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La lunga storia del rapporto fra la psicologia e i diritti umani /Psicologia

LA LUNGA STORIA DEL RAPPORTO FRA LA PSICOLOGIA E I DIRITTI UMANI

di Aristide Donadio

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Nel 1936 Einstein, su mandato della Società delle Nazioni, invia una lettera a Sigmund Freud dal titolo “Perchè la guerra?”. Scopo del mandato era quello di intervistare le maggiori autorità della comunità scientifica internazionale per tentare di comprendere come fosse potuta accadere la follia collettiva della 1ª Guerra Mondiale (mentre scrivo sono in corso le celebrazioni del centenario) e quali potessero essere gli interventi possibili per scongiurare altre follie collettive. La Storia ci ha poi drammaticamente insegnato che al peggio non c’è limite. Si tratta, a ben vedere, d’un carteggio estremamente interessante: un fisico, seppur di fama mondiale e dotato di una curiosità straordinaria, e uno psicologo, come Freud stesso ama definirsi, il fondatore della psicanalisi, che decidono di mettersi a parlare assieme su come mettere fine ad una cosa diventata “insopportabile” (1); due mondi altrimenti lontanissimi l’uno dall’altro, eppure accomunati dalla stessa curiosità (2), dalla stessa onestà intellettuale, dalla stessa “amicizia per l’umanità”, per usare la magnifica espressione adoperata dallo stesso Freud nella sua missiva di risposta. Sorprende l’ampio bagaglio culturale e d’interessi che hanno le due autorità della comunità scientifica internazionale, che da un lato fa sconfinare l’uno nel campo dell’altro, mentre dall’altro crea un ponte naturale d’incontro, d’invischiamento reciproco, di felice contaminazione, qualità rara nella nostra attualità, ricca di iper-specializzazioni ma povera di unitarietà, di reale interdisciplinarità, di autentica intercultura o, più lapidariamente, povera di cultura.

Profetici i richiami ad un auspicabile tribunale internazionale, una Corte riconosciuta da tutti gli Stati che abbia l’autorità e i mezzi per intervenire nelle diatribe fra Nazioni e punire le violazioni del diritto internazionale, a patto che vi siano i mezzi per intervenire e che ciascuno Stato sia pronto a cedere parte della propria sovranità. Sorprendente la riflessione di Einstein, a proposito di come fosse possibile che la maggioranza di individui d’un popolo accettasse di andare al “proprio olocausto” per compiacere gli interessi di potere ed economici di un’avida minoranza dominante, sorprendente anche il richiamo a certi concetti quando afferma: “Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica”. E’ il concetto di “industria culturale”, un assioma tipico della scuola di Francoforte, già presente dal 1923, composta da sociologi, filosofi e psicologi in buona parte ebrei.

Colpisce, fra le altre, un’affermazione apparentemente banale, se non persino inopportuna in relazione ad una catastrofe bellica (3) , quella riguardante la “degradazione estetica” causata appunto dalla guerra. Solo una persona di eccezionale levatura morale e culturale può essere in grado, in una situazione di totale distruttività e prostrazione, di mostrare al mondo l’importanza della bellezza e di come il danno ad essa arrecato possa essere persino accostato a quello dei milioni di morti e di feriti. Viene in mente una frase di Primo Levi, quando afferma, in riferimento ai campi di sterminio, che la cosa più grave fosse stata che tutto ciò sia entrato nel regno del possibile, del pensabile (4). Freud, infine, richiama l’attenzione del grande scienziato sulla necessità di considerare la complessità della psiche umana e di come sia difficile individuare un’azione, un comportamento che sia frutto d’una sola pulsione (5) o d’una sola motivazione ed è proprio tale necessità che deve indurre “noi pacifisti” ad un ulteriore impegno (6) in direzione pedagogica ed andragogica, che liberi le masse dalla soggezione all’autorità e dalle forme di manipolazione, incluse quelle d’un certo tipo di Chiesa.

Freud condivide le considerazioni di Einstein ed, entrando nel campo di propria competenza, riconosce d’aver dovuto profondamente rivedere l’impianto epistemologico psicanalitico proprio a fronte di tanta distruttività, sino a dover ammettere l’esistenza d’un istinto di morte, il Thanatos, da affiancare all’Eros, e propone, come possibile soluzione alla guerra, che prevenga il prevalere e il dominio della distruttività, quella di lavorare su entrambi gli istinti, canalizzando la distruttività attraverso il rafforzamento dell’intelletto e l’interiorizzazione dell’aggressività (con tutti i rischi che ciò può comportare se non adeguatamente gestita) e inducendo al massimo lo sviluppo dei “legami emotivi”, delle relazioni affettive (7) accanto alla capacità di stabilire identificazioni con l’altro da sé, donde empatia e solidarietà. In termini più immediati, Freud risponde ad Einstein, asserendo la necessità di controllare maggiormente il Thanatos per diffondere più Eros e suggerisce che questo compito spetta ad un approccio educativo particolarmente evoluto, che sappia andare in tale direzione. Uno scambio, questo fra due grandi della Terra, davvero emozionante e ricco di senso, di indicazioni di direzioni, di strade da seguire, di consigli che, purtroppo, vengono ancor oggi disattesi.

Per cogliere il senso dell’introduzione del concetto di Thanatos e delle problematiche che ha suscitato nella stessa comunità psicanalitica, è necessario risalire al 1920, anno di pubblicazione di “Al di là del principio di piacere”, scritto da Freud a ridosso della 1ª Guerra Mondiale. Qui l’autore rivede, inopinatamente, la struttura teorica psicanalitica inserendo il Thanatos, una mossa sorprendente, contestata persino dai suoi discepoli e, ancor oggi, dalla maggior parte del mondo psicanalitico. Sono in molti a ritenere che l’orrore della guerra (che coinvolse anche la vita di Freud e della sua famiglia) prima, e la morte dell’amata figlia Sophie poi, indussero e confermarono l’autore nel sostenere l’esistenza della pulsione di morte, inficiando quindi la validità scientifica di tale innovazione. Fromm stesso, allontanato dalla Scuola di Francoforte per aver osato criticare Freud che pure ammirava, ribadirà con forza, per tutta la sua esistenza, la presenza unica dell’Eros, attribuendo solo ad una cultura necrofila dominante la responsabilità di allontanare le persone dalla loro naturale pro-socialità. Non vanno tuttavia sottovalutati gli studi provenienti dal filone riconducibile al “secondo Freud”, come quelli di Klein, Fornari, Lacan e, per citare un illustre contemporaneo italiano, Recalcati, per citarne solo alcuni.

Sembra tuttavia opportuno richiamarci all’idea primigenia di Freud della psiche, allontanando il rischio di pericolosi alibi relativi all’ineluttabilità della guerra e della distruttività. Piace riferirsi al principio di potere di Adler, il bisogno di affermarsi in comunione con l’altro da sé, nonché al filone umanistico-esistenziale di Rogers e Fromm, che non si limitano all’anamnesi, ma costruiscono un gioioso percorso di progetto esistenziale con i propri pazienti, proiettandosi verso il loro futuro di auto-realizzazione.

Gli studi psicanalitici danno vita ad una serie di iniziative che sembra lecito definire umanitarie, poiché un contributo formidabile verso quell’amicizia per l’umanità di cui Freud stesso parla furono non solo l’amore per la ricerca e la cura delle malattie verso il benessere possibile, ma anche gli interventi nella formazione specialistica e l’impatto impressionante che ebbe e che tuttora riesce a mantenere su autori e teorie dell’intero campo delle scienze umane e dell’arte nonché sulla cultura dell’opinione pubblica mondiale, giungendo sino a Gandhi e Tolstoj. Anche la figlia di Freud, Anna, si dedicò ad interventi in ambito umanitario operando su bambini orfani della 2ª Guerra mondiale e traumatizzati da eventi bellici, fondando e dirigendo a Londra, in un sodalizio umano e culturale formidabile con la psicanalista americana Dorothy Burlingham, l’Hampstead War Nurseries per l’assistenza ai bambini abbandonati, l’Hampstead Child Therapy Course e l’Hampstead Child Therapy Clinc, istituti in cui si tennero corsi di addestramento per terapeuti infantili ed educatori, nonché attività diagnostiche e terapeutiche per i bambini. Anna Freud non solo darà un contributo epistemologico formidabile alla psicanalisi, spostando il fulcro della vita psichica dall’Es, come riteneva il padre, all’Io (8), ma anche spendendo la psicanalisi non più in ambito quasi esclusivamente terapeutico (9) ma anche formativo nel senso più ampio possibile e verso diverse categorie: genitori, infermieri, medici, psicologi e, soprattutto, formatori.

Ma la Psicanalisi, la Psicologia sociale e la Psicologia in generale realizzano sinergie formidabili con alcune discipline in particolare, come l’Antropologia (10), la Sociologia (con la nascita della Psicosociologia), la Psichiatria (attraverso l’antipsichiatria di Laing, Cooper e del nostro Basaglia e l’Etnopsichiatria), la Linguistica e, naturalmente, le Scienze dell’Educazione (con la Psicopedagogia). Questa felice contaminazione si annuncia, invero, già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento quando, lentamente, si decide di abbandonare l’approccio ai malati di mente e ai “soggetti irregolari” come semplice misurazione o classificazione tout court, per intraprendere la strada della trasformazione, della terapia: sarà la formidabile stagione della psicopedagogia, appunto, con esponenti quali Montessori e Neill che intervengono non solo contro la segregazione di tali soggetti (e quindi per l’abbandono progressivo di “istituzioni totali” come orfanotrofi e manicomi), ma anche favorendo l’applicazione dei risultati degli studi condotti sui “soggetti anormali” sui cosiddetti normodotati; questi studi, in convergenza con i progressi di altre discipline, mostrarono anzi come sia proprio la “normalità patologica” (11) a generare “bambini spezzati” o “deviati” (12), a causare il disagio, la psicopatologia (13): quella “banalità del male” di cui ci parla Hannah Arendt nelle sue opere.

Come dimenticare la stagione orgogliosa e prorompente degli studi di Psicologia sociale che indagano proprio su come possa esser accaduta questa “banalità del male”! Delle migliaia di studi e ricerche non è possibile non citare il famoso esperimento di Stanley Milgram “sull’obbedienza all’autorità” del 1963, con l’obiettivo dichiarato di verificare sino a che punto una persona normale possa causare danno o morte ad un’altra solo per obbedire ad un “ordine”; in tale esperimento veniva fatto credere al soggetto sperimentale di collaborare ad una ricerca che mirava a verificare l’impatto dei “rinforzi negativi” (punizioni) sull’apprendimento, per cui, ad ogni risposta sbagliata, il “maestro” doveva somministrare una scossa progressivamente più potente (dai 15 sino ai 450 volts!) allo “scolaro” che sbagliasse le risposte, in realtà il presunto “scolaro” era il vero collaboratore dello sperimentatore: un attore che, non subendo alcuna scossa, simulava reazioni via via più forti sino ad un silenzio inquietante che potesse far temere uno svenimento o persino la morte. Gli autori dell’esperimento ipotizzarono che si sarebbero spinti sino a superare la soglia potenzialmente letale di scosse il 10% dei soggetti sperimentali, ma si sbagliarono di molto, poiché venne superata la soglia del 50%: più della metà dei soggetti sperimentali si resero disponibili a correre il rischio di uccidere una persona per assecondare un tizio col camice bianco!

Interessanti le varianti all’esperimento che vennero poi sviluppate, nelle quali si potette verificare che, invitando il “maestro” ad accostarsi allo “scolaro” per verificare se, non udendo più alcun lamento alle forti scosse, il polso pulsasse ancora, lo stesso contatto comportasse la riduzione della volontà di collaborare con lo sperimentatore, avendo il contatto con la vittima accentuato capacità empatiche e identificative, dilatando la percezione della cospecificità (14).

Ma per comprendere ancora meglio il nesso fra Psicologia e Diritti Umani è necessario comprendere come sia proceduta l’opera di analisi della cause profonde delle condotte distruttive e delle conseguenti violazioni di diritti umani, sino ad allargarsi alla prevenzione di tali cause ed all’intervento concreto sulle origini psicosociologiche, sugli attori delle violazioni e sulle vittime stesse. Per ritornare a Freud, illuminanti furono i suoi studi sulla coazione a ripetere condotti sui reduci della Prima Guerra Mondiale, grazie ai quali emerse che i soldati vittime di traumi bellici tendevano a rivivere la scena del trauma, così come gli studi condotti sui pedofili mostrarono che essi stessi fossero a loro volta stati vittime di pedofilia nell’infanzia. Anche Paulo Freire (15) sosteneva che non esistono oppressi ed oppressori ma, a ben vedere, solo oppressi: anche gli oppressori sono degli oppressi, sino agli studi psicosociologici di criminologia che mostrano come esistano ambiti micro e macro-sociali criminogeni.

Eric Fromm, psicanalista, mostrò al mondo che le vie per accedere alla distruttività (16) sono sostanzialmente due: la de-umanizzazione dell’altro e la propria deresponsabilizzazione. Ciò significa che non posso volgere verso altri condotte distruttive se non riduco o elimino quegli aspetti dell’altro che lo rendono simile a me, in quanto la tendenza filogenetica a identificarmi nell’altro ritorcerebbe contro di me l’atto aggressivo (sensi di colpa, disturbi psicosomatici, depressione, disistima); di qui la tendenza a denigrare l’altro o la categoria di altri da sé paragonandoli a cose o ad animali (17); ma, per consentire lo sviluppo di atti distruttivi, è necessario anche l’altro elemento, la de-responsabilizzazione, vale a dire l’uso di razionalizzazioni, intellettualizzazioni e tutta quella serie di alibi o forme di auto-inganno utili a ridurre la dissonanza o il senso di colpa per aver effettuato o essere in procinto di compiere atti ripugnanti. Ne è un esempio paradigmatico la presenza, presso i bracci della morte di diversi penitenziari USA dove si pratica ancora la condanna a morte per sedia elettrica, di ben tre diversi pulsanti per attivare la scarica letale, uno solo dei quali realmente attivo: ciò serve a rendere meno “penoso” l’atto del boia, andando, appunto, nella direzione della de-responsabilizzazione.

Fondamentali si sono rivelati altresì gli studi sulla comunicazione, dalla scuola di Palo Alto sino alla rivalutazione del conflitto, se costruttivo e nel rispetto dell’altro (18): è nel confronto conflittuale con l’altro che può cogliersi la differenza, ed è questa stessa differenza che induce ad autodefinirsi, poiché è nel confronto costruttivo che le parti in gioco tendono a riconoscersi e legittimarsi reciprocamente, in quanto è solo il conflitto, in tale accezione, che può generare senso e significatività nell’agire sociale e individuale. Capita purtroppo che la cultura dominante incoraggi non solo il pensiero unico di marcusiana memoria (19) e il pensiero convergente (20) , ma anche il conflitto distruttivo che tende all’annientamento del diverso, come persona o etnia, mentre contemporaneamente distrae e dissuade dall’intraprendere quello costruttivo, privando progressivamente, come si vede dagli attacchi ancora in corso contro la scuola pubblica e il sistema formativo in generale, i cittadini di quegli strumenti e quelle competenze culturali e sociali per farvi fronte.

La Psicologia, nel corso dei decenni e attraverso miriadi di studi e ricerche sempre più connessi e correlati fra loro e con altre discipline, ha potuto e saputo porre la basi d’un sapere sempre meno arrogantemente “scientifico” (21) e più teso alla problematizzazione e all’ermeneutica, conoscenze che hanno evidenziato e messo in luce aspetti prima solo intuiti o auspicati, attraverso un’imponente e spettacolare opera di decostruzione, cogliendo quali siano gli ambiti irrinunciabili della natura umana, gli elementi della sua struttura, dagli anni della sua evoluzione sino alla decadenza della quarta età, che cosa debba intendersi per salute (22) e cosa per patologico, quali direzioni sia auspicabile prenda l’educazione e la formazione, ma anche la prevenzione, la cura, l’assistenza e la riabilitazione, cosa debba intendersi per cittadinanza attiva; alla Psicologia va il merito di aver dato nome e voce al senso della pietas umana, ad una religiosità laica (23) , fornendo risposte a speranze millenarie, indicando le origini del “male” e del dolore, sino a far ritenere che la cattiveria forse non esista, ma esista solo una sofferenza che non si è potuto o saputo gestire, fino a rovesciarla sugli altri, magari sul diverso, percepito come più lontano, meno consimile e cospecifico, come ci mostra Anna Freud ne “I meccanismi di difesa”; sono emerse progressivamente anche le direzioni di una più avanzata giurisprudenza che tenga conto di tali conquiste e che assicuri diritti intesi come espressione di bisogni irrinunciabili di persone, comunità e società, rispettando l’uguale diritto alla diversità in luogo d’un diritto omologante cui tutti debbano uniformarsi (24). Questo lento cammino, che certo ha ancora molta strada da compiere, ha anche fatto sì che i concetti di diritti umani e di educazione ai diritti umani, come quelli di pace e di educazione alla pace, pur se in maniera non lineare e spesso tortuosa e contraddittoria, tendano ad incrociarsi sempre con maggiore evidenza, man mano che il concetto di diritti umani si sottrae ad una sua concezione razionalistica, tecnicistica e giuspositivistica spesso di matrice etnocentrica, per evolversi in ottica interculturale e olistica (25). La pratica del prendersi cura dell’altro, infatti, ha un valore morale che, per autori come West, Gilligan e la nostra Muraro, non viene ancora riconosciuto come criterio di giustizia, essendo addirittura antitetico all’idea e alla pratica della giustizia; ma se l’etica della giustizia non si fonde con l’etica della responsabilità, sostengono i neofemministi, la decisione politica o giudiziaria fallisce proprio dal punto di vista della giustizia (26). Le qualità generalmente collegate alla giustizia come l’integrità, la coerenza e l’imparzialità, senza compassione e solidarietà si trasformano in aspro e gretto rigorismo. Il momento dell’empatia con la vittima e con l’imputato è necessario alla comprensione del senso del caso e della sua problematicità, e la comprensione di senso è preliminare e propedeutico alla comprensione di valore e cioè alla valutazione (27). Anche un autorevole gruppo di giuriste italiane (28) è giunto alla stessa conclusione: è necessario uno “sguardo ravvicinato”, in grado di scorgere peculiarità di casi e singolarità di soggetti, nei tribunali come nelle società (29).

L’humus creato da tutta questa serie di studi e di impegni ha provocato, anche attraverso forme progressive e diversificate di coscientizzazione (30), strategie di prevenzione e lotte poi sfociate nella realizzazione e deliberazione di Trattati come la Dichiarazione Universale dei diritti umani, non a caso varata nello stesso anno della nostra Costituzione, la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo del 1989 (ancora non ratificata da un unico Paese: gli USA), rivoluzioni civili e sostanzialmente pacifiche, come quelle degli anni della contestazione giovanile del ‘68, le trasformazioni che hanno condotto allo Stato sociale, al riconoscimenti dei diritti delle donne e delle minoranze, al progressivo superamento dei manicomi, degli OPG sino, si spera, ad una futura eliminazione del carcere così com’è inteso oggi, come di ogni forma di istituzione totale.

Ma la Psicologia non si è limitata all’analisi delle cause delle violazioni dei diritti, né a come concepire la nuova stagione dei diritti chiarendo forma e struttura della natura umana, dei suoi bisogni irrinunciabili, delle premesse per un sano sviluppo di personalità e comunità; essa ha anche agito e agisce sulla prevenzione e sugli effetti delle violazioni, come dimostrano gli interventi sulla formazione dei docenti (31), delle forze dell’ordine (32) e di altre categorie di soggetti, e quelli sul bullismo o sulle vittime di tortura.

Molto lavoro resta ancora da fare e molti ostacoli da superare, soprattutto nelle periodiche fasi di riflusso e regressione sociale, come pare essere quella in corso in Occidente, ma una cosa non mancherà mai: la ricerca, la curiosità e l’onestà intellettuale come quella di chi, come dice in una sua poesia il pacifista Danilo Dolci, “educa, senza nascondere l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni sviluppo ma cercando d’essere franco all’altro come a sé, sognando gli altri come ora non sono: ciascuno cresce solo se sognato”.

(1) - Espressione adoperata dallo stesso Freud, nella sua risposta ad Einstein: “semplicemente non la sopportiamo più’... un’intolleranza costituzionale... della massima idiosincrasia”.

(2) - « Non ho particolari talenti, sono solo appassionatamente curioso. », da una lettera a Carl Seelig, 11 marzo 1952

(3) - “[...] mi sembra che le degradazioni estetiche della guerra non abbiano nel nostro rifiuto una parte molto minore delle sue crudeltà [...], sempre dal carteggio Freud-Einstein.

(4) - “ [...] La vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa.”, in Se questo è un uomo, cap. “Le nostre notti”.

(5) - “[...] E’ assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale [...]”, S. Freud, op. cit.

(6) - “[...] L’abuso di autorità da Lei lamentato mi suggerisce un secondo metodo per combattere indirettamente la tendenza alla guerra. Fa parte dell’innata e ineliminabile diseguaglianza tra gli uomini la loro distinzione in capi e seguaci. Questi ultimi sono la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale perlopiù si sottomettono incondizionatamente. Richiamandosi a questa realtà, si dovrebbero dedicare maggiori cure, più di quanto si sia fatto finora all’educazione di una categoria superiore di persone dotate di indipendenza di pensiero, inaccessibili alle intimidazioni e cultrici della verità, alle quali dovrebbe spettare la guida delle masse prive di autonomia. Che le intrusioni del potere statale e la proibizione di pensare sancita dalla Chiesa non siano favorevoli ad allevare cittadini simili non ha bisogno di dimostrazione. La condizione ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. Nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Ma secondo ogni probabilità questa è una speranza utopistica. Le altre vie per impedire indirettamente la guerra sono certo più praticabili, ma non promettono alcun rapido successo. E’ triste pensare a mulini che macinano talmente adagio che la gente muore di fame prima di ricevere la farina. [...] “; ibidem.

(7) - “[...] La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”. ibidem.

(8) - Tanto che, da allora ad oggi, si parla di “Psicologia dell’Io”, con inevitabili riflessi sulle Scienze Umane e culturali; cfr A. Freud, “L’Io e i meccanismi di difesa”.

(9) - Sigmund Freud la usava, al di fuori dell’ambito terapeutico, per la formazione di psichiatri e per conferenze.

(10) - Si veda, ad esempio, il filone “Cultura e Personalità", che ha dato vita ad una serie di studi sul rapporto fra modi di educare i figli e le strutture di base della personalità tipiche di vari popoli.

(11) - Cfr. E. Fromm , “I cosiddetti sani”.

(12) - Espressioni adoperate dalla Montessori nelle sue opere, atte ad indicare gli effetti perniciosi e distorsivi di un approccio -adultistico- rispetto al normale sviluppo che un bambino dovrebbe avere verso il dispiegamento del “bambino segreto” e di quell’”embrione spirituale” che è il suo progetto identitario originale in nuce.

(13) - Cfr. il concetto di necrofilia in E. Fromm, “Anatomia della distruttività umana”, ma anche gli studi sul “bambino deviato” della stessa Montessori.

(14) - Va ricordato anche l’esperimento di Philip Zimbardo, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Stanford, realizzato nell’estate del 1971 sugli effetti psicologici e psico-sociali del contesto e dei ruoli applicato all’ambito carcerario. Zimbardo prese spunto dal concetto di de-individuazione del francese Gustave Le Bon, secondo il quale gli individui di un gruppo coeso o d’una folla tendono a perdere identità personale, consapevolezza e senso di responsabilità sviluppando impulsi anti-sociali. L’esperimento voleva verificare se si potessero determinare sensibili modificazioni negli atteggiamenti e nei comportamenti di soggetti sperimentali all’interno d’una riproduzione di situazione carceraria. I soggetti vennero suddivisi in maniera random in due diversi gruppi di “prigionieri” e di “carcerieri”. Il solo fatto di appartenere a due diverse categorie fece prevalere progressivamente un’identità gruppale e lo stigma verso quanti appartenevano all’altra categoria. La spoliazione identitaria e di ruoli avveniva obbligando i “detenuti” di Stanford a indossare casacche color caki e talvolta cartoni calati sulla testa, per annullare ogni possibile forma di comunicazione fra carnefici e vittime e per deumanizzarle definitivamente. Il risultato fu una serie impressionante di abusi di ogni genere da parte delle guardie carcerarie, tale da costringere ad interrompere l’esperimento dopo soli sei giorni, pur essendo previsto per due settimane. Impressionante la somiglianza fra ciò che accadde a Stanford e ciò che si verificava e purtroppo si verifica ancora in situazioni carcerarie o in situazioni-limite: persino la somiglianza fra le “divise” dei “detenuti” di Zimbardo e quelle dei detenuti veri di Abu Grahib o di Guantanamo, ad opera di veri soldati occidentali! Sembra quasi che questo genere di esperimenti, discussi e discutibili sul piano etico ma tristemente efficaci e rivelatori, non servissero più solo a denunciare, come nelle intenzioni dei ricercatori, le condizioni che possono condurre a estreme violazioni di diritti umani, ma venissero poi anche adoperati da menti criminali (come la scuola per la tortura di Fort Benning in Georgia, USA) per addestrare torturatori di tutto il mondo, dai dittatori piazzati in America latina agli effetti collaterali delle guerre balcaniche e “umanitarie” sino alla guerra in Iraq sulla base di pericolosi arsenali del tutto inventati per giustificare la guerra stessa e coprire interessi geo-politici . Altri interessanti studi sono stati compiuti nel campo della Psicologia sociale, come quelli sugli effetti dell’arbitrio del potere, per dimostrare quanto disorientamento e anomia siano alla base di condotte e atteggiamenti aggressivi o autolesionistici, dagli studi di Psicologia comparata di Pavlov sui cani a quelli di Tajfel sulle gare in cui vengono cambiate le regole in corso d’opera all’interno di campeggi estivi.

(15) - Cfr. P. Freire in “Pedagogia degli oppressi”.16 - Cfr. E. Fromm, “Anatomia della distruttività umana”.

(17) - Joseph Goebbels, ministro della propaganda del III Reich, diffuse filmati in cui l’immagine di un ebreo si dissolveva progressivamente in quella di una capra, de-umanizzando, in tal modo, un’intera etnia e facilitando o legittimando ogni forma di aggressione nei suoi confronti.

(18) - Ugo Morelli, Conflitto, Roma, Meltemi, 2006, p.12.

(19) - Cfr. il profetico H. Marcuse de “L’Uomo a una dimensione”.

(20) - Cfr. Ken Robinson in “Cambiare i paradigmi dell’educazione”, Youtube, sul pensiero convergente incoraggiato in luogo del pensiero divergente dai sistemi formativi occidentali; ma anche gli studi sull’uso dell’Invalsi per diffondere proprio pensiero unico e convergente, utile a logiche mercantili come “I test Invalsi. Contributi a una lettura critica” a cura del CESP, Centro Studi per la scuola pubblica, Bologna, 2013.

(21) - Fu proprio Popper a sostenere che “il metodo scientifico” non esiste, così come autori come Khun e Feyerabend hanno contribuito a denunciare l’illusorietà dell’esattezza e infallibilità del metodo scientifico alimentando quel dibattito noto come “crisi dell’induttivismo”.

(22) - In seno all’OMS il concetto di salute, proprio grazie a questi studi, si è progressivamente evoluto, passando da una concezione negativa, che considera sana la condizione di assenza di malattie, ad una concezione positiva che considera sana la condizione di benessere non più solo fisica, ma anche psichica e sociale.

(23) - Sono diversi gli esempi di un felice connubio anche fra religione e psicanalisi, cfr. “La liberta d’amare” e “Psicanalisi del vangelo “ degli psicanalisti francesi F. Dolto e G. Severin.

(24) - Tale percorso è stato sollecitato dagli studi neo-femministi, che rivalutano il ruolo della differenza.

(25) - Sono proprio gli studi neo-femministi, trasversali alla scienze umane, a denunciarne il carattere gerarchico, formale e razionalistico, espressione d’un pensiero maschilista.

(26) - M. Grazia Giammarinaro, Iter, Treccani, anno1 n.1, 1998.

(27) - G. Zagrebelsky , La legge e la sua giustizia, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 228.

(28) - Gruppo giuriste “V. Woolf”.

(29) - Secondo i neo-femministi, infatti, va rivalutato “l’ordine simbolico della madre”, come recita il titolo dell’opera più nota di Luisa Muraro, vale a dire la capacità tipica della sensibilità femminile del “prendersi cura di”, di porre al centro della costruzione identitaria singola e collettiva l’alterità.

(30) - Cfr. Paulo Freire , “La pedagogia degli oppressi”, ma anche Augusto Boal, “Il poliziotto nella testa”.

(31) - Cfr. il progetto internazionale di A.I. “Friendly school” applicato nell’a.s. 2011/’12 presso l’ITI “M. Curie” di Napoli-Ponticelli, con un intervento di educazione informale e l’uso del TdO su un gruppo misto di allievi della scuola e soggetti provenienti dall’attiguo campo Rom, vittima di un recente incendio doloso e di varie aggressioni (vedi le interviste su youtube https://www.youtube.com/ watch?v=svUO7GsDJIU).

(32) - Cfr. “Comunicare dentro”, Sezione Italiana di Amnesty International (A.I.), 2010, sull’uso combinato di Analisi Transazionale e Teatro dell’Oppresso (TdO) di Boal nella formazione dei poliziotti penitenziari.

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