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IL TEATRO DELLE LIBERTÀ /Teatro

IL TEATRO DELLE LIBERTÀ

di Paola Caridi

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Ha il sapore amaro di un giorno di lutto. Strano, vero? La libertà a teatro può avere il sapore amaro, amarissimo di un giorno di lutto. Era il 4 aprile del 2011. Il Medio Oriente e il Nord Africa erano scossi da venti impetuosi e freschi, i venti delle rivoluzioni arabe. Era caldo, come sempre d’aprile in Palestina. Juliano Mer Khamis stava uscendo dal suo teatro nel campo profughi palestinese di Balata, accanto a Jenin. Il Teatro della Libertà, appunto. Era nella sua vecchia Citroen rossa con il suo bambino, piccolissimo, e la babysitter. Un uomo con il passamontagna lo ha chiamato, e freddato con cinque colpi di pistola.

Perché colpire Juliano Mer Khamis? Indicare le ragioni precise di un omicidio, in questo caso, è ben difficile, visto che non c’è ancora una verità giudiziaria e che non più tardi di due mesi fa decine di artisti israeliani e palestinesi chiedevano ancora, alle rispettive autorità, di trovare i responsabili della sua morte. Di certo, comunque, si sa perché Juliano Mer Khamis era un bersaglio per molti. Perché era impossibile incasellarlo dentro i recinti del conflitto: era molte identità assieme, e soprattutto era libero.

Artista, regista teatrale, attivista, Juliano Mer Khamis era il prodotto di una famiglia di intellettuali e di un matrimonio misto. “Al 100% palestinese e al 100% ebreo”, amava ripetere. Figlio di un palestinese cristiano e di una israeliana ebrea. Figlio di Arna Mer, la donna israeliana che per anni, sino alla sua morte, aveva portato nel negletto campo profughi palestinese di Balata la cultura. E soprattutto il teatro.

L’attività teatrale era stata una vera e propria terapia, per i ragazzi palestinesi (i “figli di Arna”, come recita il titolo di uno struggente documentario post mortem girato proprio da Juliano Mer Khamis in onore di sua madre). Non è un caso che quell’embrione di spazio scenico fosse stato chiamato il Teatro di Pietra, immediato richiamo alla prima intifada del 1987, nota anche come la “intifada delle pietre”. Arte come resistenza, teatro come terapia, spazio scenico come luogo in cui convogliare i sentimenti contrastanti, i conflitti, l’incapacità di comprendere le ingiustizie, il dolore e l’infelicità. Il Teatro di Pietra di Arna Mer, e il Teatro della Libertà che suo figlio Julian Mer Khamis aveva fondato nel 2006, sono stato tutto questo e altro ancora.

Protagonisti, nel caso del teatro di Jenin, sono i ragazzi palestinesi. Dunque ragazzi all’interno d’un conflitto datato, per alcuni versi calcificato. Molti di loro non ce l’hanno fatta, nonostante il teatro: sono morti, sono stati feriti, incarcerati. Non c’è da stupirsi. Non ci dovrebbe essere un mandato salvifico, per il teatro. Questo non significa, comunque, che il teatro non possa assumere una funzione che va oltre l’elemento artistico, o che assieme all’elemento artistico diventi importante, fondamentale per la coscienza di sé. Soprattutto nei ragazzi. Ed è proprio questa funzione complessa che fa paura a molti. Tanta paura che, nel caso di Mer Khamis, era più importante ucciderlo che sopportare il peso culturale del suo teatro, diventato negli anni esemplare, quasi iconico. Oltre i confini del Medio Oriente.

A Jenin, nel campo profughi di Balata, il “teatro della libertà” di Juliano Mer Khamis, così vivace, così autonomo, così libero (appunto) era un pungolo nella società palestinese e nei confronti dell’autorità. Poco lontano da Jenin, stavolta in territorio israeliano, le attività teatrali guidate da Chen Alon fanno altrettanto. Il Teatro polarizzato degli Oppressi è parte integrante della professione di Chen Alon, attivista, ex ufficiale dell’esercito, fondatore di associazioni nonviolente. Attraverso il teatro, il regista e attore israeliano prova non solo a mettere assieme gruppi contrapposti, israeliani e palestinesi, israeliani e rifugiati africani, ma chiede ai partecipanti di entrare nella pelle dell’altro e agire di conseguenza. Essere l’altro, e dunque comprenderlo. Chen Alon arriva a far teatro in luogo a dir poco singolari, come i checkpoint, dove attua non solo e non tanto un teatro-denuncia, ma un teatro che è svelamento di comportamenti ingiusti.

Sono esperienze di confine, osservate da un occhio italiano? O meglio, osservate dall’Italia? La risposta immediata sarebbe sì. Esperienze di confine, in aree di crisi e di conflitto, lontane da noi. Sappiamo bene che non è vero, che il confine e la crisi sono dentro di “noi”, e che altre crisi e altri conflitti e altri confini sono arrivati nei nostri contesti. Sappiamo anche bene che in Italia, soprattutto nelle sue tante periferie, ci sono esperienze incredibili in cui il teatro diviene lo spazio sociale e mentale perché crisi, conflitti, diversità entrino in gioco. E poi vengano sezionate, digerite e rielaborate.

Dove, quando, perché entrano in gioco i diritti a teatro? Sempre. Entrano in gioco sin dalla definizione dello spazio: e cioè sin dalla indicazione di un luogo come uno spazio sociale e artistico, fruibile, comune. È il diritto a partecipare nello spazio comune. Tutto ciò che viene dopo, è la risposta locale, differente a seconda del contesto e delle esigenze. Può essere un teatro che insegna diritti in chiave direttamente pedagogica. Riunisce, cioè, persone, e soprattutto bambini e ragazzi, in uno spazio grande e - perché no - gradevole, per fornire i giusti strumenti: si raccontano i diritti, si interagisce con il pubblico di studenti, si forniscono delle chiavi di lettura. Può essere un teatro che affianca a una offerta di informazione sui diritti un lavoro costante sui diritti attraverso i propri strumenti: le storie rappresentate su un palcoscenico.

È questa la lezione che arriva dai “teatri della libertà”, a Jenin oppure in un altrove ancora anonimo. Recitare in quello spazio è stato, per molti dei ragazzi, costruire la consapevolezza del proprio posto nel mondo, rinsaldare la propria identità, e avere una coscienza diversa e più approfondita dei diritti, propri o altrui. Lo stesso atto di andare a fare teatro, per alcuni ragazzi, era un’affermazione di libertà e di richiesta di diritti.

Siamo capaci di pensare in modo simile anche in Italia? Di dare coscienza di sé a ragazzi poco più che adolescenti, di aiutarli a riannodare il filo con la propria storia? La sfida non è semplice, ma necessario è pensare che l’impegno folle dei Mer Khamis in giro per il mondo riguardi anche l’Europa, e dunque anche l’Italia. La coscienza dei diritti e la loro difesa - non è banale e superfluo ricordarlo - passa anche da un palcoscenico.

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