VOCI
DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI
i fatti e le idee
APRILE 2016
NUMERO 2 - ANNO 2
Dignità per tutti
INCONDIZIONATA «Quando ho acceso la prima candela di Amnesty avevo in mente un vecchio proverbio cinese: “Meglio accendere una candela che maledire l’oscurità” Questo è oggi il motto per noi di Amnesty» (Peter Benenson)
VOCI Rivista del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson”
COMITATO DI REDAZIONE
IN QUESTO NUMERO Amnesty e il prigioniero: la storia di una vita 3 di Liliana Maniscalco
“Il futuro sarà di tutta l’umanità”: intervista agli autori
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Gli artigli del Condor
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di Giuseppe Provenza
di Patrizia Sacco - Coordinamento A.L.
Giuseppe Provenza Responsabile della Redazione
La tutela dei Diritti Umani in Cina
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Liliana Maniscalco Responsabile Regionale di Amnesty International
Trivellazioni e diritto alla salute
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Superare le istituzioni totali
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Cinema: Fuocoammare
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Buone notizie
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Daniela Conte Responsabile del Centro di Documentazione per la Promozione e l’Educazione alla Tutela dei Diritti Umani “Peter Benenson” Emanuele Maria Marino Responsabile Relazioni Esterne e Comunicazione di Amnesty International in Sicilia Silvia Intravaia Grafiche e D.T.P.
COLLABORANO Aurelio Angelini, Clelia Bartoli, Giorgio Beretta, Daniela Brignone, Paola Caridi, Francesco Castracane, Giovanna Cernigliaro, Vincenzo Ceruso, Cissé Mouhamed, Coordinamento America Latina - Amnesty International Sezione Italiana, Marta D’Alia, Aristide Donadio, Vincenzo Fazio, Maurizio Gemelli, Javier Gonzalez Diez, Giuseppe Carlo Marino, Maria Grazia Patronaggio, Paolo Pobbiati, Rossella Puccio, Bruno Schivo, Daniela Tomasino, Fulvio Vassallo Paleologo
www.amnestysicilia.org ai.sicilia@amnesty.it Via Benedetto d’Acquisto 30 90141 Palermo
di Maurizio Gemelli
di Marta D’Alia
di Aristide Donadio
di Francesco Castracane
di Giuseppe Provenza
TUTTI I GIORNI www.amnestysicilia.it /amnesty-sicilia /Amnestysicilia Amnesty In Sicilia /amnestysicilia /amnestysicilia /amnestysicilia Questa rivista non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornata senza alcuna periodicità. Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. Le informazioni contenute in questa rivista, pur fornite in buona fede e ritenute accurate, potrebbero contenere inesattezze o essere viziate da errori tipografici. Gli autori di “Voci“ si riservano pertanto il diritto di modificare, aggiornare o cancellare i contenuti della presente senza preavviso. Alcuni testi o immagini inserite in questo blog sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d’autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi. Gli autori del blog non sono responsabili dei siti collegati tramite link né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo. Le opinioni espresse negli articoli presenti in questo numero non necessariamente rispecchiano le posizioni di Amnesty International.
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Editoriale
AMNESTY E IL PRIGIONIERO: LA STORIA DI UNA VITA di Liliana Maniscalco
Amnesty International nasce con e per il prigioniero: è il 1961 e vede la luce per difendere due giovani studenti che, brindando alla riacquistata libertà delle colonie portoghesi sotto la dittatura di Salazar, finiscono in carcere con la sola colpa di avere espresso un’idea e che rientrano nella prima categoria di detenuti individuata dall’organizzazione come biosognosi di tutela immediata. E’ Peter Benenson, fondatore di Amnesty, nell’articolo “The Forgotten Prisoners” a lanciare la prima campagna di quello che sarebbe stato il più grande movimento per i diritti umani nel mondo e a definire per primo il termine prigioniero di coscienza: qualsiasi persona a cui sia impedito (dall’imprigionamento o altro) di esprimere (in ogni forma di parole o simboli) qualunque opinione personale che non sostenga o giustifichi violenza personale. Vengono escluse anche quelle persone che hanno cospirato con un governo straniero per rovesciare il proprio. Amnesty si occupa di loro, prima che di tutti gli altri. Tuttavia, negli anni successivi amplia quello che viene definito come il suo “mandato” e comincia a lavorare anche sulla questione delle violazioni dei diritti umani dei prigionieri politici. Spesso vittime di procedure giudiziarie irregolari, processi iniqui, privi di difesa, privi di veri e propri processi, con le loro storie portano l’organizzazione a chiedere ad ogni governo processi equi da svolgersi in tempi ragionevoli, con pene commisurate alle colpe. 3
E’ in questo contesto che nasce l’opposizione di Amnesty alla tortura, alla pena di morte e, infine, all’ergastolo senza possibilità di liberazione condizionale. Un provvedimento, quest’ultimo, disumanizzante e che sconfessa in tutto l’essenza del carcere quale strumento finalizzato alla recuperabilità del reo. In molti paesi ancora oggi Amnesty continua questa sua opera. L’Italia fa capolino nei rapporti di Amnesty a partire dagli anni Settanta e Ottanta. Si parla fin da subito del problema delle condizioni carcerarie. Esse costituiscono la violazione dei diritti umani sistematica e continuativa nel paese. Assicurare condizioni dignitose e rispettose dei diritti umani nelle carceri è ancora una delle raccomandazioni principali rivolte all’Italia, come in tutto il resto del mondo. Più volte, nell’ultimo decennio, gli organi internazionali di garanzia dei diritti umani segnalano l’esistenza di un diffuso problema di sovraffollamento nelle carceri italiane, incompatibile con l’obbligo internazionale di garantire condizioni di detenzione rispettose della dignità umana e con il diritto di tutti a non essere sottoposti a pene o trattamenti disumani o degradanti. La sentenza della Corte europea dei diritti umani nel caso Torreggiani contro Italia, oltre a condannare APRILE 2016 N. 2 / A.2 - Voci
Editoriale
il nostro paese per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani nei confronti di sette detenuti reclusi nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, accerta che il problema della sovrappopolazione carceraria in Italia ha “carattere strutturale e sistemico”, in quanto risultato del “malfunzionamento cronico” del suo sistema penitenziario.
e, infine, si individua una nuova disciplina dei reclami al magistrato di sorveglianza per violazione dei propri diritti.
La sentenza in questione rientra nella categoria sentenze–pilota i cui effetti consistono nella sospensione dell’esame dei ricorsi aventi per oggetto situazioni analoghe a quella presa in esame (nel caso specifico particolarmente numerosi) e nell’assegnazione allo Stato parte di un termine di tempo entro il quale dovranno essere introdotte misure idonee a porre fine alla situazione che è all’origine della violazione.
Amnesty International accoglie con favore tale previsione, che costituisce l’attuazione dell’obbligo individuato all’interno del Protocollo aggiuntivo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura del 2002, ratificato dall’Italia, il quale stabilisce che ogni stato parte dovrà avere “uno o più meccanismi nazionali preventivi indipendenti per la prevenzione della tortura a livello domestico” e auspica che la nuova autorità sia posta al più presto nelle condizioni di svolgere efficacemente le proprie funzioni.
In attuazione della sentenza Torreggiani, le autorità italiane introducono diverse misure da valutare complessivamente con favore: il primo e il secondo decreto Cancellieri e la legge 117/2014. Con questi provvedimenti si diminuiscono i casi in cui è possibile la custodia cautelare, si estendono i casi di concessione delle misure alternative alla detenzione, si raggiunge la stabilizzazione della misura della detenzione domiciliare per le pene detentive non superiori ai 18 mesi; si riconosce, per chi abbia commesso reati non particolarmente gravi e abbia tenuto una condotta regolare, la liberazione anticipata speciale caratterizzata da una detrazione di 75 giorni di detenzione ogni semestre anziché 45; viene abolito il divieto di applicare per più di due volte l’affidamento in prova terapeutico per condannati tossicodipendenti Voci - APRILE 2016 N. 2 / A.2
Il “secondo decreto Cancellieri”, oltre alle misure sopra indicate, prevede l’istituzione della figura del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o altrimenti private della libertà personale.
Come in Italia, anche in tutto il resto del mondo, Amnesty continua a tutelare i prigionieri, parte della categoria più esposta alle violazioni dei diritti umani: la campagna internazionale “Stop alla tortura” che individua molteplici casi di abusi da parte degli Stati in detenzione, ufficiale o meno, ne è l’evidenza. E’ la prova che l’essenza di Amnesty International, la tutela della dignità umana nei contesti dove la persona può più facilmente perdersi, è ancora viva e pulsante e risponde ad un bisogno più che mai universale.
Liliana Maniscalco Responsabile Regionale di Amnesty International
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Attualità
IL FUTURO SARÀ DI TUTTA L’UMANITÀ Intervista agli autori di Giuseppe Provenza
Abbiamo intervistato gli autori del libro “Il futuro sarà di tutta l’umanità – Voci dal carcere” di Antonella Speciale ed Emanuele Verrocchi, Dissensi Edizioni, 2015 1. Antonella, di Acireale, si occupa di laboratori di scrittura autobiografica e creativa presso gli istituti penali per minori e adulti. Emanuele, di Sulmona, sindacalista, si occupa, fra l’altro, di immigrazione e di politiche per la legalità. Dal libro, che riporta le riflessioni degli autori sulla base delle loro esperienze come volontari nelle carceri, accompagnate anche da interessanti e talvolta toccanti composizioni dei carcerati, emerge con chiarezza l’antico dilemma, mai risolto da Beccaria in poi, se, nei confronti di chi viola la legge, debba prevalere la punizione, in particolare il carcere, o la riabilitazione. Chi ha a cuore i Diritti Umani non ignora come a base di questi si ponga il concetto di dignità di ogni essere umano, senza condizioni né eccezioni, e non può, quindi, che privilegiare ogni percorso che conduca alla consapevolezza dell’errore e all’affermazione della parte migliore che certamente esiste in ogni essere umano. Tuttavia è un percorso sempre difficile e in alcuni casi anche senza successo. Nel libro si legge di questa speranza, che la punizione sia strumento per la rinascita di una nuova persona, speranza che vive in tanti operatori e si manifesta in tante persone che stanno vivendo la triste realtà del carcere e che, dal libro si scopre, possono trovare momenti di catarsi lavorando con operatori, come i nostri autori, che, con il loro meritorio e difficile lavoro, offrono a coloro che stanno pagando un lodevole contributo al recupero della loro parte migliore. La lettura di questo interessante lavoro e di ciò che delle persone che stanno pagando hanno saputo esprimere, offre la speranza che si possano ogni giorno di più conquistare, pur affrontando una difficile strada, metodologie sanzionatorie sempre più umane ed efficaci nella strada del recupero. La lettura del libro ha fatto sorgere alcune domande raccolte in questa intervista agli autori. 1 - Il libro è stato presentato con Amnesty Sicilia in marzo a Catania e sarà presentato, sempre con Amnesty Sicilia, in maggio a Palermo.
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D. Vorrei iniziare questa intervista dall’art. 27 della Costituzione Italiana, da voi citato, che, fra l’altro dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Evitando ogni generalizzazione e riferendoci esclusivamente alle vostre esperienze dirette, avete riscontrato casi di mancato rispetto di questi principi? E viceversa ricordate episodi di autentica umanità e casi di detenuti realmente riabilitati? R. È interessante notare come nella Costituzione si faccia riferimento alle “pene”, non necessariamente al carcere, innanzi tutto, luogo in cui oggi si sconta normalmente la pena. Ebbene, la prigione è di per se stessa contraria al senso di umanità: è una gabbia dove un uomo rinchiude un proprio fratello. Dover chiedere di potersi spostare da un punto all’altro dell’edificio, vivere in pochi metri quadri gomito a gomito con altri uomini, chiedere di potersi fare la doccia, essere vessati, maltrattati e spesso, ahimè, picchiati. Cosa c’è di umano, vi domando? I casi di autentica umanità in un luogo così infernale stanno APRILE 2016 N. 2 / A.2 - Voci
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solamente nella coscienza di singole persone (dunque non nel sistema) che, nonostante lavorino là dentro, svolgono il loro mestiere senza perdere la propria umanità (cosa peraltro difficile in un ambiente così patogeno). Il carcere, dunque, non riabilita nessuno, questa è una falsa idea da sfatare, peggiora chiunque, e non è certo un luogo per recuperare e reintegrare le persone che hanno commesso crimini. Conosco persone che hanno cambiato vita, soprattutto ragazzi incontrati all’IPM, che l’hanno fatto per loro volontà, e grazie a input esterni diversi, anche grazie agli operatori volontari e alla scuola, del resto. (A.S.) D. Uno dei primo capitoli “Libertà” fa riflettere. Un detenuto si chiede “Chi è veramente libero ?” e continua “io sono veramente libero” …… “la libertà è pensiero”. È certamente vero e viene da chiedersi se tanti non siano stati finalmente liberi una volta in carcere, liberi da un contesto in cui se non sei fuori dalla legge non sei uomo, in cui devi dimostrare anche ciò che non sei, in cui c’è sempre qualcuno più forte a cui devi conformarti. La mia domanda è se, aldilà di chi ha scritto le parole citate, avete avuto modo di percepire che questa sorta di “liberazione interiore”, pur nella prigionia, sia una realtà riscontrabile e percepibile? R. Viene in effetti da chiedersi: «chi è veramente libero? Chi può dire cosa sia la libertà?». Nel buio estremo della carcerazione, molto spesso affiora una luce, che è quella della rivisitazione interiore, tornare al proprio vissuto, ritrovare il senso perduto, capire che, molto spesso, non si è stati liberi interiormente. Un ergastolano ostativo più avanti nel libro scrive: «Anche l’idea di libertà è in continuo divenire, in quanto muta a seconda dell’esperienza che la persona acquisisce, cioè a seconda della conoscenza …». Oggi per lui «Libertà è: amore, verità, bellezza, bontà». Credo che noi tutti e soprattutto le istituzioni competenti abbiano il dovere di prendere atto di questi cambiamenti interiori della persona detenuta, troppo spesso cristallizzata dentro l’immagine del reato commesso. (A.S.) D. Chi è incappato nei rigori della giustizia, quando si trova a parlare della sua storia può riconoscere i propri errori, o può, anche quando non si proclama innocente, assumere il ruolo della vittima della società, convincendo anche sé stesso che è stata la realtà che lo circondava a portarlo alle azioni delittuose commesse. Poiché questi diversi atteggiamenti, riconoscere gli errori, sentirsi vittima, o proclamarsi innocente, possono influire, in senso positivo o negativo, sulla possibilità che la persona riesca a percorrere per intero la strada della riabilitazione, cosa potete riferire su quali di questi
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atteggiamenti avete più frequentemente riscontrato nella vostra esperienza? R. Nessuna delle persone con le quali ho interloquito nel corso della mia esperienza ha mai avuto atteggiamenti di vittimismo, ma, al contrario, una presa di coscienza di ciò che stava pagando, forse in modo assurdo, perché, appunto, il carcere con le sue vessazioni inutili è assurdo, non ha nulla a che vedere con la pena in sé per sé secondo il nostro sistema di giustizia retributiva. In carcere ho conosciuto parecchi innocenti, che con molta dignità attraversavano la loro stagione all’inferno con una forza d’animo incredibile. Credo che dobbiamo molto a queste persone, dovremmo riflettere su questo, in fondo gli abbiamo rovinato l’esistenza. I colpevoli scontano gli anni con responsabilità. Ma l’ho già detto, il carcere non riabilita, in carcere si paga, e basta. (A.S.) D. Si sente spesso dire che il carcere può essere la migliore scuola di criminalità. Secondo voi questo è un luogo comune privo di fondamento, è una esagerazione o è una triste realtà ? Qualora voi siate per la terza ipotesi, ritenete che ciò sia ineluttabile o vedreste delle modalità diverse per applicare la giustizia nel rispetto dei principi enunciati dalla Costituzione Italiana? R. È la triste realtà. Ecco perché vogliamo aprire questo dibattito con la società, vogliamo che di carcere se ne parli il più possibile, che le persone capiscano che anche dal punto di vista della pubblica sicurezza la prigione non serve a nulla (si pensi alla percentuale di recidiva, quasi il 70% per chi sconta la pena in carcere): una volta uscite dal carcere, le persone tornano a delinquere, non sanno fare altro, e portano addosso uno stigma sociale che pesa moltissimo. Ecco perché, se utilizzassimo i fondi per costruire strutture alternative, terapeutico – riabilitative, non solo restituiremmo la persona migliore a se stessa, ma anche alla società, che verrebbe veramente tutelata, oltre a creare posti di lavoro per figure professionali oggi a spasso. (A.S.) D. Conosciamo tutti la grave problematica dell’affollamento delle carceri italiane, diventata perfino oggetto di giudizio, e di condanna, da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Cosa potete riferirci, al riguardo, della vostra esperienza? R. Il sovraffollamento c’è, esiste, soprattutto in media sicurezza, e tra l’altro è dovuto anche al fatto che molte persone sono in carcerazione preventiva, in attesa di giudizio, o non hanno i soldi per pagarsi un buon avvocato, o non ci sono strutture dove poter scontare i domiciliari non avendo loro dimora
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Attualità
usufruibile. Anche qui, bisognerebbe pensare a cambiare molte cose. (A.S.) D. Nel libro viene fatto rilevare che in Italia soltanto il 25% dei detenuti lavora, contro percentuali molto più alte in altri paesi. Poiché il lavorare in carcere appare un passo importante nella strada della riabilitazione e quindi della non recidiva, anche e soprattutto consentendo una continuità di lavoro a fine pena, sembra importante comprendere le ragioni di ciò. In base alla vostra esperienza cosa, in atto, mantiene bassa questa percentuale e, conseguentemente, cosa si potrebbe fare per portare l’Italia, anche in questo caso, a livelli europei? R. Distinguiamo tra il lavoro ‘intra murario’, ossia quello possibile dentro le carceri, e il lavoro fuori dal carcere, dopo che si è scontata la pena. Nel primo caso, la cosiddetta ‘legge Smuraglia’ contempla sgravi, benefici e agevolazioni che possono essere ottenuti da cooperative e aziende pubbliche e private che instaurino rapporti di lavoro subordinato con i detenuti. A nostro avviso, tale legge risulta sottoutilizzata e non si comprende, ancora, il suo reale valore da parte del sistema aziendale italiano: le aziende italiane, con l’attività svolta in carcere, potrebbero valorizzarsi e spendersi dal punto di vista dell’immagine e del posizionamento commerciale (marketing sociale e responsabilità sociale). Nel secondo caso, registriamo l’assenza di una rete strutturata, nella società, in grado di funzionare da deterrente rispetto all’azione deviante. Abbiamo enormi difficoltà, quindi, di reinserimento. Insomma, non esistono servizi sociali adeguati. Lo Stato deve spendere di più, portandosi ai livelli europei (nel libro citiamo l’esempio dell’Austria). Infine, per entrambe le considerazioni (il lavoro dentro e fuori il carcere), strategica diventa l’attività dei direttori, che dovrebbero utilizzare di più e meglio la normativa esistente ed assumere, quindi, un ruolo di maggior protagonismo nei contesti territoriali in cui operano per garantire, anche, quella necessaria continuità lavorativa a fine pena. (E.V.) D. Va detto che, come avviene per tutti gli uomini in generale, anche i detenuti, pur se tutti uguali nei diritti, come ovvio, non sono tutti uguali nei comportamenti. È probabile, o almeno così si può sperare, che vi sia una maggioranza di sfortunati nati e cresciuti in realtà familiari e/o sociali difficili che li hanno portati a commettere reati anche gravi. Sono quelli che un sistema sanzionatorio ben concepito e ben realizzato può recuperare. Tuttavia è pur vero che esiste anche l’altra realtà dei più difficili, pur volendo riconoscere che una possibilità di riabilitazione esiste
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in ogni uomo. Ovviamente non va mai dimenticato, come asserisce la nostra Costituzione, sia pure con altre parole, che ad ogni essere umano va sempre pienamente riconosciuta e rispettata la sua dignità di essere umano. Come ritenete voi che vadano gestiti questi casi particolarmente difficili, tenendo conto, da una parte, della loro dignità, e dall’altra parte della necessità di difendere l’intera società, e quindi singoli individui, da persone che hanno dimostrato particolare pertinacia e particolare abilità nel delinquere, anche e soprattutto in maniera organizzata, a dispetto di ogni legge e di ogni controllo? R. La mia esperienza si snoda soprattutto in Alta Sicurezza, in quel circuito, cioè, dove sono detenute le persone imputate e condannate per reati di stampo mafioso. Sono arrivata ad incontrare gli ergastolani ostativi, i cosiddetti “fine pena mai”, coloro i quali non usciranno mai più dal carcere, né potranno usufruire dei normali benefici penitenziari di cui gli altri ergastolani (anche pluriomicidi) usufruiscono. Questo è contrario all’art. 27 della Costituzione, è praticamente una pena di morte goccia a goccia, e nessuno sembra interessarsene, nonostante abbiamo oggi circa 1200 ergastolani ostativi, molti dei quali hanno compiuto un percorso di rivisitazione interiore che merita di essere preso in considerazione dalle autorità competenti per valutare il loro futuro come cittadini, ad oggi inesistente. Sono persone provenienti o tutt’ora stanziate nel regime del 41 bis, ritenuto dalla Corte Europea “stato di tortura”. In Alta Sicurezza, nulla ha a che fare con la sicurezza, è solamente un regime più inflittivo, più vendicativo (perché vedere meno ore i familiari, avere meno ore di attività o non averne per niente?). Se qualcuno ha oltraggiato lo Stato, come pensano di farglielo rispettare infliggendo loro i peggiori maltrattamenti? Nessuno capirà cosa è uno Stato, e perché rispettarlo. È una ricerca ai capri espiatori da punire in un puzzle molto più complesso della storia del nostro Paese. (A.S.) «Capisco che ci vuole coraggio ad incontrarsi e confrontarsi, e a rispettare l’articolo 27, è vero: eppure solo il reinserimento elimina la possibilità di recidiva […] La condanna, stabilita dai Tribunali, non deve essere “tempo vuoto”, poiché un individuo va restituito alla società migliore di prima (art. 27 della Costituzione)» (da Il futuro sarà di tutta l’umanità – voci dal carcere, Dissensi edizioni). Giuseppe Provenza Responsabile Gruppo Italia 243 di Amnesty International Sezione Italiana Membro del Coordinamento Europa di Amnesty International Sezione Italiana
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America Latina
GLI ARTIGLI DEL CONDOR di Patrizia Sacco - Coordinamento A.L.
“Per gentile concessione di Lilia Di Monte”
L’America Latina è sempre stata considerata, a volte in maniera un po’ stereotipata e superficiale, il paese delle dittature e dei colpi di stato. Negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso questa era purtroppo la realtà dei fatti nel cosiddetto Cono Sur, ossia la parte meridionale del continente americano. Il Paraguay viveva fin dal 1954 sotto il pugno di ferro di Alfredo Stroessner, record delle dittature latinoamericane essendo stato deposto nel 1989. Anche in Brasile dal 1964 si susseguivano governi militari che avrebbero permesso libere elezioni solo nel 1989. In Cile Pinochet si era impadronito del potere deponendo il legittimo governo di Salvador Allende l’11 settembre 1973: lo manterrà fino al 1990, quando un referendum dirà un grande no alla sua dittatura. In Argentina il golpe era arrivato nel 1976 e per fortuna del paese le giunte militari continueranno solo fino all’’83, mentre l’Uruguay subiva governi forti tra il 1973 e il 1985. Non erano da meno Perù e Bolivia, nazioni in cui i colpi di stato hanno una lunga tradizione. È quasi scontato che i governi di questi paesi, accomunati da un’impostazione autoritaria e antidemocratica si guardassero l’un l’altro senza ostilità, ma anzi con una certa simpatia, e fossero ben disposti a collaborare nel reprimere ogni dissenso interno. Che fra loro ci fosse una specie di patto di mutua assistenza era stato più volte denunciato, Voci - APRILE 2016 N. 2 / A.2
ma tutto era ridotto a pura teoria, per la quale non mancavano i negazionisti. Nel dicembre 1992 però avviene un fatto che trasforma la teoria in realtà. A Lambarè, in Paraguay, un giudice riesce ad avere accesso all’archivio di una caserma, dove sospettava fossero nascosti documenti relativi agli anni della dittatura. Quelli che troverà saranno definiti “Archivi del terrore”, testimonianze delle tragedie di decine di migliaia di cittadini sudamericani arrestati arbitrariamente, rapiti, incarcerati, torturati, uccisi, fatti scomparire in quei due decenni nei paesi del Cono Sur. Tutto ciò era frutto di un piano segreto che prevedeva il coordinamento e la collaborazione di governi, eserciti, servizi di intelligence e forze di polizia che operavano per reprimere ed eliminare qualsiasi forma di opposizione. Il Plan Condor (Operazione Condor) era finalmente venuto alla luce. Secondo un documento presente nell’archivio il suo scopo era di “salvare la civiltà cristiana e occidentale dalla morsa del comunismo” e appariva evidente che il governo degli Stati Uniti non ne era all’oscuro ma che addirittura la CIA lo aveva patrocinato. Le conseguenze di questo piano furono enormi per l’intero continente: i morti e gli scomparsi si possono contare a decine di migliaia. Varie centinaia di bambini nacquero nelle prigioni segrete e furono sottratti alle madri per essere affidati con adozioni illegali a famiglie gradite ai governi. Moltissimi 8
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fuggirono dai rispettivi paesi rendendosi conto del pericolo, e cercarono rifugio in Europa e Nord America, lasciando così il Sud del continente privo di un’intera generazione. O per meglio dire gran parte del mondo latinoamericano fu privata del meglio di quella generazione, dei giovani cervelli pensanti e dei cuori palpitanti di impegno morale e civile; un fatto che lasciò conseguenze profonde e durature nelle società così menomate. Da quegli avvenimenti sono trascorsi decenni e in tutti quei paesi c’è stato un ritorno alla democrazia e a un maggior rispetto dei diritti; un processo lento che in alcuni casi ha portato a un riesame di quanto avvenuto e in altri solo a un tentativo di seppellire il passato doloroso in un oblio pieno di nebbie e segreti mai svelati. Non In Italia però. A questo punto sono certa che molti si chiederanno che cosa c’entri il nostro paese in tutta questa vicenda lunga e articolata. C’entra e molto. Si tratta di una questione di semplice calcolo, basta pensare a quanta parte della popolazione latinoamericana sia di origine italiana (in Argentina siamo intorno al 50%) per capire che i nostri connazionali non potevano non essere coinvolti in questa vicenda, sia dalla parte delle vittime che da quella dei carnefici. Il 12 febbraio 2015 ha preso il via a Roma il Processo Condor, che vede sul banco degli imputati 33 ufficiali e funzionari delle dittature civico-militari al potere nei paesi del Cono Sud; l’accusa è di aver sequestrato e ucciso 42 persone accomunate dal fatto di possedere oltre a quella di uno di quei paesi anche la nazionalità italiana. Al processo si è arrivati dopo una lunghissima inchiesta condotta dal procuratore Giancarlo Capaldo grazie alla legge che permette di giudicare nel nostro paese crimini contro l’umanità compiuti all’estero nei confronti di cittadini italiani. Gli imputati sono tutti contumaci tranne uno: Jorge Nestor Troccoli, ufficiale dei servizi segreti uruguayani, noto come “il torturatore”, che una decina di anni fa, temendo le conseguenze di un cambio di direzione politica nel proprio paese ha rispolverato il passaporto italiano per venire a trascorrere tranquilli anni da pensionato a Marina di Camerota. Il termine “pensionato” però non deve far pensare a un debole vecchietto che cerca di dimenticare gli errori del passato: Troccoli ha solo 66 anni e al suo attivo c’è la pubblicazione di un libro “L’ira del leviatano”, dedicato a tutti i suoi camerati. Le udienze del processo si svolgono con cadenza quasi mensile, i testimoni sono molti e vengono quasi
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tutti da lontano: una lunga teoria di ricordi pieni di un dolore che il tempo non ha attutito. Per molti di loro questo processo ha un valore speciale perché è la prima occasione di essere ascoltati dopo decenni di denunce senza risposta nel loro paese e spesso ringraziano la giustizia italiana per questa opportunità. Un gran lavoro organizzativo e di sostegno lo sta svolgendo l’associazione 24 Marzo, che da sempre si occupa di temi legati alla giustizia e alle violazioni dei diritti umani nei paesi del processo. La fondazione Basso poi offre dopo ogni udienza la sua bella sede per un incontro tra alcuni dei testimoni e chiunque sia interessato al tema. I giornalisti naturalmente sono invitati a questi eventi ma brillano per assenza sia qui che nell’aula di Rebibbia che ospita da circa un anno il dibattimento: la stampa italiana ha avvolto il processo in un silenzio imbarazzante. Tranne vari articoli del Manifesto le grandi testate italiane ignorano quasi le udienze: per trovare qualcosa su Repubblica bisogna ritornare al maggio 2015, quando comparve in aula la figlia di Salvador Allende. C’è voluto il nome di un presidente per risvegliare la nostra stampa addormentata! Cristina Fynn è arrivata da Montevideo, dove attualmente è assessore, per testimoniare contro Troccoli. La sua storia è intessuta di orrore e abuso: pur non svolgendo alcuna attività politica, ma solo per il suo ruolo in strutture di tutela sociale viene arrestata da agenti in borghese e portata in una prigione segreta. Sarà torturata per mesi, su di lei la picana elettrica verrà applicata nei punti più sensibili e segreti di una donna, fino a costringerla a firmare documenti di cui non conosce il contenuto. Trasferita in una prigione statale, rimarrà in cella per nove anni, tornando libera solo quando il suo paese inizierà un nuovo percorso democratico. La sua deposizione al processo si è conclusa con questa dichiarazione che Cristina ha voluto regalare a tutti noi: “Sono viva grazie alla solidarietà degli italiani, perché durante la mia prigionia sono stata protetta dal gruppo di Firenze di Amnesty International. Perciò sono enormemente grata al popolo italiano e ho fiducia che la giustizia italiana possa aiutarci a raggiungere la verità, che è un modo di esercitare la giustizia”.
Patrizia Sacco Coord. America Latina di Amnesty International Sezione Italiana
APRILE 2016 N. 2 / A.2 - Voci
Cina
LA TUTELA DEI DIRITTI UMANI IN CINA e il ruolo degli human rights lawyers di Maurizio Gemelli
“Per me la Cina è sempre stata un punto di riferimento di grandezza. Un grande paese. Ma più che un paese, una grande cultura, con una saggezza inesauribile. Per me, da ragazzo, quando leggevo cose sulla Cina, aveva la capacità di ispirare la mia ammirazione.” 1 Le parole di particolare apprezzamento, espresse dal Sommo Pontefice, non trovano, però, riscontro nella parallela percezione, spesso assai poco aderente alla realtà effettiva, che noi occidentali abbiamo della Cina. La si evoca, più in particolare, a proposito delle sue ricorrenti performance economiche e troppo poco per le parallele disparità sociali, magari scaturenti, come altrettanti effetti collaterali, proprio dalle sovrabbondanti energie profuse in ambito economico. Rimane, ad ogni buon conto, una grande potenza economica e militare, retta da un regime a tutt’oggi ancora ispirato al dirigismo più anacronistico. Un paese in cui si violano sistematicamente i diritti umani, le libertà fondamentali e la dignità dei cittadini (basti pensare alle truci esperienze dei laogay 2, 1 - Quelle di cui all’incipit del testo sono parole pronunciate lo scorso 2 febbraio da Papa Francesco in occasione di una intervista, rilasciata al giornalista e sinologo italiano Francesco Sisci, e pubblicata da Asian Times, quotidiano on line in lingua inglese edito a Hong Kong. 2 - Con Il termine “laogay” si designano i campi di rieducazione mediante il lavoro riservati ai dissidenti del regime, ovvero a tutti coloro che, attraverso la loro riflessione critica, osano mettere in discussione i principi essenziali dello stato e del comunismo cinese.
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delle fornaci cinesi, degli arresti spesso del tutto indiscriminatamente operati dalla polizia di Stato, sui quali torneremo più avanti). Per non tacere del tentativo di veicolare una immagine di democrazia, spesso miseramente fallito, avendo compresso la libertà di espressione degli studenti e degli intellettuali in genere, nei confronti dei quali pure la Cina aveva più volte sbandierato l’intento di garantire maggiori spazi pubblici (il pensiero corre alla c.d. “campagna dei cento fiori”) 3. All’osservatore straniero, essa appare come un paese socialmente chiuso verso il resto del mondo, all’interno del quale, ancora oggi, a fianco ad una buona parte della popolazione impegnata in attività del terzo settore, permane una vasta zona rurale, presidiata da minoranze etniche, rispetto alle quali la spirale modernista e il capitalismo sfrenato stentano ad affermarsi. Molti cinesi sono usciti dalla povertà, il reddito medio pro capite si è moltiplicato per sei, la popolazione che abita in medi e grandi centri urbani, 3 - Com’è noto, trattasi di campagna, varata da Mao al fine di discutere la ricostruzione dello stato proprio grazie al loro contributo, successivamente trasformatasi in una valanga di critiche, che sfociarono nella repressione, il cui epilogo si raggiunse nel maggio del 1989 a Pechino con i disastri di Tienanmen. Fu proprio da quel bagno di sangue che prese vigore il gruppo delle cc.dd. madri di Tienanmen, che raccoglie i familiari delle vittime e che venne fondato da Ding Zilin, all’epoca membro del Partito e docente di filosofia all’Università del Popolo di Pechino, ma soprattutto madre di un ragazzo di appena diciassette anni, ucciso nella notte tra il 3 e il 4 giugno del 1989.
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soprattutto metropolitani, è raddoppiata, dando vita alla più grande migrazione della storia del paese. All’inizio del terzo millennio, e segnatamente a partire dalla sua adesione alla Wto nel 2001, il sistema economico ha cominciato a recepire i principi occidentali relativi all’apertura ai mercati esteri e al capitalismo, facendo della Cina uno dei maggiori operatori commerciali del mondo. Essa è, infatti, a tutt’oggi, il secondo partner commerciale dell’Unione Europea, dopo gli Stati Uniti, con un volume commerciale complessivo di affari pari a circa un miliardo di euro al giorno. Per non parlare, poi, della crescita esponenziale che hanno registrato, nel lasso di tempo che intercorre tra il 2000 e il 2014, gli investimenti esteri diretti (Fdi) in paesi africani quali la Tunisia, il Sud Africa, il Kenya, la Nigeria, l’Angola, l’Egitto, l’Algeria e la Libia, sino al punto di superare gli USA come più importante interlocutore commerciale dell’Africa in genere. Il governo ha proceduto allo smantellamento delle comuni agricole, permettendo ai contadini di coltivare le terre con affitti a lungo termine, ha voluto che le imprese di stato divenissero capaci di gestire l’andamento del mercato, fissando il regime dei prezzi in una società aperta. Il mercato cinese è, infatti, privo di imprese proprie, complice anche la invasiva presenza dello stato che, piuttosto che favorire la nascita di un grande ceto imprenditoriale, ha preferito affidare ai comitati di partito le posizioni di vertice e di supervisione aziendale, adottando il modello di una “economia socialista di mercato”, nella quale il governo controlla e finanzia cospicuamente le imprese statali che dominano settori come l’acciaio, la produzione di energia e il minerario. Eppure, malgrado l’anelito riformista in materia economica, la vicinanza al capitalismo viene ancora percepita con sospetto tanto relativamente ai suoi effetti sociali quanto alla coerenza ideologica interna. Rimangono, ad ogni buon conto, non pochi problemi ancora in attesa di trovare una soluzione adeguata (si pensi alla mancanza di trasparenza, alle misure discriminatorie nei confronti delle concorrenti imprese straniere, alla protezione ed applicazione inadeguata delle proprietà dei diritti intellettuali, alle restrizioni alle esportazioni cinesi di materie prime). Per esprimere al meglio il carattere straordinario del trend di quella società, registrato in questi ultimi anni, si potrebbe richiamare la c.d. “dialettica della mentalità del colonizzato” 4, intendendosi con tale sintagma avere riguardo alla tendenza, del tutto comprensibile dopo anni di subalternità, dei paesi 4 - L’espressione di cui al testo è riconducibile a A. Sen, “Identità e violenza”, Editori Laterza 2006, p.93, richiama l’attenzione, più in particolare, sul come “la dialettica della mentalità del colonizzato può condizionare gravemente la vita e la libertà degli individui ossessionati, per reazione, dall’Occidente. E può avere effetti devastanti sull’esistenza di singoli individui anche in altri paesi, nei casi in cui questa reazione assume la forma violenta della ricerca dello scontro….”
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colonizzati a mettere in luce l’originalità asiatica dei relativi principi, pur acquisendone altri, democratici ed economici, di matrice occidentale. Essi, infatti, a far data dalla Dichiarazione di Bangkok del 1993, propugnarono la tesi che i diritti umani, così come concepiti sino a quell’epoca, non potevano avere diritto di cittadinanza in quel territorio, dovendo, invece, essere analizzati con gli standard culturali a loro appartenenti. Di fronte all’acuirsi delle proteste, i rischi di una seconda Tienanmen proiettata verso una maggiore giustizia sociale non possono certo ritenersi del tutto scongiurati 5. Il controllo esercitato sulle varie parti del sistema, sui media, unitamente al ruolo centrale assegnato alla polizia e alle forze armate, costituisce l’unico fattore su cui fondare l’egemonia, seppur molto fragile e verosimilmente non di lungo periodo, del partito comunista, che mostra di non tollerare alcuna forma di opposizione organizzata, o comunque di dissenso individuale, pena l’irrogazione di dure pene detentive. Paradigmatica, al riguardo, l’esperienza di Liu Xiaobo, premio nobel per la pace nel 2010,il quale nel giorno di Natale del 2009, è stato condannato alla pena di undici anni 6, che in atto sta ancora scontando, per avere partecipato alla stesura del manifesto a favore della democrazia, meglio conosciuto come “Charta 08” 7. Si è trattato della sanzione certamente più dura mai emessa da un tribunale cinese dopo l’introduzione, a metà degli anni novanta, del reato di istigazione alla sovversione. La medesima linea di pensiero viene, altresì, confermata dai “World Reports” di Human Rights Watch, i quali, pur riconoscendo i grandi passi avanti verso un percorso più democratico, riportano che tanta strada ancora deve essere percorsa a tale riguardo al fine di adempiere gli obblighi internazionali. Nonostante negli ultimi anni la Cina abbia rafforzato il suo sistema legale, permettendo la pubblicazione di notizie controcorrente e adottando, talvolta, politiche pubbliche più vicine al sentire comune, la promessa relativa al rafforzamento della “rule of law” risalente 5 - Anche perché non può certo dimenticarsi che, all’interno dello stesso partito comunista dell’epoca, non tutti furono d’accordo sulla repressione violenta in danno degli studenti, sfociata nel celebre massacro del 4 giugno 1989. Si pensi alla figura di Zhao Ziyang, il segretario del partito comunista cinese, silurato da Deng Xiaoping, proprio per essersi opposto alla soluzione di forza contro il movimento studentesco, epperciò arrestato con l’accusa di avere diviso il partito. Le memorie di quell’uomo possono essere lette in un suo libro, intitolato “Prigioniero dello Stato: il diario segreto del primo ministro Zhao Zijang”, pubblicato negli USA nel maggio del 2009. 6 - Per leggere un interessantissimo stralcio dell’intervento che Liu Xiaobo ha pronunciato il 23 dicembre del 2009, nel corso del processo, durato complessivamente appena tre ore e nel corso del quale gli avvocati difensori hanno avuto assegnato un termine di venti minuti per svolgere le loro arringhe difensive, si rinvia a Liu Xiaobo, IL SOLE 24 ORE, 9 ottobre 2010, n.277 7 - Documento con il quale, poco prima delle Olimpiadi di Pechino del 2008, oltre diecimila persone (tra le quali attivisti, professori, dissidenti e intellettuali in genere) avevano chiesto al governo cinese di rispettare i diritti umani, avviando, in concreto, una seria riforma del sistema politico imperniato sul partito unico e tesa a garantire l’indipendenza dei giudici. APRILE 2016 N. 2 / A.2 - Voci
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al 2004, più comunemente inteso stato di diritto e predominio della legge, è stata compromessa dall’interferenza del partito unico, dalla cultura dell’impunità prevista per i suoi membri e dalle minacce riservate a tutti coloro che hanno osato perorare la causa del rispetto dei diritti umani. Per il solo decennio compreso fra il 1949, l’anno della vittoria delle forze comuniste e della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese, e il 1958, si parla di circa cinquanta milioni di vite umane sacrificate 8, alle quali vanno aggiunti altri trenta milioni di contadini inviati nei campi di concentramento. Tra le numerose denunce di quelle violazioni, giova ricordare quella del 2005, resa da Manfred Nowak, investigatore capo dell’agenzia Onu sulle torture, il quale, in seguito a due settimane di accertamenti in Cina, ha concluso che molti processi non sono equi e che è frequente l’uso della tortura nelle sue forme più svariate (elettroschock, bruciature con sigarette, immersione in fosse piene d’acqua o di escrementi etc…). Per non tacere dei contributi che provengono dalla Laogai Research Foundation, che informa giornalmente sui famigerati campi del comunismo cinese, all’interno dei quali migliaia di cinesi sono costretti ai lavori forzati che il governo di Pechino sfrutta beneficiando per un verso di manodopera a titolo gratuito e, per altro verso, di disponibilità di organi, che finiscono per alimentare un fiorente mercato illecito (si pensi che le cliniche deputate all’espianto degli organi, per ragioni esclusivamente commerciali, secondo l’ultimo censimento del 2007, sarebbero circa seicento 9). Anche le numerose ONG, seppure molte non adeguatamente registrate in virtù della tortuosità del relativo processo di riconoscimento 10, hanno offerto un contributo significativo. Amnesty International, in particolare, ha sistematicamente cercato di sfruttare le opportunità politiche internazionali (si pensi ai giochi olimpici di Pechino del 2008), con l’auspicio di portare luce agli scandali in un momento in cui l’intera comunità mondiale rivolgeva le sue migliori attenzioni al territorio cinese. Accanto alle spinte esterne esercitate dalle anzidette organizzazioni internazionali, vi sono stati, altresì, numerosi organismi interni che hanno seriamente contribuito ad incrementare una più forte consapevolezza dei diritti umani. Il riferimento è agli “Human rights lawyers”, categoria oggi molto discussa atteso che, battendosi per il rispetto delle garanzie costituzionali e per l’effettiva applicazione dei patti internazionali, viene considerata dissidente 11. La loro persecuzione ha avuto inizio con Mao Zedong e, più precisamente, 8 - M. Respinti, Gli artigli del dragone, crimini, violazioni dei diritti umani e cultura di morte nella Cina del terzo millennio, Piemme, 2008, p. 93 9 - Ibidem., p. 113 10 - Human Rights Watch, Country Summary China 2015, p. 3 11 - Feng Chongyi, Rights Defende Lawyers as Dissidents in Contemporary China, in International Journal of China Studies, Vol. 3, No. 3, December 2012, p. 327
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durante la Rivoluzione Culturale, periodo in cui tanto gli avvocati quanto i giudici sono stati imprigionati e perseguitati a causa delle loro tendenze borghesi 12. Durante gli anni dell’apertura della Cina verso il mondo esterno, sono stati condotti numerosi sforzi in direzione delle riforme legali, accordando nuova visibilità a tale categoria, oggi, però, sottoposta al rigido controllo del partito e degli apparati di sicurezza, mediante l’iscrizione degli avvocati alla Associazione degli Avvocati Cinesi, con relativa conseguente subordinazione alle forze di polizia, di fronte alla quale l’indipendenza rimane una mero feticcio 13. E’ dello scorso 14 Dicembre la notizia di stampa, secondo la quale l’avvocato cinese per i diritti civili Pu Zhiqiang è stato processato a Pechino 14 per sette posts on-line dallo stesso redatti su un servizio simile a Twitter. Il signor Pu è stato arrestato nel maggio 2014, dopo aver frequentato una riunione informale di pensatori politici in casa di un professore a Pechino per commemorare le migliaia di persone uccise dai militari cinesi durante il movimento per la democrazia 1989. Egli era uno studente laureato, quando ha partecipato alle proteste di piazza Tiananmen. È stato trattenuto senza accuse per un anno, durante il quale la sua salute ha cominciato a soffrire. Poi, lo scorso maggio, i pubblici ministeri hanno annunciato che lo stavano per incriminare a causa dei posts dallo stesso pubblicati su Weibo, il sito di microblogging, nei quali ha messo in discussione le politiche repressive del partito nei confronti di appartenenti all’etnia uigura nello Xinjiang, una regione della Cina occidentale 15. Si è trattato dell’ennesimo tentativo, da parte del partito comunista, di mettere a tacere il dissenso 12 - D’altro canto, non può certo dimenticarsi che nel recente passato alcuni human right lawyers hanno addirittura perso la vita nella battaglia per i diritti umani. Il pensiero corre a Tahir Elci, l’avvocato curdo, attivista dei diritti umani, noto per le sue posizioni a favore del partito separatista Pkk giustiziato con un colpo alla testa lo scorso 28 novembre a Diyarbakir nel Kurdistan turco, nel tormentato sud-est del paese. 13 - Ibidem, p. 330 14 - Per ogni approfondimento sulla recente vicenda di cui al testo, si rinvia a E. WONG, Raduno di tifosi al processo per Pu Zhiqiang, avvocato diritti cinesi - New York Times 14 dicembre 2015. 15 - Prima di arrivare alla vicenda richiamata nel testo, merita di essere ricordata, sempre a proposito della causa del Xinjiang e del popolo uiguro, quella parallela di Rebiya Kadeer, una vita spesa sotto l’autoritarismo del regime comunista, rifugiatasi negli Stati Uniti sin dal 2005, dopo avere scontato ben sei anni di carcere duro. Per ogni approfondimento, v. R. Kadeer, La guerriera gentile. Una donna in lotta contro il regime cinese, Corbaccio, 2009.
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politico e tenere sotto controllo gli avvocati attivisti che contestano le politiche governative. Il processo dell’avvocato Pu ha attirato l’attenzione anche dei governi stranieri, che hanno inviato i loro diplomatici al palazzo di giustizia nel centro di Pechino per cercare di seguirne i lavori, parvero assai poco rispettosi dei parametri del c.d. equo processo. Basti considerare, a quel fine, che nessun funzionario straniero e giornalista è stato ammesso in aula, anche se la moglie del signor Pu era seduta all’interno, che l’udienza è durata poco più di tre ore, che diversi diplomatici, tra cui uno della Ambasciata degli Stati Uniti, unitamente a giornalisti e manifestanti sono stati spinti da agenti di polizia lontano dal palazzo di giustizia. Molti ufficiali di polizia presentavano il viso coperto da maschere a causa di una ondata intensa di aria tossica, la terza nel nord della Cina in tre settimane, ma anche allo scopo di nascondere la loro identità. Uomini robusti in borghese indossavano giacche invernali di spessore e adesivi gialli con faccina sul petto, presumibilmente in funzione dell’obiettivo specifico di potersi riconoscere l’un l’altro. Nei diciannove mesi, da quando è stato prima detenuto, il signor Pu, che ha il diabete, si era visto negare le visite con i suoi familiari, e la richiesta del suo avvocato di liberazione per motivi di salute era stata respinta. Il diplomatico americano al di fuori del palazzo di giustizia, Dan Biers, ha letto una dichiarazione dell’ambasciata dal seguente tenore letterale: “Restiamo preoccupati che Pu Zhiqiang, avvocato della difesa cinese di spicco, è sotto processo con le accuse vaghe di “incitamento all’odio etnico” e “ricerca della rissa, provocando conflitti sociali” Avvocati e leader della società civile, come il signor Pu, non dovrebbero essere oggetto di continua repressione, ma dovrebbe essere consentito loro di contribuire alla costruzione di una Cina prospera e stabile“. “Sotto Xi Jinping, la nostra società è andata regredendo”, ha dichiarato Hu Jia, un attivista dei diritti che è stato imprigionato dal dicembre 2007 al giugno 2011 per i suoi scritti. Anche se l’avvocato, Pu Zhiqiang ha ricevuto tre anni di sospensione condizionale della pena, che teoricamente gli ha permesso di andare libero, la convinzione è che finirà la sua carriera legale, con l’ulteriore effetto devastante 13
che una coltre di silenzio ammanterà un membro sostenitore di un gruppo di avvocati, che hanno combattuto per la giustizia e libertà di parola all’interno dei ristretti confini dell’ordinamento giuridico politicizzato della Cina. Da quando il presidente Xi Jinping è salito al potere, nel 2012, un flusso costante di avvocati e difensori dei diritti sono stati arrestati, e in diversi casi sono stati messi sotto processo e condannati. “Negli ultimi 20 anni, il grande successo dei diritti umani è stata la crescita di avvocati e attivisti cinesi che lavorano su tutto, dall’inquinamento alla corruzione per i diritti delle donne”, ha dichiarato Sophie Richardson, Direttore Human Rights Watch Cina. “Questo caso rende molto chiaro che il gruppo dirigente non tollererà alcuna organizzazione indipendente, non importa quanto sia pacifica … la sentenza si fa beffe della regola dello stato di diritto del Presidente cinese Xi Jinping e del sistema di giustizia penale in Cina”, ha detto Chinese Human Rights Defenders. Durante lo scorso luglio, il governo ha arrestato più di trecento avvocati e assistenti legali, una iniziativa che ha provocato un brivido all’interno della comunità giuridica, atteso che, se è vero che la maggior parte dei detenuti sono stati in seguito rilasciati, è altrettanto vero che più di venti avvocati sono rimasti in detenzione segreta, secondo “Cinesi Difensori dei Diritti Umani”, un gruppo di pressione con sede fuori della Cina. Altri avvocati sono stati arrestati per periodi più lunghi, tra cui un collega del signor Pu, l’avvocato dei diritti Xia Lin, che è rimasto detenuto per più di un anno. “Non è mai stato facile essere un avvocato dei diritti in Cina, ma questo è l’attacco più duro degli ultimi due decenni”, ha affermato Jerome A. Cohen, esperto di diritto cinese presso la New York University. “L’atmosfera è molto triste”. Il giro di vite contro gli avvocati ha avuto inizio nel 2013, quando Xu Zhiyong, fondatore del Movimento nuovi cittadini, un gruppo dedicato a promuovere i diritti legali, è stato arrestato con l’accusa di “radunare una folla per disturbare l’ordine pubblico”. E ‘stato messo su un processo nel gennaio 2014 e condannato a quattro anni di carcere, atteso che il governo stava introducendo nuovi limiti su ciò che la gente può dire APRILE 2016 N. 2 / A.2 - Voci
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on line, rendendo più difficile per le organizzazioni non governative straniere la possibilità di lavorare in Cina, e restringendo l’uso dei libri di testo occidentali nelle università del paese. Sempre nel corso del 2014, il governo ha condotto una campagna radicale, durante la quale ha arrestato novecentocinquantacinque sostenitori dei diritti - ha riferito Chinese Human Rights Defenders - tra i quali merita di essere ricordato il caso di Gao Zhisheng, un avvocato per i diritti schietto, che è stato condannato per il reato di sovversione nel 2006, sia pure con la sospensione condizionale della pena. Negli anni che seguirono, il signor Gao è stato tenuto agli arresti domiciliari e, secondo The Associated Press, sottoposto a pestaggi occasionali da parte della polizia. Nel 2010, poco prima della fine del suo periodo di prova, è scomparso e, successivamente, ha trascorso tre anni in isolamento dopo un processo segreto. Uscito lo scorso anno, il signor Gao vive ancora sotto sorveglianza della polizia ventiquattro ore su ventiquattro e ha numerosi problemi di salute, ha detto di essere stato fatto oggetto di abusi e malnutrizione durante i suoi anni in custodia. “E ‘scandaloso come Gao è stato trattato”, ha detto Cohen, l’esperto legale. “Pu sarà sotto enorme pressione, perché non sai mai se ti verremo a prendere per qualsiasi ragione e mettere via senza un giusto processo”. All’inizio del corrente anno, la polizia cinese ha formalmente arrestato quattro difensori dei diritti umani con l’accusa di sovversione dei poteri dello stato dopo la loro detenzione per gli ultimi sei mesi, secondo uno dei loro colleghi e gruppi per i diritti 16. I legali facevano parte di quello che era, fino allo scorso anno, un gruppo fiorente di esperti giuristi, che ha rappresentato clienti cinesi di primo piano, così come le persone in cerca di giustizia attraverso il sistema giudiziario controllato dal partito comunista. Nel mese di luglio, più di duecento di questi avvocati sono stati radunati in una spiazzata a livello nazionale e messi alla gogna dalla notizia dei media statali che li hanno qualificati come truffatori. Molti sono stati detenuti in una località segreta nella città portuale di Tianjin, in Cina. L’accusa di sovversione dei poteri dello Stato, che può portare ad una condanna fino al carcere a vita, è molto più grave di quanto molti sostenitori dei diritti umani avevano previsto nei quattro casi recenti e suggerisce che il governo ritiene che queste persone stavano cercando di minare la sicurezza dello stato attraverso il loro lavoro legale.
esprimendo il timore che, senza la rappresentanza legale della loro libertà di scelta o altre protezioni giuridiche, le persone di cui sopra siano ad alto rischio di tortura o altri trattamenti crudeli e inumani. E la loro preoccupazione è aumentata sensibilmente una volta preso atto delle conclusioni della Commissione contro la tortura delle Nazioni Unite, che lo scorso 9 dicembre 2015 ha espressamente dichiarato che “rimane seriamente preoccupata per le notizie coerenti che indicano che la pratica della tortura e dei maltrattamenti è ancora profondamente radicata nel sistema di giustizia penale, che si basa eccessivamente sulle confessioni come base per convinzioni“. Inoltre, i media cinesi, controllati dallo Stato, hanno denunciato in una serie di trasmissioni un certo numero di detenuti “sospetti”, come membri di un sindacato criminale impegnato in “diritti di difesa, creatori di problematiche”, e avrebbero mostrato sfilare alcuni dei detenuti, i quali avrebbero reso “confessione” per illeciti prima ancora di essere stati incriminati. Se così stanno le cose, non rimane che augurarsi che la profezia a suo tempo pronunciata da Liu Xiaobo, in occasione del processo a suo carico (“spero che un giorno il mio paese sarà una terra dove ci si potrà esprimere liberamente; dove valori, fedi, opinioni diverse potranno convivere. Spero in un paese dove le opinioni politiche diverse da quelle di chi detiene il potere saranno rispettate e protette; dove tutti i cittadini potranno esprimere le proprie opinioni politiche senza paura e le voci dissenzienti non saranno perseguitate. Spero di essere l’ultima vittima dell’immarcescibile inquisizione e che dopo di me nessun altro venga incarcerato per quello che ha detto”) 18, possa davvero avverarsi. L’auspicio, dunque, rimane quello che la Cina possa, magari in tempi non esattamente biblici, dismettere i panni dello stato in cui coesistono luci e tenebre, resistenze e repressioni, seppur nella consapevolezza che l’affermazione dei diritti umani sul versante sovranazionale non può non passare attraverso processi, non soltanto di aggiustamento e adeguamento, ma anche di dissenso critico e di resistenza al cambiamento. Maurizio Gemelli Docente a contratto di Diritti Umani presso il DEMS dell’Università di Palermo
La classe forense degli Stati Uniti ha chiesto alla Cina la fine della repressione dei diritti umani 17, 16 - Per ulteriori dettagli in ordine alla vicenda di cui al testo, si rinvia alla lettura di M. Forsythe, La Cina si dice che ha arrestato quattro sostenitori dei diritti umani - New York Times 12 Gennaio 2016 17 - L’American Bar Association, l’organo di rappresentanza più grande e più potente di avvocati americani, ha offerto una risposta meno conflittuale agli arresti in Cina, attraverso le parole di William C. Hubbard, “lo sviluppo di un solo Stato di diritto è una continua lotta in ogni nazione, compresi gli Stati Uniti”. Nel
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suo ultimo commento, inviato via e mail al New York Times, l’attuale presidente dell’associazione, la signora Brown, ha aggiunto: “restiamo preoccupati per la situazione e le sue implicazioni. A.B.A. sollecita il governo cinese a rispettare le proprie leggi e politiche e a riconoscere l’importante ruolo degli avvocati nell’amministrazione della giustizia per tutti. Gli avvocati dovrebbero essere in grado di fornire in modo sicuro protezioni significative per gli imputati“- v. The New York Times, 19 Gennaio 2016. 18 - Liu Xiaobo, IL SOLE 24 ORE, 9 ottobre 2010, n.277, cit.
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TRIVELLAZIONI E DIRITTO ALLA SALUTE L’AFFERMAZIONE DEL DIRITTO COLLETTIVO ALLA SALUBRITA’ AMBIENTALE CONTRO GLI INTERESSI ECONOMICI RISTRETTI IN VISTA DEL PROSSIMO REFERENDUM “ANTI-TRIV” DEL 17 APRILE di Marta D’Alia
L’articolo 32 della Costituzione Italiana recita al primo comma che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Tale disposto, oltre ad inquadrare la Salute come diritto fondamentale senza il quale non sarebbe possibile il godimento di altri diritti, comporta anche il diritto alla salubrità dell’ambiente. Infatti, seppure il richiamo alla definizione di “ambiente” non sia esplicitamente presente nella Costituzione, questo è considerato un principio basilare visto che la Corte Costituzionale 1 ha stabilito che la protezione dell’ambiente è fissata da precetti costituzionali di cui agli articoli 9 e 32, assumendo quindi valore di diritto fondamentale. D’altronde, nel mondo contemporaneo, il godimento dei diritti fondamentali non è solo o soltanto minacciato dagli attacchi diretti alla libertà individuale quanto anche (se non soprattutto) dallo sviluppo economico “insostenibile”.
All’articolo 41 la Costituzione Italiana riconosce poi la libera iniziativa economica, ponendo però un limite quando questa sia svolta in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza [..], che comprende anche il diritto alla salute di cui all’articolo 32 2. Tale precetto definisce il rapporto tra iniziativa economica e intervento dei poteri pubblici in una sorta di compromesso tra due esigenze o interessi entrambi meritevoli di tutela ma che possono essere contrapposti. Questo è sicuramente il caso per lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas naturale nella terra ferma o off shore entro i limiti delle acque territoriali nazionali. Infatti l’interesse economico dello sfruttamento deve considerare l’impatto ambientale che una tale attività comporta sia per la fauna e la flora, sia per l’aria, sia infine per la popolazione ivi residente.
La Cassazione in Italia ha pertanto riconosciuto il diritto all’ambiente salubre come un diritto che, nonostante non sia oggetto immediato di tutela, diviene indirettamente rilevante come mezzo essenziale per assicurare diritti inviolabili dell’uomo espressamente riconosciuti. Allo stesso modo, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, anche se non prevede esplicitamente il diritto all’ambiente tra i diritti fondamentali della Carta, ha interpretato l’ambiente come un valore della società, che non solo giustifica limitazioni di altri diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta ma implica interventi positivi dello Stato volti alla sua salvaguardia.
Sia la giurisprudenza nazionale sia quella sovranazionale sono comuni nell’affermare il principio di bilanciamento tra interessi: da un lato il diritto individuale o collettivo all’ambiente salubre, dall’altro l’interesse per la collettività che una data attività economica ad impatto ambientale può avere. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha però condannato uno Stato per non aver preso le misure necessarie alla tutela dei propri cittadini nelle situazioni in cui alcune attività produttive ad elevato impatto ambientale (come nel caso di un impianto di smaltimento dei rifiuti) abbiano causato disturbi ai propri cittadini coinvolti perché risiedenti nei pressi di tale attività economica inquinante, seppure
1 - Corte Costituzionale, sentenza del 30-12-1987 n°641
2 - http://www.brocardi.it/costituzione/parte-i/titolo-iii/art41.html
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Responsabilità d'impresa
quest’ultima avesse un fine collettivo importante come quello di risolvere gravi problemi di inquinamento di una città. 3 La questione dell’impatto ambientale che la politica energetica degli Stati comporta, è un tema sensibile a livello internazionale. A Novembre 2015, l’amministrazione Obama ha negato il consenso per la realizzazione di una mega opera ingegneristica, il cosiddetto Oleodotto Keystone XL, che avrebbe dovuto collegare l’Alberta in Canada con il Golfo del Messico negli Stati Uniti e trasportare il petrolio estratto nel primo paese. La motivazione di questo rifiuto, come emerge dalle dichiarazioni del Segretario di Stato Kerry e dello stesso Presidente Obama, è stato proprio un problema di leadership degli Stati Uniti nella lotta al cambiamento climatico, che altrimenti non avrebbero potuto più rivendicare all’interno della comunità internazionale qualora avessero approvato quel controverso progetto energetico. Nonostante l’orientamento giurisprudenziale della Corte Europea dei Diritti Umani, il comportamento dello Stato Italiano e della Regione Sicilia riguardo la questione dei permessi allo sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio a terra e off shore nelle acque territoriali italiane appare in controtendenza. Nonostante l’articolo 117 comma 2 lettera S della Costituzione Italiana stabilisca che lo Stato abbia legislazione esclusiva in materia di ambiente, spettando allo Stato il compito di fissare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, la Corte Costituzionale 4 ha riconosciuto che su tale valore costituzionalmente protetto si possano manifestare degli interessi diversi, come regionali, accettando quindi l’intervento del legislatore regionale. Sul tema in questione, a livello statale, appena prima dell’approvazione definitiva della legge di stabilità 2016 che vietava le attività di ricerca e di estrazione entro le 12 miglia dalle coste italiane, il Ministero dello Sviluppo Economico ha autorizzato tali attività lungo le coste di Pantelleria. Se da una lato lo Stato interviene a salvaguardia del benessere della collettività affermando un principio di tutela ambientale nella manovra finanziaria di governo, dall’altro concede, appena due giorni prima dalla legge che include tale principio, un atto di concessione che va nel senso opposto. A livello regionale, nonostante il forte impatto ambientale che attività di questo tipo creano, già nel 2014 il governo regionale siciliano aveva tagliato le royalties che le compagnie petrolifere avrebbero dovuto riconoscere al governo regionale 3 - CEDU, Lopez Ostra v. Spagna, 16798/90, 09/12/1994
e ai Comuni nei cui territori ricadevano attività estrattive passando dal 20% al 13%, giustificando una tale misura con l’obiettivo di incentivare in questo modo l’economia della Regione incentivando gli investimenti delle compagnie petrolifere. Così come recentemente si è parlato della concessione di due nuove autorizzazioni di perforazione a Gela all’Enimed da parte dell’Assessorato Regionale Territorio e Ambiente, giustificata come compromesso necessario per salvaguardare i posti di lavoro del petrolchimico della città. Quella stessa città in cui si sta attualmente svolgendo il processo per disastro ambientale contro l’ENI “Raffineria di Gela” e quello stesso petrolchimico i cui dirigenti devono rispondere dell’accusa di omessa bonifica, di getto pericoloso di cose e di violazione dei codici ambientali per le attività svolte negli ultimi dieci anni. Diversamente dalla posizione adottata dalla Regione Sicilia, nove regioni d’Italia si sono opposte a nuove trivellazioni nel loro territorio o lungo le loro coste, muovendosi affinché venisse indetto il referendum popolare che si terrà il prossimo 17 aprile in cui si chiede alla popolazione italiana se si voglia fermare lo sfruttamento di giacimenti off shore in attività una volta scaduta la relativa concessione. Nonostante il referendum non analizzi il problema nella sua ampiezza (non dice niente rispetto alle trivellazioni sulla terra ferma né rispetto all’attività di estrazione delle piattaforme oltre i 22 km dalle coste italiane), esso rappresenta un segno politico importante portato avanti da quegli enti locali che, interessati allo sviluppo economico del proprio territorio, vedono nelle energie rinnovabili, nel turismo, nella pesca e nelle attività a queste legate i “nuovi” e migliori strumenti sostenibili di occupazione e sviluppo. Questa posizione è in contrasto con quella dei sostenitori del no al referendum che invece pongono l’accento sulla possibile perdita degli investimenti delle grandi compagnie petrolifere e della perdita di posti di lavoro, qualora, vincendo il fronte del si, tali concessioni estrattive non fossero rinnovate. Il dibattito attuale è dunque tutto incentrato sull’equilibrio tra l’interesse economico collettivo che tali attività estrattive comportano e i danni ambientali che tali attività causano. Certo è che a fronte di molte realtà locali in cui il territorio e la sua gente appaiono impoverite, ferite e irreversibilmente deturpate, è difficile sostenere il compromesso tra i due interessi sia equilibrato. Marta D’Alia Esperta di Diritto Internazionale Umanitario Assistente giuridico nella promozione degli investimenti d’imprese italiane nell’Africa dell’Ovest
4 - Corte costituzionale, sentenza n°8 del 22-7-04
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SUPERARE LE ISTITUZIONI TOTALI un approccio psicosociologico di Aristide Donadio
Il controllo delle persone
Nel 1791 il filosofo Jeremy Bentham progettava il panopticon, la prigione ideale ispirata al mito greco del gigante Argo Panoptes con cento occhi, ritenuto pertanto ottimo guardiano; la struttura è radiocentrica, con una torre centrale, che alloggia un guardiano reale o ideale che può osservare senza essere osservato, e una raggiera di celle con i detenuti, ogni cella con due finestre, una esterna per ricevere la luce ed una interna per consentire il controllo. L’assunto su cui si basava Bentham era che il detenuto, sapendo di essere costantemente osservato, adatterebbe
progressivamente il proprio comportamento alle regole vigenti in modo progressivo e automatico: “un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente, in maniera e quantità mai vista prima”, come ebbe a dire lo stesso filosofo che elaborò tale progetto proprio negli anni della rivoluzione francese e che, pur ammirandone i principi, paradossalmente divenne a sua insaputa l’antesignano del “grande fratello”, l’espressione più inquietante e devastante d’un potere anonimo e omnipervasivo, ormai ben al di là della struttura detentiva, delle mura delle istituzioni totali: un potere biopolitico, come ebbe a dire Foucault. Il panopticon è stato preso a modello di diverse prigioni e persino fabbriche (lo stesso Bentham applicò il proprio progetto ad una sua fabbrica nella quale lavoravano detenuti). In una di tali prigioni-macchina contemporanee venne detenuto José Revueltas nel Carcere di Lecumberri, Città del Messico, penitenziario in perfetta sintonia con la concezione benthamiana, inaugurato nel 1900 dal generale Porfirio Díaz e attivo sino al 1976. Revueltas venne accusato di esser stato leader delle rivolte studentesche che nel 1968 imperversarono anche in Messico, senza che in nessun processo venisse dimostrato alcun suo reato, e durante la sua prigionia scrisse il racconto “Le scimmie” 2. Tristi esempi italiani sono le carceri
1 - Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983, p. 218.
2 - Josè Revueltas, Le scimmie (trad. it. di Alessandra Riccio), Roma, Sur, 2015.
“Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile. Il dispositivo panoptico predispone unità spaziali che permettono di vedere senza interruzione e di riconoscere immediatamente. Insomma, il [vecchio] principio della segreta viene rovesciato; o piuttosto delle sue tre funzioni – rinchiudere, privare della luce, nascondere – non si mantiene che la prima e si sopprimono le altre due. La piena luce e lo sguardo di un sorvegliante captano più di quanto facesse l’ombra, che, alla fine, proteggeva. La visibilità è una trappola.” 1
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borboniche di Santo Stefano (dove venne recluso anche Sandro Pertini) e il carcere di Avellino, nonché quello di Campobasso, ancora attivo. E’ sorprendente cogliere come e quanto il modello penitenziario del panopticon contenga in nuce la struttura degli attuali modelli societari; non a caso lo stesso Foucault lo adopera ad esempio paradigmatico di ciò che lui stesso definisce il biopotere, la società della biopolitica, la capacità sempre più raffinata e pervasiva del potere politico, nelle sue varie manifestazioni, di decidere non più solo della morte o delle varie afflizioni a guisa di punizioni inflitte, ma della vita e del corpo degli individui, delle loro stesse esistenze, attraverso vari dispositivi e forme di modellamento progressivo. Del resto il carcere, e le istituzioni totali in genere, hanno funzionato, più o meno consapevolmente, da veri e propri laboratori sociali, all’interno dei quali verificare sin dove, quanto e come controllare, plagiare, condizionare e, in ultima analisi, de-umanizzare un essere umano, per piegarlo alle logiche del potere vigente, all’idea di -civiltà- dominante. Non solo una questione di controllo tout court, quindi, all’interno del modello del panopticon, ma anche luogo privilegiato di osservazione nel senso più temibilmente “scientifico”: un luogo, quello dell’osservatore, da cui poter osservare il processo di de-umanizzazione di cui sopra, vale a dire come sia progressivamente possibile “smontare”, decostruire progressivamente un’essenza umana 3; ancora, questa macchina-prigione anticipa quanto il controllo ossessivo, onnipervadente, ininterrotto possa entrare psichicamente nel reprobo come nel “libero” cittadino (libero come può esserlo il protagonista del “The Truman show”), indotto inesorabilmente, attraverso l’industria culturale 4 e l’ “esercito di professionisti” di cui parla lo stesso Foucault, ad assumere una ed una sola possibile identità all’interno d’una sola concepibile cittadinanza: lui stesso, alla fine, autore inconsapevole di continue autocensure, di spaventose auto-mutilazioni. L’esercito di professionisti, costituito da sacerdoti, educatori, psicologi, medici, giornalisti ecc., stabilisce cosa sia giusto e cosa sbagliato, quale identità sessuale abitare e come, quali valori sia lecito e desiderabile perseguire, come concepire e gestire il proprio corpo e verso quale idea di salutebenessere, se quanto e come sia lecito pensare e desiderare di essere 5. Quindi il panopticon preconizza 3 - Decisamente sintomatiche e rivelatrici sono, in tal senso, le testimonianze di poliziotti addetti alla sorveglianza e videoregistrazione dei detenuti durante i colloqui, circa le progressive modificazioni psico-fisiche che subiscono gli stessi detenuti. 4 - L’oggetto di studi della Scuola di Francoforte. 5 - Le istituzioni, ivi comprese quelle scolastiche, scoraggiano sempre di
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Il Panopticon di Jeremy Bentham
l’essenza e la struttura delle società contemporanee per almeno tre aspetti fondamentali: controllo, osservazione e condizionamento, aspetti che fanno capo, evidentemente, ad una regia centrale, ad un potere oggi non più tanto occulto, ma chiaramente riferibile a precise oligarchie politico-economiche quali la cosiddetta Troika (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Europea), a loro volta espressione di precisi interessi di multinazionali e centri di potere geopolitico. Controllo, osservazione e condizionamento sono chiaramente sinergici, rafforzandosi ed alimentandosi reciprocamente e, mentre mercato, comunicazione e scienza agiscono quasi all’unisono per l’osservazione e il condizionamento, il controllo si espande a macchia d’olio, riuscendo a seguire gran parte dei nostri movimenti attraverso telecamere, carte di credito, bancomat, telepass, computer, telefonini 6. Foucault, che aveva conosciuto la prigione, ci spiega bene il modo in cui il potere si è venuto organizzando e viene esercitato nelle società contemporanee mediante “dispositivi di controllo” sempre più pervasivi, sino a consentire al potere stesso di appropriarsi della vita delle persone (la biopolitica, appunto), attraverso strumenti e istituzioni: la vita che diventa oggetto del potere che vuole piegare ai propri interessi-bisogni ed alla propria logica non più solo le persone in quanto tali, ma la loro stessa esistenza: “un potere [perverso] più il pensiero divergente e la creatività stessa per obbligare verso il pensiero convergente, che prevede una ed una sola possibile soluzione a qualsiasi problema: cfr. su youtube Ken Robinson, Cambiare i paradigmi dell’educazione; cfr. anche AA.VV., I test Invalsi, Bologna, 2013, CESP (Centro Studi per la Scuola Pubblica) sulle incongruenze e i gravi limiti del processo di invalsizzazione in corso nella scuola pubblica italiana. 6 - La legge che passa sotto il nome di “Jobs Act” prevede la possibilità del controllo a distanza dei propri dipendenti da parte del datore di lavoro attraverso pc, tablet e telefonini messi a disposizione dall’azienda.
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che viene da ogni dove e si moltiplica in forme infinite [per cui] ogni rapporto sociale è espressione di [questo] potere” 7. Augusto Boal, che aveva ideato una metodologia drammaturgica utile a sviluppare nelle persone e nelle comunità forme di consapevolezza verso i meccanismi di oppressione portati avanti dalle dittature dei paesi latino-americani, allorché fu costretto a rifugiarsi in Europa, a Parigi, dovette ben presto rendersi conto che i processi di coscientizzazione auspicati dal suo connazionale, il pedagogista Paulo Freire, e da lui espressi attraverso il Teatro dell’Oppresso non potevano facilmente trovare, in Europa come del resto in gran parte dell’Occidente, una reificazione dell’oppressore, giacché si trattava di forme di dominio e di oppressione assai più perverse e sofisticate: non esisteva in Europa la figura del dittatore; l’oppressione, quindi, non era identificabile con precise figure e ruoli di oppressione, essa si celava e si cela in forme più subdole di violenza. Galtung difatti considera l’esistenza di tre principali forme di violenza: quella diretta, che vede lo scontro concreto in tempo reale fra aggressore e vittima; quella strutturale, esito delle profonde sperequazioni nella distribuzione di ricchezze e risorse che Galtung stesso (sociologo e matematico) ha calcolato nel rapporto di uno a cento per morti provocate, aspetto di cui addebita la responsabilità alla scienza politica occidentale; e infine una violenza di tipo culturale, costituita dalle varie motivazioni intellettuali e culturali volte a giustificare il mantenimento delle prime due: nazionalismi, razzismi, sessismi e le diverse forme di meccanismi di difesa psicologici (razionalizzazioni, intellettualizzazioni) messi in 7 - Stefano Rodotà, “Foucault e le nuove forme del potere”, in “La filosofia raccontata dai filosofi”, Gruppo editoriale L’Espresso, 2009.
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atto per legittimare comportamenti direttamente o indirettamente violenti. Boal, quindi, nel suo rifugiarsi in Europa si trovò a lasciare una violenza diretta, da cui scappava, per trovarsi a fronteggiarne una di tipo strutturale e culturale. Il dramma di questa situazione sociale, politica e culturale risiede nel fatto che risulta estremamente difficile mostrare il collegamento fra talune scelte politico-economiche (e la loro evidente correlazione con aspetti socioculturali) e le conseguenze, nel medio-lungo periodo, in termini di morbilità e mortalità, oltre che di qualità della vita. Rimodulando la sua metodologia, elaborò le tecniche del “poliziotto nella testa”, ad indicare le conseguenze manipolative del “pensiero unico”, le condotte autocensorie, l’interiorizzazione d’una norma e d’una legge assai lontana dal concetto di giustizia. Derrida, del resto, ben ci mostra come l’unico momento in cui l’umanità possa davvero avvicinarsi al concetto di giustizia 8 è quello dell’epokè che avviene nel corso del processo di decostruzione delle forme attuali di legge e giustizia. La profezia di Bentham si è dunque realizzata ben al di là degli interventi sul deviante all’interno dell’universo detentivo ma, incredibilmente e scandalosamente, sulla popolazione tout court in seno alle “avanzate democrazie occidentali”! Un esempio paradigmatico di tale deriva viene fornito proprio dalla pre-potenza, che appunto presuppone un pre-potere, di ciò che all’uomo comune appare come più asettico e neutrale: la scienza. Può verificarsi che studiosi pagati dalle multinazionali inventino delle malattie, diffondano attraverso i media allarme per tali malattie e incoraggino l’acquisto di farmaci già pronti 8 - cfr. Derrida, Forza di legge, Torino, Boringhieri, 2003. APRILE 2016 N. 2 / A.2 - Voci
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per la cura di tali pandemiche malattie 9; può accadere che un individuo normalissimo, sotto l’influsso di una qualsiasi persona col camice bianco, possa compiere azioni che mettono a repentaglio la stessa vita di suoi consimili, come ci mostra il famoso esperimento di Milgram sull’obbedienza all’autorità 10 e come ben descrive la Arendt nei suoi altrettanto famosi testi. Si tratta di una scienza che, contestata sulla stessa scientificità del suo metodo 11, fatica a ritrovare assetti paradigmatici che siano etici, rispettosi della dignità umana e che abbiano realmente la salute, come oggi intesa dall’OMS 12, come unica propria finalità. Una ricerca che certamente anticipò il dibattito contemporaneo sui limiti del sistema detentivo e sulle sue forti implicazioni politiche è stata senz’altro quella condotta da Philip Zimbardo, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Stanford, nell’estate del 1971 sugli effetti psicologici e psico-sociali del contesto e dei ruoli applicato all’ambito carcerario. Zimbardo si ispirò esplicitamente agli studi di Le Bon sul fenomeno della de-individuazione, per cui individui di un gruppo coeso o d’una folla possono tendere alla perdita di identità personale, consapevolezza e senso di responsabilità sviluppando impulsi anti-sociali. L’esperimento presso la Stanford University voleva verificare se cambiamenti apprezzabili di atteggiamenti e comportamenti potessero verificarsi in soggetti sperimentali all’interno d’una riproduzione di situazione carceraria. L’ipotesi su cui si lavorava considerava determinanti, per le modifiche di atteggiamenti e comportamenti delle persone, l’ambito situazionale: il contesto, il “contenitore”; l’appartenenza ad un gruppo (il noto fenomeno psicosociale dell’ “in group/out group”); il vissuto di ruoli e status comuni a ciascun gruppo. I soggetti vennero suddivisi in maniera random in due diversi gruppi di “prigionieri” e di “carcerieri”. Nel giro di poche ore, il solo fatto di appartenere a diverse categorie fece prevalere progressivamente un’identità gruppale di tipo difensivo e antagonista col conseguente stigma verso quanti appartenessero all’altra categoria. La spoliazione identitaria e di 9 - cfr. A. Ehrenberg, “La fatica di essere se stessi”, Torino, Einaudi, 1999. 10 - Il famoso esperimento di Stanley Milgram “sull’obbedienza all’autorità” del 1963, con l’obiettivo dichiarato di verificare sino a che punto una persona normale possa causare danno o morte ad un’altra solo per obbedire ad un “ordine”: più della metà dei soggetti sperimentali si resero disponibili a correre il rischio di uccidere una persona. 11 - Fu lo stesso Popper a dichiarare che “il metodo scientifico non esiste”, aggiungendosi a studiosi quali Kuhn e Feyerabend nella critica al metodo scientifico: cfr. A. Bianchi e P. Di Giovanni “La ricerca sociopsicopedagogica”, Paravia, Trento, 2007, pp. 181-191. 12 - La salute intesa non più al negativo, come assenza di malattie, ma al positivo, come benessere dal punto di vista non più solo fisico, ma anche psichico e sociale: il concetto di sicurezza oggi dominante, purtroppo, fa riferimento evidentemente solo all’aspetto fisico, trascurando le altre due componenti, in quanto, se esse venissero davvero prese in considerazione, ciò porterebbe inevitabilmente a porre in discussione l’ordine sociale costituito, da cui discende quest’idea monca e primitiva di sicurezza in uso presso diverse istituzioni, come scuole e ospedali.
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ruoli avveniva obbligando i “detenuti” di Stanford a subire perquisizioni anche intime, una rasatura totale di capelli, la somministrazione di disinfettante per tutto il corpo, per fare indossare casacche color kaki e talvolta cartoni calati sulla testa (ma anche senza cartoni i prigionieri non potevano comunque guardare i carcerieri negli occhi) per annullare ogni possibile forma di comunicazione fra carcerieri e prigionieri nonché tra i prigionieri stessi. Anche in tale esperimento risultò determinante la possibilità di avere contatti con le “vittime” per gli effetti che essa ebbe sull’aumento di tendenze empatiche e umanizzanti: da Fromm 13 abbiamo appreso che, per poter sviluppare condotte aggressive, infatti, siano necessari due presupposti: de-umanizzare la vittima e la de-responsabilizzazione dell’aggressore. Il risultato fu una serie impressionante di abusi di ogni genere, anche sessuali, da parte delle guardie carcerarie, tale da costringere ad interrompere l’esperimento dopo soli sei giorni, pur essendo previsto per due settimane. La stessa assistente di Zimbardo richiamò con forza l’attenzione sul limite etico della stessa ricerca. L’esperimento, al di là di tali limiti, confermò tristemente l’ipotesi di partenza, trovando impreviste coincidenze fra certe forme di maltrattamento e tortura fisica e psichica adottate dai carcerieri di Stanford ed episodi reali verificatisi all’interno di vere prigioni statunitensi e di cui non si era a conoscenza nelle fasi dell’esperimento. Al di là di queste conferme va segnalata l’impressionante somiglianza fra ciò che accadde a Stanford e ciò che si verificava e purtroppo si verifica ancora in situazioni carcerarie o in situazionilimite: persino la somiglianza fra le “divise” dei “detenuti” di Zimbardo e quelle dei detenuti veri di Abu Grahib o di Guantanamo, ad opera di veri soldati occidentali. Sembra quasi che questo genere di esperimenti, discussi e discutibili sul piano etico ma tristemente efficaci e rivelatori, non servissero più solo a denunciare, come nelle intenzioni dei ricercatori, le condizioni che possono condurre a estreme violazioni di diritti umani, ma venissero poi anche adoperati da menti criminali (come la scuola per la tortura 14 di Fort Benning in Georgia, USA, un tempo “Scuola delle Americhe”, oggi “Istituto per la cooperazione sulla sicurezza dell’emisfero occidentale”) per addestrare torturatori di tutto il mondo, come i dittatori piazzati in America latina. La tortura è stata teorizzata negli Stati Uniti (sinanche nel corso delle primarie 2016 da uno dei candidati repubblicani, Trump) come strumento di difesa legittimo nel corso di un lungo dibattito ancora in corso; la stessa Italia è stata più volte denunciata dalla Corte europea e dal CPT 13 - Cfr. E. Fromm, “Anatomia della distruttività umana”, Milano, Mondadori, 1975. 14 - Cfr. Fort Benning, scuola di tortura, Sessant’anni di crimini impuniti, Il Manifesto, 19.08.’06 - Geraldina Colotti; Cfr. anche i rapporti di Amnesty International sull’argomento.
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(Comitato per la Prevenzione della Tortura) non solo per il sovraffollamento cronico, ma anche per l’uso del cosiddetto 41 bis: il carcere “speciale” per detenuti rei di associazioni terroristiche o mafiose. Del resto anche l’ergastolo si configura come strumento di tortura: la pena di morte in un carcere che diventa il paradosso evidente dell’art. 27 della Costituzione, giacché nessun recupero e nessuna rieducazione potranno mai avverarsi. Un argomento, quello dell’ergastolo, di cui si occupa un contributo specifico in questo lavoro collettaneo, ma sul quale vorrei solo riferire una frase che trovo esteticamente folgorante del mai troppo compianto Pietro Ingrao, recentemente scomparso: “Sono contrario all’ergastolo semplicemente perché non riesco a concepirlo”.
Carcere e cultura Lo scenario carcerario s’inserisce in un contesto socio-culturale che è espressione di ciò che Galtung definisce la “reinvenzione del fascismo” 15 in un tipo di società che Marcuse definiva “ad una dimensione” 16 nella quale viene incoraggiata una sorta di anestesia affettiva e intellettiva 17, mentre contemporaneamente viene scoraggiata ogni possibile forma di scambio effettivo, di conflitto costruttivo, di scontro-incontro con l’altro da sé; la comunicazione effettiva viene sostituita da una virtuale, si diffonde ciò che Morelli definisce “terrore pacificato” 18 nell’ambito d’un narcisismo secondario e quindi patologico in cui l’altro, come orizzonte di riferimento, come fonte di legittimazione, scompare, per far posto ad un “Io lieve” e ad un consumismo caratterizzato da un avere necrofilo che mortifica l’essere. 19 In un contesto così anomico, mentre in Italia imperversa l’ultima riforma del sistema scolastico (che vede un’accelerazione sul fronte della privatizzazione e dell’aziendalizzazione, la mortificazione degli organi collegiali per rinforzare la “cultura del capo”), può paradossalmente accadere che sia proprio il carcere, superato attraverso forme e dimensioni non alienanti, il luogo e l’osservatorio privilegiato per l’analisi critica dei paradigmi culturali dominanti. Il carcere può diventare fucina di decostruzione di identità singole e collettive alienate e luogo di riesame e sperimentazione di individualità e intersoggettività basate su un’idea alternativa di azione sociale, di comunicazione; un luogo che, proprio grazie al suo essere “diabolico” 20, può assurgere a esempio 15 - Da “Il Manifesto”, quotidiano, 4 luglio 2013.
Alcatraz W4R Event 12/16/2014 (Foothill High Amnesty International)
paradigmatico di un’intersoggettività alternativa, ancorché sperimentale, come laboratorio di politica germinale autentica, scevra da sovrastrutture e da schemi stratificati e alienanti, in una sorta di nemesi storica che si abbatta contro la società dei probiviri, dei “giusti”, dei normali; un luogo in cui sperimentare la possibilità di ricollocare l’alterità al centro della costruzione identitaria 21, in cui ripristinare il senso e la sacralità dell’altro-da-sè, a partire dal “prendersicura-di” dei neo-femministi. Un’ottica, quella neofemminista 22, secondo la quale la legge non può e non deve essere uguale per tutti, dovendosi considerare il singolo percorso individuale e dovendosi basare il giudizio su di una particolare capacità di ascolto e di empatia che, sola, può assicurare una giustizia utile a tutte le parti in causa. Il carcere e il carcerato, da “pietra di scarto” possono divenire allora “testata d’angolo”, come nell’idea del barbone e del barbonismo che ha Marcel 23, quando afferma che il barbone, e la prospettiva che egli può avere della civiltà contemporanea, possa avere una
16 - Cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1999. 17 - Cfr. A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi Einaudi, Torino, 1999. 18 - Cfr. U. Morelli, Conflitto identità interessi culture, Roma, Meltemi, 2006. 19 - Cfr. E. Fromm, Avere o Essere?, Milano, Mondadori, 2001. 20 - Nel senso etimologico di “diabolus”: diviso, scisso, separato da una normalità eretta illusoriamente a paradigma della sanità.
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21 - Levinas afferma che la costruzione della propria soggettività non ha luogo se non si comincia e “temere per l’altro”: cfr. S. Malka, Leggere Levinas, Brescia, Queriniana, 1986. 22 - Si consultino le produzioni e si considerino le attività del Centro culturale “Virginia Woolf”. 23 - G. Marcel, L’uomo problematico, Roma, Borla, 1964. APRILE 2016 N. 2 / A.2 - Voci
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funzione salvifica per il mondo perché cerca, più o meno consapevolmente, una risposta a problemi esistenziali che la società dimentica o non è in grado di affrontare, presa dal proprio vissuto pragmaticoburocratico. Il detenuto, e l’universo detentivo che lo connota, può dunque venirsi a trovare tra le pieghe d’una normalità patologica che fatica a trovare l’orizzonte della sanità, assurgendo egli stesso al ruolo di metafora vivente delle contraddizioni e aporie socioculturali. Similmente, Jaspers descrive il rapporto tra genio e follia 24: paradigmi culturali e quadri di senso dominanti mostrano tutta la loro parzialità, insufficienza e provvisorietà proprio nelle situazionilimite come la morte, la follia, la devianza. Jaspers aiuta a comprendere anche la contrapposizione fra ragione e scienza da un lato, che cercano di oggettivare l’esperienza all’interno di mappe definite-definitive, e l’esistenzialismo e l’irrazionalismo dall’altro, che, non accontentandosi dei quadri interpretativi esistenti e dei limiti imposti al sapere ed alla ricerca di senso, decostruiscono e reinterpretano sistemi di riferimenti e simbolismi, celebrando e rispettando la centralità dell’ “essere-in-relazione”, la sacralità irrinunciabile dell’Altro. Recuperando categorie interpretative gramsciane è facile cogliere la forte crisi attuale della democrazia come “entropia del politico”, contraddistinta dallo scollamento progressivo fra rappresentanti e rappresentati; donde un vulnus politico e socioculturale che apre lo spazio all’intrusione di poteri fuori dal controllo dell’opinione pubblica e degli ambiti istituzionali tradizionali, con la possibilità di “colpi di Stato” reinventati in un processo di giustapposizione e progressiva sostituzione d’uno Stato-burocrazia ad uno Stato-sistema politico: “[...] La governance è il politico senza stato che, non creando nuove istituzioni, ma avvalendosi di “tecnologie” e “dispositivi” di potere, aggira gli stati nazionali e li sottomette, trasformandoli, con la sussidiarietà, in strumenti esecutivi dei propri indirizzi. Politica dell’austerità e crisi della democrazia avanzano mano nella mano, non solo per i contenuti sociali ma anche per la introduzione di nuove procedure di potere, che aggirano il politico e che sembrano voler prefigurare una legalità sempre sganciata e autonoma da ogni forma di legittimità” 25, con la piena sottomissione ai poteri forti di oligarchie quali la cosiddetta Troika. Pasolini affermava, profeticamente: “Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo
un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso... Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come.” 26 Dall’ -umano, troppo umano- si è passati, quasi impercettibilmente, al -non umano- e le sperimentazioni, che fossero consapevoli o meno, delle condizioni e dei vissuti de-umanizzanti nelle istituzioni totali, grazie alle torsioni ed alle possibili manipolazioni che esse consentivano, hanno reso palese non solo l’assenza di limiti alle possibili manipolazioni, ma anche l’estensibilità di tale processo dalla realtà intra-muraria a quella della cosiddetta normalità. La natura umana, già fragile e plastica di per sé, diventando oggetto di violenze e manipolazioni sistemiche e -scientifiche- per renderla funzionale a logiche tutt’altro che umane, progressivamente perde, per la prima volta nella sua storia, non solo la sua unitarietà, ma la sua stessa essenza. Come per una formidabile e irreversibile scissione dell’atomo, la natura umana perde le sue qualità intrinseche, abdica da se stessa e implode. Nel 1939 Horkheimer affermava che “il fascismo è la verità della società moderna” e che “chi non vuole parlare del capitalismo deve tacere anche sul fascismo” essendo il fascismo stesso intrinseco alle leggi del capitalismo: nella “pura legge economica”, la legge del mercato e del profitto, sussiste la “pura legge del potere” 27; il progresso tecnologico, che potrebbe essere al servizio dell’uomo, si traduce in un processo di disumanizzazione che finisce con l’annientare proprio ciò che dovrebbe aiutare a realizzare: il progetto umano, con la sua capacità critica ed il suo potere creativo. Per Horkheimer lo sviluppo del sistema capitalistico ha sostituito i fini con i mezzi, trasformando in modo perverso la ragione in un semplice strumento per raggiungere fini ormai fuori dal suo controllo. Se la Arendt aveva messo in guardia da una normalità che ha in sé in germi del -mostro- per gli effetti della progressiva deresponsabilizzazione 28, per cui il male può essere commesso da un essere privo di pensiero, un “buffone” privo di spontaneità 29, Recalcati arriva a individuare il concretizzarsi progressivo di un “uomo senza inconscio”, privato, da un sistema che incoraggia narcisismo ed edonismo
24 - K. Jaspers, Genio e follia, Milano, Rusconi, 1990. 25 - L. Paggi, “Il Manifesto”, 23 ottobre 2015; “[...] La governance è il politico senza stato che, non creando nuove istituzioni, ma avvalendosi di “tecnologie” e “dispositivi” di potere, aggira gli stati nazionali e li sottomette, trasformandoli, con la sussidiarietà, in strumenti esecutivi dei propri indirizzi. Politica dell’austerità e crisi della democrazia avanzano mano nella mano, non solo per i contenuti sociali ma anche per la introduzione di nuove procedure di potere, che aggirano il politico e che sembrano voler prefigurare una legalità sempre sganciata e autonoma da ogni forma di legittimità.”
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26 - L. Re, Pasolini: Il nudo e la rabbia, Stampa sera, 9 gennaio 1975. 27 - Cfr. M. Horkheimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, Torino, Einaudi, 2000. 28 - Cfr. H. Arendt, La banalità del male”, Milano, Feltrinelli, 2001. 29 - Cfr. j. Kohn, in Introduzione a: H. Arendt, Responsabilità e giudizio, Torino, Einaudi, 2004, pp.XIII-XIV.
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in un’ottica di mercificazione consumistica, della possibilità di desiderare, spinto verso un godimento mortifero fine a se stesso che prescinda dalla mediazione simbolica con l’altro, che da fine diventa strumento, verso il “declino della problematica soggettiva del desiderio e del discorso amoroso” 30: “La precarietà non è solo un effetto economico della globalizzazione che investe la dimensione del lavoro e del mercato, ma è anche ciò che nell’epoca ipermoderna mostra il generale decadimento della dimensione dell’ordine del simbolico [...] il discorso del capitalista [...] si manifesta come il discorso della distruzione di ogni legame, come il discorso asservito al potere nichilistico della pulsione di morte.” 31. Il crollo progressivo dell’Ideale che aggrega i legami sociali, garantito dalla funzione paterna (che induce a sostituire progressivamente il principio di piacere con quello di realtà, provocando sublimazione e desiderio), viene incoraggiato dal discorso capitalista attraverso ciò che Marcuse chiamava la “desublimazione repressiva”: il soggetto, anziché desiderare e sublimare mediante la costruzione di legami sociali e il perseguimento dell’Ideale, viene indotto a ricercare un “godimento che spenga ogni suo possibile desiderio” 32. Viene confermata, dunque, la tendenza in corso a disarticolare l’essenza umana, a partire dalle cesure tipiche della cultura occidentale (io-gruppo, psiche-soma, maschio-femmina...) e dall’-uomo a una dimensione- 33 con lo scopo evidente di frammentare lo status di persona, la sua unitarietà di senso, delocalizzandone funzioni e attributi, come in computer sempre più performanti e reti, da un lato, e “social” virtuali dall’altro, sino a snaturare la struttura stessa di ciò che Fromm chiama “il fattore umano”. Benasayag 34 mostra come l”uomo nuovo” voluto dal neo-liberismo sia un essere estremamente fragile e sofferente, non in grado di reggere l’urto con la realtà, “questo proprio mentre una nutrita schiera di neuropsichiatri, biologi, fisici dichiaravano ai quattro venti che i computer erano riusciti a potenziare le facoltà cognitive degli umani e a riuscire nel realizzare il sogno, o l’incubo, di un cervello senza organi o corpo di intralcio. [...] le macchine digitali sono considerate come modello e riflesso di una concezione modulare delle soggettività [...] l’animale umano viene smontato e rappresentato come un assemblaggio di organi che possono essere rimossi e sostituiti. L’unico organo esente da questa opera 30 - M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Milano, Raffaello Cortina, 2010, p.XV. 31 - M. Recalcati, op. cit., p. 27.
di assemblaggio è il cervello: le macchine, tuttavia, possono funzionare come dispositivi che potenziano le facoltà intellettuali [...] l’uomo post-moderno [...] certifica così la ‘verità’ del dualismo tra mente e corpo [...] l’uomo è così un organismo diminuito [...] non solo perché il cervello, e la sua appendice tecnologica artificiale, hanno il sopravvento, ma anche perché la soggettività, il suo stare al mondo sono ridotti a un insieme di dati che compongono un profilo, cioè una enumerazione di caratteristiche che possono essere modificate a piacimento” 35. E’ possibile un’inversione di tendenza? E’ possibile restituire persone e comunità alla propria dignità umana? Fortunatamente, sempre secondo Benasayag, il discorso neo-liberista, e l’egemonia riduzionista delle neuroscienze, che vorrebbero un siffatto “uomo modulare” come monade governabile algoritimicamente mentre entra in relazione (una relazione autistica) con altre monadi, non riescono tuttavia, sostiene Benasayag, ad evitare l’”irruzione dell’aleatorio”: quella fitta rete di relazioni sociali che costituiscono il senso e il campo semantico dell’agire umano, per cui la via d’uscita dal non-umano esito della “governabilità algoritmica” del discorso neoliberista consiste da un lato nell’individuare nel sistema dominante la fonte delle sofferenze create da conflitti e sociali, aspetto non risolvibile solo all’interno della pratica psicologica, e dall’altro nel tessere e mantenere pratiche di resistenza e relazioni sociali che consentano di fuoriuscire dall’”epoca delle passioni tristi” e “avventurarsi in un mondo dove si può agire il conflitto affinché i ‘possibili’ non siano preclusi. E così dare nuove forme al Politico” 36. Forse una risposta in tal senso è possibile proprio a partire dal ripensamento e dal superamento delle stesse istituzioni totali. Come dal carcere è partito lo snaturamento delle finalità sociali che deve avere qualsiasi relazione, lo svuotamento di senso dovuto all’idea stessa di punizione e di controllo basata su deterrenza (paura) e afflizione (dolore), così bisogna tornare ad un’erotica del reinserimento: se il carcere è stato il luogo da cui è partita l’aberrazione della sperimentazione dei limiti della de-umanizzazione, allora il suo stesso superamento deve poter diventare la sperimentazione d’una nuova umanizzazione, basata sull’Eros e non più sul Thanatos. Parafrasando Lacan e lo stesso Recalcati 37, al complesso di Edipo ed alla conseguente morte del padre e al relativo nichilistico
32 - M. Recalcati, op. cit., p. 29; L’autore continua: “Pier Paolo Pasolini aveva sintetizzato così questa trasformazione epocale del potere: -il potere ipermoderno non ha bisogno di sudditi, ma di liberi consumatori!-”. 33 - H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1999. 34 - Cfr. M. Benasayag, Il cervello aumentato, l’uomo diminuito, Trento, Erikson, 2015; ma anche, dello stesso autore, Oltre le passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2015.
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35 - B. Vecchi, Le dolenti miserie dell’uomo modulare, ne Il Manifesto del 5 febbraio 2016, pp. 10-11. 36 - B. Vecchi, op. cit., p. 11. 37 - crf. Quel che resta del padre, M. Recalcati, Milano, R. Cortina, 2011. APRILE 2016 N. 2 / A.2 - Voci
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trionfo di Narciso 38, va sostituito il “complesso di Telemaco”, che vuole si accolga il padre, dialogando con lui per superarlo senza volerlo tuttavia distruggere. Viene in mente l’idea di carcere che Gandhi aveva e che, con un candore tutto suo, espone nei suoi scritti. La grandezza di Gandhi sta proprio, a ben vedere, nella capacità di rendere plausibile un’utopia, conferendole dignità e valore, ergendola a parametro etico dell’agire: utopia come legittimità e senso dell’agire e del pensare, come qualcosa che necessariamente deve essere e un giorno certamente sarà, il dover’essere che va trasformato in potere e in sapere. Utopia, quindi, non come sinonimo di assurdo o di infantili fantasticherie, ma come gioco formidabilmente serio cui uniformare progressivamente il nostro e l’altrui quotidiano. Ed ecco qui il potere del candore di Gandhi, il sistema carcerario da lui sognato: “Crimini e punizioni nell’India indipendente di tipo non-violento. Ci saranno crimini ma non criminali. Questi ultimi non saranno puniti. Il crimine è una malattia come un’altra, un prodotto del sistema sociale dominante. Per cui tutti i crimini, compreso l’assassinio, saranno trattati come frutto di malattie. Che un’India del genere possa mai vedere la luce, è un’altra questione 39. Come saranno le galere nell’India libera? Tutti i criminali dovranno essere trattati come pazienti e le prigioni diventare degli ospedali riservati al trattamento e alla cura di questo particolare tipo di ammalati. Nessuno commette crimini per divertimento. E’ un segno di disturbo mentale. Le cause di una particolare malattia vanno indagate e rimosse. Non vi sarà bisogno di edifici lussuosi, quando le carceri diventeranno degli ospedali. Nessun Paese può permetterselo, tantomeno un Paese povero come l’India. Ma l’aspetto del personale carcerario dovrà ricordare quello dei medici e degli infermieri di un ospedale. I prigionieri dovranno sentire che il personale è loro amico. Che è là per aiutarli a recuperare la loro salute mentale e non per tormentarli in alcun modo. I governi popolari dovranno emanare le necessarie disposizioni, ma nel frattempo il personale carcerario potrà fare non poco per rendere più umano il suo settore. Qual è il dovere dei prigionieri? … Essi dovranno comportarsi come prigionieri ideali. Dovranno impegnarsi cuore e anima in qualunque lavoro verrà loro affidato. Per esempio, dovranno cucinarsi da soli il cibo. Dovranno pulire il 38 - cfr. .F. Dogana, L’Io lieve, in Psicologia contemporanea, n.173/2002; Firenze, Giunti: “l’edonismo narcisistico e disimpegnato che si accompagna al nichilismo, tanto congeniale al consumismo fine a se stesso”. 39 - “Harijan” (periodico indiano) 5 maggio 1946, pag. 124.
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riso, il dal, o qualunque cereale verrà usato, in modo che non vi siano sassolini o tritume o parassiti in essi. Per qualunque reclamo, i prigionieri dovranno rivolgersi alle autorità secondo opportune prassi. Dovranno comportarsi nella loro piccola comunità in modo tale da uscirne migliori di quanto non fossero al momento dell’entrata” 40. Si tratta di pensieri espressi nel momento in cui l’India, dopo decenni di lotta non violenta, si accingeva ad ottenere l’agognata indipendenza, pensieri illuminanti e profetici. Gandhi ci parla chiaramente del crimine come frutto d’un disturbo (la “malattia”) esito delle disfunzioni del sistema sociale dominante e si riferisce alla necessità di una struttura detentiva a carattere eminentemente rieducativo. E’ evidente anche il carattere psicosociologico dell’analisi gandhiana, che dal “macro” (la società, il sistema culturale dominante) fa derivare direttamente il “micro” (le sofferenze, i disagi e le devianze individuali), testimonianza della grande influenza che su Gandhi ebbero prima Tolstoj e poi Freud. Una visione, quella di Gandhi, probabilmente ingenua e poco professionale, che presenta comunque il vantaggio di mostrare un altro sguardo possibile, di indicare prospettive altre dalle quali riconsiderare il fenomeno detentivo. Uscire dal carcere si può, coniugando sicurezza sociale e individuale, aprendo la via alla sperimentazione 40 - “Harijan” 2 novembre 1947; cfr. anche “Il mio credo, il mio pensiero”, pp.165-167, Gandhi, Newton Compton, 1992.
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e all’inclusione, a partire dalla de-penalizzazione dei tanti reati sorti da leggi inventate da uno Stato che delega all’ambito penale/detentivo questioni e fenomeni che non è in grado di affrontare, come per l’immigrazione e la tossicodipendenza, aspetti che da soli forniscono i 2/3 della popolazione detentiva italiana. Un esempio virtuoso è certamente rappresentato dagli ICATT, Istituti a Custodia Attenuata per il Trattamento della Tossicodipendenza. Sorti quasi a titolo sperimentale, non solo vedono aumentare la loro presenza sul territorio nazionale, ma diventano progressivamente esempio di un altro modello carcerario nel quale sia possibile ridurre il livello repressivo per aumentare sensibilmente quello cosiddetto “trattamentale”, vale a dire l’aspetto rieducativo, con celle aperte durante la notte e per alcuni periodi anche nelle ore diurne, con l’autogestione della cucina e dei pasti, con l’accesso facilitato a progetti ed attività lavorative esterne, con lo sviluppo di attività laboratoriali e formative interne. In questi ambiti, dove opera un’équipe composta da medici, educatori e psicologi e in cui il ruolo dei poliziotti penitenziari è fortemente cooperativo con l’equipe stessa, sussiste anche un’intensa attività di “follow up” che assicura il reinserimento nel tessuto sociale attraverso l’implementazione d’una rete protettiva di relazioni e rapporti sociali ivi compreso l’ambito socio-economico e lavorativo, al di fuori dell’istituzione penitenziaria e al termine del periodo di reclusione, allorché sarà possibile contattare l’équipe per visite e assistenza psicologica ad intervalli regolari e su richiesta del reinserito. In Paesi scandinavi è in atto l’istituzionalizzazione di zone del’istituzione in cui il detenuto possa ospitare parenti dove possa avere intimità anche di tipo sessuale. La stessa sperimentazione di formazione nonviolenta portata avanti da Amnesty International 41 anche nell’ambito della formazione nazionale biennale per poliziotti penitenziari, ha avuto lo scopo di minare dall’interno l’impianto repressivo tout court per indurre forme di dissonanza rispetto ad esso ed aperture progressive verso atteggiamenti e mentalità contrarie alla nemicizzazione del detenuto ed alla contrapposizione di ruoli, per entrare nel campo semantico della “comunità educante” e nell’ottica della RicercaAzione, nella quale tutto e tutti possono esser messi in discussione, a partire dall’educatore-ricercatore, nel solco del perseguimento della qualità dell’azione comunicativa e delle finalità della comunità stessa: cooperative, bi-direzionali, nel solco dell’educazione non-direttiva e possibilmente freiriana. 41 - Ad opera del settore EDU della Circoscrizione Campania-Basilicata, primi anni 2000, e poi delle prime due Commissioni EDU della Sezione italiana.
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Interventi in singole realtà carcerarie sono stati portati avanti presso l’ICATT di Lauro (AV) e presso il carcere femminile di Pozzuoli (NA), nonché all’interno della formazione nazionale all’interno della Scuola nazionale di Aversa (CE). Oltre alla cornice teorico-metodologica sopra citata, sono state scelte ed utilizzate due metodologie che si sono rivelate particolarmente sinergiche e complementari fra loro, vale a dire l’Analisi Transazionale e il Teatro dell’Oppresso di Boal, appunto ispirato alla teoria di Paulo Freire.La sinergia risulta dalla reciproca spendibilità in ambito politicorelazionale, sull’intersoggettività della comunicazione e sulla problematizzazione di essa che entrambe le metodologie consentono; sulla possibilità che entrambe offrono di visualizzare la rappresentabilità della comunicazione, sia sul piano intrapersonale che su quello interpersonale, ognuna accentuando l’ambito di propria competenza, ma anche sulla evidente convergenza fra ciò che Boal definisce “il poliziotto nella testa” (vale a dire i condizionamenti culturali che inducono all’autocensura e all’atrofia di componenti fondamentali della personalità e della socialità) e il genitore “normativo negativo” o quello “affettivo negativo” dell’analisi transazionale di Berne, castranti o manipolativi. L’idea di partenza di tale intervento formativo è stata quella di considerare la realtà penitenziaria alla stregua d’una comunità dove possono verificarsi situazioni di difficile gestione, sia a livello intra-ruolo che inter-ruolo relativamente alle diverse categorie operanti nella struttura residenziale, che possono, almeno in parte, inficiare il percorso riabilitativo previsto. Considerando le strutture penitenziarie come comunità, riflesso d’un contesto politico-culturale più ampio, prefiguriamo l’intervento secondo un approccio ad ampio spettro che, pur non volendosi caricare di eccessive valenze e responsabilità, ha il pregio di trovare una propria cornice di riferimento, una forma di legittimazione culturale e istituzionale, che non può che dare più forza e motivazione all’intervento stesso ed agli operatori che lo porteranno avanti. Un intervento educativo riferito alla singola comunità penitenziaria deve sì mantenere questo quadro di riferimento, ma anche rivolgere le proprie energie alla specifica realtà in cui si trova ad operare, calandosi nel contesto e nei ruoli concretamente svolti, entrando nello specifico “clima culturale” ed individuando i campi semantici, i codici espliciti ed impliciti, le eventuali contraddizioni fra ruoli e status, ma anche intra-ruolo e intra-status. Scopo dell’intervento è stato quello di coinvolgere i membri della comunità nel tentativo di rendere i destinatari più efficaci e consapevoli (il cosiddetto
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“empowerment”), aumentando il loro sentimento di efficacia personale ma anche promuovendo maggiore consapevolezza dei sistemi sociali e comunicativi e della loro intrinseca utilità e potere di condizionamento reciproco, proponendo quindi forme di controllo nonviolento nel segno del rispetto reciproco, evitando lo sviluppo di forme di “devianza secondaria”, attraverso l’etichettamento, o quello di stereotipi e pregiudizi negativi, sempre reciproci. Si è rivelato utile e necessario illustrare, individuare ed evidenziare forme di “burn-out” in atto all’interno delle stesse istituzioni totali. Le varie fasi dell’intervento sono state volte ad aumentare il senso di responsabilità personale, con l’obiettivo di “convertire il potenziale aggressivo in risorsa di trasformazione”. La responsabilizzazione del ruolo (nella fattispecie quello degli agenti) dovrebbe cioè passare attraverso la “risignificazione delle componenti emotivo-relazionali interne”. Se infatti è vero che è la comunità (nel senso più lato) a determinare lo stile di vita complessivo dei suoi membri, sono poi spesso di fatto gli agenti di custodia a “mediarne i contenuti, incluse le modalità relazionali e interattive”.
Obiettivi Cognitivi: a) modifica delle rappresentazioni mentali esistenti al fine di ridurre la devianza secondaria e non minare il processo riabilitativo; b) acquisizione della consapevolezza del ruolo della “devianza secondaria”; c) ruolo del “burn- out” nello sviluppo delle mansioni lavorative; d) acquisizione ruolo delle tecniche di controllo non violente e della comunicazione efficace; e) acquisizione/sviluppo della corrispondenza diritti umani/bisogni fondamentali; Affettivi: a) sviluppo di capacità introspettive e di capacità espressive; b) sviluppo di capacità comunicative e di confronto; c) sviluppo di capacità empatiche, di ascolto attivo e d’identificazione.
Raggruppando le problematiche in tre grandi settori: Burn-out, Rappresentazione dell’Altro, Gestione dei conflitti (come capacità di adoperare tecniche di controllo nonviolento e comunicazione efficace, problem solving e capacità di leadership e di coping) è possibile proporre il seguente schema dell’intervento educativo messo in atto:
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Conclusioni Il carcere, come il giudice, non può farsi carico dei desideri di vendetta da parte delle vittime dei reati o dei loro parenti, né dei desideri regressivi e primitivi di settori della società che chiedono “sicurezza”: lo Stato dovrebbe educare piuttosto che inseguire gli umori viscerali dell’elettorato, e certi aspetti della vita sociale dovrebbero essere tolti alla discrezionalità del partito maggioritario che intenda avvalersene cinicamente per conquistare voti e seggi
in Parlamento; aspetti strategici essenziali della vita sociale, della democrazia d’un popolo, come la scuola e la sanità pubblica, andrebbero tutelati come “organi costituzionali”, per dirla alla Calamandrei, e sottratti ai capricci e agli interessi del principe di turno. Una politica scarnificata, regredita sino alle moderne “reinvenzioni del fascismo” 42 che vedono replicare in 42 - Cfr. J. Galtung, La reinvenzione del fascismo, Il Manifesto, 4 luglio 2013.
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forme sempre più sofisticate la triplice alleanza già individuata da Stuart Mill fra potere politico, militare ed economico, sull’onda di “stati d’emergenza” e di strategie dell’emozione, non può che basarsi sul culto del conflitto distruttivo nelle sue diverse declinazioni: la guerra con i suoi “interventi umanitari” e le sue “missioni di pace”, il carcere, i Centri di Identificazione ed Espulsione per migranti, gli abusi di Trattamenti Sanitari Obbligatori. Motivi ideologici, politici o economici adoperati per legittimare le istituzioni totali risultano essere razionalizzazioni, alibi volti a giustificare l’annullamento dell’ “Altro da Sé”, del diverso che incarna e rappresenta parti di se stessi rimosse e proiettate. Più si è lontani dall’incontro con se stessi, dal dialogo intrapersonale, maggiore risulta l’alienazione provocata dalla cultura dominante che Fromm definisce necrofila, e più temiamo il diverso; lo temiamo, ma paradossalmente ne abbiamo bisogno come “contenitore negativo”, parafulmini dei nostri vissuti negativi e non elaborati. Il diverso, che diviene così nemicizzato, ci spaventa per il solo fatto di rappresentare mondi e modi alternativi di essere, perché ci costringe a indagarci, a metterci in discussione. Erich Fromm dimostrava come la normalità del mondo occidentale sia sempre più lontana dalla sanità: l“Homo Oeconomicus” è sempre più lontano da un inconscio che rinnega perché teme, è individuo sempre più marcatamente schizofrenico, scisso in senso manicheo: l’inconscio rinnegato diventa realtà ribollente di contraddizioni irrisolte, di negazioni, di fantasmi mai affrontati: un vaso di Pandora che deve necessariamente essere attribuito ad altri, al “nemico” senza negoziazioni, senza attributi umani, senza speranza. Ecco l’aspetto cruciale: il carcere è distruzione della speranza. A ben vedere il carcere, come la guerra, parte dall’esigenza imprescindibile della distruzione di ponti, l’interruzione di ogni forma di comunicazione con l’altro, sia in termini interindividuali che intercomunitari. La guerra, come ogni forma di distruttività tout court, non è altro che la distruzione della parola, come osserva Ottavio Di Grazia 43 una cesura drammatica, che ad ogni guerra, così come ad ogni carcerazione, aggiunge nuovi salti logici, sempre più difficili da recuperare, da guarire. Queste considerazioni sono particolarmente utili perché ci portano a due conclusioni, solo apparentemente ovvie. La prima è che il “conflitto costruttivo” come evento sociale, come dinamica sociale costruttiva, non va scoraggiato, ma anzi valorizzato. In realtà, però, 43 - “Le dieci parole”, Marc-Alain Ouaknin, trad. e intr. O.Di Grazia, Milano, Ed.Paoline, 2001.
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ci troviamo di fronte ad una realtà socio-politica che sempre più marginalizza, censura, oscura tutte le possibili situazioni di conflittualità positiva, di confronto ed espressione autentici, nel tentativo sempre più marcato ed evidente di anestetizzare soggetti e categorie sociali che possono sperimentarlo, potenziali forme di dissenso, espressioni di pensiero critico. La seconda conclusione è l’evidente paradosso che automaticamente dobbiamo riconoscere: da un lato si nega il conflitto “buono”, utile, che porterebbe al progresso sociale e individuale, dall’altro si è giunti a teorizzare la necessità d’un conflitto (quello distruttivo) permanente, con l’alibi della lotta al terrorismo, ad esempio, ma con l’interesse reale di egemonizzare il pianeta da parte di un’élite e di interessi ben definiti. Afferma Vallauri 44: “il solo vero successo etico è il cambiamento della mente del criminale e se mai, la rimozione degli eventuali fattori criminogeni”.
Il carcere va abolito Al suo posto una comunità che possa liberamente sperimentare il progressivo affrancarsi da condizionamenti e meccanismi di oppressione, una comunità riservata solo ai casi indispensabili; per il resto, depenalizzazione e misure alternative. Esperienze affini a questo tipo di comunità vanno affermandosi progressivamente con la tipologia degli Istituti a Custodia Attenuata, dove l’intento afflittivo del carcere viene decostruito a vantaggio di effettivi interventi di recupero, o con esempi stranieri, come gli efficaci e coraggiosi cambiamenti attuati in Norvegia, dove spesso i detenuti si trovano paradossalmente a respirare per la prima volta rispetto e fiducia proprio in queste ex-carceri, dove è possibile vivere in case autonome, con giardini e libertà di movimento all’interno di grandi comunità, con una recidiva del 16% a fronte di quella italiana, che si aggira intorno al 70%. Già grandi pedagogisti del passato hanno sperimentato simili condizioni, come per il “Little Commonwealth” di Omero Lane e “Summerhill” di Alexander Neill, dove si sperimentava la Pedagogia della libertà. Occorre ridare dignità e senso a tutte le forme dell’agire umano; è urgente e necessario ripartire da ciò che Fromm chiamava “fattore umano”.
Aristide Donadio Psicosociologo e docente di Scienze umane presso i licei
44 - Da: “Il Manifesto” del 17 ottobre 2000, L. Lombardi Vallauri. APRILE 2016 N. 2 / A.2 - Voci
Cinema
FUOCOAMMARE di Gianfranco Rosi Documentario, Italia/Francia, 2016 di Francesco Castracane
E’ ancora possibile trovare nelle sale, l’ultimo documentario di Gianfranco Rosi “Fuocoammare”. Con il suo precedente lavoro “Sacro GRA” il regista ha vinto il Leone d’Oro al Festival di Venezia, mentre con questo film, ambientato a Lampedusa, nel Febbraio 2016 ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino, raccogliendo le favorevoli opinioni della presidente della Giuria Meryl Streep, la quale ha dichiarato, dopo avere visionato il lavoro: “la compassione che esprime verso i suoi personaggi unita alla sua forza cinematografica nel combinare una questione politica a un racconto squisitamente artistico, coraggioso e struggente”. Va ricordato inoltre che questo film, ha vinto anche il premio Amnesty International 2016, sempre assegnato all’interno del Festival di Berlino. In occasione della premiazione il regista ha
dichiarato: “Dedico questo premio a tutte le persone che non sono mai approdate a Lampedusa perché morte in mare e a quelle che invece sull’isola vivono” ha poi proseguito “I lampedusani, sono persone così aperte ad accogliere me come ciascuna donna e uomo che vi arriva, da ovunque. Loro hanno veramente il cuore aperto e a chi loro chiede il perché, rispondono che i pescatori prendono tutto ciò che arriva dal mare”. È importante che l’Europa – forse per la prima volta in maniera ufficiale – inizi a interessarsi a questo problema divenuto catastrofe umanitaria. E sinceramente non mi sta piacendo quello che vedo e sento in giro, perché le barriere di qualunque tipo, ma soprattutto quelle mentali non devono esistere, sono pericolosissime. La gente muore per fuggire dalle tragedie”.
Trama Nel suo viaggio intorno al mondo per raccontare persone e luoghi invisibili ai più, dopo l’India dei barcaioli (Boatman), il deserto americano dei dropout (Below Sea Level), il Messico dei killer del narcotraffico (El Sicario, room 164), la Roma del Grande Raccordo Anulare (Sacro Gra), Gianfranco Rosi è andato a Lampedusa, nell’epicentro del clamore mediatico, per cercare, laddove sembrerebbe non esserci più, l’invisibile e le sue storie. Seguendo il suo metodo di totale immersione, Rosi si è trasferito per più di un anno sull’isola facendo esperienza di cosa vuol dire vivere sul confine più simbolico d’Europa raccontando i diversi destini di chi sull’isola ci abita da sempre, i lampedusani, e chi ci arriva per andare Voci - APRILE 2016 N. 2 / A.2
altrove, i migranti. Da questa immersione è nato Fuocoammare. Racconta di Samuele che ha 12 anni, va a scuola, ama tirare con la fionda e andare a caccia. Gli piacciono i giochi di terra, anche se tutto intorno a lui parla del mare e di uomini, donne e bambini che cercano di attraversarlo per raggiungere la sua isola. Ma non è un’isola come le altre, è Lampedusa, approdo negli ultimi 20 anni di migliaia di migranti in cerca di libertà. Samuele e i lampedusani sono i testimoni a volte inconsapevoli, a volte muti, a volte partecipi, di una tra le più grandi tragedie umane dei nostri tempi. Samuele è il bambino che Gianfranco Rosi ha scovato a Lampedusa e che rappresenta il nostro sguardo, 28
Cinema
quello degli europei che assistono un po’ sgomenti a una tragedia che pare essere inevitabile. Ma c’è anche il dottor Pietro Bartolo, il dottore dell’isola che ha assistito e soccorso migliaia di naufraghi. Il film sembra essere attraversato dalla costante presenza dei quattro elementi. La terra, uno scoglio incagliato in mezzo al mare, rifugio di coloro che fuggono; Il cielo, grigio e nuvoloso, carico di pioggia; il fuoco dal quale scappano coloro che arrivano, e naturalmente l’acqua, elemento di costante presenza per chi vive su un isola. Ma cominciamo dal titolo del film, apparentemente inspiegabile. In una sequenza la nonna di Samuele telefona a Giuseppe Fragapane, detto Pippo, che è il DJ della radio di Lampedusa “Radio Delta” che conduce “Canzonissima”. La nonna chiede di trasmettere la canzone “Fuocoammare” della quale esiste solamente una versione strumentale, poiché il testo è andato perso. E’ rimasta solamente la prima strofa “Chi focu a mmari ca c’è stasira”. Siamo nel 1943, a Lampedusa non c’era la corrente e la nave italiana “Maddalena” alla fonda nel porto viene bombardata e prende fuoco. L’evento rimane nella memoria dei lampedusani, che compongono una canzone il cui testo però si perde. Forse è proprio qui la metafora importante del film: per noi europei gli sbarchi dei migranti sono solamente una musica di sottofondo. Conosciamo a malapena la prima strofa della canzone, ma poi non sappiamo altro. Ma la musica continua a suonarsi da sola, anche se noi non ne ricordiamo più il motivo. ll lavoro di Rosi è quello che potremmo chiamare “Docufiction”, dove finzione e realtà si confondono, ibridandosi. Come molti autori contemporanei italiani, in questo film non si documenta la realtà, ma essa viene reinterpretata e riletta restituendola alla spettatore con una vena di autenticità che solamente il documentario può consegnare. E’ ovviamente un cinema di montaggio, pieno di allusioni, suggestioni, rimandi.
il film Kapò di Gillo Pontecorvo). C’è un limite alla rappresentazione della morte nel cinema? E se sì, qual è? Molti si sono turbati per l’inquadratura di Rosi che mostra la stiva di un barcone pieno di morti soffocati, di fame o di sete. Di solito chi si scandalizza per questo tipo di riprese, poi gode quando nei film si vedono morti ammazzati con sangue che scorre, cervelli che schizzano e arti che saltano. Certo, questa è fiction, quella è realtà. E allora, la realtà non va mostrata? Certo che sì, ma c’è modo e modo di farlo. E il confine fra lecito e morboso è molto sottile. A mio parere in questo film il confine è stato superato. Ma ritengo che considerare queste immagini oscene sia stata una accusa ingiusta. Il film è comunque molto interessante da vedere, ma come anche nel suo precedente lavoro, “Sacro GRA”, alla visione rimane una sensazione di incompiutezza, di frammentazione che non si ricompone. E l’autore ci racconta moltissimo le storie personali dei lampedusani, ma non entra nelle vite degli immigrati, non ci spiega chi siano, quali siano i loro sogni, le loro aspettative. E’ questo forse è un altro limite del lavoro, la visione forse troppo etnocentrica del documentario. Il film merita comunque di essere visto poiché rappresenta un tentativo, in buona fede e quindi proprio per questo meritevole di considerazione, d’illustrare una realtà che il cinema italiano, tranne alcune e lodevoli eccezioni, ancora non è in grado di raccontare. Da non perdere.
Francesco Castracane Educatore professionale nell’ambito delle dipendenze patologiche
Il film ha però, a mio parere dei limiti. Tali limiti riguardano la messa in scena, l’uso delle riprese che in alcuni casi sembrano essere troppo studiate e ci sono un po’ troppi luoghi comuni sul meridione e alcune sequenze finali, forse avrebbero potuto essere evitate. Non a caso queste sequenze hanno ricevuto l’accusa di oscenità, a mio parere ingiustamente, per il fatto di mostrare la morte degli immigrati. Pornografia!, ha protestato qualcuno alla fine della proiezione stampa, accusando il film di sensazionalismo e di mostrare ciò che non può, non deve essere mostrato, la morte (e qui non possiamo non ricordare il famoso articolo scritto da Jacques Rivette su Cahiers de Cinema riguardo 29
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Buone Notizie AZERBAIJAN Il Segretariato Internazionale di Amnesty International il 17 marzo ha comunicato che il Presidente dell’Azerbaijan, Ilham Aliyev ha firmato un decreto che dispone il rilascio di 148 prigionieri, tra cui 10 prigionieri di coscienza. Denis Krivosheev, vice direttore di Amnesty International per l’Europa e l’Asia centrale, in merito ha dichiarato che il rilascio di 10 prigionieri di coscienza è sempre una buona notizia, ma va messo in rilievo che ne rimangono in carcere almeno altri 8. I prigionieri liberati oggi sono i membri del movimento giovanile pro-democrazia NIDA Rashadat Akundov, Rashad Hasanov, Omar Mammadov e Mammad Azizov; gli attivisti per i diritti umani Rasul Jafarov, Hilal Mammadov e Anar Mammadli; gli attivisti dell’opposizione Yadigar Sadigov, Siraj Karimov e Tofig Yagublu. Fra i liberati è compreso Rasul Jafarov per il quale la Corte Europea per i Diritti Umani nei giorni scorsi aveva sentenziato che la sua condanna ha violato la Convenzione Europea per i Diritti Umani, a cui l’Azerbaijan aderisce. Rimangono tuttora in carcere la giornalista Khadija Ismayilova, la cui persecuzione da parte delle autorità è stata documentata da Amnesty International, l’avvocato per i diritti umani Intigam Aliyev, la cui salute si sta rapidamente deteriorando a causa della mancanza di cure mediche adeguate, l’importante attivista d’opposizione Ilgar Mammadov, I blogger Rashad Ramanazov e Elvin Karimov, l’attivista politico Faraj Karimov, ed i membri del NIDA Abdul Abilov e Ilkin Rustamzadeh.
BANGLADESH Il 24 febbraio due uomini condannati a morte nel 2010 perché riconosciuti colpevoli dell’omicidio di Mohammad Yunus, un professore di economia della Rajshahi University, avvenuto nel 2004, hanno avuto commutate le loro condanne in ergastolo. I due sono militanti del JMB, movimento fuori legge che si pone l’obiettivo di trasformare il Bangladesh in uno stato islamico basato sulla sharia.
SUD SUDAN Il 19 febbraio è stato rilasciato il giornalista Joseph Afandi, arrestato il 29 dicembre 2015 dai servizi di sicurezza si ritiene in relazione alla pubblicazione, il 23 dicembre, di un suo articolo critico nei confronti del partito al governo. Per tutto il periodo del suo arresto Afandi è stato tenuto in isolamento, senza essere portato davanti un magistrato e senza possibilità di avvalersi di un difensore.
STATI UNITI – LOUISIANA Il 19 febbraio è stato liberato Albert Woodfox, rimasto in cella d’isolamento per ben 43 anni. Era stato condannato insieme altri due detenuti liberati nel 2001 e nel 2013, con l’accusa di aver ucciso una guardia del penitenziario di Stato della Louisiana, nel lontano 1972. Woodfox, che si è sempre dichiarato innocente, è stato liberato nel giorno del suo 69esimo compleanno, dopo aver accettato di non opporsi più all’accusa minore di omicidio colposo.
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Secondo Amnesty International, che a favore di Woodfox ha predisposto svariati appelli, non è mai stata trovata “alcuna prova fisica che leghi i tre uomini all’omicidio, le prove del Dna che potenzialmente potevano discolparli sono andate perdute e le condanne si basavano su dubbiose testimonianze di altri detenuti”.
SRI LANKA Il 5 febbraio il presidente ha commutato 34 condanne a morte in carcere a vita. È dal 1976 che non si eseguono condanne a morte in Sri Lanka, malgrado la pena di morte sia prevista dalla legge. Il paese rientra, dunque, fra gli abolizionisti di fatto, venendo sempre convertite le condanne a morte in carcere a vita. Tuttavia da parte del governo, negli ultimi tempi, si era manifestata l’intenzione di riprendere le esecuzioni a causa dell’asserito incremento della criminalità e degli omicidi. Il provvedimento del Presidente sembra quindi una smentita della ventilata possibilità di riprendere le esecuzioni e la conferma degli indirizzi degli ultimi decenni.
EGITTO Il 1° febbraio 2016 è stato liberato il quattordicenne Mazen Mohamed Abdallah. Era stato prelevato da agenti armati da casa sua il 30 settembre 2015, da quanto affermato dai familiari, senza mostrare alcun mandato d’arresto. Nei giorni successivi ai familiari è stato negato che si trovasse agli arresti. La famiglia di Mazen ha dichiarato ad Amnesty International che il ragazzo durante la custodia è stato ripetutamente torturato con scosse elettriche e violentato con bastoni di legno allo scopo di fargli confessare di appartenere ai Fratelli Mussulmani. Del caso si è occupata Amnesty International che ha ripetutamente chiesto alle autorità egiziane di avviare un’indagine indipendente e imparziale sui fatti denunciati e di sottoporre i presunti colpevoli ad un processo equo.
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«Qui ad Atene noi facciamo così. La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo.» (Pericle – Discorso agli ateniesi – 461 a.c.) www.amnestysicilia.org
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DIAMO VOCE AI DIRITTI UMANI
i fatti e le idee