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Le poche luci e le molte ombre del nuovo corso in Myanmar /Sud Est Asiatico

LE POCHE LUCI E LE MOLTE OMBRE DEL NUOVO CORSO IN MYANMAR

di Paolo Pobbiati

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Quando, il 13 novembre 2010, la leader dell’opposizione birmana e Premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi venne definitivamente liberata dopo più di vent’anni dal primo arresto e le venne consentito di presentarsi alle elezioni suppletive per entrare in parlamento, in molti sperammo che fosse in atto un cambiamento radicale della situazione dei diritti umani in Myanmar. E’ cambiato tanto da allora: molte delle norme che limitavano le attività dell’opposizione e il libero esercizio della libertà di espressione e di associazione sono state abrogate o modificate; Aung San Suu Kyi oggi siede in parlamento insieme ai suoi compagni di partito e gira il mondo promuovendo accordi commerciali e cercando sostegno internazionale per la proposta di abrogare l’articolo della costituzione che ancora le impedisce di concorrere al ruolo di presidente a causa del suo matrimonio con un cittadino britannico.

E’ cambiato l’approccio della comunità internazionale, che dopo aver considerato il Myanmar una sorta di intoccabile, soggetto a dure sanzioni e alla generale riprovazione, oggi plaude a questo nuovo corso e si affanna nel tentativo di sfruttare nel modo più redditizio e conveniente le ricche opportunità economiche e commerciali che questo paese, finalmente aperto al mondo, offre.

Ma quanto è cambiato nella sostanza? Siamo davvero in una fase si transizione verso una democrazia, se non pienamente compiuta, dove almeno siano rispettati i diritti umani fondamentali?

Le notizie che arrivano dal paese asiatico lascerebbero intendere il contrario. Nel Myanmar di oggi si continua a essere arrestati e condannati a lunghe pene detentive per reati di opinione e si affronta una dura repressione poliziesca fatta di pestaggi e arresti se, come hanno fatto gli studenti di Yangon e Mandalay qualche settimana fa mentre protestavano contro la riforma scolastica, si osa scendere in piazza per criticare il governo.

Emblematica la storia di Tint San, Lu Maw Naing, Yarzar Oo, Paing Thet Kyaw e Sithu Soe, cinque giornalisti arrestati e condannati a sette anni di reclusione per aver denunciato la presenza di una fabbrica di armi chimiche nella provincia di Magwe. Il loro giornale, Unity, è stato chiuso. Questo accadeva pochi mesi dopo che il presidente Thei Sein aveva annunciato la fine della censura per la stampa. E’ andata peggio ad Aung Kyaw Naing, giornalista che indagava sulle azioni condotte dall’esercito nello stato Mon, ucciso in circostanze mai chiarite dopo essere stato arrestato dai militari.

Chi critica il governo lo continua a fare a suo rischio e pericolo, come il leader del Movimento per la Democrazia Ko Htin Kyaw, condannato a 13 anni e 4 mesi di reclusione per aver distribuito materiale su espropri e sgomberi arbitrari da parte delle autorità nei confronti di contadini poveri che non hanno possibilità di opporsi alla confisca delle loro terre.

Ma l’esempio forse più emblematico che rappresenta questa fase è quello dei Rohingya, una minoranza etnica che vive nello stato di Rakhine, nella parte più occidentale del paese, vicino al confine con il Bangladesh e che conta una popolazione di 1.300 mila persone. Proprio questa prossimità, insieme al fatto che si tratta di una minoranza musulmana in un paese a larghissima maggioranza buddhista, ha fatto sì che in molti li considerino un corpo estraneo nel paese. Da sempre sottoposti a discriminazioni e agli abusi delle forze di sicurezza birmane, negli ultimi tre anni sono stati colpiti da veri e propri pogrom da gruppi fondamentalisti buddhisti, con la dichiarata intenzione di espellerli dal paese. Leader di questo movimento islamofobo è il monaco buddhista Ashin Virathu, già prigioniero politico rilasciato con l’amnistia nel 2010, che con i suoi sermoni è uno dei principali ispiratori della violenza e dell’intolleranza nei confronti dei Rohingya. Le motivazioni sono le solite che vengono utilizzate per criminalizzare un gruppo etnico in ogni parte del mondo e in ogni tempo: “vogliono cancellare la nostra cultura e le nostre usanze”, “fanno più figli di noi e finiranno per ridurci a una minoranza nel nostro stesso paese”, “sono dei malviventi che vogliono solo rubare il nostro denaro”. Dal giugno 2012, quando è iniziata questa ondata di una vera e propria pulizia etnica, gli assalti nei confronti dei Rohingya hanno causato diverse centinaia di morti - ma una stima precisa è impossibile - e costretto oltre un quarto della popolazione a doversi allontanare dalle proprie case e dai propri villaggi messi a ferro e fuoco dai fondamentalisti buddhisti.

Privati della nazionalità birmana nel 1982, alla vigilia del censimento dello scorso anno il Ministero degli Interni ha imposto ai Rohingya di registrarsi come “immigrati bengalesi”, nonostante vivano in quella regione da numerose generazioni, lasciandoli di fatto come apolidi, senza diritti fondamentali come l’assistenza sanitaria e l’istruzione, ma soprattutto negando la legittimità della loro permanenza nel paese, fornendo così un nuovo pretesto a chi vorrebbe cacciarli e per farlo non si fa scrupolo di scatenare violenze inaudite.

Così più di 150mila Rohingya si sono trovati nelle condizioni di dover lasciare il paese negli ultimi tre anni. Oltre a quelli che attraversano via terra il confine con il Bangladesh, la maggior parte di loro fugge su barche che vengono soprannominate “bare” per le loro condizioni di fatiscenza, in cerca di salvezza e di asilo in Thailandia, in Malesia o in Indonesia, paesi che per il momento non hanno mostrato una grande disponibilità ad accoglierli. Iniziano così vere e proprie odissee via mare, fatte di respingimenti ai limiti delle acque territoriali, di naufragi con centinaia di morti e di ignobili forme di sfruttamento che bande di trafficanti locali mettono in atto approfittando della vulnerabilità di queste persone. Ancora violenza quindi, anche per i fortunati che riescono a sopravvivere al mare. Mentre la speranza di migliaia di disperati galleggia alla deriva tra il Golfo del Bengala e il Mare delle Andamane, ONU ed Unione Europea, sensibile al problema dei profughi evidentemente solo quando sono lontani dai suoi confini, hanno fatto pressione sui governi dell’ASEAN perché mettano in atto politiche comuni di accoglienza. Con scarsi risultati, almeno per il momento. Il vertice di fine maggio si è concluso con una generica dichiarazione che impegna il governo del Myanmar a “risolvere il problema alla radice”. Come le autorità birmane interpreteranno questo invito non è dato sapere, ma visto quanto fatto sinora gli auspici non possono essere certo i migliori.

In un anno di elezioni, i militari birmani assecondano questa ondata nazionalista e continuano a non fare nulla per evitare che la situazione degeneri, mentre la Lega Nazionale per la Democrazia evita accuratamente di schierarsi contro queste violenze per timore di inimicarsi il clero buddhista e di perdere voti. Sulla spinta di numerose critiche che le sono arrivate dall’estero, tra cui quelle di altri due Premio Nobel per la Pace, il Dalai Lama e Desmond Tutu, Suu Kyi ha ammesso a denti stretti che “è sbagliato non considerare i Rohingya cittadini birmani”, ma non ha ancora preso una posizione netta contro le violenze. Vero è che non ha il potere né tanto meno i numeri in parlamento per porre rimedio a questa situazione, ma sono in molti a pensare che la sua credibilità e il seguito che ha nel paese renderebbe una sua presa di posizione più coraggiosa difficile da ignorare anche per i nazionalisti più esagitati. Posizione che ad oggi non è ancora arrivata.

A quasi cinque anni dall’inizio di questo nuovo corso, la sensazione è che il bicchiere sia molto più vuoto che mezzo pieno. Né pare lecito nutrire particolari speranze di cambiamento nel risultato delle elezioni che si terranno a novembre, e non solo perché la legge elettorale consentirà comunque ai militari di mantenere la maggioranza dei seggi in parlamento. Il cambiamento, quello vero, sembra ancora lontano.

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