riquadro a dx) subito ordinò che la musica fosse reinserita. Le nozze di Figaro finì per essere il più grande successo dell’intera carriera artistica di Mozart, e trovò immediata e duratura rispondenza nei teatri di tutta Europa. Da allora, l’opera non ha mai cessato d’essere ammirata e prodotta.
De Le nozze di Figaro vi farò ascoltare la splendida Ouverture. Il brano è tra le ouverture più celebri ed eseguite del compositore salisburghese e, più in generale, dell'intero panorama operistico settecentesco. E’ una pagina esuberante che esprime una vitalità sfrenata e tuttavia serena, una pura e semplice gioia di vivere, con due temi musicali che si rincorrono e si affrontano, risolvendosi, verso la conclusione del brano, in un disegno cromatico discendente che dà l’impressione uditiva di una musica che corra a perdifiato verso il precipizio. La straordinaria vivacità musicale, lo spirito vitale delle note e la brillante partitura degli archi rendono il brano autonomo, indipendente sia dall’intreccio sia dal taglio sociale dell’opera di Beaumarchais, tanto da venire considerato un brano a sé: per questo motivo tale ouverture viene spesso eseguita da sola, in forma di concerto. L’Ouverture delle Nozze di Figaro è eseguita da Ferenc Fricsay che dirige la Radio-Symphonic Orchester di Berlino.
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Lorenzo da Ponte Emanuele Conegliano nacque a Ceneda il 10 Marzo 1749 da una famiglia ebraica che viveva in un ghetto (allora a Ceneda fioriva una comunità israelitica). Il padre di Emanuele, rimasto vedovo e desideroso di sposare una giovane cristiana, la diciassettenne Orsola Pasqua Paietta, fece convertire tutta la famiglia: la cerimonia fu officiata dal vescovo di Ceneda Lorenzo Da Ponte, che, secondo l'usanza, diede alla famiglia il proprio cognome e ad Emanuele anche il nome. Grazie all'interessamento dello stesso vescovo, i tre figli studiarono presso il seminario di Ceneda. Dopo la morte del prelato (1768), Lorenzo passò al seminario di Portogruaro, dove prese gli ordini minori e divenne prete. Per il suo carattere libertino e spregiudicato, fu però bandito dalla Repubblica di Venezia. Giunse quindi a Vienna nel 1781, dove, per intercessione di Antonio Salieri, divenne poeta di corte dell'imperatore Giuseppe II. Va ricordato che in quegli anni era d'obbligo che le opere avessero il libretto in italiano, considerato la lingua dell’arte colta. A Vienna Da Ponte scrisse per vari musicisti libretti che ottennero grande successo, ma tre sono i libretti che gli hanno dato l'immortalità, quelli scritti per Mozart: Le nozze di Figaro (1786) che egli adattò dalla commedia di Beaumarchais, Don Giovanni (1787, al cui libretto diede qualche contributo anche Giacomo Casanova) e Così fan tutte (1790). Dopo la morte di Giuseppe II nel 1790, Da Ponte cadde in disgrazia presso la Corte e nel 1791 si dovette allontanare da Vienna. Si diresse inizialmente a Praga (dove ritrovò Giacomo Casanova) e poi a Dresda. Dall'autunno 1792 al 1805 visse a Londra dove scrisse libretti per una compagnia operistica italiana e fu per dieci stagioni (1794-1804) l'impresario del King's Theatre allestendo 28 prime. L'attività di impresario si risolse però in un disastro finanziario, ed il precipitare degli eventi lo indusse a lasciare il paese per trasferirsi negli Stati Uniti, seguito in breve dalla famiglia (si era sposato con Nancy Grahl, di vent'anni più giovane). Inizialmente si stabilì a New York, per trasferirsi poi a Filadelfia (dove fece sia l'insegnante di lingua che il negoziante) per poi tornare definitivamente a New York, dove aprì una libreria e si dedicò all'insegnamento della lingua e della letteratura italiana, fino a divenire nel 1825 il primo professore di letteratura italiana nella storia del Columbia College (oggi Columbia University), che ha sede a Manhattan. Dopo il fiorentino Carlo Bellini, dal 1779 al 1803 professore di Lingue moderne al College of William and Mary in Virginia, Da Ponte fu il secondo intellettuale italiano in assoluto ad insegnare in una università americana. Morì a New York il 17 Agosto 1838.
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Il Don Giovanni (titolo originale: Il dissoluto punito ossia il Don Giovanni, K 527) è considerato uno dei massimi capolavori non solo di Mozart, ma anche della storia della musica e della cultura occidentale in generale. In esso vi è il riflesso di tutto il genio mozartiano e di un Settecento musicale giunto ormai all'apice del suo fulgore e alle porte dell'ormai prossimo Romanticismo. Don Giovanni (nome spagnolo: Don Juan Tenorio) ha un unico obiettivo nella vita: sedurre tutte le donne che gli si presentavano a tiro. L'elenco di quelle da lui conquistate nel girare il mondo è conservato dal fido domestico Leporello sul suo catalogo: in Italia 640, in Alemagna (Germania) 231, in Francia 100, in Turchia 91 e in Spagna 1003. E’ l'immagine del libertino impenitente, ateo e irriverente al punto da scherzare con le ombre dell'aldilà e sfidare persino il giudizio divino. In
questo
cavaliere,
licenzioso
quanto
coraggioso, si è talvolta voluto vedere una proiezione dello stesso Mozart conosciuto come un grande seduttore di donne, anche se questo non è mai stato sostenuto da nessun documento storico; è invece provato che il buon prete Da Ponte non fosse un santarello: durante le intere giornate passate davanti ad una scrivania teneva vicino a sé un campanello per chiamare una servetta sedicenne che gli facesse… compagnia.
La licenziosità del personaggio principale è tutta nella famosissima aria “Là ci darem la man”. La scena: Don Giovanni ed il fido domestico Leporello si presentano nel momento in cui un gruppo di contadini e contadine festeggiano le nozze di Zerlina e Masetto. Intenzionato a sedurre la fresca sposina, Don Giovanni fa allontanare con una scusa il marito in compagnia di Leporello e di tutti gli altri paesani; rimasto solo con la giovane Zerlina, la invita a seguirlo e le promette di sposarla.
Sentite come la musica accompagna e si fa interprete dei due ruoli: da un lato la seduzione maliziosa di don Giovanni, dall’altro i tentennamenti della giovane contadina allettata da un destino diverso!
[Aria: “Là ci darem la man” - Atto I, scena 9] Don Giovanni (baritono) Là ci darem la mano, là mi dirai di sì. Vedi, non è lontano; partiam, ben mio, da qui. Zerlina (Vorrei e non vorrei, Mi trema un poco il cor. Felice, è ver, sarei, ma può burlarmi ancor.) Don Giovanni Vieni, mio bel diletto! Zerlina (Mi fa pietà Masetto.) Don Giovanni Io cangierò tua sorte. Zerlina Presto... non son più forte. Don Giovanni Andiam! Zerlina Andiam! A due Andiam, andiam, mio bene. a ristorar le pene d’un innocente amor.” Suonano i Wiener Philharmoniker diretti da Riccardo Muti. William Shimell interpreta Don Giovanni, Susanne Mentzer è Zerlina.
Don Giovanni finirà poi vittima del suo errore più grave, ossia di non pentirsi davanti alla statua del Commendatore, il padre di Donna Elvira da lui ucciso in duello, non soltanto rifiutandosi per ben tre volte di farlo, ma spingendosi a simulare il pentimento davanti alla donna stessa solamente per raggiungere i suoi scopi di seduzione.
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Nella scena finale Don Giovanni incontra la statua del Commendatore, che egli stesso aveva invitato a cena. La statua chiede insistentemente a Don Giovanni di pentirsi delle sue azioni abiette, ma è tutto inutile: lui risponde sempre di no. Infine non c’è più tempo: Don Giovanni viene inghiottito dalle fiamme dell’inferno. Molti studiosi ipotizzano che, nella figura tragica del Commendatore, Mozart volle evocare la figura severa ed autoritaria del padre Leopold che tanta influenza ebbe sempre su di lui, sia in tenera età che in quella adulta.
“Il Flauto magico” (Die Zauberflöte) K 620, scritto tra il 1790 e il 1791, anno della morte di Mozart (era addirittura in cartellone a Vienna al momento della sua morte) è uno Singspiel (termine che significa letteralmente "canto e recitazione"), un genere operistico in voga tra il XVIII e il XIX secolo, sorto e sviluppatosi nell’area tedesco-austriaca, caratterizzato dall'alternanza di parti parlate e parti cantate in lingua tedesca. A differenza dell'opera italiana, che prevede recitativi cantati, nel Singspiel i recitativi sono parlati, come nel teatro di prosa. Con quest’opera nasce il teatro nazionale tedesco, anche se già nel “Ratto del Serraglio” la lingua del libretto non era stata più quella italiana ma tedesca. Quest’opera fu da subito popolarissima e continuò a riscuotere un successo straordinario anche dopo la morte del musicista, essendo una tipica opera di teatro popolare e perciò molto amata dalla gente anche meno colta. La prima rappresentazione avvenne il 30 settembre del 1791 al Theater auf der Wieden di Vienna (nel riquadro) che era gestito dall’autore del libretto, l’attore e cantante amico di Mozart Emanuel
Schikaneder,
nell’occasione
coprì
il
il
quale
ruolo
di
Papageno. Mozart aveva concluso la partitura solo 2 giorni prima! Ci si stupisce che appena due mesi prima di morire, Wolfgang Amadeus Mozart abbia composto una fiaba luminosa, ricca di elementi fantastici, (flauto e campanelli magici, draghi, animali incantati dal suono del flauto, l’uccellatore Papageno [una sorta di arlecchino tedesco], e altro ancora), nonostante le precarie condizioni di salute e l’animo oppresso dalla morte!
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Il Flauto magico rappresenta la summa della poetica mozartiana dell’ultimo periodo, che consiste nell’unire nello stesso tempo il dramma più angoscioso e la gioia più pura, entrambi trasfigurati dalla leggerezza e dall’ironia. Il miracolo del Flauto magico, da molti critici definito il suo testamento spirituale, consiste proprio nell’aver rappresentato in una sola opera tutti gli aspetti che caratterizzavano sino ad allora l’opera seria, l’opera buffa, la rappresentazione sacra, aggiungendo anche gli elementi della ormai prossima opera romantica, di cui quest’opera è da considerare precursore assoluto, amalgamando tutti i generi e riconducendoli ad unità; la musica di Mozart riesce nello stesso tempo ad aderire ad ogni personaggio, ora comico, ora tragico, ora ieratico, esaltandone le caratteristiche diverse e spesso contrapposte fra di loro, e tuttavia lasciando nell’ascoltatore una impressione di assoluta unitaria armonia. E così, in una perfetta simmetria, troviamo tutti i numerosi personaggi che animano quest’opera: Tamino, forse il primo personaggio romantico nella storia dell’opera, che si innamora di Pamina solo alla vista di un suo ritratto, ed è pronto ad affrontare tutte le terribili prove per amore; Papageno (vedi riquadro a dx), il buffo uccellatore che ama i piaceri semplici della tavola, ma che anela a trovare una sua donna; Astrifiammante, la fredda Regina della notte, personaggio di chiara derivazione dall’opera seria, animata dalla vendetta nei confronti di Sarastro per averle sottratto la figlia Pamina, con al suo seguito le tre dame, incaricate di guidare Tamino e Papageno (al quale donano rispettivamente il flauto ed i carillon magici) alla conquista di Pamina; il gran sacerdote Sarastro, con al seguito i sacerdoti del tempio di Iside e Osiride, evidente derivazione dalla musica sacra, la luce rispetto alla tenebre della regina della notte, uomo saggio e giusto, il cui gran valore è il perdono, in contrasto con la vendetta di Astrifiammante; i tre fanciulli, contraltare delle tre dame, che invece rivelano a Tamino la giusta via da seguire; Monostatos, essere primitivo che tiene prigioniera Pamina su ordine di Sarastro, ma che verrà punito severamente da quest’ultimo per aver cercato di concupirla; ed infine Pamina, forse il personaggio più complesso, in quanto animato dal contrasto interiore fra la devozione a Sarastro, che la conduce nella saggezza, e l’amore per la madre, la perfida Regina della notte che le darà il pugnale per uccidere Sarastro, arma che Pamina deciderà di usare per uccidere se stessa. Ma alla fine prevarrà il bene sul male: Pamina verrà fermata dai tre fanciulli, e l’opera si concluderà con il superamento delle prove di Tamino e Pamina insieme, con Papageno che finalmente troverà la sua Papagena, con la quale darà vita nel finale ad uno dei più celebri ed amati duetti buffi della storia dell’opera, e con il trionfo del regno del bene di Sarastro sul regno del male della Regina della notte, sugellato dal perdono finale.
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La favola apparentemente ingenua cela invece una complessa simbologia massonica: ricordiamo infatti che Mozart aderì ad una loggia massonica, attratto dagli ideali nobili perseguiti dalla massoneria settecentesca. L’opera è ricca di elementi massonici, come l’iniziazione di Tamino e Papageno, l’inneggiare continuo ai valori della fratellanza, dell’amicizia, del divenire uomo attraverso le prove più difficili. Il numero 3, ritenuto il numero perfetto secondo la complessa simbologia massonica, caratterizza tutta l’opera, sia musicalmente (i tre accordi ripetuti, che ricorrono sovente nel corso dell’opera, ad iniziare dalla bellissima ouverture, le tre tonalità principali di tutta la composizione), sia dal punto di vista della rappresentazione (le tre dame e i tre fanciulli, le tre prove del silenzio, dell’acqua e del fuoco, le tre porte del tempio, ecc.).
Inizieremo ascoltando l’Ouverture di quest’opera, che si apre con tre accordi che vengono ripetuti tre volte e che ricompaiono, sempre in questa pagina iniziale, tre volte. Inizia quindi un Adagio, che ha un movimento serio, cerimoniale, con una figura arpeggiata degli archi che sembra evocare il cammino di un corteo processionale (molti hanno ravvisato una vaga somiglianza con l’esordio della Sonata op.24 n.2 di Aldo Clementi). Segue quindi un Allegro, ricco di elementi contrappuntistici, con il ritmo incalzante di un moto perpetuo. L’Ouverture del Flauto magico nell’interpretazione dei Berliner Philharmoniker diretti da Karl Böhm. Ogni opera gode di precisi momenti musicali spettacolari che inevitabilmente catalizzano l’attenzione e l’attesa di tutti gli
spettatori.
Nel
Flauto
magico
indubbiamente questo ruolo è ricoperto dalla celeberrima Aria della Regina della Notte (“Der Hölle Rache kocht in meinem
Herzen”,
“La
vendetta
dell'inferno ribolle nel mio cuore”), unanimemente considerata una delle vette del virtuosismo canoro.
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Intonata nel secondo atto dell'opera, descrive il moto di rabbia vendicativa con il quale la Regina della Notte consegna un coltello alla figlia Pamina e la esorta ad uccidere Sarastro, rivale della Regina, e la maledirà se non porterà a termine tale compito. Questa tipologia di Aria veniva utilizzata nell'opera seria per esprimere rabbia, vendetta e passione attraverso la velocità e il virtuosismo del Soprano ed era chiamata Aria di Bravura. Rinomata per la sua difficoltà (la regina si produce in una raffica di algidi ed acutissimi vocalizzi), l'aria coinvolge in misura superba il registro sopracuto del soprano. Per questa parte occorre la figura del soprano detto di coloratura, ossia un soprano che ha la capacità tecnica di eseguire una serie di ornamenti virtuosistici su una parola o su una sillaba utilizzando al massimo l'agilità vocale. Considerando anche la difficoltà artistica del contesto drammatico, è pertanto accessibile solo a voci estremamente qualificate, e con presenza scenica imponente. Personalmente sono rimasto più che affascinato dall’interpretazione del grande soprano Diana Damrau (nella foto) che alle grandi qualità canore sa unire anche una presenza scenica notevole. Il live è al Covent Garden di Londra, Colin Davis dirige The Royal Opera and Chorus. Vi allego il link del video, guardatelo, rimarrete estasiati! Qui il Fa alto (Fa6) viene raggiunto più volte ed è una delle note più alte che si possono incontrare in un'opera. Link https://www.youtube.com/watch?v=UXOYcd6KZ0E
Aria della Regina della Notte (Atto II, scena III) Der Hölle Rache kocht in meinem Herzen, tod und Verzweiflung flammet um mich hier! Fühlt nicht durch dich Sarastro todesschmerzen,
La vendetta dell'inferno ribolle nel mio cuore, morte e disperazione fiammeggiano intorno a me! Se tramite te Sarastro non patirà le pene della morte,
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So bist du meine Tochter nimmermehr. Verstoßen sei auf ewig, Verlassen sei auf ewig, Zertrümmert sei'n auf ewig alle Bande der Natur wenn nicht durch dich Sarastro wird erblassen! Hört, Rachegötter, hört der Mutter Schwur!
non sarai mai più mia figlia. Ripudiata sii per sempre, abbandonata sii per sempre, distrutti siano per sempre tutti i legami della Natura Se Sarastro non impallidirà tramite te! Ascoltate, dèi della vendetta, ascoltate il giuramento di una madre!
La prima cantante che ha eseguito l'aria in scena fu la cognata di Mozart Josepha Hofer che all'epoca aveva 33 anni. Secondo tutti i resoconti la Hofer aveva uno straordinario registro acuto e Mozart, che conosceva la sua voce, avrebbe scritto l'aria apposta per lei. Una registrazione dell'aria cantata da Edda Moser, accompagnata dall'Opera di Stato della Baviera diretta da Wolfgang Sawallisch, è stata inclusa in una raccolta di musica della Terra sulla navicella Voyager 1.
I Concerti per strumenti a fiato. A Parigi nell'aprile del 1778 un Mozart appena ventiduenne compose il Concerto per flauto, arpa e orchestra K 299. E’ un doppio concerto per due strumenti solisti e l’unico che abbia come protagonista l’arpa. E’ fra i concerti più noti di Mozart, e nessun arpista o flautista tralascia di averlo in repertorio. L'opera fu scritta per Adrien-Louis de Bonnières,
duca
di
Guines,
già
ambasciatore francese a Londra e valente flautista, e per sua figlia, Marie-LouisePhilippine, arpista, a cui Mozart aveva anche dato lezioni di composizione, ma per la quale non nutriva alcuna stima («non ha idee, non viene fuori nulla», «è sinceramente stupida e pigra» furono i commenti di Wolfgang in una lettera scritta al padre Leopold). In questo concerto l'arpa intrattiene un dialogo galante con il flauto, e con l'orchestra, dando vita ad una serie di sonorità di rara bellezza.
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Ho scelto, per l’ascolto, il 2° movimento, l’Andantino. Il tema principale colpisce subito con l'intensa frase discendente dei violini, e viene subito ripetuto dai solisti che lo rendono ancor più fascinoso (melodia raddoppiata all'ottava alta dal flauto e arpeggi dell'arpa). Successivamente, assistiamo ad un continuo dialogo dei solisti secondo il modello che vede alternarsi le proposte del flauto alle risposte, spesso variate, dell'arpa. Alla fine ritornerà il tema principale. Ascoltiamo i Wiener Philharmoniker diretti da Karl Böhm, Solisti: Wolfgang Schulz, flauto; Nicanor Zabaleta, arpa.
Siamo negli ultimi tragici mesi della vita di Mozart, ma cionondimeno dalla sua mente creativa nascono dei capolavori dalla bellezza infinita e dal candore cristallino, quali il Concerto per Clarinetto K 622, che ha con sè un inestimabile tesoro: contiene, a detta di tutti gli studiosi musicali, il più bell’Adagio che sia mai stato scritto ed ideato in ogni tempo, e la cui serenità contrasta tragicamente con l’infelicità che in quel momento Mozart attraversava. Il clarinetto ai tempi di Mozart non aveva le potenzialità meccaniche e timbriche che raggiunse solo dopo la metà dell’800, eppure Mozart riuscì a sfruttare appieno tutte le risorse dello strumento, riuscendo a trarre sonorità originali e a quel tempo mai espresse.
Nell’Adagio, 2° movimento del Concerto, la melodia tocca vette altissime, raggiungendo momenti di profonda intimità, di commozione e di struggente malinconia, sembra quasi di ascoltare la “voce umana”. Il tema è dolce, così intenso e sognante che sembra disporsi verso di noi come se comprendesse, volendoli consolare, i turbamenti e le difficoltà del vivere, librandoci in un universo trasparente e disteso. Nella parte centrale il clarinetto spicca il volo dagli interventi orchestrali, dando origine ad un gioco di pieni e vuoti che sembra mimare il respiro, ricordandoci
quanto la musica abbia un corpo organico e vitale. Il brano si conclude con una nota lunga di speranza e musicalità. Una interpretazione struggente e delicata è questa dei Wiener Philharmoniker diretti da Karl Böhm, al clarinetto Alfred Prinz.
Concerto per corno n° 3. È di gran lunga il più importante dei quattro concerti per corno di Mozart. Il notevole impegno virtuosistico, la profondità espressiva, la sottigliezza nell'impiego dei timbri hanno spinto alcuni a spostare assai avanti la data di composizione (comunemente fissata al 1783) fino a farla coincidere con quella delle ultime e più grandi opere di Mozart. Da notare l'insolita strumentazione che vede sostituiti gli oboi e i corni di orchestra con i clarinetti e i fagotti.
Dopo un intenso primo tempo, la Romanza centrale si propone come un momento di fascino straordinario. Il finale è una scena di caccia, trattata però con vivacità e originalità tali da farne la degna conclusione di un concerto che può dirsi forse il più bello dell'intero repertorio per corno e orchestra. Vi propongo la splendida interpretazione della St. Paul Chamber Orchestra, Direttore Pinchas Zukerman, Corno solista Hermann Baumann
Le Sinfonie. Mozart scrisse più di cinquanta sinfonie, sebbene la numerazione ufficiale si fermi al numero 41. Gli ultimi anni di Mozart videro la nascita delle sue sinfonie più straordinarie. Due vennero composte in occasione della visita di Mozart a due città: Linz (n. 36 K 425) e Praga (n. 38 K 504) ed
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entrambe riflettono il carattere della relativa città (come la sinfonia n° 31 "Pariser" K 297). Delle ultime tre Sinfonie (K 543, K 550, K 551) si parla solitamente come di un testamento spirituale del genere Sinfonia mozartiana che, pur salvaguardando le specifiche peculiarità di ciascuna, le presenta come un unico grande affresco creativo. Esse nacquero infatti tutte nel giro di pochi mesi estivi del 1788 (in realtà 45 giorni, dal 26 giugno al 10 agosto!), uno dei periodi più tormentati dell'esistenza del compositore, deluso per il debole successo viennese del Don Giovanni, e trasferitosi in una casa alla periferia di Vienna pochi giorni prima in seguito a ristrettezze economiche alle quali sopperiva il sostegno di un confratello, il commerciante Puchberg. Mozart probabilmente contava di poter fare eseguire le Sinfonie, e forse anche per questo fu così veloce nello scriverle, ma il desiderio non si realizzò mai durante la sua vita. Piuttosto - poiché queste sinfonie non furono mai eseguite durante i tre anni di vita che restavano a Mozart - dovrebbe stupire che il compositore abbia dedicato tanto tempo a lavori che non avevano una precisa destinazione, contravvenendo alla regola universale di lavorare solo su commissione o comunque in vista d'una esecuzione che avesse una remunerazione garantita e immediata. Si può avanzare l'ipotesi che Mozart le abbia scritte con la speranza d'inserirle nei concerti a sottoscrizione da lui organizzati periodicamente a Vienna e che poi il progetto non sia andato in porto, a causa della sua declinante fortuna presso il pubblico e del conseguente diradamento delle sue esibizioni.
Ascolteremo adesso il 1° movimento della Sinfonia n°40 in sol minore K 550, la prediletta nell'età romantica e ancora oggi la più popolare tra tutte le sinfonie di Mozart. Questa sinfonia è pervasa da uno spirito di intima mestizia, è percorsa da un'agitazione oscura, angosciata da una tensione senza sbocco, come una tragedia interiore che si svolga sotto la minaccia d'una forza trascendente e fatale. Questo primo movimento è un Allegro molto, caratterizzato da uno dei temi più straordinari e suggestivi mai concepiti in musica, un tema dall’energico andamento ritmico, sottolineato dall'accompagnamento, eseguito dalle viole, violoncelli e contrabbassi, cui segue un secondo tema, un cantabile dai toni commoventi.
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Originariamente considerato come un esempio di grazia e leggerezza, forse confondendo la semplicità con cui vi si sviluppano e susseguono le varie melodie, appare oggi come fortemente introspettivo e di alto contenuto drammatico. Gli studiosi musicali la definiscono "un'opera di passione, violenza e dolore”. Il 1° movimento della Sinfonia è eseguito dai Wiener Philharmoniker diretti da Karl Böhm.
Prima di passare all’ultima e incompiuta opera di Mozart, volevo farvi due piccoli ma preziosi regali (mischiando sacro e profano…), scritti anch’essi negli ultimi mesi della sua vita. Il primo è la Danza tedesca n° 3 K 605. Datate 12 febbraio 1791, le Tre Danze tedesche K. 605 furono composte per i balli di carnevale del teatro di corte, come imponeva la carica di "Kammermusikus" rivestita da Mozart. Nella terza di queste danze, intitolata appunto Die Schlittenfahrt (Il viaggio in slitta) vi è una briosa allusione musicale a una corsa in slitta con sonagli e cornette da postiglione. L’interpretazione, ricca di humor musicale, è dell’Orfeus Chamber Orchestra Il secondo regalo (più serioso) è il mottetto Ave Verum Corpus K 618, o semplicemente Ave Verum, un testo eucaristico che viene fatto risalire a una poesia del XIV secolo. L'inno riguarda il credo cattolico della presenza del corpo di Gesù Cristo nel sacramento dell'Eucarestia. Lo stile sacro dell'ultimo Mozart è ispirato alle riforme imposte dall'imperatore Giuseppe II, per le quali la musica sacra doveva essere sobria e di facile comprensione. Troviamo, nelle appena 46 battute di questo piccolo e preziosissimo gioiello, una scrittura corale omofonica e attentissima al significato della parola, una ricerca di timbri tersi e delicatamente sommessi. L’interpretazione è di Rafael Kubelik che dirige la Bavarian Radio Symphony Oechestra. Accompagna il Regensburg Cathedral Choir.
Ave verum corpus Ave Verum Corpus natum de/ex Maria Virgine Vere passum, immolatum in cruce pro homine,Cujus latus perforatum unda fluxit
« Ave, o vero corpo, nato da Maria Vergine, che veramente patì e fu immolato sulla croce per l'uomo,dal cui fianco squarciato
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35 aqua et sanguine, Esto nobis praegustatum in mortis examine. O Jesu dulcis, O Jesu pie, O Jesu, fili Mariae, Miserere mei. Amen.
sgorgarono acqua e sangue: fa' che noi possiamo gustarti nella prova suprema della morte. O Gesù dolce, o Gesù pio, o Gesù figlio di Maria. Pietà di me. Amen.
Il Requiem. Dopo essere stato cacciato dall’Arcivescovo Colloredo, Mozart iniziò la carriera di musicista indipendente, cosa ancora molto rara a quei tempi: grazie alle sue composizioni e alle sue esibizioni conobbe periodi di agiatezza economica, ma purtroppo con molta leggerezza ed incoscienza scialacquò tutto, per cui la sua vita fu quasi sempre contrassegnata da debiti, da padroni di casa che reclamavano l’affitto, da conti da pagare; così negli ultimi anni covava dentro una profonda infelicità, aggravata anche dalla morte del padre e di alcuni dei suoi sei figli (solo due raggiunsero l’età adulta). L'inizio del 1791 vide Mozart superare la propria crisi creativa e tornare ai suoi abituali livelli di produttività, come è attestato dai numerosi capolavori scritti (Concerto per pianoforte e orchestra n. 27 K 595, il Quintetto per archi K 614, il mottetto Ave verum corpus K 618, il Concerto per clarinetto e orchestra K 622, l’opera teatrale Il Flauto magico. Anche la sua situazione economica cominciò a migliorare: fra l'altro, alcuni mecenati ungheresi e olandesi lo aiutarono, impegnandosi ad acquistare sue composizioni per cifre ragguardevoli; il 9 maggio la città di Vienna lo nominò assistente Kapellmeister presso la Cattedrale di Santo Stefano, incarico onorifico che però preludeva alla nomina a maestro di cappella (retribuito 2000 fiorini annui) non appena il posto si fosse reso vacante. Ma nel suo ultimo anno di vita, Mozart fu particolarmente incline alla depressione ed ebbe un comportamento paranoico; dormiva spesso non più di quattro ore per notte, mangiava poco e beveva molto. Un male oscuro si impadronì di lui, non capiva bene cosa fosse, descriveva confusamente i suoi sintomi: alla moglie confessò di avvertire continuamente giorno e notte come un vuoto in mezzo al petto, che saliva in gola e gli impediva di lavorare.
Avviene anche un episodio tanto famoso quanto inquietante, incentrato su quella che sarà la sua ultima opera, che lascerà incompiuta, la Messa da Requiem in re minore K 626. La storia del Requiem ce la racconta Stendhal. Nel luglio del 1791, nel cuore della notte, un anonimo committente si presenta alla porta della povera casa di Mozart con una maschera come quelle di Carnevale, un mantello scuro, un’aria lugubre ed una sacca con del denaro. Dà incarico a Mozart, ormai malato e caduto in miseria, di comporre in quattro settimane una Messa da Requiem, dietro compenso di cinquanta ducati. E la somma sarà maggiore a patto che egli non avesse cercato di conoscere il nome del misterioso committente. Mozart ne è sconvolto: confessa alla moglie di aver avuto la sensazione di aver visto la morte in faccia, ma il compenso è troppo allettante, gli permette di pagare dei debiti impellenti, ed accetta l’incarico. Inizia a comporre, e nel frattempo porta a conclusione delle altre composizioni; quando infine, incalzato dai debiti, pensa di dedicarsi interamente al Requiem, si ammala gravemente (probabilmente una nefrite streptococcica; la storia dell’avvelenamento per opera di Antonio Salieri, compositore di corte, invidioso di Mozart, è pura fantasia). Allo scadere delle quattro settimane l'uomo si ripresenta per ritirare la composizione, che però Mozart non ha ancora completato. L’uomo gli offre allora altri cinquanta ducati ed altre quattro settimane di tempo. Il musicista cerca ancora di capire chi sia quell'essere sconosciuto disposto a tollerare i ritardi e a spendere ulteriore denaro, ma inutilmente. Soltanto dopo la morte di Mozart si è scoperto che il committente era il conte Franz Xaver Walsegg-Stuppach (nel riquadro) che avrebbe spacciato per propria la composizione (lo aveva già fatto altre volte con altri musicisti), che sarebbe stata rappresentata quale estremo omaggio alla moglie da poco scomparsa. Nella seconda meta del 1791 la salute di Mozart continua a peggiorare, diviene pallido e malaticcio, e sempre più depresso: un pensiero ossessivo mortale prende a occupargli la mente. Un episodio significativo: in una bella giornata d'autunno, Mozart si recò al Prater con la moglie, quando all’improvviso cominciò a parlare della morte e affermò di scrivere il Requiem per se stesso. Aveva le lacrime agli occhi mentre lo diceva e quando Costanza tentò di distoglierlo da quei pensieri neri, egli rispose: «No, no, lo sento troppo, non durerò molto: di sicuro mi hanno avvelenato. Non so liberarmi da questo pensiero». E’ convinto che quello sconosciuto non è un essere normale, ma è un inviato dal Cielo per annunciargli la sua prossima morte.
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Così egli scrive all’amico Lorenzo da Ponte: “ Aff.mo Signore, vorrei seguire il vostro consiglio, ma come riuscirvi? Ho il capo frastornato, conto a forza, e non posso levarmi dagli occhi l’immagine di questo incognito. Lo vedo di continuo esso mi prega, mi sollecita, ed impaziente mi chiede il lavoro. Continuo, perché il comporre mi stanca meno del riposo. Altronde non ho più da tremare. Lo sento a quel che provo, che l’ora suona; sono in procinto di spirare, ho finito prima di aver goduto del mio talento. La vita era pur sì bella, la carriera s’apriva sotto auspici tanto fortunati, ma non si può cangiar il proprio destino. Nessuno misura i giorni, bisogna rassegnarsi, sarà quel che piacerà alla provvidenza, termino, ecco il mio canto funebre, non devo lasciarlo imperfetto”. Cominciò ad avere continui svenimenti e le sue caviglie si gonfiarono ( probabilmente a causa di un malfunzionamento dei reni). Nonostante le forze cedessero ogni giorno di più, Mozart nella caotica e gelida casa viennese, malato e costretto al letto a partire dal 20 novembre, continuò a lavorare con le sue ultime energie, quasi invasato. L’ultima fase della malattia durò quindici giorni dal momento in cui, il 20 novembre, Mozart si mise a letto, dopo essere stato male per alcune settimane. Il suo quadro clinico: febbre alta, abbondante sudorazione, dolori addominali e vomito; i piedi e le mani erano molto gonfi, e lamentava dolori nel muoversi. Ad assistere Mozart c'erano Costanza, Sophie
Haibel,(sorella
Costanza)
con
sua
minore
madre,
di
l’altra
cognata Maria Josepha Hofer (che fu il primo soprano a sostenere il ruolo della Regina della Notte nella sua opera Il flauto Schack,
magico), e
il
l’amico
suo
vecchio
Benedikt allievo
Süssmayr. Anche numerosi altri amici vennero a fargli brevi visite. Il medico curante Nicholas Closset, allarmato dal peggiorare delle condizioni del suo paziente, chiamò a consulto il dottor Mathias von Sallaba, Primario dell'ospedale viennese. Ma ormai non c’era ormai più nulla da fare. L’organismo stremato non era più in grado di reagire alla gravissima malattia. Von Sallaba diagnosticò una “accesa febbre miliare”, praticò un abbondante salasso (controindicato nei pazienti con problemi renali…) e somministrò un sedativo, probabilmente dell'oppio; per abbassare la febbre fece applicare panni freddi. Secondo la testimonianza della Halbel, Mozart si sforzò di completare il suo Requiem del tutto consapevole della fine imminente.
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Alle due del pomeriggio del 3 dicembre erano con lui i suoi amici musicisti. Mozart si fece porre sul letto la partitura del Requiem e gli altri incominciarono a leggere al cembalo le pagine finite e le cantarono assieme. Giunsero fino al Lacrimosa, dove il lavoro era interrotto. Già fin dalle prime battute Mozart fu sopraffatto dalla certezza che non lo avrebbe terminato mai più. Scoppiò in pianto dirotto e mise da parte i fogli. E’ il 4 dicembre, le condizioni peggiorarono man mano che le ore trascorrevano. Verso sera, come d’ abitudine, venne Sophie Haibl. «Meno male che siete qui, cara Sophie. - le disse Mozart - Dovete rimanere stanotte! Dovete vedermi morire! Ho già il sapore della morte sulla lingua (indice di presenza di abbondanti scorie azotate nel sangue per insufficienza renale). Se non rimanete voi, chi assisterà la mia carissima Costanza?”. Sophie cercò parole di conforto cercando di distogliere Wolfgang dai suoi tristi pensieri di morte. Si allontanò poi per andare ad avvertire la madre, promettendogli che sarebbe ritornata subito. Costanza le corse dietro per pregarla di chiamare un prete, passando davanti alla chiesa di San Pietro, e di farlo venire come se lo avesse incontrato per caso. Il prete non voleva muoversi (forse per l’appartenenza di Mozart alla massoneria, o forse per la sua vita dissoluta apparentemente irreligiosa), ma alla fine accettò. Non si sa però se Mozart ricevette i sacramenti. A sera tarda sopraggiunse una febbre altissima, forse dovuta a broncopolmonite, complicanza frequente nei malati con insufficienza renale, e Mozart fu preso da delirio e torpore. Venne nuovamente chiamato Closset, che ordinò ancora panni ghiacciati per trattare la febbre. Alcuni storici-medici sostengono la tesi di una emorragia cerebrale nella fase finale della malattia. Sophie Halbel raccontò, in una lettera scritta nel 1825, che Mozart restò cosciente fino a due ore prima del decesso. Von Nissen ci testimonia che «Mozart con le labbra, prima di spirare, sillabava il movimento del Lacrimosa, anche se il Lacrimosa non è necessariamente l’ultimo brano mozartiano. Sentiamo, comunque, in esso il cadere delle lacrime. Tutto lascia presumere che Mozart fosse cosciente di essere dinanzi alle sue ultime ore». Mozart morì alle 00.50 del 5 dicembre 1791, all’età di 35 anni. Il suo Requiem rimarrà incompiuto. Kochel, che catalogò le opere di Mozart, al proposito del Requiem, scrisse: “Per paura che, non consegnando il manoscritto completo, il cliente non solo non pagasse il resto della somma dovuta, ma pretendesse che gli venisse restituito il denaro già versato, la vedova si rivolse da prima a Joseph Eybler ed altri musicisti perché completassero il lavoro, ed infine a Sussmayer, il quale
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accettò l’offerta. Sussmayer cominciò a copiare quello che Mozart aveva solamente abbozzato e vi inserì la strumentazione mancante nella maniera che gli parve più conforme alle intenzioni di Mozart. Sussmayer compose poi la chiusa del Lacrimosa, il Sanctus, Benedictus, Agnus Dei e completò la fuga del Kyrie. Il lavoro così completato venne poi consegnato al cliente.” Il registro delle morti della parrocchia di Santo Stefano, il 6 dicembre 1791, riporta come causa del decesso una «febbre miliare acuta». Non venne fatta l'autopsia e il certificato di morte è scomparso. Molto si è scritto sui funerali di Mozart, purtroppo spesso infarcito di inesattezze o di racconti romanzati. Cercherò di riportare quanto più è possibile alla realtà storica. Anzitutto, dopo la morte, la salma non fu abbandonata in solitudine, come alcuni raccontarono: invece molte persone le resero omaggio, tra i convenuti ci fu anche il barone Joseph Deym von Stritez, che prese un calco con la maschera mortuaria del defunto (andata persa) e s' incaricò di organizzare il funerale. A quanto sembra fu Costanza a scegliere una cerimonia di terza classe (8 fiorini e 56 kreutzer, una cifra irrisoria!), che era senz' altro la soluzione meno costosa ma non propriamente quella di un povero, anche perché era scelta dalla grande maggioranza dei viennesi. La terza classe non comportava l’acquisto di una bara: il corpo veniva messo in un feretro che aveva un coperchio mobile che permetteva, una volta arrivati al cimitero, di scaricare la salma e riutilizzarlo per un nuovo funerale. La salma venne successivamente trasportata dalla casa nella Cattedrale di Santo Stefano, dove fu benedetta davanti alla Cappella del Crocifisso, vicino al cosiddetto Pulpito di Capistran; la bara fu lasciata aperta fino alle 18 del 6 dicembre. Tra coloro che parteciparono al funerale c'erano Süssmayr e Salieri. Costanza non era presente, probabilmente a causa di una malattia (soffriva di una dolorosa flebite) o della disperazione. Gli amici assistettero alla benedizione del corpo, ma non accompagnarono la salma quando fu portata insieme agli altri defunti al cimitero. Si disse che non lo fecero a causa del cattivo tempo, ma recenti ricerche hanno dimostrato che la giornata era invece serena. Non fu indifferenza nei confronti del compositore, ma la verità è che non faceva parte delle convenzioni dell'epoca accompagnare il corpo al seppellimento in una fossa comune. Funerali e tumulazione erano momenti distinti: un regio decreto prevedeva infatti che il carro funebre raggiungesse il cimitero solo dopo il tramonto per non deprimere le passeggiate dei viennesi. Arrivato nel cimitero di San Marco, dopo una frettolosa benedizione, il corpo di Mozart fu sepolto in una fossa comune profonda 2,25 metri, insieme con altri corpi di morti quel giorno, cinque o sei secondo alcune fonti, sedici secondo altre. I cadaveri vennero sepolti in due strati, ciascuno coperto da calce.
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Le tombe restarono senza nome, e quando Costanza, qualche tempo dopo, andò al cimitero per pregare sulla tomba del marito, nessuno, per una serie incredibili di avvenimenti, seppe indicargliela. La realtà amara è che non sapremo mai dove vennero seppelliti i suoi resti mortali, ma
la sua musica, la “vera voce di Dio”, è invece destinata all’immortalità.
Durante la narrazione degli ultimi momenti della vita di Mozart, abbiamo ascoltato in successione alcune parti del Requiem KV 626: Rex tremendae; Confutatis maledictis; Dies irae; Kyrie; Lacrimosa. Questi brani sono interpretati dai Berliner Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan. E’ un’interpretazione possente, incisiva, ricca di forza e vigore, insieme dolce e tragica, una delle pietre miliari dell’interpretazione mozartiana. I solisti: Anna Tomowa-Sintow (soprano), Agnes Baltsa (contralto), Werner Krenn (tenore), Josè van Dam, basso. Coro: Wiener Singverein, diretti da Helmut Froschauer.
Requiem
REQUIEM AETERNAM (Coro e Soprano)
REQUIEM AETERNAM (Coro e Soprano)
Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis. Te decet hymnus, Deus, in Sion, et tibi reddetur votum in Jerusalem Exaudi orationem meam; ad te omnis caro veniet. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis.
L'eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua. A te si addice la lode. Signore, in Sion, e a te sia sciolto il voto in Gerusalemme. Ascolta la mia preghiera, a te ritorna ogni anima mortale. L'eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua.
KYRIE (Coro)
KYRIE (Coro)
Kyrie eleison; Christe eleison; Kyrie eleison; Christe eleison; Kyrie eleison; Christe eleison;
Signore, pietà, Cristo, pietà, Signore, pietà.
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SEQUENTIA
SEQUENTIA
DIES IRAE (Coro)
DIES IRAE (Coro)
Dies irae, dies illa, Solvet saeclum in favilla, Teste David cum Sibylla.
Giorno d'ira, quel giorno distruggerà il mondo in faville, com'è attestato da Davide e dalla Sibilla.
Quantus tremor est futurus, Quando Judex est venturus, Cuncta stricte discussurus!
Quanto grande sarà il terrore quando verrà il giudice a valutare ogni cosa severamente.
TUBA MIRUM (Soli)
TUBA MIRUM (Soli)
Tuba mirum spargens sonum, Per sepulchra regionum, Coget omnes ante thronum.
Una tromba, con un suono mai prima udito tra i sepolcri delle nazioni tutti sospingerà davanti al trono.
Mors stupebit et natura Cum resurget creatura, ludicanti responsura.
Stupefatte saranno Morte e Natura quando ogni creatura risorgerà per rispondere a colui che giudica.
Liber scriptus proferetur in quo totum continetur, Unde mundus judicetur.
Sarà portato un libro scritto in cui tutto è annotato per giudicare il mondo.
Judex ergo cum sedebit Quidquid latet apparebit. Nil inultum remanebit.
Quando il giudice si sarà assiso tutto ciò che era nascosto apparirà e nulla resterà impunito.
Quid sum miser tunc dicturus? Quem patronum rogaturus, Cum vix justus sit securus?
Che dirò allora io, misero? a quale avvocato mi appellerò se a mala pena il giusto è sicuro ?
REX TREMENDAE (Coro)
REX TREMENDAE (Coro)
Rex tremendae majestatis. Qui salvandos salvas gratis. Salva me, fons pietatis.
Re di tremenda maestà che salvi per la tua grazia, salvami, o fonte di misericordia.
RECORDARE (Soli)
RICORDARE (Soli)
Recordare, Jesu pie, quod sum causa tuae viae. Ne me perdas illa die.
Ricordati, o pio Gesù che io sono la cagione del tuo cammino: fa' ch'io non mi perda quel giorno.
Quaerens me sedisti lassus, Redemisti crucem passus: Tantus labor non sit cassus.
Cercandomi, ti sedesti stanco e mi redimesti, soffrendo sulla croce: tanto dolore non sia vano!
Juste judex ultionis, Donum fac remissionis Ante diem rationis.
Giusto giudice vendicatore, concedimi la grazia della remissione prima del giorno della sentenza.
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Ingemisco tamquam reus. Culpa rubet vultus meus: Supplicanti parce, Deus.
In quanto reo mi lamento, il mio volto arrossisce per la colpa: risparmia chi ti supplica, o Dio.
Qui Mariam absolvisti, Et latronem exaudisti, Mihi quoque spem dedisti.
Tu assolvesti Maria ed esaudisti il ladrone; anche a me hai dato speranza.
Preces meae non sunt dignae, Sed tu, bonus, fac benigne Ne perenni cremer igne.
Le mie preghiere non sono degne, ma tu, clemente, fa benignamente ch'io non arda in eterno nel fuoco.
Inter oves locum praesta, Et ab haedis me sequestra, Statuens in parte dextra.
Offrimi un posto tra le pecorelle e separami dai caproni ponendomi alla tua destra.
CONFUTATIS (Coro)
CONFUTATIS (Coro)
Confutatis maledictis, Flammis acribus addictis, Voca me cum benedictis.
Confutati i maledetti e condannati alle fiamme ardenti, chiamami tra i benedetti.
Oro supplex et acclinis, Cor contritum quasi cinis, Gere curam mei finis.
Ti prego, supplicando e prostrandomi, il cuore ridotto quasi in cenere, prenditi cura della mia fine.
LACRIMOSA (Coro)
LACRIMOSA (Coro)
Lacrimosa dies illa, Qua resurget ex favilla, Judicandus homo reus. Huic ergo parce, Deus: Pie Jesu, Domine, Dona eis requiem. Amen.
Giorno di pianto quello in cui risorgerà tra le faville il malvagio, per essere giudicato. Abbi pietà di costui, o Dio. Pio Gesù, Signore, dona loro l'eterno riposo. Così sia.
OFFERTORIUM
OFFERTORIUM
DOMINE JESU CHRISTE (Coro)
DOMINE JESU CHRISTE (Coro)
Domine, Jesu Christe, Rex gloriae, libera animas omnium fidelium defunctorum de poenis inferni, et de profundo lacu. Libera eas de ore leonis, ne absorbeat eas Tartarus, ne cadant in obscurum: sed signifer sanctus Michael repraesentet eas in lucem sanctam, quam olim Abrahae promisisti et semini eius.
0 Signore Gesù Cristo, Re di Gloria, libera le anime di tutti i fedeli defunti dalle pene dell'inferno e dal profondo abisso: liberale dalle fauci del leone affinchè non le inghiotta il Tartaro e non cadano nell'oscurità: ma il vessillifero San Michele le riporti alla santa luce che un giorno promettesti ad Abramo e alla sua discendenza.
HOSTIAS (Coro)
HOSTIAS (Coro)
Hostias et preces tibi. Domine, laudis offerimus: tu suscipe pro animabus illis, quarum hodie memoriam facimus; fac eas,
Sacrifici e preghiere in tua lode ti offriamo, o Signore: tu accettali per quelle anime che oggi ricordiamo: fa' che possano passare dalla
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Domine, de morte transire ad vitam, quam olim morte alla vita eterna, come una volta Abrahae promisisti et semini eius. promettesti ad Abramo e ai suoi discendenti. SANCTUS (Coro)
SANCTUS (Coro)
Sanctus, sanctus, sanctus, Dominus Deus Sabaoth. Pieni sunt caeli et terra gloria tua. Hosanna in excelsis.
Santo Santo Santo il Signore Dio degli eserciti I cieli e la terra sono pieni della tua gloria Osanna nell'alto dei cieli
BENEDICTUS (Soli)
BENEDICTUS (Soli)
Benedictus qui venit in nomine Domini.
Benedetto colui che viene nel nome del Signore
HOSANNA (Coro)
HOSANNA (Coro)
Hosanna in excelsis.
Osanna nell'alto dei cieli.
AGNUS DEI (Coro)
AGNUS DEI (Coro)
Agnus Dei qui tollis peccata mundi, dona eis requiem. Agnus Dei qui tollis peccata mundi, dona eis requiem. Agnus Dei qui tollis peccata mundi, dona eis requiem sempiternam.
Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, dona loro il riposo. Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, dona loro il riposo. Agnello di Dio che togli i peccati del mondo, dona loro l'eterno riposo.
COMMUNIO
COMMUNIO
LUX AETERNA (Soprano e Coro)
LUX AETERNA (Soprano e Coro)
Lux aeterna luceat eis, Domine, cum sanctis tuis in aeternum quia pius es. Requiem aeternam dona eis, Domine, et lux perpetua luceat eis, cum sanctis tuis in aeternum, quia pius es.
La luce eterna splenda ad essi, o Signore, con i tuoi santi in eterno poichĂŠ tu sei misericordioso. L'eterno riposo dona loro, o Signore, e splenda ad essi la luce perpetua con i tuoi santi in eterno poichĂŠ tu sei misericordioso.
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Amadeus Un giovane e stravagante musicista con un talento che sembra essergli stato donato da Dio stesso. Un famoso e altero compositore di corte costretto ad ammirare le straordinarie doti del suo antagonista e a rendersi conto della propria mediocrità. Dalla storia (romanzata) di questo dualismo nasce uno dei capolavori del cinema mondiale, uno straordinario ritratto di Wolfgang Amadeus Mozart. Amadeus è un film del 1984 diretto da Miloš Forman, tratto dall'omonima opera teatrale di Peter Shaffer, che narra come Antonio Salieri sia stato folgorato e annichilito dalla genialità di Mozart. Sicuro che l’ispirazione della musica del compositore salisburghese sia direttamente una manifestazione di Dio, Salieri si rende conto con amarezza e rabbia che la sua musica è vuota e banale, e che, pur riscuotendo al momento un buon successo, finirà via via per cadere nell'oblio, mentre al contrario le opere di Mozart, non del tutto capite dai contemporanei, saranno destinate alla gloria eterna. Salieri non si capacita del fatto che Dio si serva di un uomo pieno di difetti come Mozart per far udire al mondo la sua voce ("Perché Dio avrebbe scelto un fanciullo osceno quale suo strumento?"), mentre a lui ha concesso solo poco talento, sufficiente però a capire appieno il genio altrui. Per questo motivo, in un misto tra incondizionata ammirazione per il genio e odio per la persona di Mozart, dedica la sua vita alla distruzione di questo novello strumento di Dio, sino a concepire un piano diabolico: commissionare in incognito un Requiem a Mozart, ormai oppresso da debiti e malato, provocarne la morte e far eseguire la Messa durante il suo funerale, attribuendosene la paternità, in modo che alla fine beffasse tutti, sia la gente che piange Mozart ma ammirando Salieri e il “suo” Requiem, sia Dio stesso. Il piano però non riesce, dato che Mozart muore lasciando incompiuta la sua opera. Ogni scena del film è accompagnata da una vasta scelta di capolavori mozartiani, che includono anche intere scene tratte da opere (Il ratto dal serraglio, Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Il flauto magico) fino al Requiem, che fa da perfetto contrappunto ai momenti finali della vita del compositore. Infatti, nella volutamente antistorica finzione cinematografica, Mozart, dal suo letto di morte e ormai incapace di scrivere, detta la partitura del Confutatis a Salieri; la mesta sepoltura nelle fosse comuni viene infine accompagnata dal Lacrimosa, ultima composizione dell'artista. La musica è eseguita dall'Academy of Saint Martin-in-the-Fields, diretta da Sir Neville Marriner. Il Choir of Westminster Abbey è diretto da Simon Preston. Tom Hulce presta il proprio volto beffardo e ghignante al protagonista del film, un irreverente artista che si diverte a sorprendere i membri della corte di Vienna con il suo comportamento scandaloso e anticonformista, e dall’altra parte meraviglia il proprio pubblico con una musica potente e sublime. Dalla parte opposta, lo strepitoso F. Murray Abraham ha il compito di incarnare il tenebroso e solenne Antonio Salieri, nel cui animo si svolge un tremendo conflitto che sfocia addirittura in una rivolta contro Dio, colpevole di aver riposto un così grande talento in un personaggio tanto "immeritevole". Un film in cui ogni elemento, dalla stupefacente ricostruzione della Vienna del 1700, all'eccezionale regia di Milos Forman, all'uso sapiente delle composizioni di Mozart all'interno della narrazione, forma un magnifico connubio di musica, cinema e arte. Un film perfetto e indimenticabile, meritatamente ricompensato con 8 premi Oscar, compresi quelli per il miglior film, la miglior regia, il miglior attore (F. Murray Abraham) e la miglior sceneggiatura, 4 Golden Globes e moltissimi altri riconoscimenti in tutto il mondo.
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Medicina e musica: «Mi sia concesso…» Mi sia concesso dai miei venticinque lettori (che tali, spero, siano rimasti a questo punto della Rivista…), alla fine della nostra promenade sulla serata dedicata al grande Wolfi, svestire momentaneamente i panni del musicologo per reindossare (ma solo per limitatissimo tempo, per carità!) quelli di discepolo di Ippocrate per tentare di districarci tra i misteri (tuttora mai completamente chiariti) sulle patologie e sulla morte di Mozart, quest’ultima giunta così in giovane età e così crudele da negarci chissà quali altri capolavori musicali. Abbiamo già visto a pag. 11 della Rivista il sospetto sulla sindrome genetica detta di Gilles de la Tourette, indicata quale responsabile dei turpiloqui mozartiani. Adesso, vi spiego la malformazione anatomica chiamata Orecchio di Mozart. In maniera molto sintetica vi illustro la conformazione normale del padiglione auricolare, che è suddiviso anatomicamente in più aree: l’elice è il rilievo più periferico che forma il contorno della metà superiore del padiglione, continua quindi verso il basso sino ad arrivare al lobulo, che rappresenta la parte più bassa del padiglione; altro rilievo dell’orecchio è l'antelice, posto in posizione centrale, che è separato dall'elice tramite il solco dell'elice; infine, sotto la radice dell'elice è presente una lamina triangolare che copre in parte l'apertura del meato acustico, il trago, separato dall'antitrago tramite una piega, detta incisura intertragica. La malformazione conosciuta come Orecchio di Mozart (vedi disegno a dx) è caratterizzata dall’appiattimento del rilievo dell’antelice, per cui il padiglione si presenta con una superficie poco rilevata. A volte anche la piega dell’elice si presenta appiattita parzialmente. La malformazione ereditaria è poco comune (al di sotto dell’1% della popolazione) e quasi sempre colpisce un solo orecchio, non è collegata ad altre malattie o malformazioni, e soprattutto (nonostante l’associazione con il nome del Compositore) non è indice di talento musicale. Il figlio di Mozart, Franz Xavier, ereditò la fisionomia del volto paterno e la deformità all'orecchio. Ma andiamo alla più grande ed irrisolta delle domande: «Cosa ha ucciso Mozart? » La salute di Mozart fu sempre malferma: tra le patologie più gravi e frequenti sono da annoverare le ricorrenti infezioni streptococciche alla gola e alla cute, che causarono gravi complicanze renali (nefriti).
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Come già scritto prima, il certificato di morte è scomparso ed il registro delle morti della parrocchia di Santo Stefano riporta come causa del decesso una «febbre miliare acuta».
Nel corso di questi oltre 200 anni, gli studiosi hanno ipotizzato oltre 150 differenti cause, da quella dell’avvelenamento, gli esiti di un trauma cranico, un’insufficienza renale progressiva, a malattie più o meno comuni a quell’epoca, come la malattia reumatica, la sifilide, ecc. Studi recenti (Hirschmann) hanno ipotizzato una morte da Trichinellosi, un’infezione causata dalla Trichinella, un nematode parassitario. Questa parassitosi viene contratta ingerendo carne cruda o poco cotta di animali infetti, generalmente suino, cinghiale, altri animali selvatici e domestici, come il cavallo, ed è complicata da una significativa mortalità. Mozart fu avvelenato? Non ci sono prove, anche se Mozart, nell'agonia finale, immaginava di essere stato avvelenato con acqua toffana (piombo). Antonio Salieri (nel riquadro), colpito da demenza senile nel 1823, accusò se stesso di avere avvelenato Mozart, ma non ci sono però le prove che avesse le conoscenze e le relazioni necessarie a commettere l'omicidio. La sua confessione provocò un grande clamore e diffuse dicerie mai smentite. Franz Hofdemel, marito di una delle allieve di Mozart, si suicidò il giorno del funerale del compositore, e i sostenitori della "teoria dell'avvelenamento" hanno cercato, ma senza successo, di collegare la sua morte con quella di Mozart. Rimane sicuramente valida l’ipotesi più romantica per spiegare la morte del celebre compositore che è quella secondo la quale Mozart è morto soltanto perché Dio aveva bisogno di un nuovo maestro di cappella in Paradiso. Il teschio di Mozart Il Mozarteum di Salisburgo custodisce un teschio che si suppone sia quello del compositore e che alcuni medici legali affermano essere autentico. Il teschio sarebbe stato recuperato - dalla fossa comune - dal sacrestano di San Marco, Joseph Rothmayer nel 1801, quando il terreno fu dissodato per preparare nuove tombe. Egli identificò i resti del cadavere di Mozart, riconoscendolo in quanto aveva avvolto intorno al collo prima dell’inumazione, sul telo della salma, un pezzo di robusto filo metallico. Conservò il teschio per anni come una reliquia, fino a quando il fratello di Franz Schubert ne venne in possesso e lo regalò al Mozarteum.
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Il professor Joseph Hyrtl, eminente studioso di anatomia viennese, studiò profondamente questo prezioso reperto e lo identificò come quello di Mozart: nel 1875 pose il teschio su un cuscino di velluto in una teca di vetro e scrisse su di un'etichetta che attaccò in fronte: «Wolfgang Amadeus Mozart, Gestorben 1791, Geboren 1756 Musa vitat mori horaz». L’antropologo salisburghese Gottfried Tichy (nella foto, con il teschio) ha anch’egli fatto una ricerca sull'autenticità del teschio, che apparterrebbe a un caucasico dell'Europa centrale della stessa età e dello stesso sesso di Mozart: il profilo rivela una buona correlazione con i ritratti esistenti del compositore. Il teschio mostra inoltre una rara anomalia di sviluppo che Tichy ritiene ben correlabile con i ritratti conosciuti del compositore. Tichy trovò sul teschio, nella regione temporoparietale sinistra, una frattura longitudinale in via di guarigione, lunga dieci centimetri; la superficie interna del cranio mostra l'impronta di un coagulo di sangue. Questa frattura (verosimilmente causata da una caduta) potrebbe spiegare i mal di testa di Mozart comparsi alla fine del 1790 ed una possibile causa di morte, cioè i postumi di un’emorragia intracerebrale. Negli anni Duemila, infine, due team di scienziati dell’Università
di
Innsbruck
e
del
Laboratorio
dell'esercito americano a Rockville nel Maryland, hanno prelevato dei frammenti del teschio per identificare il DNA e paragonarlo a quello di alcuni componenti della famiglia Mozart sepolti nel cimitero di Salisburgo (vedi foto a dx) cioè il padre di Mozart, Leopold, e, per la linea materna, la nipote del compositore Jeanette Berchthold zu Sonnenburg e la nonna Euphrosina Pertl. I risultati hanno confuso però ancora di più le idee: si è desunto che non solo i corpi dei Mozart non sono imparentati col proprietario del cranio, ma è risultato che questi presunti familiari (padre, nipote e nonna) non sono imparentati neppure tra di loro. Conclusione: non solo il mistero non è stato risolto, ma non è nemmeno chiaro chi sia sepolto nella tomba della famiglia Mozart…
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L’ Album dei Mozart
Questa foto scattata nel 1840 mostra (anche se vi sono alcuni dubbi sull’identificazione) la vedova di Mozart, Costanza Weber (la prima a sinistra), quasi 50 anni dopo la morte del compositore austriaco.
A sin: Carl Thomas Mozart. Non seguì gli studi musicali, ma si dedicò al commercio. Scapolo e senza figli, la sua scomparsa (1856) segnò la fine della stirpe dei Mozart. Consapevole di questo, non se ne era preoccupato, dicendo che comunque i figli non ereditano il talento dei padri. A dx: Franz Xaver Wolfgang Mozart. Si dedicò alla carriera di compositore, e il suo stile richiama il primo Romanticismo. Anch’egli scapolo, e senza figli. L'ombra del padre gravò su di lui anche nella morte; sulla sua lapide infatti campeggia la seguente iscrizione: «Che il nome di suo padre sia il suo epitaffio, giacché la sua venerazione per lui fu l'essenza della sua stessa vita».
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Guida all’ascolto: Focus su W.A. Mozart Compito difficilissimo consigliare un disco, un’interpretazione anziché un’altra, perché si entra in una dimensione che prescinde necessariamente da categorie oggettive: i gusti cambiano, ricevono nuovi stimoli, risentono di circostanze esterne, sono sottoposti alla legge degli anni e al mutare del tempo, dipendono anche da suggestioni a volte inspiegabili. Per scrivere questa guida, sono andato alla ricerca dei miei appunti “storici” dispersi tra le mie carte, un disordinato zibaldone di fogli volanti in cui sono ammassati, tra tante altre cose, considerazioni, giudizi, sensazioni personali su musiche ed interpretazioni, articoli di riviste specializzate. Spero di avere raccolto tutti i miei “appunti salisburghesi”, che ho riletto con attenzione (chi li ricordava tutti?...), anche aiutandomi dal riascolto di alcuni dischi, e vedo che le mie preferenze con il passare degli anni non sono poi più tanto cambiate. Buon segno di scelte giuste, o segno di sclerosi e rigidità mentali? Resta inteso che le mie opinioni sono tali, cioè “opinabili”, ed ognuno è liberissimo di scegliere ciò che più gli piace. Questo articolo (spero) potrebbe essere oggetto di discussioni sul sito degli Amici del Vinile.
Mi concentro naturalmente solo su alcune composizioni, iniziando dai Concerti per pianoforte ed orchestra. Sui 27 concerti sono numerose le integrali di qualità: tra tutte resta ancora la migliore (e la consiglio vivamente) quella di Murray Perhaia (nella foto), iniziata a metà degli anni settanta e conclusa in poco piú di un decennio. Murray Perahia (anche se allievo di Horovitz) non tenta l'approccio virtuosistico come il suo maestro, ma, dirigendo dal piano la English Chamber Orchestra, si dimostra interprete intelligente misurato e sensibile cogliendo appieno lo spirito di Mozart. La presa del suono è ottima e la straordinaria intesa tra esecutore e orchestra si percepisce tutta. Altra integrale di buon livello è quella di Alfred Brendel incisa negli anni settanta con Sir Neville Marriner e l’Academy of Saint Martin in the Fields, lettura variegata e incisiva dove il pianista austriaco mette in luce anche le sue capacità di compositore-improvvisatore, inserendovi cadenze
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di propria creazione che si armonizzano egregiamente con la partitura originale. In questa integrale Brendel offre contributi interpretativi di assoluto rilievo. Mi sento di consigliare anche l’integrale di Geza Anda, anche grazie al garbo del lavoro di concertazione con l'elegantissima Camerata Mozarteum di Salisburgo. Altre due rilevanti integrali, dal piacevole ascolto e dall’ottima tecnica interpretativa sono quelle di
Vladimir Ashkenazy con la Philharmonia Orchestra, e di Daniel Barenboim con l’English
Chamber. L’accoppiata Andras Schiff e Sandor Vegh ha critiche controverse, perlopiù non esaltanti. Un'ottima edizione su strumenti antichi (a chi piace il genere) è quella di Jos Van Immerseel, con Anima Eterna (etichetta Channel), forse una delle più musicali, ben suonate e registrate integrali. Da conoscere senz'altro. Alcuni fra i migliori interpreti mozartiani non si sono però cimentati nelle integrali, ma hanno lasciato incisioni memorabili: penso ovviamente a Walter Gieseking, Rudolf Serkin, Artur Schnabel, ma anche a Arturo Benedetti Michelangeli, Maria Tipo, Friedrich Gulda. Mi sento di indicarvi qualche incisione, che immancabilmente ogni filomozartiano dovrebbe possedere: di Clara Haskil (nella foto) il K 271 e il K 491 (una delle esecuzioni mozartiane più belle che esistano), il K 537 suonato da Wilhelm Backhaus, il K 466 eseguito da Arthur Rubinstein, il K 459 di Maurizio Pollini, il K 488 di Wilhelm Kempff, e ovviamente il video (perché così la resa visiva completa il suono) di Vladimir Horowitz, sempre nel K 488. Nelle Sonate io consiglierei in primo piano l'integrale di Claudio Arrau, affascinante ed equilibrata tra istanze tradizionali ed istanze interpretative recenti, e - appena dietro - quella di Daniel Barenboim, più tradizionale. Due parole su Sviatoslav Richter, che ha lasciato grandi incisioni mozartiane, anche se il suo Mozart è troppo severo, a volte il suono è un pò troppo possente, molto marcato, e mi chiedo se fossero possibili tali sonorità sugli strumenti che aveva a disposizione il nostro amato Wolfi. Infine, per chi volesse cimentarsi con gli esecutori più “moderni”, consiglierei le incisioni di Mitsuko Uchida, di Aldo Ciccolini, e di Jeno Jandò.
Dei Concerti per violino, esistono delle integrali di gran prestigio e bravura. L’edizione di Arthur Grumiaux (nella foto) è per me la migliore, mirabile esempio di pulizia esecutiva: suono
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morbido e suadente (Philips Duo). Altra edizione integrale di riferimento è quella di David Oistrakh (EMI). Infine vi è una integrale di Anne-Sophie Mutter con la London Symphony Orchestra, un’interpretazione avvincente, energica e virtuosistica, di gran lunga migliore delle primissime incisioni del 3° e 5° concerto con von Karajan, quando era ancora immatura anche se lanciata verso una carriera folgorante. Sui Quartetti per archi di Mozart mi sento di consigliare questi interpreti: Quartetto Italiano, Arditti Quartet, Emerson Quartet, Takacs Quartet, Hagen Quartett, tutte interpretazioni di gran pregio e prestigio, ma non sempre di facile approccio per chi non ama la musica da camera.
Passiamo adesso alle ultime Sinfonie (nn. 35-41). Passano gli anni ma nessuno scalza Bruno Walter (nella foto) e la Columbia Symphony Orchestra dalla vetta delle interpretazioni. Il suo è un Mozart preromantico, pervaso dal sacro fuoco, e le incisioni hanno un suono più che accettabile essendo in stereo. Belle anche le interpretazioni di Leonard Bernstein con i Wiener su Deutsche Grammophon dalla straordinaria intensità: la Jupiter è splendida. Di gran rilievo, tra le migliori, le incisioni di Karl Böhm (Deutsche Grammophon): un classico “sicuro”, con il giusto insieme di vivacità, freschezza, e densità di suono. Nel Gotha anche George Szell (direttore ungherese, con cittadinanza americana) alla direzione della Cleveland Orchestra (Sony Collection), per l’esattezza delle interpretazioni, per l'uso dell'orchestra e dei tempi di esecuzione, per non parlare della passionalità dei tempi lenti e lo sprizzare gioioso di quelli veloci, carattere tipicamente mozartiano. Bene anche Claudio Abbado. Consiglio anche le 40 e 41 nella esecuzione di Ferenc Fricsay (nella foto) con i Wiener (Deutsche Grammophon): sono stupende. Nella sinfonia 40 Fricsay ignora totalmente le indicazioni del compositore "molto allegro" e impregna la sinfonia di un clima tragico forse influenzato dalla lettura delle ultime lettere scritte da Mozart al suo amico massonico Puchberg al quale
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esprimeva tutta la sua tragica situazione di povertà domandandogli aiuto. Fricsay illumina questa sinfonia con tutta l'arte che lo distingue e il suo amore per la chiarezza del proposito mettendo in luce ogni minimo dettaglio e le sezioni dell'incomparabile Orchestra Sinfonica di Vienna. Herbert von Karajan (poco feeling con Mozart…) appare molto meno convincente delle incisioni sopra descritte: le sue sono sempre troppo possenti e con orchestre con le quali le opere di Mozart non vennero mai eseguite (inversamente c’è chi pensa che le ultime opere di Mozart possano essere eseguite anche con orchestre di stampo romantico o anche beethoveniano).
Infine sicuramente nessun “collezionista” di dischi di musica classica (anche il principiante…) non ha nei suoi scaffali il Requiem di Mozart. Le incisioni sono moltissime, ed è difficile stilare una graduatoria. Metterei
comunque
ai
primi
posti
le
interpretazioni di Karl Böhm (nella foto), Leonard Bernstein, Victor De Sabata, Sergiu Celibidache, Herbert von Karajan. Altre belle incisioni sono quelle di Bruno Walter (1956), Daniel Barenboim, Carlo Maria Giulini e Sir George Solti. Una versione filologica molto consigliata è quella
di
Nikòlaus
Harnoncourt,
ma
attualmente preferirei quella di Jordi Savall, [nella foto] (Etichetta AUVIDIS Fontalis),
ottima
l’incisione
ed
un’eccezionale interpretazione filologica, tempi spediti, tensione in ogni singolo inciso e cura somma degli equilibri dinamici, una lettura straordinaria: con lui il Requiem assume un aspetto nuovo rispetto a quanti lo hanno affrontato con stile romantico. Se ascoltate questa nuova visione del Requiem, non riuscirete più a non farne un punto di confronto con tutte le altre incisioni.
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I grandi Direttori del ‘900: Guido Cantelli
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All’alba del 24 novembre 1956 moriva, in una sciagura aerea a Orly (Parigi), Guido Cantelli, il giovane Maestro novarese che da una settimana appena era stato nominato Direttore stabile dell'Orchestra del Teatro alla Scala di Milano. Il mondo della musica perdeva, in quella notte piovosa, uno dei musicisti più promettenti del secondo dopoguerra, il direttore d’orchestra considerato l’erede artistico di Toscanini e De Sabata, celebrato in vita nei teatri
d'Europa
e
d'America
e
ritenuto
oggi
unanimemente dalla critica uno dei direttori più significativi del Novecento. Quando morì, Cantelli aveva solo trentasei anni, una luminosa stella spentasi troppo presto: ci chiederemo sempre (ma senza risposta) cosa sarebbe diventato se fosse vissuto più a lungo, se avesse percorso la strada gloriosa dei suoi quasi coetanei Leonard Bernstein, Carlo Maria Giulini, Wolfgang Sawallisch o di Herbert von Karajan, che era di circa 12 anni più anziano. Guido Cantelli nacque a Novara il 27 aprile 1920. Diplomatosi all’inizio del 1943, esordì con successo sul podio poche settimane dopo al Teatro Coccia di Novara dirigendo una replica de "La Traviata"; purtroppo, con il precipitare della situazione bellica, fu chiamato alle armi nello stesso anno e dovette abbandonare la sua attività. Fu catturato dai tedeschi e internato in un campo di concentramento nei pressi di Stettino, non lontano dalle rive del Baltico. Tornato in Italia, riuscì a fuggire dal sanatorio di Bolzano, in cui era stato ricoverato (la prigionia lo aveva ridotto a pesare 36 chili) e a raggiungere fortunosamente Novara. Nel 1945, subito dopo la Liberazione, si trasferì a Milano, e nel luglio di quell’anno esordì con l’Orchestra del Teatro alla Scala. Fu un nuovo, lusinghiero successo, e Cantelli iniziò con nuovo vigore la sua attività musicale: a Torino con l’Orchestra della Rai, alla Fenice di Venezia, a Bologna, Genova, Cagliari, a Roma con l’Orchestra di Santa Cecilia, a Firenze con l’Orchestra del Maggio Musicale. In questi anni collaborò con molti musicisti fra i quali Arturo Benedetti Michelangeli, che l’ammirò molto. Il 21 maggio 1948 diresse il suo primo concerto nella ricostruita sala del Piermarini e fu subito notato da Arturo Toscanini, che lo volle sul podio della sua orchestra, la leggendaria NBC.Symphony.
Cantelli partì per gli Stati Uniti nel dicembre dello stesso anno ed esordi trionfalmente nello Studio 8H il 15 gennaio 1949, con un programma comprendente la Sinfonia n° 93 di Haydn e la Sinfonia "Mathis der Maler" di Paul Hindemith, pagina quest’ultima che gli fu sempre particolarmente cara. Al termine dei quattro impegni previsti con la NBC, Arturo Toscanini (nella foto) scrisse a Iris, la moglie di Cantelli: “Sono felice di informarla del grande successo di Guido e che l'ho introdotto nella mia orchestra, che lo stima molto come me del resto. Questa è la prima volta nella mia lunga carriera che io ho incontrato un giovane così dotato. Egli andrà lontano, molto lontano.” Nel 1950 partecipò alla tournée britannica dei complessi della Scala, la prima all’estero dopo la guerra, e conquistò immediatamente il pubblico locale: la Scala dovette programmare un concerto straordinario diretto da Cantelli, e la His Master Voice volle a tutti i costi fargli incidere subito la Quinta Sinfonia di Tschaikowkji. Da quel momento Londra fu una delle sue sedi principali di attività: nel 1951 esordì con la Philharmonia Orchestra fondata dal produttore della EMI Walter Legge (al tempo diretta abitualmente da Wilhelm Furtwängler e dal giovane Herbert von Karajan), e nel corso dei sei anni successivi incise con essa quasi tutti i suoi dischi, ancor oggi considerati come dei classici intramontabili. All’inizio del 1952 un altro importantissimo esordio, quello con la New York Philharmonic Orchestra, della quale Cantelli divenne uno fra i più assidui maestri ospiti. Durante gli anni della sua attività internazionale, diresse tutte le più importanti orchestre degli Stati Uniti (ebbe in particolare uno stretto rapporto con la Boston Symphony di Charles Münch) e collaborò con solisti di altissimo rango (fra i quali Wilhelm Backhaus, Walter Gieseking, Jascha Heifetz, Nathan Milstein, Anton Rubinstein e Rudolf Serkin). II 1956 segnò il suo ritorno all’opera lirica con una leggendaria edizione del Così fan tutte alla Piccola Scala. In seguito ai suoi successi internazionali, Guido Cantelli fu nominato direttore dell'Orchestra del Teatro alla Scala di Milano il 16 novembre dello stesso anno, ma la sua vita e la sua brillante e promettente carriera furono stroncate da un tragico incidente aereo avvenuto all'Aeroporto di Orly a Parigi soltanto otto giorni più tardi, mentre si recava negli Stati Uniti, dove era stato invitato per dirigere una serie di concerti con la Filarmonica di New York. Si preferì non informare Toscanini di questa tragica morte. Il grande Maestro s’era ormai ritirato dalle scene: aveva dato l’addio con il sofferto concerto del 1954, quando per la prima volta in sessant’anni di carriera aveva avuto un vuoto di memoria e
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s’era coperto gli occhi per la vergogna, riprendendo a dirigere con le lacrime agli occhi; quando l’orchestra stava suonando gli ultimi accordi, aveva posato la bacchetta ed era uscito dalla sala senza aspettare di finire, senza aspettare gli applausi. Quasi novantenne, cieco, tra il novembre del ’56 e il marzo del ’57 Toscanini domandò spesso, ma inutilmente, alla sua segretaria Anita Colombo quando Guido sarebbe tornato a salutarlo. Ma Guido non sarebbe più tornato, ed invece fu il suo Maestro a raggiungerlo, il 16 gennaio del ’57. Ai funerali di Cantelli, nella chiesa di Santa Maria della Passione, accanto al Conservatorio milanese, partecipò una folla commossa e attonita, mentre l’Orchestra della Scala salutò per sempre il suo Maestro con il Largo dal Serse di Händel (l’ultimo brano che egli aveva diretto), eseguito davanti ad un podio vuoto. Le sue spoglie ora riposano nel Famedio del cimitero di Novara. Cantelli e Toscanini. Pur essendo il primo ritenuto l’erede del secondo, tra i due direttori vi sono delle evidenti differenze di interpretazione. I tempi di Cantelli sono diversi, in lui non v’è la muscolarità e nemmeno la drammaticità di Toscanini: artista del Novecento – mentre Toscanini visse e si formò nell’Ottocento -, Cantelli fu più filologo, e seppe diversificare gli stili meglio del Maestro. Quello che però manca alle sue registrazioni è un suono che lo contraddistingua in maniera più evidente. Noi riconosciamo il suono minaccioso dell’orchestra di Mitropoulos, il deflagrante chiarore di quella di Toscanini, gli archi sontuosi di Stokowski o l’insieme perfetto di Mravinsky; la morte colse Cantelli quando non era ancora riuscito a scavare in profondità fra i timbri della sua orchestra così da ottenere un suono più “cantelliano”. Più simili invece furono i caratteri dei due direttori, entrambi sanguigni e di forte temperamento. Perfino gli orchestrali inizialmente non furono molto cordiali con il direttore novarese e i suoi modi; fortunatamente questo giudizio cambiò profondamente nel corso degli anni. Discografia Di Guido Cantelli restano alcune pregevoli registrazioni, nelle quali interpreta fra gli altri concerti e altri lavori di Beethoven, Brahms, Musorgskij, Tschaikowkji, Liszt, Ravel, Debussy e Rossini, alcuni eseguiti con la NBC Symphony Orchestra, altri con la Philharmonia Orchestra, altri ancora con l’Orchestra del Teatro alla Scala. L'unica opera integrale di cui esiste una registrazione è Così fan tutte, di Wolfgang Amadeus Mozart, registrata alla Scala nel 1956, con Elisabeth Schwarzkopf, Nan Merriman, Graziella Sciutti, Luigi Alva, Rolando Panerai e Franco Calabrese. (Etichetta Living Stage B000066442). A giudizio unanime dei critici costituisce uno dei vertici assoluti dell’interpretazione mozartiana d’ogni tempo.
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I due volti di Anne-Sophie Mutter Anne-Sophie Mutter è unanimemente considerata una delle più grandi violiniste dei tempi moderni. Sono trascorsi esattamente quarant’anni da quando, il 28 Maggio 1977, l’allora tredicenne AnneSophie esordì ai Concerti di Pasqua di Salisburgo sotto la bacchetta di Herbert von Karajan. Circa un anno dopo, la sua insegnante volle che facesse un’audizione proprio con Karajan a Lucerna, e scelse una delle opere più difficili di tutto il repertorio violinistico: il Concerto per violino di Beethoven.
Il grande direttore austriaco ascoltò
impassibile per tutta la durata dell’esecuzione, pose fine alla seduta in modo assai laconico: «Per favore, torni fra un anno». Non una parola in più. A un anno esatto da quell’incontro, la Deutsche Grammophon annunciava orgogliosamente che i Berliner Philharmoniker, diretti da Herbert von Karajan, avevano appena terminato una nuova registrazione del Concerto per violino di Beethoven, solista la sedicenne Anne-Sophie Mutter. Adesso è una moda, ogni giovane violinista gioca anche la carta dell’aspetto fisico seducente, ma Anne-Sophie Mutter è stata la prima ad abbinare il talento alla bellezza. Negli Anni ’80, l’artista aveva l’aspetto di una top model fascinosissima, rompendo per prima l’ambiente ingessato della musica classica abbinando con nonchalance, ma al tempo stesso con il rigore assoluto delle scelte tecniche e interpretative, il talento al fascino, nel suo caso entrambi indiscutibili: e il tempo sembra ancor oggi non poter scalfire quel carisma irresistibile… La collaborazione con Herbert von Karajan ha segnato la prima fase della
carriera
di
Anne-Sophie
Mutter, costellata di grandi successi ma accompagnata anche da un mai del tutto vinto timore reverenziale per il direttore che l’aveva fatta conoscere al grande pubblico.
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Fu un incontro decisivo, di quelli che coronano un destino.
Così
racconta la stessa Mutter
in
un’intervista al giornale Repubblica di qualche anno fa: «Libertà e massimo coinvolgimento: questo mi ha insegnato Karajan. Avere un punto di vista molto personale è l'essenza del fare musica, e lui me l'ha trasmessa. Ancora oggi mi capita di sentire un brano alla radio e di emozionarmi tanto da piangere. E scopro che è Karajan a dirigere. Nelle sue esecuzioni non c' è un momento in cui la musica è "semplicemente" suonata bene, senza intensità né significato. Era un uomo meraviglioso, ma anche di tremenda fermezza. Aveva il culto della disciplina, che viveva in lui come conseguenza del suo amore per la musica. Quel suo magnetico sguardo blu poteva fulminare gli orchestrali. Eppure così riusciva a tirare fuori il meglio.» Dal 1978 al 1989 (anno della scomparsa del suo grande mentore),
la
Mutter
realizzò
per
la
Deutsche
Grammophon, con i Berliner Philharmoniker guidati del grande direttore austriaco, il gotha del repertorio da concerto classico e romantico (Mozart, Beethoven, Mendelssohn,
Bruch,
Brahms,
Tschaikowskji)
avvalendosi del suo magnifico violino Stradivari del 1710 Lord Dunn-Raven Strad. La morte di von Karajan avrebbe potuto segnare negativamente la carriera della giovane violinista, nel 1989 interprete raffinatissima ma non ancora completamente sbocciata, ma la Mutter è riuscita a togliersi i panni dell’ènfant-prodige per dedicarsi con ancor maggior bravura e successo a nuovi orizzonti in campo musicale: il suo repertorio adesso comprende anche la musica contemporanea del ‘900, da lei valorizzata ai massimi livelli, addirittura grandi compositori quali Penderecki, Lutoslavsky e Rihm hanno composto importanti lavori proprio per lei. L’età non sembra passare mai: dal punto di vista tecnico, la Mutter è sempre nel pieno possesso delle sue
immense
e
straordinarie
capacità virtuosistiche per cui da sempre
va
famosa
e
che
le
consentono di rendere i passaggi più straordinaria e una eleganza inarrivabile.
difficili
con
una
agilità
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Strumenti musicali antichi: la Viella La viella (o fidula, vièle, vielle, viola) è considerato lo strumento cordofono più importante del Medioevo. In Europa la sua massima diffusione fu soprattutto nei secoli XII e XIII. Nelle iconografie pervenuteci appare impiegata sia da strumentisti di corte (menestrelli), sia da gruppi di angeli che suonano e cantano nei dipinti, sia da chierici: si pensa quindi che venisse utilizzata in tutti i generi di musica medievale, sia in quella profana che in quella sacra, soprattutto polifonica. Era suonata, più che per eseguire la melodia, per accompagnamento alla voce o per le danze, da sola o in gruppo con altri strumenti a fiato e a corde. La tavola armonica era di varia forma: il tipo primitivo, già in uso nel X secolo, presentava una forma piuttosto rigida e tozza; in seguito a graduali trasformazioni lo strumento acquistò una struttura più elegante ed elaborata, a forma di chitarra, provvista di due fori a forma di C posti ai lati del ponticello e, negli strumenti di pregiata fattura, di intarsi perimetrali e fori decorativi di varia forma. Il fondo era piatto.
Il manico veniva ricavato da un prolungamento della cassa oppure innestato al corpo principale. Sulla tavola armonica era posto il ponticello sopra il quale venivano tese le corde (da 3 a 5, talvolta 6) che dalla cordiera raggiungevano il cavigliere dove, frontalmente, erano inseriti i piroli (detti bischeri), che servono a tendere le corde e modificarne la tensione, cioè ad accordare lo strumento. Lo strumento era di diverse dimensioni, che condizionavano la posizione su cui veniva suonato: sulla spalla, sul petto, e, nei casi di strumenti più grandi, anche appoggiato sulle ginocchia. Il suono si otteneva o con l’archetto oppure con le dita senza l'ausilio di un plettro.
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Musica classica e Cinema Morte a Venezia, di Luchino Visconti Luchino Visconti diresse nel 1971 la trasposizione cinematografica del romanzo Morte a Venezia di Thomas Mann. Il film è ambientato nel 1911 durante la Belle Epoque, in una Venezia frequentata da una borghesia
spensierata prima del presentarsi dei drammatici eventi della Grande Guerra. Il compositore Gustav von Aschenbach (Mann ammirava così tanto Mahler da chiamare in suo
onore Gustav il personaggio principale del romanzo) si reca al Lido, all'Hotel des Bains, per un periodo di riposo per riprendersi da una crisi cardiaca. Qui, il maturo protagonista resta colpito dalla bellezza efebica di un giovanissimo quattordicenne polacco, Tadzio, che frequenta la spiaggia dell'hotel, e che sembra incarnare l’ideale di bellezza eterea a cui aveva disperatamente
cercato di dare espressione nelle sue creazioni. Se ne infatua, e l'innamoramento provoca nel suo animo una crisi profonda che lo porta da un lato a contrastare questo suo sentimento e, dall'altro, a volerlo assecondare vivendone tutte le emozioni.
In una città che Gustav sa preda di un'epidemia di colera nascosta dalle autorità, invece di scappare, deciderà di rimanere silenziosamente accanto al ragazzo, limitandosi a osservarlo. Sempre più debole, trascorrerà i suoi ultimi momenti sulla spiaggia del Lido in contemplazione del suo amato, senza aver mai avuto il coraggio di parlargli. La scena finale del film è accompagnata dalle struggenti note dell’Adagietto della 5a Sinfonia di Gustav Mahler. Compositore e direttore d'orchestra austriaco (1860 - 1911), sensibile interprete di un mondo in crisi e prossimo alla dissoluzione, Mahler portò il linguaggio romantico a uno sviluppo estremo,
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aprendo la strada alla musica del Novecento. Artista dalla personalità problematica, come direttore d'orchestra raggiunse in vita una fama straordinaria per il suo stile interpretativo, nel quale introdusse criteri innovativi nell'orchestrazione, nella messa in scena e nella regia operistica. La valutazione sulla sue composizioni fu invece spesso ostacolata da pregiudizi e incomprensioni, tanto che il suo apporto al rinnovamento del linguaggio musicale fu riconosciuto solo dopo il secondo conflitto mondiale. Compose dieci sinfonie (di cui l'ultima incompiuta), caratterizzate da una ricerca timbrica e strumentale particolarmente innovativa e da una dilatazione, fino a dimensioni insolite, del numero
dei
movimenti,
della
loro
durata
e
dell'organico impiegato. Tutta la musica di Gustav Mahler è un unico profondo, complesso e poetico disegno musicale, e tratteggia con un'intensità unica la disperazione, il dolore, la rassegnazione, ma anche il conforto della speranza. La quinta Sinfonia ben si adatta al clima sia del romanzo di Mann che al film di Visconti: lo stesso
Mahler la definì una sorta di tragedia recitata dall'orchestra, in essa tutto anelita di lotta fra la vita e la morte. Il grande direttore Bruno Walter la definì «fatta di musica appassionata, selvaggia, piena di pathos, briosa, solenne, delicata e piena di tutte le sensazioni dell'anima umana.» Mann si ispirò idealmente proprio a Mahler per il protagonista, Gustav von Aschenbach, un soggetto contraddittorio, in cui la pulsione alla vita si abbatte contro un’esistenza arrivata inesorabilmente al capolinea.
In uno dei prossimi numeri della Rivista, parleremo in maniera più particolareggiata di tutta la Sinfonia. L’Adagietto (4° movimento della Sinfonia) è una semplice romanza senza parole, affidata ai soli archi dell’orchestra con la parte iniziale incentrata sui primi violini, su un accompagnamento discreto e pacato degli arpeggi dell’arpa, che porta l’ascoltatore in un mondo onirico, meditativo, nel più totale oblio dalle cose del mondo. La migliore versione discografica a mio parere è quella dei Wiener Philharmoniker diretti da Leonard Bernstein (Etichetta Deutsche Grammophon). Una curiosità: lo stesso Leonard Bernstein la usò come accompagnamento alla sepoltura di Robert Kennedy, nel 1968.
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Melomania
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IL TROVATORE, di Giuseppe Verdi Il Trovatore fa parte di quella che viene tradizionalmente definita la “Trilogia popolare” di Verdi insieme a Rigoletto e a Traviata. Il Maestro di Busseto aveva letto il dramma El Trovador dello spagnolo Antonio Garcìa Gutiérrez, scrittore appartenente al movimento romantico spagnolo nato dall’influenza di Victor Hugo, e ne era rimasto entusiasta («A me sembra bellissimo, immaginoso e con situazioni potenti»), e decise di ricavarne un’opera, anche se nessun teatro gliela aveva commissionato. Era desiderio di Verdi rappresentarla al Teatro San Carlo di Napoli, per cui pensò di rivolgersi ad un librettista partenopeo, Salvatore Cammarano, ben accetto al San Carlo, e che già aveva scritto per lui i libretti di Alzira, di Luisa Miller e de La battaglia di Legnano. Cammarano accettò, ma dovette pentirsene subito dopo, viste le notevoli difficoltà a togliere le molte incongruenze a volte grottesche del dramma originale. Alcuni mesi dopo comunque, già provato da malattie, Cammarano morì, e Verdi affidò al giovane poeta Leone Emanuele Bardare il compito di completare quanto il librettista napoletano aveva già scritto. La musica fu composta da Verdi in poco più di un mese e l’opera venne rappresentata in prima assoluta il 19 gennaio 1853 al Teatro Apollo di Roma, riscuotendo da subito un successo trionfale di pubblico e di critica: la recensione comparsa sulla Gazzetta musicale all’indomani parlò di una “musica celestiale che trasportò l’uditorio in Paradiso”. Ha scritto il grande musicologo Julian Budden, noto per i studi sulle opere verdiane: «Con nessun'altra delle sue opere, neppure con il Nabucco, Verdi toccò così rapidamente il cuore del suo pubblico». Nello schieramento opposto, i filowagneriani dicono che quest’opera «sa catturare il cuore del pubblico, ma non l’ammirazione degli ascoltatori colti». Fare una valutazione equilibrata del Trovatore è comunque molto difficoltoso, trattandosi di un’opera allo stesso tempo tradizionale e moderna, sorprendente anche nella sua tragica ed anticonvenzionale conclusione. Tutti i personaggi si muovono in un mondo oscuro, notturno, pieno di misteri, in cui è sovrana l’inconsapevolezza, ad eccezione di Azucena, unica a conoscere la realtà dei fatti. Questo buio è
squarciato improvvisamente dalle fiammate dei tragici ricordi, dai fuochi degli accampamenti, dai roghi dei condannati. Ma ultima a trionfare sarà la Morte, che in quest’opera coglie praticamente tutti, in scena o fuori: anche l’unico superstite, il Conte di Luna, sembra condannato al suicidio, allorché, nelle battute finali dell’opera, schiacciato da un rimorso troppo pesante per essere a lungo sopportato, esclama «E vivo ancor!».
Trama Ambientazione: Biscaglia e Aragona, all’inizio del XV secolo. Parte I – Il duello (N.B. il titolo che appare in ogni atto è stato dato dallo stesso Cammarano). Scena I. L’opera si apre sullo scenario notturno nell’atrio di un ricco palazzo nella Spagna quattrocentesca, il palazzo dell'Aliaferia, in Aragona, dimora del Conte di Luna. Risuona il battere arcano e potente di un timpano che risuona per tre volte in un solitario rullio in crescendo, monito fugace che preannuncia un’ambientazione lugubre e buia. Poi un suono di corno, ancora con un triplice richiamo, ed una risposta degli archi in pianissimo, ed ancora una eco lontana del corno che precede l’arrivo del tema orchestrale. Sono poche battute di un’introduzione semplice e breve, in cui Verdi condensa i tratti fondamentali dell’opera. Ferrando, capitano delle guardie, scuote i suoi uomini affinché non cedano al sonno, fino al ritorno del loro Signore, recatosi presso il palazzo di Leonora, una donna che egli ama non corrisposto: il Conte ha un rivale in un ignoto trovatore che spesso di notte indirizza i suoi canti alla donna amata. Per catturare l’attenzione dei suoi armigeri, Ferrando racconta loro la tragica vicenda di Garzia, fratello minore del Conte di Luna, morto molti anni prima. Ferrando racconta che il vecchio Conte di Luna, padre dell’attuale, aveva due figli. Un giorno sulla culla del secondo nato, fratello minore dell’attuale Conte, fu vista una vecchia zingara. Dopo poco tempo il bambino si ammalò, la zingara venne sospettata di aver fatto una stregoneria, fu ricercata, catturata e condannata al rogo dal padre del Conte. Per vendicarne l’atroce morte, la figlia della zingara aveva rapito Garzia (“Abbietta zingara”) ed aveva fatto trovare lo scheletro carbonizzato di un bambino proprio nel luogo in cui era stata arsa la madre. Il vecchio Conte di Luna, non convinto che lo scheletro fosse quello di suo figlio, non aveva mai smesso di cercare la figlia della zingara; morendo, poi aveva lasciato al figlio sopravvissuto la ricerca del fratello.
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Ferrando racconta ancora che il fantasma della zingara è ancora in quel luogo (l’orchestra accompagna queste apparizioni con una melodia lenta, fosca, ossessiva): chi l’ha visto di notte, chi all’alba, chi l’ha visto sui tetti, chi tramutato in corvo o civetta. Una campana suona la mezzanotte, gli armigeri cantano forte per vincere la paura. Scena II. Intanto, nei giardini del suo palazzo, Leonora confida a Ines, sua ancella, di essersi innamorata di un misterioso cavaliere che aveva visto partecipare ad un torneo, nei tempi felici precedente alla guerra civile che sconvolge adesso la Spagna e che da allora le ha impedito di reincontrarlo. Leonora (sulle note di un delicato ritmo di danza, ricca di preziose sfumature, accompagnate dal suono tenue dell’orchestra: “Tacea la notte placida”), durante una splendida notte aveva sentito il canto di un trovatore che invocava il suo nome, e aveva riconosciuto in lui l’amato cavaliere. E’ decisa, forte e determinata: il suo destino è accanto a questo cavaliere, e se non potrà vivere per lui, per lui morirà. Ines è turbata, e cerca invano di dissuadere la sua signora. Le due donne rientrano nel palazzo. Scene III-IV-V. Fa la sua comparsa il Conte di Luna, che ha deciso di dichiarare il suo amore a Leonora, ma ecco annunciarsi nell’oscurità il Trovatore che con un canto dalla melodia dal sapore antico (“Deserto sulla terra”), si avvicina inconsapevole della presenza del rivale.
Leonora accorre e,
scambiando nell’oscurità il Conte per il Trovatore, gli svela il suo amore (“Anima mia”). Accortasi troppo tardi dell’errore, Leonora si getta ai piedi del Trovatore e gli dichiara il suo amore. Il confronto tra i due uomini è drammatico: scoprono di essere rivali non solo in amore, ma anche sul campo politico e militare, visto che il Trovatore dichiara di essere Manrico, seguace del ribelle Urgel, nemico del Conte. I due uomini si sfidano a duello, Leonora sviene. Parte II – La gitana Scena I. La scena si apre su un paesaggio completamente diverso, un luogo inaccessibile e remoto dove risuonano vibranti sonorità: è l’accampamento degli zingari sui monti della Biscaglia. E’ notte. L’orchestra freme in una danza travolgente, crepitante in timbri multicolori. Gli zingari aspettano l’alba per iniziare il lavoro, bevono in allegria e cantano in coro scandendo il ritmo sugli strumenti di mestiere, tra bagliori e fuochi (“Vedi! Le fosche notturne spoglie”).
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[Coro degli zingari (MET New York)]
Appare Azucena, la figlia della zingara bruciata sul rogo (nelle intenzioni iniziali di Giuseppe Verdi, l’opera doveva avere per titolo il suo nome). Suo figlio Manrico, che ha vinto il duello con il Conte ma è rimasto ferito, è accanto a lei. Azucena racconta a tutti la sua tragica storia, come, molti anni prima, vide morire sul rogo la madre accusata di stregoneria dal vecchio Conte di Luna (“Stride la vampa”). La musica segue il tragico racconto, stravolta da continui sbilanciamenti ritmici, e la voce scura da mezzosoprano si dispiega in trilli e acuti, che ben descrivono lo scintillio del fuoco. Azucena chiede vendetta al figlio. Sorge l’alba e gli zingari si avviano al lavoro e si allontanano. Manrico chiede alla madre di conoscere per intero la verità. Azucena, intonando una tetra cantilena, che ben esprime la sua idea di vendetta, racconta al figlio di aver seguito, con in braccio il proprio figlioletto, la madre andare sul rogo (“Condotta ell’era in ceppi”). In un raptus di vendetta rapì il figlio del Conte ancora in fasce e decise di gettarlo nel fuoco del rogo ancora acceso; ma per una tragica fatalità, accecata dalla disperazione, confuse il proprio figlio col bambino che aveva rapito. Manrico capisce così di non essere il vero figlio di Azucena e le chiede di conoscere la propria identità (“Chi son io, dunque?”), ma per Azucena l'unica cosa importante è che lei l'abbia sempre amato come un figlio, protetto e curato proprio come quando tornò all'accampamento ferito dopo il duello col Conte. Manrico confida alla madre di esser stato sul punto di uccidere il Conte,
durante quel duello, ma di esser stato frenato da una voce proveniente dal cielo (“Mal reggendo all'aspro assalto”). Azucena induce il giovane a promettere che, se ce ne sarà ancora occasione, egli non avrà ripensamenti ed ucciderà il loro comune nemico. Un suono di corno annuncia l’arrivo di un messaggero. Scena II. Il messaggero porta due notizie: la prima è che la fortezza di Castellor è stata conquistata e Manrico deve correre ad assumerne la difesa; la seconda che Leonora, convinta che il suo amato sia morto in battaglia, ha deciso di prendere i voti. Manrico, sconvolto, lascia l’accampamento per raggiunge la donna amata, dissuaso inutilmente da Azucena preoccupata per le ferite del figlio non ancora guarite. Scena III. La scena si apre nell’atrio di un convento. E’ ancora notte. Il Conte di Luna con i suoi armigeri vuole rapire Leonora per sottrarla ai voti religiosi. E’ sicuro che il rivale sia ormai morto, e brama di rivedere la donna amata e desidera che lei adesso lo ricambi (“Il balen del suo sorriso”). Suonano le campane, che segnalano l’arrivo di Leonora. Le religiose del convento si preparano ad accogliere la novizia, ed intonano in coro - in pianissimo - un inno sommesso senza accompagnamento musicale. Scene IV-V. Leonora ricompare in scena decisa nella sua scelta. Rivolge un tenero addio alle amiche, ma ecco il colpo di scena, accompagnato da un duplice sussulto dell’orchestra:
prima
compare
il
Conte che vuole rapire la donna, e poi Manrico, fra lo stupore di tutti che lo credevano morto e la gioia di Leonora (“Sei tu dal ciel disceso”). Gli armati dei due rivali si affrontano, e Manrico riesce a portare in salvo l’amata. Parte III – Il figlio della zingara Scena I. Nell’accampamento del Conte di Luna, i soldati si preparano ad attaccare Castellor dove Manrico e i suoi si sono rifugiati. I soldati intonano un vigoroso coro di guerra, composto nel più caratteristico stile verdiano: ritmo marziale con un maestoso accompagnamento di percussioni ed ottoni, per un effetto immediatamente coinvolgente. Scena II. Il Conte di Luna rivolge uno sguardo rabbioso alla rocca da conquistare, ancora più inasprito dal pensiero che l’amata Leonora si trova tra le braccia del suo rivale. Scena III. Azucena, mentre si aggira con fare sospetto nell’accampamento, viene catturata da Ferrando e condotta dal Conte di Luna. Ferrando riconosce in lei la donna che venti anni prima ha rapito il figlio del Conte. Azucena svela di essere la madre di Manrico ed il Conte la condanna a morire sul rogo. Egli avrà così una duplice vendetta, sul rivale e per la morte del fratello.
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Azucena viene condotta via dai soldati, mentre la musica vivacissima ed il canto vorticoso del coro avviluppano la zingara come le fiamme che l’attendono. Scene IV-V. Nella cappella della rocca di Castellor, Manrico e Leonora intanto stanno per sposarsi e si giurano eterno amore (Ah! Sì, ben mio, coll’essere). Una distante melodia dell’organo annuncia le nozze imminenti, ma non fanno in tempo ad avvicinarsi all’altare che Ruiz sopraggiunge ad annunciare che Azucena è stata catturata e di lì a poco sarà arsa viva come strega. Il matrimonio è dimenticato,
Manrico
correre a salvarla, e
deve rivela a
Leonora che la zingara è sua madre (“Di quella pira l’orrendo foco”). ♪♪ [L’ultima nota della cabaletta fu fissata da Verdi con un sol, nota non difficile per un tenore. Pochi mesi più tardi, però il tenore fiorentino Carlo Baucardè (vedi riquadro a dx), che impersonava Manrico, esplose in un inaspettato do di petto, strappando applausi scroscianti al pubblico. Verdi lo permise, anche per le successive esibizioni. Da allora, ogni messa in scena del Trovatore è pervasa dall’aspettativa per la conclusione della terza parte.] ♪♪ Leonora apprende la notizia con sconvolgimento, e prorompe in un’esclamazione tragica resa ancora più tragica dai colpi di percussioni. Parte IV – Il supplizio Scena I. Anche l’ultima parte dell’opera si apre con un paesaggio avvolto da una notte fosca, addirittura “oscurissima”. Il tentativo di liberare Azucena è fallito e Manrico è stato catturato. Nell'oscurità, Ruiz conduce Leonora alla torre del castello dell'Aljafería dove Manrico è prigioniero. Intona un canto denso di pena e dolore (“D'amor sull'ali rosee”). Una campana a morto prelude ad un lugubre Miserere intonato in lontananza da un severo coro a cappella: è il canto di preghiera per i due condannati a morte, madre e figlio, che saranno decapitati all'alba. Dalla torre, accompagnata da una suggestiva arpa che ricorda nostalgicamente la sua prima apparizione canora accompagnata dal liuto, si ode la voce lontana di Manrico, che canta una limpida melodia per lanciare un addio ideale a Leonora (che non sa che si trova così vicina).
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Leonora si propone di ottenere con ogni mezzo la salvezza dell’amato (“Tu vedrai che amor in terra”). Scena II. Leonora implora il Conte di lasciare libero Manrico: al suo irremovibile rifiuto, si getta dapprima i suoi piedi, poi si avvinghia a lui e si offre a diventare sua sposa in cambio della vita di Manrico (“Mira, d'acerbe lagrime”). Il Conte alfine accetta e Leonora chiede di poter dare lei stessa a Manrico la notizia della liberazione, ma prima di entrare nella torre, beve, di nascosto, il veleno da un anello. Il Conte l’avrà ma solo “fredda esanime spoglia”. Un duetto finale avvolge i due protagonisti nelle eccitate note di una partitura che cresce ed accelera, nella convinta gioia che provano i due, che si reputano entrambi vincitori: Leonora al pensiero che il Trovatore vivrà, il Conte che crede di avere definitivamente conquistato la sua amata. Scena III. Nel carcere Manrico cerca di confortare Azucena, terrorizzata dalla prossima fine sul rogo nella consapevolezza che è ormai giunta la sua ora (“Riposa o madre”). Alla fine, la donna si addormenta sfinita (“Ai nostri monti ritorneremo”). Scena ultima. Giunge Leonora ad annunciare la libertà a Manrico e a implorarlo di scappare. Quando però scopre che la sua amata non lo seguirà, si rifiuta di fuggire. È convinto che per ottenere la sua libertà Leonora l'abbia tradito, ma lei, colpita dai mortali effetti del veleno, gli confessa di essersi avvelenata per restargli fedele (“Prima che d'altri vivere… Io volli tua morir!”). Il Conte, entrato a sua volta nella prigione, capisce d'esser stato ingannato da Leonora, che muore fra le braccia di Manrico. Il Conte recupera subito il suo istinto sanguinario e vendicativo, ordina che Manrico sia immediatamente giustiziato e trascina alla finestra Azucena perché veda il figlio decapitato. A esecuzione avvenuta, nella disperazione la donna trova la forza di rivelare al Conte la tragica verità: «Egli era tuo fratello» e mentre viene tratta a morte può finalmente gridare: «Sei vendicata, o madre!». Con un’orchestra roboante sul drammatico verso finale “E io vivo ancor!” del Conte di Luna, si chiude il dramma, che pur riscuotendo grande successo, sconvolse il pubblico della prima rappresentazione, con un finale così estremo. Brani I momenti musicalmente più conosciuti sono forse le scene d’insieme. Di grande colore e timbrica l’introduzione del 2° atto con il coro dei gitani nel loro accampamento (“Vedi! le fosche notturne spoglie”).
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Di grande respiro e di ampia articolazione melodica la scena del coro di soldati che apre il terzo atto: “Squilli, echeggi la tromba guerriera”. I cori guerrieri del Trovatore, pur essendo fra i più conosciuti e amati del repertorio verdiano, restano tuttavia sullo sfondo, quasi marginali rispetto all’intensità della vicenda umana dei quattro protagonisti, infinitamente più appassionata. Non si può dimenticare la drammatica scena del “Miserere” intonato dal coro interno di frati, (primo quadro del quarto atto), alternato dagli angosciosi versi di Leonora (“Quel suon quelle preci”), affidata ad un’inconsueta quanto ardita orchestrazione: tutta l’orchestra suona in pianissimo ed in omoritmia [omoritmia: stile polifonico in cui il ritmo è uguale per tutte le parti, ma varia l'intonazione]. Due i momenti di maggior intensità lirica affidati al soprano: l’aria del secondo quadro del primo atto (“Tacea la notte placida”), in cui Leonora rievoca una serenata dedicatale una notte da un misterioso Trovatore, seguita - dopo un breve dialogo con Ines - dalla cabaletta “Di tale amor”, e la bellissima aria che apre il quarto atto “D’amor sull’ali rosee”.
[Placido Domingo, nel ruolo di Manrico, nella cabaletta “Di quella pira”]
Importanti ed intensi anche i momenti lirici affidati ad Azucena: “Stride la vampa” nel secondo atto, e “Condotta ell’era in ceppi”, l’allucinato monologo in cui subito dopo ricorda il tragico rogo in cui fu arsa la madre. Tra le arie affidate a Manrico, “Ah si, ben mio coll’essere”, e l’arcinota cabaletta “Di quella pira”, concentrate nel secondo quadro del terzo atto. Infine ricordo l’aria del Conte di Luna, che apre il secondo quadro del secondo atto, “Il balen del suo sorriso”, nel quale ribadisce il suo amore per Leonora.
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Discografia
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Di assoluto riferimento sono due edizioni di Herbert von Karajan, una per la Leonora strepitosa della Callas e l'altro per il Manrico eroico e stentoreo di Corelli, oltre che la presenza dello stesso von Karajan, semplicemente superbo: - Teatro alla Scala di Milano, dir. Herbert von Karajan; Giuseppe Di Stefano (Manrico, una interpretazione non eccellente), Maria Callas (Leonora), Fedora Barbieri (Azucena), Rolando Panerai (Conte di Luna). Anno 1956 (Etichetta EMI Classics 56333). - Vienna Philharmonic and the Vienna State Opera Chorus, dir. Herbert von Karajan; Franco Corelli (il miglior Manrico di tutti i tempi), Leontyne Price (Leonora), Giulietta Simionato (Azucena), Ettore Bastianini (Conte di Luna). Live recording
al
Festival di Salisburgo, 31 Luglio 1962. (Etichetta Deutsche Grammophon 447659). Altre edizioni che mi sento di segnalare sono: - Orchestra e Coro Teatro alla Scala di Milano, dir. Tullio Serafin; Carlo Bergonzi (Manrico), Antonietta Stella (Leonora), Fiorenza Cossotto (Azucena), Ettore Bastianini (Conte di Luna). Anno 1963. (Etichetta: Deutsche Grammophon 768402) - New Philharmonia Orchestra of London, dir. Zubin Metha; Placido Domingo (Manrico), Leontyne Price (Leonora), Fiorenza Cossotto (Azucena), Sherrill Milnes (Conte di Luna). Anno 1969. (Etichetta RCA Red Seal 74321-39504). In versione video, la migliore versione è quella registrata dal vivo al Metropolitan Opera, nell’ottobre 1988, con la Metropolitan Opera Orchesta & Chorus. (Etichetta: Deutsche Grammophon 0440 073 0029 9). I pregi maggiori di questa conosciutissima edizione sono la presenza di Luciano Pavarotti (Manrico) e la direzione di James Levine. Il resto non è purtroppo sullo stesso alto livello: Sherril Milnes (Conte di Luna) comincia a dar segni di stanchezza, Eva Marton ha una bella voce potente, ma è sembrata ai più inadatta al personaggio di Leonora, Dolora Zajick (Azucena) canta bene, ma ha una dizione italiana che ne compromette in parte l’interpretazione.
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