GLI AMICI DEL LOGGIONE Numero 3 – Gennaio 2018
GLI AMICI DEL LOGGIONE Rivista Trimestrale on-line di Musica Classica e Lirica Numero 3 - Gennaio 2018
Coordinatore editoriale ed autore dei testi: Giuseppe Ragusa
In questo numero: 1° Copertina: Ritratto di Ludwig van Beethoven mentre compone la Missa Solemnis, di Joseph Karl Stieler (Bonn, Beethoven-Haus) 4° Copertina: Giacomo Puccini (1858-1924) [2] [3] [6] [28] [34] [40] [54] [56] [63] [69]
Indice Editoriale Serate degli Amici del Vinile: L’impeto di Beethoven (23.11.2012) Guida all’ascolto: Focus su Ludwig van Beethoven Gustav Klimt: “Il Fregio di Beethoven” tra musica e pittura I grandi direttori: Wilhelm Furtwrängler L’Orchestra del Reich Musica classica e cinema: Arancia meccanica, di Stanley Kubrick Strumenti musicali antichi: Il salterio Le pagine della Musica lirica: Madama Butterfly, di Giacomo Puccini
Gli articoli e le immagini presenti in questa Rivista sono di dominio pubblico, e senza alcun riutilizzo commerciale. Ci scusiamo per eventuali e non volute carenze od omissioni nelle indicazioni degli autori di porzioni di testi non virgolettati, o di immagini fotografiche, pittoriche e disegnate, o delle eventuali proprietà editoriali o © o ®, che verranno, se contestate, prontamente rimosse. Sito: http://amicidelvinile.it e.mail: info@amicidelvinile.it
2
Editoriale Cari Amici,
eccoci giunti, con l’inizio del nuovo anno, già alla terza uscita della Rivista! A tutti voi, un felice 2018!
In questo numero, dopo che nel precedente ci siamo immersi nel mondo di Wolfgang Amadeus Mozart, ci troveremo di fronte a Ludwig van Beethoven, uno dei personaggi più
grandi della musica classica, anzi – secondo molti studiosi - il più grande compositore di ogni tempo e luogo, un titano del pensiero musicale la cui arte ha raggiunto vette di portata incalcolabile e, ancor oggi, insuperate. Quando vi parlai di Beethoven, il calendario segnava il 23 novembre 2012, la location era sempre la nostra storica Osteria Da Lauro: fu la mia seconda serata, ero già più
speranzoso sull’esito finale, avendo già superato le emozioni del “battesimo medievale”.
Ho ancora il ricordo di una serata piacevolissima, con le note che rimbalzavano focose ed impetuose ma cristalline tra le pareti del locale, e di una cena, come al solito, deliziosa. Fuori, il freddo ed umido tempo di fine novembre vittoriese…
La serata aveva il reboante titolo di “Impeto e Romanticismo”: tutta la prima parte era dedicata al grande Ludwig, mentre nella seconda fummo tutti avvolti dalle struggenti e romantiche note di Chopin, con qualche fugace puntatina su Liszt e Brahms. In questo numero troveremo tutta la prima parte: come sempre, sarò fedele al testo che
scrissi per quell’occasione e ritroveremo i brani che avevo programmato, anche se, come al mio solito, non riuscii a farveli sentire tutti. Vi riporto il testo con il quale iniziai la serata:
3
«Il protagonista della nostra serata è Ludwig van Beethoven.
4
La sua arte è una delle più eccelse manifestazioni del genio umano, arte unicamente musicale, musica pura, stupenda, maestosa. Nulla di lui è svanito, nulla è legato al suo tempo, tutto vive ancora, indissolubilmente unito
all’eternità della sua musica. Musica viva e splendida oggi come allora, e che per il riconoscimento potenza
non
della
propria
richiede
alcuna
mediazione o spiegazione: essa vive
sovrana
nella
stessa
indipendenza nella quale visse il suo creatore, il più libero di tutti ed insieme il più solitario.
Haydn disse all’appena ventenne
Ludwig: «Voi avete un’abbondanza inesauribile di ispirazione, avete pensieri che nessuno ha ancora avuto, non sacrificherete mai il vostro pensiero a una norma tirannica, ma
sacrificherete le norme alle vostre immaginazioni: mi avete dato l’impressione di essere un
uomo con molte teste, molti cuori, molte anime». Beethoven scrisse ogni genere di composizioni, per teatro, da camera, per orchestra o per singoli strumenti. Pianista eccelso, le sue trentadue grandi sonate per pianoforte riproducono i più intensi momenti della sua vita; parlano di gioia e di dolore con gli accenti più suggestivi e più profondamente toccanti; e nelle nove sinfonie a grande orchestra mai la musica ha raggiunto una così alta grandezza.
Creazioni titaniche che attraversano tutti i sentimenti, dall’angoscia all’emozione intimistica
dell’amore,
dall’ebbrezza
orgiastica alla serena contemplazione, dalla dolcezza della danza alla potenza della lotta per la libertà contro ogni tirannia. Beethoven comparve sulla scena in un momento storico fulgido: ereditò da Haydn e Mozart lo stile classico caratterizzato da forme musicali ben consolidate, ma le sue opere spezzarono per sempre gli equilibri del Classicismo viennese.
Egli fu una delle forze più dirompenti che la storia della musica abbia mai conosciuto. Dopo di lui niente poteva restare come prima; aveva spalancato le porte di un mondo nuovo elevandosi come un colosso a cavallo tra due secoli. Di carattere irrequieto e insofferente, Beethoven riversò nelle sue opere il tormento di una vita trascorsa in solitudine; una vita che non vide brillare le gioie dell’amore; una vita passata in continuo isolamento dal mondo per la sua grave sordità. Eppure, nessuno come Beethoven ha più dolorosamente conquistato la propria umana dignità, né contrastato il destino avverso con maggior forza morale: il ribelle slancio verso l’alto, il senso di indipendenza, l’inflessibile fierezza, la volontà di perfezione, la grandezza
morale e spirituale, la tragedia del suo vivere, ci indicano l’immensa energia che caratterizzò la sua vita. Credetemi, amici miei, è emozionante parlare stasera con voi di questa immensa figura di musicista, e mi dispiace il pensare che mi sarà impossibile in così breve spazio di tempo tracciare un quadro esaustivo di quanto lui ha composto. Ho preferito perciò attingere ai suoi pensieri, alle sue emozioni, alle sue sofferenze, ricavandoli dai vari scritti autobiografici che ci ha lasciato. Mi perdonerete sicuramente se sentirete solo una piccolissima parte della sua gigantesca produzione, e se alcune composizioni, vista la loro estensione, non hanno potuto trovar posto in questa serata. »
5
L’impeto di Beethoven
6
“Dal tubare della colomba allo scrosciare della tempesta, dall'impiego sottile degli artifici al tremendo limite in cui la cultura si perde nel tumultuante caos della natura, egli ovunque è passato, tutto ha sentito. Chi verrà dopo di lui non continuerà, dovrà ricominciare, perché questo precursore ha condotto l'opera sua fino agli estremi confini dell'arte.” (Dall’ orazione funebre di Beethoven, di Franz Grillparzer) Per entrare subito nel clima beethoveniano, iniziamo questa serata non con le parole ma con la sua musica, ascoltando l’incipit del 1° movimento della Sinfonia n° 9 in re minore per soli, coro e orchestra Op. 125, nota anche solo come Nona sinfonia o Sinfonia corale. Monumento della musica di ogni tempo, secondo i critici la più grandiosa composizione musicale mai scritta, la Nona Sinfonia prese forma molto lentamente nell'arco della vita di Beethoven. La sua genesi si può infatti risalire al periodo in cui il compositore, non ancora ventenne, conobbe il
poeta
Eulogius
Schneider,
entusiasta sostenitore degli ideali della
Rivoluzione
Francese,
e
Ludwig Bartholomeus Fischenich, docente di diritto all'Università di Bonn e amico di Friedrich Schiller [ritratto nel riquadro].
È molto probabile che proprio in questa Università, dove Beethoven frequentava i corsi di filosofìa, Fischenich abbia fatto conoscere al giovane musicista l'opera di Schiller e quell'Ode An die Freude (scritta nel 1785) che era diventata un simbolo degli ideali dei giovani tedeschi. Già allora Beethoven pensò di mettere in musica questa poesia, ma il progetto non andò in porto, a causa della censura che aveva colpito le opere del poeta, messe all'indice nella città austriaca come scritti «immorali» e «pericolosi». Ritorneremo alla fine della nostra serata su Beethoven con l’ultima parte della Nona. ♫♫ Il primo movimento (Allegro ma non troppo, un poco maestoso) si presenta con un'atmosfera tempestosa. Secondo il musicologo Mila si potrebbero contare fino a cinque temi differenti, che vengono continuamente elaborati, esposti e sviluppati, congiunti tra di loro. Famoso il tema di apertura, suonato "pianissimo" su tremolo di archi, tale da sembrare un'orchestra che si accorda.
Ascoltiamo questo movimento nella celeberrima esecuzione della Philharmonia Orchestra, direttore Otto Klemperer, una delle edizioni di riferimento.
La famiglia. Ludovicus (così è scritto nel certificato di battesimo) van Beethoven nacque a Bonn il 16 dicembre 1770. La famiglia era di umile origine: il nonno paterno, dal quale prendeva il nome, discendeva da una famiglia fiamminga di contadini ed umili lavoratori. La particella «van» non ha dunque origini nobiliari ed il cognome «Beethoven» (letteralmente: cortile delle bietole) deriva con ogni probabilità dalla regione olandese chiamata Betuwe.
[Ritratto di Beethoven tredicenne negli anni di Bonn, 1783; dipinto a olio di autore ignoto]
Il nonno, un anziano signore distinto che era stato maestro di cappella, era l’idolo del piccolo Ludwig, di qui l'ambizione, inseguita tutta la vita, di ottenere quell'incarico ed emulare l'illustre nonno, di cui portava sempre con sé il ritratto. Ludwig crebbe in un ambiente culturale e familiare tutt'altro che propizio. Il padre Johann [a destra, i ritratti dei due genitori di Beethoven] era musicista e tenore della cappella principesca; era un uomo mediocre e brutale, poco amato dalla famiglia. Era dedito all’alcool, capace solo di sperperare i pochi guadagni che riusciva a racimolare, e di spremere fino all'ossessione le capacità musicali di Ludwig, nella speranza di ricavarne un altro Mozart: furono espedienti di basso sfruttamento commerciale fortunatamente poco riusciti. Si racconta che spesso, completamente ubriaco, costringesse Ludwig ad alzarsi da letto a tarda notte, ordinandogli di suonare il pianoforte o il violino per intrattenere i suoi amici. Anche il primo maestro di musica, un certo Tobias Pfeiffer, fu un degno compare del padre del vizio di bere ed un pessimo insegnante. Beethoven amava la madre, Maria Magdalena, che però non ricambiava il suo affetto.
7
Era una donna umile ma giudiziosa e onesta, segnata da una salute poco cagionevole e con frequenti cadute depressive. Ebbe sette figli, quattro dei quali morti prematuramente. La sua vita con il marito Johann era difficile e lei dedicava ben poco tempo ai figli. Si vociferò anche che Ludwig non fosse figlio di Johann ma frutto di una relazione con il re Federico, voce mai smentita. Beethoven ricevette una formazione scolastica assai modesta, né lui si impegnò oltre il minimo necessario. A scuola il suo aspetto era sporco e trasandato, familiarizzava poco con gli altri bambini, i voti erano bassi. Mostrò invece precocemente il suo talento musicale, e ricevette i primi fondamenti dal padre, il quale fu il suo primo maestro. Purtroppo
l’insegnamento
era
discontinuo
e
influenzato dal rapporto negativo tra i due: il padre era orgoglioso del figlio e ne riconosceva la straordinaria
attitudine
artistica,
ma
era
contemporaneamente irritato perché la bravura del ragazzo sottolineava la sua mediocrità. Pare che lo picchiasse spesso: non stupisce che un amico di infanzia descriva Ludwig come “un ragazzo spesso stravagante e nervoso”. Johann era anche un gran ciarlatano: cercò di guadagnare
quattrini
con
il
figlio
prodigio,
spacciandolo come più giovane di due anni di quanto non fosse in realtà. Per fortuna, a occuparsi più tardi dell'educazione di Beethoven fu Christian Gottlob Neefe, l'organista di corte, che incoraggiò il ragazzo e gli fu prezioso insegnante.
Il giovane Ludwig. All’età di 19 anni, Beethoven fu notato dal Conte Ferdinand von Waldstein, che divenne il suo primo mecenate e lo presentò ad Haydn, il quale - colpito dalle doti musicali del giovane - lo invitò a proseguire gli studi sotto la sua guida a Vienna. Beethoven accettò volentieri l’invito anche se il suo animo era turbato da gravi problemi familiari: la madre, poco tempo prima, era morta di tubercolosi e a breve distanza era seguito anche il decesso della sorella di appena un anno d’età, mentre suo padre, devastato dall'alcolismo, era stato messo in pensione nel 1789 ed era incapace di garantire la sussistenza della famiglia. Decise comunque di partire. La mattina del 3 novembre 1792, Beethoven lasciò definitivamente Bonn (e mai più vi avrebbe fatto ritorno), per recarsi nella più vivace Vienna, la città che più lo avrebbe apprezzato e in cui poi si sarebbe fermato per il resto della vita.
8
Ludwig portava con sé a Vienna una lettera di Waldstein nella quale il conte gli profetizzava, tramite Haydn, un ideale passaggio di consegne dell'eredità spirituale di Mozart, morto l’anno precedente: «Caro Beethoven, Ella parte finalmente per Vienna per soddisfare un desiderio a lungo vagheggiato. Il genio di Mozart è ancora in lutto e piange la morte del suo pupillo. Presso il fecondissimo Haydn ha trovato rifugio, ma non occupazione; e per mezzo suo desidererebbe incarnarsi di nuovo in qualcuno. Sia Lei a ricevere, in grazia di un lavoro ininterrotto, lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn. » Alla fine del XVIII secolo, Vienna era la capitale incontrastata della musica occidentale e rappresentava il luogo ideale per un musicista desideroso di fare carriera. In quest’ambiente nuovo i primi anni furono molto favorevoli per il giovane pianista, e anche le sue prime composizioni, i trii per pianoforte, ricevettero pareri molto favorevoli. A quell'epoca Ludwig era un giovane uomo, con un grande futuro davanti a sé. Curava molto il suo aspetto, si vestiva con ricercatezza e si sforzava di acquisire le buone maniere. Sebbene fosse non alto di statura (circa 165 centimetri) e di carnagione scura, con la faccia leggermente butterata, non era affatto considerato poco attraente, anche se spesso la sua impulsività naturale e la mancanza di una buona educazione familiare ne evidenziavano alcuni aspetti negativi. Beethoven trovò una brillante collocazione come compositore ed insegnante privato nella aristocrazia (lo stesso arciduca Rodolfo era tra i suoi allievi). Le sue capacità di improvvisare, la sua irruenza quasi aggressiva sulla tastiera alternata alle inaudite dolcezze liriche dei suoi adagi, cominciarono a scuotere l’ambiente musicale. Divenne molto ricercato nei salotti. Carl Czerny (pianista e suo allievo) ha raccontato le esecuzioni titaniche di Beethoven e giustificava la frequente rottura delle corde durante i concerti come l'inevitabile conseguenza del fatto che il compositore chiedeva ai primitivi pianoforti dell'epoca assai più di quanto essi non potessero dare. Ha scritto anche che gli ascoltatori si commuovevano fino alle lacrime ascoltando le sue improvvisazioni.
9
Venne idolatrato in primis dai nobili del tempo che faranno a gara per assicurargli vitalizi e vedersi omaggiati nei frontespizi delle opere, anche se Beethoven scriverà musica secondo le sue esigenze espressive e non secondo commissioni (primo artista della Storia). Beethoven fu un grande pianista ed il pianoforte sarà il leitmotiv della sua vita, la 1° sonata sarà l’opera 2, l’ultima sonata, la 32, sarà l’opera 111; al musicologo ma anche all’ascoltatore appassionato (mi inserisco in questa seconda fascia) non sfuggirà il merito indiscusso di aver allargato le possibilità espressive e dinamiche dello strumento. ♫♫ Ascoltiamo adesso un brano tenue e intriso di serenità e poesia, il 2° movimento (Adagio un poco mosso) del Concerto n°5 per pianoforte e orchestra, in mi bemolle maggiore op. 73, del 1809, dedicato al suo mecenate e anch’egli provetto pianista, l'arciduca Rodolfo Giovanni d'Asburgo (ecclesiasta, e Cardinale già all’età di 31 anni [nel riquadro]), il quale poteva già vantare la dedica del Quarto Concerto, e, a riprova degli stretti rapporti tra loro, successivamente della Sonata per Pianoforte Op. 81a detta degli addii, il Trio per pianoforte Op. 97 detto dell'Arciduca, e la Missa Solemnis Op. 123. Il Concerto è soprannominato “Imperatore” ed è il più monumentale ed imponente dei concerti beethoveniani. Ritengo un delitto imperdonabile non farvelo ascoltare tutto (40 minuti in cui il pianoforte tocca tutte le sue arditezze tra possanza e lirismo, grandioso virtuosismo e drammaticità, ritmi vorticosi e astrazione poetica), ma quest’occasione mi impone una scelta che cade sul 2° movimento: esso richiama la "Romanza" mozartiana, dalla quale se ne distingue per il carattere composto di un Corale, come un inno sommesso ed interiore, che il pianoforte illumina con una serie di interventi di assoluto lirismo e poesia. Al pianoforte, uno dei più grandi Maestri della tastiera, Maurizio Pollini. Eugen Jochum dirige gli splendidi Wiener Philharmoniker, in un’interpretazione di riferimento assoluto.
10
L’amore.
11
I quadri che raffigurano il Beethoven adulto ci mostrano un uomo tenebroso, i capelli spettinati, con un aspetto fra l'eroico e il demoniaco che ormai il mito romantico pretendeva di attribuire alla sua figura, e lo sguardo scrutatore rivolto verso spazi lontani e indeterminati. Così lo descrive il suo medico. “Nella sua apparenza esteriore tutto è possente, rude, in molti aspetti, come la struttura ossea del viso, della fronte alta e spaziosa, del naso corto e diritto, con i suoi capelli arruffati e raggruppati in grosse ciocche. Ma la bocca è graziosa e i suoi begli occhi parlanti riflettono in ogni istante i suoi pensieri e le sue impressioni che mutano rapidamente, ora graziose, amoroso-selvagge,
ora
minacciose,
furenti,
terribili”. Beethoven ebbe una vita sentimentale, a dir poco, burrascosa; frequentava abitualmente il mondo delle prostitute, ma ebbe anche numerose relazioni sentimentali con donne blasonate di sangue blu (frequentatrici del suo ambiente abituale di insegnamento), generalmente sposate. Non conobbe però mai quella felicità coniugale alla quale aspirava, per insuperabili pregiudizi sociali, la nobile non potendosi accoppiare con un musicista, ai quei tempi considerato solo qualcosa di più che un semplice domestico. Il suo primo amore fu la sedicenne Giulietta Guicciardi [nel riquadro], la quale lo rifiutò appunto per la differenza sociale tra i due, preferendo andare sposa ad un conte. La giovinetta fu ispiratrice e dedicataria della Sonata per pianoforte n. 14 op. 27 n°2 comunemente nota sotto il nome di "Chiaro di luna" (soprannome attribuitogli del critico tedesco Rellstab, perché vedeva nel primo movimento, l'Adagio sostenuto, la descrizione di un idilliaco panorama notturno schiarito dalla luna: in particolare si riferiva ad un paesaggio reale, il Lago dei Quattro Cantoni). È una delle più famose composizioni pianistiche di ogni tempo, sebbene Beethoven non la considerasse una delle sue migliori sonate. Listz la definì “un fiore sospeso tra due abissi”. ♫♫ La sonata si apre con un adagio, fatto inusuale per l'epoca, ed è probabilmente questo il motivo per cui Beethoven la denominò Quasi una Fantasia: per indicarne il suo carattere libero ed originale, tipico del periodo romantico.
In quest'Adagio, su un accompagnamento argentino quasi in filigrana, si leva un tema quieto ma deciso; quindi la musica si evolve con un delicato andamento che s'innalza e ridiscende, per concludere con la stessa atmosfera meditativa nella quale era iniziato, rievocando forse l'atteggiamento di amara dolcezza con cui il compositore sembrava accettare il suo destino. ♫♫ A seguire sentiremo, della stessa Sonata, il 3° movimento “Presto agitato”. E’ un brano ricco di scale ascendenti e discendenti: lo si può definire una tempesta di note in crescendo che esprime la passione ed il tormento del nostro compositore. E’ una prova tecnica impegnativa, le dita percorrono freneticamente la tastiera; il finale travolgente cessa all’improvviso e le vibranti emozioni cedono il passo al silenzio. Si è scritto che «è la più sfrenata nella sua rappresentazione delle emozioni. Ancora oggi, duecento anni più tardi, la sua ferocia è stupefacente». Ho scelto la splendida interpretazione di Wilhelm Kempff, uno dei più grandi pianisti del XX secolo, in cui lirismo ed irruenza pianistica trovano un eccezionale connubio.
“Per Elisa” (composta nel 1810) è una delle sequenze di note più familiari di tutta la musica occidentale, un vero e proprio simbolo della letteratura pianistica romantica: si tratta di una delle 25 bagatelle, brevi composizioni per pianoforte scritti da Beethoven in vari periodi. Il fatto curioso è che non è mai esistita nella vita del compositore nessuna Elisa!! Il brano, infatti, venne scritto per Therese Malfatti [nel riquadro], una donna alla quale Beethoven aveva fatto, senza successo, profferte di
matrimonio
l'anno
prima
della
composizione, e si deve probabilmente ad un errore di trascrizione il titolo con cui è diventato universalmente famoso. ♫♫ Questa breve composizione presenta la struttura del Rondò, che, dalla metà del Settecento, caratterizza sia brani semplici e orecchiabili, sia l'ultimo tempo di composizioni più impegnate, come ad esempio la sinfonia.
12
13
[Isidor NeugaĂ&#x;: Ritratto di Ludwig van Beethoven. 1806]
Dopo l’iniziale famosissimo tema malinconico, si presenta un tema più spensierato e allegro fino a quando ritorna il tema precedente. Troviamo poi un nuovo tema più allegro e spensierato dove però anche qui ritroviamo il tema precedente. Ecco poi un nuovo tema, dapprima malinconico, successivamente più movimentato, che preannuncia il ritorno del tema iniziale che chiude il brano. “Per Elisa” viene eseguita al pianoforte da Vladimir Ashkenazy, interprete dall'impeccabile tecnica virtuosistica, nonché tra i più famosi direttori d’orchestra del nostro tempo.
Una relazione più duratura (sembra addirittura contrassegnata dalla nascita di una bambina, con gran scandalo della famiglia) fu quella con la contessa Josephine von Brunswick [nel riquadro], alla quale Beethoven scriveva: “Non è l'attrazione dell'altro sesso che mi attira in lei, no, soltanto lei, tutta la sua persona con tutte le sue qualità hanno incatenato il mio rispetto, i miei sentimenti tutti, la mia sensibilità intera. Quando mi accostai a lei, mi ero formato la ferma decisione di non lasciar germogliare neanche una scintilla d'amore. Ma lei mi ha sopraffatto, mi lasci sperare che il suo cuore batterà a lungo per me. Di battere per lei, amata Josephine, questo mio cuore non cesserà se non quando non batterà più del tutto.” Ma sconvolgente per la passione e la carnalità è la celebre Lettera all’Amata Immortale, la cui identità non è sicura, si suppone sia la scrittrice Bettina Bentano [nel riquadro], sposata e con figli. Ludwig aveva 42 anni, lei 30. La Lettera all'Amata immortale è un gruppo di tre lettere redatte di proprio pugno da Beethoven il 6 e il 7 luglio 1812. Queste lettere non furono mai inviate, e vennero ritrovate in una credenza, nei giorni che seguirono la morte del compositore, accanto ad un altro importante documento, il Testamento di Heiligenstadt. Si tratta di un documento straordinario, testimonianza di reale e grande pulsione amorosa, di profonda e sconvolgente "passione terrena".
14
Lettera all’Amata immortale “Pur ancora a letto, i miei pensieri volano a te, mia Immortale Amata, ora lieti, ora tristi; aspettando di sapere se il destino esaudirà i nostri voti, posso vivere soltanto e unicamente con te, oppure non vivere più. O Dio, perché si dev'essere lontani da chi si ama tanto? E la mia vita a Vienna è ora così infelice: il tuo amore mi rende il più felice e insieme il più infelice degli uomini. Mio angelo, mio tutto, mio io. Perché questa pena profonda, può forse durare il nostro amore se non a patto di sacrifici, a patto di non esigere nulla l'uno dall'altra; puoi forse cambiare il fatto che tu non sei interamente mia, io non sono interamente tuo? Sì, sono deciso ad andare errando lontano da te finché non potrò far volare la mia anima avvinta alla tua nel regno dello spirito. L'Amore esige tutto, e a buon diritto, così è per me con te, e per te con me. Il mio cuore trabocca di tante cose che vorrei dirti. Per quanto tu mi possa amare, io ti amo di più. Sai bene quanto io ti sia fedele. Nessun'altra potrà mai possedere il mio cuore, mai, mai! Sii serena, amami, oggi, ieri, che desiderio struggente di te, te, te, vita mia, mio tutto. Addio. Oh continua ad amarmi, non giudicare mai male il cuore fedelissimo del tuo amato. Sempre tuo Sempre mia Sempre nostri . L.»
15
Siamo in un’atmosfera sentimentale e commovente: quale miglior momento per farvi ascoltare uno dei più bei Concerti romantici di sempre? E’ il Concerto per violino e orchestra op.61, scritto nel 1806, uno dei pochi anni sereni nella vita di
Beethoven, che qualcuno attribuisce a una temporanea felicità della vita privata. E’ una delle opere più amate di Beethoven e più
ammirate dai pubblici di tutto il mondo, una delle composizioni più intrise di lirismo e canto che il Maestro abbia concepito: lo strumento viene fatto vibrare fin nei recessi più profondi e si libra sull’orchestra in un volo inebriante di intensa espressività.
♫♫ Il secondo movimento, Larghetto, è in forma di Romanza su un tema unico con variazioni: esposto dagli archi, il tema viene variato tre volte e con preziosi ornamenti dal solista, che presenta poi un secondo tema, anch'esso variato dopo una quarta variazione del primo tema. Dopo un'ultima apparizione di questo, energici accordi degli archi e una incisiva cadenza del violino conducono direttamente al Finale. Vi propongo l’interpretazione di una giovanissima Anne-Sophie Mutter al violino, con Herbert von Karajan dirige i Berliner Philharmoniker, in questa celeberrima esecuzione che segnò l’inizio della loro lunga e felice collaborazione.
L’eroismo. Beethoven, nell’epoca del Romanticismo, ebbe fama di uomo eroico, per la sua fede nella ragione umana, nella speranza in un mondo migliore, nel senso di giustizia, nella fratellanza universale, nella democrazia contrapposta all'assolutismo dei potenti, un tema molto sentito nell'Europa di Napoleone Bonaparte. Famosa è la querelle sulla dedica della terza sinfonia, composta tra il 1802 e il 1804. All’inizio Beethoven la dedicò a Napoleone Bonaparte, il grande Corso inteso come il “liberatore”, l’eroe che esportava in Europa le libertà acquisite in Francia dopo il 1789; successivamente, nella prima metà del 1804, strappò questa dedica, in preda ad un moto d’ira a causa della soppressione della repubblica e dell’acquisizione di Napoleone della carica di imperatore; la reinserì nuovamente («Il titolo vero della sinfonia è Bonaparte», scrisse alla Breitkopf nell’agosto 1804),
16
infine mutò il titolo in “Sinfonia eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo” nella prima edizione stampata nel 1806. Abitualmente a queste parole si associa l’ascolto del 1° movimento della sinfonia n° 3, L’ Allegro con brio, in cui Beethoven dipinge l’apparizione di un eroe, capace di diffondere - attraverso una titanica lotta - i nuovi ideali della rivoluzione. Preferisco invece proporvi l’Ouverture del Fidelio, una delle più grandi composizioni di Beethoven, opera tra le predilette e amate con devozione dal Compositore. E’ un monumento senza tempo all’amore, alla vita, alla libertà, una celebrazione dei diritti umani, è un manifesto contro la tirannia e l’oppressione, un inno alla bellezza e alla sanità del matrimonio, una vibrante affermazione della fede in Dio quale ultima risorsa per l’uomo. ♫♫ L'Ouverture (la quarta e definitiva tra quelle che Beethoven scrisse per quest’opera), o meglio la vicenda che essa simbolicamente esprime, è vigorosa e tagliente nel ritmo e celebra l'impulso alla lotta e la felicità dell'azione. L’Ouverture del Fidelio è eseguita da Leonard Bernstein con i Wiener Staatsoper (anno 2006). E' una delle interpretazioni del Fidelio più riuscite per l’armonia della strumentazione e per il suono limpido e penetrante dell’orchestra guidata da una direzione trascinante.
La sofferenza. L'immagine popolare di Beethoven è quella di un misantropo scarmigliato, con un carattere collerico, che evitava la compagnia degli altri uomini e metteva tutte le questioni personali in secondo piano rispetto alla creazione della sua musica. In verità, molte delle difficoltà nei comportamenti sociali di Beethoven erano dovute al fatto che egli condusse un’intera esistenza continuamente in lotta contro il destino, le avversità, la sofferenza. L'anno 1796 segnò una svolta nella vita del compositore, legato all’insorgere di alcune patologie che lo avrebbero accompagnato dolorosamente fino alla morte. La più nota malattia di Beethoven è la sordità, la cui origine è ancora controversa (danno al nervo acustico?). La scienza medica non si è mai espressa sulla diagnosi, nonostante sia stata eseguita l’autopsia. Il corpo di Beethoven venne infatti esumato due volte, nel 1863 e nel 1888, ma in entrambe le occasioni non si riuscì a capirne la causa, anche perché non vennero ritrovati gli ossicini dell’orecchio interno.
17
La sordità di Beethoven cominciò dall'orecchio sinistro (il compositore non aveva ancora compiuto ventotto anni) e poco dopo colpì anche il destro, poi peggiorò progressivamente, accompagnata da un ronzio persistente, molto fastidioso, che lo portò sull'orlo del suicidio: «Poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto». Questa infermità distrusse definitivamente la sua carriera pubblica di pianista virtuoso e, dal punto di vista psicologico, fu devastante per il compositore, come dimostrano le sue parole raccolte nel Testamento di Heiligenstadt (dal nome del villaggio in cui si ritirò nel primavera del 1802). I destinatari del testamento erano i fratelli Carl e Johann, ma egli si rivolgeva più generalmente a tutti gli uomini della Terra. Così egli esprimeva tutta la sua tristezza, la sua frustrazione e la sua infelicità, ma anche la sua fede nella sua arte: «O voi uomini che mi credete ostile, scontroso, misantropo o che mi fate passare per tale, come siete ingiusti con me! Non sapete la causa segreta di ciò che è soltanto un'apparenza, pensate solo che da sei anni sono colpito da un male inguaribile, che medici incompetenti hanno peggiorato. Sono stato presto obbligato ad appartarmi, a trascorrere la mia vita in solitudine. [...] Come potevo, ahimè, confessare la debolezza di un senso, che in me dovrebbe essere più raffinato che negli altri uomini e che in me un tempo raggiungeva un grado di perfezione massima? Con gioia vado incontro alla Morte - se essa venisse prima che io abbia avuta la possibilità di sviluppare tutte le mie qualità artistiche, allora, malgrado la durezza del mio destino, giungerebbe troppo presto. Se leggerete questo, un giorno, allora pensate che non siete stati giusti con me, e che l'infelice, nonostante tutti gli ostacoli della natura, ha fatto di tutto per essere ammesso nel novero degli artisti e degli uomini di valore. Addio, non dimenticatemi del tutto.» Nonostante il tono leggermente eccessivo e teatrale, questa è la lettera di Beethoven più toccante e personale. Il testamento offre un quadro sintetico della condizione di Beethoven e della consapevolezza di quale direzione la sua vita avrebbe preso: la sua sensibilità e il suo orgoglio lo avrebbero isolato dalla società, mentre l'arte e la creatività sarebbero diventate sempre più lo scopo della sua vita. Una lettera altrettanto disperata la inviò all’amico Karl Amenda: «Il tuo Beethoven vive terribilmente infelice in lotta con la Natura e con il Creatore, che ha esposto le sue creature, così che al primo evento il più bel fiore venga troncato.»
18
In una lettera del 1801 all'amico Franz Gerhard Wegeler, Beethoven fa una particolareggiata descrizione clinica della sua sordità già grave: «Mi debbo mettere vicinissimo all'orchestra per comprendere ciò che l'attore dice e i suoni acuti degli strumenti e delle voci, se sto un po’ lontano, non li sento affatto. Inoltre, talvolta odo a mala pena chi parla piano. Odo i suoni ma non distinguo le parole; mentre, invece, se appena uno grida mi è addirittura impossibile sopportarlo.» Quando divenne completamente sordo il ronzio cessò. Contemporaneamente all’insorgere della sordità, comparirono dolori addominali fortissimi ed una diarrea irrefrenabile. Iniziò a bere alcool per lenire i dolori, ma alla lunga questa abitudine gli provocò una cirrosi epatica ed una insufficienza pancreatica, che furono concause della sua morte. Ebbe anche periodici episodi di ittero, ma si rifiutò di smettere di bere. Anche Schindler, il devoto difensore della reputazione postuma del compositore, ammise la dipendenza del Maestro all’alcool: nella sua biografia accenna alla passione di Beethoven per il punch e i vini adulterati, ma con tatto insinua che la morte fu causata dalla cattiva qualità dei vini serviti nelle osterie viennesi. Nel giro di pochi anni dal primo apparire di questi disturbi, l'aspetto fisico di Beethoven cambiò: trascurava a tal punto il suo aspetto e i suoi abiti che un giorno che si era perso in città venne imprigionato come vagabondo. Chiusosi in isolamento per non rivelare in pubblico questa realtà vissuta in maniera oltremodo drammatica, Beethoven si fece una triste reputazione di misantropo. Il suo orgoglioso distacco dal mondo fu frutto non di banale disprezzo ma dell'umiliazione di non poter godere in modo semplice della compagnia altrui.
19
Solo le passeggiate in campagna gli daranno un po' di pace ma col tempo, per comunicare con lui, gli amici dovranno rivolgergli le domande per iscritto: nacquero così i celebri “quaderni di conversazione”. Il forzato isolamento dalla società lo spingerà ad accrescere la sua creatività, e, così facendo, a sprofondare dentro se stesso.
Nel 1807 Beethoven scrisse la 5° Sinfonia, il cui primo movimento ("Allegro con brio") è forse la pagina più celebre e drammatica scritta dall'autore: inizia con il famoso motivo di quattro note che, secondo le parole dello stesso Beethoven, rappresenta "il destino che bussa alla porta", interpretato come l'inquietudine per la sordità crescente. In tutta la Sinfonia si legge la reazione di un'umanità in perenne
lotta contro il proprio drammatico destino, un destino senza volto, cieco, spesso implacabile, contro il quale l'uomo si erge a combattere eroicamente in nome della ragione. E solo in virtù di questo atto di ribellione che il mondo giunge a trionfare sulle forze delle tenebre, sui pregiudizi e sulla superstizione. ♫♫ I temi musicali sono netti e concisi, come lo scarno inciso d'apertura, un motto di sole quattro note. Ancora sull'inciso «del destino» è fondato il primo tema, che percorre interamente la Sinfonia rendendola ulteriormente più solida ed unitaria. Propongo al vostro ascolto il celeberrimo 1° movimento della Sinfonia n° 5. Nel video vedremo la possanza, l’energia e la perfezione dei Berliner Philharmoniker, diretti da Herbert von Karajan. Quello fra il direttore austriaco e Beethoven è un vero confrontro tra Titani, in cui il perfezionismo maniacale del suono orchestrale del primo si fonde con il vigore creativo del genio di Bonn: il risultato è un sublime equilibrio di un’arte assoluta.
20
Negli ultimi anni di vita le sue opere, scritte già in completa sordità, si evolvono e guardano al futuro. ♫♫ Desidero farvi ascoltare un breve brano tratto dall’ultima Sonata per pianoforte, la n° 32. In essa troviamo, in una variazione del secondo tempo, ritmi di Jazz, ritmi molto inusuali, se non sconosciuti, per il tempo in cui sono stati composti. Sentite la modernità del ritmo. Ed è sconvolgente pensare che Beethoven “ascoltava” questa musica solo nella mente! Ho scelto l’interpretazione di Maurizio Pollini, nella sua famosa integrale delle ultime Sonate per pianoforte beethoveniane [Deutsche Grammophon 419199-2] L’except è preso dal 2° movimento della Sonata (Arietta. Adagio molto semplice e cantabile) dal minuto 6’24” Vorrei raccomandare al vostro ascolto anche una tra le più grandi sonate per pianoforte mai scritte, una sorta di vetta irraggiungibile della musica: l’op. 106, meglio conosciuta come Hammerklavier (pianoforte a martelli), appellativo che resiste ai secoli in quanto tematizza la strumentalità della sonata, portata a livelli mai raggiunti fino a quel momento. È la sonata più lunga di Beethoven (1167 battute) e una delle più complesse dal punto di vista armonico e dell'impegno tecnico. Per le sue dimensioni, non è possibile ascoltarla in questa occasione, ma vi consiglio di acquistare il disco, e a tal proposito mi sento di raccomandarvi l’interpretazione di Sviatoslav Richter.
La morte. Solo la morte poté interrompere le facoltà creative di Beethoven ed il suo slancio verso le nuove frontiere della musica. Ritornato a Vienna il 2 dicembre 1826 su un carro scoperto in una notte di pioggia, Beethoven contrasse una polmonite devastante da cui non seppe più risollevarsi; gli ultimi quattro mesi della sua vita furono segnati da un terribile logoramento fisico, ed il suo corpo già provato (era comparsa anche un’ascite) cedette ai mali che lo tormentavano da tempo.
21
22
[Card austriaca emessa in occasione del 100° anniversario della morte di Beethoven]
Un lieve momentaneo miglioramento fece sì che egli si sentì rinascere le speranze, anzi volle addirittura ricominciare a comporre: la decima sinfonia, forse anche un oratorio, Saul e David, lo tennero occupato. Anche il suo spirito del resto era vigile. Ma nonostante le cure dei medici, lo stato di salute precipitò, ed anche il suo vigore psichico perdette vigore. Quando alla fine si avvicinò il momento del trapasso, erano presenti soltanto il suo amico e musicista austriaco Anselm Hüttenbrenner e la cognata, mentre un temporale accompagnato da una tempesta di neve infuriava sulla città. Hüttenbrenner descrive quei memorabili ultimi istanti: “Un lampo illuminò vivamente la stanza del moribondo. A questo inaspettato fenomeno di natura Beethoven aprì gli occhi, alzò la mano destra e per parecchi secondi guardò in alto col pugno serrato, con un volto truce e minaccioso, quasi volesse dire: «Vi sfido, potenze nemiche! Lungi da me, Dio è con me!». Aveva anche l'apparenza di voler apostrofare, come un ardito condottiero, i soldati trepidanti: «Coraggio, soldati, avanti, abbiate fiducia in me, la vittoria è certamente vostra!». Quando lasciò ricadere la mano sul letto, gli occhi gli si socchiusero. Non più un respiro, non più un battito di cuore. Il genio del grande musicista era sfuggito via da questo mondo fallace nel regno della verità!” Erano le ore 18 circa del 26 marzo 1827, Beethoven aveva 56 anni.
Il suo funerale fu fra i più colossali mai organizzati, l'intera città era attonita. E’ inevitabile fare un confronto con la morte di Mozart, e basta confrontare i due funerali per capire la diversità di questi due immensi musicisti: mentre Mozart muore in povertà e solitudine e viene deposto in una fossa comune ed il suo corpo si disperde nel nulla, Beethoven viene salutato ed omaggiato da tutta Vienna come un grande personaggio, un uomo illustre, quasi un eroe nazionale, un personaggio
che
nel
mondo
dell’arte e della cultura aveva lasciato un segno indelebile. [Franz Stober: I fu erali di Beethove ]
23
In un angolo, fra le orazioni funebri di Grillparzer e di eminenti esponenti della politica e della cultura, una figura, che aveva eletto il genio di Bonn a suo nume tutelare, osservava la scena: Franz Schubert. “Egli sa tutto, ma noi non possiamo ancora capire tutto; e passerà ancora molta acqua sotto i ponti del Danubio prima che tutto ciò che quell'uomo ha creato sia compreso dal mondo.” (Franz Schubert). Raggiungerà il Maestro l'anno dopo, a soli 31 anni, ottenendo di esservi sepolto accanto.
[La tomba di Beethoven allo Zentralfriedhof di Vienna]
In onore del genio di Bonn, ascoltiamo la grandiosa e straordinaria Marcia funebre, 2° movimento dalla Sinfonia n° 3 “Eroica”. In questo movimento la trasfigurazione epica raggiunge il massimo con i rulli dei timpani, le trombe dal suono apocalittico, il fugato centrale e la melodica divagazione della coda. L'eroe viene ancora più trasfigurato ed elevato nel momento in cui si pensa l'idea della sua morte: è come se Beethoven immaginasse - come scrisse Massimo Mila - "un'immensa voce di lamento, il corale rimpianto dell'umanità sulla spoglia di chi ne incarnava i più nobili aspetti". ♫♫. Sono gli archi a proporre il ritmo di questa marcia in do minore (importante il sostegno dei contrabbassi), in una prima sezione di granitica coerenza. Ed ecco che il minore diventa maggiore per la sezione del Trio, dove, accompagnati dagli archi, i legni dipanano limpidi e nostalgici intrecci. Nel successivo sviluppo, ricompare il tema di marcia, che cede subito ad un lungo e
24
solenne fugato. A una riesposizione resa più intensa da una più fitta strumentazione, segue la coda, in cui Trio e Marcia figurano in posizione invertita, lasciando spegnere il movimento sui frammenti del ritmo che lo aveva aperto. Ascoltiamo dalla Sinfonia n° 3 la Marcia funebre. Suonano i Berliner Philharmoniker, dirige Herbert von Karajan.
Per chiudere questo racconto musicale sulla figura di Ludwig van Beethoven ho scelto l’Inno alla Gioia, ultimo movimento della Nona Sinfonia. Nella Nona Sinfonia Beethoven superò la classica divisione strumentale delle Sinfonie, e la proiettò verso la musica vocale, portatrice di significati ideologici indubitabili: questo fu un atto di straordinarie conseguenze per la storia culturale della musica nel suo complesso e in particolare del genere Sinfonia che qui, in pratica, concluse il suo corso in senso classico. L'Inno alla Gioia contiene un chiaro messaggio: gli uomini devono essere fratelli, devono vivere in armonia e in pace gli uni con gli altri. La pace non è una prospettiva irrealizzabile, anzi con l'impegno di tutti è più facile costruire un mondo di fratellanza e di armonia. Ascoltiamo e vediamo L’Inno alla gioia, in questo video dei Berliner Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan, un’interpretazione eccezionale (1968). I quattro solisti sono: Gundula Janowitz (soprano), Christa Ludwig (contralto), Jess Thomas (tenore), Walter Berry (basso). Chor der Deutschen Oper Berlin, dir. Walter Hagen-Groll.
Inno alla gioia
Freude, schöner Götterfunken,
Gioia, bella scintilla divina,
Tochter aus Elysium,
figlia degli Elisei,
Wir betreten feuertrunken ,
noi entriamo ebbri e frementi,
Himmlische, dein Heiligtum.
celeste, nel tuo tempio.
Deine Zauber binden wieder,
La tua magia ricongiunge
Was die Mode streng geteilt
ciò che la moda ha rigidamente diviso,
Alle Menschen werden Brüder,
tutti gli uomini diventano fratelli,
25
Wo dein sanfter Flügel weilt.
dove la tua ala soave freme.
Wem der grosse Wurf gelungen,
L'uomo a cui la sorte benevola,
Eines Freundes Freund zu sein,
concesse di essere amico di un amico,
Wer ein holdes Weib errungen,
chi ha ottenuto una donna leggiadra,
Mische seinen Jubel ein!
unisca il suo giubilo al nostro!
Ja, - wer auch nur eine Seele
Sì, - chi anche una sola anima
Sein nennt auf dem Erdenrund!
possa dir sua nel mondo!
Und wer's nie gekonnt, der stehle
Chi invece non c'è riuscito, lasci
Weinend sich aus diesem Bund!
piangente e furtivo questa compagnia!
Freude trinken alle Wesen
Gioia bevono tutti i viventi
An den Brüsten der Natur;
dai seni della natura;
Alle Guten, alle Bösen
tutti i buoni, tutti i malvagi
Golgen ihrer Rosenspur!
seguono la sua traccia di rose!
Küsse gab sie uns und Reben
Baci ci ha dato e uva,
Einen Freund, geprüft im Tod!
un amico, provato fino alla morte!
Wollust ward dem Wurm gegeben,
La voluttà fu concessa al verme,
Und der Cherub steht vor Gott!
e il cherubino sta davanti a Dio!
Froh, wie seine Sonnen fliegen
Lieti, come i suoi astri volano
Durch des Himmels prächt'gen Plan,
attraverso la volta splendida del cielo,
Laufet, brüder, eure Bahn,
percorrete, fratelli, la vostra strada,
Freudig, wie ein Held zum Siegen.
gioiosi, come un eroe verso la vittoria.
Seid umschlungen, Millionen!
Abbracciatevi, moltitudini!
Diesen Kuss der ganzen Welt!
Questo bacio (vada) al mondo intero
Brüder, über'm Sternezelt
Fratelli, sopra il cielo stellato
Muss ein lieber Vater wohnen
deve abitare un padre affettuoso.
Ihr stürzt nieder, Millionen?
Vi inginocchiate, moltitudini?
Ahnest du den Schöpfer, Welt?
Intuisci il tuo creatore, mondo?
Such' ihn über'm Sternenzelt!
Cercalo sopra il cielo stellato!
Über Sternen muss er wohnen!
Sopra le stelle deve abitare!
26
27
Guida all’ascolto: Focus su L. van Beethoven In questo numero della Rivista dedicato per gran parte alla figura di Beethoven non poteva mancare una mia personale guida all’ascolto su alcune delle principali interpretazioni della musica del grande Ludwig. Inizio con le Sonate per pianoforte. Vorrei poter già mettere la semplificazione "la migliore integrale", con uno o due nomi ben individuati, ma so già che - soprattutto per un corpus così vasto e stilisticamente multiforme come quello delle sonate per pianoforte di Beethoven - si tratterebbe di una scelta riduttiva se non di compromesso. Mi trovo comunque davvero in difficoltà a sceglierne una o più, perché sono consapevole che l'integrale migliore non può esistere, e che con capolavori così straordinari sono normali approcci anche antitetici. Esiste poi, proprio per la eterogeneità culturale delle opere, che alcuni esecutori possano trovarsi a loro agio con certe sonate e non con altre. E infine vi sono pianisti che, pur non avendo realizzato un'integrale, hanno edito delle esecuzioni notevolissime. Con l’ottica di quanto detto, piuttosto che stilare una classifica, vi lascio le mie sensazioni sugli interpreti beethoveniani, dei quali ho avuto modo di ascoltare le interpretazioni. I primi a registrare l'integrale beethoveniano, manco a dirlo, furono i tedeschi. ♫ Arthur Schnabel [nel riquadro] fu il primo a realizzare la prima registrazione completa delle sonate (conclusa nel 1935). Queste incisioni non sono mai andate fuori catalogo e sono considerate da molti la pietra di paragone dell'interpretazione delle Sonate per pianoforte di Beethoven. La qualità dell’incisione è quella di un disco anni ‘30. Schnabel incise anche tutti e cinque i concerti per pianoforte di Beethoven. ♫ Altro grande interprete beethoveniano fu Wilhelm Kempff, del quale sono particolarmente famose le registrazioni di tutte le sonate di Beethoven per violino e pianoforte insieme a Yehudi Menuhin. Kempff ha eseguito le sonate con assoluto rigore e tecnica leggera e precisa, evitando ogni caduta di gusto: molto profonde ed eleganti le ultime sonate, se ascoltate l'ultimo movimento dell'op. 101 noterete una precisione ed una leggerezza esemplari in quel difficilissimo fugato, e così pure nell'immenso adagio dell'op 106. A volte gli manca un po' di passione, ed alcuni lo
28
accusano di eccessiva mollezza: il suo è infatti spesso un Beethoven apollineo. La sua integrale è però nel complesso molto valida. ♫ Un'integrale classica è quella di Wilhelm Backhaus [nel riquadro] registrata negli anni ’50-’60, che vi consiglierei senz'altro di ascoltare per il suo stile limpido, per il suo rigore filologico e la tecnica solidissima. Backhaus è da molti considerato interprete di riferimento, in virtù di una certa monoliticità tutta teutonica, un eroismo austero. Unico neo: a volte è fin troppo irruente. ♫ Un'integrale assai poetica ed originale è quella del francese Yves Nat, tutt'altro che un virtuoso, ma esecutore di grande fascino. ♫ Anche Edwin Fischer fu storico esecutore di queste sonate, ma era talora poco preciso, l'espressività era comunque straordinaria. ♫ Stesso discorso per Walter Gieseking, altro sommo interprete, che purtroppo morì proprio mentre stava concludendo l'integrale. ♫ Emil Gilels, pur con le sue sonorità "russe", diede a Beethoven una lettura prettamente romantica. ♫ Recentemente ristampata, originale ma sempre aderente alla partitura, dinamica ma profonda, eroica ma non retorica, un pianismo ancora modernissimo, è l’integrale della pianista russa Maria Grinberg. Subì delle persecuzioni durante la dittatura di Stalin, e fu conosciuta solo in età matura dal pubblico occidentale; morì, ancora in piena maturità interpretativa, a 70 anni per un tumore al cervello. I critici ritengono le sue esecuzioni al livello di quelle di Vladimir Horowitz, Arthur Rubinstein e Clara Haskil. Diamo adesso uno sguardo alle interpretazioni più “moderne”. ♫ Vladimir Ashkenazy e Maurizio Pollini hanno firmato due ottime integrali, esaltate dai mezzi moderni di incisione, eseguite con tecnica somma e precisione estrema: le ultime sonate nell'esecuzione di Pollini sono un vero monumento, anche se qualcuno gradirebbe una maggior partecipazione emotiva. ♫ Di buon livello l’integrale di Daniel Barenboim, che sappiamo non essere un vero virtuoso della tastiera. ♫ Infine, l’integrale di Stephen Kovacevich, una delle migliori in assoluto, almeno in digitale. Il suo suono è sempre pieno, teso, vigoroso, il fraseggio asciutto fa risaltare con netta evidenza ciascuna parte. In controtendenza con le più recenti interpretazioni,
in
alcuni
movimenti
(quelli
centrali,
soprattutto) il pianista americano adotta tempi assai lenti che, se da un lato consentono una grande cura del particolare
29
dall’altro inficiano la necessaria scorrevolezza ed oscurano parzialmente la limpidezza della scrittura beethoveniana. E’ mia opinione comunque che la cosa migliore non è quella di ascoltare le integrali, ma di scegliere tra le grandi esecuzioni di vari pianisti. ♫ Inizio con Sviatoslav Richter che ha inciso stupendamente molte opere di Beethoven: vi consiglio le ultime Sonate (l’Hammerklavier è da brividi!), le Diabelli, e la Sonata “Appassionata” dove scatena la sua poetica visionaria e imprevedibile. ♫ Arturo Benedetti Michelangeli eseguiva da par suo, in modo inarrivabile, l'op. 2 n 3, l'op 7, l'op. 22, l'op. 26 e la 111: esecuzioni somme, di incredibile perfezione ed equilibrio, dal suono scarno e rarefatto. ♫ Wilhelm Backaus eseguì con autorevolezza e passione l’op. 111: fantastica! ♫ Il Beethoven di Alfred Brendel è arguto e originale come pochi, il pianista è ricercato ed espressivo, sicuramente anti-virtuoso. Qualcuno lo trova nelle sue registrazioni più recenti un po' pedante e costruito. ♫ Ed ecco Vladimir Horowitz [nel riquadro], il massimo
rappresentante
dell'espressione
e
dell'esaltazione artistica: quello che c'è di incredibile nel suo modo di suonare è la profonda aderenza del corpo con la testiera, dove le dita diventano solo un terminale, lui canta con il suo corpo e il pianoforte canta con lui. Ascoltate il primo
movimento
dell'Appassionata e il secondo e terzo movimento della Patetica. ♫ Claudio Arrau, come da sua consuetudine, presenta tempi discutibili (è arcinota la sua tendenza a dilatare i tempi), ma la sua interpretazione è di una intimità sconvolgente (anche nel suono, nitidissimo e preso molto da vicino). Arrau è un proto-romantico, la sua intuizione è far respirare Beethoven, renderlo cantabile, con variazioni costanti di tempo e dinamica. Per me, da non prendere come riferimento, ma una lettura da conoscere assolutamente. ♫ Friederic Gulda fa l'esatto contrario, ovvero accelera i tempi in maniera frenetica, toglie le sonorità da ogni risonanza superflua, il suo pianismo a volte è quasi metallico. Poi ancora, in una lista infinita di titani: Solomon Cutner, Clara Haskil, Glenn Gould, Rudolf Serkin, Walter Gieseking, Maria Tipo, Maria Yudina… Integrale delle nove sinfonie. ♫ Qui Wilhelm Furtwängler è la pietra miliare, la sua visione della Marcia Funebre della III sinfonia, che scatena gli spiriti della morte dandole quasi la maestà dell'estasi, è forse (con
30
l'immensità dell'Inno alla gioia della Nona) il punto più alto dell'interpretazione beethoveniana di ogni tempo. ♫ Anche il von Karajan degli anni ‘60 è indubbiamente, assieme a Furtwängler, al vertice di tutte le integrali beethoveniane. Una interpretazione straordinaria per continuità e spessore timbrico. L’interpretazione degli anni ‘80, pur migliore dal punto di vista del suono, non riesce ad avere lo spirito eroico e possente di questa edizione. ♫ L’integrale di Leonard Bernestein non è invece nel complesso molto soddisfacente. Se invece non volessimo avere l’integrale di un solo direttore, ma una scelta della migliori interpretazioni, ho una mia personale e opinabilissima classifica: 1a: Sir George Solti - Chicago Symphony Orchestra (Decca) 2a: Ernst Jochum - Radio Bavarese (Deutsche Grammophon) 3a: Wilhelm Furtwängler - Wiener Philharmoniker , anno 1944 (etichette varie), o Willem Mengelberg - Concertgebouw Orchestra (Philips) 4a: Carlos Kleiber - Bayerisches Staatsorchester (Orfeo) 5a: Herbert von Karajan - Philharmonia Orchestra (EMI) 6a: Herbert von Karajan – Berliner Philharmoniker anno 1963 (Deutsche Grammophon) 7a: Carlos Kleiber - Wiener Philharmoniker (Deutsche Grammophon) 8a: Sergiu Celibidache - Munchner Philharmoniker (EMI Classics) 9a: Wilhelm Furtwängler - Berliner Philharmoniker 1942 (live), in alternativa Otto Klemperer Philarmonia Orchestra (Angel Records); è pure splendida la versione di Ferenc Fricsaj con i Berliner (Deutsche Grammophon originals) I Cinque concerti per piano e orchestra. Fra tanti grandi solisti, da Wilhelm Backhaus a Artur Rubinstein, da Rudolf Serkin a Maurizio Pollini, l'integrale che forse è più omogenea fra contributo solistico, orchestra e direttore è quella di Vladimir Ashkenazy alla tastiera con la splendida Orchestra di Chicago diretta da Georg Solti (Decca). Nelle righe seguenti descriverò tre edizioni del Concerto per violino op. 61 assolutamente imperdibili; almeno una di esse deve essere presente in una discoteca che si rispetti. Sono tutte edizioni datate, ma dal valore interpretativo inestimabile e, a mio parere, insuperato.
31
♫ La prima è quella di David Oistrakh con la French National Radio Orchestra diretta da André Cluytens, datata 1959 (Etichetta: Columbia – 33CX 1672 o anche EMI Studio DRM – CDM 7 69261 2). Il violino di Oistrakh canta in modo prodigioso, è espressivo, il timbro è caldo e dolce. L’impressione che ne deriva è di un approccio romantico, passionale, quasi epico. ♫ La seconda edizione vede il violino di Menhuin e la bacchetta di Furtwängler con i Berliner (Ed. EMI Great Recordings of the Century CDM 5 66990-2). E’ una strana coppia, questa, un violinista ebreo che suona col maggior direttore della Germania nazista, e si presta a tante considerazioni. Personalmente credo che il loro passato di sofferenza giochi un ruolo fondamentale nella intensità e nobiltà con cui affrontano il concerto: è sicuramente la versione più sofferta ed al contempo più “eroica” delle tre; anche quella più vicina alla fine della seconda guerra mondiale. La registrazione è ovviamente datata e non si può pretendere molto, ma è un aspetto di cui ci si dimentica subito. L’impostazione appare immediatamente diversa: l’orchestra è più virile, possente, insieme al suo direttore affronta il concerto con tempi più stretti, con accento più drammatico, direi epico. Sono i Berliner Philharmoniker e si sente! L’entrata del violino è quasi titubante. Il suono è un po’ stridulo. Meno dolce che in Oistrakh, ma estremamente romantico, assecondando in modo egregio lo spirito con cui Furtwängler sembra affrontare il pezzo. Il pezzo è interiorizzato, vissuto, suonato prima per se stessi che non per gli ascoltatori, e questo appare evidente in Menhuin. La seconda guerra mondiale era finita da poco e parte del dolore che aveva causato si trasferisce nella musica, la impregna fin nel profondo, ma la fa diventare anche il mezzo con cui esprimere una speranza in un futuro migliore di fratellanza: cosa meglio della musica di Beethoven avrebbe potuto esprimere questo messaggio?
♫ La terza edizione è con Isaac Stern e Daniel Baremboim (Ed. Sony): si avverte una impostazione meno drammatica, più solare e fluida; l’interpretazione di Stern è leggendaria, gli assoli splendidi.
32
I sedici quartetti per archi. Solo il "Clavicembalo ben temperato" può sostenere l'importanza storica e teoretica di questi capolavori, vero e proprio punto di riferimento della musica occidentale. ♫ Splendida l’integrale del Quartetto italiano (Decca), uno tra i massimi quartetti d'archi del XX secolo, il più celebre gruppo cameristico italiano apprezzato in tutto il mondo per il rigore interpretativo, l'equilibrio sonoro e la perfezione tecnica. ♫ Raccomando anche l’integrale del Vegh Quartet (Audivis), sostenuto dal suo grande primo violino, Sandor Vegh, che ci prende per mano sottolineando i tesori di bellezze melodiche di cui sono ricchi questi quartetti.
Missa Solemnis ♫ Quando il coro della New Philharmonia inizia il fugato (nel Quoniam dal Gloria) i primi accenti di ogni parte sono talmente imperiosi da far venire subito in mente la forza dell’energia beethoveniana. Poi c'è il buon quartetto di solisti composto da Söderström, Höffgen, Kmentt e Talvela. Ma, più d'ogni altra cosa, c'è la bacchetta di Otto Klemperer, con un grande senso tragico della partitura (ascoltate le dissonanze del "Crucifixus") (Emi Classics).
♫ Nella versione di Arturo Toscanini con la NBC Orchestra sono in primo piano gli scultorei fiati e i concitati interventi della "Robert Shaw Chorale" a creare effetti che talvolta raggiungono la violenza espressiva. Con un'enfasi retorica che la impone con prepotenza (RCA, Toscanini Edition).
33
“Il Fregio di Beethoven”, di Gustav Klimt Il 15 aprile 1902, a Vienna, fu un giorno particolare: per un solo magico momento l’utopia dell‘arte totale si concretizzò. Tutto era iniziato circa una quindicina di anni prima, per iniziativa di 19 artisti, prevalentemente architetti, pittori e scultori tra i più quotati delle scuole tedesche ed austriache, fra i quali Gustav Klimt, Max Klinger, Josef Hoffmann ed Egon Shiele. Separandosi dalle rispettive Accademie, avevano fondato il movimento “secessionista”, che aveva una sua sede ed una sua rivista. Questa propugnava con forza l’idea della fusione delle arti in un’unica arte totale che fosse permeata dallo spirito della Musica. Nel resto d’Europa si andavano diffondendo analoghe idee che, a cavallo dei due secoli, avrebbero portato all’affermarsi dell’Art nouveau in Francia e al Modernismo in Italia. Per la generazione di Klimt [nella foto] e per gli artisti secessionisti che sognavano l’utopia, le discipline quali la filosofia, la medicina e la giurisprudenza non erano in grado di garantire agli esseri umani una vita piena e felice, potere posseduto solo dall’arte. Per tal motivo pensarono di creare un’esposizione dove musica, pittura e scultura potessero esprimersi in un unico evento: fu così che nacque nel 1902 la XIV Esposizione dei Secessionisti viennesi, avente per tema la celebrazione di Ludwig van Beethoven, l’artista che più di chiunque altro, con la sua musica, rappresentava la lotta contro le forze avverse della società, nemiche dello spirito creativo, e la speranza in nuovo futuro dove l’amore era il mezzo per redimere l’umanità. Fu Josef Franz Maria Hoffmann, uno dei
maggiori
esponente
del
architetti
austriaci,
movimento
della
Secessione Viennese, a progettare l'allestimento interno della mostra al Palazzo della Secessione di Vienna [nella foto] impiegando cemento grezzo
per rendere lo spazio più neutrale possibile, e creò tre sale che dovevano accogliere,
secondo
un
percorso
precostituito, l’omaggio a Beethoven.
34
Al centro della sala principale venne collocato il monumento a Beethoven di Max Klinger; davanti ad esso venne posizionato il pannello dipinto da Adolph Bohm con L'Alba, mentre, dietro, venne messo il pannello di Alfred Roller con Il Tramonto; nella sala di fianco, ad occupare le pareti, il grande fregio beethoveniano di Gustav Klimt. Ed ecco che in quello spazio nel quale architettura, pittura e scultura si combinavano nel modo più vario e più omogeneo, Gustav Malher diresse, il giorno dell’inaugurazione, l’Inno alla gioia dalla 9a Sinfonia di Beethoven, in un suo arrangiamento per soli strumenti a fiato. Alma Malher [nella foto], presente in quella circostanza, racconta d' aver visto Klinger piangere per la commozione della "totalità" che la musica dava all' esperienza.
La statua di Max Klinger Questa statua, dal carattere eroico e sacro, conferisce al compositore la statura dell'eroe: il soggetto, simile a una divinità olimpica, appare nudo sul trono senza veli, coperto da un solo lungo drappeggio, con il pugno serrato sulle gambe accavallate e lo sguardo frontale. Ai suoi piedi riposa un'aquila, l'animale araldico di Giove.
35
In questa scultura policroma (in marmo, alabastro, ambra, bronzo, avorio) Beethoven rappresentava in pieno - come martire e salvatore moderno
dell'umanità - gli intenti dei
secessionisti. La statua è alta tre metri, ed è ora collocata presso il Museo del Bildenden Künste, a Leipzig.
Il Fregio di Beethoven Per l’Esposizione Gustav Klimt realizzò un lavoro monumentale e lo intitolò Il Fregio di Beethoven, un dipinto di ben 34 metri di lunghezza, che occupa tre pareti. L’opera ci racconta una storia: un forte Cavaliere armato – i cui tratti del volto sono quelli del compositore Gustav Mahler – spinto dalla preghiera dell’umanità che desidera la felicità, decide di intraprendere un viaggio per trovare questo prezioso bene. Durante il suo percorso deve affrontare delle forze avverse rappresentate dal gigante Tifeo, contro il quale perfino gli dei hanno combattuto invano, e le sue terribili figlie, le Gorgoni. Superati gli ostacoli, l’anelito per la felicità è raggiunto nell’incontro con la Poesia (rappresentata da una splendida donna dalla veste dorata) che stringe con uno struggente abbraccio a simboleggiare l’idea che solo grazie all’arte il Cavaliere (l’artista) può raggiungere il luogo dove regna la pura gioia, la pura felicità e l’amore. Il Fregio contiene un ulteriore livello simbolico, perché Klimt vi interpreta la contrapposizione senza tempo tra bene e male e l'aspirazione al riscatto ideale attraverso l'arte dal punto di vista del rapporto uomo-donna: nell'opera il momento della liberazione è identificato con il raggiungimento dell'estasi amorosa, e il regno ideale con l'abbraccio di una donna. Klimt immaginava che l’intera opera venisse smantellata al termine dell’Esposizione. La realizzò quindi con materiali molto poveri, utilizzando frammenti di specchio, bottoni, chiodi, pezzi di vetro colorati, dorature. In seguito appoggiava il tutto su pannelli di legno incannucciati, su cui aveva steso uno strato di intonaco.
36
Per nostra fortuna, dopo molte vicissitudini, dal trafugamento nazista ai successivi restauri, l’opera è oggi permanentemente esposta a Vienna nella sua collocazione originaria. Il Fregio è composto di tre parti che costituiscono una sequenza: "L'anelito alla felicità" si scontra con le "Forze ostili" e trionfa con “L’anelito alla felicità che si placa nella poesia”. L’anelito alla felicità. Il primo pannello è dominato dalla figura del Cavaliere eroe (rivestito da una splendida armatura dorata, che, appoggiato alla sua spada, ascolta le preghiere e le invocazioni che gli sono rivolte dall’umanità dolente, in ginocchio, alle sue spalle, al fine di intraprendere la lotta per il raggiungimento della felicità assoluta.
Accanto a lui, la rappresentazione di due allegorie, la compassione (raffigurata con il capo chino inclinato e le mani unite) e l’ambizione con il volto frontale e la corona di alloro in mano (ispirata alla dea Igea, uno dei simboli mitologici della Medicina). L’ostilità delle forze avverse. Nel secondo pannello (situato cioè nella parete centrale) domina al centro la figura del gigante Tifeo, raffigurato come un’ibrida bestia dalla testa di scimmia, con le ali blu e il corpo serpentino, e lo sguardo dagli occhi madreperlacei rivolto ai visitatori, personificazione dell’ottusità
37
materialista contro cui il Cavaliere - personificazione dell'Artista - dovrà lottare per affermare il regno dell'arte. Nella mitologia greca Tifeo (o Tifone) è un mostro che abita nelle oscure cavità dei vulcani, dall'aspetto minaccioso, ed era considerato il padre dei venti impetuosi (tifoni). Nel dipinto Tifeo ha, alla sua destra, le sue figlie, le Gorgoni, ornate di gioielli e serpenti, raffigurate nude, come esseri vampireschi, simboli della Malattia, della Follia e della Morte. Le sovrasta, alle loro spalle, una figura smilza, simbolo del dolore struggente. Alla sinistra di Tifeo (e quindi nella parete destra della composizione), tre figure femminili che rappresentano altre forze devastanti per l’umanità: esse raffigurano la lussuria, l’impudicizia e l’incontinenza (quest’ultima riconoscibile per la pinguedine ed il grosso ventre sporgente).
L’anelito alla felicità che si placa nella poesia. La terza ed ultima parete presenta il tema della Poesia, unica via per placare l’anelito alla felicità. Solo le Arti ci possono guidare così nel mondo ideale, dove si può toccare con mano la gioia, la felicità e l’amore allo stato puro, sentimenti che sono cantati dal Coro degli Angeli del Paradiso, simbolo della bellezza ideale. Spogliato della sua corazza, il Cavaliere - visto di spalle - si abbandona al dolce abbraccio della figura femminile sotto l’albero della vita. La sua è la figura d'eroe vittorioso ma anche di amante soggiogato: così l'immagine, che apparentemente celebra la liberazione e il trionfo dell'eroe sulle forze ostili, è anche l'immagine della sua resa al potere dell'Eros, cioè alla donna che è la vera
38
vincitrice. Sopra i loro volti gli elementi naturali del sole, simbolo maschile, e della luna, simbolo femminile. Nonostante la forza espressa dalla sua muscolatura, le braccia della donna lo rendono prigioniero, quasi a volerlo proteggere. I due corpi, simbolo dell’elemento maschile e femminile, sono avvolti da un velo d’acqua che li tiene uniti, con leggerezza. A rafforzare questo legame si sviluppa attorno alle figure un bozzolo dorato, etereo e divino, quasi a voler proteggere qualcosa di sacro e puro, una campana decorativa immateriale simile a uno scrigno d’oro, motivo, questo, ripreso in seguito nel celeberrimo dipinto II bacio (1907-08). Questo abbraccio è un richiamo al testo schilleriano della Nona Sinfonia «Questo bacio a tutto il mondo. Le arti ci conducono fino al regno dell’ideale, ove soltanto possiamo trovare pura gioia, pura felicità, puro amore», intonato dalle composte fanciulle che cantano l'Inno alla Gioia in un giardino incantato punteggiato di piccole rose, moltiplicazione di simboli del sesso femminile,
una grande allegoria di quanto aveva espresso in musica Ludwig van Beethoven nella sua ultima Sinfonia.
Nonostante la grande bellezza dell'opera, al Fregio viene opposto subito un fronte di rifiuto da parte della critica e del pubblico. Le figure allegoriche rappresentate vennero considerate ripugnanti, anzi suscitarono un'ondata d'indignazione pubblica perché Klimt volle inserire nel dipinto evidenti riferimenti agli organi sessuali maschili e femminili, a sperma e ovuli. L'Esposizione alla fine si rivelò un fallimento anche dal punto di vista finanziario.
39
I grandi direttori: Wilhelm Furtwängler Wilhelm Furtwängler (1886-1954), berlinese, è unanimemente considerato uno dei massimi direttori del XX secolo. Figlio di un archeologo e di una pittrice, studiò musica fin dalla più tenera età e sviluppò un amore per Beethoven che gli rimase per tutta la vita. All'età di 12 anni, il giovane Wilhelm aveva già memorizzato gran parte delle opere del grande Ludwig ed era in grado di suonarle al pianoforte. Debuttò a vent'anni nella direzione d'orchestra ma la sua carriera ebbe un balzo importante quando, nel 1922, fu nominato direttore stabile della Gewandhausorchester di Lipsia: successivamente nel 1928 divenne direttore dei Berliner Philharmoniker, che diresse fino al 1945, e nel 1930 fu nominato Direttore Musicale del Festival Bayreuth, fondato da Wagner e considerato come la corona della cultura tedesca. Questa foto storica venne scattata al Festival di Berlino nel 1929, poco prima che Hitler prendesse il potere e mostra i cinque principali direttori del tempo: da sinistra, Bruno Walter, Arturo Toscanini, Erich Kleiber, Otto Klemperer, Wilhelm Furtwängler.
Con l’avvento di Hitler e del nazismo, Furtwängler conobbe un lungo e controverso periodo umano e professionale.
40
Il Maestro e il Terzo Reich, capitolo complesso nella sua vicenda intellettuale: pur non essendo tesserato, Wilhelm Furtwängler rimase in Germania e ne condivise la sorte, per di più strumentalizzato dai nazisti. Erede spirituale di quella grande cultura non volle abbandonarla nel momento del bisogno, ma fece risuonare in quella patria devastata le note consolanti e umane soprattutto di Beethoven. Molto si è scritto sui rapporti ambigui del Maestro con il regime nazista, del quale comunque non fu mai un chiaro oppositore. Vari i punti a suo sfavore: si esibì più volte alla presenza di Hitler, e diresse la sua orchestra sotto svastiche enormi; non emigrò all'estero come fecero tanti altri nomi della cultura tedesca, ma restò in Germania accettando l’incarico di vicepresidente della Reichmusikkammer, forse più per incapacità di vivere in un mondo non tedesco che per vera fede politica; nel febbraio 1938 diresse la Filarmonica di Berlino in un concerto organizzato per la Gioventù hitleriana, e, nello stesso anno, diresse l'opera I maestri cantori di Norimberga di Richard Wagner per il 49° compleanno di Adolf Hitler. Inoltre diresse concerti a Praga nel marzo del 1944 per il quinto anniversario dell'occupazione tedesca; nel 1942 diresse la nona di Beethoven, ancora in occasione del compleanno di Hitler. I suoi concerti erano spesso trasmessi alla radio per sollevare il morale delle truppe.
Punti a suo favore: non prese mai la tessera del partito; si rifiutò sempre di fare il saluto nazista, anche quando Hitler era presente ad un concerto; non iniziò mai concerti con l'inno nazista. Anche il suo atteggiamento verso gli ebrei risulta ambiguo e controverso: da un lato collaborò con musicisti ebrei come Artur Schnabel, che elogiò apertamente, e salvò alcuni musicisti ebrei della Filarmonica di Berlino dai campi di concentramento (Fred Prieberg in una ricerca ha documentato che oltre 80 persone a rischio vennero salvate grazie all’intercessione di
41
Furtwängler); dall'altro sostenne il boicottaggio degli ebrei e fu critico riguardo alla presenza ebraica negli organi di stampa. Rimane comunque un fatto oggettivo che Furtwängler venne sempre trattato bene dai nazisti, i quali lo consideravano quasi come il "direttore ufficiale del regime": Joseph Goebbels lo inserì nella Gottbegnadeten-Liste, un elenco degli artisti considerati fondamentali per la cultura tedesca.
[Apertura della Camera di cultura del Reich alla Philharmonie, 15 novembre 1933. Sul palco degli oratori il Ministro per la Propaganda Joseph Goebbels. Archivio dei Berliner Philharmoniker, Berlino]
Furtwängler, accecato dal suo stesso idealismo, restò fedele alla Germania: credeva che, finché il popolo tedesco avesse potuto ascoltare musica, avrebbe trovato in essa un po’ di libertà. Convinzione di un romanticismo poco realistico, contrario di quello ribelle e concreto di Toscanini, che invece lasciò l’Italia, per opposizione al partito fascista di Mussolini. Il Partito stesso era molto consapevole del fatto che Furtwängler era il simbolo principale della gloria passata della cultura tedesca e che la sua perdita sarebbe stata un colpo finale al prestigio nazionale che avrebbe convalidato tutte le critiche estere. I nazisti sfruttarono inoltre la paura di Furtwängler che la sua arte non sarebbe stata capita al di fuori della Germania: quando fu offerto al Maestro di accettare incarichi all'estero, il governo apparentemente non fece opposizione, ma la presenza di una nuova legge sull'emigrazione che gli
42
avrebbe impedito per sempre il suo ritorno in Germania, gli impedì di accettare. Quindi, Furtwängler si trovò effettivamente imprigionato nella sua patria. Negli ultimi anni del regime i suoi rapporti con il nazismo degradarono. Ad ogni sua ribellione, i nazisti mostravano di preferirgli Herbert von Karajan [nella foto], il direttore austriaco che s’era iscritto al partito nel ’35 e che aveva rinnovato la tessera nel ’38, in occasione dell’annessione della sua Austria al Terzo Reich. Il partito nazista vide in Karajan l’uomo giusto per indebolire il mito di Furtwängler e l’occasione si presentò il 22 ottobre del 1938. Dopo una esecuzione del Tristano e Isotta di Wagner, un critico berlinese parlò di «Das Wunder Karajan» (il miracolo Karajan), aggiungendo perfido: «Il nostro cinquantenne dovrebbe invidiare questa esecuzione». Il cinquantenne era Furtwängler, il quale capì forse per la prima volta quali fossero le mire di quel ragazzo pieno di talento: voleva il suo posto, e i nazisti erano pronti ad offrirglielo. La Gestapo compilò un gigantesco dossier su Furtwängler e, con il pretesto di complicità in un fallito complotto del luglio 1944 per assassinare Hitler, segnò il suo nome tra le persone da eliminare. Albert Speer, capo architetto del Reich e suo ardente ammiratore, avvertì il Maestro, che, per salvare la sua vita, riuscì fortunosamente a fuggire in Svizzera. Lì, in esilio, si dedicò alla composizione, tra le quali la sua opera più significativa, la Sinfonia n° 2, intesa come il suo testamento artistico. Dopo il termine del conflitto non fu però Karajan a subire più di tanto ostracismi per il suo passato nazista, ma chi venne processato
dagli
alleati
fu
invece
Furtwängler, accusato di essere rimasto in Germania, di avere diretto i Berliner davanti a esponenti del partito, e di aver fatto propaganda antisemita contro il direttore Victor de Sabata. In occasione di quel processo, tenutosi nel 1946, egli così chiarì il suo pensiero: «Sapevo che la Germania era in una situazione terribile; io mi sono sentito responsabile per la musica tedesca, ed è stato mio compito farla sopravvivere a questa situazione, per quanto ho potuto. La preoccupazione per il fatto che la mia musica potesse essere usata dalla propaganda ha dovuto cedere alla preoccupazione più grande di conservare la musica tedesca, di farla ascoltare al popolo tedesco.
43
44
[Furtwangler dirige i Berliner. Anno 1944]
Questo popolo, compatriota di Beethoven, Mozart e Schubert, doveva ancora vivere sotto il controllo di un regime ossessionato dalla guerra. Nessuno che non abbia vissuto quei giorni può giudicare com'era. Non potevo lasciare la Germania in quello stato di massima infelicità . Andarsene sarebbe stato una fuga vergognosa. Dopo tutto sono un tedesco, qualunque cosa si possa pensare di questo all'estero, e non rimpiango di aver fatto questo per il popolo tedesco.
[Sala concerti dell'Orchestra Filarmonica di Berlino (Philharmonie) distrutta dai bombardamenti degli Alleati]
Alla fine fu assolto da ogni accusa di collaborazionismo, ma la ferita aperta da quel processo non si rimarginò mai più. Karajan se la cavò meglio, forse anche grazie al matrimonio nel 1942 con Anita Guetermann, una donna di discendenza ebraica dalla quale divorziò nel 1958. Molti musicisti ebrei, come i violinisti Isaac Stern e Itzhak Perlman, hanno sempre rifiutato di suonare in concerti diretti da Karajan, che riuscì tuttavia a liberarsi del suo passato agli occhi del grande pubblico. Dopo il processo, Furtwängler riprese a dirigere e a registrare, ristabilendo rapidamente la sua reputazione in gran parte dell'Europa. Anche Toscanini, che aveva demonizzato Furtwängler durante la guerra, nel 1948 considerava il maestro berlinese come il secondo miglior direttore d’orchestra in tutto il mondo (Toscanini, ovviamente, essendo il primo). Significativo fu il rapporto con l'Italia: il Teatro alla Scala di Milano lo invitò a dirigere L'Anello del Nibelungo. L'America non lo perdonò fino in fondo. Nel 1949, a Furtwängler venne offerta la direzione della Chicago Symphony Orchestra, ma l'annuncio provocò vibranti proteste: i più famosi solisti, tra cui Artur Rubinstein, Vladimir Horowitz e Jascha Heifetz, avvertirono che avrebbero boicottato qualsiasi orchestra diretta da Furtwängler. Gli ultimi anni di Furtwängler furono infelici, anche se nel 1952 conobbe la gioia di essere nominato direttore a vita dei Berliner Philharmoniker. In quello stesso anno, in seguito all’assunzione di antibiotici (streptomicina), ebbe danneggiati i nervi acustici,
lasciandolo
sordo.
I
tentativi
di
compensare la sua perdita dell'udito con gli altoparlanti sul palco risultarono inefficaci. Nel Luglio 1954 diresse il suo ultimo concerto, e dopo pochi mesi, il 30 novembre, morì in seguito a complicanze comparse in seguito ad una polmonite. Considerando come il padre temesse di invecchiare, la figlia Kathrin definì la sua morte un atto di misericordia: "Certamente non voleva diventare un vecchio inutile". Lo stile di direzione. Furtwängler possedeva una tecnica di conduzione unica. Egli vedeva la musica sinfonica come una creazione della natura: per questo compositori come Beethoven, Brahms, Bruckner e Wagner erano così centrali nel suo repertorio, in quanto li considerava come grandi forze della natura. Il metodo di Furtwängler era l'antitesi del tipico conduttore autocratico che si impone su di un'orchestra: egli dirigeva quasi in uno stato di trance, i suoi gesti sembravano avere poca
45
attinenza al ritmo della musica, mentre i movimenti del suo corpo vennero descritti da alcuni suoi orchestrali come quelli di "un burattino mosso da fili". Peter Schmitz, flautista nella Filarmonica di Berlino, ha ricordato che Furtwängler non batteva mai il tempo in quanto tale, ma piuttosto dettava forme melodiche, nel tentativo di rappresentare la coesione organica di un pezzo. Uomo di pochissime parole, Furtwängler era famoso per la sua profonda incapacità di dare spiegazioni: il suo allievo Sergiu Celibidache ricorda che la frase più esplicativa che riusciva a dire era «Bisogna solo ascoltare». Carl Brinitzer, della BBC, volle intervistarlo e pensò di avere di fronte a sé un imbecille. Una registrazione dal vivo di una prova con un'orchestra di Stoccolma documenta che Furtwängler non spiegava nulla, ma si limitava a mormorii senza significato apparente. La discografia di Furtwängler. La discografia di Furtwängler è abbastanza vasta, anche se il gran numero dei dischi ed etichette trae in inganno e rischia di far smarrire chi voglia conoscere in profondità le sue incisioni: molte sono registrazioni duplicate di versioni precedenti, anche se talvolta presentano nuove tecniche di restauro che ne migliorano l’ascolto. Le registrazioni dal vivo durante la guerra (dal 1942 al 1944), in particolare quelle di Berlino, hanno una dimensione artistica ed emotiva diversa. C'era più sensibilità nei momenti emotivamente impegnati, una furia scatenata che confinava con l'isteria e che cresceva sempre più forte e più feroce quanto più la Germania cadeva rovinosamente nell'oscurità dell’ideologia nazista. La maggior parte delle registrazioni che sopravvissero agli anni della guerra proviene da performances riversate sul nastro magnetico, tecnica sviluppata dai tedeschi e utilizzata dal Reichs Rundfunk-Gesellschaft (la compagnia radio statale) per trasmettere concerti su radio, e nei tempi moderni rielaborate e masterizzate su digitale. Questa era la modalità di incisione: un solo microfono principale sul podio, altri tre distanziati in fondo alla sala, omnidirezionali sicché raccoglievano i brusii ed i rumori del pubblico. Il suono veniva inviato attraverso la linea telefonica alla sede della radio di Berlino, dove
46
veniva registrato su nastri magnetici a bobina a base di ossido di ferro, e quindi trasmesso via etere. Dei 49 pezzi registrati, molti dei nastri sono andati perduti, danneggiati o cancellati per il riutilizzo, i rimanenti vennero sequestrati dalle forze di occupazione sovietiche. Dopo aver generato numerosi LP in vinile in Russia, 22 nastri vennero restituiti a Berlino nel 1987, e nel 1989 furono editi 10 CD Deutsche Grammophon (ora fuori stampa); molti altri sono stati invece stampati nella etichetta American Music & Arts, che vanta trasferimenti di gran lunga
migliori, e il cui catalogo contiene i migliori lavori di Furtwängler. Certamente l’ascolto al giorno d’oggi non può non risentire del fatto che queste registrazioni furono prodotte per sostenere ed aumentare il morale delle truppe di combattimento tedesche, e che i rumori del pubblico (colpi di tosse compresi) erano quelle dei gerarchi nazisti, ma in ogni caso l’ascoltatore moderno deve mettere da parte (ma non dimenticare) la correttezza politica e lasciarsi conquistare dal fascino di ognuna di queste registrazioni, alcune delle quali hanno un’intensità senza pari.
Le interpretazioni più memorabili di Furtwängler sono legate alla letteratura sinfonica tedesca del XIX secolo, in particolare Beethoven, Brahms e Bruckner. In quest’articolo presento una lista delle incisioni di Furtwängler che preferisco: essa non è esaustiva di tutte le interpretazioni del Maestro, ma ha il pregio di offrire (la speranza non muore mai…) spazio e spunti ad una discussione tra gli Amici del Vinile. Devo comunque ammettere, in tutta sincerità, che non posseggo la maggior parte delle ristampe se ho già una precedente edizione, ed è probabile che nuove etichette (negli ultimi tempi vi è stata una riscoperta di Furtwängler e sono numerose le nuove edizioni) diano una resa di ascolto migliore. Chi volesse consultare la discografia completa di Wilhelm Furtwängler può consultare questo indirizzo web: https://www.discogs.com/it/artist/839640-Wilhelm-Furtw%C3%A4ngler Ludwig van Beethoven: Sinfonia n° 3 Questa incisione è del Dicembre 1944 ed appartiene al periodo delle registrazioni realizzate durante la guerra. Furtwängler dirige i Wiener Philharmoniker: questa leggendaria interpretazione (edizione di riferimento tra le registrazioni della 3a ) è caratterizzata da un sottofondo teso e nervoso, senza pari in qualsiasi altra registrazione del maestro berlinese. [Music & Arts 814]
47
Ludwig van Beethoven: Sinfonia n° 7 In questa registrazione con i Berliner Philharmoniker, troviamo un Beethoven più profondo e meditativo, a differenza di altri direttori che tendono a far emergere solo la grazia lirica. Anche questa sinfonia è stata registrata durante la guerra (Berlino, 3 ottobre 1943). [Deutsche Grammophon 427 775-2] Ludwig van Beethoven: Sinfonia n° 9 Di questa sinfonia ben tre sono le incisioni indimenticabili (e assolutamente da possedere!) di Furtwängler. ♫ La prima è del 22 Marzo 1942, nella quale il Maestro dirige a Berlino i “suoi” Berliner Philharmoniker. E’ una registrazione portata via dai sovietici nel 1945 e restituita alla Germania solo nel 1991. E’ una lettura dalla furia ciclonica, spaventosa ed estenuante, intrisa di tormento, rabbia e un senso di lotta. Chi l’ascolta viene rapito dall'atmosfera allo stesso tempo cupa e rovente, dovuta all'incisività del fraseggio degli archi, all'enfasi conferita agli sforzando, all’inesorabilità dei timpani, alla concitazione di certi passaggi, alla densità inesorabile che viene data alle pause, in altre parole a scelte espressive e drammaturgiche che Furtwängler è riuscito a comunicare appieno ai suoi orchestrali. I critici attribuiscono questo approccio alla consapevolezza di Furtwängler che una delle più nobili espressioni dello spirito umano proveniva da un Paese impegnato in alcune delle peggiori atrocità del XX secolo. Questa lettura si dimostra un esempio sorprendente della capacità di Furtwängler di interiorizzare completamente e rigenerare un lavoro immane come questa sinfonia, tentando, attraverso la musica, di ribellarsi agli eventi che lo circondano. [Berliner Philharmoniker. Bruno Kittel Choir. Tilla Briem, Elisabetta Höngen, Peter Anders, Rudolf Watzke - Music & Arts 653] ♫ La seconda splendida lettura della Sinfonia n° 9 fu registrata il 29 luglio 1951 con la Bayreuth Festival Orchestra, in occasione della “riconsacrazione” del Festival Hall a Bayreuth. Inaugurato 75 anni prima da Richard Wagner per la presentazione delle sue opere, Bayreuth era diventato l'incarnazione della cultura musicale tedesca. Furtwängler, paradigma della tradizione classica tedesca, fu la scelta più ovvia per riaprire il teatro. L'occasione ebbe per lui un profondo significato personale: come la riapertura simboleggiò il riemergere della cultura tedesca dalle
48
ceneri della politica di guerra, così per il Maestro fu la conferma del pensiero di libertà al quale aveva aderito durante la guerra e per il quale aveva sofferto in maniera così intensa e tragica. Rispetto alla stupefacente versione del 1942 di Berlino, questa versione si pone in un contrasto evidente: la furia ha ceduto alla spiritualità, la forza selvaggia si è evoluta in emozioni umane. Se la prestazione di Berlino è stata un grido di disperazione, il concerto di Bayreuth è una conferma del trionfo finale dello spirito dell’Arte. Che un singolo direttore possa produrre due interpretazioni così radicalmente diverse (anche se in due fasi storiche differenti) ma ugualmente convincenti della stessa composizione, parla non solo della profondità del suo talento ma anche della complessità del percorso emotivo e artistico che aveva attraversato. [Coro ed Orchestra del Festival di Bayreuth. Elisabeth Schwarzkopf, Elisabeth Höngen, Hans Hopf, Otto Edelmann. EMI CDH 7 69801 2] ♫ La terza lettura (Lucerna, Luglio 1954), secondo la vedova di Furtwängler, era quella preferita dal Maestro. L’interpretazione è piena di emozioni intense, intrisa di quella tragicità di chi sapeva di essere prossimo alla morte (egli morirà pochi mesi dopo, e gli artisti erano tutti a conoscenza della sua salute precaria). Troviamo in questa sua performance una grande forza e energia, così come anche dolore e tenerezza: Furtwängler ha voluto sollecitare i suoi musicisti a dare tutto. La performance è stata registrata dal vivo al Festival di Lucerna, quindi naturalmente ci sono alcuni attacchi imprecisi, alcuni passaggi approssimativamente suonati; inoltre, vi sono numerosi rumori di pubblico. Tecnicamente però è una interpretazione straordinariamente quasi perfetta per una registrazione ADD, con grande chiarezza negli strumenti di legno, un suono penetrante negli ottoni e una brillantezza lussureggiante negli archi. Il quartetto di voci soliste composto da Elisabeth Schwarzkopf, Elsa Cavelti, Ernst Haefliger e Otto Edelmann è di alto livello, e il coro del Festival è uno dei migliori gruppi corali della nona beethoveniana nel Novecento. Il Finale è meraviglioso, soprattutto per merito dell'interpretazione estatica di Furtwängler e dell'ampia gamma di potenza espressiva dell'orchestra, dal sottovoce della prima apparizione del famoso tema Inno alla gioia alla conclusione maestosa e travolgente. Nel complesso, questa è una delle registrazioni più belle di Furtwängler, e merita chiaramente un posto permanente nei cataloghi delle case discografiche, una delle ragioni chiave per cui viene regolarmente ristampato. [Alliance – B000001OFV]
49
Ludwig van Beethoven: Fidelio Beethoven nel Fidelio estese la sua arte oltre i limiti angusti di una composizione musicale e volle toccare il cuore e la coscienza di ogni essere umano: le emozioni espresse in tutta questa musica sono i fondamenti di una religione dell’umanità. Non è un caso che le vere grandi registrazioni di Fidelio (Toscanini, Furtwängler, Bernstein) sono state tutte registrate da uomini di profonda coscienza sociale e politica. Nelle mani di Furtwängler l’unica opera lirica di Beethoven trascende il suo libretto per diventare un documento morale di amore eterno per l’umanità e di fede per sconfiggere i mali della politica e dell’odio. Ogni frase musicale e ogni parola diventano una fervente preghiera per l’umanità. [Cast formidabile in una rappresentazione al Festival di Salisburgo, 5 agosto 1950: Kirsten Flagstad, Julius Patzak, Elisabeth Schwarzkopf, Anton Dermota, Joseph Greindl, Paul Schöffler, Wiener Philharmoniker. EMI CDMB 7 64901 2] Altra splendida versione è il Fidelio inciso da Furtwängler nell' ottobre del 1953 con il Coro dell'Opera e l'Orchestra della Filarmonica di Vienna. Fidelio è registrato senza le parti dialogate. All' ascolto questo è l'unico difetto: rende quest’opera un’antologia, invece che restituirne il dramma. Ma Furtwängler è strepitoso. Si ascolti l'inizio del secondo atto, tutta l'aria di Florestan, la discesa nel carcere di Leonore e Rocco. Pochi altri riescono ad esprimere l'’incandescenza di tensione che qui viene raggiunta. Gli interpreti sono di livello uguale al direttore: Wolfgang Windgassen è un grandissimo Florestan, Martha Mödl una eccezionale Leonore. Il duetto del riconoscimento dei due protagonisti è il più bello e travolgente che mai sia stato inciso, e così pure il quartetto che lo precede. [Seraphim IC-6022] Johannes Brahms: Le Quattro Sinfonie; Variazioni Haydn E’ un Brahms profondamente ispirato quello di Furtwängler: ognuna di queste letture, eseguite nel dopoguerra, in una Germania ferita dalle sconfitte della guerra e devastata dai bombardamenti, è di altissimo livello, tutte dirette con vera ispirazione, brillantemente interpretate, ben registrate. [Filarmonica di Berlino (1948-1952). Virtuoso 2699072]
50
Johannes Brahms: Requiem tedesco In questa incisione, eseguita a Stoccolma, Furtwängler rallenta il ritmo a passo d'uomo e fonde le sonorità in una finezza delicata e meditativa: il risultato suscita meraviglia, stupore e un profondo sentimento reverenziale per questo splendido lavoro. Verosimilmente questo afflato deriva dall’ambiente artistico e sociale che trovava nella neutrale Svezia, che rappresentò durante e dopo la guerra al Maestro il suo unico contatto con la musica e gli emissari del mondo libero. Purtroppo del Requiem Tedesco non abbiamo una registrazione integrale degna di questo nome, e quello che ci resta della testimonianza delle esecuzioni di Stoccolma presenta un suono poco accettabile e vale solo come documento. [Stockholm Philharmonic Orchestra e Coro (19 novembre 1948). Music & Arts CD-289] Anton Bruckner: Sinfonia n°9 A differenza delle altre prestazioni in tempo di guerra, questa incisione del 7 Ottobre 1944 fu eseguita in diretta ma senza pubblico. Nata per la radio in un vuoto Berlino Beethovensaal, non ci sono colpi di tosse o altri rumori per distrarre l'ascoltatore da quella che è sicuramente una delle migliori interpretazioni di tutti i tempi da parte di uno dei più grandi direttori. Il suono è chiaro, eccezionalmente pulito, pieno e più presente di qualsiasi altra registrazione, con solo una lieve distorsione del suono ai toni più alti. Gli unici testimoni furono i microfoni, per preservare l'evento per la trasmissione, ma in un senso più profondo c'era un altro partecipante essenziale, Bruckner stesso. I caratteri peculiari della musica di Anton Bruckner nascono direttamente dalla sua personalità umana: egli era un uomo semplice di campagna, candido ed ingenuo fino in fondo, privo di travagli interiori, profondamente mistico e col pensiero costantemente rivolto alla religione, che sentiva con convinzione sincera. Tutta la sua musica è un inno alla divinità, una mistica contemplazione ultraterrena, un omaggio puro e sublime a Dio: per questo oggi appare molto lontano dalla nostra sensibilità moderna, ma purtuttavia egli ci attrae con le sue interminabili sinfonie e con i grandiosi inni corali. La 9° e ultima sinfonia (rimasta incompiuta) fu però percorsa dai profondi tormenti legati alla grave malattia che affliggeva il compositore, dal terrore della fine imminente e dalla prostrazione di non riuscire a capire come Dio non gli desse la forza e l'ispirazione per finirla. Lo stesso travaglio che aveva colpito anche Furtwängler.
51
Per tutto il XIX secolo, l'esecutore regnava sovrano, e la fedeltà alle intenzioni dei compositori era un concetto estraneo, nella migliore delle ipotesi di interesse puramente accademico. Anche Furtwängler si muoveva su questa linea, ma in questa sinfonia il suo tormento personale coincise proprio con quello di Bruckner, sicché la sua performance è quanto di più vicino possibile ad una perfetta fusione tra compositore ed esecutore. Già dal primo movimento si avverte la profondità di questo travaglio. La Filarmonica di Berlino è pienamente sotto il controllo del suo Direttore ed il suo insieme si fonde perfettamente raggiungendo altezze terrificanti, eppure il ritmo è così instabile che nessuna nota cade proprio dove i suoi predecessori avrebbero suggerito, come per riflettere la disperazione nervosa dell'intera orchestra. Furtwängler sbriciola il primo movimento in decine di frammenti inconcludenti, sconvolgendo deliberatamente lo stato d'animo dal lirismo al crudo disordine selvaggio; a volte sembra quasi perdere il suo cammino. Il movimento finisce in urla di trombe, una scossa primordiale di incontrollabile terrore, a riprova di quanto Bruckner e Furtwängler abbiano affrontato la paura più terribile di tutti: che alla fine delle loro lotte ci sia solo un vuoto. Furtwängler porta i movimenti successivi ad una corsa frenetica e vertiginosa verso la dannazione, poi, gradualmente, costruisce l’adagio finale in una terribile dissonanza, dopo di che i frammenti musicali brancolano e si appassiscono in un silenzio eterno. [PASC 251]
Richard Wagner: L’Anello del Nibelungo
Il pubblico tedesco identificava l’arte di Furtwängler con la musica di Wagner. Il vertice dell'arte di Wagner era L'Anello del Nibelungo, un continuum di quattro opere della durata di oltre quindici ore, che raccontano una storia mitologica ricca di più sentimenti: l'amore, l'avidità, il tradimento e la rovina. Le straordinarie richieste vocali e sceniche rendono la rappresentazione anche di un solo Anello abbastanza rara, ma Furtwängler riuscì ad organizzare nel dopoguerra ben due cicli completi in Italia, un vero e proprio testamento di amore per gli italiani amanti della lirica. Il primo Anello di Furtwängler venne registrato dal vivo nel 1950 presso il Teatro alla Scala di Milano, il secondo venne trasmesso da Roma alla RAI nel 1953, un atto a notte. L’incisione della Scala è più veloce e offre l'emozione spontanea di un vero e proprio spettacolo d'opera (così come i difetti di esecuzione ed il rumore del pubblico), mentre l’esecuzione di Roma è più rilassata e meglio registrata. Per alcuni appassionati d’opera, la scelta su quale sia la migliore esecuzione è dettata dalla protagonista femminile, l'algida bellezza di Kirsten Flagstad nel 1950 o la più ruvida arte drammatica di Martha Mödl nel 1953.
52
Richard Wagner: Le Valkirie, La cavalcata Delle Die Walküre di Wagner abbiamo una spettacolare ed avvincente registrazione di Furtwängler
eseguita a Londra nel maggio 1937. Il terzo atto inizia con la famosa "Cavalcata delle Valchirie" (spesso eseguito come brano orchestrale a se stante): nella scena otto guerriere-sorelle arrivano ad una cima rocciosa e si vantano delle loro imprese: l’effetto è davvero emozionante, con le protagoniste (voce di soprano) che cantano in modo possente sopra l’orchestra. E’ una scena ricca di fervore, nessun altro direttore ha saputo sviluppare questa tensione. Furtwängler inizia la “sua” Cavalcata a ritmo veloce, drammatico, per poi rallentare gradualmente, sicché Brunhilde non arriva ad esprimere, come al solito, gioia e possanza, ma è quasi schiacciata dalla tragedia imminente. Come con il Fidelio beethoveniano, non vi è nulla nella partitura che suggerisca questa interpretazione. [Royal Opera House Ensemble, dir. Wilhelm Furtwängler; Kirsten Flagstad, Maria Müller, Lauritz Melchior, Herbert Janssen, Rudolf Bockelmann, Kerstin Thorborg. Live, maggio 1937, Covent Garden, Londra (Myto records, MCD 914-43)]
Richard Wagner: Tristan und Isolde
I critici concordano sul fatto che questa incisione del Giugno 1952 è una delle più grandi registrazioni d'opera mai realizzate, in cui i vasti spazi di Wagner sono unificati con visione convincente. Nel terzo atto è reso al massimo il tormento allucinato di Tristano. [Philharmonia Orchestra. Kirsten Flagstad, Ludwig Suthaus, Blanche Thebom, Dietrich Fischer-Dieskau, (giugno 1952). EMI CHS 7 473222 8]
53
L’Orchestra del Reich
54
L’Orchestra Filarmonica di Berlino fu fondata nel 1882 come associazione musicale indipendente, autonoma, i cui azionisti erano gli stessi musicisti, e divenne ben presto l’istituzione culturale tra le più prestigiose della Germania. Nel 1933, quando Hitler divenne Cancelliere del Reich tedesco, i Berliner Philharmoniker attraversavano una gravissima crisi economica: la loro scelta orgogliosa di mantenere l’autonomia gestionale non era più sostenibile finanziariamente, e i sussidi che ricevevano non erano sufficienti a garantirne l’esistenza. Joseph Goebbels, potentissimo Ministro per l’Educazione del Popolo e la Propaganda (Reichsministerium für Volksaufklärung und Propaganda), intuì che i Berliner Philharmoniker potevano diventare un formidabile strumento di diffusione di una grande e nobile Germania, sia in patria che all’estero, in modo da “patinare” l’immagine stessa del Nazismo: decise quindi non solo di salvare l’orchestra, ma di farne una branca del proprio ministero. I musicisti persero la propria indipendenza ma acquisirono dei privilegi impensabili: salari regolari e generosi, prestigio, fama e (cosa importantissima) lo status di «indispensabili alla Nazione», titolo che comportava l’esonero dal servizio militare ed anche civile. L’esenzione dalla leva militare fu confermata fino agli ultimi giorni antecedenti la caduta di Berlino. La storia dei Berliner Philharmoniker, negli anni che vanno dal 1933 al 1945, fu un vero e proprio patto faustiano tra la più importante istituzione musicale della Germania ed il Nazismo, e può essere letto più
in
generale
come
una
storia
emblematica dell’ambigua relazione che in determinate circostanze storiche può instaurarsi tra arte e dittatura. [Adolf Hitler ed Hermann Goering applaudono i Berliner Philharmoniker diretti da Furtwängler]
Niente era lasciato al caso nella politica culturale di Goebbels. Il Nazionalsocialismo considerava l’arte, ed in particolare la musica, come espressione di una lunga e gloriosa tradizione culturale, capace di suscitare e rafforzare un potente senso di unità nazionale, e per questo motivo i Nazisti consideravano i Berliner ed il loro Direttore Furtwängler una componente essenziale per promuovere una immagine positiva e grandiosa della cultura tedesca. Negli anni del Terzo Reich i musicisti suoneranno, in patria e all'estero, su ordine di Hitler, ai raduni del partito a Norimberga, in occasione dell'apertura dei Giochi Olimpici del 1936 a Berlino, e più tardi anche nei territori occupati. L’orchestra, sotto le direttive politiche di Goebbels, e con
la direzione artistica di Wilhelm Furtwängler, divenne una perfetta, efficientissima macchina di propaganda specialmente all’estero, ricoprendo il ruolo di ambasciatore culturale della bandiera della Germania nazista: furono numerose le tournée internazionali prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. Tra i Berliner - che si chiamavano ora ufficialmente Reichsorkester (Orchestra del Reich) - e Goebbels all’inizio i rapporti non furono idilliaci: Furtwängler rivendicava piena autonomia nel decidere i programmi dell’orchestra. Poichè i nazisti si consideravano i guardiani dell’eredità culturale dei tedeschi e si opponevano alle novità, quando nel 1934 fu proibita a Furtwängler la direzione della prima mondiale dell’opera Mathis der Maler di Paul Hindemith, considerato dal regime un “musicista degenerato”, il Maestro si dimise, fatto che allontanò il pubblico dai Philharmonische Konzerte. Ben presto si giunse però ad un compromesso: il Maestro era libero di decidere la programmazione nell’ambito del grande repertorio musicale tedesco con qualche incursione anche nel repertorio contemporaneo (ma si escludevano, naturalmente, artisti e compositori non graditi al Regime). Le composizioni di Gustav Mahler, Felix Mendelsshon,
Jacques
Offenbach,
Arnold Schönberg furono bandite dai programmi anche se alcuni di questi compositori avevano solo esili legami con l’ebraismo. Gli orchestrali ebrei e anche coloro che, pur non ebrei ma sposati con donne
ebree,
vennero
costretti
ad
emigrare. Nei giorni della disfatta, nella Berlino ridotta a un cumulo di macerie dalle bombe americane ed inglesi, e con gli adolescenti che venivano mandati contro i carri armati dell’Armata Rossa arrivati a pochi chilometri dalla capitale, mentre tutte le attività di spettacolo venivano abolite, i Berliner continuarono a esibirsi, ospiti prima della Staatsoper e poi dell’Admiralspalast, come ultimo baluardo della cultura tedesca. Gli ultimi concerti dei Berliner Philharmoniker si svolsero la seconda settimana di aprile del 1945: le note di Beethoven, Wagner, Weber e Brahms risuonarono nella Beethoven-Saal non riscaldata, di fianco alla Philharmonia distrutta. Furtwängler era fuggito in Svizzera vari mesi prima. L’ultimo brano eseguito dall’orchestra fu una scelta simbolica e sentimentale: Morte e trasfigurazione di Richard Strauss.
55
Musica classica e cinema ARANCIA MECCANICA, di Stanley Kubrick Nella poetica cinematografica di Kubrick la musica è una presenza determinante, ha quasi sempre un ruolo centrale e comunque è tutt'altro che ornamentale. Stanley Kubrick è stato forse il regista che più di tutti ha coltivato il mondo della musica classica; la sua non è stata una scelta nobilitante o snobistica, e può essere meglio chiarita dalla seguente dichiarazione del regista: “Per quanto bravi possano essere i nostri migliori compositori, non sono certo un Beethoven, un Mozart o un Brahms. Perché usare della musica che è meno valida quando c’è una tale quantità di grandi musiche del passato e della nostra stessa epoca, che si possono utilizzare?”. A clockwork orange (Arancia meccanica) è un film del 1971, tratto dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess, del 1962, che così spiegava il significato della sua opera: «Nel 1945, al ritorno dal fronte, in un pub di Londra ho sentito un cockney (espressione usata dagli inglesi per indicare un londinese) ottantenne dire di qualcuno che era sballato come un'arancia meccanica. L'espressione m'incuriosì per la stravagante mescolanza di linguaggio popolare e surreale. Per quasi vent'anni avrei voluto utilizzarla come titolo per qualche mia opera: ne ho avuto poi l'occasione quando ho concepito il progetto di scrivere un romanzo sul lavaggio del cervello. Quindi Arancia meccanica è inteso come qualcosa di puramente naturale (arancia) al quale vengono imposte regole statiche, come se essa fosse, appunto, meccanica. Questo è contro natura. Più di ogni altra cosa, nella mia storia, volevo dire che Dio ha dato all'uomo la libertà di scegliere fra bene e male, e che si tratta di un dono meraviglioso.» [Chi volesse leggere il romanzo: Anthony Burgess, Arancia meccanica, traduzione di Bossi F., Collana: Super ET, Einaudi, 2005, ISBN 88-06-17356-1]. Nel 1998 l'American Film Institute l'ha inserito al 46° posto della classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi mentre dieci anni dopo, nella lista aggiornata, è sceso al 70° posto. Questa pellicola ha sempre diviso gli spettatori per le scene di cruda violenza in essa inserite.
56
Trama. Nella zona della Grande Londra vive Alex (interpretato da Malcom Mc Dowell), un giovane teppista inglese con la bombetta capo della banda criminale dei Drughi, con i quali compie rapine, omicidi, violenze sessuali. «Eccomi là. Cioè io, Alex, e i miei tre Drughi. Cioè Pete, Georgie e Dim. Ed eravamo seduti nel Korova Milkbar, arrovellandoci il Gulliver per sapere che cosa fare della serata. Il Korova Milkbar vende lattepiù, cioè diciamo latte rinforzato con qualche droguccia mescalina,
che
è
quello
che
stavamo bevendo. È roba che ti fa robusto, e disposto all'esercizio dell'amata ultraviolenza». Il suo interessa va però anche a Beethoven, che egli chiama affettuosamente “il buon vecchio Ludovico Van”. In una stessa notte, la banda commette molti atti criminosi: aggredisce un barbone ubriaco a calci e a bastonate, affronta in una rissa una banda rivale, scorrazza per le strade di campagna a bordo di un'auto appena rubata, provocando caos e incidenti, e infine praticando quello che Alex definisce il numero "visita a sorpresa", che consiste nel recarsi in una casa, in questa occasione nella villa dello scrittore Frank Alexander, per rapinare e, nel caso, aggredire gli abitanti. In questa circostanza, Alex, aiutato dai Drughi, prima malmena lo scrittore e poi, cantando Singin' in the rain, ne violenta la moglie. Dopo aver violentemente affermato con i suoi soci la sua leadership, la sera dopo Alex e i suoi tre Drughi decidono di rapinare, con le stesse modalità della "visita a sorpresa", una casa adibita a clinica
per
dimagrire,
dove
vive
l'attempata proprietaria, in compagnia solo di un grande numero di gatti. I quattro si presentano alla porta ma la donna,
allarmata
dal
precedente
episodio di violenza appreso dai giornali, decide di non aprire e di chiamare la polizia. Alex nel frattempo è già entrato da una finestra e, nella colluttazione che ne segue, colpisce a morte la donna. Una volta uscito dalla casa, viene colpito a tradimento, per vendetta, da Dim, uno dei tre Drughi, che lo ferisce in faccia con una bottiglia di lattepiù, e lo lascia tramortito in balia della polizia. Alex finisce in carcere e viene condannato per omicidio.
57
Durante la detenzione viene a conoscenza di un'iniziativa del nuovo Governo in carica, che promette la scarcerazione immediata a patto che ci si sottoponga a un innovativo programma di "rieducazione", il Trattamento Ludovico. Alex si fa quindi notare dal Ministro degli Interni in visita al carcere, viene scelto per il trattamento e, con il pensiero rivolto alla scarcerazione, accetta tutte le condizioni. Viene trasferito in un centro medico dove inizia la cura, la quale consiste nella somministrazione di farmaci unita alla visione di filmati dove sono contenute scene di violenza. La visione delle pellicole è "obbligata" dalla posizione di Alex, posto legato a breve distanza dallo schermo e con delle pinze che lo costringono a tenere gli occhi aperti: la visione dei filmati, insieme all'effetto dei farmaci, inizia a provocare in lui delle sensazioni di dolore e di nausea che tendono ad aumentare a mano a mano che il trattamento prosegue fino a coinvolgere, oltre alle immagini di violenza e di sesso,
anche
la
musica
di
sottofondo della proiezione che, durante la visione di un documentario su Hitler e le follie naziste, è la nona Sinfonia di Beethoven. Il Trattamento Ludovico ha effetto, l’istinto violento di Alex è abolito. [Da un punto di vista filosofico, Kubrick introduce, attraverso il Trattamento Ludovico, il tema del libero arbitrio, che così come sostenuto dal cappellano della prigione, diviene il fondamento dell'umanità. Proprio il religioso, opponendosi alla Cura Ludovico, affermerà: «Il ragazzo non ha una vera scelta! Se cessa di fare il male, cessa anche di esercitare il libero arbitrio. Quando un uomo non ha scelta, cessa di essere uomo».] Rientrato in società, Alex subisce un capovolgimento della sua vita, è ormai innocuo ed indifeso, e diventa vittima dei suoi stessi carnefici (dai genitori, al barbone, dai suoi amici divenuti policemen, sino allo scrittore Alexander, ora invalido e vedovo dopo la morte della moglie, dovuta allo shock che la donna ha subito durante e dopo lo stupro): la loro vendetta arriverà a spingerlo a tentare il suicidio. Alex si risveglia molto tempo dopo in un letto d'ospedale, dopo un lungo coma. Si accorge di non provare più il malessere che accompagnava la propria aggressività, mutamento dovuto probabilmente allo shock intervenuto a seguito del tentato suicidio e alle successive cure ricevute. La stampa, venuta a conoscenza dell'accaduto, attacca duramente il governo per i metodi coercitivi usati su di lui. Per soffocare lo scandalo e per evitare la propria rovinosa caduta, il governo, in cambio del silenzio sugli effetti negativi della cura Ludovico, concede ad Alex di
58
collaborare con lo Stato e lo nomina Capo della polizia. Inizia così la nuova vita di Alex, il quale la immagina fatta sempre di sesso e musica, ma libera dalle angosce dovute alla legge, poiché egli ora lavora per essa, una posizione ideale per lui: esercitare violenza in modo legale. ♪♪♪ Mai come in "Arancia meccanica" il sonoro è centralizzante, a cominciare dalla musica che ricopre i tre quarti della durata complessiva dell'intero film e proseguendo con l'uso futuristico e anticonvenzionale del parlato. Il capolavoro "violento" di Kubrick ruota attorno alla dissacrazione impertinente della musica classica (rielaborata dal musicista Wendy Carlos) di Rossini, Beethoven, Purcell, Elgar, ben diversa dall'ossequiosa riverenza ad essa tributata in 2001: Odissea nello spazio (1968). Già all’inizio del film ci troviamo immersi nell’atmosfera classica con la Musica per il funerale della Regina Maria composizione di Henry Purcell, che accompagna l’autopresentazione di Alex e si ripresenterà in altre sequenze sempre associate al Korova Milk Bar, luogo di ritrovo della banda dei Drughi, di cui diventa una sorta di tema. Questa Marcia, che apre e chiude la composizione di Purcell, rappresenta il primo esempio storico noto di marcia funebre. Trovo dissacrante e geniale accoppiare questa musica spirituale ed ieratica al luogo tetro e punk del bar, quasi a conferirgli una aurea di solennità, come di un tempio religioso, anche se del male. Henry Purcell (1659-1695) è il più grande musicista inglese, ed uno dei più grandi in assoluto. Si cimentò sia in opere teatrali nel nascente genere dell'opera lirica, che in composizioni strumentali. Nei suoi brani incorporò elementi stilistici italiani e francesi, e creò un particolare stile di musica barocca inglese. Grazie al suo talento ebbe l'onore di comporre musica per la famiglia reale, fra le quali anche una composizione per il funerale della regina Maria II d'Inghilterra, moglie di Guglielmo III, (Music for the Funeral of Queen Mary), formata da una marcia, una canzone e un inno per coro e
59
orchestra, che fu eseguita in occasione appunto dei funerali della regina Maria nel 1695, ed in parte alla cerimonia funebre del compositore stesso. Nel film, la marcia introduttiva è stata variata da Wendy Carlos, che l’ha mescolata con l’antico tema del Dies Irae, un tema impressionante che Kubrick riprenderà anche in Shining, sempre con l’aiuto di Carlos. La Marcia funebre di Purcell si ascolta in più momenti: - Titoli di testa, e sin dalla prima scena nel Korova quando presenta Alex e i tre Drughi; il tema è udito ancora più tardi quando i quattro tornano al Milk Bar. - (1h21’) con la donna nuda nel test per monitorare gli effetti del trattamento, cui segue la discussione filosofica tra il Ministro e il Cappellano su libero arbitrio e autodifesa. - (1h35’) quando il protagonista viene picchiato dai due Drughi ormai diventati poliziotti. - (1h57’) senza Dies irae e in arrangiamento leggero, con Alex in via di guarigione dopo la caduta dal tetto dello scrittore. Nella prima parte del film, la versione di Alex come "capo Drugo", istintivo e pieno di pathos ingovernabile è affidato alle pagine di Gioacchino Rossini (1792-1868), con due brani. Il primo è la celeberrima Ouverture della Gazza ladra, che assume fin dall’inizio la funzione di vero e proprio leitmotiv della violenza. La Gazza Ladra è un’opera dai risvolti drammatici, riguardanti la pena di morte. Al tempo in cui viveva Rossini, prima dell’unità d’Italia, in molti posti vigeva ancora la pena di morte, anche per reati da poco come il furto di argenteria. L’opera racconta quindi un fatto vero, anche se incredibile: una ragazza condannata a morte perché creduta ladra, in balia del terribile Podestà. Ci sarà un lieto fine, quando si scoprirà il nido della Gazza. Il ritmo danzante e la vitalità di questo brano appare in più episodi: durante lo scontro con la banda di Billy Boy nel teatro abbandonato, durante il viaggio sulla Durango verso la casa di Mr. Alexander, nella scena in cui Alex pesta i suoi che gli si stavano ribellando e li getta in acqua, nella colluttazione con la signora dei gatti. I rilanci sempre più caricati nel crescendo, l'artificio del ribattuto e la ripetitività tematica, caratteristiche rossiniane, danno alle scene di violenza un paradossale aspetto gioioso e quasi liberatorio. Ancora Rossini con l'Allegro vivace dell’Ouverture del Guglielmo Tell, in versione molto accelerata per accompagnare un amplesso orgiastico ed un dinamismo sessuale irrefrenabile che
60
pervade il rapporto di Alex con due ragazze abbordate in un negozio di dischi (minuto 24 del film): qui troviamo come sempre l'elemento ritmico del crescendo, progressivamente più frenetico e incalzante, che viene spinto a un'esasperata eccitazione musicale, in sintonia con il visivo, finché il ritmo da martellante si fa sovreccitato, mitragliante, a evocare l'inesauribilità di energie del protagonista e la sua ingordigia animalesca. Sempre del Guglielmo Tell, il solo di violoncello che precede il temporale: al minuto 44, nel penitenziario; a 1h28’ per Alex respinto dai genitori, prima nell’appartamento, poi sul ponte fino all’incontro col mendicante. Un'altra operazione dissacratoria viene svolta, in maniera più sottile, con i solenni e nobili brani di Sir Edward Elgar, (1857-1934) uno dei più grandi musicisti inglesi. Di Elgar Kubrick sceglie il suo brano più famoso, “Pomp and Circumstance” (marcia n. 1 e marcia n. 4), solenne composizione cerimoniale che venne utilizzata per l’incoronazione di Edoardo VII e da allora musica simbolo della Monarchia britannica, quasi un secondo inno nazionale. Pomp and Circumstance di Elgar si affaccia nel film imperiosa (seppur caricaturale) come espressione di potere e fedeltà alle istituzioni. Nel film appare al minuto 58, nel carcere, dopo il colloquio con il cappellano, e ancora a 1h05’, il dottor Brodskij e la visita al carcere del Ministro degli Interni. Al minuto 53, nella scena in cui Alex in carcere si immagina come centurione romano, ascoltiamo un breve except (solo di violino) di Sheherazade di Nikolaj Rimskij-Korsakov (1844-1908). Una particolare caratteristica di questo film è il grande amore che Alex nutre verso Beethoven, direi anzi che le note beethoveniane della Nona sinfonia sono il palinsesto principale del film. Kubrick ribalta il significato generalmente connesso alla Nona Sinfonia (stravolta al synthetizer da Wendy Carlos), e in particolare al conclusivo Inno alla gioia, ode alla concordia, all’amicizia e all’ordine. In Alex non troviamo nulla della eroica gioia schilleriana ma semmai una dimensione violenta e distorta, riscontrabile nelle diverse sequenze in cui il pezzo è utilizzato.
61
La Nona Sinfonia si sente bene, senza distorsioni o storpiature, quando vediamo Alex tornare dopo una notte di violenza - nella sua grigia e scalcinata abitazione, dove vive assieme ai genitori. Prima, al bar, un soprano aveva cantato “Alle Menschen werden brüder” (“Che tutti gli uomini diventino fratelli”), inizio del quarto movimento della Nona Sinfonia, e Alex aveva pestato duramente il suo compagno Dim, perché aveva detto: «Basta, ma che cos’è questa roba?». Alex è nella sua stanza, nasconde il bottino
delle
scorrerie
in
un
cassetto, e mette una cassetta (siamo al minuto 18 del film), con la
musica
beethoveniana
(2°
movimento della 9a sinfonia) che termina quando il nostro protagonista esce dalla sua stanza, la mattina dopo. L’immagine e la musica del grande Van riempiono la scena, quasi a dare un’ombra di pace e conforto nella vita sregolata del protagonista (guardate il serpente, i crocefissi oltraggiosi ed oltraggiati, la mise della madre…!). E mentre Rossini ha soddisfatto il suo istinto animale e ingovernabile (la violenza, il sesso), tocca a Beethoven distendere il nostro protagonista tra accattivanti desideri onirici e morbose fantasie. A 1h12’ ancora la 9a durante la cura con il filmato con le parate naziste: Alex si ribella e grida «E’ un delitto usare Ludwig van Beethoven a quel modo! Lui non ha mai fatto del male a nessuno!». Al termine del condizionamento, il suo senso di nausea e malessere sarà associato non solo all’idea di violenza, ma anche al suono di quella musica. Una nota: non solo la nona beethoveniana ma anche la quinta, le cui battute iniziali sono riprese dal campanello della vittima di Alex.
62
63
Gli strumenti antichi : il Salterio Il salterio è un antichissimo strumento a corde, la cui origine risale almeno al 300 a.C. Nella Bibbia, il suo nome è lo stesso che definisce il Libro dei Salmi (“Psalterium”), e questa non è una semplice coincidenza; infatti i salmi sono preceduti da indicazioni sullo strumento che deve accompagnare i cantori, e questo strumento è quasi sempre un salterio. Nelle due immagini in basso vediamo il Re Davide innalzare salmi e odi a Dio: a sinistra una splendida icona tratta dallo “Psalterium ad usum Fratrum Minorum” (MS Lat.771 della Bibliothèque nationale de France) appartenuto a Ferdinando I d’Aragona (Salterio di Re Ferrante); a destra, un’altra splendida icona tratta dal Foglio 1r del Salterio di Pasquasio Diaz Garlon (Vat. Lat. 3467).
Questo strumento, proprio per il suo uso originario, come descritto nei Testi sacri dell’Antico Testamento, è stato sempre definito uno “strumento sacro”, tanto è vero che sono numerosi i codici miniati, gli affreschi ed i dipinti che presentano immagini raffiguranti l’uso di questo
strumento musicale da parte di angeli.
64
In questo bellissimo particolare del dipinto di Hans Memling “Angeli musicanti” (1480 circa), possiamo riconoscere alcuni strumenti antichi: da sinistra, il salterio, la tromba marina da braccio, il liuto, la tromba da tirarsi, il flauto. Per molti storici il salterio è il diretto discendente dell’antico qanùn arabo (cannale in Italia), inizialmente a 10 corde singole (pizzicate da entrambe le mani), successivamente con corde doppie nel 1200 fino a diventare triple già dai primi anni del 1300, che viene suonato tenendolo in grembo. Nel
Medioevo
il
salterio
veniva
utilizzato
nelle
rappresentazioni sia sacre che profane. Nelle rappresentazioni dei drammi religiosi, che si tenevano sulle piazze e sui sagrati delle chiese, i cantori narravano le vicende delle Sacre Scritture con un linguaggio
comprensibile
al
popolo,
che
era
completamente escluso dalle funzioni liturgiche le quali erano sempre celebrate strettamente in latino. Nei canti profani, era tra gli strumenti preferiti da Menestrelli e suonatori di strada che, sia nelle piazze dei paesi che nelle Corti nobiliari, lo usavano per accompagnare la narrazione delle “Chansons de geste”, poemi epici che cantano le imprese dei grandi eroi del passato.
65
Il Salterio si presenta con una tavola armonica in forma triangolare o trapezoidale, con uno spazio centrale dove si trova il foro della cassa armonica, e con due ordini di corde in corrispondenza dei
lati obliqui: le corde (in numero variabile da sei a quindici) sono abbastanza distanziate per essere suonate a pizzico, o con i polpastrelli delle dita come in un'arpa, o utilizzando un plettro. Le corde dello strumento sono fissate a dei pironi laterali e passano su dei ponticelli mobili. Le sue dimensioni sono variabili: abitualmente si tratta di uno strumento sufficientemente piccolo da essere portatile, quindi molto utilizzato anche per accompagnare il canto; vi sono dimensioni più grandi per cui il suonatore appoggiava lo strumento sulle gambe. Nel suo peregrinare per l’Europa, il salterio subisce, tra la fine del 1200 e l’inizio del 1300, una modifica che sicuramente ne migliora le prestazioni foniche: la cassa, da trapezio isoscele con i lati obliqui curvi, si trasforma in un trapezio rettangolo con un solo lato curvo. Lo troviamo raffigurato nel dipinto fiammingo di Van Eyck (XV sec.), conservato al Museo del Prado e intitolato “La fonte della Grazia” [vedi il particolare].
Ci sono molte varianti di questo strumento, stante la sua datazione e diffusione in tutto il mondo. Il salterio ad arco (o cetra triangolare) è solitamente di forma triangolare, le corde sono molto più ravvicinate e su uno stesso piano, e sono suonate per sfregamento con un archetto. Il suo timbro è penetrante e suggestivo, e ricorda da vicino quello di una ribeca: grazie al gran numero
di corde che vibrano per simpatia con quella sollecitata dall'arco, il suono prodotto è ricchissimo di armonici e sembra echeggiare all'interno di uno spazio ampio e vuoto, come quello di una cattedrale. Altra variante è il salterio a percussione (o tympanon), in cui il suono viene prodotto percuotendo le corde con leggeri martelletti ricoperti di stoppa o cuoio. La cassa armonica può essere quadrangolare o triangolare: entrambe hanno una cassa di risonanza piuttosto bassa, dotata di due fori di risonanza (rosette). Le corde sono di natura metallica, e vengono tese alternativamente su due ponticelli, posti uno davanti all'altro, in modo da incrociarle. [Angelo con Salterio percosso, XV secolo, Parrocchiale San Quintino, Mondovì (Cuneo)]
I salteri a percussione venivano suonati poggiandoli orizzontalmente o sulle ginocchia o su un tavolo, o ancora tenuti sul petto per mezzo di una tracolla.
Nel secolo XIV un anonimo liutaio applicò una tastiera a questo strumento, come già si usava nei piccoli organi portativi. Questo evento segna il passaggio dal salterio al clavicembalo, predecessore a sua volta del pianoforte.
[Scultura d'altare - Cattedrale di Minden, Renania- Germania]
Dopo un periodo di scarsa fortuna il salterio tornò in auge in Europa tra il Seicento e l’Ottocento: lo strumento era solitamente di forma trapezoidale e veniva racchiuso in eleganti custodie spesso finemente dipinte.
66
67
[Salterio tedesco con custodia dipinta, 1700 circa]
Giovanni Mazzucco: Ciclo di affreschi della Vita di Maria (1491) – Paradiso (particolare): sono raffigurati saltiero percosso, arpa, saltiero pizzicato, viella. Santuario di S. Maria di Castro Murato (popolarmente conosciuto con il nome del Brichetto), località Morozzo (Cuneo).
68
Pèleri age de vie hu ai e: Latrie suo a u orga o e u cor o; acca to, u salterio (seco da secolo). Bibliothèque municipale, Aix-en-Provence.
Pietro di Miniato (XV secolo): Madonna con Bambino, Angelo che suona il Salterio (particolare) Sesto Fiorentino (Firenze), Oratorio della Madonna del Piano
età del XIV
69
Melomania: le pagine della Musica lirica
Giacomo Puccini Madama Butterfly
GENESI DELL’OPERA Madama Butterfly è un'opera in 2 atti di Giacomo Puccini su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, sottotitolata "Tragedia giapponese in due atti". Puccini non aveva mai visitato il Giappone anche se il viaggio faceva parte delle esperienze esotiche di moda a fine '800, ma l’ispirazione per quest’opera nacque a Londra, nel marzo del 1900,
allorché
assistette
al
dramma
Madame Butterfly messo in scena dal commediografo statunitense David Belasco. Esso era a sua volta tratto da un racconto dal titolo Madam Butterfly dell'americano John Luther Long, il quale aveva preso spunto dai racconti della sorella, tornata da un soggiorno in Giappone. Puccini, senza capire una parola della recitazione perché non conosceva l'inglese, fu intensamente colpito dalla vicenda intima
dei
protagonisti,
dalla
carica
emotiva, dall'ambientazione esotica, tanto che decise di trarne un'opera lirica. Egli era profondamente convinto sia della validità
del
soggetto
esotico
sia
del
potenziale espressivo della giapponesina sedotta,
abbandonata
e
suicida,
tutti
elementi ideali per una vicenda che gli consentiva di sviluppare tutta la sua capacità di commuovere, di esercitare quel “ricatto dei sentimenti” dal quale le platee di tutto il mondo, allora come oggi, difficilmente riescono a sottrarsi, e che gli apparteneva intimamente, come egli stesso ebbe a dire. La scelta del soggetto cadeva dunque su un’opera che aveva già superato il battesimo del palcoscenico e che possedeva già una teatralità esplicita, per la quale la musica sarebbe stata un ulteriore potenziamento. Certamente dovette molto stimolare la fantasia musicale di Giacomo Puccini l’ambientazione esotica, quell’estremo Oriente che, allo scadere del secolo XIX, aveva sostituito – nella “moda” letteraria e teatrale – le turcherie in voga nel Settecento (vedete al proposito quanto da me scritto alle pagine 16-17 del numero 2° degli Amici del Loggione, nella parte riguardante la Marcia Turca di Mozart).
70
Il Giappone si stava affacciando sulla ribalta politica internazionale, e la guerra russo-giapponese del 1905 sancirà questa volontà di emergere del paese orientale; le suppellettili, i paraventi laccati, i delicati acquerelli, alcuni vocaboli (ikebana,
harakiri,
kimono,
obi)
cominciavano a entrare nelle case della borghesia europea e a suggestionare i pittori dell’Art Nouveau e della Sezession viennese.
Anche
numerosi
scrittori
avevano tratto sottili suggestioni da questa terra incantata e misteriosa, delicata e terribile. La cornice orientale, dunque, affascinò intensamente il compositore, tanto che volle documentarsi ampiamente sulle musiche, sugli strumenti giapponesi, giungendo addirittura a citare più di una decina di temi autentici nella nuova partitura. Giacomo Puccini cercò di reperire le informazioni più particolareggiate sul Giappone, i suoi costumi e persino le sue musiche; tramite la moglie dell'ambasciatore giapponese trascrisse alcune melodie di canzoni native, ascoltò dischi giapponesi e si fece correggere i nomi dei personaggi per renderli più realistici.
[Madama Butterfly , Metropolitan Opera di New York]
71
Iniziata nel 1901, la composizione procedette con numerose interruzioni, principalmente quella dovuta alla lunga convalescenza a cui fu costretto Puccini dopo un incidente automobilistico; l’orchestrazione venne avviata nel novembre 1902 e portata a termine nel settembre dell’anno seguente, e soltanto il 27 dicembre del 1903 l’opera poté dirsi completata in ogni sua parte. La sera del 17 febbraio 1904, nonostante l’attesa e la grande fiducia dei suoi artefici, la Butterfly cadde clamorosamente alla Scala di Milano. “Pubblico schifoso, abietto, villano. Neanche una dimostrazione di stima. […]. Alle due siamo andati a letto e non posso chiudere occhio; e dire anche tutti eravamo tanto sicuri! […] Siamo andate là con pochissima trepidazione. Il pubblico è stato contrario dal principio. Ce ne siamo accorti subito. […] e prima che l’opera finisse siamo scappati dal teatro. Povero Giacomo! Oggi è abbattuto e mi fa proprio compassione.” Così, il giorno dopo, commentò l’insuccesso Ramelda, sorella prediletta di Giacomo Puccini, un fiasco tanto sonoro quanto inaspettato per un compositore forte di tre eccellenti successi quali Manon Lescaut, La Bohème e Tosca. Gli attacchi della stampa furono corali: “Grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate,” riferì un cronista – “un pandemonio, durante il quale pressoché nulla fu potuto udire”. L’evento avverso indusse autore ed editore a ritirare lo spartito e a sottoporre l’opera ad un’accurata revisione che, attraverso l’eliminazione di alcuni dettagli e l’opportuna modifica di scene e situazioni, la rese più agile ed equilibrata. Appena tre mesi dopo, il 28 maggio, Madama Butterfly, con lo stesso cast (una decisione coraggiosa e premiante), venne accolta nella nuova veste con entusiasmo al Teatro Grande di Brescia. Tale versione tuttavia non è quella che si ascolta oggi sulle scene, poiché Puccini, nella sua innata incontentabilità, ritornò ancora sullo spartito, tanto che si conoscono addirittura quattro differenti edizioni a stampa.
[Geraldine Farrar nel ruolo di Madama Butterfly, 1907]
72
Nella versione definitiva del 1906 Madama Butterfly divenne in breve volgere di anni una delle partiture più rappresentate di tutta la storia della lirica, anche se alcune riserve sul manierismo dell’opera continuano a essere avanzate dagli studiosi. Madama Butterfly è un’opera di sottile psicologia, fatta di piccole sfumature, il cui rischio era di poter risultare flebile e impalpabile nei confronti con i capolavori del contemporaneo verismo musicale, racchiusa com’era nel microcosmo della casa di Cio-Cio-San e concentrata non su violenti contrasti esteriori, ma su profondi e tragici dissidi interiori. Inoltre è un’opera che ribalta gli schemi drammaturghi tradizionali, poiché il tenore (Pinkerton) non è un uomo sincero ma un egoista che abbandona la scena in preda alla vergogna; il baritono (Sharpless) non è certamente migliore, ammonisce Pinkerton a non essere sconsiderato e insensibile, ma non è capace di fermarlo e anzi brinda con lui; l’interprete principale (Butterfly) è sì una vittima, ma anche un’ingenua colpevole di avere ripudiato famiglia, religione e tradizioni, arrivando ad usare il figlio per tentare di riottenere l’amore del suo sposo. Butterfly alla fine è costretta al suicidio non solo per salvare il proprio onore, ma anche perché è l’unica via di uscita dalla sua prigione interiore. Dopo aver infatti rinnegato la propria origine per sposare un uomo di un’altra razza e di un altro credo religioso, e dopo essere stata per questo ripudiata da parenti ed amici, ella scopre di essere stata ingannata anche dall’uomo che ama, che di fatto l’ha incarcerata nella sua casa, una “terra di nessuno”, un luogo immaginario sospeso in uno “spazio indistinto”, tra il Giappone che la circonda ma non le appartiene più, e l’America sognata che non raggiungerà mai.
73
LA TRAMA Atto I L’azione si svolge a Nagasaki, all’inizio del XX secolo, all’interno di una piccola casa in collina, che Pinkerton ha comprato per la giovane sposa. Originale ed imprevedibile si presenta l’attacco strumentale con cui si apre l’opera, una breve introduzione strumentale in Allegro fortissimo e vigoroso, una fuga scandita su un soggetto frenetico presentato dai violini all’unisono, un tema che tornerà più volte nel corso del I atto. Su una collina presso Nagasaki, Goro, un sensale di matrimonio, mostra al tenente della marina americana Benjamin Franklin Pinkerton la casa da questi acquistata per le sue nozze con la giovanissima geisha Cio-Cio-San, detta Madama Butterfly, procuratagli appunto da Goro. Nozze combinate al prezzo di 100 yen e che verranno celebrate secondo il rito giapponese - non riconosciuto negli Stati Uniti – che permette di ripudiare la moglie anche dopo un mese (cosa che infatti avverrà, con Pinkerton che ritornerà in patria abbandonando la giovanissima sposa). All'ufficiale, Goro presenta Suzuki, serva di Cio-Cio-San. Accompagnato da un nuovo tema in orchestra, esposto prima dai fiati e poi dagli archi all’unisono, giunge intanto Sharpless, console americano, al quale Pinkerton espone, conversando davanti a un bicchiere di whisky, la sua cinica filosofia di «yankee» che vuol godersi la vita, sprezzando rischi e sentimenti altrui. S’è invaghito delle ingenue grazie di Cio-Cio-San e intende ora sposarla, salvo a sciogliere il legame quando vorrà. Sharpless lo esorta ancora a pensarci bene prima di affrontare il matrimonio: «Badate, ella ci crede!», lo ammonisce, ma alla fine alza il bicchiere con Pinkerton che brinda cinicamente al giorno in cui contrarrà matrimonio con una vera sposa americana.
[Arena di Verona, 2014]
74
Dal sentiero che si inerpica sulla collina sta giungendo Cio-Cio-San col corteo nuziale di parenti e di amiche, manifestando la sua felicità. Rallentate anch’esse dalla salita, fanno udire le loro voci molto prima di entrare in scena, cantando soavemente una melodia vaporosa che rende in modo più immediato l’effetto di stupore e di incantesimo. Ed ecco anche Butterfly: prima ancora che compaia in scena, giunge la sua voce, dapprima alternata al coro delle amiche, poi sostenuta da esso. Canta felice e ottimista, nella più radiosa letizia per l’evento che sta per vivere. ♫ “Io sono la fanciulla più lieta del Giappone, anzi del mondo. Amiche, io son venuta al richiamo d’amor… D’amor venni alle soglie ove s’accoglie il bene di chi vive e di chi muor! Amiche, io son venuta al richiamo d’amor, al richiamo d’amor, son venuta al richiamo d’amor!" E’ una magica, efficientissima presentazione del personaggio, che si esaurisce su un ricamo strumentale intessuto da arpa e campanella all’unisono, sostenuti dai flauti. Questa melodia, un vero Cantico dell’Amore, è una delle più belle arie che Puccini abbia mai scritto.
[Teatro alla Scala, Milano. 2016]
Al console che le rivolge qualche domanda, Cio-Cio-San risponde di essere nata a Nagasaki da famiglia un tempo assai prospera, poi finita in miseria, motivo per cui è stata costretta a fare la geisha. Vive sola, con la madre; il padre è morto. Quando le viene chiesta l'età, Butterfly si diverte fanciullescamente a farla indovinare, poi ammette maliziosa di avere 15 anni. «L'età dei giochi» commenta Sharpless con tono severo verso Pinkerton. Giungono quindi la madre di Butterfly e gli altri parenti per la cerimonia, e Pinkerton li osserva divertito.
75
Presentati i parenti, Butterfly trae in disparte Pinkerton per mostrargli alcuni oggetti che ha portato con sé in dote: dei fazzoletti, una pipa, una cintura, uno specchio, un ventaglio, un vaso di tintura per il trucco tradizionale e, infine, un astuccio lungo e stretto, ma alla richiesta di Pinkerton di vedere cosa contiene, essa lo ripone in tutta fretta, dicendo che c'è troppa gente intorno. Interviene Goro e spiega sottovoce che si tratta della lama con cui il padre si è suicidato per volere dell'Imperatore. In attesa dell’inizio della cerimonia, Cio-Cio-San confessa a Pinkerton, a dimostrazione della sua devozione, di essere salita il giorno prima alla Missione per rinnegare la sua fede e farsi cristiana, di nascosto dai parenti, e in particolare del più terribile di tutti, lo zio Bonzo. E’ una lucida scelta di vita la sua, che enuncia su una trascinante melodia [“Io seguo il mio destino…”] basata su un motivo giapponese accompagnato da un’intensa tavolozza orchestrale adornata dai pizzicati dell’arpa; ma è anche una scelta di vita radicale e drammatica, resa con quel finale “Amore mio!” gridato non con gioia ma con vera e sincera disperazione. Si celebrano finalmente le nozze, il console e i funzionari se ne vanno, mentre tutto il parentado si trattiene per festeggiare. Pinkerton cerca di affrettare il brindisi in modo da sbarazzarsene al più presto, impaziente di trovarsi solo con Butterfly. S’ode di lontano la voce terribile dello zio Bonzo, che irrompe furibondo, avendo scoperto che CioCio-San ha rinnegato la fede degli avi. Con voce irata (accompagnata da un’orchestrazione fosca di ampio respiro sinfonica, sostenuta dagli ottoni in crescendo, da lunghi tremolii d’archi, dai colpi dei timpani) comunica che Cio-Cio-San ha rinnegato tutti, famiglia, cultura, religione ancestrale, e perciò quel che merita è di essere rinnegata a sua volta da tutti. Parenti e amici scandiscono a una voce la maledizione del Bonzo. Pinkerton manda via tutti, il ritmo musicale si fa sempre più lento e le voci si fanno sempre più lontane; infine tutto si spegne. Butterfly scoppia a piangere, ma il suo pianto viene placato dalle
ardenti
Pinkerton,
parole
di
infiammato
dal
desiderio. [San Pietroburgo, 2017]
Scende l’oscurità e prende avvio una delle pagine più note dell’opera, un duetto che conduce direttamente alla fine del I atto. ♫ Pinkerton “Viene la sera…” Butterfly “…e l’ombra e la quiete” P. “E sei qui sola” B. “Sola e rinnegata! Rinnegata e felice!”
76
L’ingenua fanciulla risponde teneramente alle appassionate parole del marito che, stringendola in un abbraccio, lentamente, la conduce all’interno della casa. Le ultime battute sono tutte dedicate all’estasi e a un abbandono totale dei due protagonisti, e dopo un fortissimo colmo di passione, arpa, flauto e campanelli gettano nella scena un lampo di colore giapponese, ed infine archi, arpa e legni si spengono lentamente, accompagnando i due sposi mentre entrano in casa. Atto II: Parte I L’interno della casa di Butterfly tre anni dopo. Un flauto intona, subito imitato dagli altri strumenti, un tema musicale che ripete quello dell’inizio dell’opera, ma tutto appare più desolato, privo della vivacità di allora. Bastano poche parole per apprendere che dopo essere partito, Pinkerton non è più tornato e che la sua assenza ha costretto Cio-Cio-San a vivere in condizioni economiche misere. La fedele Suzuki prega davanti alla statua di Budda perché Cio-Cio-San non pianga più: da tre anni la sposa aspetta il ritorno del marito Pinkerton, partito per gli Stati Uniti con la promessa di ritornare a primavera, nella stagione in cui i pettirossi fanno il nido. Butterfly è convinta che un bel giorno dall'orizzonte spunterà la nave di Pinkerton e il suo sposo salirà la collina chiamandola con gli affettuosi vezzeggiativi di un tempo.
[Maria Callas nel ruolo di Madama Butterfly, 1955] Un bel dì vedremo è un'aria-racconto anomala, in quanto gli eventi narrati non appartengono al passato, bensì sono la proiezione fiabesca del desiderio di Butterfly che sogna ad occhi aperti. Drammaturgicamente
costituisce
il
punto
culminante di un'estesa scena a due tra la protagonista dell'opera e Suzuki, durante la quale Cio-Cio-San si sforza di illudere la cameriera e se stessa che il marito, partito per gli Stati Uniti tre anni prima, tornerà da lei. Le parole che la precedono immediatamente - «Ah, la fede ti manca! Senti» - fanno dell'aria, per l'appunto, una dichiarazione di fede. Una melodia seducente e celeberrima. L’aria si apre su un registro molto acuto della voce, mentre un accompagnamento rarefatto la segue adattandosi con naturalezza ai continui mutamenti drammatici e di tensione emotiva.
77
♫ “Un bel dì, vedremo levarsi un fil di fumo dall'estremo confin del mare. E poi la nave appare. Poi la nave bianca entra nel porto, romba il suo saluto. Vedi? È venuto! Io non gli scendo incontro, io no. Mi metto là sul ciglio del colle e aspetto, aspetto gran tempo e non mi pesa la lunga attesa. E... uscito dalla folla cittadina un uomo, un picciol punto s'avvia per la collina. Chi sarà? Chi sarà? E come sarà giunto che dirà? che dirà? Chiamerà Butterfly dalla lontana. Io senza dar risposta me ne starò nascosta un po' per celia, un po' per non morire al primo incontro, ed egli alquanto in pena chiamerà, chiamerà: «Piccina - mogliettina olezzo di verbena», i nomi che mi dava al suo venire. (a Suzuki) Tutto questo avverrà, te lo prometto. Tienti la tua paura… Io con sicura fede lo aspetto.” Sopraggiunge Goro con Sharpless, il quale ha ricevuto una lettera da Pinkerton con un messaggio per Cio-Cio-San. Butterfly è raggiante di gioia e dà il benvenuto al console che è imbarazzato in quanto deve leggere a Cio-Cio-San una lettera nella quale Pinkerton annuncia le sue nuove nozze con una donna americana, con la quale verrà a Nagasaki. Butterfly, d’altra parte, sembra quasi voler ritardare la lettura della lettera con domande d’un patetico candore: quando rifanno il nido i pettirossi in America? Goro, in disparte, fa commenti sarcastici e Cio-Cio-San informa il console di come il sensale insista per trovarle un nuovo marito. Uno dei pretendenti è il ricco Yamadori, che giunge poco dopo in gran pompa accompagnato dai suoi servi, ricevuto da Butterfly con scherzosa impertinenza. Per quante promesse le faccia di esserle eternamente fedele e per quanto Goro ne celebri le ricchezze, Cio-Cio-San non vuole saperne, orgogliosa nella sua tenace convinzione di essere ancora sposata con Pinkerton, anche secondo la legge americana. Uscito Yamadori, Sharpless comincia con imbarazzo a leggere la lettera di Pinkerton, continuamente interrotto da Butterfly che interpreta ogni parola alla luce della sua illusione. Quando il Console giunge alla frase «A voi mi raccomando, perché vogliate con circospezione prepararla…», Butterfly si alza ansiosa e felice credendo che alluda al ritorno del marito. Il Console piega la lettera e la ripone in tasca, poi cerca di farle capire la verità in altro modo: "Che fareste… s’ei non dovesse ritornar più mai?" Cio-Cio-San s’arresta immobile e risponde sommessa che le alternative sono due: tornare a fare la geisha o morire. Sharpless è vivamente commosso e con tenerezza paterna, cercando di toglierle l’ultima illusione, la esorta a pensare a se stessa, al suo futuro, sposando il ricco Yamadori. Offesa, Butterfly chiama Suzuki e le chiede di accompagnare alla porta il console, ma poi all’improvviso corre nella stanza accanto e ritorna trionfante con in braccio un bambino giapponese biondo e con gli occhi azzurri, nato da quelle nozze. La sua esistenza è ignota a Pinkerton, e Butterfly s’affretta a chiedere al console di informarlo, dicendosi certa: se Pinkerton
78
l’ha scordata, potrà scordare anche suo figlio? Il console, profondamente turbato, promette che informerà Pinkerton dell’esistenza del bambino ed esce. Un improvviso colpo di cannone sparato dal porto annuncia l’arrivo di una nave, ed immediatamente si affaccia il “leitmotiv della speranza” (Un bel dì vedremo), esposto da flauto, viole e violini. La nave è militare, sventola la bandiera delle “stelle” e porta un nome che sulle prime non si distingue. Ma quando Butterfly, tremante per l’emozione, finalmente lo legge, «Abramo Lincoln!», la nave di Pinkerton, quello che lancia è un grido di vittoria, uno sfogo orgoglioso: “sol io lo sapevo, sol io che l’amo”.
[Capitol Theatre di Sydney, 2017]
La sua gioia è immensa, irride ai dubbi di tutti, esalta l’amore che trionfa; Butterfly decide di cogliere tutti i fiori del giardino per adornare la casa in onore dello sposo che certamente sta per arrivare. Introdotto da un nuovo tema inizia il poetico “duetto dei fiori”, la cui linea melodica è percorsa da un libero fluire di emozioni sonore, culminante in una tenera cadenza femminile a due voci, Butterfly e Suzuki. ♫ “Tutto, tutto sia pien di fior, come la notte è di faville. […] Tutti i fior, tutti, tutti. Pesco, viola, gelsomin, quanto di cespo, o d’erba, o d’albero fiorì. […] Tutta la primavera voglio che olezzi qui.”
79
80
[Madama Butterfly, disegno di Milo Manara]
Le due donne cospargono tutto con i fiori raccolti, poi Cio-Cio-San, dopo aver indossato l'abito da sposa, e aver vestito con eleganza il suo figlioletto, si accoccola con Suzuki e il bambino in attesa dell'arrivo di Pinkerton. Quando tutti sono pronti al loro posto, inizia il “Coro a bocca chiusa” (che esclude le voci gravi maschili), un brano dall’atmosfera particolare, una ninna-nanna sostenuta con discrezione da una viola d’amore: è un canto rarefatto, intonato a labbra strette, che caratterizza fortemente un’attesa che sembra non concludersi mai, l’ultimo, amaro istante dell’illusione della protagonista. Intermezzo Notevole anche l’ampia pagina sinfonica dell’intermezzo, la più ambiziosa di tutta l’opera, in cui Puccini dà fondo a tutte le sue risorse di sapiente orchestratore, nonché di abile “costruttore a frammenti”. L’attesa di Cio-Cio-San è descritta dall’orchestra attraverso un sagace impiego dei cosiddetti “ritorni logici” dei temi degli atti precedenti, quasi un intenso riaffiorare alla memoria e alla coscienza della donna di tutto un mondo di affetti, di momenti perduti, di sogni. Atto II: parte II A poco a poco la notte si dilegua, giunge l’alba, s’odono di lontano voci di pescatori. Butterfly, sempre immobile, ha vegliato tutta la notte, spia al di fuori; il bambino, rovesciato sul cuscino, dorme, e dorme pure Suzuki. La nascita del nuovo giorno è resa da un corno su un frenetico tremolio di archi, e si tinge del cinguettio degli uccelli (eseguito con particolari fischietti da suonare secondo una partitura meticolosa e ricca di precise indicazioni). Un possente crescendo di vari strumenti propone un tema nipponico, ricco di brio esotico. Suzuki si desta e si preoccupa per la sua padrona, che alla fine si lascia convincere ad andare a riposare un poco, col bambino, con la promessa che verrà svegliata all’arrivo del marito. Ed ecco, accompagnato dall’ampio respiro di un nuovo tema patetico, arrivare finalmente Pinkerton in compagnia di Sharpless e di Kate, la moglie americana, che resta ad aspettare in giardino. Informato dal console del figlio che Butterfly gli ha dato, è infatti salito alla casa sulla collina per convincerla ad affidargli il piccolo, per portarlo con sé in patria ed educarlo secondo gli usi occidentali. Si aggira per la casa, nota i fiori preparati in suo onore la sera prima, ne è turbato. Chiede a Suzuki di non svegliare Butterfly. Suzuki si accorge della presenza di Kate e chiede chi sia. Pinkerton non osa rispondere ed allora è Sharpless a dire la verità. Suzuki grida, alza le braccia al cielo, e si inginocchia disperata: “Alla piccina si è spento il sol!”. Splendida, tragica metafora! Quando apprende da Suzuki come Butterfly lo abbia atteso in quei tre anni, Pinkerton è colpito dal rimorso, ed affranto non riesce ad affrontare la situazione. Dà il suo addio alla casetta con una
81
breve romanza in cui esprime nostalgia per ciò che in essa ha vissuto, e rimorso per essersi approfittato della mitezza e di Butterfly, ed ammette impotente la propria viltà. ♫ “Addio, fiorito asil di letizia e d’amor! Sempre il mite tuo sembiante con atroce strazio vedrò. Addio fiorito asil, non reggo al tuo squallor. Fuggo, fuggo: son vil!” Si compie una delle uscite di scena più anticonvenzionali per un tenore protagonista, che lascia il palco fuggendo per la vergogna. Kate e Suzuki si parlano: la donna americana convince la serva che affidare il bambino al padre e alle amorevoli cure della moglie, sia la cosa migliore per lui. Kate ed il console attendono nel giardino che Cio-Cio-San si svegli e che Suzuki la prepari alla tragica verità. Ed ecco Butterfly entrare in scena come un turbine (l’orchestra l’accompagna con un tema ritmico tempestoso e cupo) malgrado Suzuki tenti di fermarla, vede il console e pensa, in grande agitazione, di trovare anche Pinkerton, magari nascosto per farle una sorpresa. Ma la ricerca è inutile e, mentre la tempesta orchestrale diventa più flebile, Butterfly inizia ad accettare l’evidenza. Intorno a lei si fa un silenzio plumbeo, con poche note di un clarinetto. Scorge invece Kate, sulla terrazza, ed è colta da un tragico presentimento. Interroga Suzuki su Pinkerton mentre fissa, quasi affascinata, Kate e finalmente comprende chi è la donna americana. La sua grande illusione, la felicità sognata accanto all'uomo amato, è svanita del tutto.
[Teatro alla Scala, Milano. 2016]
82
♫ “ Ah! E’ sua moglie! Tutto è morto per me! Tutto è finito! Vogliono prendermi tutto! Il figlio mio! Ah! Triste madre! Triste madre!” Ma Butterfly si sente ancora moglie, e perciò obbedirà alla volontà di colui che considera ancora suo marito. Kate si avvicina e, chiedendole perdono per il male che inconsapevolmente le ha fatto, si mostra amorevolmente disposta ad avere cura del bambino e a provvedere al suo avvenire. Butterfly risponde che accetta di rinunciare al figlio ma solo se sarà il padre a presentarsi, se avrà il coraggio di presentarsi mezz’ora dopo. Poi li congeda. Decide quindi di scomparire dalla scena del mondo, in silenzio, senza clamore. Rimasta sola crolla a terra, ordina a Suzuki di chiudere le imposte per non vedere i segni della vita (la luce e la primavera) che continua, si rassicura che il bambino stia bene e che sia lontano da lei, insiste per rimanere sola: e qui timpani e ottoni si destano per dare peso all’autorità con cui deve imporsi a Suzuki, la quale resiste e piange disperatamente perché intuisce la tragedia imminente. Rimasta sola Butterfly prepara, rapida e determinata, il suicidio. Toglie da uno stipo un gran velo bianco che s’avvolge intorno al collo, estrae dall’astuccio di lacca il coltello con cui suo padre si era ucciso e legge con solennità le parole incise sulla lama: «Con onor muore chi non può serbar vita con onore». Sembrano parole scritte proprio per lei. Essendo una donna, dovrà tagliarsi non il ventre ma la gola (secondo l'usanza giapponese denominata jigai).
[Arena di Verona, 2017]
83
Ma proprio quando sta per compiere l’estremo gesto, inginocchiata davanti all’immagine di Budda, Suzuki compie l’ultimo tentativo di fermarla e spinge nella stanza il bambino. Butterfly lascia cadere il coltello, si precipita verso il piccolo, lo abbraccia soffocandolo di baci e, dopo avergli rivolto uno straziante addio, gli benda gli occhi e lo fa sedere, mettendogli in mano una bandierina americana e un pupazzo. Quindi raccoglie il coltello, si ritira dietro il paravento e si colpisce. Un violento colpo di ottoni e gong annuncia che Butterfly ha compiuto il suo tragico gesto. Butterfly morente si sporge dal paravento e brancolando si muove verso l’ignaro bambino: con un debole sorriso saluta con la mano il figlio e si trascina presso di lui, avendo ancora forza di abbracciarlo, poi gli cade vicino.
[Manifesto per la prima rappresentazione di Madama Butterfly, di Adolfo Hohenstein]
Un nuovo brusco crescendo dell’orchestra accompagna il ritorno in scena di Pinkerton che vuole chiedere perdono: per tre volte chiama Butterfly senza ricevere risposta. La porta si apre violentemente. Pinkerton e Sharpless accorrono presso Butterfly che indica il bimbo e muore. Il bambino, bendato, gioca con la bambola e la bandierina americana, ignaro di tutto. Pinkerton s’inginocchia, mentre Sharpless prende il bimbo e lo bacia singhiozzando.
84
DISCOGRAFIA La quasi totalità delle incisioni di Madama Butterfly è basata sulla quarta versione della partitura pubblicata da Ricordi nel 1906.
Tra le varie numerose incisioni, emerge su tutte l’edizione EMI del 1955 con il binomio CallasKarajan che rappresentò all’epoca un’autentica innovazione di linguaggio ed interpretazione, rispetto alle prove che fino ad allora aveva costruito il personaggio solo sul filone “mammavittima”. Risentire alcuni fraseggi introspettivi della Callas (specie nel II e nel III atto) fa ancora impressione, i silenzi erano eloquentissimi e trafittivi e poco importa che, secondo alcuni, la cantante greca, artista della tragicità imponente, non aveva la voce corrispondente al personaggio (o almeno ad una certa visione di esso). La Butterfly della Callas resta una pietra miliare della discografia e, dei tre incontri documentati in disco con Karajan (Trovatore e Lucia di Lammermoor), è di gran lunga il più ricco di suggestione.
Madama Butterfly con l’Orchestra ed il Coro del Teatro alla Scala di Milano, diretti da Herbert von Karajan con Maria Callas (Butterfly), Nicolai Gedda (Pinkerton) e Lucia Danieli (Suzuki) è disponibile in due edizioni discografiche: EMI-Classics (7243 5 56298 2 1) e Naxos Historical Great Opera recordings (8.111026-27). Una seconda incisione con Freni e von Karajan (1974) è anch’essa eccezionale, una delle pietre miliari dell’interpretazione di Madama Butterfly e non deve mancare nelle collezioni dei veri melomani: le voci sublimi (un’intensa Mirella Freni ed il sensuale e irriflessivo Luciano Pavarotti
85
in stato di grazia, più la sempre grandissima Christa Ludwig), sono perfetti nei loro ruoli rispettivi ruoli. Il duetto finale del primo atto è uno degli ascolti più trascinanti e splendidi! In quegli anni Mirella Freni aveva la voce più adatta che si potesse desiderare per questo ruolo. Aveva infatti 39 anni e aveva già smesso i panni del lirico leggero per affrontare quei grandi ruoli drammatici verso cui la portava il suo temperamento. Mirella era diventata subito nell’immaginario collettivo la Butterfly di riferimento, anche se non ha mai interpretato Butterfly in teatro (!): la sua sorridente bonomia unitamente al dominio tecnico assoluto di una parte terribile la rendeva vincente anche sull’altra grande Butterfly italiana del periodo, Renata Scotto, rispetto alla quale vantava accenti di una sincerità che commuoveva; la Scotto era eccezionale ma non appariva così spontanea. Karajan perfeziona ed estremizza le scelte della prima incisione, e tende ad allargare i tempi senza perdere la tensione narrativa. Bisogna anche aggiungere che nessuno, prima e dopo Karajan, è stato così attento e fedele alle indicazioni espressive della partitura, una lettura minuziosa e raffinata, nonché coltissima, in grado di rendere il delicato equilibrio tra la cultura giapponese della Butterfly e il gusto della musica europea di inizio secolo, già segnato dalla presenza di compositori quali Richard Strauss, Gustav Mahler, Claude Debussy e Maurice Ravel. [Wiener Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan; Mirella Freni (Butterfly); Luciano Pavarotti (Pinkerton), Christa Ludwig (Suzuki). DECCA 0289 417 5772 2] Esiste anche un’altrettanta splendida versione video con lo stesso cast, ma con Placido Domingo al posto di Pavarotti, probabilmente perché più telegenico e attore più completo. La regia di Ponnelle è ricca di inquadrature fantasiose, di sensibili intuizioni, sempre in sintonia con l’esecuzione musicale. Il risultato è uno dei film d’opera più suggestivi e coinvolgenti che si ricordino.
Wiener Philharmoniker diretti da Herbert von Karajan. Cast: Mirella Freni, Placido Domingo, Christa Ludwig. DVD-Video Deutsche Grammophon 0440 073 4037 0
86
Una terza incisione di gran livello è quella della EMI che vede Renata Scotto nel ruolo principale di Butterrfly e Carlo Bergonzi in quello di Pinkerton, con la direzione del grande Maestro John Barbirolli (1967). Scotto ha cesellato una protagonista di grande finezza espressiva, dapprima infantile e smarrita, ma che acquista progressivamente coscienza della sua tragica storia. Poche altre interpreti hanno saputo così profondamente
interpretare
questo
passaggio
da
adolescente a donna. In John Barbirolli è la cura dell’insieme a godere di grande ammirazione. Il direttore mette da parte le esagerazioni di gusto verista per delineare un’atmosfera intimistica e crepuscolare. Teatro dell’Opera di Roma, diretta da Sir John Barbirolli. Cast: Renata Scotto (Butterfly), Carlo Bergonzi (Pinkerton). EMI Classics 7696542 Renata Scotto incise, in maniera superbamente drammatica e più matura, una seconda interpretazione di Madama Butterfly con la direzione di Lorin Maazel. Qui il direttore americano e la Philharmonia trattano la colonna sonora di Butterfly con uno stile e una reverenza grandiosi, come se Puccini stesse evocando un'antica leggenda giapponese. L’orchestra presenta tratti più leggeri ed una levità di timbri, che differiscono sostanzialmente dai toni più caldi e profondi dell’interpretazione di Karajan. Il Pinkerton di Placido Domingo interpreta meglio la spregiudicata spavalderia americana e la spensieratezza del protagonista romantico. Renata Scotto è una Butterfly forte, troppo forte e troppo convincente per essere un'adolescente fragile, innamorata e giovane. Ciao-Ciao San dovrebbe essere una ragazza di quindici anni che crede ingenuamente nella falsa promessa d'amore di Pinkerton. Scotto si avvicina invece al personaggio come una donna che ha una volontà forte ma che ha commesso un grave errore. D’altro canto, non possiamo liquidare Butterfly come una persona debole: era abbastanza forte da sfidare le sue secolari tradizioni familiari e abbandonare la sua nativa religione buddista e convertirsi al cristianesimo per amore di Pinkerton; è risoluta e forte nella pazienza, persino ostinata nel suo amore. Scotto rende la scena finale davvero drammatica ed tesa, senza eccessi e mai al limite dell'isteria. Quando commette hari-kiri è completamente convincente.
87
La Susuki di Gillian Knight è stupenda. È una soprano inglese che canta con dizione chiara, fluidità e toni medi pieni di fascino: è una tra le migliori Susuki in disco, e lei sembra essere sullo stesso piano di Butterfly per quanto riguarda la recitazione. The Philharmonia Orchestra, diretta da Lorin Maazel. Ambrosian Opera Chorus. Cast: Renata Scotto (Butterfly), Plácido Domingo (Pinkerton). CBS Masterworks 79 313 Infine, offre motivi di commenti discordanti la celebre incisione di Giuseppe Sinopoli (1987). Mirella Freni aveva già oltrepassato i cinquant’anni, e questo comporterebbe già di suo notevoli difficoltà nell’affrontare la parte ingenua del ruolo, e cioè in pratica il primo atto e tutte le sciocchezze sui pettirossi che nidificano; ma a ciò si aggiunga la visione del direttore siciliano, che è propriamente la parte che ha destato maggiormente l’interesse della critica. Più giovane di una decina d’anni rispetto alla Freni, forte dei suoi studi di psichiatria e della sua formazione musicale a Darmstadt con Stockhausen e Ligeti, Sinopoli entra come una furia nella partitura di Puccini coll’evidente proposito di far piazza pulita di zii Bonzo, di piccine mogliettine e olezzi di verbena, di abbandoni sognanti. Qui i tempi sono ancora più dilatati (troppo!) rispetto all’interpretazione di Karajan (Decca); Sinopoli propone un originalissimo taglio con un suono denso, talvolta aspro, violento e esasperato finalizzato ad una visione cupa, tragica e desolata dell’opera, da molti critici definita da “psicosi da privazione”. La Freni, come detto prima, appare inadatta nella prima parte “giovanile” dell’opera, mentre nella seconda parte il suo canto diventa sublime come non mai, assecondata anche da un suono dorato, ambrato e luminoso dell’orchestra, che portava tutti (direttore compreso) ad una sincera commozione. Al fianco della Freni, purtroppo, José Carreras mostra terribilmente la corda in un ruolo come Pinkerton di cui, in quel punto della sua carriera, non riesce a trovare la giusta dimensione: la vocalità, provata anche dalla terribile leucemia che lo aggredì proprio in quell’anno e per cui sembrava che addirittura dovesse soccombere, è ormai ai minimi termini, soprattutto nei toni acuti. Qui l’unico suo modo di cantare è il tutto forte, che fa molto “verista” e che, conseguentemente, c’entra assai poco con l’universo ideato da Puccini e con l’ideazione interpretativa particolare di Sinopoli. C’è però da dire che, paragonato a Pavarotti dell’incisione Decca con Karajan, Carreras fa sentire
una
maggior
pertinenza
stilistica
e
psicologica che ci fa dimenticare l’abisso vocale che lo separa dal grande tenore modenese.
88
Eccezionale, da questo punto di vista, il tono smarrito e quasi terrorizzato con cui si aggira per la casetta di Butterfly nel secondo atto, in cui proprio sembra colto dal timor panico nei confronti dell’ombra della donna. Prova quindi ambigua: pessima vocalmente, ma notevolissima quanto ad intenzioni. Philharmonia Orchestra, diretta da Giuseppe Sinopoli. Cast: Mirella Freni (Butterfly), Josè Carreras (Pinkerton), Teresa Berganza (Suzuki). Ambrosian Opera Chorus. Deutsche Grammophon 0289 477 9128 7. Concludo con uno sguardo sulla discografia del decennio ‘50-’60. Ben cantate, ma di taglio tradizionale, le due edizioni con Renata Tebaldi (Erede del ‘51 e Serafin ’58, quest’ultima registrata in stereo), la quale offre in entrambi le incisioni una convincente prestazione dal punto di vista interpretativo.
Magnifica (nell’edizione di Tullio Serafin) è Fiorenza Cossotto, la prima Suzuki degna di essere ricordata. Altre interpretazioni sono quelle della De Los Angeles (diretta da Gavazzeni nel 1954 e da Santini nel 1959), quella della coppia Petrella-Tagliavini (1953, diretta da Angelo Questa) e quella della Moffo (diretta da Leinsdorf, 1958). Tebaldi, Petrella, De Los Angeles e Moffo sono state lo stereotipo della mamma infelice e sventurata alternando l’altisonanza (Tebaldi e Petrella) con la mielosità dirompente (De Los Angeles e Moffo, peraltro limitate vocalmente e nemmeno geniali interpreti). Improponibile ai nostri giorni l’interpretazione di Rosetta Pampanini, leziosa oltre ogni attuale ascolto.
89
90