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(In)sicurezze verticali e orizzontali /Antropologia

(IN)SICUREZZE VERTICALI E ORIZZONTALI.

SGUARDI SUL MONDO NEOLIBERALE DALLE SCIENZE SOCIALI

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di Javier Gonzalez Diez

Nel mondo attuale si sente parlare molto di “sicurezza” e “insicurezza”, nelle loro multiple declinazioni. Questo doppio concetto, che può essere riassunto nel termine (in)sicurezza, è tirato in ballo continuamente da attori politici e media per giustificare la messa in atto di determinate politiche e decisioni. Dall’(in) sicurezza alimentare a quella nazionale, da quella finanziaria a quella stradale, da quella cittadina a quella ambientale, il concetto sembra onnipresente. Proprio per questo, esso è diventato da qualche tempo oggetto di studio da parte delle scienze sociali, che cercano di non darlo per scontato ma di capire come, quando, perché si costruiscono forme di (in) sicurezza, chi è che ha la funzione di definirle e come questo avviene.

In questo breve articolo, riassumo alcune riflessioni che ho presentato in un recente volume curato assieme ad altri colleghi [(In)Sicurezze. Sguardi sul mondo neoliberale, a cura di Javier González Díez, Stefano Pratesi e Ana Cristina Vargas, Edizioni Novalogos, Aprilia, 2014] dedicato allo studio dell’(in) sicurezza da diversi punti di vista. Il volume raccoglie contributi di giovani studiosi provenienti da ambiti di studio molto diversi - antropologi, sociologi, scienziati politici - cui è stato chiesto di interrogarsi sul concetto partendo dalla loro prospettiva disciplinare.

Iniziamo da una precisazione importante su come affrontare il concetto di (in)sicurezza. La varietà di casi e modalità attraverso cui la riconosciamo ci spinge a contemplarla non come una realtà ontologica oggettivamente riconoscibile, ma piuttosto come un qualcosa che un attore sociale di riferimento – sia esso lo Stato o diversa entità politica o economica – di volta o in volta sceglie di considerare (in)sicuro. Per fare un esempio preso dal nostro volume, la ricerca delle sociologhe Marianna Filandri e Tania Parisi ci mostra come in Italia la percezione dei gruppi sociali a rischio sia cambiata negli ultimi trent’anni. Negli anni Ottanta a causare allarme sociale erano omosessuali, malati di AIDS e bevitori. A partire dagli anni Novanta però questi gruppi sono considerati sempre meno rischiosi, e ad aumentare la percezione di insicurezza subentrano i mussulmani.

La variabilità del contenuto del concetto ci spinge quindi a focalizzare la nostra attenzione più sulle modalità attraverso cui un qualcosa, di volta in volta, viene ritenuto (in)sicuro. Più che parlare quindi di sicurezza, può essere interessante parlare di processi e discorsi di (in)securitizzazione, ovvero la messa in atto di azioni e dispositivi per creare sicurezza. La questione fondamentale diventa capire chi è che ha il potere di imporre il discorso di securitizzazione attraverso determinate scelte piuttosto che altre. La questione non è secondaria, in quanto già Hobbes diceva che una delle funzioni dello Stato era quella di scegliere le paure oggetto della gente, per potervi porre rimedio e, di conseguenza, trovare legittimità al proprio potere. Lo Stato produce sicurezza ma allo stesso tempo è legittimato da essa, giocando in realtà un ruolo ambivalente. I processi di “securitizzazione” - come evidenziano nel nostro volume le riflessioni dell’antropologo Carlo Capello sulle paure urbane e del sociologo Sandro Busso sull’ambivalente ruolo degli esperti nella gestione dei rischi - appaiono quindi come una condizione in cui le problematiche sociali sono depoliticizzate e in cui si perdono i modelli alternativi per interpretare e affrontare l’ordine sociale.

Una distinzione molto utile delle modalità di securitizzazione è quella che tiene conto in partenza della direzione verso cui si ricerca la sicurezza, verticale piuttosto che orizzontale. Le sicurezze basate sui legami verticali coinvolgono gruppi umani di grandi dimensioni e prevedono un legame diretto fra l’istituzione securitizzante e il singolo individuo; proprio per questo richiedono necessariamente la presenza di un sistema politico centralizzato se non di una vera e propria entità statale. Esse rispondono all’idea di Hobbes di uno Stato forte in grado di esercitare un controllo sui propri soggetti, in virtù dell’idea di sovranità, ma anche a organizzazioni non statali, ma altamente strutturate e gerarchicamente definite: poteri locali o transnazionali, che trovano fondamento nel controllo militare. Le relazioni di potere, e quindi i processi di securitizzazione, coinvolgono il Sovrano e i suoi sudditi, senza intermediazioni, riguardano sia l’ambito del potere dello Stato e delle relazioni fra gli Stati, che l’ambito, più recente e più opaco, delle grandi corporations della sicurezza e degli eserciti mercenari o paramilitari, che - come evidenzia Stefano Ruzza, politologo internazionalista, nel nostro volume - (auto)rappresentandosi come garanti della sicurezza, possono arrivare a sostituirsi agli Stati, riproducendo modelli spesso violenti, fortemente asimmetrici e gerarchici di esercizio del potere.

Simultaneamente esiste però un secondo tipo di sicurezze, quelle che invece si fondano su legami di solidarietà orizzontali che coinvolgono direttamente le persone fra loro. Queste sicurezze, per forza di cose, si basano su aggregazioni e legami meno estesi, più limitati e circoscritti nello spazio. Tuttavia, quanto perdono in estensione, lo guadagnano in intensità: i legami orizzontali sono sicuramente più densi e vicini alla vita quotidiana e alla dimensione esperienzale delle persone che non quelli verticali, più concentrati su macro-temi più lontani dall’esperienza. Questo tipo di sicurezze non coinvolge dunque lo Stato o entità centralizzate, rispetto alle quali può essere autonomo: il modello che si propone si rifà più al contratto sociale di Rousseau che non al Leviatano di Hobbes, propone una prevalenza di un controllo e di una normatività orizzontale rispetto ai legami verticali del rapporto Sovrano/soggetto. Questo è il tipo di sicurezza che producono istituzioni sociali quali le famiglie o i gruppi di parentela, le comunità di vicinato, i gruppi di mutuo aiuto, ma anche quelli religiosi. Un esempio sono i legami associativi promossi dalle chiese pentecostali in Africa, descritti dall’antropologo Alessandro Gusman nel nostro volume. I pentecostali si inseriscono nel contesto di povertà e crisi create dal neoliberismo, e attraverso la creazione di comunità di piccole-medie dimensioni riescono a coinvolgere sempre più gente, offrendo loro una serie di sicurezze (spirituali, sociali ma anche materiali) che il contesto locale non riesce più a garantire.

E’ quindi interessante vedere come i limiti dei discorsi neoliberali si ritrovino nell’esistenza o persistenza di forme di socializzazione orizzontale alternative a quelle verticali dettate dal mercato. Sebbene le retoriche ufficiali dipingano questi legami come “residui” del passato in procinto di scomparire con la modernizzazione, essi sono invece molto attuali e studiosi quali Pierre Bourdieu li hanno considerate delle vere e proprie “resistenze” al neoliberismo. In generale, qualunque riproposizione di legame sociale collettivo può essere inteso come alternativo al discorso securitizzante egemone. La securitizzazione neoliberale si fonda infatti su un privilegiare i legami verticali, fra le grandi istituzioni (Stato, mercato, enti sovranazionali o anche locali) e l’individuo, a dispetto dei legami di solidarietà di tipo orizzontale. La persistenza o la ricreazione di questi legami di tipo orizzontale mettono in causa la visione totalitaria della società a solidarietà meccanica, lasciando spazio ad altre forme di aggregazione alternativa.

Lo studio dell’(in)sicurezza neoliberale, non può quindi fare a meno di un contestuale studio delle (in)sicurezze orizzontali che animano il livello locale e che vengono messe in atto direttamente dagli attori sociali. Come abbiamo visto, esse possono assumere tantissime forme, ad iniziare da forme di solidarietà collettiva locale in opposizione alle logiche di mercificazione della società, come nel caso delle società di mutuo soccorso, dei legami familiari forti o delle associazioni di micro-credito e scambio. Possono anche consistere nell’interpretazione locale di strutture politiche calate dall’alto, rese malleabili e adattate a microcosmi locali. Possono infine dare luogo a sistemi di rappresentazione del mondo simbolici e ideologici alternativi a quello dominante, che mettono in discussione la validità e universalità del pensiero neoliberale. Un esempio è il discorso sulla demonizzazione del capitalismo in America Latina, studiato negli anni Ottanta dall’antropologo Michael Taussig, ma anche l’uso della stregoneria descritto nel nostro volume da Andrea Ceriana Mayneri nel caso centrafricano e da me in quello gabonese.

L’apporto dell’antropologia e delle scienze sociali sta in parte nel rintracciare e studiare esempi di queste alternative, in luoghi e momenti molto diversi della storia: dalle associazioni di contadini per la terra in America Latina alle reti di parentela fittizia che si estendono fra gli anziani negli USA, dalle tontines africane alle comunità zapatiste del Chiapas, dal ruolo crescente delle famiglie nell’assistenza sociale nell’Europa mediterranea alle chiese pentecostali frequentate da immigrati, dai movimenti religiosi anti-stregoneria in Africa ai gruppi della galassia No Global presenti in tutto il mondo. La loro importanza risiede nell’essere l’evidenza dei limiti e dell’insufficienza del discorso dominante, nel costituire quindi delle vere e proprie reazioni dal basso in direzione di un’alternativa. Non a caso l’antropologo David Graeber le ha definite “azioni rivoluzionarie”, potenzialmente capaci di cambiare lentamente l’ordine sociale esistente.

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