Atlante degli spumanti d'Italia. Metodo italiano

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Andrea Zanfi

Atlante degli SPUMANTI

d’Italia

METODO CLASSICO di territorio

Carlo Cambi Editore



METODO CLASSICO di territorio



Andrea Zanfi fotografie di Giò Martorana

Carlo Cambi Editore


di Andrea Zanfi Fotografie di Giò Martorana Coordinamento editoriale e di redazione: Marco Biotti Progetto grafico: Laura De Biasio Si ringraziano Luca Toninato, Lorenzo Monterisi e Paolo Krasnig di “AGER s.c. Agricoltura e Ricerca” per i testi e i grafici di introduzione ai territori Collaborazione nelle degustazioni: Lorenzo Colombo, Roger Sesto Still-life delle bottiglie: Andrea Fantauzzo Traduzione inglese: Studio Lingue2000 - Molfetta (BA) Fotolito e stampa: Tap Grafiche S.p.A. Le foto di pag. 75 e 103 sono di Oliviero Toscani - La Sterpaia (consulente Holding Terra Moretti) Per le foto di pag. 268 e 270 (che riproducono alcune pagine dei quaderni manoscritti di Giulio Ferrari), si ringrazia Silvia Ceschini, Ufficio stampa Istituto Agrario di San Michele all'Adige Un sincero ringraziamento va al Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese, al Consorzio Alta Langa e al Trento DOC (Società di marketing territoriale del Trentino) per la disponibilità, il sostegno e l’ospitalità concesse allo staff della Carlo Cambi Editore Carlo Cambi Editore Via San Gimignano snc 53036 Poggibonsi (Siena) Tel. 0577 936580 - Fax 0577 974147 www.carlocambieditore.it - info@carlocambieditore.it 2009 © Copyright Carlo Cambi Editore

Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy I diritti di riproduzione, di traduzione, di memorizzazione elettronica e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi microfilm, copie fotostatiche e cd), nonché l’inserimento in siti internet, sono riservati per tutti i paesi. Prima edizione: ottobre 2009 Versione italiana: ISBN 978-88-6403-035-7 Versione inglese: ISBN 978-88-6403-036-4


Sommario 9 13 23

Viaggio negli Spumanti Metodo Classico italiani di Andrea Zanfi Come si ottiene uno Spumante Metodo Classico di Stefano Capelli e Mattia Vezzola Classico, ovvero universale: quando il metodo va oltre il territorio di Attilio Scienza

RITRATTI DI PRODUTTORI E AZIENDE 26

ALTA LANGA

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OLTREPÒ PAVESE

34 38 42 46 50 54 58 62

Bera Cocchi Fontanafredda Gancia Germano Ettore Martini & Rossi Tosti Vigne Regali - Banfi

66

FRANCIACORTA

74 78 82 88 92 96 102 106 110 114 118 122 126 132 136 140 144 148 152

Bellavista Berlucchi Guido Ca’ del Bosco Castello Bonomi Cavalleri Cola Contadi Castaldi Fratelli Berlucchi Gatta Gatti Il Mosnel La Montina Monte Rossa Monzio Compagnoni Ricci Curbastro Ronco Calino Uberti Villa Villa Crespia - Muratori

166 172 176 180 184 188 192 196 200 204 208 212

Anteo Cantine Scuropasso Caseo Conte Vistarino Fattoria Il Gambero La Versa Monsupello Quaquarini Tenuta Il Bosco Terre d’Oltrepò Travaglino Verdi Bruno

218 225

TRENTO DOC Istituto Agrario di San Michele all’Adige: “Stella polare” della vitienologia trentina di Alessandro Dini

228 232 236 240 244 248 254 258 264 268 274 278 282 286 290 294

Abate Nero Balter Cantina Rotari Cantine Monfort Cavit Cesarini Sforza Dorigati Endrizzi Ferrari Istituto Agrario di San Michele all’Adige Fondazione Edmund Mach Letrari Maso Martis Pedrotti Spumanti Pisoni Pojer e Sandri Zeni

300 302

Glossario Indirizzario


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VIAGGIO NEGLI SPUMANTI METODO CLASSICO ITALIANI Nello svolgere il mio lavoro ho sempre rifiutato l’idea di inquadrare il mondo del vino in schemi rigidi che vincolassero la mia creatività e il mio desiderio di scoprire le sue infinite variabili. Con questo spirito, da quindici anni viaggio per l’Italia del vino, alla scoperta dei suoi meravigliosi interpreti, cercando di conoscerli e di raccontarli, sforzandomi, per quanto possibile, di utilizzare il vino solo come un passepartout d’ingresso e relegando in secondo piano gli aspetti tecnici che lo caratterizzano. Lascio questo gravoso e schematico compito ad altri, poiché ritengo per me più gratificante cercare quell’insieme di fattori, storici, culturali e ampelografici che sono il patrimonio di chi conduce l’azienda e che sanno determinare il valore del terroir che gli appartiene. Mi piace inoltre considerare il vino un prodotto “nobile” e ciò non credo dipenda dalla genealogia delle innumerevoli casate che operano in viticoltura, né da quell’altezzoso, sibillino e regale linguaggio che, in questi ultimi decenni, ha contribuito, tuttavia, a renderlo indecifrabile. Classificarlo nobile per me significa accostarlo all’arte che necessita perché sia realizzato. È nobile perché chi lo produce deve avere un animo signorile e capace di rispettare, rapportarsi e coniugarsi con la natura, con il flusso delle stagioni e, soprattutto, con il tempo. È questo l’approccio che vado cercando nel lavoro del vignaiolo, il cui vino deve rappresentare la riprova e l’esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva, al pari di ciò che altri fanno con la pittura, la scultura o l’architettura. Come in quelle arti, tutto deve essere rapportato e coniugato all’applicazione pratica del proprio saper fare, nei suoi più alti livelli. Chi produce vino deve sapere di scienza, ampelografia e tecnica migliorando continuamente i limiti culturali, vitivinicoli e imprenditoriali che sono in suo possesso, rapportandoli continuamente con la tradizione e il territorio in cui opera. Un artifizio quasi algebrico, in cui è difficile districarsi e porre in equilibrio, ogni anno, gli elementi che compongono il proprio saper fare. Senza mai cambiare il mio approccio “umanista”, mi sono avvicinato a questo nuovo impegno editoriale cercando di dar vita ad un’opera - come è bene chiamarla per l’impegno e lo sforzo profuso per realizzarla - che fosse in grado di fare un po’ di chiarezza nel mondo degli Spumanti italiani. Un viaggio durato un anno e mezzo, durante il quale ho percorso decine di migliaia di chilometri bussando alla porta di 162 aziende, sparse un po’ ovunque, dalla Valle d’Aosta al Friuli, dalla Lombardia alle Marche, dagli Abruzzi alla Sicilia,

dal Lazio alla Sardegna. Un itinerario composito che non solo ha arricchito enormemente il mio bagaglio culturale, ma mi ha consentito di lavorare a stretto contatto con chi ha più conoscenza di me su questo settore produttivo: il professor Attilio Scienza dell’Università di Milano, Giampietro Comolli, direttore del Forum degli Spumanti d’Italia, gli enologi Stefano Capelli e Mattia Vezzola, Luca Toninato, Lorenzo Monterisi e Paolo Krasnig di “Ager - Agricoltura e Ricerca” e gli amici Roger Sesto e Lorenzo Colombo. Da tutti loro ho preso consigli, informazioni e spunti per dare a questi volumi un contenuto che non fosse solo informativo, ma anche didattico, tecnico ed istruttivo. Un pool di persone che ringrazio per l’impegno profuso e per aver posto le loro professionalità al servizio di un importante progetto editoriale che spero apra, fra gli appassionati di “bollicine”, una proficua discussione sul futuro di questo settore enologico. Ciò che mi prefissavo era scoprire quale fosse lo stato dell’arte del movimento spumantistico italiano, conoscere i territori più vocati, capire meglio la produzione e gli interessi che gravitano intorno a queste “bollicine”. Non pensando che di lì a poco mi sarei ritrovato davanti ad un mondo, di aziende e territori, molto più variegato e complesso di quanto immaginavo, nel quale interagiscono forze, talora contrapposte, che non contribuiscono a fare chiarezza, né a dare una precisa identità al concetto di Spumante, come, invece, il mercato richiederebbe. Una “giungla” di prodotti, tutti riconducibili alle “bubbles”, nessuno dei quali però, in realtà, in grado di avere un’identità talmente forte da poter essere indicato come lo Spumante italiano per eccellenza, a cui fare riferimento. Ho deciso così di andare per gradi e costruire due macroaree d’intervento: una riferita agli Spumanti realizzati con il metodo Charmat, che verranno trattati nei prossimi due volumi, la cui uscita è prevista nei prossimi anni, e una riferita a quelli realizzati con il Metodo tradizionale, Classico o Champenois, come lo si voglia chiamare. Una soluzione dispendiosa, realizzabile solo nell’arco di 3-4 anni, ma capace di fotografare almeno in parte il comparto spumantistico italiano, pur tenendone in considerazione il suo insieme. Così ho iniziato una raccolta sistematica di carte, documenti, pubblicazioni, informative e quant’altro, a cui potessi attingere per capire il significato geo-politico della parola “Spumante” e i vari aspetti che interagiscono nel sistema delle “bollicine”. Man mano che mi inoltravo nello specifico di questo mio approfondimento, vedevo continuamente aumentare le

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notizie che avrei dovuto inserire nei volumi, i quali - come sa bene chi lavora nell’editoria - non sono fisarmoniche che si ampliano oltre misura, ma hanno parametri rigidi dentro cui un autore deve collocarsi in termini di contenuti, battute, immagini e via dicendo. La complessità dell’argomento, però, mi dava la consapevolezza di ritrovarmi a gestire una coperta che, comunque la guardassi, era sempre troppo corta per coprire la testa e i piedi del comparto enologico che volevo raccontare. Ma non mi sono scoraggiato e con l’uscita di questi primi due volumi spero di essere riuscito a ottenere il risultato voluto, che era quello di raccontare il Metodo Classico con due itinerari - “Classico di Territorio” e “Classico di Vitigno” - da interpretare come percorsi distinti. Il primo tende a concedere una visione dei quattro territori italiani che ormai da anni hanno avviato una specifica e proficua valorizzazione della loro produzione spumantistica, il secondo vuole evidenziare la variegata proposta che ambisce a promuovere non solo l’unicità territoriale dalla quale provengono, ma anche l’utilizzo di quei vitigni autoctoni che sono la fertile e vitale diversità che contraddistingue il nostro paese. Nel primo volume, “Classico di Territorio”, ho racchiuso le quattro aree regolate da disciplinari che valorizzano e regolamentano la produzione di Spumanti Metodo Classico: Alta Langa, Franciacorta, Oltrepò Pavese e Trento che, da sole, rappresentano più del 80% della produzione italiana che si aggira intorno ai 24 milioni di bottiglie, delle quali il 67% è commercializzata dalle prime 10 aziende. Tutte zone molto diverse fra loro che, pur proponendo sul mercato Spumanti realizzati con l’utilizzo di vini base derivati dalla vinificazione delle uve di due specifici vitigni - lo Chardonnay e il Pinot nero - differenziano ogni territorio in modo così netto e con tali specifiche e peculiari caratteristiche che, almeno sui Pas Dosé, è veramente difficile confondersi. Territori diversi sotto molti altri aspetti ancora, come ad esempio la visibilità e l’attenzione che riescono ad ottenere dai mercati, fattori direttamente proporzionali alle masse critiche annualmente commercializzate, con aree raggiungono picchi di dieci milioni di bottiglie e altre che ne producono solo cinquecentomila. Ma la differenza sta anche nella stessa cultura che gravita intorno allo Spumante Metodo Classico; una cultura che crea un distinguo fra l’interesse, l’atteggiamento e l’approccio al prodotto che ognuna di esse pone in termini comunicativi, didattici e progettuali. Tutti elementi che evidenziano le diverse velocità di ognuna e che consentono, ad alcune aree di procedere spedite verso importanti traguardi, ad altre di

camminare con il freno tirato e ad altre ancora di trovarsi pericolosamente ferme in mezzo a un guado o, peggio ancora, a guardare alla finestra per comprendere cosa sia bene fare. Sono diversi i numeri delle aziende produttrici iscritte ai Consorzi, sono diverse le cifre degli addetti del settore, sono diversi i fatturati e gli investimenti - da quelli comunicativi e a quelli strutturali - sono diversi gli stessi progetti che le dovrebbero proiettare verso il futuro. Con queste mie considerazioni non voglio né sminuire, né esaltare l’impegno delle aziende spumantistiche di queste quattro aree che, per quanto ho potuto constatare, hanno raggiunto livelli qualitativi produttivi estremamente interessanti, con picchi di eccellenza che non temono paragone con le grandi Maison di Champagne francesi, alle quali, credo, non devono invidiare il terroir che le contraddistingue - troppo migliore il nostro - né prenderle come paragone per misurare gli standard qualitativi dei prodotti. L’unica cosa sulla quale invece devono applicarsi le nostre aziende è tentare di accorciare il gap economico che le separa dalla Francia, prendendo spunto da ciò che essi hanno saputo realizzare intorno alle loro “bollicine” in termini di immagine e di comunicazione. Questa diversità, inoltre, non contribuisce a costruire un’omogeneità strategica del comparto che consentirebbe all’Italia, con una programmazione decennale, di avanzare nella gerarchia delle nazioni europee produttrici di Spumanti Metodo Classico, che la vede oggi, in termini di fatturato, produrre 24 milioni di bottiglie annue, una quantità notevolmente inferiore alla Francia, che supera i 420 milioni o alla Spagna, che invece è a 275 milioni. Un’unità strategica che potenzialmente potrebbe avere una posizione di rilievo nel panorama italiano è la Lombardia, ma solo se la Franciacorta e l’Oltrepò Pavese diventassero un unico polo produttivo regionale, non solo il più importante d’Italia, ma quello capace di sviluppare progetti sinergici con differenziazioni produttive - come lo Chardonnay in Franciacorta e il Pinot nero nell’Oltrepò Pavese - in grado di viaggiare parallelamente su livelli di 4 o 5 volte superiori a quelli odierni, e riuscire così a movimentare l’immagine internazionale degli spumanti italiani che all’estero oggi è supportata soltanto da circa il 6% dell’intera produzione nazionale. Nel secondo volume, “Classico di Vitigno”, ho voluto invece promuovere non solo l’unicità territoriale dalla quale hanno origine certi Spumanti Metodo Classico prodotti con vitigni autoctoni - che sono la base fertile della vitale diversità che

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contraddistingue il nostro paese - ma capire anche quanto il germe della storia avesse attecchito nella nostra penisola e quanto il barlume creativo di quei produttori, sparsi in ogni regione, che si erano contagiati con quel germe, rappresentassero la novità capace di incuriosire il mercato, innescando per altre aziende, vecchie e nuove, un processo emulativo in grado di ampliare a dismisura l’offerta di Spumanti. E qui mi sono imbattuto nelle micro-produzioni di aziende che in alcuni casi rendono omaggio alla tradizione spumantistica dei territori in cui operano e in altri casi sono l’immagine del coinvolgimento e della grande passione necessaria per produrre un Metodo Classico. Non tutte le aziende visitate realizzano però un Metodo Classico con vitigni autoctoni, ma ciò non ha limitato la mia azione, poiché, partendo dal concetto espresso in precedenza, con cui menzionavo la nobile arte di saper interpretare il terroir, ho ritenuto che il loro saper fare fosse degno di nota, come del resto quello di molte altre aziende che avrei voluto inserire, ma che ho dovuto lasciare fuori da questo libro solo per ragioni di spazio e non certo per demeriti produttivi. Realtà che sanno proporre originalità, altre volte cose uniche, alle quali il palato spesso non è abituato, mentre altre volte ancora ho riscontrato fantastiche e irripetibili eccellenze, meritevoli d’attenzione. Un viaggio durato un anno e mezzo dal quale ho tratto riflessioni personali che in molti casi mi riservo di non esprimere, perché necessitano di ulteriori approfondimenti, mentre per altre mi spingerei volentieri oltre le gabbie e i regolamenti intorno ai quali si insabbia il divenire del sistema spumantistico italiano, come per esempio sul nome con il quale identificare i vari comparti produttivi di questo importante settore. Così, da parte mia, rimarco in questa introduzione il valore della parola Spumante, che ci appartiene da oltre duemila anni e di diritto spetterebbe solo al Metodo Classico; una parola che per dignità e riconoscimento ho voluto scrivere sempre con S maiuscola, in quanto segno tangibile del grande rispetto che nutro verso questi vini che, nelle loro variegate diversità e interpretazioni, rimangono unici. Ognuno di questi vini ha una storia propria, come ogni bottiglia prodotta ha un suo originale percorso di vita, fattore che mi affascina e predispone verso questi meravigliosi prodotti enologici che ho voluto raccontare in questi libri. Andrea Zanfi

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COME SI OTTIENE UNO SPUMANTE METODO CLASSICO I vini effervescenti, considerati da sempre simbolo di festa e convivialità, rappresentano oggi un importante punto di riferimento per il mercato enologico mondiale ed è per questo che a prescindere che voi siate semplicemente incuriositi o sedotti dalle bollicine che danzano nel bicchiere o affascinati dall’eclettismo che dimostrano questi vini nel sapersi coniugare con la più complessa gastronomia, vi invitiamo a scoprire insieme a noi il motivo per il quale gli spumanti Metodo Classico possono essere considerati a buon diritto vini unici. Il nostro sarà un viaggio un po’ didattico e un po’ informativo che spero vi aiuti a conoscere meglio questi prodotti, così da poterli apprezzare nelle loro poliedriche sfaccettature gustative, considerandoli, una volta per tutte, vini da tutto pasto e soprattutto per ogni occasione. Gli spumanti si presentano così, perché oggetto di una fermentazione secondaria in bottiglia che li rende unici e inimitabili. Quello che interessa sapere è quale sia il processo di vinificazione minuzioso, particolare, quasi magico di questi vini: parte dalla vigna e prosegue con la vinificazione dei vini base e molto più tardi con il remuage con il quale si ha la possibilità di raggruppare nel collo della bottiglia, sulla facciata interna del tappo, i lieviti precedentemente immessi in essa per la necessaria presa di spuma, proseguendo dopo con il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e con la successiva colmatura della bottiglia con il dosaggio del liqueur d’expédition. La particolarità e l’unicità di questi vini consiste nel fatto che gli stessi sono acquistati dal cliente finale nella stessa bottiglia in cui è avvenuto tutto il processo di fermentazione e di maturazione che li ha interessati, cosa unica nel panorama enologico. Questo metodo, chiamato con diversi nomi - “Metodo Classico”, “Metodo Tradizionale”, “Metodo Champenoise”, “Metodo Franciacorta” non avrebbe significato senza la magica presenza nel bicchiere delle bollicine, che sono la sublime espressione di quell’anidride carbonica formatasi nel lento lavoro che i lieviti hanno svolto per mesi e mesi nelle bottiglie al fresco delle cantine, ora accentuando l’acidità del vino, ora equilibrando il gusto dolce dato dall’alcool, liberando poi la loro gradevole effervescenza nel bicchiere e accompagnandola con gli aromi naturali del vino. Si tratta di vini che appartengono alla storia. Ne parlava già Plinio il Vecchio, ma solo grazie ai progressi della ricerca scientifica, iniziati alla fine del XVIII secolo, si è potuto comprendere e gestire meglio il fenomeno della loro effervescenza. Lunghe le sperimentazioni avviate per arrivare ai risultati odierni, ad iniziare proprio dall’influenza che ha l’invecchiamento in bottiglia per i vini Spumanti “Metodo Classico”, i quali devono avere, generalmente, un periodo di maturazione sui lieviti superiore ai 9 mesi prima della loro commercializzazione,

ma che in alcuni casi, come ad esempio per i Franciacorta o per altri spumanti prodotti in altre aree geografiche dove vi sono disciplinari che ne regolamentano la DOC o la DOCG, il processo di maturazione supera di gran lunga i 18 mesi. Nel caso dei Millesimati l’attesa sale ad oltre 30 mesi e per le riserve ad almeno 60 mesi. Il “Metodo Classico” prevede quindi vari passaggi ben distinti fra loro che abbiamo cercato di descrivervi qui di seguito. LE OPERAZIONI PREFERMENTATIVE La vendemmia Tutti i bravi vignaioli sanno che la qualità del vino che produrranno dipende dalla qualità delle uve che riescono a portare in cantina, ed esse devono raggiungere la perfetta maturità per potersi “esprimere” nel miglior modo possibile. Un ragionamento semplice, poiché è bene ricordare che l’evoluzione della maturazione delle uve non è legata a formule magiche o empiriche, ma è subordinata soltanto all’andamento climatico dell’annata e in specifico a due distinti periodi dell’anno: quello che riguarda l’inizio della primavera - ovvero la ripresa vegetativa - e il periodo che va da luglio a settembre – dall’invaiatura alla maturazione dell’acino. L’enologo francese Emile Peynaud rimarcava a tal proposito che la qualità della vendemmia è principalmente condizionata dal soleggiamento dei mesi di agosto e di settembre, ma aggiungeva anche che “il tempo dell’ultima settimana, prima della vendemmia, conta il doppio!”. I vini a base spumante non possono esimersi dal seguire queste regole, anche se la loro vendemmia comincia, secondo la stagione, alla terza decade di agosto, cento giorni dopo la fioritura, ma, poiché ogni vitigno utilizzato, per ottenere un grande Spumante Metodo Classico, deve raggiungere la maturazione in un lasso di tempo più o meno breve rispetto a quella data teorica indicata in precedenza, i vignaioli scrupolosi vigilano in questo periodo proprio sull’evoluzione dei grappoli di ciascun vigneto, prelevando almeno due volte alla settimana degli acini d’uva che pesano, pressano e spremono in modo da analizzarne il succo ottenuto per calcolarne il contenuto in zucchero, il grado alcolico, l’acidità e l’indice di maturazione. Sulla base di questi dati gli enologi decidono la data migliore per la raccolta dell’uva di ogni vigna, senza però dimenticare che, oltre alla maturità delle uve, un altro parametro importante è l’integrità dei grappoli. Solo le uve sane possono fornire al vino grande acidità e finezza, elementi indispensabili nel conferire al futuro vino il corretto potenziale di invecchiamento.

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È noto infatti che l’insufficiente maturazione delle uve marcherà il vino con un eccesso di acidità, cosa che poi contribuisce ad aumentare il rischio sia di una maggiore “nervosità”, sia la percezione gustativa di spiacevoli note acerbe in bocca, oltre ad accompagnare la degustazione con un’eccessiva “magrezza”. D’altro canto una maturazione eccessiva porterà ad una mancanza di acidità e ad un precoce invecchiamento del vino, oltre alla percezione gustativa di una maggiore intensità aromatica, che condurrà di conseguenza ad un’eccessiva “impronta” varietale che nei blend non è cosa molto positiva. Negli Spumanti Metodo Classico l’acidità svolge comunque un ruolo importante e per questo si può e si deve considerare come uno degli elementi gustativi principali e parametro biologico essenziale per la presa di spuma. Dal punto di vista tecnologico, però, è bene sapere che un’acidità elevata, con un pH basso, è un elemento frenante sia sulla fermentazione primaria che sulla presa di spuma, perché condiziona direttamente l’attività dei lieviti. Una perfetta acidità dei vini-base, con valori compresi tra 6 e 8 g/l e valori di pH compresi tra 3,0 e 3,15, consente quindi una fermentazione lenta, senza eccessivo riscaldamento del vino, il che assicura una migliore conservazione del frutto iniziale presente nel mosto, limitando la formazione di prodotti secondari della fermentazione (alcoli superiori). Acidità basse e conseguenti pH elevati inducono fermentazioni molto rapide dalle temperature difficili da controllare, con la

conseguente eccessiva perdita di aromi primari ed eccessiva caratterizzazione da aromi fermentativi di scarsa finezza. In questi casi potrebbero sopraggiungere anche arresti del processo fermentativo. Per tutti questi motivi è necessario che la raccolta delle uve avvenga nei tempi giusti e sia effettuata rigorosamente a mano, perché le stesse non devono essere né ferite, né aggredite o prepressate prima della pressatura. Per quanto concerne le uve di alcuni vitigni, come ad esempio il Pinot nero, ogni operazione dovrà essere condotta in modo rigoroso e tale da mantenere intatti gli acini, affinché i pigmenti rossi contenuti nella loro buccia non fuoriescano colorando il mosto. I grappoli maturi dovranno essere raccolti in piccole cassette, che in seguito verranno trasferite rapidamente alle presse. Le uve dovranno essere pressate vigna per vigna, varietà per varietà entro 6-8 ore dalla loro raccolta, di giorno e di notte, mentre le casse utilizzate nella vendemmia dovranno essere lavate dopo ogni loro svuotamento. Il rispetto di questi semplici princìpi permette di preservare la qualità e la specificità di ogni vitigno e tutte le attenzioni rivolte alla vendemmia, dalla raccolta fino alla pressatura, si giustificano grazie alle conoscenze sulla composizione dell’acino e alle capacità analitiche che intervengono nei primi momenti del processo di vinificazione.

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PrincĂŹpi di pressatura

la superďŹ cie di pressatura deve essere ampia; l’estrazione del succo deve avvenire a 90° dall’asse di pressatura,

Altra grande attenzione merita l’estrazione dei mosti, soprattutto se si vogliono ottenere quelli bianchi partendo anche da uve nere come il Pinot nero. In questa fase è rigorosamente vietato eettuare la diraspatura ed è necessario pressare le uve intere, delicatamente, facendo attenzione a separare i mosti della cuvĂŠe (Ia frazione), da quelli della IIa e della IIIa frazione. Con il miglioramento delle cognizioni, l’enologia moderna ha sviluppato una tecnologia in grado di gestire l’estrazione del mosto proprio rispettando la ripartizione dei composti che si trovano all’interno dell’acino dal quale viene estratto, in primo luogo, il succo della parte centrale dell’acino (succo che va a comporre le cuvĂŠe), che è quella piĂš ricca in termine di zuccheri e acidi, mentre, a seguire, viene raccolto il succo della zona intermedia vicino ai vinaccioli (IIa frazione) e per ultimo quello della zona periferica (IIIa frazione), povera di zuccheri, ma ricca di materie coloranti e di tutti quei composti responsabili del gusto amaro e astringente che sentiamo spesso nei vini. Da un punto di vista meccanico le regole utilizzate per la pressatura sono rigide, poichĂŠ per ottenere la Ia frazione, in cui gli acini d’uva vengono leggermente rotti raccogliendo il succo che si libera, è necessario fare molta attenzione; allo stesso tempo è necessario porre attenzione anche per la IIa frazione, quella in cui si eettua lo schiacciamento completo dell’acino d’uva e che fornisce un succo meno acido e piĂš marcato dal carattere varietale delle uve utilizzate. La IIIa frazione (o “torchiatoâ€?) è l’ultimo mosto che si estrae dallo schiacciamento delle bucce ed il succo che si libera è soprattutto ricco di sostanze erbacee, amare e tanniche. Sulla base di questo ragionamento possiamo aermare quindi che la pressatura per i vini Spumanti Metodo Classico è di fatto una pressatura incompleta, vista la limitata estrazione o resa in mosto ottenuta per fare un prodotto di qualitĂ .

per favorire l’autoďŹ ltrazione del mosto, mentre la pressione deve essere leggera, debole, cosĂŹ da evitare la colorazione; lo scarico del mosto deve essere semplice; deve essere assicurata l’estrazione progressiva del succo con un lento aumento della pressione; si deve assicurare una buona autoďŹ ltrazione del succo attraverso la vinaccia; bisogna evitare l’ossidazione del mosto.

Vi sono diverse tecniche di pressatura, ma le migliori sono essenzialmente due: La pressatura orizzontale pneumatica a membrana laterale, in cui la pressione viene esercitata sugli acini da una membrana sintetica alimentare ďŹ ssata diametralmente all’interno della pressa. Il serbatoio resta fermo, ma è fornito di aperture che fanno sgrondare il succo attraverso un collettore. La pressione può essere esercitata da aria compressa o da acqua. Il programma di pressatura è generalmente automatizzato. La pressatura orizzontale idraulica a spinta laterale e a base ďŹ ltrante rotante. L’uva viene pressata da due pannelli laterali, azionati da martinetti idraulici. Il rimescolamento delle vinacce avviene con un arretramento dei pannelli e la rotazione della base di 360°. Lo sgrondo del mosto avviene verso il basso, attraverso appositi fori presenti sul fondo della base ďŹ ltrante. Lo scarico avviene in modo automatico, cosĂŹ come la gestione dell’intero processo di pressatura. L’utilizzo di computer industriali per la gestione automatica della pressatura ha il vantaggio di poter memorizzare molteplici programmi di pressatura che si possono applicare in funzione del vitigno e della maturazione delle uve. Ogni programma prevede diverse fasi di pressatura con tempi e pressioni adattate alle varie frazioni di mosto da ottenere. Per raccogliere il mosto che sgronda dalle presse si utilizzano serbatoi tarati, disposti direttamente sotto la pressa. Per limitare Pressatura ed estrazione del mosto l’ossidazione del mosto al contatto con l’aria, il viniďŹ catore esegue una “solďŹ tazioneâ€?, l’aggiunta cioè di una piccola dose di Il tipo di pressatura utilizzato deve rispettare regole precise: anidride solforosa (SO2), indispensabile per l’ottenimento di un contrario deve essere eettuata una cernita o mondatura mosto di qualitĂ . Antisettica ed antiossidante, senza di essa il manuale delle uve, con separazione degli acini ammuďŹƒti o non mosto diventa marrone e perde il suo colore di succo d’uva e la sua fruttositĂ . La solďŹ tazione facilita inoltre la decantazione, integri; provocando insolubilitĂ e coagulazione e di conseguenza la il carico della pressa deve essere semplice e rapido; occorre maneggiare i grappoli con delicatezza, senza sedimentazione della feccia. Tutte le precauzioni prese, dalla raccolta delle uve alla loro pressatura romperli; si devono caricare e pressare esclusivamente grappoli interi; e al frazionamento dei mosti, sono essenziali per la qualitĂ ďŹ nale.

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Illimpidimento del mosto

di ciascun vino, trattandosi di mosti perfettamente limpidi e dal pH generalmente basso e pertanto a rischio di fermentazione incompleta, si procederà all’aggiunta di lieviti naturali, i cui criteri di selezione dovranno puntare a garantire non solo la completa fermentazione, ma anche la totale assenza di tutti quei prodotti secondari che caratterizzano negativamente le note organolettiche creando in particolare quel fastidioso “gusto di ridotto” e “di crosta di pane” che capita di sentire in qualche occasione. Nei primi cinque o sei giorni, la fermentazione alcolica si manifesterà con un’effervescenza del mosto - il quale dà quasi l’impressione di bollire - una sensazione che del resto è confortata anche dal fatto che in questa fase vi è un forte aumento della temperatura del mosto, la quale dovrà essere ben gestita, facendo soprattutto attenzione a mantenerla costante fra i 16 e i 18°C, così da favorire una fermentazione regolare, evitando di nuocere nell’espressione della finezza aromatica del vino. La fermentazione, sorvegliata quotidianamente attraverso la misurazione della temperatura e della densità, si concluderà dopo circa due settimane, quando si dovrà procede alla “colmatura” dei serbatoi rabboccandoli con lo stesso tipo di vino. In seguito, i vini dovranno mantenuti sulle fecce nobili che, se necessario potranno essere rimosse ogni tanto con dei bâtonnages nell’attesa di decidere, a seconda dell’annata, di dare avvio ad un’altra nuova fase chiamata “fermentazione malolattica”.

Per le stesse ragioni viste in precedenza e per ottenere vini di grande finezza, la fermentazione deve avvenire su un mosto perfettamente limpido e per questo si procede al suo illimpidimento che viene effettuato in due fasi: la prima, durante la raccolta del mosto proveniente dalle presse, la seconda, denominata decantazione statica, in appositi serbatoi dove il mosto travasato riposa dalle 10 alle 24 ore ad una temperatura compresa tra gli 8 e i 14°C, fino a quando tutti gli elementi estranei in sospensione non si depositano sul fondo, compattandosi. Questa seconda fase avviene in due tempi ben distinti, il primo dei quali è quello di coagulazione, mentre il secondo stadio è quello di sedimentazione. Ciascuna di queste fasi viene condotta tenendo scrupolosamente separati i mosti, ogni frazione degli stessi, ogni vitigno e addirittura i gruppi di mosti in funzione delle loro vigne di origine. LA PRIMA FASE DI VINIFICAZIONE: DAL MOSTO AL VINO-BASE La fermentazione alcolica Un tempo questo processo di trasformazione del mosto in vino avveniva in botti di legno, di cemento o di acciaio smaltato, mentre oggi si svolge in serbatoi di acciaio inox termoregolati di varie dimensioni, secondo le necessità delle aziende, mentre per i grandi Millesimati si utilizzano botti di legno, barriques o tonneaux, costruite con l’utilizzo di diversi tipi di legno a seconda del risultato desiderato. Questa fermentazione non deve essere considerata come una semplice trasformazione dello zucchero in alcool; infatti i numerosi composti secondari della fermentazione (esteri, acetati, alcoli superiori) la cui natura e quantità dipendono strettamente dalle condizioni di moltiplicazione dei lieviti, danno forma e caratterizzano il vino base. Il cantiniere interverrà quindi per preparare la migliore fermentazione possibile e per ottenere un vino base che abbia un grado alcolico compreso tra 11° e 11,5°, poiché la successiva presa di spuma che verrà fatta svolgere al vino in bottiglia porterà ad un ulteriore aumento di 1,2° o 1,3° del grado alcolico. In questa fase, l’acidità naturale dei mosti, proprio per le note a cui facevamo riferimento in precedenza, deve essere salvaguardata e, se necessario, corretta con una pratica enologica naturale che prevede l’aggiunta di acido tartarico (identico a quello contenuto nell’uva), così da permettere al vino una sufficiente attitudine all’invecchiamento. Per salvaguardare la qualità e la specificità

La fermentazione malolattica La fermentazione malolattica è un processo biologico che consiste nella trasformazione per via batterica dell’acido malico in acido lattico con la liberazione di anidride carbonica. Si passa dunque da un acido dal tipico sapore di frutto verde ad un altro acido dal sapore meno aspro. Durante questo processo fermentativo gli aromi del vino si arricchiscono di note burrose e di latte. Questa è una fase che ogni produttore decide se far svolgere oppure no, in funzione dell’equilibrio acido e della sicurezza microbiologica che egli stesso ricerca per il proprio prodotto finale. Questo processo dona meno acidità, ma più morbidezza e un affinamento degli aromi, assicurando al vino una grande stabilità futura. L’attività della fermentazione malolattica è comunque meno intensa e meno visibile, ma più lunga di quella che ha regolato la fermentazione alcolica, dal momento che essa richiede in media dalle quattro alle sei settimane. Al termine della fermentazione alcolica e della fermentazione malolattica i vini vengono raffreddati progressivamente a +10/12°C prima di iniziare la chiarifica.

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LA CREAZIONE DELLE CUVÉE: L’ARTE DELL’ASSEMBLAGGIO L’illimpidimento dei vini-base Ormai dalla vendemmia sono passati circa quattro mesi e come si evince da quanto esposto in precedenza i diversi vini base dovrebbero essersi affinati ed evoluti. In questo periodo l’azione prima dei fermenti sul mosto e poi dei batteri lattici sul vino ha generato sul fondo dei serbatoi un deposito di sedimenti costituiti dagli ultimi residui organici e da cristalli o sali dell’acido tartarico (tartrati). Per eliminare queste fecce si procederà ad un’operazione di travaso del vino, così da conferire maggiore limpidezza chiarificandolo mediante aggiunta di sostanze proteiche che, a contatto con gli acidi del vino e delle sostanze tanniche, formano dei fiocchi o coaguli che trascinano verso il basso le particelle solide che si trovano in sospensione nel vino. Ora cominciano le lavorazioni specifiche che condurranno alla creazione della cuvée. La creazione di una cuvée Un parte rilevante della qualità del prodotto finale risiede nell’arte di saper assemblare le partite dei vini fin qui realizzati, creando un qualcosa di omogeneo, dal gusto ben definito: un vino insomma che incontri il gusto del consumatore finale. Si può considerare quindi l’assemblaggio quel difficile compito che compete all’enologo (o al produttore) e che consiste nel saper creare il suo vino, che sarà sicuramente superiore alla somma delle singole qualità aromatiche ed organolettiche dei vini che lo compongono. Sarà suo compito andare alla ricerca dell’armonia in possesso di ogni singolo prodotto e, giostrando tra le varie note organolettiche, affinché nessuna domini, creare un insieme di grande equilibrio, cosa che la natura da sola non potrebbe offrire e che non esisterebbe senza l’intervento dell’uomo. È proprio nell’elaborazione della cuvée de tirage che risiede tutta la specificità del “Metodo Classico”. Come il direttore d’orchestra lavora con l’orecchio, il vinificatore si dedicherà ad un lavoro di degustazione e di analisi dei campioni che ha realizzato nei mesi precedenti; lavoro che si basa essenzialmente sulle sue capacità sensoriali che lo condurranno a decidere la perfetta complementarità tra gli elementi di cui dispone. Di solito l’assemblaggio è frutto di un lavoro di équipe e della memoria sensoriale e dell’esperienza in possesso dello staff tecnico che lavora in una cantina. A queste persone è necessaria, prima di tutto, una lunga esperienza che consenta loro di saper

anticipare il risultato finale che si otterrà dopo la seconda fermentazione, la quale avviene in bottiglia e dopo l’affinamento sui lieviti svolto dal vino in cantina. Tutti elementi che giocano un ruolo importante nell’evoluzione del prodotto e che fanno comprendere ancora meglio quanto complessa sia la definizione dell’evoluzione futura del vino, poiché ogni decisione presa è irreversibile. Si può dire quindi che l’assemblaggio è la combinazione di diversi fattori quali: La capacità di saper utilizzare i vari vitigni che si hanno a disposizione. L’assemblaggio, infatti, può avvenire partendo da vitigni diversi come Pinot nero, Pinot bianco, Chardonnay, e molti altri, oppure dall’accorpamento di diverse partite di uno solo di essi, cosa che in questo caso potrà condurre all’ottenimento di uno Spumante Metodo Classico che potrebbe essere denominato Blanc de blancs nel caso vengano utilizzate soltanto uve Chardonnay o Pinot bianco, mentre si potrà denominare Blanc de noirs se concorreranno alla sua realizzazione solo uve Pinot nero. La capacità di utilizzare i vari vini d’annata. Il più delle volte l’enologo completa la cuvée de tirage con una certa percentuale di vecchi vini denominati “vini di riserva”, così da donare alla cuvée più morbidezza, migliorando la maturità di un vino ancora giovane e assicurando la continuità del profilo e dello stile che caratterizza l’azienda, oltre ad apportare quegli elementi complementari che potrebbero mancare ai vini dell’annata. I “vini di riserva” provengono da vendemmie precedenti e, se utilizzati per la cuvée de tirage, i vini a cui vanno ad assemblarsi devono essere definiti “non millesimati”, mentre se il vinificatore utilizza esclusivamente vini della stessa annata per la cuvée de tirage lo spumante può ottenere in etichetta la definizione di “millesimato”. La capacità di saper interpretare i propri territori viticoli con l’utilizzo dei vini prodotti dalle microzone. In questo caso l’enologo gioca sulle particolarità e peculiarità apportate al prodotto finale da ciascun vino prodotto in uno specifico vigneto così da definire il carattere della cuvée. La preparazione dei vini all’imbottigliamento Dopo l’assemblaggio, i vini vengono preparati per l’imbottigliamento e al fine di ottenere la limpidezza e la stabilità perfetta del prodotto finale si procede all’eliminazione dei tartrati e di tutti quegli elementi che potrebbero generare

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de cuve”, e il loro adattamento progressivo alle condizioni per la presa di spuma durano da quattro a sette giorni. In ogni millilitro di fermento sono attive da 50 a 80 milioni di cellule e quindi l’introduzione dei fermenti nel serbatoio è dosata in modo tale da ottenere una popolazione minima di lieviti di circa 1,5 milioni di cellule per millilitro. Se per esempio verranno aggiunti 2,5 litri di fermenti ogni 100 litri di vino, al suo interno saranno attive da 1,25 a 2 milioni di cellule per ogni millilitro di vino. Sapendo che al di sotto di 1 milione di cellule la presa di spuma è molto lenta e che ciò potrebbe causare una fermentazione incompleta con presenza di zuccheri residui, è bene stare nella fascia sopra indicata, quella appunto da 1,25 a 2 milioni, poiché sopra i 2 milioni di cellule la fermentazione è troppo rapida e si potrebbero generare gusti e profumi di lievito troppo marcati. I coadiuvanti di remuage sono composti a base di bentonite e alginati. La bentonite è un chiarificante di origine minerale proveniente dalla decomposizione delle ceneri vulcaniche, gli alginati sono anch’essi chiarificanti ricavati dalle alghe brune. Questi composti hanno il compito di agglomerare i lieviti che hanno ormai esaurito la loro attività impedendo loro di attaccarsi al vetro della bottiglia. Più il sedimento così costituito sarà pesante, più scivolerà facilmente verso il collo della bottiglia e meno i lieviti tenderanno a rimettersi in sospensione durante le varie “mosse” del remuage. Si procede preparando, prima dell’imbottigliamento, all’interno di un serbatoio munito di un potente agitatore, una miscela omogenea di questi prodotti, ovvero il liqueur de tirage, composto, come si è detto, da fermenti, coadiuvanti di remuage e vino da imbottigliare. La miscela così preparata viene imbottigliata, quindi le bottiglie vengono tappate con un otturatore in materiale plastico chiamato bidule, che funge anche da contenitore per il deposito dei lieviti alla fine del remuage, che a sua volta è bloccato con un speciale tappo di metallo “a corona”, che garantisce non solo la perfetta tenuta alla pressione dell’anidride carbonica che si svilupperà nelle settimane successive, ma riduce gli scambi gassosi verso l’esterno. Questo sistema ha la stessa efficacia della tappatura con tappo in sughero utilizzata nel passato, escludendo però il rischio di cessione tipico del tappo in sughero e cioè il noto difetto del “gusto di tappo”. Le operazioni di imbottigliamento possono durare da qualche giorno a diversi mesi, a seconda della “grandezza” dell’azienda; inoltre è bene sapere che vi sono altre tipologie di bottiglie oltre la classica bottiglia champenoise standard, da 0,75 litri, quali:

vini troppo effervescenti o esageratamente “schiumanti” e debordanti di spuma, con fuoriuscita dalla bottiglia al momento della “sboccatura” (dégorgement) o della stappatura al consumo. La filtrazione finale, che si ottiene attraverso dei processi di setacciamento e assorbimento delle particelle più piccole, è il trattamento che perfeziona e conclude la prima vinificazione. IL VINO DIVENTA SPUMANTE La presa di spuma Terminata la prima fase rimane solo da trasformare il vino fermo in un prodotto raffinato e delicato, ricco di piccole bollicine, vivaci e leggere, che ravviveranno il palato degli appassionati. Questo processo si ottiene grazie ad una seconda fermentazione alcolica, chiamata “rifermentazione” che avviene all’interno della bottiglia ed inizia con le operazioni di imbottigliamento, il tirage, che caratterizza gli Spumanti “Metodo Classico”. L’imbottigliamento o tirage Il termine tirage definisce l’operazione di imbottigliamento del vino tranquillo effettuata appunto per ottenere la “presa di spuma” che genererà anidride carbonica, ovvero le bollicine, e la spuma del prodotto finale. Si inizia quindi l’elaborazione con le aggiunte al vino-base chiarificato o alla sua cuvée assemblata, di una piccola quantità di sciroppo zuccherino denominato liqueur de tirage, di lieviti, di coadiuvanti del remuage. Se necessario si completa l’aggiunta con nutrienti necessari alla presa di spuma. Il liqueur de tirage si presenta come una miscela di vino tranquillo e di zucchero di canna, la cui quantità aggiunta al vino-base viene determinata unicamente in funzione della quantità di anidride carbonica che si vuole ottenere in bottiglia. Per la maggior parte degli spumanti la dose aggiunta è pari a 24 g/l (che daranno origine a circa 6 bar di pressione), mentre per i Franciacorta “Satèn” la dose massima è di 20 g/l (circa 5 bar di pressione). La preparazione dei fermenti di tiraggio richiede l’utilizzo di lieviti selezionati che per le loro qualità organolettiche e la loro attitudine alla presa di spuma e al remuage sono particolarmente adatti a questa operazione, che è fondamentale, poiché i fermenti scelti devono essere particolarmente attivi, visto che saranno chiamati ad operare in un ambiente ostile che propone esternamente la bassa temperatura delle cantine e internamente alla bottiglia una forte presenza di alcool e un’alta concentrazione di CO2. La moltiplicazione dei fermenti, chiamata preparazione del “pied

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il quarto (0,1875 o 0,20 litri, ¼ di bottiglia); la mezza (0,375 litri, mezza bottiglia); il magnum (1,5 litri, 2 bottiglie); il jeroboam (3 litri, 4 bottiglie); il mathusalem (6 litri, 8 bottiglie); il salmanazar (9 litri, 12 bottiglie); il balthazar (12 litri, 16 bottiglie); il nabuchonodosor (15 litri, 20 bottiglie).

tutto lo zucchero è stato consumato dai fermenti, il processo di spumantizzazione, però, non è ancora da considerarsi concluso; infatti i vini subiscono una lunga macerazione sul loro deposito di lieviti, che si compattano e diminuiscono di volume e proprio grazie alla posizione sdraiata della bottiglia viene assicurato loro un contatto ottimale con il vino. Con la morte delle cellule, il sedimento cede lentamente per semplice diffusione alcune sostanze, in particolar modo aminoacidi, che in precedenza erano state sintetizzate o prelevate dal vino. L’insieme di questi complessi fenomeni, come si può ben capire, ha un ruolo molto importante sulla qualità degli Spumanti Metodo Classico, soprattutto per quelli che hanno un periodo d’invecchiamento molto lungo. Gli spumanti hanno quindi bisogno di un lungo periodo di evoluzione prima di essere “pronti”; un tempo che interagisce con quello di permanenza del vino sui lieviti, con il tipo di assemblaggio realizzato dall’enologo e quindi con il profilo del prodotto finale che egli ha voluto ottenere. L’ELABORAZIONE FINALE DEL VINO IN BOTTIGLIA Il remuage e la separazione del deposito dei lieviti

La rifermentazione e l’affinamento sui lieviti Dopo il tirage, le bottiglie vengono conservate nelle cantine in posizione orizzontale, ammassate in grandi cataste o in apposite ceste metalliche, al riparo da urti, dalla luce e da correnti d’aria, ad una temperatura fresca e costante, compresa tra i 9 e i 12°C, sia d’estate che d’inverno. Queste condizioni sono quelle ideali per la presa di spuma: ad una temperatura più bassa non potrebbe avere luogo, mentre ad una temperatura più alta essa sarebbe troppo rapida. I fermenti presenti nella bottiglia cominciano da subito ad agire, trasformando lo zucchero in alcol e producendo anidride carbonica. Durante questa fase, il grado alcolico crescerà di 1,2 o 1,3 gradi, mentre i lieviti, moltiplicandosi, formeranno un deposito residuo che sarà in seguito eliminato; l’anidride carbonica che si sarà formata preserverà il vino, creando un ambiente privo di ossigeno e lo pervaderà facendo progressivamente aumentare la pressione all’interno della bottiglia che arriva a sfiorare e talvolta superare i 6 bar, ma che poi si riduce progressivamente nel giro di 6-8 settimane. Questa fase, chiamata “presa di spuma”, è cruciale per la qualità del futuro vino. Se troppo rapida, conduce ad una spuma grossolana e poco persistente, mentre se condotta lentamente, ad una temperatura fresca e costante, conferisce al vino una spuma fine e duratura. Quando la presa di spuma termina, vale a dire quando

Non vi sarà difficile vedere dopo un po’ di tempo i lieviti morti, ammassati sulla parete interna della bottiglia. È ovvio che se fossero lasciati in quella posizione, quando la bottiglia viene rimossa si rimescolerebbero al vino causando problemi di limpidezza. Per ovviare a ciò, si procede alla fase del remuage che inizia 4-5 mesi prima della data di commercializzazione prevista e che consiste nel raggruppare il deposito di lieviti presenti nel vetro verso il collo della bottiglia, portandolo all’interno della bidule. Per ottenere questo risultato le bottiglie vengono caricate, con una inclinazione di 35°, su dei cavalletti di legno denominati “pupitres” dove dovranno riposare per due o tre settimane, periodo durante il quale il cantiniere effettua il remuage, un lavoro che consiste nell’impugnare per il fondo le bottiglie caricate, imprimendo loro un movimento di rotazione breve e secco su se stesse di 1/16, 1/8 o 1/4 di giro, ora verso destra, ora verso sinistra. Durante questa fase si procede contemporaneamente a inclinare progressivamente la bottiglia fino a farle raggiungere una posizione verticale (“in punta”), cioè col tappo rivolto verso il basso; quindi la bottiglia è posta in ceste o in cataste in attesa del dégorgement. Tradizionalmente, il remuage veniva eseguito a mano da cantinieri esperti che conducevano questo lavoro ognuno in modo diverso a seconda del tipo di vino e del tipo di deposito. Ognuno di

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questi operatori, chiamati “remueur”, “remuavano” circa 40 o 50 mila bottiglie al giorno, ma c’era qualcuno che arrivava anche a 70 mila bottiglie al giorno. Oggi il remuage è per lo più meccanizzato e per esso vengono utilizzati sistemi meccanici già brevettati a partire dal 1909, sistemi che negli ultimi anni si sono sempre più evoluti ed automatizzati (gyropalette); c’è un grande risparmio di tempo e denaro e le bottiglie vengono remuate in cicli molto brevi, di una o due settimane al massimo, con un aumento esponenziale dei remuage che, se effettuati manualmente, potevano dar corso a circa 5-6 cicli annui, mentre con i gyropalette si possono garantire fino a 52 cicli, uno per ogni settimana. Quale che sia il metodo utilizzato, è bene sapere che il remuage non conferisce alcuna qualità al vino, dato che non apporta altro che un suo perfetto illimpidimento. Le bottiglie remuate, limpide e “in punta” vengono condotte alla linea di dégorgement, oppure vengono lasciate in questa posizione per degli anni, periodo durante il quale il vino, a contatto con il suo deposito, matura ulteriormente.

che comprende ulteriori operazioni come dosatura, tappatura e gabbiettatura della bottiglia. La dosatura e la tappatura definitiva Dopo il dégorgement, le bottiglie sono rimaste scolme e il “vuoto” deve essere colmato con la dosatura, che rappresenta un’ulteriore operazione del Metodo Classico, anch’essa molto delicata, sia per la tecnica, sia perché è l’ultima occasione che l’enologo ha di “personalizzare” il vino, adattandolo al gusto del proprio cliente. Per questa fase si utilizza il liqueur d’expédition o liqueur de dosage che oggi, a differenza di un recente passato e di alcune attuali esperienze dove si evince la presenza anche di distillati di vino, non è altro che una miscela composta da purissimo zucchero di canna e parte di un vecchio vino. La quantità di zucchero aggiunto in questa fase in ogni bottiglia di spumante “Metodo Classico” definisce diverse tipologie di gusto, che l’Unione Europea ha così classificato: “Dosage Zéro” o “Brut Nature” o “Pas Dosé”: si possono chiamare cosi quegli spumanti che contengono zuccheri inferiori a 3 g/l, residui della presa di spuma. Per questi spumanti è proibita l’aggiunta di zuccheri al momento del degorgement; “Extra Brut”: è uno spumante che deve contenere zuccheri inferiori a 6 g/l (da 0 a 6 /l); “Brut”: è uno spumante che deve contenere zuccheri inferiori a 15 g/l (da 0 a 15 g/l); “Extra Dry”: è uno spumante che deve contenere zuccheri compresi fra i 12 a 20 g/l; “Sec o Dry”: è uno spumante che deve contenere zuccheri compresi fra i 17 e i 35 g/l; “Demi-sec”: è uno spumante che deve contenere zuccheri compresi fra i 33 e i 50 g/l; “Dolce”: è uno spumante che deve contenere zuccheri maggiori di 50 g/l.

Il dégorgement Una volta che il deposito si è concentrato sul tappo (bidule), si procede al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, che consiste nel provocare l’espulsione del deposito formatosi sotto l’effetto della pressione interna della bottiglia. In passato questa operazione veniva eseguita manualmente, “à la volée”, mantenendo la bottiglia inclinata verso il basso e aiutandosi con un movimento brusco con il quale si rimuoveva il tappo della bottiglia che, simultaneamente, veniva sollevata e fatta ruotare verso l’alto. Anche in questo caso, una “buona mano” accompagnata da una solida esperienza - elemento indispensabile per garantire il dégorgement à la volée - poteva sboccare circa 400 bottiglie l’ora; oggi questa operazione viene effettuata meccanicamente - per questo è chiamata dégorgement “à la glace”, ovvero sboccatura ghiacciata, effettuata dopo il congelamento del deposito presente nel collo della bottiglia - e consente di arrivare da 1.000 a 12.000 bottiglie l’ora. Le bottiglie, poste sempre con l’imboccatura verso il basso, vengono parzialmente immerse in una soluzione di salamoia a bassa temperatura (-28°C), che congela qualche millilitro di vino al di sopra del tappo, intrappolando nel ghiaccio il deposito di lieviti. Dopo aver raddrizzato la bottiglia e rimosso il tappo a corona, provvederà la pressione ad espellere la bidule e con essa il deposito imprigionato in un blocco di ghiaccio. Questa tecnica può essere integrata ad una linea automatica

La degustazione e il gusto personale decidono le dosi di liqueur da impiegare. Prima di commercializzare una cuvée vengono eseguiti vari test; infatti si degorgiano alcune bottiglie e alle stesse si aggiungono quantità crescenti di liqueur, poi si rabboccano, si ritappano e si lasciano riposare per qualche settimana prima di degustarle. La quantità di zucchero aggiunto varia a seconda del tipo di vino che si vuole ottenere, ma può variare anche in funzione del carattere più o meno fresco della cuvée. I vini giovani, di solito, sono in genere più dosati rispetto alle

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cuvée più vecchie. È bene ricordare che un grande vino è l’espressione dell’equilibrio assoluto e della perfetta armonia aromatica che si riesce a creare e lo stesso deve essere puro, potente, complesso e soprattutto deve avere il giusto bilanciamento tra acidità e morbidezza. La dose di liqueur da aggiungere ad ogni bottiglia degorgiata non deve snaturare questo principio e può variare da 1 a 25 millilitri; l’operazione viene effettuata con una macchina automatica chiamata “dosatrice”. La dosatura si effettua in tre fasi, partendo dalla scolmatura che si avvia con l’estrazione di qualche millilitro di vino dalla bottiglia, al fine di creare lo spazio per l’aggiunta della liqueur d’expédition, dopo di che si procede all’introduzione della liqueur d’expédition e al rabbocco finale della bottiglia utilizzando il vino precedentemente prelevato e raccolto nel serbatoio della dosatrice. Immediatamente dopo la dosatura, le bottiglie vengono convogliate nella tappatrice che, per la buona conservazione del vino, dovrà applicare il tappo classico in sughero in modo regolare, garantendo la sua perfetta tenuta nel tempo e una facile stappatura. I tappi sono costituiti da un cilindro di granuli di sughero agglomerati, rivestiti nella parte inferiore da due dischi di sughero naturale, di elevata qualità. Per garantire la qualità dell’operazione, la parte inferiore del tappo viene messa a contatto con il vino, orientandolo proprio durante la fase di tappatura. Il tappo, del diametro di 31 mm e di lunghezza 48 mm, viene stretto dalle ganasce della tappatrice e ridotto al diametro di 17 mm prima di essere “piantato” nell’imboccatura della bottiglia per circa la metà della sua lunghezza. La parte del tappo che rimane all’esterno si rigonfia prendendo la classica forma “a fungo” e immediatamente viene bloccata da una gabbietta metallica che assicura la tenuta del tappo e ne garantisce l’ermeticità. Dopo la gabbiettatura, la bottiglia viene energicamente agitata per miscelare il vino con la liqueur d’expédition aggiunta. Il controllo della limpidezza è l’operazione finale ed è quella che conferma la perfetta riuscita dell’intera lavorazione. A questo punto le bottiglie vengono nuovamente conservate per circa tre mesi ad una temperatura di 12-13 °C: il tempo di riposo necessario per fare amalgamare al meglio il vino con la liqueur. Realizzare in condizioni ottimali l’insieme di tutte queste operazioni è assai complesso e delicato. In effetti, il dégorgement va effettuato senza troppe perdite di vino e lavorando a diverse atmosfere di pressione è facile comprendere come questo non sia un problema di poco conto, dato che il vino tende a schiumare sia in seguito all’espulsione

del deposito, sia dopo l’introduzione della liqueur nella bottiglia. Anche il dégorgement risulta essere un grande punto critico per la conservazione futura del vino. Il vino, infatti, è sottoposto a notevoli shock ossidativi; alcuni studi hanno recentemente dimostrato che l’ossigeno, entrando nel collo della bottiglia durante il dégorgement e il dosaggio, nonostante la presenza dell’anidride carbonica, vi rimane anche dopo la tappatura condizionando fortemente la conservazione e l’invecchiamento del vino. Il confezionamento e l’imballaggio È la tappa finale prima della commercializzazione. Consiste nella vestizione della bottiglia attraverso l’applicazione di elementi spesso più “lussuosi” ed elaborati rispetto a quelli utilizzati per i vini tranquilli. La tradizione impone una capsula lunga e importante, utile a coprire il vistoso spazio vuoto che esiste nel collo della bottiglia tra il tappo, il vino presente nel vetro, l’etichetta o la controetichetta. Le etichette devono riportare il marchio del produttore in grande evidenza; ciò afferma con forza che ciascun vino è una creazione e che in esso vi si riconoscerà il suo stile, una personalità, una tradizione. Le bottiglie così preparate sono avvolte in fogli di velina o cellophane, prima di essere messe in scatola e distribuite per la vendita. CONCLUSIONI La filiera produttiva sopra descritta rileva quanto sia originale e complesso il “Metodo Classico”, per realizzare il quale è necessario un grande “saper fare” che parte dalla gestione delle operazioni vendemmiali e arriva fino alla commercializzazione delle bottiglie. È normale, e ormai ampliamente sostenuto e condiviso, che i grandi vini sono caratterizzati dall’unicità del territorio in cui sono prodotti, una “origine” che, pur caratterizzandoli, necessita nel Metodo Classico anche della più raffinata tecnologia e dell’esperienza interpretativa di chi realizza questi grandi vini. L’anidride carbonica che si esprimerà successivamente nel bicchiere attraverso il perlage, rivelerà “bollicine” molto più fini, raffinate e suadenti di qualsiasi altro metodo di spumantizzazione e massima espressione della piacevolezza del bere. Stefano Capelli Mattia Vezzola

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CLASSICO, OVVERO UNIVERSALE: QUANDO IL METODO VA OLTRE IL TERRITORIO Classico nell’immaginario collettivo raramente ormai si coniuga ad un periodo storico, quello della grecità e di una categoria estetica di opere che hanno armonia ed equilibrio, ma identifica, soprattutto, un valore di prima classe, perfetto come modello. Infatti, nel tardo latino l’aggettivo classicus significava “autore di prima classe”. Il “classico” è stato oggetto di molte riappropriazioni in numerosi campi della cultura: basti pensare all’Arcadia nella poesia, al Neoclassicismo nell’arte, nell’architettura, nella letteratura e nell’archeologia, soprattutto tedesca tra ‘800 e ‘900. Nella storia, il mito di una classicità originaria si traduce nella concezione della cultura greca come esperienza universale, necessaria alla comprensione di molti fenomeni del mondo moderno. Il tentativo è quindi quello di riproporre all’attenzione dell’uomo moderno alcuni valori a-storici, inalterabili e perpetui, senza luogo e senza tempo. Attraversa l’antico, il classico, varca il moderno poiché “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire” secondo Italo Calvino, che aggiunge anche che “è classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”. Nel vino basta pensare a quei vini spumanti che abbisognano della presa di spuma in bottiglia, un processo produttivo chiamato Metodo Classico o tradizionale che, sebbene si riferisca ad un procedimento messo a punto nella Champagne, ha ormai assunto presso il consumatore un significato “universale”, sfuggendo alla sua origine geografica e al periodo nel quale è stato ideato. Ma l’aspetto più “rivoluzionario” della concezione del classico in generale al quale fare riferimento per i nostri comportamenti quotidiani è quello che lo interpreta come strumento di liberazione intellettuale dell’individuo attraverso l’esperienza estetica, come fattore di rinnovamento interiore. Infatti, la sua rivitalizzazione è avvenuta per una serie di contrapposizioni binarie: nei confronti del gotico, del romantico, del primitivo o dell’autentico. Ma forse l’opzione antropologica che meglio di tutte interpreta il classico, come tema perenne, è ciò che “muore e risorge”, quella forma ritmica della storia europea che attraversa con le sue culture vernacolari e si alterna, come esperimento di globalizzazione economico-culturale a guisa dell’Impero romano in un confronto schietto con le culture “altre”, tra antico e moderno. Non è forse quella della rifermentazione in bottiglia una rinascita del vino dopo la morte operata con la prima fermentazione? Stiamo parlando di una tecnica che trova ampia diffusione solo alla fine del XVII secolo, grazie alla produzione di bottiglie più robuste, ma che era nota e praticata in molte parti d’Europa molti secoli prima come fenomeno spontaneo, non controllato;

una tecnica che assume connotati universali solo in una precisa regione della Francia che offriva non solo un’uva particolarmente acida, ma anche locali adatti alla presa di spuma (le antiche cave di tufo calcareo scavate dai gallo-romani) e il sostegno di una nascente scienza enologica, oltre ad un mercato, quello inglese e prussiano, in piena espansione. Non è quindi lo spumante prodotto con il Metodo Classico, l’aspetto pregnante di quella cultura delle “piccole patrie” europee, ponte tra la viticoltura atomizzata del passato e quella globalizzata del futuro? Come la tradizione, anche il “classico” non è qualcosa che ci è stato dato in consegna di per sé e non è a portata di mano: al contrario tocca proprio a noi saperlo continuamente evocare. Come per la tradizione, che si confonde con tradizionalismo, anche il classico è confuso con classicismo e con questo il significato che porta con sé, di canone, di regola, di antico. La tradizione classica ha il significato di un ossimoro dove cioè l’anelito al classico è l’inquieto amore della riscoperta di quello stile che non esiste come classico in assoluto, ma che viene trasmesso dalla tradizione, senza sapere cosa essa trasmetta. Per questo non esiste un solo spumante classico. La rifermentazione in bottiglia non si cura del luogo dove essa viene fatta e neppure dei vitigni utilizzati per produrre quel vino base o dei terroirs dove questi sono coltivati e neppure delle innovazioni biotecnologiche che sono state, via via, introdotte nel processo produttivo nel corso dei secoli: essa descrive continuità e dinamiche culturali che si sono sviluppate in quell’ambito storico-geografico, definito da molti secoli provvisoriamente come “civiltà occidentale”, e che ci hanno fatto comprendere, nello sguardo d’insieme e nei dettagli, che quello che conta non è la cura delle differenze, né il continuo tentativo di emulazione di chi ha avuto, per altri meriti, più successo. Lo spumante prodotto con il Metodo Classico è un oggetto culturale complesso che viene trattato sotto una molteplicità di punti di vista. Per l’enologo è una sostanza chimica, per un consumatore salutista un alimento o un quasi farmaco, per un commerciante una merce, ma per un degustatore è un valore estetico che riesce a trasmettere delle sensazioni. Cosa fa di questo vino un oggetto estetico? Non certamente i contenuti meramente sensuali, spirituali, ma quelli abbinabili alle percezioni gusto-olfattive. Come afferma Katz nella sua Psicologia della forma, “l’olfatto, facendo parte di un complesso di impressioni sensoriali diverse, cioè dei sensi del gusto, della temperatura e del tatto del cavo orale, con la spuma provocata dalle bollicine, contribuisce a costituire le forme dei cibi”. Ma non solo. Il senso estetico è il senso della distinzione,

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di una posizione privilegiata nello spazio sociale e, come altra specie di gusto, esso unisce e separa. Nella percezione della qualità dello spumante le distinzioni sociali si annullano, perché la sua valutazione si basa sulle qualità simboliche di tutto ciò che entra a contatto con quel vino: il luogo di produzione, il produttore e la sua storia, le tecniche enologiche in una sorta di contaminazione simbolica. Il modello comunicativo usato per persuadere a consumare spumante prodotto con il Metodo Classico viene elaborato allora sui riflessi condizionati del consumatore mediante parole, simboli o azioni chiave. I segni usati sono molteplici, evocano un passato illustre, gli eventi ai quali il vino è stato testimone, parlano di segreti usati nella fabbricazione, della sua purezza compositiva, ma ricevono significato solo dalla psiche che li accoglie e la qualità intrinseca passa in secondo piano, poiché il valore del vino è rappresentato solo dai contenuti simbolici che ne hanno ispirato la produzione. E, contrariamente al giudizio reazionario che rimprovera allo spumante italiano prodotto con il Metodo Classico la mancata identificazione in una tradizione che appartiene ad altri, i produttori che appaiono in queste pagine testimoniano al contrario una testarda resistenza all’omologazione e alla tentazione dell’anything goes; va riconosciuta loro la volontà di ricercare un’identità tutta italiana che c’è, ma che, purtroppo, spesso è frutto soltanto di una solitaria caccia alle chimere della qualità e dell’autenticità, elusiva rispetto alle responsabilità di individuare e praticare un confronto critico con tutto il variegato mondo dello spumante italiano. Attilio Scienza

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Il Piemonte è sicuramente una delle regioni italiane che si fregiano di una grande immagine, anche internazionale, presso gli appassionati di vino. A fare la parte del leone, per quantità e per notorietà, sono sicuramente i vini rossi, ottenuti soprattutto dalle varietà Nebbiolo, che origina quelle che sono considerate perle dell’enologia italiana, come Barolo e Barbaresco, e Barbera, nelle diverse zone di coltivazione di Alba, Asti e Monferrato. È una delle regioni italiane maggiormente vitate e con il più alto numero di vini a denominazione. Anche a livello di spumanti il Piemonte è famoso per due suoi prodotti che hanno ottenuto il massimo riconoscimento per i vini a denominazione, cioè la DOCG: l’Asti e il Brachetto d’Acqui. Due spumanti dolci, bianco il primo e rosso o rosato il secondo, ottenuti rispettivamente dalle uve Moscato Bianco - la seconda varietà più diffusa nella regione dopo la Barbera - e Brachetto, vinificate in autoclave secondo il metodo Martinotti (Charmat). In questo panorama così eterogeneo per produzione c’è spazio per l’attività di numerosi piccoli produttori, così come per le grandi aziende. Produzione in grado di soddisfare le più diverse richieste di mercato, nazionale e internazionale, in termini sia qualitativi che quantitativi. Vini capaci di riscuotere successo tra gli amanti dei prodotti di nicchia e nello stesso tempo di soddisfare una più ampia base di consumatori, associando alla quantità prezzi accettabili. Le province con superficie maggiormente investita a viticoltura sono, in ordine, Asti, Cuneo e Alessandria, situate nella parte meridionale della regione, che insieme costituiscono il 95% del patrimonio viticolo piemontese. Proprio in parte di questi territori, che comprendono le Langhe e il Monferrato, si trova l’areale di produzione dello Spumante Metodo Classico Alta Langa DOC, a base di

Pinot nero e Chardonnay. La nascita di questa denominazione è abbastanza recente - infatti risale solo al 2002 ma il percorso che ha portato il Metodo Classico in queste terre inizia molto prima. Nel 1850 Carlo Gancia torna da Reims, in Champagne, con l’idea di sperimentare ed importare le tecniche della rifermentazione in bottiglia in Italia, visto il successo che il vino francese stava riscuotendo in tutto il mondo. La sperimentazione riguardava sia la vinificazione di varietà locali, come il Moscato bianco, sia le varietà utilizzate in Francia come lo Chardonnay e i diversi Pinot, nero, bianco e grigio. Nel 1865, a Canelli, Gancia vinifica il primo spumante piemontese secondo il Metodo Classico. La produzione seguente si focalizza su due tipologie: un “Moscato Champagne”, prodotto dolce a partire da uve Moscato, e uno “Champagne tipo francese”, ispirato appunto alla tradizione d’Oltralpe. All’inizio del ‘900, grazie anche al traino del Vermouth e dell’Asti, venduti in tutto il mondo, il panorama enologico piemontese cambia e la produzione si concentra in grosse aziende, creando una vera e propria industria legata al vino. Il Moscato bianco si diffuse rapidamente in tutta la provincia di Asti, mentre per la produzione di “Champagne italiano” si faceva spesso ricorso anche ai vigneti del contiguo Oltrepò Pavese, che, per molto tempo, ha fatto parte del territorio piemontese e per questo chiamato “Vecchio Piemonte”. Gli anni seguenti videro l’esplosione sui mercati internazionali dei vini piemontesi, soprattutto rossi, grazie anche alla fama del Barolo e del Barbaresco. I vini bianchi, a parte l’Asti, videro un periodo di appannamento dovuto più all’esigenza di soddisfare un mercato in espansione che alla scarsa qualità dei prodotti.

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Bisognerà aspettare gli anni ‘80 per una rivalutazione delle varietà a bacca bianca autoctone come il Cortese, l’Arneis, l’Erbaluce e la Favorita. Il successo dell’Asti DOCG è oggi sotto gli occhi di tutti, con una produzione che sfiora gli 80 milioni di bottiglie all’anno distribuite in tutto il mondo. Il Metodo Classico, invece, per affermarsi, seguirà un percorso più lungo, ma sempre ispirato dalla ricerca e dalla sperimentazione. Nel 1990 nasce il “Progetto Spumante Metodo Classico in Piemonte”. Alcune grandi case viticole si impegnano, con l’ausilio dei tecnici dell’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Asti, nel portare avanti un piano di studio e rivalutazione delle varietà Chardonnay e Pinot nero coltivate in Piemonte per la produzione di vini spumanti secondo il metodo tradizionale. La ricerca culmina nel 2002 con l’approvazione della denominazione Alta Langa DOC per gli spumanti Metodo Classico a base di Pinot nero e Chardonnay. 1. Il territorio La zona di produzione dell’Alta Langa corrisponde alla parte Sud-Orientale della regione Piemonte, al confine con la Liguria, nelle tre province di Asti, Alessandria e Cuneo. Una fascia collinare sulla destra orografica del fiume Tanaro, che comprende parte delle Langhe, nella provincia di Cuneo, e l’Alto Monferrato, nella parte meridionale delle province di Alessandria e Asti. Sono oggi oltre 70 gli ettari di vigneti di Pinot nero e Chardonnay che, per disciplinare, sono posti ad altezze superiori ai 250 metri sul livello del mare, con una superficie che registra un rapido incremento partendo dai 20 ettari negli anni ’90 con i primi campi sperimentali. 1.1 I suoli Geologicamente questi siti fanno parte del Bacino Terziario Ligure-Piemontese. Una zona


posta a Sud del Po, di natura sedimentaria, costituita cioè da rocce formate da depositi marini, quando il mare occupava gran parte della penisola italiana. Alla ďŹ ne del Pliocene, ultima epoca del Terziario, si ha l’emersione completa di questo bacino, con la formazione dei sistemi collinari delle Langhe e del Monferrato. Caratteristica di questi suoli è la loro estrema friabilitĂ e instabilitĂ ; infatti spesso sono soggetti a frane soprattutto nei periodi piĂš piovosi, come in autunno. Il paesaggio collinare appare abbastanza simile per le due zone, con una maggiore asperitĂ , calanchi profondi e colline piĂš ripide nelle Langhe che diventano piĂš dolci e meno ripide nell’Alto Monferrato. Il territorio dove si sviluppa la coltivazione delle uve per basi spumante è principalmente costituito da sedimenti di origine marina di tipo marnoso-argilloso (in generale detti peliti), piĂš o meno consistenti, formatisi soprattutto in etĂ comprese tra il Miocene inferiore ed il Miocene superiore. Le marne sono rocce sedimentarie di composizione mista, in parte chimica ed in parte clastica, formate da argilla o limi con percentuale di calcare (calcite-carbonato di calcio) variabile dal 25% al 75%. Quando la percentuale di carbonato di calcio scende sotto

il 25% si parla di argille calcaree o fanghi calcarei che rappresentano la maggior parte dei casi riscontrabili nell’Astigiano e nel Monferrato. I complessi minerali costituenti le argille sono silicati ricchi di alluminio, in cui possono essere presenti anche ferro e magnesio. Nel caso dei limi, prevalgono i minerali delle sabbie in rapporti variabili, cioè quarzo, felspati e miche. La presenza del carbonato di calcio in queste rocce è dovuta sia alla precipitazione chimica diretta, sia come costituente dei gusci di microfossili (Foraminiferi) presenti e diusi in quantitĂ in questi sedimenti. Di norma sono di colore grigio o grigio-azzurro, ma possono, in certi casi, essere di colore ocraceo, ďŹ no a bruno, a causa della presenza di ossidi di ferro. I suoli sono principalmente marnosi, con prevalenza calcari e arenarie verso le Langhe, mentre diventano marne argillose alternate a quelle sabbiose nel Monferrato. I vigneti sono posti, come previsto dal disciplinare, ad un’altezza superiore ai 250 metri. In generale si possono cosĂŹ considerare generalmente tre fasce altimetriche nelle Langhe e nel Monferrato: esposizioni a sud, alle varietĂ a bacca rossa come la Barbera ed il Nebbiolo, per dare vini dalla notevole struttura; per le varietĂ

a bacca bianca destinate alla viniďŹ cazione dei vini spumanti, sono possibili anche esposizioni meno favorevoli, ma che garantiscono una maturazione ottimale mantenendo un livello di aciditĂ elevato, caratteristica ricercata nella spumantizzazione; le condizioni ideali per le varietĂ che danno vini piĂš freschi e aromatici come Dolcetto e Moscato. Condizioni ideali anche per lo Chardonnay e il Pinot nero, con forti escursioni termiche tra il giorno e la notte in fase di maturazione che garantiscono la concentrazione di aromi dell’uva; riesce ad esprimersi ai massimi livelli solo con le giuste esposizioni, soprattutto verso Sud, i cosidetti “SorĂŹâ€?. A queste altitudini le uve destinate alla spumantizzazione, con la giusta esposizione, raggiungono un buon equilibrio tra zuccheri e acidi, ideale per i vini base destinati alla seconda fermentazione.

1.2 Il clima A favorire la nascita di vini eccellenti in questa zona, oltre alla natura del suolo vi è anche una particolare condizione climatica che asseconda

Lequio Berria

Altimetria dell’area di coltivazione delle uve Chardonnay e Pinot nero per la produzione dello Spumante Alta Langa DOC; il disciplinare ammette produzioni solo ad altitudini superiori ai 250 metri sul livello del mare.

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Carta litologica della zona di produzione Alta Langa DOC: i suoli, come si può osservare, sono in prevalenza di natura sedimentaria (marne) soprattutto di antichi depositi marini (Terziario), variabili tra la componente a prevalenza argillosa e le arenarie, cioè strati sabbiosi cementiďŹ cati. Lungo i corsi d’acqua sono presenti zone di deposito di sabbie e ghiaia. Presenti nella parte meridionale zone di origine eruttiva, create dalla solidiďŹ cazione del magma (rocce ignee).

la piena maturazione delle uve. A livello regionale la barriera alpina a Nord e Nord-Ovest impedisce l’ingresso di aria fredda invernale e le perturbazioni di tipo Atlantico; la relativa vicinanza del mare, con la presenza dell’Appennino Ligure a sud, permette l’incunearsi di brezze marine - il “Marinâ€? per i vignaioli dell’Acquese - che evitano di accumulare troppa umiditĂ durante la maturazione delle uve. Il clima pedemontano nell’Alta Langa è di tipo temperato-fresco con inverni freddi, spesso molto rigidi e con la presenza di precipitazioni di carattere nevoso. Le estati sono calde e umide, ma con scarse precipitazioni e contraddistinte da forti escursioni termiche tra il giorno e la notte, soprattutto con l’aumentare dell’altezza dei vigneti. Le primavere e gli autunni sono piovosi, ma generalmente miti. Le precipitazioni annuali variano in funzione dell’altitudine, passando dai 780-800 mm nella

fascia collinare piĂš alta, ďŹ no ai 600-700 mm tra i 200 e i 300 metri sul livello del mare. Le temperature medie durante il periodo vegetativo della vite, tra aprile e ottobre, variano tra un minimo di 14,6°C ed un massimo di 18,3°C, scendendo dai 650 ai 150 metri sul livello del mare. Un altro indice, legato alle temperature, utile a valutare quali siano le potenzialitĂ viticole di un territorio è il Grado Winkler (WI): la somma delle temperature attive, cioè le temperature medie giornaliere maggiori di 10°C, durante il periodo vegetativo della vite, da aprile ad ottobre. Uno studio condotto dall’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Asti ha evidenziato cosĂŹ tre fasce climatiche dierenti: adatti per la produzione di uva destinata ai grandi rossi a maturazione tardiva (Barbera

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e Nebbiolo); tra i 1700 e i 1800°C: è la fascia climatica piÚ adatta per i vitigni aromatici, Moscato bianco e Brachetto, ma anche il Dolcetto. In tale fascia maturano bene anche le uve per produrre le basi spumante; fascia limite per i vitigni aromatici e la piÚ interessante per la produzione di basi spumanti. Nel progetto sperimentale Alta Langa, i vigneti sperimentali sono stati impiantati prevalentemente tra i 1550 e i 1750 gradi Winkler.

2. Aspetti viticoli La ricerca condotta dell’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Asti ha permesso di valutare le migliori condizioni e interazioni tra clima, vitigno e suolo; la valutazione ha riguardato le risposte che Pinot nero e Chardonnay fornivano


Individuazione dei vigneti più adatti alla coltivazione di uva per il Metodo Classico in base alle temperature, indice di Winkler (WI) = Sommatoria delle temperature attive (>10°C) per il periodo aprile-ottobre in cinque vigneti dell’Alta Langa (Rilevamenti 1986-2008). I migliori risultati si ottengono tra i 1550 e i 1750 gradi Winkler (Studio di Corino, Lottero e Tocci).

su diversi suoli, esposizioni e con diversi sistemi di allevamento e la loro attitudine a fornire uva da destinare alla vinificazione secondo il Metodo Classico. Un approccio scientifico che ha introdotto criteri rigorosi nella scelta dei terreni e nel sistema di allevamento della vite e ha individuato parametri che sono stati poi introdotti nel disciplinare di produzione Alta Langa DOC. In particolare i terreni devono essere marnosi, calcareo-argillosi a fertilità moderata, posti ad un’altezza minima di 250 metri sul livello del mare. La densità d’impianto, cioè il numero di piante per superficie, non deve essere inferiore ai 4000 ceppi ad ettaro. La forma di allevamento per le viti deve essere la controspalliera bassa, cioè con il tralcio parallelo al suolo, che porta i germogli fruttiferi, posta ad un’altezza di massimo 90 cm dal terreno. I sistemi di potatura sono il Guyot oppure il Cordone Speronato. 2.1 Varietà Le varietà ammesse per tale produzione sono lo Chardonnay e il Pinot nero, utilizzabili assieme o singolarmente; viene ammessa anche una percentuale di altre varietà non aromatiche, raccomandate o autorizzate nella zona di produzione, fino ad un massimo del 10%. Diffusione del Pinot nero e dello Chardonnay nelle Langhe e nel Monferrato La prima importazione dei Pinots in Italia, come riporta il Mondini nella sua opera del 1903 I

vitigni stranieri da vino coltivati in Italia, avviene ad opera del generale Emilio di Sambuy nelle sue terre di Lesegno, in provincia di Cuneo nei primi anni dell’Ottocento. Il generale osserva che tale vitigno risulta essere inadatto ai terreni di pianura a causa della sua maturazione precoce, dando maggiori risultati su terreni più freschi di collina. Nella stessa provincia, nel circondario di Mondovì, alcuni proprietari terrieri, incuriositi da questa varietà, impiantano alcune vigne di Pinot che poi vinificano in rosso insieme al Dolcetto o alla Barbera. In questo periodo non è ancora ben chiara la differenza tra il Pinot bianco e lo Chardonnay, anche se Mondini riporta già una distinzione effettuata dal francese Pulliat alla fine dell’Ottocento tra il “Pinot bianco vero” e il “Pinot bianco Chardonay” (da notare l’utilizzo di una sola “n” nel nome). Confusione che coinvolge anche il Pinot grigio, che si diffonde specialmente vicino a Torino, chiamato in zona “Tokay”. Il “Pinot bianco Chardonay”, invece, viene coltivato a Cumiana, in provincia di Torino, dal conte Luigi Provana di Collegno, da cui egli ricava un vino bianco, all’epoca molto apprezzato, tipo “Chablis”. Spostandoci verso la zona di produzione dell’Alta Langa, dopo la famiglia Sambuy, la diffusione dei diversi Pinots avviene ad opera del marchese Leopoldo Incisa, del cavalier Boschiero di Asti e della famiglia Gancia. Il primo, attorno al 1850, introduce nella sua collezione ampelografica a Rocchetta Tanaro diverse varietà francesi tra le

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quali diversi tipi di Pinots. Il cavalier Boschiero di Asti, appassionato di enologia, verso il 1870 impianta nella sua tenuta diversi ettari di Pinot nero, grigio e bianco con l’obiettivo di produrre vino spumante tipo “Champagne”, non fidandosi del Moscato assai diffuso in zona. La sperimentazione di queste coltivazioni andò bene, tanto che la ditta Fratelli Gancia e C. incomincia a comprare loro l’uva per la produzione di spumanti. Nel 1875 il marchese Pinelli-Gentile impianta Pinot nero e Pinot bianco a Castel Tagliolo e osserva che, mentre la vinificazione del Pinot in rosso dà qualche problema di colore e tende a non migliorare con l’invecchiamento, al contrario, se vinificate in bianco, le uve producono un vino bianco secco ottimo e che migliora invecchiando. Sulle colline di Asti, Canelli e Neive le uve Pinot vengono acquistate soprattutto dai Gancia per la produzione di spumanti, mentre quelle di pianura vengono spesso vinificate assieme ad altre varietà a bacca rossa per dare vini comuni da pasto. Nel 1903 Mondini scrive a tal proposito che “le uve Pinots di pianura si vendono al prezzo delle uve comuni; quelle di collina raggiungono un prezzo superiore”. Tali considerazioni verranno poi confermate scientificamente attraverso lo studio sui vigneti sperimentali che ha portato indicazioni, inserite nel disciplinare di produzione dell’Alta Langa DOC del 2002, circa i tipi di suolo e le altezze minime su cui impiantare Pinot nero e Chardonnay. Nel 1978 si ha in Italia la definitiva distinzione tra Pinot bianco e Chardonnay, con l’iscrizione di quest’ultima come varietà a sé stante nel Catalogo Nazionale delle Varietà da Vino. Il panorama viticolo piemontese rimane comunque legato alle varietà a bacca rossa e al Moscato bianco fino agli anni ’80 del secolo appena trascorso, quando si ha una rivalutazione delle varietà a bacca bianca, autoctone e internazionali. Lo Chardonnay, vinificato nella versione ferma e spesso utilizzando le barriques per l’affinamento, ottiene un successo planetario e viene piantato in Piemonte in diverse province raggiungendo i quasi mille ettari nel 2001. Il processo di spumantizzazione di queste uve secondo il Metodo Classico, al contrario, viene portato avanti da poche case vinicole, che danno l’avvio nel 1990 al “Progetto Spumante Metodo Classico in Piemonte”. Nel 1993 le aziende produttrici si associano sotto il nome “Tradizione Spumante”, trasformato poi nel 1997 in “Case Storiche


Piemontesi - Metodo Classicoâ€?, per garantire un riconoscimento anche a livello mediatico della zona di produzione. 2.2 L’interazione tra vitigno e ambiente Non sono necessari particolari studi scientiďŹ ci per indicare che la zona in questione è particolarmente vocata alla viticoltura; Langa e Monferrato hanno conquistato con i loro vini i gusti di parecchi milioni di consumatori sparsi per il mondo. Risulta invece necessario un approccio scientiďŹ co per individuare la migliore combinazione tra vitigno e ambiente per ottenere un determinato prodotto. Fornire quindi indicazioni sulle varietĂ , ed eventualmente i cloni, da utilizzare su determinati suoli e con particolari esposizioni, insieme alle pratiche agronomiche da attuare al ďŹ ne di ottenere una materia prima di qualitĂ adatta per una particolare viniďŹ cazione. Una razionalizzazione che permette al viticoltore di limitare i tempi per ottenere dei risultati a costi sostenibili. Su questi princĂŹpi si sono mossi i produttori delle “Case Storiche Piemontesiâ€?, riunite poi nel Consorzio di Tutela Alta Langa, quando diedero il via agli inizi degli anni ‘90 al “Progetto Spumanteâ€? per deďŹ nire i suoli, le esposizioni, i cloni migliori per ottenere vini spumanti secondo il Metodo Classico. Due i principali obiettivi della ricerca: l’interazione dell’ambiente con le varietĂ Pinot nero e Chardonnay. Questa ricerca è stata condotta dall’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Asti e ďŹ nalizzata a trovare la migliore interazione tra vitigno, suolo e ambiente, per la produzione di spumanti Metodo Classico; istituzionale con l’approvazione di una DOC piemontese speciďŹ ca per il Metodo Classico. A partire dal 1992 vennero impiantate, sotto la direzione dell’Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Asti, le prime 80 mila barbatelle: 20 ettari, di cui quasi 16 per il Pinot nero e 4 per lo Chardonnay, di vigneti sperimentali dislocati nelle zone dell’Albese, Acquese, Canalese, Gaviese, Tortonese e Ovadese. A questi si aggiunsero altri ettari ďŹ no a raggiungere una superďŹ cie di 57 nel 1997. Una ricerca durata quasi dieci anni attraverso una valutazione delle risposte vegetative delle piante e sperimentando poi, attraverso micro e macroviniďŹ cazioni l’attitudine alla spumantizzazione dell’uva prodotta in questi vigneti campione.

La conclusione di questa sperimentazione ha quindi portato alla selezione di questi vigneti, individuando solo quelli ritenuti idonei alla produzione di uva da destinarsi alla produzione di spumanti e riconvertendo i vigneti scartati ad altre produzioni piĂš idonee. 3. Aspetti enologici La produzione attualmente si attesta a circa 350000 bottiglie all’anno, poche se paragonate ad altre zone italiane che hanno adottato il Metodo Classico (Franciacorta, Trento e Oltrepò Pavese), ma con un grande potenziale - viste le dimensioni delle aziende in gioco - e con la prospettiva di coinvolgere in questa sďŹ da altri produttori. Le tipologie previste sono in bianco, in rosato e in rosso, che attualmente viene poco o per nulla prodotto. LaviniďŹ cazioneavvieneesclusivamentesecondo il Metodo Classico, ossia la rifermentazione in bottiglia, utilizzando esclusivamente Pinot nero e Chardonnay; è ammesso anche un eventuale 10% di altre varietĂ , non aromatiche raccomandate o autorizzate nella zona di produzione. 3.1 Tipologie e viniďŹ cazione La produzione massima per ettaro è ďŹ ssata in 11 tonnellate di uva, da cui si ottengono al massimo 7.150 litri di vino, cioè una resa del 65% dal peso dell’uva a litro di vino. A tale percentuale si giunge attraverso delicati processi di pressatura per estrarre il mosto dalle uve e separarlo dalle bucce, evitando processi ossidativi che determinano una diminuzione della qualitĂ del mosto. Le prime frazioni di pressato sono considerate le migliori e per questo solitamente vengono utilizzate per la spumantizzazione secondo il Metodo Classico. Le ultime frazioni vengono perciò escluse, perchĂŠ si ha una diminuzione dell’aciditĂ totale, l’aumento di colore brunastro nei mosti in bianco e l’aumento di aromi erbacei e terrosi. A dierenza della versione in bianco, nel caso dello spumante in rosato, viene ricercata una macerazione, seppur limitata a poche ore, in cui le bucce del Pinot nero diondono parte delle molecole (gli antociani) che apportano colore al mosto. In tutti i casi, poi, il mosto viene fermentato dando vita ai vini base. In alcuni casi la viniďŹ cazione di parte del vino base avviene in fusti di legno (barriques) e in tal caso non sarĂ diďŹƒcile ritrovare note di tostatura e leggera vaniglia negli spumanti. Al gusto, l’utilizzo del legno conferirĂ una nota

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piĂš morbida rispetto ai prodotti viniďŹ cati nel solo acciaio che esalteranno le note piĂš fresche e fruttate. Il disciplinare di produzione prevede sia lo spumante ottenuto dalla rifermentazione di vini base di diverse annate, senza quindi l’indicazione dell’annata sull’etichetta, sia quella del millesimato, che prevede l’utilizzo esclusivo del vino ottenuto dalle uve raccolte in quella vendemmia. In questo caso il periodo di aďŹƒnamento minimo sulle fecce deve essere di almeno 30 mesi, calcolati dalla data di vendemmia, e questa tipologia sembra essere quella attualmente prediletta dalle aziende produttrici. 3.2 Il proďŹ lo sensoriale dei vini I vini Alta Langa DOC hanno una spuma intensa e persistente, composta da bollicine non grossolane, di piccole dimensioni, che si formano in continuo, dando origine a “catenelleâ€? che risalgono il bicchiere: il perlage. Le caratteristiche della spuma e del perlage dipendono anche dal tipo di bicchiere e dalla qualitĂ del materiale con cui è stato costruito. Per le tipologie in bianco il colore può variare da giallo paglierino con leggere sfumature verdognole ďŹ no al giallo brillante con riessi dorati. L’intensitĂ della tonalitĂ aumenta nel caso sia stato utilizzato il legno durante la viniďŹ cazione dei vini base. Per il rosĂŠ il colore è rosa piĂš o meno intenso e con riessi che possono variare dal ramato all’aranciato. Anche in questo caso l’intensitĂ della colorazione è in funzione del tempo di macerazione sulle bucce, della percentuale di Pinot nero utilizzata e anche del periodo di permanenza sulle fecce ďŹ ni, che inevitabilmente assorbono parte del colore. I profumi dell’Alta Langa DOC richiamano i sentori di lievito e di crosta di pane, creati dal lungo contatto in bottiglia del vino con le fecce ďŹ ni (sur lies) durante la presa di spuma. Questi sentori, caratteristici per tutti i Metodo Classico, non devono però mascherare i profumi apportati dai vini base, come quelli di frutta esotica (ananas e banana), pesca e ďŹ ori bianchi. A questi profumi si aggiungono, nel caso di viniďŹ cazione in legno dei vini base, sentori di tostato ďŹ no alle note di vaniglia, nel caso di utilizzo di barriques specialmente di primo passaggio (nuove) o con un alto livello di tostatura. Nella tipologia in rosato è possibile percepire anche discreti profumi di frutta di bosco. In bocca la freschezza del vino viene apportata sia dall’aciditĂ che dall’anidride carbonica,


sottoforma di effervescenza. I vini millesimati, e comunque quelli che affinano per più tempo prima della sboccatura, avranno anche una maggiore struttura e morbidezza; queste caratteristiche aumentano notevolmente nel caso di vini base affinati in barriques.

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METODO CLASSICO di territorio



BERA Percorro la strada che da Neive porta a Neviglie e sulla sinistra, ben visibile, proprio sopra una collinetta tutta ricoperta di vigneti, scorgo la vecchia casa padronale della famiglia Bera e, in basso, la nuova abitazione e la cantina. Ho appuntamento con Valter Bera per degustare la sua produzione di Metodo Classico, nata alla metà degli anni ‘80, e il suo Moscato d’Asti, che egli ha saputo nobilitare con un’attenta e qualificata opera ed un lavoro minuzioso impostato verso la qualità, posizionando nel tempo la propria azienda fra le più rappresentative dell’intero comparto spumantistico astigiano. Sono affascinato dalla semplicità con la quale mi accoglie Valter, perfetto prototipo di quei “langhetti” dai modi molto sbrigativi, più abituati a lavorare che a perdersi dietro alle chiacchiere. Lui però, nel tempo deve essersi un po’ ammorbidito, poiché accetta di parlare lasciandosi andare a quelle “chiacchere”, per niente infruttuose, consumate, in questo caso, intorno ad un tavolo imbandito da sua moglie Alida con un frugale pranzo. Si apre e mi racconta della sua grande passione per le bollicine e cosa esse rappresentino per lui; non mi nasconde però, che, vivendo e operando in una zona con certe peculiari caratteristiche, produce anche dei grandi rossi che sono apprezzati almeno quanto i vini bianchi mossi: vini come il Barbera, il Dolcetto, il Nebbiolo, il Sassisto ed il Barbaresco, che rispecchiano appieno quella piccola e genuina tradizione di famiglia, iniziata dal padre Sisto che produceva un po’ di vino per casa e per gli amici. Sisto e Maria Bera rappresentano la tradizione e la memoria storica dell’azienda agricola, con la loro conoscenza ed esperienza, soprattutto nelle vigne. Oggi Valter e Alida sono la continuità, l’età matura in grado di proseguire il percorso dei capostipiti, continuando a cercare, attraverso il lavoro meticoloso nelle vigne ed in cantina, la qualità, l’origine e la piacevolezza dei vini, mentre cominciano a fare le prime comparse anche i giovani, Umberto e Riccardo, che oggi ascoltano, guardano e danno una mano, imparando che la vigna va seguita giorno dopo giorno, che l’uva non cresce sana e bella per caso e che nel vino ci sono tempi e condizioni da rispettare. “Questa, come vedi, è una famiglia di contadini che ha sempre respirato l’odore della terra, di questa campagna e del vino. Sicuramente è per questo che ho deciso di fare la scuola enologica qui, ad Alba, poiché la più vicina a casa e anche la più vicina al mio sentire. È stato proprio durante la scuola, alla metà degli anni’ 70, che ho iniziato a pigiare le prime partite di uve e, sempre grazie alla scuola ho ampliato, dopo un viaggio premio, i miei orizzonti enologici apprezzando sempre più i vini bianchi.

Ricordo che, al ritorno da quel viaggio, iniziai a lavorare sul Moscato, il quale ha rappresentato, per me, un’importante sfida enologica, soprattutto per gli investimenti teconologici richiesti da una simile produzione. Con il tempo, le cose sono migliorate ed è aumentata anche la voglia di sperimentarmi e di realizzare dapprima l’Asti Spumante, prodotto al 100% con uva Moscato, che rappresentava la produzione principale dell’azienda e, successivamente anche uno spumante Metodo Classico che fosse in grado di gratificare quell’interesse per le “bollicine” e quindi l’investimento viticolo fatto su un appezzamento di terra, situato ad oltre 350 metri s.l.m., piantato nel 1978 a vigneto con Chardonnay e Pinot nero. Un prodotto realizzato, allora, per pura e semplice gratificazione personale e che, in tutti questi anni, commercialmente ho anche un po’ trascurato, limitandomi a proporlo attraverso il solo passaparola di chi, assaggiandolo, lo avesse apprezzato. Oggi invece, noto un forte interesse intorno ad esso, tant’è che stiamo aumentando la produzione con nuovi vigneti e grandi investimenti in cantina, consapevoli del fatto di avere buone credenziali e potenzialità, oltre alla passione di sempre. Va altresì detto che nel 2002 è nata in Piemonte, per regolamentare e valorizzare il Metodo Classico, la nuova DOC “Alta Langa”. Con questa denominazione si è delimitata un’area di produzione, estesa ad alcune zone vocate delle province di Cuneo, Asti ed Alessandria; si sono regolamentati i vitigni (Pinot e/o Chardonnay per un minimo del 90%), si è stabilito un periodo minimo di maturazione dello spumante di 30 mesi e sono state fissate le caratteristiche qualitative chimiche ed organolettiche del prodotto, che deve superare l’esame analitico ed il giudizio della commissione di degustazione previsti dal disciplinare di produzione. In questi anni tutto si è trasformato e anche se il mercato ha subìto impressionanti oscillazioni e ogni cosa si è mossa velocemente, causando ad esempio, una crescita esponenziale e vertiginosa del mercato del Moscato d’Asti - solo minimamente dovuta al lavoro delle piccole aziende artigianali e molta parte invece risultato di azioni di marketing di medie e grandi aziende industriali - che ha più che raddoppiato le vendite, passando, negli ultimi dieci anni, da 4 a 12 milioni di bottiglie, nonostante ciò, io ho preferito rimanere fedele al mio cliché di qualità, ancorato ai miei standard quantitativi e qualitativi assolutamente garantiti. Comunque, per quanto riguarda il Metodo Classico, il Piemonte deve tornare a prendere coscienza della sua lunga e autorevole tradizione, della grande esperienza e delle grandi potenzialità, pensando di recuperare il tempo perduto con l’obiettivo di produrre uno spumante “Alta Langa” di altissima qualità”.

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VALTER BERA


BERA


ALTA LANGA DOC SPUMANTE BRUT Il vino base è prodotto utilizzando una selezione delle migliori uve Chardonnay (70%) e Pinot nero (30%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nel comune di Neviglie, in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi con forte presenza di tufo e argilla, ad un’altitudine di circa 330 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene tra la fine di agosto e i primi di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti sono posti in tank di acciaio, mentre un 10% di Chardonnay viene messo in barriques di rovere francese. In questi contenitori, con il contributo di lieviti autoctoni selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che può durare dai 15 ai 30 giorni alla temperatura di circa 20°C. Finita la fermentazione, i vini vengono travasati dalle fecce pesanti, e lasciati sulle fecce leggere fino alla primavera, quando si procede all’assemblaggio delle partite e poi all’imbottigliamento, previa aggiunta del liqueur de tirage per la rifermentazione in bottiglia finalizzata alla trasformazione del vino in spumante secondo il Metodo Classico (presa di spuma). Terminata la rifermentazione, lo spumante si affina e matura sui lieviti per almeno 30 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Uno spumante che si presenta all’esame visivo colorando il bicchiere di un bel giallo paglierino con riflessi dorati nel quale una spuma delicata lascia spazio ad un perlage minuto e persistente. Al naso, armonioso, fresco ed equilibrato, propone note “classiche” di crosta di pane e lieviti che lasciano subito spazio ad ampie percezioni floreali e di frutta fresca come mela, papaia, kiwi, uva spina e melone bianco. Andando in profondità si percepiscono piacevoli note di semi di papavero e agrumate di mandarino. In bocca ha un’entratura secca, asciutta, dove la vena citrina conferisce una bella e piacevole lunghezza; persistono nel finale note di mandorle dolci.

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COCCHI Per tutti, prima o poi, nella vita passa un treno. E l’importante è prenderlo al volo quel treno. Così, introdotta da questa realistica metafora, Roberto, Giulio e Paolo Bava, proprietari dell’Azienda Giulio Cocchi Spumanti, iniziano a raccontarmi la meravigliosa e straordinaria vita del fondatore dell’azienda di cui, dal 1977, sono divenuti proprietari. Mi affascina sentirli parlare di un toscano, Giulio Cocchi che, nel 1890, forse convinto di essere arrivato, scese ad Asti da quel treno che avrebbe dovuto portarlo da Firenze a Torino. Ignaro di essere lontano dalla sua destinazione, si perse per la cittadina e, chiedendo informazioni, invece di ricevere le indicazioni per tornare verso la stazione, trovò un lavoro presso un ristoratore che lo invitò a rimanere a servizio nel suo locale. Un anno dopo, Giulio sposò la figlia di quell’oste e mi raccontano che non prese più nessun treno, ma rimase ad Asti dove, nel 1891, fondò la sua azienda di vini e liquori, cominciando a commercializzare per il mondo, prima il suo Barolo Chinato e poi altri liquori, il più conosciuto dei quali è stato, sicuramente, l’Americano, che anch’io ricordo di aver bevuto. Uomo geniale, straordinario, per certi versi rivoluzionario, che aprì inoltre, una serie di caffè e bottiglierie in giro per l’Italia. Nel 1913, nel solo Piemonte, se ne contavano sette e altre in giro per il mondo, fra cui, qualche anno dopo, una anche in Somalia, dove, come testimoniano le bolle di spedizione che i Bava hanno in archivio, a ricevere la merce spedita dall’Italia era il figlio stesso di Giulio Cocchi. Rimango in silenzio come un bimbo che ascolta una favola e a cui non interessa quanto sia vera o ingigantita dalla fantasia del narratore: l’importante, per lui, è che sia bella e questa è straordinaria, soprattutto per la genialità con la quale il Cocchi ha fatto funzionare i propri punti vendita, utilizzando un sistema che oggi si definirebbe in franchising. Locali dove era possibile effettuare una vera e propria degustazione e dove si vendevano i prodotti aziendali fra i quali lo Spumante Asti Metodo Classico Champenois, di cui nelle attuali cantine aziendali si conservano ancora bottiglie di oltre cento anni. Il successo fu quasi planetario e il marchio Cocchi varcò i confini degli Stati Uniti, dell’Argentina, dell’Inghilterra, dei paesi dell’Africa coloniale, oltre a quelli del Venezuela, dove “Casa Cocchi de Venezuela”, a Caracas, operò per lungo tempo.

Non interrompo i miei ospiti, soprattutto Roberto, che mi narra della sua approfondita conoscenza del mercato mondiale del vino, e, sorprendentemente, anche di quello del cioccolato, essendo un degustatore riconosciuto internazionalmente di questo alimento derivato dai semi della pianta del cacao. Il racconto scivola via fino a condurmi al tempo del loro ingresso dentro l’azienda spumantistica Cocchi. L’antica azienda ricominciò a rivitalizzarsi dopo anni di oblìo. I primi passi furono effettuati con la guida del maestro spumantista Ferdinando Ferrando che era stato, per decenni, responsabile tecnico di Gancia, al quale fu affiancato un giovane e ancora inesperto enologo, Donato Lanati, all’epoca alle prime armi, ma che poi, nel prosieguo della sua carriera, continuando anche a collaborare con l’azienda, è diventato uno dei più rinomati professionisti italiani. Da allora non sono stati fatti molti cambiamenti tecnici, ma, basandosi sull’artigianale tradizione produttiva impostata cento anni fa dal grande Giulio Cocchi, si è costruito un progetto che tenesse conto, prima di tutto del desiderio di voler rimanere molto vicini alle dimensioni originarie e, contemporaneamente, fosse capace di caratterizzare le produzioni di Spumanti Metodo Classico, partendo da un’attenta selezione delle uve per i vini base e da una lenta maturazione degli stessi nel silenzio claustrale delle cantine di un tempo. Un progetto che si è evoluto e ha condotto ad inserire l’azienda fra gli attori principali del Consorzio dell’Alta Langa. Anche i Bava concordano con me che questa DOC, a prescindere dal numero di bottiglie prodotte, rappresenti una parola magica che nel prossimo futuro potrebbe dar vita a nuove e più interessanti “aperture” per gli spumanti piemontesi e anche se la strada è molto lunga e ci vorranno anni perché riesca ad avere una sua visibilità, ad oggi rimane la sola via percorribile. L’importante è che loro, come tutti gli altri associati, lo credano. Del resto, mi rendo conto, degustando i loro vini - alcuni dei quali vantano ben 10 anni sui lieviti - che sono complessi, maturi e morbidi, poiché il Pinot nero che usano, mi spiegano, è raccolto un po’ più maturo in modo da conferire ai vini meno acidità, ma una maggiore gradevolezza. Ascolto e degusto consapevole di aver selezionato un’altra grande azienda che non ha niente da temere, poiché se questa qualità sarà costante nel tempo, il suo futuro, come quello dell’Alta Langa, è in buone mani e garantito.

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GIULIO BAVA


COCCHI


ALTA LANGA DOC BRUT TOTOCORDE MILLESIMATO Il vino è il prodotto della selezione di uve Pinot nero (70%) e Chardonnay (30%) provenienti da 4 vigneti, situati nei comuni di Fontanile, Sessame, Neviglie e Castel Rocchero su terreni calcareo-marnosi con forte presenza di tufo e argilla, a un’altitudine di oltre 250 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 24-36 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 8-10°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C) in tank di acciaio. In questi contenitori i vini rimangono sui lieviti fino all’aprile successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in bottiglia per almeno 36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Si presenta all’esame visivo con un bel colore giallo paglierino dai riflessi dorati molto brillanti e con un perlage minuto, fine e continuo. Al naso è piacevole ed equilibrato anche se non molto intenso: propone note di biscotti alle mandorle e di crostata di mele, piacevoli percezioni di frutta a polpa gialla (susina e pesca) e a pasta bianca (mela e pera), oltre a nuances speziate, di aranci canditi e nocciola. Un bouquet floreale di glicine e sambuco chiude lo spettro olfattivo. In bocca, ampio, armonico e di grande stoffa, offre un gusto vellutato, lungo e persistente, che si arricchisce di una bella sapidità e di un finale fruttato di pesca sciroppata.

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FONTANAFREDDA Il mondo del vino è un mondo in cui la tradizione ha un peso rilevante e sicuramente Fontanafredda ha origini talmente illustri che è da considerarsi parte integrante della storia della viticoltura piemontese e contribuisce a delinearne il divenire. Le origini risalgono al 1858, quando queste terre appartenevano al patrimonio privato di Vittorio Emanuele II, il quale, successivamente, le intestò a “Guerrieri Conte Emanuele e Maria Vittoria sorella”, figli naturali del Re e di Rosa Vercellana, a sua volta insignita del titolo di Contessa di Mirafiori e Fontanafredda. Fu proprio il Conte Emanuele a dare l’assetto moderno che ancora oggi contraddistingue questa azienda: residenza di caccia, borgo, ampie cantine e oltre 100 ettari di vigneti. Una tenuta che, nell’immaginario collettivo, appare come il monumentale emblema della viticoltura langarola; ha sempre avuto, però, il merito di proporsi con una nuova veste, poiché, chiunque si sia alternato alla sua guida, ha cercato di far tesoro di ciò che aveva, magari intervenendo, migliorando e modificando, nel massimo rispetto di ciò che Fontanafredda ha rappresentato per questa terra. Una rappresentatività consolidatasi negli anni e che non è mai stata scalfita dagli alti e bassi che, di solito, il tempo elargisce, né dalle vicissitudini che, invece, hanno colpito molte altre aziende le quali, insieme a Fontanafredda, avevano contribuito a creare, proprio tra Serralunga d’Alba, Santa Vittoria d’Alba e Canelli, gli inizi della storia dello Spumante in Italia. Una storia che, in tanti casi, non era stata costruita su fondamenta solide, ma solo sui brand, alcuni dei quali si sono poi dissolti dopo essere stati smembrati, umiliati e infine venduti. Fu agli inizi degli anni ‘90 che il mercato attuò questa grande selezione e, sempre in quel periodo, alcune di quelle aziende che avevano “fatto la storia”, compresero che la forza trainante di un marchio

non era più sufficiente. All’orizzonte si stava affacciando un nuovo consumatore, molto più attento e consapevole, per soddisfare il quale non bastava più sbandierare un nome, ma era necessario effettuare un salto qualitativo nella produzione; per fare ciò era doveroso avere un rapporto più diretto con la terra e con ciò che essa rappresenta, oltre a far propri tutti gli altri aspetti che avevano contribuito al successo dei grandi vini rossi piemontesi e che costituivano, e costituiscono ancora oggi, l’essenza del terroir che questo territorio sa esprimere. Furono quelle stesse aziende che decisero di fondare un istituto a tutela della storia e della qualità del Metodo Classico piemontese e di avviare sperimentazioni per capire se veramente si potessero produrre in loco delle uve per fare spumanti di qualità elevata, evitando di andarle a comprare altrove. Un progetto al quale aderimmo subito, poiché ci rendemmo conto che Fontanafredda, oltre ad essere riuscita a passare indenne dalla “scrematura” che il mercato aveva effettuato, seguendone le indicazioni avrebbe avuto grandi chances. Quella consapevolezza si basava proprio sul rapporto che abbiamo con la terra, e con ciò che in essa produciamo, oltre alla conoscenza e alle sperimentazioni effettuate, per decenni, nei nostri vigneti. Tutto ciò aveva accresciuto quell’ininterrotta esperienza che, per più di un secolo, ci aveva visti protagonisti nel settore dello spumante. Forse è per questo che oggi ci sentiamo degli attori importanti del progetto Alta Langa, poiché siamo sicuri che sia un valido strumento e una grande opportunità di crescita per tutto il Piemonte. A questo vogliamo affiancare i numerosi progetti in corso d’opera e che sicuramente renderanno più interessante il nostro futuro. Questo Alta Langa DOC Vigna Gatinera Brut Millesimato è uno dei risultati più prestigiosi del nostro lavoro in questo senso, ottenuto esclusivamente dal vigneto di Pinot nero di nostra proprietà, quindi in quantità estremamente limitata. Ma l’azienda produce anche altri due spumanti che si fregiano della denominazione Alta Langa, il Contessa Rosa brut e il Contessa Rosa Rosé. Anche per questi due Alta Langa le quantità per adesso sono limitate rispetto alla richiesta del mercato, in quanto, purtroppo, direttamente legate all’approvvigionamento di uve, che scarseggiano e che arrivano da una ristretta e limitata area vitata, in mano a pochi viticoltori che - al momento - hanno più interesse a circoscrivere la produzione e a puntare a prezzi in crescita delle uve che a veder aumentare le quantità di prodotto sul mercato. Quello che stiamo vivendo è un momento importante per decidere cosa si voglia fare della DOC Alta Langa, la quale non gode soltanto del sostegno delle istituzioni, ma anche della credibilità del mercato. La prossima tappa, intanto, sarà la DOCG, che dovremmo ottenere a partire dall’annata 2010: un ulteriore riconoscimento del livello qualitativo superiore del prodotto.

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OSCAR FARINETTI


FONTANAFREDDA


ALTA LANGA DOC VIGNA GATINERA BRUT MILLESIMATO Il vino è un cru ottenuto dalla selezione delle migliori uve Pinot nero provenienti dal vigneto omonimo di 4 Ha, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Serralunga d’Alba, su terreni calcareo-marnosi con forte presenza di tufo e argilla, ad un’altitudine di oltre 250 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto fiore ottenuto, dopo 24-36 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 8-10°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 14-16 giorni (a 16-18°C), per l’80% in tini di acciaio inox e per 20% in barriques di rovere bianco a grana fine e media tostatura; qui, a seconda delle annate e solo in parte, il vino svolge la fermentazione malolattica e rimane fino all’aprile successivo alla vendemmia. Si procede quindi all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura sui lieviti in cantina per almeno 54 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Lo spumante, dal perlage minuto, fine e continuo, propone all’esame visivo un bel colore giallo paglierino dai riflessi brillanti; all’esame olfattivo risulta immediato, varietale, elegante, fresco, sobrio, mischiando in un sublime bouquet le note di frutta a polpa bianca (pesca e pera) ad altre di timo e mandorle tostate. In bocca propone una struttura ampia, di grande stoffa, con una fibra vellutata avvolgente, quasi sensuale, che rimane lunga e persistente in bocca, arricchendo le percezioni di una piacevole nota sapida; lungo il finale speziato con nuances fruttate di pesca sciroppata.

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GANCIA È di padre in figlio che ci siamo passati il testimone e così, di generazione in generazione, abbiamo continuato a produrre spumanti, considerando sempre questo prodotto come il nostro più importante core-business, sfruttando prima l’unicità del , che il nostro trisnonmetodo no Carlo Gancia applicò al Moscato a partire dalla fine del XIX secolo, realizzando quell’Asti Spumante Metodo Classico che affascinò il mondo, e poi, qualche decennio dopo, quella del Metodo Martinotti (o Charmat), con l’intento di dare lustro e far crescere queste cantine che oggi, con le loro bollicine, sono presenti in più di 45 Paesi del mondo. Una storia che si è evoluta, si è implementata e ha trovato nuovi attori ed interpreti. Siamo certi che tutti hanno contribuito alla fama della spumantistica di questa regione, come lo siamo del fatto che ognuno di essi dovrebbe dire, ogni volta che viene bevuto un bicchiere di spumante piemontese in giro per il mondo, un sincero grazie a Carlo Gancia. Una figura storica, ma, al contempo, estremamente moderna, con una gran voglia di conoscere e comprendere quali fossero le opportunità e i limiti, che, ai suoi tempi, esistevano intorno al vino e ai prodotti ad esso collegati, come quando soggiornò, per un lungo periodo, in Francia, a Reims, per approfondire le sue conoscenze sulla vinificazione, anticipando di molto certe moderne tendenze, o quando inventò, da giovane impiegato della Dettoni & C., una delle più prestigiose ed antiche liquorerie torinesi, una ricetta per affinare il sapore di un vino liquoroso all’epoca molto di moda: il Vermouth, utilizzando per la prima volta il Moscato quale base per l’infusione delle erbe e realizzando di fatto il primo Vermouth bianco della storia. Uno degli elementi che devono aver contribuito a creare quel mix in grado di consentire a Carlo Gancia di diventare ciò che poi è diventato è sicuramente il fatto di essere cresciuto in questo territorio e di aver respirato, fin da “fantolin”, un’aria ricca di tradizione vitivinicola. Proprio sulla base di questa tradizione, è nato il 5 marzo 1990 il “Progetto Spumante Metodo Classico in Piemonte”, poiché questo vino, che lei sta degustando, non si è materializzato in maniera improvvisa e casuale. Questo Spumante DOC è il frutto della presa di coscienza di alcune altre aziende oltre la nostra che, nei decenni antecedenti al 1990, avevano capito che il settore spumantistico piemontese stava subendo un lento ed inarrestabile travaglio collettivo.

Ciò che costituiva motivo di ripensamento e di riflessione rispetto alle inequivocabili radici piemontesi del settore spumantistico italiano, era per noi la consapevolezza di aver trascurato, come protagonisti, il nostro territorio regionale, non tanto perché non lo ritenessimo una possibile zona di produzione delle uve di Chardonnay e Pinot nero utili per la produzione di Spumanti Metodo Classico, ma perché non eravamo stati incisivi, in quei pochi e sporadici tentativi effettuati, nel convincere i produttori di uve ad investire su quei vitigni che, ai loro occhi, non garantivano la redditività che invece avevano vitigni come la Barbera, il Dolcetto o il Nebbiolo. Così, per decenni continuammo ad approvvigionarci in altre zone d’Italia, specialmente nell’Oltrepò e in Trentino. Ma quando la consapevolezza e una maggiore comprensione portarono il consumatore a non identificare più il Piemonte come portabandiera del “vino rosso”, ma a considerarlo anche per il Moscato, capimmo che poteva essere giunto il momento di far percepire che il Piemonte era una sola e grande terra da vino, e che accanto a quei grandi vini rossi, incominciavano ad affermarsi altri prodotti con uve autoctone come l’Arneis, il Cortese, l’Erbaluce, la Favorita o alloctone come lo Chardonnay e il Sauvignon. Ritenemmo che il settore vitivinicolo piemontese fosse maturo per compiere un ulteriore passo in avanti verso un nuovo sviluppo e così, quando gli organismi istituzionali di Oltrepò, Franciacorta, Trentino e Alto Adige, in una solenne riunione tenutasi a Milano il 17 novembre 1989, sottoscrissero un protocollo d’intesa con cui sancivano i confini dell’area italiana vocata alla produzione di spumanti Metodo Classico, circoscrivendola alle loro zone, capimmo che dovevamo agire. Fu così che noi e le altre case spumantistiche piemontesi come Cinzano, Fontanafredda, Martini & Rossi, Riccadonna e Banfi, affidammo la definizione di un progetto a Giancarlo Montoldo con l’intento di dar corso a ciò che è diventato poi l’Alta Langa. Da quella data abbiamo lavorato per dimostrare l’esistenza sulle colline piemontesi delle condizioni pedoclimatiche ed ambientali che determinano, indiscutibilmente, la vocazione del territorio alla coltivazione di vitigni come lo Chardonnay e il Pinot nero, utili alla produzione di Spumanti, stimolando, contemporaneamente, la nascita e lo sviluppo, in Piemonte, di un settore che dia origine a prodotti come quello che lei sta degustando.

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LAMBERTO VALLARINO GANCIA


GANCIA


ALTA LANGA DOC CARLO GANCIA BRUT VINTAGE INTEGRAL MILLESIMATO Il vino è una selezione delle migliori uve Pinot nero (60%) e Chardonnay (40%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nei comuni di Canelli, San Marzano e Santo Stefano Belbo, su terreni calcareo-marnosi con forte presenza di tufo e argilla, ad un’altitudine di oltre 250 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla metà di settembre, si procede, usando un torchio Marmonier, alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti, attraverso l’inserimento di fermenti autoctoni, vengono avviati alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per circa 21 giorni (a 18-20°C) in tank di acciaio termocondizionati. Il vino rimane nei contenitori in acciaio - dove si agevola lo svolgimento della fermentazione malolattica - fino al dicembre dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Spuma delicata e perlage minuto, continuo e persistente per uno spumante che si presenta all’esame visivo con un bel colore giallo paglierino ricco di brillanti riflessi dorati. All’esame olfattivo risulta immediato e fresco e propone, oltre alle classiche note di lieviti, panificazione e torta di nocciole, piacevoli percezioni agrumate e altre un po’ più speziate di cannella, frutta a pasta gialla (pesca e albicocca) e tropicale (papaia e ananas). In bocca ha un’entratura secca, fresca, vellutata; emerge una carezzevole stoffa accompagnata da briosa acidità; lungo e persistente, chiude con un equilibrato finale in cui si evidenziano nuances mandorlate e minerali.

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GERMANO ETTORE Non voglio parlare in maniera poetica delle Langhe, né citare il nome dei numerosi scrittori e pittori che le hanno descritte nelle loro opere o raffigurate nelle loro tele. Del resto farei una gran fatica ad addentrarmi in simili percorsi dialettici, un po’ distanti dalla mia cultura di vigneron piemontese, costruita stando accanto a mio padre e su questa terra meravigliosa, unica ed irripetibile. Devi sapere che in questi vigneti intorno a Serralunga d’Alba nasce il Barolo più nobile, che assomma in sé quelle virtù che, se appartenessero a un uomo, lo farebbero senz’altro dichiarare superiore ad ogni altro. Da enologo in possesso di un po’ dell’arte di saper fare il vino, ti dico che le Langhe sono uno dei territori vitivinicoli più belli e vocati del mondo; e lo affermo a ragion veduta, perché questa è una terra che conosco molto bene, non solo perché la mia azienda si trova proprio nel cuore di questa zona, ma soprattutto per il fatto che da quando ero ragazzino e accompagnavo mio padre nelle vigne, l’ho calpestata metro per metro, in lungo e in largo, prima salendo e poi scendendo da ogni pendio. Ti confesso, però, che per molto tempo sono stato un astemio, uno di quelli a cui il vino non piaceva, ma, nonostante ciò, amavo tremendamente la vite, la terra e il lavoro che svolgevo in campagna accanto a mio padre, il quale è stato non solo un genitore, ma sicuramente il mio più grande amico. Cominciai a bere vino solo dopo aver iniziato a frequentare la scuola di Enologia ad Alba; notavo che, pur vivendo in un mondo di grandi vini rossi e avendo in azienda ben 6 ettari di Dolcetto, Barbera e Nebbiolo, tutti vitigni a bacca rossa, prediligevo il vino bianco fermo e le bollicine. Quelli erano gli anni in cui, nel panorama spumantistico italiano, le aziende leaders erano, per lo più, quelle piemontesi, le quali, invece di proseguire sulla strada costruita nei decenni passati, che le aveva portate alla ribalta nazionale ed internazionale, decisero che era molto più remunerativo seguire il boom dell’Asti spumante, il quale, in poco tempo, distolse la loro attenzione dal Metodo Champenois. La cosa provocò una diminuzione di quella cultura e

dell’attenzione che deve essere rivolta, sempre e comunque, a tutte le fasi operative di un vino, soprattutto verso la selezione delle materie prime e di quei vitigni prìncipi del Metodo Classico, quali il Pinot nero e lo Chardonnay, il che via via andò a ridimensionare il prestigio storico che quei prodotti si erano guadagnati nel tempo. Andando contro corrente e ricordando che mio padre sosteneva che dove viene bene il Nebbiolo da Barolo un contadino può piantare qualsiasi cosa, quando capitò, non mi lasciai scappare l’occasione di piantare un po’ di Chardonnay in Langa. Tutto avvenne per caso, quando un amico mi propose di lavorargli una vigna di Dolcetto nella zona di Dogliani, proprio sull’ultima collina che strapiomba sul Tanaro e dopo la quale comincia il Monregalese. Ricordo che l’idea non mi entusiasmava; non capivo come mai avrei dovuto aggiungere del Dolcetto a quello che già producevo qui a Serralunga. Perché fare 50 chilometri in più per raggiungere un vigneto che mi avrebbe fornito uve in concorrenza a quelle che avevo intorno casa? Provocatoriamente gli proposi che avrei accettato solo a condizione di estirpare quel vitigno e mettere al suo posto dello Chardonnay. Dato che non esisteva un solo grappolo d’uva a bacca bianca nel raggio di qualche decina di chilometri, pensavo proprio che la mia “indecente” proposta cadesse nel vuoto; invece con sorpresa fu accettata e si è trasformata poi in uno splendido viaggio nel mondo delle bollicine che sto ancora effettuando e da quelle poche migliaia di metri quadrati oggi ho ben 4 ettari di Chardonnay e un po’ di Pinot: le mie perle bianche in un mare di bacche rosse, le quali contribuiscono a donarmi le uve per questo Metodo Classico che stai assaggiando. Da autentico “Langhetto” sono orgoglioso di poter partecipare a questa avventura dell’Alta Langa ideata dalle case spumantistiche storiche piemontesi. Spero porti maggiore visibilità a questa nostra terra.

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SERGIO GERMANO


GERMANO ETTORE


ALTA LANGA DOC BRUT MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (80%) e Chardonnay (20%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Montiglio, nel comune di Cigliè, su terreni bianchi calcarei, sabbiosi ciottolosi ricchi di scheletro, moderatamente profondi, a un’altitudine di 530 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima settimana di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), per il Pinot nero in tini di acciaio inox e per lo Chardonnay in barriques di rovere francese. In questi contenitori il vino rimane fino al maggio dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali si effettuano il remuage delle bottiglie, il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e la contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Lo spumante, dal perlage fine e persistente, veste il bicchiere di un colore paglierino con riflessi dorati; si presenta all’esame olfattivo proponendo una buona freschezza giocata su note dolci di pasticceria e biscotti al burro e su percezioni più speziate di caffè e altre che si aprono ad aromi di nocciola tostata e caramelle all’orzo. Un bouquet olfattivo che si completa con nuances di fiori d’acacia e mela cotta al forno. In bocca è equilibrato, fresco, ricco di una bella sapidità e grande acidità che pulisce e leviga la bocca con un’entratura lineare e netta, conferendo anche una buona persistenza; bello il finale che ricorda sentori agrumati di mandarino.

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MARTINI & ROSSI Per descrivere cosa rappresenti la Martini & Rossi nel comparto degli spumanti italiani, le fornisco alcune informazioni e alcuni dati che l’aiuteranno a capire. Come saprà, siamo forse la più importante azienda italiana del settore Spumanti e Vermouth e, anche se ormai siamo una multinazionale con una politica commerciale sempre più globalizzante, nessuno, qui da noi, ha mai messo in dubbio la nostra longeva tradizione, la stessa che ci vede protagonisti, da oltre un secolo e mezzo, nel settore spumantistico. Le nostre sono radici profonde che vanno a ritroso sino al 1863, anno di fondazione della stessa Martini, Sola e C., quando compare un ordine, del rappresentante Brun, sul quale è riportata la dicitura “vino bianco Canelli spumante”, del quale, a partire dal 1868, si tentò anche l’esportazione a New York, temporaneamente sconsigliata dall’agente americano Manara, che si occupava della distribuzione del Vermouth, a causa della crisi economica che affliggeva la città. Pochi anni dopo, nel 1871, un cliente di Shanghai ordinò del “Moscato spumante d’Asti” che, pur essendo ancora in via di sperimentazione, ebbe un notevole successo, come dimostrano i vari ordini che, negli anni successivi, arrivarono in azienda da ogni parte del mondo: si richiedeva da Yokohama, in Giappone, il “vino bianco spumante d’Asti” confezionato con “turaccioli di qualità giusta... legati con filo di ferro come per il vino di Champagne”, oppure, nel 1875, da Costantinopoli, dello spumante d’Asti “superlativo” o ancora l’anno dopo, da Port-Said, del “vino bianco d’Asti spumante”. Il resto è storia documentata che si può visionare nel nostro museo aziendale. Una storia che dà la giusta indicazione di cosa siano per noi gli spumanti: oggi, ne produciamo annualmente circa 35 milioni di bottiglie, di cui solo 250.000 elaborate con il Metodo Classico e, di queste, 15.000 imbottigliate con la dicitura Alta Langa DOC. La stragrande maggioranza, invece, fra cui ovviamente l’Asti Spumante, sono vinificate utilizzando il Metodo Martinotti, meglio conosciuto come Charmat.

Come avrà compreso, ciò che indichiamo con la dicitura “Denominazione di Origine Controllata”, ovvero l’Asti Spumante, corrisponde alla massima parte (circa il 60%) della nostra produzione, ma non è tutto, dal momento che la Martini & Rossi produce anche una grande varietà di prodotti spumantistici che vanno a soddisfare la nostra clientela nel mondo, e questa potrebbe apparire una scelta che avvalora l’idea, che in molti hanno, di collocarci fra gli industriali del vino; scoprirà, invece, nella visita che andremo a fare nel nostro laboratorio e nelle nostre cantine, che, essendo un’impresa leader, abbiamo fatto della ricerca tecnologica e dei comparti scientifici, operativi e analitici il nostro fiore all’occhiello, tanto da poterci definire, per la meticolosità applicata, dei buoni artigiani che, attraverso uno storico know how, si sono dati un’impostazione industriale. Per noi non è importante se le bottiglie di spumante prodotte siano IGT o DOC. Sappiamo che tutte devono essere di altissimo livello qualitativo, essendo tutte all’unisono importanti. Le posso assicurare che per noi fare qualità è una regola imprescindibile e in questa azienda l’eccellenza non è un’arte, ma un’abitudine a cui non sappiamo rinunciare. Con questa radicata e forte convinzione, aderire al progetto Alta Langa ha significato accondiscendere ad una sfida che sapevamo di poter vincere e che ci sarebbe servita per portare lustro alla storica tradizione spumantistica che il Piemonte ha sempre avuto e a cui sentiamo di appartenere. Ecco perché teniamo moltissimo a queste bollicine. Perché intorno ad esse abbiamo costruito un nostro progetto di produzione di qualità, contrassegnata con un “Sigillo Blu”, dedicata solo alla ristorazione, e da utilizzare come passepartout e strumento promozionale capace di attivare un circuito virtuoso per l’intero sistema delle bollicine aziendali. Un progetto che è lo stesso che ci ha indotto ad ingaggiare George Clooney, facendogli stappare in televisione le bottiglie di spumante Metodo Classico che rappresentano il Made in Italy della Martini & Rossi.

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LUCIANO VEL TOTOBOERO EST I UNIOR ANNO.” UTOR


MARTINI & ROSSI


ALTA LANGA DOC BRUT RISERVA MONTELERA MILLESIMATO Alla formazione dello spumante concorrono le uve di Pinot nero (80%) e Chardonnay (20%) provenienti da vigneti situati nei comuni di Bubbio, Monastero Bormida, Calamandrana e Loazzolo in provincia di Asti, Trezzo Tinella e Neviglie in provincia di Cuneo, su terreni di natura (a seconda delle zone) argilloso-calcarea, calcareo-argillosa o marnosa, ad un’altitudine compresa fra i 300 e i 500 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene in genere nella seconda e terza decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti, dopo una pulizia statica a temperatura controllata (7-10°C), sono avviati, tramite l’inoculazione dei lieviti, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni in tank di acciaio a temperatura termoregolata. In questi recipienti i vini rimangono, senza svolgere la malolattica, fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane poi a maturare sui propri lieviti per almeno 30 mesi, al termine dei quali si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Uno spumante che colpisce subito per la sua spuma fine, molto abbondante e assai durevole e per il perlage, davvero elegante ed esplosivo. Al naso, netto e deciso, propone i classici ricordi di lieviti freschi, farina appena macinata, mandorle verdi, fiori bulbosi e dolci come il giacinto, arrivando fino a una suadente crostata di albicocche e a un rotondo finale al croissant: un bouquet armonico e di buona ampiezza. La progressione gustativa è viceversa piuttosto severa, asciutta, nervosamente e gradevolmente agrumata in uscita, ricordando sensazioni di pompelmo e di sigaro. Intenso e di buona persistenza, ha un palato sostanzialmente diverso dall’olfatto: al gusto pare molto più giovane e con un’armonia ancora in divenire.

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TOSTI Ricordo che Veronelli non amava le grandi aziende vitivinicole, né le industrie del vino: gli piacevano gli “artigiani” e tutta quella produzione enologica dettata dalla conoscenza profonda del tempo e della terra. Per lui la qualità stava nelle piccole quantità prodotte con grande passione. Questo assunto teorico, Veronelli lo trasferiva su tutti i prodotti, anche nei confronti delle bollicine, e lo si capiva dai giudizi che dava di quelle aziende che vinificavano a settembre, imbottigliavano a novembre, vendevano a dicembre e riscuotevano a gennaio. Rammento che, però, non era il solo ad avere un giudizio negativo; infatti, si era un po’ generalizzata l’idea per cui le dimensioni aziendali fossero, sempre e comunque, un parametro di giudizio della qualità dei vini prodotti. Quelli erano gli anni in cui in Piemonte di bottiglie di vino, Spumante e Moscato, se ne producevano quantità enormi, ma se certi marchi storici piemontesi sono oggi scomparsi dal mercato e altri hanno dovuto ridimensionare le loro aspettative, ricollocandosi su parametri molto inferiori rispetto a quel periodo, un motivo ci sarà pure... Una delle cause di questo ridimensionamento va ricercata nel fatto che per anni, qui a Canelli, come in tutto il Piemonte, alla guida delle grandi aziende vitivinicole hanno imperversato i business men. Le famiglie proprietarie dei marchi storici, che vendevano vino e affini, si sono fidate di chi conosceva magari bene i numeri, e forse un po’ il marketing, ma era incapace di progettare un futuro per questa terra piemontese che era la più importante area spumantistica italiana, ancor prima che nelle altre zone nascesse l’idea di imbottigliare un Metodo Classico. Una cosa era certa: quei personaggi, di vino non ne capivano niente. Osservando poi cosa è successo, devo dire che Veronelli non aveva tutti i torti, poiché quelle stesse multinazionali e industrie che, un tempo, pensavano solo ai numeri, oggi si sono orientate verso una maggiore identificazione con il territorio in cui operano, senza tuttavia rinnegare quel ruolo internazionale che appartiene loro e che è possibile difendere solo attraverso grandi volumi di produzione in bottiglia. Tuttavia, anch’esse, come gli artigiani, cercano oggi di ritagliarsi delle piccole, ma significative macro aree produttive d’eccellenza come, ad esempio, è il Meto-

do Classico, fortemente legato a una tradizione piemontese. Sicuramente anche la nostra azienda non sarebbe piaciuta a Veronelli, con il quale, per altro, sono stato amico fino al punto da farlo ricredere su alcuni suoi giudizi e preconcetti nei confronti di chi vinifica grandi quantità come noi e che, come è facile comprendere, ha molte più difficoltà oggettive di quante non ne abbia l’artigiano del vino. Del resto, quando hai avviato un volano, non puoi smettere di far ruotare gli ingranaggi e bisogna andare avanti, tenendo ben presenti le responsabilità che hai verso i dipendenti, i fornitori e verso il mercato, rispettando quell’etica che ha consentito di far crescere questa impresa che nasce intorno al 1820, ma che ha avuto il suo vero sviluppo tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Nel 1950 siamo sbarcati negli Stati Uniti e lì, il marchio Tosti è risultato vincente, fino al punto di riuscire a commercializzare quasi un milione di casse di vino dei nostri prodotti. Un trampolino di lancio importante e utile per espanderci e consolidarci in quasi cinquanta Paesi del mondo, ritrovandoci però, dopo anni, nella strana situazione di vedere il nostro marchio più conosciuto all’estero che in Italia. Così, a partire dal 1989, abbiamo deciso di vendere i nostri spumanti anche sul territorio nazionale, aderendo, contemporaneamente, al progetto Alta Langa. Oggi i vigneti destinati a questa DOC e alla produzione dei vini base per il nostro Metodo Classico, hanno ormai quasi 20 anni e, pur non essendo molti né gli ettari, né le bottiglie che tutti insieme noi associati produciamo, ci stiamo adoperando per incrementarne i numeri nei prossimi anni. Il passo è lento, ma i momenti non sono neanche tanto facili e poi, nei confronti di altre aree spumantistiche italiane che sono riuscite a muoversi molto rapidamente, noi siamo come delle “creature” che stanno cominciando adesso a camminare. Ciò non toglie che le potenzialità siano enormi, dato che gli spumanti sono piemontesi e nascono da un progetto totalmente piemontese. Personalmente sono ottimista e fiducioso; ho la sensazione che il progetto, più che portare alla produzione di bottiglie, abbia avuto il merito, fino adesso, di aver fatto nascere una forte consapevolezza nei produttori che vi hanno aderito. È forse per questo che considero il nostro Metodo Classico uno spumante “concettuale”: ogni bottiglia in più venduta rispetto all’anno precedente consolida questo legame ed è una vittoria della ragione e del pensiero, non legati tanto ai fatturati, ma alla voglia di comunicare il Piemonte. Tutto ciò che c’è stato prima conta solo come memoria storica, mentre, posso assicurare, il futuro è qui, dentro questo progetto e potrei garantire che, se fosse ancora vivo, questa volta con Veronelli non litigherei!

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GIOVANNI BOSCA


TOSTI


ALTA LANGA DOC ATELIÉ BRUT MILLESIMATO Lo spumante è prodotto vinificando le migliori uve Pinot nero (100%) provenienti dai vigneti situati nei comuni di Vesime, Bubbio e Monastero Bormida, su terreni calcareo-marnosi con buona presenza di tufo e argilla, ad un’altitudine compresa tra i 400 e i 600 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima settimana di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 7-8°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, che si svolge per 21 giorni (a 14-15°C) in tank di acciaio in cui i vini terminano anche la fermentazione malolattica. Verso la metà dell’anno successivo alla vendemmia si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del relativo liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura sui lieviti per almeno 30 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come “sboccatura”, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Il vino si presenta all’esame visivo con una spuma ricca e cremosa ed un perlage minuto, fine e persistente, mentre colora il bicchiere di un giallo paglierino ricco di riflessi dorati. Al naso è classico, fresco ed intenso e propone note di lieviti e pasticceria secca che si aprono a percezioni più cremose e dolci e ad altre fruttate di pera, mela e cedro, riportando nel finale alla mente ricordi di torta di nocciole. Un bouquet delicato, semplice ma armonioso, in cui si avvertono anche piacevoli sensazioni speziate. In bocca è elegante, con un’entratura fruttata, sapida, ricca di una bella stoffa, forse anche più complessa di quella percepita al naso; lungo e persistente, chiude con godibili nuances di mandorle.

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VIGNE REGALI - BANFI “Amo le bollicine e questa azienda che le produce, perché è qui che ho trascorso il mio primo anno di permanenza nel gruppo Banfi...”. Ripenso ancora alle parole di Enrico Viglierchio, il giovane amministratore delegato di Banfi, che ho appena salutato e con il quale ho trascorso un piacevole pomeriggio parlando di spumanti, della cantina e del suo futuro, prima seduti al tavolo del ristorante Il Ciarlocco ad Acqui Terme - che, tra l’altro, ho scoperto essere anche una bella cittadina - poi visitando l’azienda in quel di Strevi. Una cantina storica, attiva fin dal 1860, acquistata dal gruppo Banfi nel 1979. Guardo, osservo e constato che quest’azienda, con una superficie di 50 ettari, di cui 46 a vigneto, situati tra i comuni di Novi Ligure e Acqui Terme, è una struttura dinamica, in continua evoluzione. Rimango, ancora una volta, sorpreso dalla capacità e dalla lungimiranza dei fratelli Mariani, proprietari della Banfi e quindi di Vigne Regali, i quali sono sempre stati capaci di innescare meccanismi virtuosi di rivitalizzazione e valorizzazione dei territori dove hanno radicato le loro aziende (sia che si parli del Piemonte, ma anche e soprattutto di Montalcino), con un ritorno d’immagine ed economico certe volte sorprendente. Personalmente credo che il loro successo sia stato quello di saper coniugare perfettamente il territorio in cui hanno investito con i vini che vi producono, come nel caso degli spumanti o del Brachetto d’Acqui che, dopo essere stato da loro riportato in auge, miete tutt’oggi grandi successi in America. Non sono certo io a scoprire i loro meriti, ma, leggendo fra le righe di una loro biografia, vengo a sapere che sono nipoti di quella Teodolinda Banfi che fu, per molti anni, governante del Cardinale Achille Ratti, Arcivescovo di Milano, nominato poi Papa nel 1922 con il nome di Pio XI. Teodolinda - definita in alcuni documenti recentemente rinvenuti negli archivi Vaticani “una vera guardiana” degli appartamenti papali - è descritta come una piccola donna, dotata di una formidabile personalità, “molto autoritaria, specialmente in cucina”, dove si occupava anche della selezione dei vini, settore in cui si diceva fosse molto esperta. Sicuramente riuscì a trasmettere questa sua eccezionale competenza enologica al nipote, John Mariani Senior, il quale, all’età di 23 anni, dopo una lunga permanenza in Italia presso la zia, tornò in America pensando seriamente a come poter sfruttare le conoscenze acquisite sul vino. Fu così che, nel 1919, fondò a New York la Banfi Vintners, commercializzando prima i vini francesi e poi molti vini italiani, fra i quali, a partire dai primi anni ‘80, anche quelli prodotti nelle aziende di proprietà sul territorio italiano.

Lascio perdere le ricerche biografiche sulla famiglia Mariani per concentrarmi invece sul motivo della mia visita a Vigne Regali e sulla scheda dell’Alta Langa Cuvée Aurora Millesimato 2003 che ho finito da poco di assaggiare. Ho bisogno di rimettere insieme tutti i discorsi fatti con Viglierchio, con cui ho approfondito l’argomento del Consorzio dell’Alta Langa, di cui Vigne Regali è un legittimo rappresentante, cercando di scoprire quale sia il suo futuro, quali le reali potenzialità e il filo conduttore che unisce le aziende associate. Con lui ho cercato di comprendere quale sia la massa critica di prodotto che il Consorzio riesce a commercializzare - che non supera le 450.000 bottiglie - e l’immagine che il mercato percepisce di questo marchio. Inoltre ho voluto sapere quanto influirà, nel processo di crescita di questi limitati volumi produttivi, la specifica territoriale che si è imposto il Consorzio, le cui aziende, forse tranne proprio Vigne Regali, oggi devono crescere facendo conto solo su ciò che producono, pur “appoggiandosi” a quella fortissima e storica tradizione spumantistica piemontese che per decenni, ha però attinto a pieni mani nelle zone del Gavi e dell’Oltrepò Pavese, per la fornitura “ufficiale” di uve per i produttori di spumante. Un ampio e complesso discorso, quello dell’Alta Langa, che presenta lati “oscuri”, ma anche grandi opportunità che sono proprio la scommessa di Vigne Regali e di tutte le altre aziende che fanno parte del Consorzio. Per vincerla, è stato avviato un lungo lavoro, molto complesso, che solo con il tempo darà i suoi frutti e che è lo stesso che ha portato alla DOC. Un lavoro iniziato alla fine degli anni ‘80 da poche aziende, tutte decise a perseguire un grande risultato e che, per questo, tracciarono le rigide basi di cosa sarebbe potuta diventare l’Alta Langa, selezionando zone vocate, scelte più in base al livello altimetrico che all’aspetto ampelografico e, fra queste, le Langhe, comprese fra 250 e 400 metri s.l.m. Contemporaneamente prese avvio una lunga sperimentazione sui vitigni e sui vigneti che, quando si concluderà, dovrebbe condurre ad una comprensione maggiore delle reali potenzialità di quei territori che sono in mano a produttori con cui è stato necessario stipulare contratti specifici, garantendo loro il ritiro delle uve che devono essere prodotte secondo precisi parametri qualitativi. Un movimento che è ancora lontano dal concludersi e tutto da scoprire. Il tempo poi dirà se l’Alta Langa avrà i numeri per imporsi sul mercato.

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ENRICO VIGLIERCHIO


VIGNETI REGALI - BANFI


ALTA LANGA DOC CUVÉE AURORA MILLESIMATO Il vino è realizzato vinificando un blend di uve Pinot nero (70%) e Chardonnay (30%) raccolte nei vigneti di alta collina delle aree più vocate delle Langhe e del Monferrato astigiano e alessandrino, situati su terreni di variegata natura. Dopo la vendemmia, che ha luogo dalla seconda metà di agosto, si procede, separatamente per ogni vitigno, alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti, sottoposti a 24 ore di decantazione statica alla temperatura di 7-10°C, si avviano alla fermentazione alcolica attraverso l’inoculo di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, a 17°C ed è fatta svolgere in tank di acciaio, in cui i vini sostano fino al maggio successivo alla vendemmia, quando si procede alla realizzazione della cuvée utilizzando il 90% di vino dell’annata e il 10% di quello dell’annata precedente affinato in barriques di rovere francese. All’assemblaggio delle partite segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane a maturare in cantina a temperatura costante sui propri lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Propone una spuma abbondante e piuttosto persistente e un perlage di discreta finezza e valida persistenza; la sua veste cromatica è un giallo paglierino limpido di media intensità. Al naso, lineare, immediato, armonico, di buona finezza e discreta ampiezza, offre un bouquet di buona intensità, con sentori di mela matura, ricordi di uva spina, fiori bianchi e farina macinata. In bocca si avverte una certa struttura e morbidezza e anche un discreto calore; meno evidente invece l’acidità. In entrata si palesa rotondo, con note di frutti tropicali maturi e con la percezione di un leggero residuo zuccherino; si fa più austero, sapido e amaricante in uscita. Buone l’intensità e la persistenza gustativa; discreta l’armonia.

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La Franciacorta, situata in provincia di Brescia vicino al lago d’Iseo, è una zona da sempre dedita a ricche attività commerciali e con una vocazione viticola già importante ai tempi dei Romani. In poco più di quarant’anni si è imposta a livello nazionale ed internazionale come zona di produzione dello “Spumante” Metodo Classico italiano per eccellenza, la risposta italiana allo Champagne; in realtà i produttori locali, per indicare il vino che si ottiene dalla rifermentazione in bottiglia, usano il termine Bollicine o Franciacorta, intendendo marcare la differenza dal termine generico spumante. Storicamente il termine Franciacorta appare per la prima volta nel 1277 nello statuto municipale di Brescia ad indicare il territorio a ovest della città. Sull’etimologia del nome, invece, rimane ancora aperto il dibattito tra gli storici; una delle teorie più accreditate è quella che lo fa risalire alle “corti franche” ossia i comuni della zona che, sotto la guida dei Benedettini in epoca medioevale, ottennero l’esenzione fiscale sui prodotti commerciati per via dell’opera di bonifica intrapresa sul territorio. La presenza della viticoltura è, però, ancora più antica, come dimostrano i ritrovamenti di vinaccioli (semi dell’uva) di epoca preistorica; a seguire tribù di popolazioni retiche, liguri, Galli Cenomani, Romani e Longobardi lasciarono molte testimonianze sulle pratiche agricole e viticole della zona. Numerosi furono poi i testi di studiosi locali che in diverse epoche esaltarono i vini, sia bianchi che rossi, della Franciacorta. Particolare, e in un certo senso profetico, fu lo scritto del medico Gerolamo Conforti che nel 1570 con il Libellus de vino mordaci, descrisse i vini rifermentati appunto come “mordaci”, elencandone poi gli effetti sulla salute. La produzione fino agli anni ‘60 comprendeva bianchi e rossi fermi; fu poi la volontà dei produttori a imporre le Bollicine come vino di punta della zona. Storicamente si attribuisce

questa “rinascita” della Franciacorta all’incontro tra l’enotecnico Franco Ziliani e il produttore Guido Berlucchi che nel 1958 diede avvio alla produzione del vino spumante Pinot di Franciacorta. Fu l’inizio di una nuova era: la zona di produzione ottenne la DOC nel 1967, anno in cui le aziende iscritte all’albo erano 11 e gli ettari vitati solo 32; attualmente le aziende che etichettano con il proprio nome sono diventate 85 e 370 i viticoltori su una superficie di oltre 2200 ettari a vigneto. Uno sforzo che ha unito tutti i produttori locali per elevare innanzitutto la qualità e il marchio comune Franciacorta, lasciando da parte ciò che in altre zone si è tramutata in guerra - ovviamente commerciale - tra vicini. I risultati non sono mancati, grazie ad uno sforzo collettivo per migliorare costantemente tutti i settori della filiera produttiva. Dalla viticoltura, che una volta individuato nello Chardonnay il vitigno di riferimento ha intrapreso, a partire dal 1992, uno studio di zonazione per la qualificazione dei terroirs grazie all’attività del Consorzio per la Tutela del Franciacorta e dell’Università di Milano e proseguito con la Precision Farming (viticoltura di precisione), un sistema che si basa sull’utilizzo di satelliti e monitoraggi aerei per seguire le esigenze agronomiche e la maturazione dell’uva per ogni singola parcella di un vigneto, all’enologia, con l’identificazione di una tipologia di vino, il “Satèn”, unico e particolare, fino ad arrivare al marketing territoriale, rendendo ormai inconfondibile la “F” merlata associata ad ogni bottiglia di Metodo Classico. Per anni il Franciacorta è stato l’unico spumante Metodo Classico italiano a potersi fregiare della DOCG, ottenuta nel 1995, anno in cui, tra l’altro, è stata abbandonata la nomenclatura méthode champenoise, diventato uso esclusivo per i vini francesi; ma ormai il termine Franciacorta si era già imposto come equivalente di spumante italiano metodo tradizionale di eccellenza. Le produzioni sono quasi raddoppiate nell’arco

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di pochi anni, arrivando ai nove milioni di bottiglie e dirigendosi rapidamente verso i dieci; pur essendo distribuito tra piccole realtà aziendali - non si supera il milione di bottiglie per l’azienda più grande - l’intero comprensorio riesce a muovere un mercato molto ricco che ha sorpassato gli 81 milioni di euro di fatturato, facendone la prima zona in Italia per questa tipologia di vino. Nell’areale della Franciacorta sono presenti altre due tipologie di vino: il Curtefranca DOC, recente ridenominazione del Terre di Franciacorta bianco e rosso fermi e il Sebino IGT. 1. Il territorio La zona di produzione comprende 18 comuni nella parte occidentale della provincia di Brescia e parte del territorio della città stessa. Un’estensione di circa 240 km quadrati, di cui oltre 2200 ettari di vigneto. I confini geografici sono segnati a nord-ovest dal Lago d’Iseo, sempre a nord, ma spostandosi verso est il confine diventano le prime colline che proseguono più a nord nelle Alpi Retiche. Ad ovest un confine naturale è rappresentato dal fiume Oglio, mentre ad est a segnare il confine sono le colline di Ome, Cellatica e Gussago e la città di Brescia. A sud il confine è marcato dall’inizio della Pianura Padana, o più modernamente, dalla strada statale che unisce Bergamo a Brescia. I corsi d’acqua che caratterizzano la zona sono il lago d’Iseo e il fiume Oglio. 1.1 I suoli È un territorio molto eterogeneo per formazione geologica. Esistono rilievi rocciosi appartenenti alle Prealpi Bresciane, formate nelle ere del secondario e del terziario; queste comprendono le vette più elevate della zona: ad ovest il Monte Alto (650 metri) e il Monte Orfano (451 metri), nella parte centrale il Monte Cognolo (671 metri), Colma Alta (709


Una crescita continua per il Franciacorta DOCG che ha portato in pochi anni a triplicare sia le superfici vitate, sia le bottiglie prodotte.

metri) e Monte Delma (387 metri) e ad est Sella dell’Oca (860 metri), Camaldoli (522 metri) e Monte Peso (490 metri). Disposte ad anfiteatro, e inserite tra queste cime più alte, vi sono una serie di colline moreniche disposte intorno al Lago Iseo. La conformazione di questo emiciclo è avvenuta a seguito della glaciazione, durante il Pleistocene, periodo più recente nell’era quaternaria, che ha lasciato detriti rocciosi (morene), per l’espandersi e quindi il ritirarsi dei ghiacci, provenienti dall’odierna Val Camonica. Scendendo verso sud si ha la pianura fluvioglaciale, formata dai detriti lasciati dai torrenti originati dalle colline moreniche. L’andamento di questa pianura è discendente

da ovest verso est, da Capriolo (234 metri s.l.m.) fino alla periferia di Brescia, Villaggio Badia, a 127 metri s.l.m. Il paesaggio risulta quindi abbastanza eterogeneo e una prima distinzione può essere fatta in base alla diversa conformazione del territorio. Si possono così distinguere tre diversi paesaggi: quello subpianeggiante, l’inizio delle colline o piedeversante, e i versanti caratterizzati da pendenze che variano tra il 20 e il 45% di inclinazione. A questi diversi paesaggi corrispondono notevoli differenze tra i suoli e, di conseguenza, diverse attitudini colturali. Un ausilio ai produttori della zona è stato lo

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studio di zonazione del territorio, iniziato nei primi anni ’90 che ha evidenziato alcune principali tipologie di suolo, come i fluvioglaciali caratterizzati da depositi grossolani con suoli sottili e moderatamente profondi, i morenici caratterizzati da suoli mediamente profondi presenti su versanti di piccola pendenza, i morenici sottili presenti su versanti con pendenze elevate (assimilabili a creste moreniche spianate), i fini tipici dei suoli limosi e profondi e dei cordoni e delle piane di ritiro del ghiacciaio del Sebino e le colline calcaree (colline pre-alpine con prevalenza di calcare nei substrati rocciosi). 1.2 Il clima La posizione geografica della Franciacorta ne fa un passaggio tra la Pianura Padana e l’arco alpino lombardo. Per una caratterizzazione generale del clima (macroclima) vanno considerati l’influsso del Mare Mediterraneo, con le sue correnti d’aria umide e calde, e la presenza dell’arco alpino e delle valli, che possono considerarsi barriere e canali per le correnti di aria fredda provenienti da nord. Andando più in dettaglio (mesoclima) la presenza del Lago d’Iseo, le colline moreniche, le cime rocciose più alte a nord, la vicinanza della Pianura Padana a sud e il fiume Oglio ad ovest creano una situazione climatica definita insubrica, tipica delle regioni dei laghi in cui gli specchi d’acqua fungono da volano termico per il territorio circostante, mitigando le basse temperature invernali e rinfrescando quelle più alte durante l’estate. Esistono comunque notevoli differenze tra singole colline e terreni. In un territorio così eterogeneo, l’esposizione, l’altitudine, la presenza di vegetazione e i corsi d’acqua creano notevoli differenze da vigneto a vigneto (microclima). In generale le precipitazioni sono nell’ordine dei 1000 mm all’anno, con valori medi che nel periodo vegetativo, tra aprile e settembre, sono di circa 500-600 mm che si abbassano nelle annate più calde tra i 300 e i 400 mm. La presenza del Lago d’Iseo (o Sebino) e i venti provenienti dalla Val Camonica e dalla Val Trompia, ostacolano l’eccessiva umidità estiva - dannosa perché favorisce il possibile instaurarsi di marciumi sull’uva - e le nebbie invernali tipiche della Pianura Padana. La temperatura media del mese di luglio varia dai 20 ai 26°C, mentre quella di gennaio tra 1 e 5°C: una variabilità che segue appunto le diverse conformazioni del territorio.


L’andamento climatico nel corso dell’anno in Franciacorta; medie delle temperature massime e minime e delle precipitazioni rilevate nel corso di venti anni (1989-2008).

Aspetti viticoli Il panorama viticolo della Franciacorta è cambiato notevolmente negli ultimi quarant’anni. C’è stata una trasformazione quasi totale delle forme di allevamento, avvenuta soprattutto tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80. Attualmente la forma di allevamento più diffusa risulta la spalliera bassa: il Guyot e il Cordone speronato che permettono di aumentare i ceppi presenti in ogni campo, con una densità che spesso supera i 4500 ceppi per ettaro e tende ad aumentare nei nuovi impianti. Il maggior numero di vigne per superficie tende a far diminuire la produzione per singola pianta, ma con una maggiore concentrazione nell’uva di sostanze aromatiche; per questo motivo c’è chi si è spinto fino ad arrivare a densità di 10000 piante per ettaro. Permangono tuttavia, specialmente nei vigneti più vecchi, le forme di allevamento più alte, come il Sylvoz (modificato Miotto) e la Pergola, con una distanza tra le file che arriva fino a 3 metri (4 per la pergola). 1.3 Varietà Il vitigno principe in questa zona è sicuramente lo Chardonnay, che risulta essere largamente il

più coltivato in tutta la Franciacorta; a seguire, per la produzione del Metodo Classico, ci sono il Pinot bianco e il Pinot nero. Chardonnay Varietà che si è diffusa in tutto il mondo, per la sua facile adattabilità, ma che soltanto in particolari climi e terreni riesce a manifestare le migliori caratteristiche nei vini. Le origini di questo vitigno sono state contese tra Champagne e Borgogna per molto tempo. A sostegno della tesi della Borgogna è l’origine del nome, dovuto ad un piccolo paese del Mâconnais, chiamato appunto Chardonnay, dal francese chardon, che significa cardo. A dire il vero esistono più di cento sinonimi per questa varietà, come riportava Molon nella sua opera Ampelografia del 1906. A sostegno della tesi della Champagne sembra ci sia invece la prima descrizione, anche se parecchio incerta, da parte di un abate, che paragonava il colore dell’uva a quello del Falerno, allora considerata la varietà più nobile a cui fare riferimento. Solo le più recenti tecniche di indagine molecolare hanno permesso di evidenziare l’origine di questo vitigno; incredibilmente si scopre che un “genitore” risulta proprio il Pinot nero, che, incrociandosi con il Gouais,

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vitigno a bacca bianca, ha creato numerose varietà attualmente coltivate in Borgogna, quali ad esempio Gamay, Aligoté e altri. Ad avvalorare questa ricerca c’è il fatto che in Italia una netta e definitiva distinzione con il Pinot bianco, derivato anch’esso da una mutazione del Pinot nero, viene fatta solamente nel 1978. Numerosi sono i sinonimi che caratterizzano questa varietà - tra i quali appunto Pinot Chardonnay o Pinot giallo - che dimostrano le difficoltà storiche nel differenziare queste due varietà - fino a Borgogna bianco, ad indicarne comunque l’origine. Alla base di questa problematica distinzione tra i due “parenti” c’è l’elevata variabilità “intravarietale”, cioè numerosi cloni, che sono stati diffusi in diverse zone del mondo, vista la facile adattabilità a differenti situazioni climatiche e pedologiche. La diffusione dello Chardonnay in Francia avviene tra il XVIII ed il XIX secolo, a sèguito di un inverno molto rigido, quello del 1709, che distrusse gran parte dei vigneti europei; più recentemente, nel secolo appena trascorso, si ha una rapida “colonizzazione” dei nuovi impianti in Europa e nel resto del mondo: Australia, California, Sud Africa e Cile, solo per citare le nazioni più importanti.


Alla base di questo successo planetario ci sono caratteristiche comuni a tutti i vitigni “ubiquitari”: Buona

capacità

di

accumulo

degli

zuccheri; Buon controllo dell’acidità tartarica; Buona tolleranza alla siccità; Buon controllo nella sintesi di metaboliti secondari, quali ad esempio le sostanze aromatiche. A queste peculiarità si aggiungono alcuni aspetti positivi propri dello Chardonnay: Buona tolleranza alle minime termiche; Elevata tolleranza alla clorosi ferrica (una difficoltà nell’assorbire ferro da parte delle radici); Buona fertilità delle gemme basali soprattutto nei climi caldi; Vigore vegetativo equilibrato con una rapida crescita primaverile dei germogli e una facile gestione del vigneto; Elevata disponibilità di cloni con diverse attitudini (sia per i bianchi fermi, sia per gli spumanti); Buona adattabilità alla vendemmia meccanica; Discreta tolleranza alla botrite (una malattia fungina che fa marcire i grappoli soprattutto in presenza di elevata umidità).

La coltivazione intensa di questo vitigno nella Franciacorta risale agli anni ’50, quando veniva piantato assieme al Pinot bianco, anche perché, come già ricordato, i vitigni spesso venivano confusi. Solo agli inizi degli anni ’70 fu chiarita la differenza ampelografica e genetica tra le due varietà e la diffusione dello Chardonnay crebbe esponenzialmente, grazie anche al fatto che si mostrava più idoneo per la rifermentazione in bottiglia, per un maggiore controllo dell’acidità e una discreta tolleranza alla botrite. Vitigno principale nel vino base, diventa predominante, se non addirittura unico, nel Satèn, apportando aromi fruttati e floreali. Alcuni produttori lo vinificano nel legno, prima del tiraggio, apportando lievi note di vaniglia e di nocciola. Pinot bianco Spesso confuso con lo Chardonnay, come il Pinot grigio deriva da una mutazione gemmaria del Pinot nero. È il secondo vitigno a bacca bianca previsto nel disciplinare del Franciacorta DOCG, fino ad un massimo del 50%, anche se in realtà il suo apporto risulta assai minore e tendenzialmente la sua presenza è quasi nulla nei nuovi vigneti.

Pinot nero Originario della Francia, dove è coltivato soprattutto in Borgogna e nello Champagne, si è diffuso in tutto il mondo, risultando però idoneo e fornendo vini pregiati soltanto in particolari situazioni dove clima e terreno lo consentono. Varietà che può rientrare in tutti i prodotti Franciacorta, anche come maggioritario, con l’esclusione del Satèn, dove il suo impiego non è previsto. Viene utilizzato nelle versioni in bianco come complementare allo Chardonnay per conferire struttura e corpo al vino. Diventa invece fondamentale nella versione rosé dove è presente minimo al 25%. 1.4 L’interazione tra vitigno e ambiente La possibilità di conoscere i suoli e di poter scegliere i diversi cloni, piante della stessa varietà, ma con differenti caratteristiche produttive, ha portato a selezioni che permettono di ottenere uva con caratteristiche diverse, riscontrabili nelle differenti tipologie di Franciacorta. Fondamentale è il buon livello acidico nelle uve, necessario per mantenere una sensazione di freschezza anche dopo la seconda rifermentazione. A tale concentrazione di acidi organici corrisponde un livello zuccherino non troppo elevato, per evitare alte gradazioni alcoliche nei vini base, fattore limitante per la presa di spuma in bottiglia. Una gradazione alcolica troppo elevata apporterebbe comunque squilibrio gustativo in uno spumante. Acidità, concentrazione zuccherina e composti aromatici sono parametri che bisogna mantenere sotto controllo durante la maturazione delle uve; proprio per questo la scelta del momento migliore per la vendemmia risulta fondamentale, facendo attenzione a non cedere alla tentazione di anticipare questa operazione, per avere maggiore acidità, ma con il rischio di portare in cantina uva caratterizzata da eccessivi sentori vegetali e che forniranno poi Bollicine dal gusto grossolano ed erbaceo. È proprio in quest’ottica che si è inserito il progetto di viticoltura di precisione per avere un attento e completo monitoraggio delle maturazioni su tutto il territorio. In Franciacorta solitamente la raccolta inizia a metà agosto, con differenze da annata ad annata, in base all’andamento climatico della stagione, all’esposizione, all’altitudine e alla conformazione del suolo del vigneto. La vendemmia per il Franciacorta deve essere obbligatoriamente effettuata a mano, come prevede il disciplinare, che impone anche l’utilizzo di contenitori di capacità inferiore ai 200 kg e comunque di altezza inferiore ai 40 cm;

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per tale scopo solitamente vengono utilizzate cassette da circa 20 kg. Queste precauzioni sono prese per evitare lo schiacciamento degli acini, fenomeno che implica un abbassamento della qualità dell’uva. Lo strumento scientifico della zonazione, che ha studiato l’interazione tra vitigno, ambiente e clima, evidenziando la natura pedologica e le attitudini colturali delle singole aree di produzione per fornire indicazioni pratiche sulla scelta delle varietà da impiantare come nelle scelte agronomiche da effettuare, ha individuato, all’interno di una così complessa struttura geologica, sei unità vocazionali: Morenico sottile Le vigne, in questa unità vocazionale, hanno un potenziale vegetativo più basso con una produzione di uva contenuta. La maturazione dell’uva risulta più precoce della media, con concentrazioni di zucchero elevate e minore acidità. Il vino ottenuto da queste uve è caratterizzato da una buona complessità con note speziate e vegetali fresche ed intense. Morenico profondo I suoli sono molto profondi con parecchio scheletro (particelle del terreno di diametro maggiore ai 2 mm) che permettono un buon drenaggio dell’acqua, garantendo una maturazione delle uve nella media della Franciacorta. I vini di questa unità vocazionale mettono in evidenza soprattutto i sentori di frutta secca e di spezie, con una buona persistenza gustativa. Colluvi gradonati La produzione per ceppo è nella norma, così come il potenziale vegetativo delle piante. Le uve che se ne ottengono hanno acidità e zuccheri nella media dell’intero areale di produzione, dando Bollicine caratterizzate da una buona persistenza e complessità, con profumi speziati e vegetali di buona intensità. Colluvi distali Una maggiore produzione di uva, insieme ad un intenso potenziale vegetativo, forniscono mosti con un buon tenore acidico, necessario per esaltare la freschezza dei vini dopo la seconda rifermentazione. I profumi floreali sono i descrittori che maggiormente identificano i vini di questa unità. Fluvioglaciale Alto potenziale vegetativo e produttivo per le vigne piantate in questa unità vocazionale, con uve che mantengono buone concentrazioni di acidi organici durante la maturazione, che avviene nella media della Franciacorta. I sentori che maggiormente caratterizzano i vini sono quelli di frutta secca.


La zonazione viticola della Franciacorta, attraverso lo studio dell’interazione tra vitigno, clima e suolo ha permesso di individuare sei ambienti omogenei (Unità vocazionali) per la coltivazione dell’uva.

Differenze evidenziate dalla zonazione viticola tra i principali descrittori dei vini ottenuti dalle uve provenienti dalle sei diverse unità vocazionali della Franciacorta.

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Depositi fini Anche qui si ha una produttività elevata, con una maturazione delle uve più tardiva rispetto alle altre unità vocazionali. Tenori di acidità elevati e concentrazioni zuccherine non eccessivamente alte sono le caratteristiche delle uve, che daranno vita a vini di buona persistenza gustativa e dalle intense note floreali. 2. Aspetti enologici Lo sforzo dei produttori è stato oggi ampiamente ripagato. La Franciacorta ha fatto in questi anni incetta di numerosi premi in concorsi nazionali ed internazionali, raggiungendo valutazioni assai positive per molte aziende da parte di tutte le guide di settore. Una qualità diffusa sul territorio a cui si aggiunge la possibilità di marcare le differenze aziendali attraverso diverse elaborazioni in cantina. Dal minimo intervento, praticamente nessuno, lasciando il vino tal quale, con il Pas Opéré, in cui viene utilizzato il medesimo vino per colmare le bottiglie dopo la sboccatura, fino all’aggiunta dello sciroppo di dosaggio che, segreto di enologi e cantinieri, impone una firma esclusiva al vino. Tipologie e vinificazione Sono cinque le tipologie previste: Franciacorta, Franciacorta Rosé, Franciacorta Satèn, Franciacorta Millesimato e Franciacorta Riserva. La produzione per ettaro deve essere inferiore alle 10 tonnellate per tutte le tipologie, con una resa in vino base, prima della rifermentazione in bottiglia, al massimo del 65%, che corrisponde a 65 litri di vino da 100 kg di uva vendemmiata. Per ognuna di queste tipologie corrisponde una diversa gamma di Bollicine in base agli zuccheri aggiunti con lo sciroppo di dosaggio (liqueur d’expédition) con l’esclusione del Dosaggio Zero (Pas Dosé) versione in cui non viene aggiunta alcuna soluzione zuccherina, ma solamente un rabbocco con lo stesso vino e corrisponde alla versione più secca del Franciacorta. Un’altra peculiarità della Franciacorta è l’introduzione del Satèn, un marchio registrato inizialmente dal Consorzio per la Tutela del Franciacorta, previsto ora anche nel disciplinare DOCG del 2008. Questa tipologia nasce esclusivamente da uva a bacca bianca (Blanc de blancs), in pratica soltanto Chardonnay, varietà che apporta morbidezza al vino, con una pressione massima alla fine della rifermentazione di massimo 5 atmosfere, contro le oltre 6 previste per gli altri prodotti. Vinificato soltanto nella versione Brut, il Satèn appare come “satinato”, cioè il più morbido e il

più vellutato della gamma Franciacorta. Il Millesimato ha la caratteristica di essere prodotto solo in annate eccezionali, utilizzando esclusivamente le uve raccolte in quella stagione, a differenza della versione base, in cui lo stile della cantina produttrice nasce dall’abilità di “tagliare” vini base provenienti da annate differenti per ottenere una costante qualitativa e gustativa, a prescindere dalle differenze tra un’annata e l’altra. La Riserva è un Franciacorta millesimato che affina per più tempo sulle proprie fecce fini. Per entrambi, millesimato e riserva, è prevista la menzione dell’anno della vendemmia in etichetta. Il Rosé deve il suo colore al Pinot nero, previsto al minimo per il 25%, anche se tale percentuale sale notevolmente per la sua produzione. Il periodo di affinamento sui lieviti, cioè il periodo che intercorre tra il tiraggio, la seconda fermentazionecheproducelatipicaeffervescenza degli spumanti, fino alla sboccatura - operazione che permette l’eliminazione dei depositi della seconda fermentazione - è di minimo 18 mesi per la versione base, minimo 24 mesi per il Rosé e per il Satèn, minimo 30 mesi per il millesimato e 60 per la Riserva. Il tappo deve essere esclusivamente in sughero. Per quanto riguarda i residui zuccherini va ricordato che il disciplinare prevede le tipologie:

Dosaggio Zero (Pas Dosé) per il Franciacorta, Franciacorta Rosé, Franciacorta Millesimato e Franciacorta Riserva: ottenuto senza l’aggiunta di sciroppo zuccherino. Lo zucchero residuo è di massimo 3 g/l, presente dopo la rifermentazione in bottiglia; Extra Brut previsto per il Franciacorta, FranciacortaRosé,FranciacortaMillesimato e Franciacorta Riserva: quando gli zuccheri in bottiglia arrivano a massimo 6 g/l; Brut per Franciacorta, Franciacorta Satèn, Franciacorta Rosé, Franciacorta Millesimato e Franciacorta Riserva: lo zucchero residuo è al massimo 15 g/l; Extra Dry previsto per il Franciacorta, Franciacorta Rosé e Franciacorta Millesimato: gli zuccheri residui sono compresi tra i 12 e i 20 g/l; Sec (Dry) (Franciacorta e Franciacorta Rosé): con zuccheri compresi tra i 17 e i 35 g/l; Demi Sec (Franciacorta e Franciacorta Rosé): con zuccheri compresi tra i 33 e i 50 g/l;

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2.1 Il profilo sensoriale dei vini Franciacorta Spuma intensa con perlage fine e persistente, colore del vino che può variare dal giallo paglierino con riflessi verdognoli a dorati in funzione delle varietà utilizzate e del tipo di vinificazione. I profumi ricordano i lieviti, come la crosta di pane, sentori anche di agrumi e di frutta secca. In bocca l’anidride carbonica risulta intensa e, insieme all’acidità, conferisce freschezza al vino. Retrogusto che può variare dal piacevolmente amarognolo, nelle tipologie più secche, Dosaggio Zero e Brut, fino a leggermente dolce nella versione Extra Dry e Demi Sec. Franciacorta Satèn Spuma intensa e cremosa, perlage fine e consistente, colore giallo paglierino intenso. Profumi di frutta matura, esotica come l’ananas e la banana, e agrumi. Note di fiori bianchi e frutta secca. Effervescenza intensa, ma, per la sua minore pressione, con una notevole morbidezza. Il gusto è secco (prevista solo la versione Brut) con una lunga persistenza in bocca. Franciacorta Rosé Spuma intensa e di buona persistenza con perlage continuo. Colore rosato da scarico a brillante con riflessi che possono tendere al ramato. I profumi ricordano sia l’aroma di lievito, sia delicati sentori di frutti di bosco. Intensa la sensazione data dalle bollicine e corpo consistente dovuto alla presenza del Pinot nero. Franciacorta Millesimato Profilo sensoriale legato all’annata riportata in etichetta. Spuma intensa e di buona finezza. Il colore può variare da giallo paglierino brillante tendente al verdognolo fino al dorato. I profumi risentono del maggiore contatto con i lieviti, e sono ben percepibili i sentori di lievito; non mancano comunque le note apportate dal vino base, come quelle fruttate e floreali. In bocca l’intensa effervescenza e l’acidità conferiscono freschezza al vino. Il vino ha una discreta morbidezza e intensa persistenza. Franciacorta Riserva Spuma intensa e persistente. Colore giallo paglierino spesso con riflessi tendenti al dorato. Profumi che richiamano gli odori intensi dei lieviti e le note fruttate e floreali. Il gusto risente della lunga permanenza dei lieviti, che apportano notevole corpo e struttura; intensa è anche la morbidezza.


METODO CLASSICO di territorio



BELLAVISTA Mentre mi avvicino a Erbusco penso all’azienda Bellavista, il cui nome echeggia spesso negli svariati angoli di queste “Terre Franche”, ma soprattutto ripenso con affetto e grande stima a Vittorio Moretti, il deus ex machina dell’azienda e a quel nostro primo incontro, che ha inciso fortemente nella nostra amicizia. Rammento che ci trovammo nella sua casa in cima alla collina, dalla quale ho potuto godere di uno dei paesaggi più belli della zona, scoprendomi ad ammirare un orizzonte che da una parte si proietta verso il lago d’Iseo e dall’altra disegna, con un perfetto ovale, la valle morenica sottostante, che circoscrive perfettamente la Franciacorta, dando la netta e chiara sensazione del punto preciso in cui si sono fermati, migliaia di anni fa, i ghiacciai che, con i loro spostamenti, hanno creato e caratterizzato questi terreni dove oggi ondeggia un mare verde di vigneti. Un “belvedere”, davanti al quale immaginai come doveva essere questa terra agli albori dell’illuminato Medioevo e quale la vita degli uomini che l’abitavano e il vino che qui si produceva anche solo cento anni fa: sicuramente ben altra cosa rispetto alle migliaia di migliaia di bollicine che, oggi, rendono unica questa zona. Ripercorro le strade dei ricordi come è facile che mi succeda quando guido, e distaccandomi un po’ dal paesaggio che sto attraversando e che mi sta portando nuovamente a Bellavista, mi ricollego al pensiero di Vittorio e all’immagine che egli riesce a dare di sé a chi lo incontra per la prima volta. Una figura che rispecchia grandi doti umane, abbinate ad un’innata leadership: un giudizio che scaturisce dal suo modo di fare e dal suo essere assai deciso, sicuro di sé e delle proprie scelte. Personalmente ricordo che ciò che più mi colpì di lui non furono le sue caratteristiche manageriali, ma la sua sensibilità e il suo sguardo buono, oltre alla consapevolezza posseduta solo da chi sa quali sono le sue origini e non le ha dimenticate e a quel suo perenne e fanciullesco desiderio, che riesce ancora ad illuminargli gli occhi, di cimentarsi e curiosare nella vita. Un uomo che appartiene a quella ristretta schiera di persone che non fanno parte di “nessun tempo” e che io classifico come “immortali”, poiché hanno un filo diretto con il destino, avendo scelto di viverlo e di impostarlo affinché le cose intorno a loro accadano. Un’altra impressione che ebbi all’epoca di quell’incontro, fu di tro-

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varmi davanti a chi ha saputo dar retta al cuore, basandosi su quei semplici e quanto mai elementari concetti che contemplano la dedizione al lavoro, la passione per le cose e l’etica che deve sempre indirizzarle: tutte caratteristiche che hanno trasformato un piccolo imprenditore edile in un geniale direttore d’orchestra di una grande holding che, oggi, contempla diversi rami operativi, fra cui quello edilizio, quello delle costruzioni navali, quello dell’hôtellerie e della ristorazione e quello vitivinicolo. Andando in giro, e sentendo parlare di lui, avevo scoperto che tra le più importanti doti che lo rendono “grande” non ci sono solo l’intuito o l’arguzia, con le quali regola la sua crescita imprenditoriale, ma l’attenzione che mette nella scelta degli uomini preposti a ricoprire i ruoli chiave nelle sue aziende. Il successo, del resto, si misura anche attraverso la conoscenza delle risorse umane di cui si abbisogna e con la scelta di uomini giusti da utilizzare al posto giusto. Collaboratori adeguati che gli hanno permesso di dar vita ad un’azienda efficiente, ma dal cuore profondamente umano. Quando gli chiesi se ciò era vero, mi raccontò che questa selezione l’ha sempre basata su un’empatia di fondo supportata dal dialogo, da una specifica analisi e dal rapporto che si instaura con le persone, che va al di là dei meriti riconosciuti e dei requisiti presentati. Indubbiamente nessuno può negare che Vittorio sia un uomo di successo, ma, la cosa bella, almeno per quanto mi riguarda, è la sua capacità di conquistarsi il rispetto della gente e questo non dipende dalle sue possibilità economiche, ma dal fatto che sa trasferire, a chi ha voglia di ascoltare, splendide sensazioni che gli scaturiscono dall’anima; sa tener viva la memoria di quella gioventù trascorsa pedalando in bicicletta per Milano, quella delle amicizie di un tempo e delle persone care come il nonno Francesco - un omino magro, preciso, immediato e schietto detto Cichì Fatur (il piccolo fattore) - al cui ricordo non ebbe remore a far scendere due grosse lacrime che gli solcarono il viso. Ormai sono arrivato e non c’è più tempo per pensare a quel primo incontro. C’è solo da scrivere un’altra pagina di questa amicizia che mi lega a Vittorio, nella speranza che davanti a un suo grandioso Franciacorta Cuvée Brut, possa ancora svelarmi altri aspetti del suo essere e invogliarmi ancora di più a scrivere un libro su di lui.


CARMEN, MARIELLA, FRANCESCA, VITTORIO, VALENTINA MORETTI


BELLAVISTA


FRANCIACORTA DOCG CUVÉE BRUT S.A. Il vino, Chardonnay (80%) Pinot nero e Pinot bianco (20%), nasce dall’unione di almeno 30 delle 90 selezioni ottenute in cantina e provenienti dai 107 appezzamenti coltivati in 10 comuni della Franciacorta. I terreni sono di origine morenica, formatisi durante l’ultima glaciazione, debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo, con altitudini medie tra i 180 e i 380 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, totalmente manuale, che di solito avviene nell’ultima settimana di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 24 ore di decantazione naturale alla temperatura controllata di 10°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), per il 65% in tank di acciaio e per il 35% in pièces da 228 litri di rovere bianco. In questi contenitori i vini rimangono fino all’aprile successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle selezioni e alla realizzazione della cuvée; segue l’imbottigliamento per la seconda fermentazione. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Un Franciacorta dalla spuma esuberante e compatta, con un fine perlage intenso e persistente; le note cromatiche sono caratterizzate da un colore giallo paglierino vivido e scintillante. Al naso è intenso, con sentori di mandorle fresche e note vegetali di salvia che si amalgamano a nuances di uva spina. Il bouquet olfattivo si rivela man mano più interessante con percezioni di frutta a polpa bianca e nocciola, lasciando nel finale piacevoli sensazioni agrumate. La beva è accattivante, retta da grande equilibrio, con una struttura compatta di spigliata freschezza che rende il vino croccante.

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BERLUCCHI GUIDO L’incontro con Franco Ziliani è molto emozionante, poiché mi ritrovo davanti a colui che ha contribuito a disegnare e a colorare, in chiave moderna, la storia degli Spumanti Metodo Classico italiani. Un uomo piccolo e un po’ paffutello, vivace, esuberante, di grande simpatia che, incurante dei suoi settantaquattro anni, sprigiona vitalità da ogni suo dove ed è amante della vita come un diciottenne. Che sia l’effetto delle bollicine? Speriamo sia così, mi dico. Mi riprometto, sicuramente, nel divenire di questo mio viaggio che mi condurrà in giro per l’Italia, di verificare se davvero questi vini facciano un effetto del genere. Chi sa mai che... Gioioso come pochi franciacortini fin qui incontrati, si dimostra subito disponibile a raccontarmi la sua verità sul vino italiano che, rispetto ai tanti frammenti di questo multiforme mondo enologico, mi sembra che per lui abbia una sola declinazione: quella spumantistica. Come potrei contraddirlo? Proprio attraverso il suo decennale impegno, è riuscito a dare agli Spumanti Metodo Classico italiani una connotazione e una visibilità ormai riconosciuta da tutti. Lo ascolto mentre mi racconta di suo padre e della frequentazione della scuola di enologia di Alba, il cui presidente, a quei tempi, era il Conte Marone Cinzano. Una scuola che lo condusse a cimentarsi, insieme ai piemontesi, in un piano di studi ben definito per capire quale fosse l’applicazione, in viticoltura, delle regole alla base della centenaria esperienza francese e che, introdotte in Italia, di lì a poco, avrebbero innescato una profonda trasformazione con una lunga serie di annessi e connessi e di fatti positivi e negativi. Ma da dove era partito il mito e la leggenda della Berlucchi, mi domando? Senza fretta vengo a scoprire così che tutto ebbe inizio durante le vacanze di Natale del 1951, quando Franco rimase folgorato dal sapore, dal colore e dal perlage di due bottiglie di Champagne che suo padre aveva portato a casa per le festività: dopo quella degustazione si ripromise di voler arrivare, un giorno, a produrre vini simili a quelle bollicine transalpine. Senza remo-

re, mi confessa, però, che quell’iniziale promessa fatta a se stesso lo condizionò per molti anni, portandolo ad inseguire un mito che comprese, molto tempo dopo, essere impossibile da raggiungere, ma non per sua imperizia o incompetenza, ma per il semplice fatto che il materiale genetico e vitivinicolo che aveva a disposizione e l’ampelografia delle aree dove operava non avevano niente a che vedere con quelle francesi. Così, invece di aspirare a produrre un buon Champagne, decise che, forse, avrebbe fatto meglio a realizzare un grande, e caratterialmente valido, Spumante italiano. La mia predisposizione alla tipicità mi porta a condividere quella sua presa di coscienza che, però, non so quando sia avvenuta, né quanto abbia modificato l’indirizzo e le strategie dell’azienda spumantistica che, nel frattempo, aveva dato vita insieme al Conte Guido Berlucchi, di cui, minuziosamente e con dovizia di particolari, mi racconta l’incontro, avvenuto al mercato di Rovato, dove si erano dati appuntamento e dove lo aveva riconosciuto fra un gran numero di persone, poiché, fra tutte, si distingueva per stile ed eleganza. Lo lascio parlare. Del resto sono qui per ascoltare e annoto sul mio taccuino gli insuccessi e le difficoltà iniziali, quando non c’era nessuno ad insegnargli e non aveva in tasca alcuna ricetta prestampata da seguire, ma solo la cocciuta volontà di provare e riprovare dove prima aveva sbagliato, cercando di comprendere e di correggere gli errori, fino a giungere a quelle prime 3.000 bottiglie del 1961 che, sorprendendomi ancora una volta, mi confessa essere state per metà rosé, dato che a lui piacciono particolarmente quelle note di vinosità che, oggi, tutti sembrano aver scoperto. Sentendolo narrare percepisco che, a monte di tutto, c’è sempre stata una passione sconfinata e quella sua storia di un conte che non era un vero conte e di un giovane con tanto amore per il vino e poca esperienza, assomiglia ad una piacevole favola che si snoda lungo questi ultimi cinquant’anni, tanti quanti sono, poi, gli anni di vita dell’azienda; anni che ne hanno decretato il successo, consentendo alla Berlucchi di mantenere inalterato quel prestigio conquistato fin dai suoi albori.

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FRANCO ZILIANI


BERLUCCHI GUIDO


VSQ CUVÉE IMPERIALE BRUT VINTAGE MILLESIMATO Lo spumante è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (50%) e Pinot nero (50%) provenienti da vigneti scelti dall’azienda, nelle zone più vocate della Franciacorta, del Trentino e dell’Oltrepò Pavese, su terreni situati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 600 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 12-20 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 15°C si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 16°C), per l’80% in tank di acciaio inox e per il 20% in barriques usate. In questi contenitori i vini rimangono fino al marzo successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite e all’imbottigliamento con l’aggiunta del liqueur de tirage. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 60 mesi, al termine dei quali si procede al remuage meccanico delle bottiglie (fase che dura 7 giorni), al dégorgement (sboccatura), e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Lo spumante colora il bicchiere di un giallo paglierino scarico ravvivato da un perlage fine e persistente; al naso, intrigante e fresco, propone note balsamiche che accompagnano un po’ tutta la fase degustativa, amalgamandosi ad altre più dolci e fruttate (mela e pera) e a belle percezioni agrumate che si aprono a nuances vegetali di timo. Piacevole all’olfatto, nella chiusura offre sentori di mandorla. In bocca le bollicine avvolgono delicatamente il palato, affascinando con una percezione di setosità, mentre l’acidità equilibrata e la vena sapida lo rendono lungo e persistente.

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CA’ DEL BOSCO Mi piace che siano in molti a considerare il vino un prodotto “nobile” e ciò non credo dipenda dalla genealogia delle innumerevoli casate che operano in viticoltura, né da quell’altezzoso, sibillino e regale linguaggio che, in questi ultimi decenni, ha contribuito tuttavia a renderlo indecifrabile. Voglio invece sperare che classificarlo in questo modo dipenda dal fatto che sempre più persone hanno compreso quale “nobile” arte necessiti il produrlo. Nobile quindi, perché chi lo produce deve avere un animo signorile e deve essere capace di rispettare e rapportarsi con la natura, con il flusso delle stagioni e, soprattutto, con il tempo. È questo il bello del lavoro di vignaiolo, il cui vino deve rappresentare la riprova e l’esaltazione del suo talento inventivo e della sua capacità espressiva, al pari di ciò che altri fanno con la pittura, la scultura o l’architettura. Tutto deve essere, come in quelle arti, rapportato all’applicazione pratica del proprio saper fare, nei suoi più alti livelli, coniugandolo con ciò che lo circonda. Chi produce vino deve possedere la conoscenza della scienza genetica, di quella ampelografica e della tecnica produttiva; deve, inoltre, sapere quali siano i limiti della propria cultura vitivinicola e imprenditoriale, “costruita” in quella tradizione a cui appartiene, non trascurando le potenzialità della terra che ha a disposizione. Un artifizio senza regole, in cui è difficile districarsi e che comporta la costruzione di un ipotetico pentagono dai cinque lati uguali, i quali, non essendo mai statici, devono essere ogni anno posti in equilibrio fra loro. Sono questi gli aspetti che concorrono a far sì che il nostro lavoro possa essere identificato con una nobile arte, anche se tutto non è riconducibile soltanto alle personali doti artistiche, poiché la natura è molto più complessa e le variabili che interagiscono molteplici e certe volte anche incontrollabili. È per questo che non bastano neppure la conoscenza o l’atten-

ta lettura delle potenzialità a nostra disposizione per far sì che le cose accadano. Il risultato finale non dipende da ciò che facciamo, in cantina o nelle vigne, ma dall’equilibrio che siamo riusciti a costruire con tutti gli elementi che ho menzionato. Svolgere questo compito è stato per me un impegno gravoso e lo stesso ha assorbito ogni mia risorsa, spingendomi a mettere in secondo piano gli affetti, la famiglia, l’educazione dei miei figli che ho visto crescere quasi senza accorgermene. Inoltre, comprendendo fin da subito che qualsiasi mio sforzo sarebbe stato vano senza il supporto di un territorio, in questi anni mi sono impegnato per valorizzarlo, cercando di far comprendere ai produttori franciacortini che puntare all’eccellenza non deve essere un obiettivo finale, ma una quotidiana abitudine. Per riuscire meglio in quest’opera di convincimento ho accettato, ultimamente, anche l’incarico non onorifico di Presidente del Consorzio della Franciacorta, con lo scopo di richiedere, proprio a questa base associativa, una trasformazione degli schemi mentali, oggi più che mai indispensabile per fare un ulteriore salto qualitativo intorno ad un progetto comune e di più ampio respiro che non può essere legato solo al business o alla produzione fine a se stessa: idee del genere, come si è visto in un recente passato, hanno generato solo mostri senz’anima.

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MAURIZIO ZANELLA


CA’ DEL BOSCO


FRANCIACORTA DOCG CUVÉE PRESTIGE BRUT Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (75%), Pinot nero (15%) e Pinot bianco (10%), provenienti da ben 134 vigne, situate in vari comuni della Franciacorta, su terreni morenici, in parte profondi, ma mediamente sottili e fluvio-glaciali, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo a un’altitudine compresa tra i 200 e i 450 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 12 ore decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), per l’80% in tini di acciaio inox e per il 20% in barriques di rovere francese. In questi contenitori il vino rimane fino al marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite e alla realizzazione della cuvée (con un 20% delle annate precedenti); segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage. Il vino matura sui lieviti in cantina per 28 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Di un bel colore giallo paglierino con brillanti riflessi dorati, ravviva il bicchiere con un perlage fine, leggero e persistente. Al naso è ampio, affascinante e profondo, offrendo piacevolissime note biscottate e di panificazione che si combinano con una bella freschezza giocata su percezioni floreali di glicine, sambuco, garofano ed erba medica. Il viaggio olfattivo prosegue e si amplia con l’aggiunta di note fruttate di mela, pera, ananas e agrumi per poi risalire ad altre di crema chantilly e nocciola tostata. In bocca è piacevolmente fresco e propone un grande equilibrio fra il tono sapido e quello acido; lungo e persistente, sorprende, nel lungo finale, con un accenno di liquirizia.

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CASTELLO BONOMI Lascio la parte della Franciacorta che si affaccia sul lago d’Iseo; quella di Corte Franca, Provaglio, Erbusco per intenderci, per dirigermi a Rovato e proseguire poi verso Coccaglio che si trova, invece, al limite sud-ovest del territorio della DOCG, proprio ai piedi del Monte Orfano, che misura poco più di 450 metri s.l.m. e che, insieme a Monte Alto (650 metri), Monte Cognolo (671 metri), Colma Alta (709 metri), Monte Delma (387 metri) e ad est Sella dell’Oca (860 metri), Camaldoli (522 metri) e Monte Peso (490 metri), costituisce quell’anfiteatro naturale che delimita la Franciacorta e che si è venuto a formare nel Pleistocene, il periodo più recente dell’era Quaternaria, durante il quale vi è stato l’espandersi e il successivo contrarsi dei ghiacci, provenienti dall’odierna Val Camonica. Questi fenomeni hanno dato origine a diverse morfologie di terreni che rendono unica la Franciacorta, come quelli “fluvioglaciali” caratterizzati da depositi grossolani e da suoli sottili e moderatamente profondi, o quelli “morenici”, caratterizzati da suoli mediamente profondi, presenti su versanti sia di piccola pendenza, dove risultano più o meno sottili, ma soprattutto sulle pendenze elevate che sono assimilabili alle creste moreniche spianate, o quelli “fini” tipici dei suoli limosi e profondi che si trovano nei cordoni e nelle piane di ritiro del ghiacciaio del Sebino: tutti terreni dove, in prevalenza, si coltiva lo Chardonnay. Vi sono poi le “colline calcaree” che presentano, invece, terreni con una forte presenza di calcare nei substrati rocciosi dove risulta interessante l’allevamento del Pinot nero, che è poi il motivo che oggi mi conduce a Monte Orfano e, precisamente, a Castello Bonomi, un “Castellino”, come viene chiamato da queste parti. Dipinto con strisce orizzontali ocra e gialle fu progettato dall’architetto Antonio Tagliaferri su richiesta di Bortolo Tonelli, figlio del compagno di cella di Silvio Pellico. L’azienda si estende su una superficie di 24 ettari, situati a sud-ovest, sulle pendici del Monte Orfano ed è da poco passata di mano dall’ingegner Bonomi alla famiglia Paladin, la quale ha una lunga tradizione nel mondo del vino. Valentino Paladin fondò l’azienda omonima nel 1962, ad Annone Veneto, in provincia di Ve-

nezia; in essa presto entrarono da protagonisti i figli Carlo, Lucia e Roberto che crearono anche la Bosco del Merlo, con i suoi 94 ettari di vigneti. La famiglia Paladin da alcuni anni ha avviato poi anche un importante progetto in Toscana con Vèscine, azienda agricola, cantina in borgo medioevale e relais nel cuore del Chianti Classico ed è arrivata infine a questa storica azienda franciacortina fondata alla fine dell’Ottocento. A ricevermi trovo Giovanni Berti, figlio di Lucia Paladin e nipote di Valentino, un ventiduenne dall’aspetto imponente, che sta frequentando un master in economia alla Bocconi di Milano e che, insieme all’enologo Luigi Bersini, mi prospetta una degustazione dei loro cinque vini Metodo Classico, fra cui il buon Rosé a base di Pinot nero, il Brut Millesimato, il Brut Cruperdù, il Satèn e la Cuvée “Lucrezia Extra Brut”, su cui si concentrano le mie attenzioni. Mentre sorseggio, ciò che mi colpisce maggiormente è la passione che Giovanni mette nel raccontarmi le vicissitudini e i successi di questa azienda e quanto la stessa oggi rappresenti, forse, quella di maggior prestigio fra le aziende familiari, che non fanno capo ad un’unica società, ma vivono in maniera autonoma e di luce propria. L’osservo mentre cerca di togliersi da certi impacciati silenzi, ora parlando di vino, ora del pranzo che andremo a consumare fra poco insieme. Senza metterlo ulteriormente in imbarazzo taccio sulle mie riflessioni e questo mi consente di scoprire in lui una riservata timidezza - che mi piace - e di percepire quella semplicità di chi ancora non si è lasciato condizionare da questo mondo del vino nel quale incontro molti che si credono incantatori, altri che si reputano “inventori della polvere da sparo” e altri ancora che sono divertenti burloni che recitano, come personaggi goldoniani, le loro lodi. Giovanni è ancora un “puro” e, salutandolo, gli auguro di rimanere tale il più a lungo possibile, lasciando che dalle cose, pur coinvolgendolo, abbia sempre quel giusto distacco che gli consentirà di avere ben presente che, in fondo, produrre vino, anche se la cosa gli riesce bene, è poca cosa rispetto alla meravigliosa complessità della vita.

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GIOVANNI BERTI


CASTELLO BONOMI


FRANCIACORTA DOCG EXTRA BRUT CUVÉE LUCREZIA MILLESIMATO Il vino base è il frutto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (50-70%) e Chardonnay (50-30%), provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Monte Orfano, nel comune di Coccaglio, su terreni argilloso-calcarei, ad un’altitudine di 250 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che ha luogo nell’ultima decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, prima è sottoposto ad una decantazione statica di 24 ore a temperatura controllata, poi, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica che dura 10-12 giorni a 18°C (fatta svolgere per il Pinot nero in tank d’acciaio e per lo Chardonnay in barriques francesi mediamente tostate di 1° passaggio). In questi contenitori il vino sosta sino all’aprile successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, poi all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in canrtina sui propri lieviti per almeno 72 mesi; si dà poi avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Bella spuma, fine, abbondante, persistente e un perlage pure copioso e durevole; tratti cromatici giallo paglierini che si fanno più carichi e “antichi” nelle loro rifrazioni. Il bouquet ha una certa intensità ed è piuttosto maturo, con intriganti note di frutta secca e sciroppata come mele cotogne; propone ricordi più vegetali di radici e terriccio per un naso di austera morbidezza e di personalità certa, validamente complesso e originale, che sfuma su sensazioni di torroncino, pan brioche e crema bruciata. La beva è coerente e relativamente evoluta, dotata di una freschezza un po’ vegetale che fa da contrasto a sensazioni più avvolgenti di frutta secca, amaretto e torroncino. Piuttosto vinoso e persistente, caldo e intenso, è un vino ricco di personalità.

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CAVALLERI Le sorelle Giulia e Maria Cavalleri mi raccontano che la loro famiglia possedeva terreni a Erbusco già nel 1450 e per secoli il vino prodotto è stato commercializzato sfuso nella vecchia cantina del paese, situata nel palazzo ora sede del Comune. L’azienda attuale, che sto visitando con loro, è nata invece nel 1980, per volontà del nonno Gian Paolo e del padre Giovanni, quest’ultimo deceduto nel 2005. Le osservo mentre mi raccontano del padre e del differente rapporto che ognuna di esse ha avuto con lui, concordando entrambe sul fatto che la sua dipartita ha creato un grande vuoto nei loro cuori. Manca loro la figura paterna, perché, pur nel suo modo austero e burbero di affrontare le cose, emanava un’energia tanto forte da contagiare non solo loro, ma tutti i lavoratori dell’azienda, fino al punto di farli innamorare di ciò che ora insieme a loro sto osservando. Sapevo che quell’innamoramento non era rivolto soltanto a qualcosa di materiale, come i vigneti o la bella cantina, ma era orientato verso qualcosa di più profondo e più importante che riguardava il senso di familiarità che si percepisce in azienda, dove tutti concorrono a rendere serena l’atmosfera che si respira, sentendosi un po’ a casa propria. Così, come succede nelle migliori famiglie, ognuno è proteso a svolgere, nel migliore dei modi, il compito che gli viene affidato, da Giulia e Maria ai loro figli Francesco e Diletta, da Giampaolo Turra ad Aldo Pagnoni. Personalmente trovo fantastica questa cosa, anzi magica direi, perché, mentre me ne parlavano, ho avuto la netta sensazione di riuscire a leggerla chiaramente nei loro occhi, trovando la conferma in quella complicità che le lega e che si rivela, talvolta, attraverso un cenno di assenso dello sguardo e dal rapporto che noto con chi sta preparando la degustazione. Sono spontanee, belle, proprio per la passione che entrambe mettono in questo lavoro che le ha spinte a migliorare ciò che avevano ereditato, senza curarsi troppo del profitto. Mentre parliamo, passeggiamo tutti e tre nel cortile superiore della cantina, proprio di fronte ai vigneti, e non posso fare a meno di pensare a Giovanni, indubbiamente un uomo di grande intelligenza e con un forte carisma, che è riuscito ad essere, contemporaneamente, non solo l’artefice del grande progetto che ha condotto le cantine Cavalleri nel gotha dell’aristocrazia enologica bresciana, ma anche presidente, nonché motore propulsivo, di ben quattro società finanziarie e perfino consigliere d’amministrazione di una banca. Un uomo integerrimo, risoluto, che sapeva, senza dubbio, gestire gli uomini e motivarli; i suoi tratti risaltano vivi, disegnati dalle parole delle due donne che raccontano aneddoti, emozioni, passioni di quel padre, al fianco del quale sono amo-

revolmente cresciute, del quale serbano ricordi indelebili, nonostante egli abbia scadenzato le loro responsabilità e gli impegni in questa cantina. Le trovo compiaciute di tutto questo ed è meraviglioso che parlino, con tanta semplicità, del padre, di questa cantina e dei vini che, nel frattempo, ho iniziato a degustare. Li trovo di alto profilo qualitativo dovuto ad un’evoluzione di tutte le fasi che compongono la filiera produttiva e, soprattutto al tempo di stoccaggio nel caveau sotterraneo dove l’azienda è in grado di lasciar maturare per lungo tempo fino a 400.000 mila bottiglie delle varie vendemmie di Franciacorta DOCG. Spumanti di grande eleganza, sobrietà ed equilibrio, soprattutto il Blanc de Blancs Collezione Millesimato e il Brut Blanc de Blancs base, con il quale brindo al nostro incontro.

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MARIA, GIULIA CAVALLERI


CAVALLERI


FRANCIACORTA DOCG BRUT BLANC DE BLANCS Il vino è una cuvée prodotta dalla vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nel comune di Erbusco, in una zona collinare su terreni morenici, in parte profondi, ma mediamente sottili e fluvio-glaciali, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo, ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 380 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avvia, con l’inoculo di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), per l’80% in tini di acciaio inox e per il 20% in barriques di rovere francese. In questi contenitori il vino svolge in parte la fermentazione malolattica e rimane fino all’aprile successivo alla vendemmia, quando si effettua l’assemblaggio delle partite, l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie (fase che dura 40 giorni), al dégorgement (sboccatura), e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Un perlage fine ed elegante e un colore giallo paglierino tenue con leggeri riflessi dorati sono il preludio a note olfattive sottili e sinuose che spaziano dalla crosta di pane alle sfumature di mela, dalla vaniglia ai fiori bianchi come l’iris. Un naso elegante, morbido e fresco che, sfumata un po’ la vena citrina, propone ricordi di crostata e torta di mele, oltre a piacevoli sensazioni di cedro. In bocca c’è coerenza rispetto alle percezioni olfattive: tanta freschezza e sapidità confermano bella armonia, buon equilibrio e una decisa persistenza.

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COLA Mi ero ripromesso di stare il più possibile su queste terre, per visitare il maggior numero di aziende, così da farmi raccontare, dalle più diverse angolazioni, il complesso mosaico della Franciacorta. L’elenco era lunghissimo e comprendeva oltre cento aziende vitivinicole ed ero sicuro, guardando quel foglio ogni mattina, che non sarei mai riuscito a visitarle tutte, ma che avrei dovuto continuare, poiché fra quelle che avevo già incontrato, ce n’erano state alcune che non mi avevano entusiasmato, altre che mi avevano convinto solo sotto l’aspetto enologico ed erano ancora poche quelle che mi avevano appassionato. Un difficile compito che si era ulteriormente complicato dal fatto che percepivo vi fosse come uno strano scollamento fra la cultura vitivinicola che le aziende cercavano di trasferirmi e quella che respiravo intorno a loro e mi appariva molto distante da quei valori tipici che accompagnano un territorio vitivinicolo. Una forbice ampia fra le due culture, alla cui origine mi sembrava vi fosse il particolare sistema di gestione manageriale-industriale con cui veniva condotta la maggior parte delle aziende fin qui visitate in Franciacorta. Non ero però ancora sicuro se fosse davvero questo fatto a provocare la discrepanza che percepivo. C’erano stati comunque degli episodi che mi avevano spinto a pensare che il territorio avesse una “doppia faccia” formata da una cultura industriale e da una agricola: anche se la “convivenza” portava ad un soddisfacente equilibrio, notavo delle anomalie e atteggiamenti non proprio cordiali da parte di alcuni produttori che si erano dimostrati poco inclini all’accoglienza e ancor meno predisposti a quella sincera e schietta ospitalità che, di solito, accompagna lo spirito di chi opera nel mondo del vino. E quindi, devo dire che nel momento in cui mi sono trovato di fronte a Battista Cola e a suo figlio Stefano, mi sono sentito un po’ spiazzato, poiché mi è bastato uno sguardo per capire quanto essi fossero lontani dall’idea dell’imprenditore-vignaiolo che mi stavo costruendo a proposito dei produttori franciacortini. Ero felice di questo: finalmente incominciavo ad incontrare chi di mestiere faceva davvero il vigneron. In pochi minuti, come solo le persone semplici sanno fare, mi hanno messo a mio agio, accogliendomi in casa come si potrebbe fare con un vecchio conoscente passato di lì per prendere un caffè e al quale si raccontano le ultime novità del paese o di vecchi amici comuni. Sento scivolarmi addosso la loro curiosità di sapere chi io

sia e il loro imbarazzo per non aver ancora ben compreso il motivo della mia visita. Avrei potuto presentarmi prima, ma penso che sarebbe stato un errore interrompere questo magico momento in cui Stefano si è finalmente deciso a parlare, raccontandomi, con entusiasmo, delle sue passate esperienze, della nuova cantina, dei suoi vini, mentre il suo vecchio padre Battista, in silenzio, ascolta la loquacità del figlio, che forse si sente tranquillizzato dalla mia disponibilità a dialogare nell’ambiente familiare della cucina dove essi, abitualmente, desinano tutti i giorni. Scopro così che tutto è nato per volontà di Battista, il quale - mi racconta Stefano - per anni ha condiviso la passione per la terra e per il vino con quella, forse un po’ più redditizia, che lo vedeva impegnato in una piccola impresa edile. Una realtà imprenditoriale che Battista lasciò solo dopo essersi reso conto dell’aumentato interesse del figlio per la cantina. Senza pensarci troppo si fece contagiare dalla passione per la terra e per il vino, trasferendo però nell’azienda vitivinicola quelle solide e basilari regole che lo avevano contraddistinto nell’impresa artigianale e che consistevano nell’applicazione meticolosa e minuziosa di un sistema di lavoro che qualifica il saper fare. Paradossalmente, quello che cerca di farmi capire Battista consiste nel fatto che, secondo lui, non c’è differenza tra fare un buon intonaco o una buona potatura: l’importante è che entrambe le cose vengano realizzate al meglio delle possibilità di ciascuno. Trovo semplice e lineare il pensiero di Battista, saggio pater familiae che ha trasferito tutte le proprie energie sulla terra e sulle vigne, lasciando a Stefano il compito di guidare la cantina e di commercializzare le 60.000 bottiglie di vino prodotte annualmente, suddivise, in parti uguali, fra Franciacorta DOCG Brut, Extra Brut, Satèn, Curtefranca Bianco e Rosso, prodotte dalla vinificazione delle uve provenienti dai 10 ettari di vigneto, situati sui pendii del Monte Alto, nei comuni di Adro e di Corte Franca. Piacevolissima compagnia, questa di Stefano e di Battista, la cui ospitalità è aperta, autentica, spontanea, quasi antica direi. Mi piacciono e non nascondo loro questo mio sentimento, perché sono trasparenti e senza imbarazzo, anche quando mi accompagnano nella visita della cantina, che dura appena qualche minuto, dato che è proprio posta sotto la casa. Nel loro agire percepisco quel sano e genuino principio che ha stimolato centinaia di migliaia di vignaioli in giro per il mondo, che, attraverso il vino, hanno cercato più l’affermazione del loro lavoro che non la gratificazione economica dei sacrifici, i quali, d’altra parte, non sono mai quantificabili finanziariamente. Sono contento perché avrò un’altra bella storia da raccontare, ma credo che, terminato il mio compito, toccherà a loro proseguirla, soprattutto se avranno la volontà e la voglia di continuare a produrre questi personalissimi vini di Franciacorta Metodo Classico.

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BATTISTA, STEFANO COLA


COLA


FRANCIACORTA DOCG BRUT MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Nigoline, nel comune di Corte Franca, su terreni morenici con presenza di sabbia e detriti fluviali, ad un’altitudine compresa tra i 270 e i 300 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo 12-18 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 12°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 1618°C), per il 70% in tank di acciaio e per il 30% in barriques di rovere francese da 3 hl. In questi contenitori il vino rimane fino al marzo dell’anno successivo alla vendemmia, periodo durante il quale vengono effettuati frequenti bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura e dare longevità al vino. Si effettua poi l’assemblaggio delle partite, l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 48 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement (la sboccatura), e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Un buon perlage è il preludio visivo di questo Franciacorta che si presenta con un bel colore giallo paglierino dai riflessi dorati. Al naso sprigiona profumi di frutta a pasta gialla di nespola, ananas e susina matura; il finale riporta invece alla mente la mandorla verde e percezioni floreali di camomilla, sambuco e ginestra. In bocca ha un’entratura sapida, “dura”, ma non fastidiosa, anzi, nell’insieme è “saporito”, piacevole ed elegante; molto buona anche la freschezza che lo rende lungo e persistente al palato.

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CONTADI CASTALDI Osservando la signora Mariella, così affabile e simpatica, non ho la sensazione di essere davanti al Presidente della Contadi Castaldi, poiché ritrovo in lei più l’aspetto di moglie e madre che non quello di donna in carriera. Ciò che la rende diversa e non assimilabile a quelle rigide, tese e sempre impegnate donne che ricoprono ruoli importanti come il suo, è lo sguardo. I suoi occhi parlano di cose d’altri tempi, perché sono quelli di una mater che si prende cura degli altri, che cerca la loro serenità, alimenta gli affetti e i legami familiari ed è musa protettrice delle memorie e dei valori che ha prima imparato e poi trasferito ai figli, gettando un ponte tra passato, presente e futuro. Sentendola parlare, la trovo straordinaria. L’apparente semplicità del racconto, che si snoda attraverso le varie fasi della sua vita, si trasforma in piacevole complessità, perché molte cose hanno contribuito a farla diventare più eterogenea di quanto dia a vedere. A questo deve aver contribuito l’essere cresciuta in una grande famiglia matriarcale, composta da tredici persone, tutte “gestite” dalla nonna Lucia, che aveva un grande senso del dovere e del rispetto nei confronti degli uomini. Mi dice che, a novant’anni, era ancora lei a comandare le nuore, alle quali ricordava in dialetto: “ria iom” (arrivano gli uomini) - e tutte dovevano essere pronte ad accoglierli, ordinate e amorevoli, porgendo i vestiti freschi e puliti e offrendo loro qualcosa da bere. Ascoltandola, ripenso alla mia fanciullezza e alla famiglia di mia madre e insieme a quei ricordi ne scorrono altri, meno piacevoli, come quelli che riguardano le donne che mi sono state al fianco, poco inclini ad alimentare il “focus” domestico e distanti da quel grande senso di rispetto che Mariella ha ancora oggi verso i ruoli e i compiti che distinguono l’uomo e la donna in una famiglia. Sensazioni che mi fanno sentire meno fortunato di suo marito

Vittorio. Sospiro e rimango affascinato dalla naturalezza con la quale espone questi concetti, così profondi e coinvolgenti, che la fanno sembrare ancor più solare di quanto già non sia. Quando parla fa scaturire in me molteplici emozioni che derivano anche da quel suo modo particolare di raccontare, che nasce da uno speciale punto di vista e da un osservatorio privilegiato che unisce amore, ricordi, famiglia e azienda. Certamente deve essere stata l’educazione impartita in famiglia ad averla indotta, per anni, a scegliere di essere solo moglie e madre, occupandosi della casa e dei suoi problemi interni, preoccupandosi di allevare con amore le tre figlie, cercando di agire con esse come una sorta di mediatrice che sa allentare o tirare la corda, a seconda dei casi, per trovare soluzioni che vadano bene a tutti. Un’educazione che l’ha spinta a far propria la molteplicità dei ruoli che deve ricoprire una donna in una famiglia, ma che ora, dopo essere stata moglie e madre, non le ha impedito di diventare imprenditrice. Anche brava, direi... Infatti, parlando con Vittorio Moretti, il marito di Mariella, lo stesso mi aveva confessato che era molto incerto su cosa fare dell’azienda Contadi Castaldi, dato che aveva alternato nel tempo svariate persone alla sua guida senza troppi risultati e ora, invece, era orgoglioso che a prenderne le redini fosse stata sua moglie, la quale, dopo aver messo da parte la sua atavica timidezza, in poco tempo era riuscita a dare un’impronta ben precisa all’azienda che si era dimostrata non concorrenziale rispetto all’altra cantina di famiglia, la Bellavista. Del resto, non poteva essere diversamente e conoscendo Mariella non avrei avuto dubbi in merito. La saluto ed esco dalla Contadi Castaldi dopo aver degustato, con l’enologo, i loro Franciacorta, rimanendo convinto di aver conosciuto una magnifica persona che come imprenditrice, madre e nonna trasmette un’incredibile messaggio di gioia e vitalità.

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MARIELLA MORETTI


CONTADI CASTALDI


FRANCIACORTA DOCG BRUT SOUL SATÈN MILLESIMATO Il vino è un Blanc de blancs prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nei comuni di Erbusco, Nigoline, Torbiato, Gussago e Paderno su terreni morenici, in parte profondi, ma mediamente sottili e fluvio-glaciali, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbiosocalcareo, ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 380 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto fiore ottenuto, dopo 24-36 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 8-10°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 14-16 giorni (a 17°C), per il 50% in tini di acciaio inox, e per il 50% in barriques di rovere bianco a grana fine e media tostatura. In questi contenitori il vino rimane fino all’aprile successivo alla vendemmia, quando si effettua l’assemblaggio delle partite e si realizza la cuvée, con l’inserimento di un 15% di vini delle annate precedenti; segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 70 mesi, al termine dei quali si procede al remuage meccanico delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Questo Franciacorta veste il bicchiere di un colore giallo paglierino dai riflessi dorati che arricchiscono un perlage fine, continuo e persistente; al naso si presenta esuberante, intenso e ricco di dolcezze rinfrescate da note vegetali di felce, maggiorana e timo che si ricompongono in un bouquet goloso di miele, vaniglia e frutta matura (pesca, melone e cedro). In bocca è suadente, vellutato, equilibrato, con una vena sapida che lo sorregge e ci fa intravedere una grande potenzialità evolutiva; chiude con le belle note fruttate percepite al naso.

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FRATELLI BERLUCCHI È una domenica mattina di giugno e mi trovo nell’azienda di proprietà di Francesco, Gabriella, Marcello, Roberto e Pia Donata, i figli di Antonio Berlucchi, un ingegnere idraulico con la passione dell’agricoltura che, all’inizio del secolo passato, costruì dighe e centrali elettriche in Lombardia e che dalla moglie Antonia era soprannominato il “signore delle acque”. È una domenica un po’ strana che alterna atmosfere particolari, tipiche di un clima mutevole, che da un avvicendarsi di nuvole gonfie d’acqua ha dato origine a un cielo terso e da un piacevole e fresco vento primaverile ha lasciato spazio a una brezza un po’ più calda che assomiglia ad uno strano scirocco. Mutevolezza che non pregiudica, comunque, la visita ai settanta ettari della proprietà e agli antichi edifici restaurati, dove godo della vista di affreschi del Cinquecento e delle cantine storiche, nelle quali riposano i vini di Franciacorta che degusterò più tardi, curioso di percepire il perché di certe scelte particolari fatte da questa azienda rispetto alle altre della zona, come quella di produrre per 30 anni solo millesimati o di non usare mai barriques in modo da privilegiare nei vini i profumi del territorio. Dopo questo mio piccolo tour, ad attendermi trovo Donna Pia Donata Berlucchi, persona splendida e meravigliosamente intrigante, ricca di una loquacità e di una capacità espressiva uniche, nonché di una grande cultura, costruita in anni di attente e profonde letture che, come mi racconta, l’hanno indotta ad avere un grande rapporto con tutto ciò che rappresenta il “bello”, dalle “arti” figurative - pittura, scultura e architettura - fino alla musica, alla poesia e soprattutto al suo grande amore: la letteratura. Non mancano certo gli argomenti di conversazione, anche se ciò comporterà mettere in secondo piano, almeno per il momento e non perché siano meno importanti, i vini, i quali, se avranno delle cose da raccontarmi, sapranno trovare da soli il modo di comunicarmele, a prescindere che si parli o meno di loro... Man mano che ci inoltriamo in uno schietto e sincero colloquio, scopro di trovarmi davanti ad una mente fervida, dinamica e ad una donna decisa e meticolosa, pronta ad accettare tutte le sfide della vita, da affrontare coniugando uno stile d’altri tempi con una modernità intellettuale che potrebbe far invidia a una ventenne. Eppure non tutto deve essere stato semplice per lei. Questa sua ilare serenità stupisce ancor di più se si pensa ai molti problemi quotidiani e alle inevitabili fatiche che deve aver superato. Mi appare adesso orgogliosa e fiera, con la consapevolezza di chi, avendo avuto sempre la forza di andare avanti e di godere a pieno e in egual misura delle piccole e grandi cose che

arricchiscono l’animo umano, si sia elevato non solo per pura gratificazione personale, ma per poter trasferire agli altri un insegnamento straordinario. Forse è per questo che mi confessa di sentirsi amata un po’ da tutti e, del resto, come darle torto? Anch’io, fin dal primo momento in cui mi ha accolto in azienda e, stringendomi la mano, mi ha salutato in modo schietto e deciso, credo già d’amarla un po’... Ora che incomincio piano piano a conoscerla, mi rendo conto che anche in quel saluto c’era la stessa fierezza del nome che porta. Un nome che per lei rappresenta le due anime più importanti della sua vita, essendo composto dall’unione della volontà di due persone che lei deve aver amato molto: quella della madre, che la volle chiamare Pia, in memoria di un fratello morto molto giovane e quella del padre che la chiamò Donata, forse preoccupato che la bambina, una volta grande, potesse pensare di non essere stata desiderata abbastanza, essendo l’ultima di cinque figli. I discorsi prendono strade complesse e interessanti e, anche quando si arriva a parlare del vino, scopro che, sull’argomento, Donna Pia Donata Berlucchi avrebbe molte cose da dire, a partire proprio dal suo desiderio di comunicare, più che il prodotto, ciò che sta dietro ad esso e il valore e la cultura che animano la sua terra. Da parte mia, condivido a pieno il suo pensiero e ne è testimonianza la scelta professionale che ho fatto, tanti anni addietro, di scrivere libri, invece che guide enologiche. Del resto, da sempre vado predicando che il valore del vino non si misura solo in termini organolettici, ma da un’infinità di altri valori immateriali quali la cultura e il simbolo della terra come archetipo per l’uomo.

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PIA DONATA BERLUCCHI


FRATELLI BERLUCCHI


FRANCIACORTA DOCG PAS DOSÉ MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione di uve Chardonnay (40-50%), Pinot nero (50-40%) e Pinot bianco (10%), provenienti da vigneti di media collina situati nella frazione di Borgonato, nel comune di Corte Franca. Dopo la vendemmia, svolta in genere a partire dalla seconda decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo una pulizia statica a temperatura controllata, è avviato, tramite l’inoculazione dei lieviti, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere a temperatura termoregolata in tank di acciaio. In questi recipienti i vini rimangono fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e alla successiva aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane poi in cantina sui propri lieviti per almeno 33 mesi, al termine dei quali si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta, come liqueur d’expédition, del vino della stessa annata senza dosaggio alcuno, come si conviene a un pas dosé. Franciacorta che presenta spuma soffice e trama discretamente fine, oltre ad un persistente perlage; la veste cromatica risulta scintillante di colore paglierino, con riflessi che tendono all’oro zecchino. Il naso propone un bouquet di media intensità, classicamente composto da sentori di lieviti e crosta di pane, mentre, più in profondità, si percepiscono sottili note di anice, balsamo e resina. Un profilo armonico, delicato, di calibrata ampiezza, “accademico”, che chiude su leggere nuances di miele di acacia. In bocca è cremoso, effervescente, austero, con una piacevole nota mielata in progressione. È dotato di buona struttura e retto da vivace e spigliata freschezza acida. Lungo la beva si fanno strada ricordi agrumatovegetali di limoncella e sensazioni sapido-minerali. Più potente che al naso, presenta una prolungata persistenza e un’interessante giovinezza.

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GATTA Credo di essere sempre stata al posto giusto, nel mondo del vino. Lo trovo affascinate, curioso, intrigante, complesso e vuoi per un verso o vuoi per un altro, per una buona occasione o per soddisfare un bisogno, mi ci sono sempre ritrovata nel mezzo, anche se, certe volte, avrei preferito divertirmi, in questo mondo - come spesso sento dire in giro da qualche produttore - mentre io, in realtà, ci ho sempre lavorato. Pensa che ho condotto per 20 anni un ristorante specializzato in banchetti di nozze ed eventi similari, e per tutto quel periodo non potevo certo esimermi dal trattare il vino. Quale vino? Non ricordo. So soltanto che la scelta cambiava di volta in volta, a seconda del portafoglio o del gusto dei miei clienti e si è sempre modificata con il tempo, nell’arco di tutti questi anni. Era un rapporto un po’ più “crudo”, basato più sull’aspetto economico del prodotto che non sul fascino dello stesso; per cui, da una parte dovevo tener presente l’offerta e, dall’altra, la domanda, stando nel mezzo a tener di conto e a consigliare, quando mi veniva richiesto, un vino o un altro, senza mai dare troppa importanza a quale esso fosse: in definitiva si trattava di un suggerimento che elargivo fidandomi solo del mio gusto. In seguito, trovando sempre più affascinanti le sfumature e le emozioni che mi venivano raccontate da chi il vino riusciva ad interpretarlo, e stimolata dal fatto che potessi arrivare anch’io a tanto, iniziai a frequentare i corsi per sommelier. Ancora una volta, mi ritrovavo a ruotare in quel mondo. Nell’approfondirlo, mi si aprirono improvvisamente orizzonti che, fino a quel momento, non conoscevo e che non pensavo nemmeno esistessero; essi stimolarono la mia curiosità e la mia passione nello scoprirne i segreti. Mi entusiasma la cura e il sistema d’approccio ad una degustazione che, a prescindere dalle capacità e sensibilità che ognuno naturalmente possiede, si basa molto sull’esperienza acquisita dopo tante bottiglie stappate o dopo aver tuffato mille volte il naso in un bicchiere. Un po’ per volta iniziai ad acquisire più sicurezza sulla complessità di quel mondo che stava diventando, ai miei occhi, un intero universo da esplorare. Ma c’era anche un altro elemento che contribuiva a farmi girare intorno al vino. Quando decisi di cessare l’attività ristorativa, ero già sposata con Mario, il quale aveva un’impresa di progettazione e realizzazione vigneti conto terzi. Lui conosce ogni aspetto dei vigneti, la forma dei sistemi d’impianto e quale sia la migliore tipologia di terreno per un sistema di allevamento specifico, così come ha nozione delle migliori metodologie operative, utili per far funzionare bene una vigna. Così sono passata a condurre, insieme a lui, la piccola vigna che avevamo impiantato nel frattempo; mi ritrovai ancora una volta all’interno del mondo del vino, ma dall’altra

parte: da quella di chi lo produce. La cosa mi è sembrata quasi del tutto naturale e non ci ho messo molto ad interpretare questo nuovo ruolo, anche perché, essendo figlia di contadini, non mi sono tirata indietro quando ho visto mio marito Mario impegnarsi disperatamente in quella piccola realtà che il padre gli aveva avviato negli anni ’60. Del resto sono sempre stata abituata a lavorare fra le vigne, a vendemmiare e a svinare - anche se i vini che faceva mio padre erano finalizzati a un consumo domestico e non avevano certo la pretesa di far sognare chi li consumava, né, tanto meno, avrebbero mosso curiosità o spinto qualcuno a fare chilometri per venirli ad assaggiare. Come vedi, in questi anni, sono passata dal ruolo di chi vende il vino a quello di chi lo produce e deve venderlo per sostenere un’impresa. Un bel girotondo, non trovi? Diversi ruoli per diverse situazioni, che ho affrontato con l’umiltà di chi deve sempre imparare e, per farlo, è costretta ad impegnarsi e a lavorare sodo, correndo da una parte e dall’altra per ricoprire i vari ruoli imposti dalla gestione di un’azienda e che, nel tempo, sono andati via via aumentando; incarichi che mi vedono cantiniera, responsabile commerciale, vignaiola, addetta alle relazioni esterne, moglie e mamma di due splendidi ragazzi, Nicola e Giuseppe - titolari dell’omonima azienda Gatta - nonché dirigente del Rugby Brescia. Fatica? Certo, ma sono fatta così e non ci posso far niente; del resto sono sempre disponibile e pronta a soddisfare le esigenze che sorgono di volta in volta, tralasciando me stessa e mettendomi in secondo piano rispetto agli altri. Strano, ma vero. Non sono capace di affrontare né il mondo del vino, né la mia vita in un altro modo. Devo sempre dare il massimo, come fa mio marito Mario e come fanno i miei ragazzi quando giocano a rugby. Ecco, credo di essere anch’io, dentro me stessa, una giocatrice di rugby, forte dello spirito un po’ istintivo, ma solidale che regola questo splendido sport. I contadini come me assomigliano tutti un po’ a dei rugbisti, mentre molti altri vignaioli che incontrerai in Franciacorta sono più simili ai golfisti; un paragone che esprime bene la grande differenza che esiste su questo territorio. C’è chi colpisce elegantemente una pallina e chi si butta nella mischia e dà tutto se stesso per la causa, tutto quello che è nelle proprie possibilità con correttezza e serietà, cercando di sentirsi parte di una squadra che, in questo caso fa vino, ma che potrebbe fare mille altre cose, perché devi sapere che quando c’è squadra c’è cuore. Ringrazio mio marito e i miei figli per aver condiviso questo mio modo di essere.

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GIUSEPPE, DONATELLA, NICOLA, GATTA


GATTA


FRANCIACORTA DOCG BRUT ARCANO MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (70%) e Pinot nero (30%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nei comuni di Gussago e Rodengo Saiano, su terreni calcareo-argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 370 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 10°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica fatta svolgere per 12 giorni (a 12°C), in tank di acciaio inox; qui i vini rimangono fino a luglio-agosto dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage. Il vino matura in cantina sui lieviti per 11 anni, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Un buon perlage tenue, continuo, di piccole dimensioni e un colore giallo caldo con riflessi che ricordano l’oro antico, fanno da cornice a un bouquet affascinante e armonioso che propone percezioni complesse dovute all’invecchiamento, ma anche meravigliosamente fresche e fini di frutta tropicale matura, rose gialle e glicine che si accompagnano a note di lieviti, mandorle, nocciole e a nuances più eteree e balsamiche. L’impatto in bocca è ampio, elegante, equilibrato, sapido, capace di coniugare una perfetta armonia fra le percezioni olfattive e quelle gustative. Un grande Spumante, morbido, lunghissimo e persistente al palato, che chiude con una piacevolissima nota di mandorla verde.

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GATTI

Parlare delle piccole imprese vitivinicole mi entusiasma, ma soprattutto mi appassiona andare a visitarle, perché ogni volta è come aprire una scatola di cioccolatini assortiti: non sai mai cosa ti capita. La visita ad un’azienda è un fatto sempre nuovo e mette un po’ di pepe al mio lavoro: mi fa scoprire i diversi panorami da cui è composto questo poliedrico e composito paesaggio del mondo del vino. Molte sono le situazioni che incontro, alcune bizzarre, altre inaspettate, ma, spesso, per mia fortuna, mi imbatto in vignaioli con un grande spessore umano, con radici profonde nella terra - anche più di quanto diano a vedere - e che hanno il merito di rimanere sempre con i piedi ben piantati su di essa, portando avanti, con umiltà e coraggio, la loro artigianale attività vitivinicola, convinti che solo perseguendo un lavoro costante, attento e onesto potranno riuscire ad evolversi. Molte volte incontro uomini semplici, con una mentalità pratica e pragmatica, talmente radicata in loro che nessun evento, per quan-

to prodigioso, riuscirebbe a cambiarli, né sarebbe in grado di modificare la loro esistenza, allontanandoli da quella normalità nella quale sono sempre vissuti. Altre volte, invece, scopro persone nelle quali sembrano condensati, tutti insieme, i sette vizi capitali, ma anche con loro mi diverto e mi entusiasmo, avvertendo il piacere di “esorcizzarli” con un confronto alcune volte duro, finalizzato a far comprendere loro quanto sia sottile il velo che li separa dall’ignoranza o quanto siano lontani da una primitiva e minima forma d’intelligenza. Andando a trovare i fratelli Lorenzo e Paola Gatti, che insieme al marito di lei, Enzo Balzarini, conducono l’omonima azienda posta proprio sopra ad Erbusco, ho la piacevole sensazione di trovarmi davanti a tre persone unite da un forte legame e da un grande senso della famiglia, ricche di sensibilità e umiltà. Vignaioli per caso, mi raccontano. Sono arrivati alla terra, chi prima e chi dopo, solo attraverso lunghe riflessioni e diverse esperienze lavorative in altri settori. Succede spesso - mi confidano - che da ragazzi non si abbiano le idee chiare sul futuro e, nell’incertezza, tutte le strade sembrano buone, ideali per arrivare all’obiettivo principale, che è quello di riuscire ad essere, il prima possibile, indipendenti economicamente dalla famiglia. Mentre incomincio a degustare i loro Franciacorta Brut, Satèn e Nature, mi confessano di avere due grandi crucci nella loro vita, il primo dei quali è quello di avere alle spalle solo 22 vendemmie; se non avessero tergiversato e non si fossero fatti abbindolare dal suono di allettanti campanelli che tintinnavano intorno a loro, oggi ne avrebbero molte di più e avrebbero fatto ulteriori passi in avanti nella ricerca dell’eccellenza qualitativa dei loro Spumanti verso la quale si stanno dirigendo. Il secondo cruccio è quello di aver scelto strade formative lontane anni luce da quelle enologiche o agrarie; se le avessero percorse prima, avrebbero potuto avere un ingresso nel mondo del vino molto più semplice rispetto a quello che hanno dovuto affrontare, evitando l’attraversamento di esperienze negative, sacrifici e grandi difficoltà. Certamente, da ciò che percepisco dai loro racconti, quest’attività deve averli cambiati e fatti crescere, anche modificandone un po’ il carattere ed arricchendone la cultura. Non ho dubbi, a giudicare dai vini che ho assaggiato, che essi si siano magistralmente impadroniti dell’arte di fare vino e ho trovato molto interessanti i loro prodotti, sia al naso che al palato, con un’importante struttura, ricca di mineralità e spezie. Vini che sicuramente ricalcano la personalità di questi tre artigiani, attenti a non strizzare troppo l’occhio al mercato, ma decisi, netti e lineari e affiatati nel perseguire i loro obiettivi di qualità.

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LORENZO, PAOLA GATTI ENZO BALZARINI


GATTI


FRANCIACORTA DOCG BRUT NATURE Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in alta collina, nel comune di Erbusco, su terreni morenici, in parte profondi, ma mediamente sottili e fluvio-glaciali, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo, ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 300 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 8 giorni (a 18°C) per il 90% in tank di acciaio e per il 10% in barriques di rovere francese; in questi contenitori il vino rimane fino al marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition (che in questo caso consiste nel vino della stessa annata). Un Franciacorta dal perlage fine, copioso e persistente, che veste il bicchiere di un colore paglierino scarico; si propone all’esame olfattivo in modo delicato, con intensi profumi agrumati di cedro e arancia che si fondono a note di pasticceria al limone e biscotti al burro; percezioni olfattive alle quali si aggiungono ancora altri aromi fruttati di pesca e ananas con un finale che riporta alla mente nuances di ginestra e mimosa con una vena minerale non troppo invasiva, ma presente. In bocca è sincero, affascinante ed ha un rapporto schietto con il palato, pur avendo una bella cremosità acidula, ma equilibrata; lunga la chiusura, nella quale si ripropongono le note agrumate percepite a naso.

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IL MOSNEL Attraverso il borgo di Camignone di Passirano e mi dirigo verso l’azienda Il Mosnel, il cui nome - mi sembra di aver letto da qualche parte - significa “pietraia” intesa come cumulo di sassi. Anche il toponimo medioevale del borgo che mi sono appena lasciato alle spalle deriva da Casa Minor, trasformatosi nel dialetto locale in Ca’ Mignon e poi in Camignone e già questo mi fa pensare che c’è anche una storia di cui rimangono, qua e là, tracce che purtroppo in pochi hanno voglia di comunicare e far conoscere. Quanto sarebbe bello avere il tempo di approfondirla e come sarebbe interessante scoprire l’evoluzione dell’origine medioevale del borgo, sviluppatosi su un pagus romano... E poi chissà quante altre storie ci sono lungo queste strade! Dopo qualche chilometro, finalmente arrivo in azienda: 40 ettari complessivi, suddivisi in sedici appezzamenti, una secolare residenza con le sue cinquecentesche cantine, posizionate proprio di fronte ad una serie di bellissimi vigneti di oltre 20 ettari che rappresentano il corpo più cospicuo della proprietà della famiglia Barboglio, la quale ne entrò in possesso nel 1836, quando Rosina Rosa Cacciamatta, ultima erede dei Cacciamatta di Camignone, sposò Pietro Barboglio. Rileggendo la storia dell’azienda, risulta evidente che da più di centocinquant’anni siano le donne di casa Barboglio a proseguire la tradizione vitivinicola e agricola. Fu, infatti, proprio Rosina, per prima, ad innamorarsi della terra e del mestiere del contadino; poi seguirono Nina e la nipote Emanuela e, oggi, è il turno della figlia di quest’ultima, Lucia, che, insieme al fratello Giulio, si occupa attivamente dell’azienda agricola. A darmi il benvenuto trovo, infatti, Giulio e Lucia Barzanò, due giovani sorridenti e affabili che mi accompagnano in una breve visita dell’azienda; dopo ci sediamo intorno ad un tavolo a conversare e posso godere del piacere della loro ospi-

talità. Parlando, scopro la verve e la sensibilità di chi ha vissuto a stretto contatto con la terra, le vigne, gli animali nella stalla e il fascino che, in loro, suscita il mondo contadino, dei valori del quale sembrano essere impregnati come spugne. Un amore profondo, trasmesso loro dalla madre Emanuela, donna di grande spessore, non solo imprenditoriale, ma soprattutto umano e culturale. Il suo amore per la terra - mi raccontano con gli occhi lucidi dall’emozione - era una passione tanto grande da renderla gioiosa, fino al punto di far innamorare di lei tutti quelli che comprendevano quanto fosse semplice il suo approccio alla vita. Non aveva solo una passione, ma un concerto di passioni che in generale abbracciavano ogni singolo aspetto del mondo agricolo che la circondava e dal quale, difficilmente, si staccava, sostenendo che non aveva modo di farlo, poiché, per lei, era sempre il tempo della vendemmia, della svinatura, della sboccatura e del Natale, quando si vendeva oltre il settanta per cento di tutte le bollicine commercializzate dall’azienda in un anno. Trovo fantastica la storia di Emanuela, come trovo bellissimo il fatto che Giulio e Lucia, pur avendo la possibilità di fare altro nella vita, abbiano deciso di dar retta al cuore, ritrovandosi a riempire il loro spazio, presente e futuro, con ciò che davvero desideravano e con ciò che più ha sempre dato loro gioia: la terra. E quindi, non sarà forse un caso che nei prodotti di quest’azienda, nella quale, per tanto tempo, la cultura spumantistica è stata declinata al femminile, io riscontri una maggiore morbidezza e setosità, in particolare nel loro Satèn e nel Brut Millesimato.

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LUCIA, GIULIO BARZANÃ’


IL MOSNEL


FRANCIACORTA DOCG BRUT “EBB” MILLESIMATO Blanc de blancs prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti Dosso, Limbo, Larga, Mosnel e Roccolo, di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Passirano, su terreni morenici, alluvionali, con scheletro di media profondità, a un’altitudine di 250 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto fiore ottenuto, dopo 12-18 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 12-15°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), interamente in barriques di rovere francese; qui il vino rimane fino al marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Un Franciacorta dal perlage fine, continuo e persistente che propone una spuma ricca e intensa colorando il bicchiere di un bel giallo paglierino dai riflessi brillanti. Al naso, fresco, profondo e sapido, offre note floreali di biancospino, rosa bianca e lavanda che accompagnano percezioni agrumate di limone e cedro e fruttate di pesca a pasta bianca, per finire con un piacevole sentore di pasticceria. In bocca risulta morbido, vellutato, suadente, ancora con nuances agrumate arricchite da una sapidità di spessore che lo rende lungo e persistente.

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LA MONTINA La Tenuta La Montina, a Monticelli Brusati, si trova nella parte orientale della Franciacorta, dove finiscono le strade “carrozzabili” e inizia la boscosa Valle Mugnina. Così recita il dépliant informativo dell’azienda che oggi devo visitare e dove, ad attendermi, trovo il giovane Michele Bozza, suo padre Gian Carlo e gli zii Alberto e Vittorio. Una bella azienda e una struttura complessa che comprende un wine shop, una sala congressi, uffici funzionali e una cantina quasi tutta interrata sotto la collina - costruita sbancando 70.000 mila metri cubi di terra: qui vengono vinificate le uve di 72 ettari di vigneti, di cui 14 di proprietà, sparsi nel territorio di 7 comuni della Franciacorta. Quello che mi sorprende, nella visita, è vedere come le pareti della cantina siano state utilizzate come una vera e propria galleria d’arte, adoperando nicchie e anfratti scavati nel muro, nei quali trovano adeguata sistemazione le opere d’arte contemporanea di Remo Bianco, un artista milanese degli anni ’60. Il Museo comprende circa un centinaio di opere del maestro, mentre, all’esterno, fa bella mostra di sé la vecchia Volvo color bluette, con cui Bianco circolava per Milano e sulla quale spiccano sfoglie di lamina d’oro di piccolo formato, che la rendono originalissima. Accanto sorge anche Villa Baiana, una bellissima struttura ricettiva che i Bozza dedicano ad eventi speciali. Mi incuriosisce molto il nome della cantina e, come mi spiegano, sembra che risalga al 1620, periodo in cui i proprietari erano i componenti di una famiglia della Valsabbia - precisamente, quella dei Montini, cui appartenne anche Papa Paolo VI dalla quale presero il nome la casa e la collina retrostante. Dal 1982 i Bozza ne sono diventati i proprietari, iniziando, fin dai primi anni, una lenta e costante opera di ristrutturazione e ampliamento della costruzione che si è appena concluso. Da allora sono seguiti anni di grandi sacrifici, come è

nello spirito delle famiglie bresciane che operano in Franciacorta, le quali, con il lavoro, hanno costruito non solo grandi aziende vitivinicole, ma sono riuscite a portare il nome di questo territorio alla ribalta nazionale ed internazionale. Anche per chi, come me, non appartiene a questa terra, è facile constatare come su queste “Terre Franche” si dia priorità al lavoro, che viene utilizzato non solo come gratificazione personale, ma come strumento di coesione della famiglia, la quale non è legata dal semplice interesse economico, ma è una “struttura” capace di costruire fiducia e stima reciproca, contribuendo al consolidamento degli affetti e alla condivisione delle responsabilità. È il lavoro che stimola le aspettative e aiuta a costruire i sogni che sono subordinati alle capacità e alle qualità che ognuno possiede. “Lavorare fa bene” - mi dicono - oppure “il lavoro serve” altra frase che ricorre spesso nella nostra conversazione perché è utile per ottenere delle soddisfazioni ed evolversi socialmente o, come dice lo zio Vittorio, serve per “far bella figura” in ogni campo e ripaga la fiducia che altri ti hanno concesso, oltre ad appagare l’orgoglio, che spinge ad andare al di là delle possibilità economiche di cui si dispone e, magari, ti aiuta a costruire anche una cantina come questa, aggiungo io. Mentre parliamo si stappano i sei Franciacorta DOCG, Extra Brut, Brut, Rosé Demi Sec, Satèn Brut, Millesimato Brut e Montecolo Magnum Selezione Brut, tutti di un alto livello qualitativo; in particolare trovo il loro Rosé una spanna superiore rispetto alla stragrande maggioranza di quelli prodotti in zona. Così brindo al “lavoro” che ha portato i Bozza a questi risultati e, alzando il calice, penso che, sicuramente, loro non condividerebbero il pensiero del grande Oscar Wilde, il quale asseriva che “il lavoro è fatto per chi non ha niente da fare...”.

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GIAN CARLO, VITTORIO BOZZA


LA MONTINA


FRANCIACORTA DOCG ROSÉ DEMI SEC Questo Franciacorta è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (60%) e Chardonnay (40%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nei comuni di Cazzago San Martino, Erbusco, Provaglio d’Iseo, Passirano (Monterotondo), Rodengo Saiano e Monticelli Brusati, su terreni morenici debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 300 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda decade di agosto, si procede alla pressatura delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo qualche ora di decantazione statica a temperatura controllata, sono avviati, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere in tank di acciaio inox; qui i vini rimangono fino agli inizi di marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio e alla conseguente costituzione della cuvée, assemblando altri vini di annate precedenti. Dopo qualche settimana si procede all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali seguono il remuage delle bottiglie, il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e l’aggiunta del liqueur d’expédition. Un Rosé di Franciacorta di grande livello, che colora il bicchiere di un rosa cipria di bellissimo splendore e lo abbellisce con un perlage sottile e persistente; all’esame olfattivo sprigiona immediatamente piacevoli note di petali di rosa che accompagnano sentori fruttati di lamponi e fragoline di bosco, pesca noce e agrumi rossi maturi, chiudendo con un finale di macchia mediterranea e timo. In bocca è piacevole, avvolgente, fresco, morbido e capace di porre in buon equilibrio le percezioni nasali e quelle gustative. Buona la sapidità che lo sorregge e gli conferisce molta piacevolezza nella beva.

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MONTE ROSSA È pomeriggio inoltrato quando arrivo alla seicentesca villa posta sulle colline sopra Bornato, sede della cantina Monte Rossa, proprio nell’ora in cui i primi caldi primaverili si sono un po’ attenuati. Ad attendermi trovo Emanuele Rabotti, uomo simpatico, ciarliero, attento conoscitore del mondo del vino. Dopo i convenevoli di rito, con la presentazione di un velocissimo excursus dell’azienda e della storia di suo padre Paolo Rabotti e di sua madre Paola Rovetta e dopo avermi parlato di questa grande scommessa che rappresenta oggi la Franciacorta, mi accompagna, su una curiosa macchina elettrica, simile a quella usata sui campi da golf, nei vigneti che sono accorpati intorno all’azienda. La cura con la quale sono condotti è già di per sé un indice della filosofia produttiva di Monte Rossa. Una conduzione direi quasi maniacale, arricchita anche da una bella scenografia, con piante di rose a capofila dei filari, tutte fiorite, con petali di un colore rosso acceso che forniscono all’insieme il fascino di un bellissimo giardino. Il merito, mi dice Emanuele, è di sua madre, la quale, nonostante da molti anni non abbia più in mano le redini dell’azienda, continua a non far mancare il suo supporto, fornendo quel tocco femminile che non guasta mai e arricchisce l’ambiente di un qualcosa in più. Mentre saliamo e scendiamo dalla collina dalla quale ho potuto godere di una vista splendida che da una parte si è persa verso la pianura padana e dall’altro lato verso la Franciacorta, Emanuele mi racconta di essersi laureato in Giurisprudenza, ma di aver compreso ben presto di non essere tagliato per l’avvocatura; per questo si è dedicato alla viticoltura e alla cantina, prendendo in mano le sorti dell’azienda. Insieme alle parole scorrono cifre e date che mi fanno comprendere cosa deve aver messo in moto per avviare quel rinnovamento che lui desiderava. Un processo senz’altro lungo e difficile, durante il quale sono intervenuti diversi fattori che hanno contribuito al raggiungimento di quel suo traguardo che ora, dopo anni, mi confessa di iniziare ad intravedere. Sicuramente deve aver preso delle decisioni precise, chiare ed inequivocabili, visto che le stesse gli hanno consentito, nell’ultimo decennio, di avviare una lenta e progressiva trasformazione dell’azienda che ancora non si è conclusa, ma che ha dato il risultato, non da poco, di far crescere Monte Rossa a tal punto da non essere più quella cantina di piccole e medie dimensioni di un tempo, ma una che, in termini qualitativi e di volume d’affari, si è posizionata subito dopo il gruppo Moretti-Bellavista e Ca’ del Bosco. Di questo risultato ne parla con orgoglio ed è giusto che sia così, perché voluto e ottenuto con tanta passione e credo

anche con dei sacrifici. Da ciò che percepisco è un risultato che, comunque, travalica il fatto di aver collocato Monte Rossa al 3° o al 4° posto nella gerarchia delle aziende vitivinicole della Franciacorta, perché credo che Emanuele abbia raggiunto ben altri e più prestigiosi traguardi, non riconducibili a numeri o classifiche, ma che toccano la sfera personale e quella dei suoi sentimenti, quella che racchiude il suo amor proprio e la sua autostima che in lui hanno alimentato la fiducia e la sicurezza nei propri mezzi. Sono risultati importanti per chiunque, ma per acquisirli non è sufficiente ottenere gratificazioni, premi o veder aumentare il fatturato della propria azienda: è necessario avviare una forte crescita interiore che può condurre certe volte all’appagamento, altre volte alla presunzione o ad acquisire invece l’umiltà dei forti. Per quel poco che conosco Emanuele credo si sia fortificato in questi anni, perché nei suoi occhi leggo la consapevolezza di chi sa quanto vale e lo fa aspirare a diventare uno dei migliori spumantisti italiani. Ritengo che per via di questo pizzico di ambizione ancora non si senta appagato di ciò che ha realizzato fin qui, ma bensì voglioso di mettersi in gioco e di crescere, facendo sempre meglio del giorno prima, puntando in alto, sempre più in alto, senza mai perdere di vista quell’aspetto artigianale che ancora caratterizza la sua produzione che ho degustato e che trovo di altissimo livello.

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EMANUELE RABOTTI


MONTE ROSSA


FRANCIACORTA DOCG PRIMA CUVÉE BRUT Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (85%) e Pinot nero (15%) provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Bornato e Monte Rossa, nel comune di Cazzago San Martino, su terreni morenici, in parte profondi, ma mediamente sottili e fluvio-glaciali, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), per il 60% in tini di acciaio inox e per il 40% in barriques di rovere francese. In questi contenitori i vini rimangono fino all’aprile successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite e alla realizzazione della cuvée; seguono l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Un Franciacorta che arricchisce il bicchiere con una bella e cremosa spuma e un perlage fine, continuo e persistente; il colore è un giallo paglierino dai bei riflessi dorati. Al naso, fresco e piacevole, propone belle fragranze agrumate di aranci e cedri maturi, che si arricchiscono di note floreali di acacia, mughetto, glicine e biancospino. Un bouquet complesso al quale si vanno a sommare anche suadenti percezioni fruttate di pesca, melone bianco, ananas e kiwi. In bocca è piacevolissimo, avvolgente, fresco, morbido, sapido, capace di riproporre le piacevoli note agrumate percepite al naso, con un persistente finale che ricorda il pane appena sfornato.

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MONZIO COMPAGNONI

Rammento che arrivai per la prima volta nell’azienda di Marcello Monzio Compagnoni ai primi di giugno, proprio qualche giorno prima della domenica di Cantine Aperte, la pregevole iniziativa che il Movimento Turismo del Vino promuove ormai da anni per far visitare e conoscere le aziende vitivinicole al numero sempre crescente di appassionati. Voltando per la strada che mi avrebbe dovuto condurre alla mia destinazione, mi trovai davvero a ridosso di una cantina “aperta”. Davanti a me avevo una grande fossa, profonda qualche decina di metri, che, nel progetto di cui fui messo poi a conoscenza, avrebbe dovuto contenere la futura cantina dell’azienda e dove carpentieri, operai e camion cisterna carichi di calcestruzzo si muovevano con grande naturalezza, gettando le fondamenta di quella costruzione. Un cantiere a cielo aperto dove Marcello - ricordo - si muoveva con attenzione e circospezione straordinarie, come se camminasse su un paniere

di uova, andando continuamente da una parte all’altra per controllare ogni particolare dei lavori. Il primo incontro con quel simpatico bergamasco fu veloce, schietto e sincero e a sorprendermi fu proprio il fatto di trovarmi davanti ad un uomo che rispondeva per le rime al mio spirito da toscanaccio, cosa rara fuori dalla Toscana. Mi bastò poco per trarre la sensazione di avere di fronte non solo una mente sveglia e aperta, ma anche un puro rappresentante di una razza in via di estinzione: i contadini cresciuti respirando il profumo del vino. Ebbi la conferma delle mie iniziali sensazioni scoprendo che, prima di approdare su queste “Terre Franche”, Marcello aveva avuto una bella esperienza nell’azienda del padre - che è ancora di sua proprietà - in Val Calepio, ad una quindicina di chilometri da quella in cui si svolge il nostro incontro, che invece è a Nigoline di Corte Franca, in Franciacorta. Una mente sveglia, perché, nel suo racconto, c’era una visione precisa di cosa avrebbe voluto fare e come lo avrebbe voluto realizzare rapportandosi con questo territorio. Venendo qui, aveva gettato via tutte quelle remore che, di solito, i vignaioli si portano dietro andando da un territorio vitivinicolo all’altro e aveva cercato di imparare dal nuovo che stava affrontando, coniugando la tradizione della Franciacorta di cui stava diventando interprete, con il suo passato. Mi raccontò che il suo obiettivo principale non era quello di stravolgere, ma di assecondare queste terre, costruendo una cantina che avesse un progetto funzionale, sia dal punto di vista economico che qualitativo; una cantina in grado di autocostruirsi e autogenerarsi, mantenendo una costante visibilità sul mercato senza dover essere obbligata a scendere a compromessi o magari, per essere competitiva, realizzare milioni di bottiglie. Anche i suoi Franciacorta ricalcavano quella sua forte personalità e, mano a mano che degustavo quelle sue bollicine, mi sorprendeva il constatare quanto esse fossero originali rispetto al panorama generale offerto dal territorio. Certo che ad altri sarebbero potute anche non piacere, ma ciò che io trovavo nel suo Brut, nel suo Extra Brut e soprattutto nel suo Satèn era una rotondità, una ricchezza e, soprattutto, una grande caratterialità: dote che più di ogni altra fu per me una vera e propria sorpresa. Sono tornato dopo un anno e al posto di quell’indaffarato cantiere e di quella profonda e grossa fossa ora c’è una bella e funzionale cantina, dove Marcello ha lo spazio che aveva sempre desiderato per conservare i vini, i quali riposeranno e matureranno nel tempo per esprimersi poi nel dovuto modo, con la loro storia, le loro particolarità, i loro pregi e i loro difetti.

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MARCELLO MONZIO COMPAGNONI


MONZIO COMPAGNONI


FRANCIACORTA DOCG BRUT SATÈN MILLESIMATO Questo Franciacorta è un Blanc de blancs, come lo sono tutti i Satèn, ed è ottenuto dalla vinificazione di uve Chardonnay provenienti dai vigneti posti nei comuni di Adro e Corte Franca, su terreni di origine morenica ad un’altitudine compresa fra i 250 e i 270 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene in genere a partire dalla seconda decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo una pulizia statica a temperatura controllata (7-10°C), è avviato, tramite l’inoculazione dei lieviti, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per l’80% del prodotto in tank di acciaio a temperatura termoregolata e per il 20% in barriques. In questi recipienti il vino rimane fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane poi in cantina sui propri lieviti per almeno 37 mesi, al termine dei quali si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Di spuma fine e intensa, palesa un perlage sottile, abbastanza fitto, di sicura persistenza; il colore è giallo paglierino intenso, dai riflessi quasi oro zecchino. Il naso, sicuramente complesso, sprigiona uno spettro olfattivo tropicaleggiante e mediterraneo al tempo stesso; suadente, rotondo, forse non elegantissimo nella sua opulenta e matura rotondità, ma sicuramente ricco di personalità e di gradevoli sensazioni di spezie morbide e tostate, tabacco biondo da pipa, fiori e pesche gialle, mango ed erbe aromatiche secche. In bocca è polposo, caldo, morbido, speziato e appagante, con note di tabacco vanigliato e di pasticceria. Intensità e persistenza danno assistenza ad un finale sapido. Una “bollicina” di matrice “vinosa”, armonica nel suo genere, a cui mancherebbe forse solo un pizzico di acidità in più.

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RICCI CURBASTRO Villa Evelina è una splendida costruzione della metà del XIX secolo, costruita su progetto di Antonio Tagliaferri, che sorge lungo la strada che collega Capriolo ad Adro, nel cuore dell’azienda di Riccardo Ricci Curbastro - con il quale oggi ho appuntamento - figlio di Gualberto, contitolare, insieme al padre, dell’azienda omonima. Una famiglia che vanta origini duecentesche e secolari tradizioni agricole, tuttora rappresentate dall’azienda di Lugo di Romagna, in provincia di Ravenna e da questa di Capriolo, in Franciacorta. Di origini romagnole, i Ricci Curbastro si spostarono a Capriolo alla fine dell’Ottocento, in seguito al matrimonio fra il nonno di Riccardo, di cui egli porta il nome, ed Evelina Lantieri de Paratico, discendente di un’antica casata, presente sul territorio fin dal IX secolo. Evelina portò in dote la tenuta di Capriolo che oggi conta 32 ettari, di cui 26 vitati, secondo i canoni della moderna viticoltura e in conformità ai rigorosi indirizzi del Consorzio dei vini DOC e DOCG della Franciacorta, cui l’azienda aderisce fin dalla sua costituzione e di cui Riccardo è stato, per 7 anni, anche presidente. Una storia lunga, quella dei Ricci Curbastro, forse anche più antica di quella che riguarda la Franciacorta vitivinicola, il cui nome sembra derivare da “curtes francae”, cioè quelle piccole comunità di monaci benedettini insediate nell’Alto Medioevo, in zona collinare, vicino al Lago d’Iseo, esentate dal pagamento dei dazi ai Signori e al Vescovo per il trasporto ed il commercio delle loro merci in altri Stati o possedimenti. I frati erano dediti alla bonifica dei territori assegnati e istruivano i contadini - le cui merci erano poi portate nelle “curtes”, principali centri di commercio dell’epoca - alla coltivazione dei campi. Storia di terre e viticoltura che diventa, però, un punto di riferimento importante per l’economia agricola del territorio solo a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando

nascono le prime cantine, come le intendiamo oggi, e molti imprenditori bresciani decidono di investire nella vigna. Già in quegli anni l’azienda era un punto di riferimento per il territorio. Parlando con Riccardo, quello che mi sorprende è lo scoprire che vi sarebbero molte altre storie da raccontare, forse meno eclatanti, ma sempre affascinanti, che riguardano gli uomini che hanno consentito la crescita di questa viticoltura, oppure la familiarità che ha contraddistinto, per decenni, l’operato dei Ricci Curbastro: un modus operandi immutabile nel tempo che ha permesso loro di avvalersi dell’opera dei figli e dei nipoti di quegli stessi operai che iniziarono, con Gualberto, il rinnovamento e la nuova sfida enologica dell’azienda. In quegli anni, Riccardo frequentava questa tenuta durante le vacanze estive, giungendovi dalla natìa Roma ed egli ricorda bene di aver seguìto nel tempo questo territorio nelle sue varie modificazioni, fino a quando non lo ha visto arrivare ad essere il quarto distretto più industrializzato d’Italia, nonché la zona vitivinicola più importante d’Italia per il Metodo Classico. Un connubio che è sempre stato difficile far coesistere, quello fra l’industria e l’agricoltura, ma che qui sembra aver trovato la quadratura del cerchio, coniugando interessi imprenditoriali alla produzione del vino e funzionando anche da sistema di difesa del territorio, poiché ha spinto molti a custodire i vigneti dagli attacchi speculativi di certi immobiliaristi e industriali. Anche quest’azienda ha contribuito all’opera di tutela e salvaguardia del territorio della Franciacorta, ma non si è limitata solo a questo, bensì ha portato avanti, negli anni, il recupero di quella cultura agricola che ancora esiste in Franciacorta, depositaria della tradizione e della memoria delle arti e dei mestieri del mondo rurale che oggi trovano spazio nel Museo Agricolo e del Vino dell’azienda, posto proprio a Villa Evelina. Inaugurato nel 1986, è frutto dell’indomita passione di Gualberto, il quale è riuscito a mettere insieme oltre 3000 oggetti e una biblioteca di 1500 volumi relativi alla storia dell’agricoltura locale e nazionale. È a queste memorie che Riccardo guarda come al più prezioso tesoro di famiglia, le stesse che gli consentono di alimentare la ricchezza interiore necessaria per coniugare, nelle sue infinite varianti, la parola terra con la parola vino. Sensazioni che ritrovo in questo Franciacorta DOCG Brut Rosé che ho appena finito di assaggiare...

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RICCARDO RICCI CURBASTRO


RICCI CURBASTRO


FRANCIACORTA DOCG ROSÉ BRUT Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (80%) e Chardonnay (20%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Bosco e Villa Evelina nel comune di Capriolo, in località Santella del Gröm nel comune di Adro, e in località Clusane e Beloardo nel comune di Iseo. Terreni morenici, in parte profondi e debolmente ondulati, con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo, ad un’altitudine di 200 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda decade di agosto, si procede con una pressatura soffice delle uve, tenendole separate e sottoponendo il Pinot nero ad una breve macerazione sulle bucce. I mosti ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 12°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 14 giorni (a 18°C), in tank di acciaio. In questi contenitori i vini rimangono separati fino al febbraio successivo alla vendemmia, poi si procede all’assemblaggio delle partite e alla creazione della cuvée; seguono l’imbottigliamento e l’aggiunta di lieviti selezionati che daranno il via alla seconda fermentazione; il vino maturerà poi in cantina per almeno 24 mesi, al termine dei quali si procederà al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura. È un Franciacorta dalla spuma cremosa, con un perlage sottile e persistente, che veste il bicchiere di un elegante rosa salmone. Al naso, godibile e sapido, sprigiona note floreali di rosa che si amalgamano a sentori fruttati di amarena, giuggiola matura, lampone, pesca bianca, fragoline di bosco e agrumi dolci canditi, con un finale di macchia mediterranea e timo. In bocca risulta fresco e morbido; equilibrio e buona sapidità gli conferiscono una piacevole beva.

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RONCO CALINO Mi sto avvicinando ad Erbusco per andare a scoprire l’azienda Ronco Calino, di proprietà di Paolo Radici, uno al quale - dicono - gli brillano gli occhi quando si parla di bollicine. Paolo possiede, con la sua famiglia, una delle realtà chimiche italiane più affermate al mondo, leader nella produzione di fibre sintetiche, plastica ed energia e ogni anno - l’ho letto da qualche parte - avvia nuove iniziative imprenditoriali, come quella che lo ha spinto a realizzare il primo impianto di produzione di tecnopolimeri in Cina. Non mi vergogno a dire che sono dovuto andare ad informarmi per capire cosa fossero e, soprattutto, a cosa servano i tecnopolimeri! Non essendo un chimico, credo di aver già fatto un grande sforzo ad effettuare questa ricerca! Penso a come un bergamasco, trapiantato a Brescia, possa essere contemporaneamente a così alti livelli nel mondo dell’industria e in quello del vino. Questa la cosa che mi colpisce di più. Due mondi che, in apparenza, possono sembrare distanti, ma che, in realtà, qui in Franciacorta sono strettamente legati da un filo di passione, per niente sottile. Forse lo stesso sentimento che spinge molti uomini a “strappare i diari” e far ricominciare da capo la vita, lasciandosi guidare dalla certezza di avere davanti a sé giorni imprevedibili, strani, oltre al nuovo, l’inaspettato, lo sconosciuto, diventando quel succo che, goccia dopo goccia, dà sapore alla vita. È forse questo ciò che ha mosso Paolo? È questo il succo di cui egli ha intuìto la bellezza, spingendolo a coniugare il vino con le fibre plastiche, le bollicine con l’energia? Più trascorre il tempo e più sono interessato al mio prossimo dialogo con questo sconosciuto interlocutore, che mi affascina ulteriormente quando mi raccontano che il vigneto Ronco Calino è situato sulle colline che circondano quella che fu la dimora di Arturo Benedetti Michelangeli, uno dei maggiori geni pianistici del Novecento, e che oggi, dopo

una ristrutturazione conservativa, la casa è abitata da Paolo e sua moglie. Comunque vada sento già di apprezzarlo moltissimo, poiché penso che anche lui consideri il suo “impegno” non il frutto degli improvvisi scarti del destino, ma la capacità che dimostriamo di rimanergli accanto, passo dopo passo, senza timore. Con questa idea in testa, attendo che arrivi il mio interlocutore. Nell’attesa scorgo alle pareti alcune vecchie foto che ritraggono delle macchine da rally, al cui volante deve esserci stato Paolo, forse impegnato in qualche gara del campionato italiano. Degusto i vini di Franciacorta DOCG: prima il suo Brut, poi il Millesimato Vintage, il Satèn e il Rosé Radijan e li scopro tutti di grande qualità, eleganti, di ottima fattura e questo aggiunge un altro elemento al puzzle dell’immagine di Paolo che sto componendo nella mia mente, poiché noto che dietro a questi vini esiste una filosofia produttiva orientata verso l’eccellenza alla quale sicuramente contribuiscono i terreni, ma anche quella tecnologia di cantina che ho potuto osservare nel mio giro di ricognizione. Sono tutte intuizioni che si vanno ad aggiungere alle altre, con le quali gioco per scoprire quanto sia grande il mio spirito d’osservazione. Non sempre riesco però a centrare l’obiettivo. Qualche volta percepisco solo le sfumature, mentre in altri casi ci vado talmente vicino da sorprendermi io stesso. Mi guardo intorno e penso che deve essere un uomo con una spiccata intelligenza, molto pragmatico, direi quasi “minimalista”; sicuramente ha dato spazio alle sue passioni senza, però, eccessi di forma, forse un po’ introverso e riservato. È così che lo immagino... poi una stretta di mano, una sigaretta che si accende e il gioco sparisce ed è sufficiente quel suo sguardo sincero per capire che non mi sbagliavo.

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PAOLO RADICI


RONCO CALINO


FRANCIACORTA DOCG BRUT Il vino è prodotto vinificando le migliori uve Chardonnay (80%) e Pinot nero (20%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Calino, nel comune di Cazzago San Martino, su terreni morenici, in parte profondi, ma mediamente sottili e fluvio-glaciali, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo, ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 230 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti, dopo 24 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 12°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), per l’80% in tank di acciaio e per il 20% in barriques di rovere francese in dotazione all’azienda fin dalle prime vendemmie. In questi contenitori i vini rimangono fino all’aprile successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 30 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase questa conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore paglierino intenso e lo arricchisce di un perlage fine, continuo e persistente; all’esame olfattivo si propone con un bouquet fresco, ricco e intenso che fonde le note fruttate (banana, ananas, papaia, mela e nespola) a quelle floreali (tiglio, acacia, ginestra e mimosa): il tutto su un fondo che sa di tostatura, nocciole e anice stellato. La bocca è morbida, piacevole, intrigante; lungo e persistente, ha un finale che riporta alla mente le note fruttate percepite al naso.

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UBERTI Ci sono molte ricette per trasformare un incontro di lavoro in un piacevole momento di relax. Una di queste consiste nel mettere un po’ di ciocchi di vite ad ardere dentro un caminetto e attendere che, sulla brace prodotta, si crogiolino una decina di salsicce sopra ad una griglia. Poi è necessario far apparire in tavola un po’ di pane, un po’ di formaggio e qualche bottiglia di Franciacorta d’annata ed ecco che, magicamente, l’atmosfera si rilassa e la naturale convivialità creatasi aiuta a raccontarsi, ad aprirsi e a farsi conoscere. Da buon gourmet ho seguìto la ricetta alla lettera e così anche l’incontro con Eleonora e Agostino Uberti e le loro figlie Silvia e Francesca è diventato un momento magico, difficile da dimenticare. Mentre consumo insieme a loro questa frugale merenda strappata al caso, mi sembra quasi di essere in Friuli e non in Franciacorta, fra quei ragazzacci di Cormòns, come mi piace definirli, che non perdono occasione di assecondare l’antico hostipotis, cioè quella manifestazione di generosità, cortesia e tolleranza benevola che tutti gli uomini di cultura dovrebbero sempre avere per un viaggiatore. Su queste “Terre Franche” è la prima volta che mi succede e ben venga se due salsicce e un bicchiere di vino sono riusciti a smuovere il timido e taciturno Agostino facendolo raccontare di sé o, se stando in compagnia, anche Donna Nora, come ho chiamato Eleonora sua moglie, ha perso lo sguardo interrogativo e un po’ diffidente con il quale mi osservava nelle prime ore del nostro incontro, abbandonandosi a quello più rilassato e naturale che accompagna, di solito, la vista di un amico. Del resto, non posso pretendere di arrivare e, senza essere conosciuto, pensare che immediatamente le persone si aprano e inizino a raccontarmi ogni loro cosa. Soprattutto non devo aspettarmelo da chi, per cultura e riservata intelligenza, ha sempre preferito che a parlare fossero le vigne e i vini, a differenza di quanto fanno altri produttori. Li guardo come se scoprissi - ora che il registratore e il computer sono spenti - quasi altri soggetti, che mi piacciono più di prima; più

naturali e spontanei, anche se ancora non so se definirli dei contadini, nel senso più nobile del termine, degli agricoltori o dei viticoltori. La cosa importante è che essi hanno un forte legame con la terra, un rapporto che si è costruito negli anni e che ha consolidato la tradizione che vede la famiglia Uberti presente su queste terre fin dal 1793, molto prima rispetto al 1980, anno nel quale si sono affacciati sulla moderna scena vitivinicola franciacortina. Agostino, del resto, è nato qui e anche quando i genitori acquistarono una trattoria e dovette seguirli a Erbusco, non perdeva occasione - mi racconta - di ritornare nella vecchia casa dei nonni dalla quale non si era mai veramente allontanato. Una casa molto diversa da quella che vedo adesso, anche se l’insieme architettonico, in qualche parte, ricalca ancora la vecchia costruzione che, in questi ultimi 25 anni, è stata adattata alle esigenze di un’azienda, attraverso la presenza costante d’imprese edili che, sistematicamente, si sono alternate ora per erigere la cantina, ora per allargarla, ora per fare gli uffici o la sala degustazione o per dare un ultimo ritocco all’ultimo particolare con il gusto - come mi confessano - di avere sempre muratori per casa. Mi sembra di aver fatto un tuffo nel tempo, anche perché, intorno a loro, vedo solo vigne che, negli anni, sono cresciute, spesso a stretto contatto con altre vigne, le stesse che, neanche fino a qualche decennio addietro, circondavano la Franciacorta e che ora, invece, sono circondate a loro volta da capannoni, tangenziali e villette a schiera, che però fortunatamente da qui non si vedono. Sembra un’isola e spero che rimanga tale per sempre, perché è perfetta così com’è, in ogni minimo particolare; più che perfetta per loro, tutti uniti nel seguire, anno dopo anno, l’evoluzione di un semplice e genuino sogno che li vede vignaioli in Franciacorta.

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AGOSTINO UBERTI


UBERTI


FRANCIACORTA DOCG EXTRA BRUT COMARÌ DEL SALEM Questo Franciacorta è prodotto vinificando le migliori uve Chardonnay (75%) e Pinot bianco (25%) provenienti dal vigneto denominato “Comarì”, di proprietà dell’azienda, situato in località Salem, nel comune di Erbusco, su terreni ricchi di scheletro, calcarei, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 280 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dall’ultima decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 24 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avviano alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati e anche, in alcune partite, di quelli autoctoni. Questa fase si protrae per 10-14 giorni, alla temperatura di 16°C, ed è fatta svolgere per l’80% in tank di acciaio, mentre un 20% è posto in barriques di rovere francese usate in cui il vino rimane fino al mese di marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 48 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Un Franciacorta elegante che si propone con una spuma cremosa e un perlage fine, continuo e persistente, vestendo il bicchiere di un bel giallo con brillanti riflessi dorati. Al naso, intenso, equilibrato e armonioso, propone dolci sensazioni di frutti tropicali maturi, come ananas, mango e papaia, mentre le note floreali si amalgamano a un finale molto minerale, direi marino. In bocca risulta morbido in ingresso, con una progressione agrumata e un’uscita decisamente fresca; sapido e ben strutturato, propone un insieme di grande equilibrio, con un finale elegante, piacevole, lungo e persistente.

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VILLA Appena fuori del paese di Monticelli Brusati mi ritrovo in questa azienda vitivinicola composta da più edifici, alcuni dei quali, un tempo, dovevano essere delle vecchie stalle. Case piccole, grandi, lunghe, collocate ai lati di una strada che attraversa l’abitato, dal fascino irresistibile di un borgo d’altri tempi, come è facile incontrare molto spesso in Toscana, ma, raramente, in Franciacorta. L’insieme è molto armonico e il merito è sicuramente di chi ne ha curato il suo recupero, sapendo interpretare e non stravolgere, la storia che traspira da queste mura. Ad attendermi trovo Alessandro Bianchi, un brillante industriale di Brescia del settore della meccanica, ormai in pensione, la figlia Roberta e il marito di quest’ultima, Paolo Pizziol, i quali mi accompagnano a visitare l’azienda, confermando le mie riflessioni sul recupero dei manufatti edili e sull’incanto che riescono a comunicare. Non so quale sia il motivo, ma ogni tanto trovo dei luoghi che, a prescindere dalla loro bellezza, emanano energia e, di solito, sono quelli che hanno un “vissuto” costruito sulla vita di chi ha contribuito a formare la loro piccola o grande storia. Vengo a conoscenza del fatto che Alessandro acquistò l’azienda in uno stato disastroso, di completo abbandono. Le case erano fatiscenti, i tetti cadenti, le campagne coltivate secondo l’estemporaneità e l’interpretazione delle quindici famiglie di mezzadri che, pieni di debiti e con gli zoccoli ai piedi, facevano e disfacevano secondo un loro personale giudizio, vivendo fra queste quattro mura in condizioni peral-

tro difficili. Sembrano cose da non credere, poiché un tempo questa era una delle zone più rinomate del bresciano e i vini che qui si producevano già citati, nel 1610, nel “Catartico”, un documento, fatto stilare dal capitano Da Lezze, teso a rilevare le potenzialità economiche del territorio facente capo a Brescia. Vi erano state poi generazioni di vignaioli che avevano faticato duramente per rendere coltivabili le pendici del Colle della Madonna della Rosa, uno splendido terrazzamento a gradoni esposto a sud, proprio alle spalle del borgo, che era stato lavorato dai vari proprietari, fra i quali anche l’ordine monastico femminile di Santa Giulia di Brescia che - come ho riscontrato in alcuni testi - ha avuto un grande merito nella storia della viticoltura della Franciacorta. Improvvisamente, agli inizi del Novecento, si avviò un lento declino e tutto fu abbandonato, anche i vigneti. A sentir parlare i miei ospiti sembra che mi stiano raccontando storie lontane, di altri tempi; invece si riferiscono alle condizioni in cui, nel 1960, si trovava questa azienda: non molto diverse, del resto, da quelle di altre aziende agricole della zona. Con il loro arrivo iniziò quel lento recupero che, dopo anni, ha portato al risultato odierno, anche se suppongo non debba essere stata un’impresa semplice indirizzare l’azienda vitivinicola verso la modernità; tutto, comunque, doveva essere ben chiaro nella mente di Alessandro Bianchi, poiché, fin da subito e senza esitazione, tagliò lacci e lacciuoli che frenavano il processo di ammodernamento che lui aveva in mente e che riguardava l’eliminazione dei numerosi contratti di mezzadria gravanti sulla proprietà e il grande lavoro di recupero di quei vigneti storici che per secoli avevano dato lustro a Villa. A vedere i risultati non ho dubbi che seguirono anni di grande impegno. Al primo ampliamento della cantina, che fino al 1978 era ancora quella del XVI secolo, ne seguì un secondo nel 1989 ed un terzo nel 2003: tutto per poter far maturare, per lungo tempo, i Franciacorta dell’azienda, come il Pas Dosé Diamant Millesimato, che mi ha proprio entusiasmato.

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PAOLO PIZZIOL ROBERTA BIANCHI


VILLA


FRANCIACORTA DOCG PAS DOSÉ DIAMANT MILLESIMATO Pas Dosé prodotto vinificando le migliori uve Chardonnay (80%) e Pinot nero (20%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Villa, nel comune di Monticelli Brusati, su terreni marnosi, calcarei, ricchi di argille sedimentarie e fossili, a un’altitudine compresa tra i 220 e i 300 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 8°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-15 giorni (a 18°C), 70% in tank di acciaio inox e per il 30% dello Chardonnay in barriques di rovere francese. In questi contenitori i vini possono svolgere, a seconda delle annate, separatamente la fermentazione malolattica e rimangono fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite e alla costituzione della cuvée; seguono l’imbottigliamento e la relativa aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 48 mesi, al termine dei quali si effettuano il remuage delle bottiglie, il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e la contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition (in questo caso vino della stessa annata). Un Franciacorta fresco, brillante, “classico”, ben realizzato e di facile comprensione, quasi “didattico”, che si presenta di un bel colore giallo paglierino ricco di riflessi dorati e con un perlage fine, continuo e persistente; all’esame olfattivo si offre fresco e leggero e la fanno da padrone i sentori fruttati di uva spina, pera, mela e agrumi che presentano una citrosità piacevole avvolta da una sottile vena ossiditava, preludio a una grande freschezza giocata su note di lieviti, panificazione e altre più vegetali di erba medica e salvia. In bocca risulta elegante, equilibrato, sapido e persistente; lungo il finale con nuances che ricordano la nocciola tostata.

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VILLA CRESPIA - MURATORI Devi sapere, Andrea, che per me, come per i miei fratelli, la costruzione e la realizzazione di un progetto si può basare solo su regole precise che è necessario seguire scrupolosamente. Un principio che ha guidato noi Muratori per tutti questi anni lungo una strada ben delineata, in tutte le nostre scelte, per ogni attività nella quale decidevamo di cimentarci. Queste regole, nel tempo sono divenute vere e proprie certezze che si sono via via concretizzate, soprattutto dopo aver constatato come il seguirle abbia facilitato e garantito il buon funzionamento dell’azienda di famiglia che, da quasi mezzo secolo, opera nel comparto tessile. Un background che si è sviluppato con il tempo, consentendoci non solo di mantenere quello che avevamo costruito - a dispetto del fatto che oggi il 90% delle aziende nostre concorrenti in Italia sono scomparse - ma anche di aprirci a nuove esperienze operative e dar corso a nuovi progetti, come questo che riguarda il mondo del vino. Una “biografia storica”, quindi, che si è basata sulle regole che ci siamo imposti e che sono state condivise dai componenti della famiglia, ognuno dei quali contribuisce alla causa comune, con il suo buon senso e la sua personale esperienza, acquisita lavorando in gruppo, in questi lunghi decenni, nell’impresa avviata da nostro padre Giovanni Muratori all’inizio degli anni Sessanta. Mi dispiace che ora Giovanni, mio padre, non sia potuto venire qui, a discorrere con noi, ma ti posso assicurare che è un grande uomo e una figura di grande spessore che, a 85 anni, rappresenta la persona più importante della nostra famiglia. Ci ha insegnato molto e una delle cose più belle è stata quella di farci comprendere quanto sia necessario, per il successo finale, riuscire a far bene le cose, di qualunque tipo esse siano. Ha sempre sostenuto che non serve solo fare, ma l’importante è aggiungere al nostro saper fare la passione e l’amore per le cose, affinché esse assumano un valore più alto per noi e per gli altri. E per riuscire in questo, era necessario che noi tutti avessimo ben chiaro il senso del dovere e fossimo sempre all’altezza della situazione. Princìpi che abbiamo trasferito anche ai nostri figli, nessuno dei quali ha la certezza matematica di entrare in azienda per diritto acquisito. Abbiamo stabilito che fosse la meritocrazia il parametro valutativo del loro ingresso nel Gruppo, per avviare, così, quel doveroso cambio generazionale che ogni azienda, prima o poi, deve attivare, partendo proprio dalla valorizzazione dei meriti di ognuno dei nostri figli, duramente conquistato nello studio e sul campo, con esperienze acquisite lontano dalle aziende di famiglia, per almeno due anni. Regole che consentono di avere il rispetto dell’ambiente di lavoro e che sono, poi, le stesse che abbiamo seguìto io e miei fratelli e che non ci hanno risparmiato un lungo tirocinio, in certi casi partito dall’umile gavetta dello scaricare e caricare camion, imballare

e confezionare i cartoni della merce, dall’attività di magazziniere a quella di semplice impiegato: tutte cose che, prima di assumere le responsabilità del ruolo che oggi ricopriamo, ci hanno aiutato a capire cosa significhi e quale sia il valore del lavoro altrui. È seguendo questi princìpi che si acquisisce lo stile di vita del Gruppo Muratori. Uno stile che ci ha dato grandi soddisfazioni nel settore tessile, in quello immobiliare, per poi dare luogo a questo progetto del settore vitivinicolo, nato nel 1998, che abbiamo chiamato “Arcipelago” - da un’idea del nostro enologo Francesco Iacono - nel quale abbiamo profuso, come sempre, le nostre risorse, la nostra energia e la nostra passione. Arcipelago inteso come insieme di isole, come unione di territori che possiedono una loro tipicità, come è questo di Villa Crespia ad Adro, in Franciacorta, vocato per le bollicine, o quello di Suvereto in Toscana dove, nella Tenuta Rubbia al Colle, produciamo i vini rossi, o quello sull’Isola d’Ischia dove, nella Tenuta Giardini Arimei, produciamo un vino da uve autoctone appassite in pianta, o quello nella zona del Sannio beneventano dove, nella Tenuta Oppida Aminea, produciamo vini bianchi di Greco, Falanghina e Fiano. Isole alle quali, spero, in un prossimo futuro se ne possano aggiungere altre che andranno a comporre il nostro arcipelago, il quale, in certi momenti, è sferzato da tempeste, in altri è circondato da un mare piatto e liscio come l’olio e, in altri ancora, è rinfrescato da un lieve e salutare vento di maestrale che ci fa viaggiare spediti verso i nostri obiettivi. Metafore che, certamente, comprenderai e ti faranno rendere conto di quanto sia complesso e articolato il nostro impegno, che deve sempre rispettare regole precise da seguire. Un arcipelago di tante isole nelle quali ho scoperto un porto sicuro che è rappresentato dalla mia famiglia, nella quale trovo sempre la quiete dopo una giornata di lavoro.

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GIULIANO BRUNO MURATORI MURATORI


VILLA CRESPIA - MURATORI


FRANCIACORTA DOCG BRUT NOVALIA Blanc de blancs prodotto vinificando le uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Bettolino e Martore (frazione Monterotondo), nel comune di Passirano, su terreni di origine alluvionale, franco argillosi con frequente presenza di sedimenti ghiaiosi, ad un’altitudine compresa tra i 270 e i 280 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), in tini di acciaio inox, in cui il vino rimane fino al marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 30 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Questo Franciacorta colora il bicchiere di un giallo paglierino ricco di riflessi dorati arricchendolo di un perlage fine, fitto e persistente; al naso, intenso e fresco, propone note di crosta di pane che si intrecciano ad altre vegetali e floreali di acacia, lavanda e mughetto, seguite da percezioni fruttate di ananas, banana, pera, mela e more di gelso bianco. Un bouquet vario che si arricchisce di note ammandorlate e agrumate di cedro e arancia. In bocca risulta fine, elegante, suadente, fresco, ricco di un armonioso equilibrio fra le percezioni olfattive e quelle gustative, con una sapidità piacevole che lo rende lungo e persistente, proponendo un finale che riporta alla mente piacevoli sensazioni di biscotti al burro e di tabacco dolce da pipa.

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Un cuneo della Lombardia con un territorio, in prevalenza collinare, che si estende su 1100 km quadrati in provincia di Pavia e che si insinua tra l’Emilia e il Piemonte, arrivando quasi a lambire la Liguria: geograficamente questo è l’Oltrepò Pavese. La nascita di quest’area, come entità amministrativa, è databile al 1164, quando Francesco I, detto il Barbarossa, concesse alla città di Pavia la possibilità di nominare i reggenti delle località che costituiscono l’attuale provincia pavese. Zona strategica per i commerci che avvenivano tra il mare e la vicina pianura padana, ha visto, come ogni terra di confine, scontri e guerre in diversi periodi storici per ottenerne il controllo. Liguri, Galli, Insubri, Romani e poi gli occupanti fino al periodo delle battaglie risorgimentali hanno lasciato segni ancora ben visibili nei numerosi castelli, torri e avamposti militari - costruiti per controllare commerci e possibili invasioni - che costellano tuttora il panorama collinare e montano della zona. Numerosi anche gli scambi tra le diverse culture che rimangono ancora oggi nella toponomastica e nel ricco dialetto locale. Dal punto di vista economico, una delle risorse fondamentali del territorio è l’agricoltura, con la viticoltura che occupa la posizione predominante, una costante nel corso delle diverse dominazioni, ma che si è sempre accompagnata ad altre attività. Salumi in generale, primo fra tutti il salame di Varzi, ma anche produzioni di formaggi (di capra e di vacca), di funghi e tartufi, di miele e di mele, mandorle e noci, solo per citarne alcune. Ad una produzione così variegata, a cui corrispondono numerosi piatti tipici, non poteva che corrispondere un panorama enologico molto diversificato: dai vini rossi di lungo affinamento, ai vini bianchi e rossi frizzanti, dai vini dolci fino agli spumanti. Un universo enologico possibile grazie alle

numerose differenze tra suoli, clima, altitudini e varietà presenti nell’Oltrepò Pavese, con un paesaggio che cambia rapidamente, in pochi chilometri, dalla pianura alle prime dolci colline fino alla zona montana. Con i suoi oltre 13.000 ettari di vigneto, l’Oltrepò Pavese rappresenta la zona viticola più estesa della Lombardia, circa il 60% dell’intera regione. Barbera e Croatina, localmente chiamata Bonarda, sono le varietà a bacca rossa più diffuse e che hanno reso celebre questa zona oltre i propri confini. Da sempre considerata come la fonte per rifornire di vino, spesso sfuso, la città di Milano, ha visto ultimamente dirigere la propria produzione verso prodotti di qualità e in particolar modo verso il settore degli Spumanti ottenuti secondo il Metodo Classico. Grazie all’impegno di piccole aziende agricole insieme alle grandi Cantine sociali, è in atto uno sforzo per valorizzare questa produzione mettendo in primo piano il Pinot nero, spumantizzato sia nella versione in bianco, ma soprattutto in quella in rosato (“Cruasé”): un marchio collettivo, nato dalla contrazione tra i termini: selezione (Cru), ma anche naturale (crudo) e Rosé. Una tipologia di spumante su cui il Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese ha puntato molto e che ha recentemente ottenuto la qualifica di DOCG da parte del comitato per le denominazioni di Origine. La storia dello spumante nell’Oltrepò Pavese inizia nel 1865, quando a Rocca de’ Giorgi vengono impiantati vigneti di Pinot nero per la produzione di base spumante ad opera del Conte Carlo Giorgi di Vistarino. Pochi anni dopo, nel 1870, è l’Ing. Domenico Mazza di Codevilla che, assunto un enologo di Reims, inizia la produzione dello Champagne italiano; questo vino ottiene il primo posto all’Esposizione Nazionale di Milano nel 1894.

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Il successo varca le Alpi e l’Oceano, tanto che nel 1912, a fianco della Statua della Libertà a New York è ben visibile il cartello pubblicitario “Gran Spumante SVIC” (Società Vinicola Italiana di Casteggio), azienda nata nel 1907. Sulla scia di questi successi incominciano a produrre spumanti grosse aziende come la nascente (1930) Cantina Sociale di La Versa. Nel 1970 viene riconosciuto il Disciplinare di produzione dei vini dell’Oltrepò Pavese e lo spumante si può quindi fregiare della dicitura DOC. Il percorso di valorizzazione continua fino all’ottenimento, come già accennato, nel 2007 della DOCG per le tipologie Spumante Metodo Classico (bianco e Rosé) a base principalmente di Pinot nero. 1. Il territorio L’Oltrepò Pavese ha un’estensione di 110.000 ettari, con una zona a forma triangolare, o meglio, quasi ad indicarne la vocazione, “a grappolo”, tra le province di Alessandria e Piacenza che si allunga in direzione del mare, verso sud, arrivando quasi alla provincia di Genova. Un territorio che parte dalle pianure del fiume Po e si alza gradualmente verso sud passando da una zona collinare verso i rilievi degli Appennini, fino al Monte Lesima, vetta più alta con 1724 metri di altezza s.l.m. In base a questa conformazione del territorio è possibile distinguere tre fasce altimetriche ben distinte: �� �����������������m����������������������� che corrisponde alla pianura in vicinanza del fiume Po e arriva fino alle prime colline, con i centri abitati di Casteggio, Broni, Voghera, Codevilla, Montebello della Battaglia. �� �������������������������������������������� i 200 e i 600 metri s.l.m., che include il 42% del territorio e dove si concentra la


maggior parte dei vigneti. della superďŹ cie complessiva, che supera i 600 metri s.l.m. e arriva agli Appennini. A caratterizzare il territorio, oltre alla presenza del ďŹ ume Po ci sono anche i corsi d’acqua, tutti auenti di destra del maggiore ďŹ ume italiano, con andamento prevalente da sud a nord: il ďŹ ume Staora, il torrente Coppa, il torrente Scuropasso e il torrente Versa che danno il nome alle corrispondenti valli (Valle Staora, Val Coppa, Valle Scuropasso e Valle Versa).

1.1 I suoli L’intero areale dell’Oltrepò Pavese può essere schematicamente diviso in una zona pianeggiante a ridosso del ďŹ ume Po, una zona collinare intermedia, per ďŹ nire con una zona montuosa nella parte meridionale del territorio. La zona pianeggiante si è formata nell’era Quaternaria, da antiche glaciazioni e dalle alluvioni piĂš recenti del ďŹ ume Po. Scendendo verso sud, il paesaggio mostra i primi rilievi collinari che gradualmente si alzano ďŹ no a raggiungere le prime vette montane; è questa la zona che mostra il maggior interesse viticolo e si è formata nel Cenozoico - da kainòs (recente)

e zoè (vita) - l’era geologica piĂš “recenteâ€?, che parte da 65 milioni di anni fa ed arriva ďŹ no ai giorni nostri. In quest’area i suoli sono caratterizzati da marne, rocce composte da una frazione prevalente argillosa e da una frazione di carbonati, che variano dalla prevalenza della componente argillosa ďŹ no a quella calcarea. Si tratta di suoli altamente dierenziati che hanno permesso nel tempo di individuare le piĂš adatte varietĂ da piantare per ottenere vini molto diversi tra loro. I suoli delle zone piĂš vocate per l’ottenimento di uve da destinare alla produzione della base spumante provengono da suoli di media ed elevata profonditĂ , caratterizzati da un’elevata presenza di calcare - come accade ad esempio anche nella zona francese dello Champagne - e dall’argilla, capace di trattenere acqua nei periodi piĂš piovosi e cederla durante la stagione piĂš secca, in modo da favorire un’equilibrata maturazione dei grappoli, soprattutto per quanto riguarda il livello di aciditĂ . 1.2 Il clima Il clima dell’Oltrepò Pavese risente a livello continentale sia dell’inusso di area fredda artica e russo-continentale, sia dell’aria piĂš calda di origine africana proveniente dal

Unità cartografiche con l’indicazione dei comuni piÚ rappresentativi.

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vicino Mediterraneo. Un clima particolare che, a livello locale, fornisce variegati habitat per le diverse coltivazioni. Queste dierenze sono riscontrabili dai valori della temperatura dell’aria che, con una media annuale di 11-12°C, variano notevolmente soprattutto nel periodo piĂš caldo (tra luglio e agosto), quando i valori risultano notevolmente dierenti tra valle e valle; cosĂŹ sotto i 500 metri le temperature massime estive arrivano a 28-30°C, mentre tra i 500 e i 600 metri si abbassano a 25-27°C; in questo periodo, in virtĂš della conformazione del paesaggio, notevoli escursioni termiche caratterizzano le colline dell’Oltrepò. Le precipitazioni medie annuali aumentano da est ad ovest della provincia dove arrivano a quasi 1.000 mm/anno. Il mese piĂš piovoso è quello di novembre (143 mm/mese) e il piĂš secco quello di luglio (47 mm/mese). 2. Aspetti viticoli A questa estrema variabilitĂ di suoli e climi corrisponde un variegato mondo enologico, una produzione diversiďŹ cata che spazia tra le piĂš diverse tipologie di vino. Le combinazioni tra suolo, clima e vitigno, quello che i francesi individuano nella parola terroir, mutano anche dopo pochissimi metri tra un vigneto


e l’altro; le basi per un approccio scientifico di individuazione delle migliori combinazioni tra questi fattori è la zonazione viticola, uno studio multidisciplinare che propone una sintesi tra le ricerche geologiche, pedologiche, climatiche e la loro interazione. Anche l’Oltrepò Pavese si è dotato di un tale strumento grazie ad una ricerca coordinata dall’Università degli Studi di Milano. Il panorama viticolo è caratterizzato da allevamenti con un sistema di potatura a Guyot, con densità d’impianto ideale di 4500 piante per ettaro. La conduzione dei terreni, soprattutto in queste zone collinari, risulta importante anche per evitare erosioni del suolo, pericolose non solo per fini agronomici, ma anche per la conservazione del paesaggio; infatti l’inerbimento tra i filari è una pratica consolidata che garantisce una maggiore coesione del suolo ed una maggiore dispersione dell’acqua durante le annate più piovose. La presenza di erba tra i filari permette inoltre una migliore gestione dei nutrienti per le viti, garantendo uno scambio equilibrato con l’ecosistema. 2.1 Varietà La varietà che contribuisce alla creazione del Metodo Classico Oltrepò è fondamentalmente il Pinot nero, anche se è possibile una piccola integrazione delle varietà Pinot grigio, Pinot bianco e Chardonnay. Pinot nero Il Pinot nero in Oltrepò Pavese può vantare una superficie di più di 2.500 ettari di vigneto, che la rendono la zona italiana in cui è maggiormente coltivata tale varietà. È stata l’analisi del DNA che ha messo in luce l’origine di questa varietà individuandola in un incrocio spontaneo tra il Traminer e un Pinot ancestrale a foglie tomentose. Le prime notizie storiche, invece, risalgono probabilmente al III-IV secolo d.C., quando gli abitanti di Autun in un documento di ringraziamento all’imperatore Costantino, citano la qualità di un vigneto nel pagus Arebrignus, nell’odierna Côte de Nuits in Borgogna. Cinquanta anni prima, Probo introdusse in quella zona nuovi vitigni provenienti da oriente, in particolare dalla Pannonia e dalla Croazia; vennero così messe a dimora nuove piante, chiamate genericamente “Heunisch” (da Hunnisch, gli Unni che abitavano la regione ad est della Pannonia). L’antica viticoltura non prevedeva l’espianto totale delle vecchie viti, ma l’impianto di nuove talee a fianco dei ceppi già presenti, spesso frutto della domesticazione

Media delle precipitazioni piovose annuali in Oltrepò Pavese (mm/anno).

del Pinot nero in Oltrepò Pavese potrebbe risalire già al periodo dei romani. Dalmasso propone una teoria secondo la quale l’antico “helvolae” (uve grigie), potrebbe essere identificato con il Pinot grigio. Notizie certe risalgono invece al 1500, periodo in cui viene citata in diversi documenti la presenza di vitigni come il Pinolo, il Pignolo gentile e il Pignolo grappolato che richiamano appunto al Pinot. La diffusione del vitigno in grande stile avviene dalla seconda metà del XIX secolo, quando vi è un grosso impulso a sperimentare diverse varietà su tutto il territorio nazionale. In Oltrepò il Pinot nero trova il suo habitat e i primi successi nella sua versione spumante non tardano ad arrivare,

delle viti selvatiche. Gli incroci frequenti tra le diverse piante portarono ai progenitori delle odierne varietà. A diffondere la viticoltura nel Medioevo furono poi i monaci, che, dopo la caduta dell’Impero Romano, si occuparono di salvare i vigneti che erano stati abbandonati selezionando nuove varietà attraverso i semi frutto di questi incroci. A confermare questa teoria c’è la somiglianza che i semi di Pinot hanno con le viti selvatiche, le dimensioni ridotte di grappoli ed acini, la loro elevata tendenza al polimorfismo, insieme alla presenza di un composto aromatico (antranilato di metile) caratteristico della vite selvatica “Vitis labrusca”. Secondo alcuni ampelografi, la presenza SMA 191

LB9

R4

292

Produzione

Medio-bassa

Media

Medio-elevata

Media

Grappolo

Grande

Medio-piccolo

Medio

Medio-grande

Acino

Medio

Medio

Medio-piccolo

Medio

Vigore

Elevato

Medio

Medio

Medio-elevato

Fertilità

Medio-bassa

Media

Medio-elevata

Elevata

Caratteristiche Enologiche

Acidità e sapidità

Struttura e aromi

Sentori fruttati

Acidità superiore

CLONE

Sono oltre 50 i cloni di Pinot nero esistenti, selezionati soprattutto in Italia e in Francia. Nella tabella sono riportati 4 cloni, due italiani e due francesi, particolarmente adatti per la spumantizzazione.

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ottenendo riconoscimenti ad esposizioni nazionali ed internazionali. Il disciplinare DOCG, introdotto nel 2007, prevede la sua vinificazione in purezza con un’eventuale integrazione di altri vitigni (Pinot grigio, Chardonnay e Pinot bianco) che possono raggiungere insieme o separatamente il 15% nel Metodo Classico Pinot nero, bianco e rosé, e il 30% nel caso dello spumante DOCG senza indicazione del vitigno. Vino bianco e vino rosso: un solo vitigno, ma cloni diversi Il Pinot nero mostra una notevole tendenza a subire mutazioni: quelle più macroscopiche hanno dato origine alle due varietà distinte Pinot grigio e Pinot bianco, ma anche all’interno della stessa varietà esistono notevoli differenze; si parla infatti di “vitignopopolazione” proprio per l’estrema variabilità delle sue tipologie. A livello generale si può constatare che il Pinot nero viene utilizzato per vinificare alcuni tra i vini più importanti del mondo, sicuramente molto famosi, come lo Champagne e i vini della Borgogna. Vini assolutamente diversi tra loro. Alla base di questa diversa attitudine non c’è solo una differente combinazione tra suoli e clima, ma una notevole diversità tra le uve destinate a tali prodotti. Un esempio pratico, riconducibile ad un singolo territorio, è proprio in Oltrepò Pavese, dove da questo vitigno è possibile ottenere sia vini rossi destinati ad un medio e lungo invecchiamento che le basi spumante, vino bianco e rosato, destinate alla successiva spumantizzazione. Non si tratta solo di una scelta di vinificazione fatta in cantina al momento della vendemmia, bensì dell’esistenza di diversi biotipi e cloni di Pinot nero che mostrano caratteristiche diverse, anche se piantate nel medesimo terreno ed allevate nello stesso modo. Storicamente queste differenze tra singole piante, e non solo per il Pinot nero, erano ben note ai contadini che selezionavano quelle con caratteristiche diverse per poi innestare solamente le più interessanti per i loro obiettivi: più colore ceduto al vino, più acidità, più produttività, ecc, ecc. Frutto di una selezione più che secolare attuata da singoli viticoltori prima e dai vivaisti dopo, il Pinot nero può vantare oggi più di 50 cloni diversi. Una prima suddivisione di questa “popolazione” può essere fatta in tre grossi gruppi in base alla dimensione del grappolo e dell’acino: i tipi “fini”, i “produttivi” e gli “intermedi”. Alla base di questa distinzione,

oltre che caratteristiche morfologiche della pianta - come per esempio la forma della foglia e del grappolo - corrispondono notevoli differenze nei mosti, e quindi nei vini, che si ottengono. Differenze che riguardano in particolar modo la concentrazione di acido tartarico, parametro importante nella spumantizzazione, e il contenuto di antociani, molecole che apportano colore al vino, fondamentale ovviamente per la vinificazione in rosso. Attualmente questa selezione avviene tramite ricerche scientifiche della durata di parecchi anni che hanno permesso di selezionare diversi cloni di Pinot nero, con diverse attitudini produttive. Il risultato è nella possibilità da parte dei viticoltori di poter scegliere nei vivai il “tipo” di Pinot nero più adatto ai propri scopi enologici e all’adattamento a particolari suoli e climi. Esistono quindi cloni più indicati per la produzione di vini rossi da invecchiamento e altri più indicati a creare un vino base destinato poi alla presa di spuma in bottiglia. Chardonnay Proveniente dalla Borgogna, deve il suo nome ad un piccolo paese nel Mâconnais, chiamato appunto Chardonnay dal francese chardon che significa cardo. In passato veniva spesso confuso con il Pinot bianco e per la colorazione più gialla degli acini veniva spesso chiamato Pinot giallo. Pinot grigio Questa varietà si è originata da una mutazione del Pinot nero: in Oltrepò Pavese spesso viene vinificato in purezza per dare un vino bianco fermo. Pinot bianco Spesso confuso con lo Chardonnay, anche questo vitigno, come il Pinot grigio, deriva da una mutazione gemmaria del Pinot nero. Viene spesso vinificato in purezza. 2.2 L’interazione tra vitigno e ambiente Come già accennato, l’Oltrepò Pavese è la prima zona viticola italiana, per estensione, nella coltivazione del Pinot nero; questa varietà risulta adatta sia per la vinificazione di basi spumanti, sia per la produzione di vini rossi dal lungo affinamento in botte, e di tutte le diverse tipologie che possono interporsi tra questi due estremi. Questo non vuol dire che ogni vigna piantata a Pinot nero fornisce uva da destinarsi indistintamente per la spumantizzazione oppure per la vinificazione in rosso. Nel corso dei secoli la saggezza e le conoscenze acquisite dai viticoltori hanno permesso di

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individuare le zone più adatte per ogni tipo di vinificazione; più recentemente, attraverso la studio dei diversi terroirs (zonazione viticola), sono state cartografate le migliori zone per la coltivazione della varietà come base spumante: terreni profondi, ma di tessitura fine, che consentono una buona riserva idrica, ma senza rischi di ristagno, con buona dotazione di elementi nutritivi per la vite, situati nella zona medio-alta (tra i 200 e i 550 metri s.l.m.), con esposizioni prevalenti a est-ovest, un clima più fresco, piogge più frequenti e maggiori sbalzi termici rispetto ai fondovalle. Queste sono le condizioni per ottenere uve con un equilibrato rapporto tra acidi e zuccheri, insieme ad un’elevata presenza di sostanze azotate che giocano un ruolo fondamentale nella formazione delle bollicine nella rifermentazione in bottiglia. 3. Aspetti enologici La ricerca della qualità e gli obiettivi commerciali volti ad una riqualificazione complessiva dell’area hanno portato all’introduzione della DOCG Oltrepò Pavese Metodo Classico che prevede la spumantizzazione, sia rosé che bianco, con una base principale di Pinot nero. Negli ultimissimi anni la produzione degli spumanti rosati in Italia è quasi raddoppiata, mostrando che non si tratta di una moda passeggera, ma di una decisa volontà da parte dei consumatori verso questa tipologia, tempo addietro considerata una via di mezzo tra il vino rosso e lo spumante bianco tradizionale. 3.1 Tipologie e vinificazione Il nuovo disciplinare prevede, infatti, assieme al Metodo Classico vinificato in bianco, altre due tipologie di vini spumanti rosati: nella prima compare il nome Pinot nero e prevede il suo utilizzo per almeno l’85% e per questa tipologia di vino si può indicare il nome “Cruasé”, mentre nella menzione Oltrepò Pavese Metodo Classico, senza indicazione del vitigno, il Pinot nero è minimo al 70%. La parte restante per le due tipologie è formata da Chardonnay, Pinot grigio e Pinot bianco. I terreni devono essere collinari di natura calcarea o calcareo-argillosa con l’esclusione dei fondovalle e dei terreni di pianura. Per i nuovi impianti è previsto l’utilizzo esclusivo di materiale vivaistico certificato con una densità d’impianto non inferiore ai 4.000 ceppi per ettaro e l’eventuale irrigazione di soccorso nel caso di prolungati periodi siccitosi. La resa massima prevista è di 10 tonnellate


Le UnitĂ vocazionali dell’Oltrepò Pavese che, secondo la zonazione viticola, producono le migliori uve Pinot nero per il Metodo Classico insieme ai profili sensoriali dei vini in queste ottenuti.

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per ettaro per tutte le tipologie, con una resa di uva in vino che varia dal 60 al 65%. Questo parametro risulta fondamentale per l’ottenimento della qualità, portando quindi la resa per ettaro a 60-65 ettolitri di vino. Tutte le operazioni di vinificazione devono essere condotte nella zona di produzione con l’estensione eventuale a tutta la provincia di Pavia. La permanenza del vino sulle fecce, cioè la fase di rifermentazione e di affinamento dello spumante, deve essere minimo di 15 mesi, che diventano 24 mesi per i “millesimati”, ossia quando è stata elaborata la partita di uva di una sola vendemmia: in tal caso il millesimo, cioè l’annata, può essere indicato sulla bottiglia. Il tappo in sughero è obbligatorio con l’esclusione delle bottiglie con un volume minore ai 200 ml, dove è consentito l’utilizzo del tappo a vite. 3.2 Il profilo sensoriale dei vini I vini presentano un profilo sensoriale con un aspetto visivo caratterizzato da una spuma intensa e consistente, con perlage fine e continuo. Per la versione rosé il colore deve essere rosato più o meno intenso, con sfumature, nel caso di permanenza prolungata sulle fecce, tendenti al ramato. Per il bianco, il colore risulta giallo paglierino intenso con leggeri riflessi dorati nel caso di lunghi affinamenti “sur lies” e con leggere sfumature aranciate nel caso di maggior presenza di Pinot nero. All’olfatto lo spumante dell’Oltrepò risulta caratterizzato da intensi profumi floreali accompagnati da sentori di vegetale secco (fieno e paglia) con particolari note fruttate (frutta esotica). Presente ovviamente la nota ceduta dai lieviti che risulta proporzionata alla durata della permanenza del vino sulle fecce fini. Al gusto, la presenza dell’anidride carbonica sviluppata con la rifermentazione in bottiglia deve essere ben percepibile, senza essere fastidiosa. Intensa l’acidità che conferisce freschezza al vino; discrete la sapidità e la struttura che aumentano a seconda della maggiore percentuale di Pinot nero. La temperatura ideale di servizio è di 10°C per i non millesimati e di 12°C per i Millesimati e i Rosé.

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METODO CLASSICO di territorio



ANTEO Maria Antonella e Ettore Piero Cribellati mi accolgono nella loro azienda sulle colline dell’Oltrepò Pavese, dove sono approdati seguendo un proprio itinerario, ricco di diverse e molteplici esperienze. Da ciò entrambi hanno derivato una grande ampiezza di pensiero che, pur differenziando il personale approccio alla vita, non ha impedito loro di rimanere uniti nel difendere e valorizzare l’azienda creata dal padre. Ascoltandone i racconti, che partono da punti di vista opposti, entro in un mondo agricolo affascinante, fatto di vecchi personaggi, di poesia, di natura, di sogni che si sviluppano in una provincia divisa fra chi fa il vino, e veste le colline col verde dei filari di vite, e chi fa altro. Una terra nata per fare spumanti, un piccolo microcosmo che, grazie ai racconti di Maria Antonella e Ettore Piero, sfoglio come le pagine di un libro, il cui inizio narra della volontà dei nonni materni di produrre vino vicino a Montù Beccaria, e poi del padre che, avendo una grande passione per l’enologia e volendo dar retta a quel sacro fuoco - come gli piaceva definire l’ardore che lo spingeva verso la viticoltura - non cessò mai di provare a realizzare il grande sogno della sua vita che consisteva nel possedere, un giorno, una sua azienda. Così è stato, anche se il loro genitore non si è goduto molto questa cantina, poiché l’ultimo socio che ancora rimaneva, fu liquidato solo dopo la sua morte, avvenuta nel 1994. Da quel momento nell’azienda, definitivamente di proprietà della famiglia Cribellati, furono gettate le basi di un grande rinnovamento che non tenne conto delle difficoltà dello Spumante Metodo Classico italiano nei primi anni ‘90, ma anzi fu portato avanti con coraggio dai due fratelli. Continuo ad ascoltarli, e nel frattempo degusto i vini che mi hanno stappato, rimanendo sorpreso non solo dal loro Pinot nero Riserva del Poeta Brut Cuvée Millesimato, ma anche da ciò che percepisco nelle loro parole; colgo infatti la consapevolezza di chi sa di appartenere ad un mondo che li coinvolge a tal punto che, rappresentando un punto focale della loro vita, toglie loro anche il sonno. Del resto, andando in giro per l’Italia, di cantina in cantina, ho compreso quanto sia difficile essere vignaioli, poiché quell’arte va oltre il saper produrre vino e abbraccia l’ingegno di saper dialogare con un sistema imprenditoriale che necessita di un’ampia visione d’insieme, basata sulla conoscenza perfetta dell’intera filiera produttiva e sulle capacità di commercializzare ciò che viene prodotto. Quando un vignaiolo assomma in sé tutte queste doti, so per certo che viene ripagato dal proprio lavoro, in termini di grandi soddisfazioni, la maggiore delle quali è il poter vedere i suoi progetti finalmente realizzati, anche se occorrono pazienza e costanza, passione e intuizione, umiltà e conoscenze tecniche. Trovo questa cosa fantastica ed unica solo nel sistema agricolo. Anche Maria Antonella ed Ettore Piero dimostrano di possedere queste doti, avendo evidenziato, anche attraverso i vini e il contesto aziendale che ho

visitato, una predisposizione verso questo lavoro al quale hanno saputo unire un personale background e un percorso formativo che ha arricchito le loro competenze e conoscenze. Mentre li ascolto, mi domando se per riuscire a fare tutto questo anche loro hanno preso forza dalla terra, come il mitologico Anteo, che, mediante il suo contatto, diventava l’elemento primigenio capace di sconfiggere le avversità. Pensieri che corrono e si uniscono al giudizio per il quale ritengo che le loro siano delle ottime basi sulle quali costruire un solido futuro, così da riuscire a mostrare a pieno quel grande potenziale che li caratterizza e attende solo di essere valorizzato; possibilità in fieri che, per esprimersi, non possono prescindere anche dalla valorizzazione di questo territorio in cui operano, che necessita di azioni maggiormente incisive perché vengano messi in risalto i suoi molti aspetti di pregio.

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MARIA ANTONELLA, ETTORE PIERO CRIBELLATI


ANTEO


OLTREPÒ PAVESE DOC PINOT NERO RISERVA DEL POETA BRUT MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (85%) e Chardonnay (15%), provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nel comune di Rocca de’ Giorgi, in una zona collinare su terreni poveri di struttura, marnosi, calcarei, ad un’altitudine media di 350 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni alla temperatura controllata di 18°C: in tini di acciaio inox per il Pinot nero, in barriques di rovere francese per lo Chardonnay. Nel maggio dell’anno successivo alla vendemmia si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui propri lieviti per 60-80 mesi, al termine dei quali si effettuano il remuage delle bottiglie, il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e l’aggiunta del liqueur d’expédition. Lo spumante veste il bicchiere di un colore paglierino dai riflessi verde-oro, proponendo un perlage fine, fitto e di buona persistenza. All’esame olfattivo risulta fresco, molto intenso, con percezioni tostate di panificazione seguite da una componente vegetale di salvia che si apre a note di lavanda e a toni prima fruttati di pera, nespola, pesca bianca, agrumi e poi di mandorle, confetti e torta margherita. In bocca ha una buona freschezza giocata su suadenti note di agrumi. Rotondo, morbido, fine ed elegante, risulta piacevole, equilibrato e fresco, denotando una buona persistenza.

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CANTINE SCUROPASSO Credo che ognuno abbia personali parametri con i quali misurare la qualità della vita che vive. Se li andiamo ad elencare, ci accorgiamo che appartengono universalmente a tutti gli esseri umani, perché riguardano la capacità di relazionarsi e porsi in equilibrio con le persone e le cose che ci circondano, la volontà di ricercare una serenità interiore, il desiderio di poter gestire il proprio tempo, una buona autogratificazione e il soddisfacimento dei bisogni materiali. Personalmente non sono distante da questi comuni parametri, ma ad essi mi piace aggiungerne altri, come, ad esempio, la capacità di rapportarsi con le proprie sensazioni - le stesse che mi forniscono queste dolci colline dell’Oltrepò - il valore immateriale che attribuisco al mio lavoro e l’amore che nutro per la mia famiglia. Ho imparato a distinguere queste cose stando accanto a mio padre Federico - che oggi si occupa della parte commerciale dell’azienda - o grazie all’aiuto dello zio Primo, che vantava un’esperienza di quasi ottanta vendemmie e che, più di ogni altro, mi ha trasmesso i valori fondanti del mestiere di vignaiolo che oggi svolgo. Il suo pregio era il saper riconoscere le cose importanti da quelle futili. Aveva solo una regola: riuscire sempre, ad ogni vendemmia, ad ottenere il meglio. Riteneva che in questo modo non avremmo mai avuto problemi a vendere il prodotto e che quindi le degustazioni, le guide, i premi, i diplomi e le pubbliche relazioni che un’azienda deve o dovrebbe fare, erano solo delle perdite di tempo. Aveva un unico obiettivo con il quale quotidianamente si confrontava: la vigna. Il resto non contava nulla. Non appena aveva un’ora di tempo si recava fra i filari per effettuare un diradamento, per curare una vite, per togliere grappoli sciupati o per controllare che l’uva fosse matura per la vendemmia. Non avendo avuto figli, sono stato io l’erede verso cui far confluire questa immensa esperienza; ciò avvenne proprio dal momento in cui decisi, nel 1989, di dedicarmi a questo lavoro. Mi è stato vicino e mi ha guidato fino a quando è stato in vita, insegnandomi a produrre e a vinificare il Pinot nero come base spumante, per il quale la nostra azienda ha sempre avuto una particolare pre-

dilezione e vocazione. In certi anni vinificavamo quantitativi consistenti per preparare un vino destinato alle grandi aziende del Piemonte e della Franciacorta che trovavano da noi la materia prima per realizzare i loro Spumanti. Per molto tempo le cose sono andate avanti così, poi sono cambiate. C’è chi ha abbandonato e c’è chi ha iniziato a vinificare per conto proprio, come facciamo noi. Una decisione importante che ci ha consentito di tracciare la nostra strada, che non segue le “mode” che in Oltrepò hanno sempre avuto troppi estimatori. È stato un lavoro difficile che ha richiesto impegno e sperimentazione, comprensione e competenza: tutte doti che si basavano su quella tradizione che mi aveva insegnato lo zio Primo e che io ho seguìto perché non mi è mai piaciuto improvvisare; ho sempre preferito operare con la logica e la tecnica, abbracciando un progetto capace di condurmi alla produzione di vini che rispecchiassero fedelmente questo territorio e ciò che io sono. Per questo amo stare vicino alle mie bottiglie, seguendole nel loro lento divenire, imparando a “conoscerle” una per una, così da migliorare il mio modo di operare. Ho sempre desiderato fare il vino migliore possibile e che comunichi il messaggio dell’indiscusso impegno profuso per realizzarlo. Dopo anni, credo di essere stato ripagato per ciò che ho fatto e che continuo a fare e sono felice di vedere che c’è un nuovo interesse intorno al Metodo Classico dell’Oltrepò Pavese e, di conseguenza, intorno ai miei vini. L’esperienza però non è mai troppa; non mi considero mai arrivato e la ricerca del meglio è sempre in essere. Chi beve una delle mie bottiglie vorrei che riuscisse a sentirvi dentro il carattere e la grande personalità di questo territorio, della gente che lo vive e mio in particolare. Spero che lo possa riscontrare anche tu nelle bollicine che stai degustando. Sono contento che tu sia venuto a trovarmi e che abbia potuto toccare con mano il lavoro e la vita che conduco insieme alla mia famiglia che, come vedi, è conquistata, quanto e più di me, da tutto ciò che è “bollicine”.

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FABIO MARAZZI


CANTINE SCUROPASSO


OLTREPÒ PAVESE DOC PINOT NERO BRUT ROCCAPIETRA Il Brut Roccapietra è prodotto esclusivamente con uve Pinot nero, provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel territorio del comune di Pietra de’ Giorgi, su terreni sciolti, argillosi, ricchi di sassi, a un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene nell’ultima decade di agosto, si procede alla pressatura soffice, suddivisa in quattro frazioni estrattive, delle uve raccolte a mano ed il mosto fiore ottenuto è sottoposto prima a 12-20 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 15°C, e poi avviato alla fermentazione alcolica con lieviti indigeni per 12-15 giorni, a 16-18°C, in recipienti di acciaio inox. In questi contenitori il vino rimane fino al marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite e alla realizzazione della cuvée, anche con l’aggiunta di vino di riserva di annate precedenti; a questa fase segue il tirage, con l’aggiunta del liqueur per la presa di spuma. Il vino resta in cantina sui propri lieviti per almeno 40 mesi, al termine dei quali si procede al remuage e al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura. Di un colore giallo paglierino dai bei riflessi dorati, lo spumante ravviva il bicchiere con un perlage fine e persistente. All’olfatto è elegante, fresco e classico, proponendo toni di lieviti e note speziate di timo e maggiorana che si aprono a percezioni olfattive di biscotti e taralli, per mischiarsi nel finale ad un delicato fruttato di mela. La bocca risulta morbida, equilibrata, con ancora sensazioni fragranti di lieviti e spezie; buona la vena acida che aggiunge lunghezza ad una beva decisamente piacevole.

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CASEO Lascio l’autostrada Torino-Piacenza e, uscendo a Stradella, mi dirigo nella parte più interna dell’Oltrepò Pavese, verso Canevino, uno dei comuni più piccoli d’Italia, che conta, se ben mi hanno informato, 122 abitanti! Oltrepasso Santa Maria della Versa e, poco oltre il paese, svoltando a sinistra, incomincio a salire per una strada tortuosa che segue sempre il dorso di nuove colline che si susseguono l’una dopo l’altra fino a raggiungere la frazione Caseo, ubicata a 450 metri s.l.m. Una frazione dal nome particolare che non ho capito se dia il nome o prenda il nome dall’omonima cantina... Non ho fretta e se anche l’avessi, rallenterei ugualmente, pur di non perdermi l’occasione di godere di uno spettacolare paesaggio vitivinicolo, forse fra i più belli d’Italia, al pari di quello del Chianti in Toscana o della zona di Alcamo in Sicilia. Un paesaggio poco conosciuto, pur distando appena un’ora di macchina da Milano, un’ora e poco più da Genova e ancora meno da tante altre città importanti della Lombardia, dell’Emilia, del Piemonte e della Liguria. Un territorio della cui bellezza avevo già avuto modo di godere in un altro viaggio, effettuato qualche tempo addietro, ma che, tuttavia, riesce a sorprendermi per la sua bellezza sempre come se fosse la prima volta, e mi stupisco del fatto che sia così poco visitato dai molti appassionati dell’enoturismo. Intento in queste riflessioni, quasi senza accorgermene arrivo a Caseo, dove apprendo molte peculiarità di questo Comune come, ad esempio, il fatto che il Sindaco ricopra diversi ruoli o che il messo comunale, ormai in pensione da più di un decennio, qualche volta indossi ancora, nelle occasioni speciali, la sua bella divisa e diriga il traffico che, comunque, qui non deve dare troppe preoccupazioni, dato che, negli ultimi dieci chilometri appena percorsi, ho incontrato due trattori e una macchina. Ancora il messo, poi, a dimostrazione del suo attaccamento a questo comune fa le pulizie degli uffici e della piazza senza pretendere nessuna ricompensa dalla collettività. Concordo con il mio interlocutore, l’enologo Marco Goia, che il grande senso civico di questo signore dovrebbe essere premiato con un’onorificenza importante quanto un Cavalierato del Lavoro della Repubblica Italiana. Mi faccio promettere da lui che, quando avremo finito la visita all’azienda, mi porterà, se ci sarà tempo, a conoscere questo ligio cittadino al quale voglio stringere la mano. Messi da parte gli aspetti e le curiosità che caratterizzano questo comune, mi lascio accompagnare dal mio ospite alla scoperta

dell’azienda che egli dirige. Insieme a lui ripercorro la storia di Caseo, scoprendo che fu donata a Gian Galeazzo Visconti Scaramuzza per la fedeltà che egli aveva dimostrato in una battaglia che si svolse qui, a Canevino, nella quale lottò strenuamente per la difesa del Lombardo Veneto dagli attacchi del Granducato di Parma e Piacenza. La tenuta poi passò alla famiglia Arnaboldi, amministratori della famiglia Visconti, da questa agli Amati e ancora ai Cappelli per arrivare infine ai Naro, gli attuali proprietari, che la acquistarono nel 1979 come casa di campagna. Marco mi racconta che al momento dell’acquisto di Caseo, qui in Oltrepò esistevano ancora gli strascichi di una mezzadria difficile da estirpare e alla proprietà ci vollero anni per riuscire ad eliminarla in modo da poter dar corso a importanti e quanto mai urgenti interventi di riorganizzazione del sistema produttivo vitivinicolo, pur continuando per lungo tempo ad essere amministrata in economia e pur conferendo le uve prodotte alla Cantina Sociale La Versa, di cui Caseo è ancora oggi uno dei maggiori azionisti. Laddove possibile fu avviata una meticolosa opera di recupero dei vecchi vigneti di Croatina, Barbera e Riesling, per passare poi ad estirpare quelli a fine ciclo, ripiantandone di nuovi. Le caratteristiche pedoclimatiche dei terreni argillosi con forte pH e la loro favorevole esposizione, oltre ad un attento lavoro in vigna, hanno consentito alla cantina di uscire dall’anonimato e iniziare un percorso nuovo, con grande ottimismo, al termine di un lungo processo di rinnovamento concluso nel 1997, data che Marco identifica come vero e proprio inizio della “nuova” storia aziendale, almeno sotto l’aspetto enologico. Oltre alla produzione di vini fermi, bianchi e rossi, l’azienda dette avvio anche ad una qualificante produzione di Spumanti Metodo Classico, che dalle 13.000 bottiglie iniziali prodotte nel 2000 è passata alle odierne 55.000, tutte classificate come millesimate. Degusto con molta attenzione, rimanendo piacevolmente impressionato dalla qualità generale, soffermandomi soprattutto sul Metodo Classico Grande Cuvée Pas Dosé Millesimato 2001, che ho trovato fantastico e in possesso di sensuali percezioni di morbidezza e di un naso evoluto. Si è fatto tardi e non credo ci sia tempo di andare ad incontrare il messo comunale, anche perché ho davanti a me una lunga strada di ritorno, ma sono soddisfatto della piacevole e personale scoperta di questa azienda e di questo spumante la cui qualità ha giustificato e ripagato il viaggio fatto.

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MARCO GOIA


CASEO


OLTREPÒ PAVESE DOC SPUMANTE GRANDE CUVÉE PAS DOSÉ MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle uve Pinot nero (70%) e Chardonnay (30%) raccolte nei vigneti dell’azienda situati nel comune di Canevino, in località Crocioni e Costa, su suoli di natura calcarea, con affioramenti di caolino ad un’altitudine di 450 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo una pulizia statica a temperatura controllata, è avviato, tramite l’inoculazione dei lieviti, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere a temperatura termoregolata separatamente per ogni vitigno: in barrique il Pinot nero e in tank di acciaio lo Chardonnay. In questi recipienti i vini svolgono la fermentazione malolattica e lo Chardonnay vi rimane per 9 mesi, il Pinot nero per 6, completando poi la sua maturazione con altri 3 mesi in acciaio. Alla fine del maggio successivo alla vendemmia si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane in cantina sui propri lieviti per almeno 60 mesi, poi si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta, come liqueur d’expédition, del vino della stessa annata senza dosaggio. Seguono 6 mesi di affinamento in bottiglia. La spuma si mostra soffice, fine, capace di tracciare una bella corona di bollicine sul bordo del calice; il perlage è fitto e duraturo e il colore un bel paglierino vivo, caldo, dai riflessi antichi. Il naso è intenso, dal carattere un po’ selvatico, con un tocco di lieviti freschi, note vegetali di linfa e radici, a cui si aggiungono ricordi di foglie di tabacco conciato che sfumano su sentori vagamente affumicati, molto particolari. Al gusto si palesa cremoso, intenso, coerente con le sensazioni avute al naso. Vinoso e strutturato, mostra un notevole calore alcolico, con un’acidità non perfettamente bilanciata; nel suo insieme uno spumante indubbiamente “potente” e persistente.

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CONTE VISTARINO Sono sicura che mio padre farebbe la fortuna dell’Italia! Il nostro Paese in questo momento avrebbe bisogno non tanto di chissà quali complesse strategie o soluzioni magiche estratte dal cilindro per risolvere i suoi problemi, ma semplicemente di uomini che conoscano ancora il significato di parole come etica e morale. In mio padre si concentrano, oltre alle doti appena citate, anche delle prerogative caratteriali e delle convinzioni così radicate, difficili da riscontrare, tutte insieme, in una sola persona: educazione, umiltà, forte attaccamento alle tradizioni, senso dell’onore e del dovere, abbinati al grande rispetto per gli altri, fanno di lui un uomo integerrimo sotto ogni punto di vista. Grandi qualità che determinano la differenza tra persona e persona e anche tra azienda e azienda e che gli hanno consentito di mantenere inalterato quello stile che ancora oggi avvicina la nostra alle grandi tenute agricole ottocentesche dell’Oltrepò, nelle quali erano presenti zone boscose, prevalentemente adibite alla caccia, altre alla coltura di cereali o seminativi e altre ancora dedicate alla viticoltura. Tutto è rimasto uguale e ancora oggi negli 826 ettari di proprietà, posti in larga parte nel comune di Rocca de’ Giorgi, si ha la presenza di 186 ettari vitati, 220 destinati a bosco, 120 ai seminativi e 100 alla forestazione (considerando anche la riserva di caccia di circa 1000 ettari, ovvero l’intera tenuta più i confini presi in affitto). Anche Villa Fornace, costruita sull’impianto originario di una fornace di mattoni, risalente al XVIII secolo, è rimasta inalterata ed è un esempio architettonico unico per il territorio, sia per la ricchezza dei suoi interni, sia per la bellezza del suo giardino che contiene pregevoli esemplari di alberi secolari. Tutto sembra immutato e pare essere la testimonianza della cura che ogni persona alternatasi nel tempo alla guida di questa azienda ha qui profuso, pensando esclusivamente a custodire ciò che gli era stato lasciato e a come tramandarlo alle generazioni future. Mio padre, che ha sempre avuto un grande rispetto per le

cose, non poteva esimersi dal seguire questo princìpio, talvolta magari anche in modo eccessivamente pignolo. Da parte mia, pur condividendo tutto questo, sono sempre stata un po’ scettica sulla “staticità” della tradizione. Quella sua rigidità, che per certi versi fornisce sicurezza, ha però avuto il limite, per troppo tempo, di non vedere di buon occhio il “nuovo”; io la penso diversamente, convinta come sono che si possa e si debba innovare la memoria per costruire un futuro diverso. Pensa che, fino a qualche tempo fa, pochissimi conoscevano quest’azienda e nessuno sapeva che, per quasi un secolo, era stata la cantina leader d’Italia nella fornitura di vini per basi spumanti di Pinot nero, le cui uve aziendali, provenienti da zone come Rocca de’ Giorgi e Valle Scuropasso, da sempre considerate da tutti le più vocate per questo vitigno, hanno dettato, addirittura, il prezzo a livello nazionale. Produrre delle buone uve e fare dei grandi vini da vendere sul mercato è sempre stata la certezza su cui si basava l’economia di questa azienda, dato che in passato la cosa provocava una forte richiesta ed avevamo moltissime Case spumantistiche italiane che volevano i nostri vini. Un mercato florido, che vide anche l’uscita (era il 1865) di un metodo Champenois da parte dei Gancia, azienda con la quale lavoriamo da cinque generazioni, che, dopo essersi messa d’accordo con mio nonno, Carlo Vistarino, commercializzò, con il nome di Pinot della Rocca dei Giorgi, uno spumante che ottenne un enorme successo. Perché non avrei dovuto proseguire quella tradizione che aveva tracciato il nonno? Perché non avrei dovuto dare un’identità produttiva a questa azienda, etichettando quei vini che gli altri avevano tanto calorosamente dimostrato di apprezzare? Perché non avrei dovuto far sapere di saper fare? Avevo grande volontà ed entusiasmo, oltre al desiderio di dare un contributo importante a questa azienda di famiglia; perciò mi sono adoperata affinché ciò accadesse. La cosa comunque non è stata facile, perché ho dovuto combattere e farmi largo, soprattutto contro quella strenua resistenza al “cambiamento” esercitata da mio padre. Oggi credo di esserci riuscita e questo Metodo Classico che stai degustando ne è la migliore testimonianza.

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OTTAVIA GIORGI DI VISTARINO


CONTE VISTARINO


OLTREPÒ PAVESE DOC PINOT NERO 1865 BRUT MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (90%) e Chardonnay (10%), provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Cascina San Silvestro e Cascina Elaisa nel comune di Rocca de’ Giorgi, su terreni in prevalenza limoso-argillosi ad alta concentrazione calcarea, ad un’altitudine di circa 400 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), per il Pinot nero in tini di acciaio inox e per lo Chardonnay in barriques di rovere francese; in questi contenitori i vini rimangono fino all’aprile successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per 36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Lo spumante colora il bicchiere di un bel giallo paglierino ricco di riflessi dorati vivacizzato da un perlage fine, continuo e persistente. Al naso propone una buona freschezza giocata su note di panificazione e di biscotti all’anice che si uniscono a percezioni floreali (glicine e sambuco) e fruttate di pera, mela, banana, cedro e nocciola. Anche in bocca offre un attacco fresco, capace di amalgamare la vena sapida a quella citrina e conferendo una beva armonica alla degustazione; buone la persistenza e la lunghezza, mentre riaffiorano nel finale le percezioni fruttate di cedro avute al naso insieme a nuances di cioccolato bianco.

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FATTORIA IL GAMBERO Sono arrivato da Milano a Santa Maria della Versa ormai da sei anni, accompagnato da mia moglie, dai miei figli e dalla consapevolezza di voler dare una grande sterzata alla mia vita. Non avevo ben chiara la direzione che avrei dovuto seguire, ma ero consapevole che la strada intrapresa mi avrebbe dovuto portare lontano dall’ambiente in cui avevo vissuto fino a quel momento, fatto di internet, trading online e compravendita titoli: un ambiente che mi aveva indotto a ragionare sempre in termini di profitto, di performance e di business. Come potrai ben intuire, quel mondo non aveva niente a che vedere con l’enologia, né con la viticoltura ed è chiaro che, all’epoca, non capivo niente di vino, ma l’ipotesi di iniziare a produrlo mi entusiasmava. Così, prima di ogni altra cosa, ho dovuto imparare le metodologie produttive e il linguaggio del vino e questo, credimi, è stato il primo grande ostacolo e non tanto perché fosse complicato - anche se niente è semplice in questo settore - ma perché la cosa mi richiedeva tempo; in seguito, poi, avrei scoperto che si trattava di un altro tipo di tempo, non certamente quello a cui ero abituato nella mia precedente esperienza lavorativa, dove significava velocità di esecuzione in termini di rendimento. Nel mondo del vino tutto è più soft, più diluito, collegato ad una stagionalità che prima ignoravo. Dalla mia avevo, però, molte più cose positive che negative; soprattutto avevo volontà e una grande passione che hanno azzerato il peso dell’inesperienza che all’inizio, gravava su di me ed era proporzionale ai sacrifici, che mi sembravano enormi. Sapevo, inoltre, di poter contare sulle potenzialità di questo territorio e su tanti altri fattori di cui sarebbe lungo farti un elenco, ma che mi hanno sostenuto, dandomi la forza di credere nei miei progetti e di migliorare l’esistente. Ho iniziato, quindi, mettendo mano ai vigneti, dedicandomi al recupero di quelli che, sebbene vecchi, erano molto interessanti sotto l’aspetto genetico, affiancando agli stessi altri vigneti, prefiggendomi un programma di rinnovi, costante e continuo, che prosegue ancora oggi. Un lavoro che mi ha condotto a fare affidamento su 10 ettari, che mi permetteranno nei prossimi 3 anni di raggiungere la soglia delle 80.000 bottiglie l’anno. Ho avuto bisogno di tempo non solo per imparare lo slang enologico, ma anche per sapermi destreggiare bene sia in vigneto che in can-

tina, constatando che, con il passare del tempo, diventavo sempre più parte integrante di questo luogo, imparando a comunicare con la gente, dalla quale apprendevo antiche storie come quella sulla pesca ai gamberi che, una volta, si praticava nel fiume Versa, che scorre qua vicino, o altri aneddoti del posto, impadronendomi così dell’anima di questo territorio. Le mie prime bottiglie incominciavano a circolare e anche se il primo grande amore è stato per i vini rossi, a me piacevano tantissimo gli Spumanti Metodo Classico e via via che andavo degustando spumanti del territorio, sentivo crescere in me la passione per questo tipo di vino e il desiderio di voler produrre anch’io una mia “bollicina”. Mi affascina soprattutto il metodo di lavorazione, un misto di tecnica e irrazionalità, ma soprattutto il fatto che ogni bottiglia ha una storia a sé, sempre diversa. L’esperienza acquisita cominciava a darmi delle soddisfazioni ed è così che, con quel quid di sicurezze in più, ho iniziato a produrre il mio Spumante. Questa decisione ha significato rimettere le mani nei vigneti per incrementare la coltivazione di Pinot nero con cloni specifici per le bollicine, ed era inoltre necessario costruire degli spazi per gli stoccaggi e la maturazione dei vini e fare anche altri piccoli, ma significativi interventi che coadiuvassero il lavoro nel futuro. Avevo appena terminato di affrontare la prima sfida, che mi aveva condotto a crescere per diventare un vigneron, che già all’orizzonte se ne profilava un’altra, forse ancora più intrigante. Non so se sono riuscito a giocarla bene. So soltanto che dalle 500 bottiglie del 2004 sono passato alle attuali 4.000, con l’obiettivo di crescere ancora, con un incremento annuo estremamente positivo, anche se, ogni volta che vado in giro per il mondo, mi accorgo che sono in molti a non conoscere l’Oltrepò e moltissimi a non sapere che qui vengono prodotte le migliori bollicine italiane Metodo Classico. Credendo fosse giunto il momento di comunicare in maniera più sintetica e incisiva la vera natura di questo territorio, dopo aver eliminato tutti quei vini che, in qualche modo, potevano distogliere l’attenzione dalle peculiari caratteristiche produttive dell’azienda, ho affidato ad uno studio di consulenza per pubbliche relazioni, ufficio stampa e marketing, il compito di trasferire al consumatore finale cosa sia oggi la Fattoria Il Gambero. Un passo importante, che ha portato a risultati tangibili, tanto che oggi abbiamo una nostra e inconfondibile riconoscibilità sul mercato, sia come marchio che come azienda, sebbene ci sia ancora da lavorare sulla diffusione commerciale, ma col tempo... Oggi, a conti fatti, nella mia vita posso dire di aver superato ampiamente le pur molte difficoltà iniziali e aver fatto molte scelte giuste. Non rimpiango di aver lasciato Milano, cambiato registro ed essermi dedicato anima e cuore a questa terra; altrimenti, oggi non sarei qui con un mio bicchiere di spumante e non avrei mai potuto assaporare il gusto intrigante ed evanescente di queste bollicine che nascono grazie alle mie mani. Questo mi ripaga di tutto.

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VITTORIO VEL TOTO FERRARIO EST I UNIOR ANNO.” UTOR


FATTORIA IL GAMBERO


OLTREPÒ PAVESE PINOT NERO DOC PRINCIPE D’ONORE BRUT MILLESIMATO Lo spumante è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (90%) e Chardonnay (10%) provenienti da vigneti di proprietà dall’azienda, situati nel comune di Santa Maria della Versa su terreni calcareo-argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 200 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, suddivisi in 4 frazioni estrattive, dopo 12-20 ore di pulizia statica alla temperatura controllata di 5°C, si avviano, tramite l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 16°C), in tank di acciaio inox; qui il vino rimane, dopo gli opportuni travasi, fino al marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando si effettuano l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 30 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Lo spumante, dal perlage fine, leggero e persistente, colora il bicchiere di un giallo paglierino ricco di riflessi verdolini. Al naso, classico e fresco, propone toni di lievito e note di panettone e crostata di mele che si mischiano a percezioni di frutta fresca (mela, pera) per “scivolare” poi verso nuances agrumate e di mandorle. Un viaggio sensoriale che finisce in bocca con percezioni gustative morbide, equilibrate, ricche di una piacevole e fresca vena acida. Lungo alla beva, chiude con interessanti aromi speziati.

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LA VERSA Quando in Italia si parla di spumanti, dall’epoca post-fillosserica ad oggi, lo sguardo si è sempre indirizzato verso l’Oltrepò Pavese, che ha prodotto uve e vini per decenni alla base di moltissimi Spumanti Metodo Classico italiani. Un territorio-cisterna a cui hanno attinto e attingono tuttora, le più note e importanti case spumantistiche italiane, ma che, acquisendo, con il passare del tempo, coscienza delle sue grandi potenzialità, ha incominciato a costruire una sua identità produttiva che lo ha portato al riconoscimento della DOCG per i vini spumantizzati con il metodo Champenois. Era quindi doveroso, se avessi voluto fare un libro su questo metodo di vinificazione, che le mie ricerche si orientassero anche verso questo territorio, che ho da subito trovato fantastico, poiché si agghinda con quei colori tenui che paiono rubati ad un acquerello piuttosto che a una tela dipinta ad olio e sembra realizzato da chi ha saputo leggere le sfumature venutesi a creare con l’enorme lavoro con cui l’uomo ha modellato queste colline. Una delle zone più interessanti dell’Oltrepò è indubbiamente la Valle Versa, situata proprio in quella cosiddetta “fascia della vite” che si estende da ovest verso est, a cavallo del 45° parallelo, ed è per questo, ma anche per molti altri motivi, che prendo in considerazione chi, per primo, ha creduto nelle grandi potenzialità di questa terra e ne ha tracciato la sua storia vitivinicola. Il punto d’arrivo di questo ragionamento è stato la cantina Cooperativa La Versa, una delle prime public company del settore che, con i suoi oltre cento anni di vita, è rimasta fedele all’idea originaria del suo fondatore, Cesare Gustavo Faravelli, il quale, nel 1905, insieme ai primi ventidue soci, decise di dar valore al lavoro vitivinicolo, puntando sulla valorizzazione dei vini della zona. Con l’intento di “visitare la storia”, mi appresto a varcare il cancello di questa enorme struttura, suddivisa in diversi padiglioni, che conta sull’apporto di 700 soci conferitori che,

dal 1 settembre al 20 ottobre di ogni anno, portano in cantina 100.000 quintali di uva da vinificare, da cui, poi, si ottengono 70.000 quintali di vino, al quale è necessario trovare sempre uno sbocco commerciale e, come mi conferma Francesco Cervetti, il direttore generale ed enologo della cantina, non sempre è una cosa facile. Del resto, come dargli torto, visto il numero delle bottiglie e delle referenze che fuoriescono da questa cantina? Condivido il suo pensiero e l’intenzione di dare un ulteriore sviluppo e un maggiore impulso all’intero comparto del Metodo Classico, abbandonando certe linee produttive minori e puntando sulla storia di La Versa che, già dal 1907, dopo soli due anni dalla sua fondazione, iniziò la lavorazione di spumanti tradizionali, ottenendo risultati assolutamente prestigiosi, fin dai decenni successivi, che spinsero la cooperativa, nel 1935, alla costruzione di una cantina sotterranea in grado di ospitare 40.000 bottiglie annue di metodo Champenois e che le fecero ottenere, nel 1954, il più importante premio della critica specializzata del tempo con un Metodo Classico La Versa, che venne definito “migliore spumante d’Italia”. Un positivo trend di crescita, soprattutto qualitativa, che non si è mai arrestato e che ha spinto la Cooperativa, nel 1982, a costruire una nuova cantina in grado di contenere 3 milioni di bottiglie e, molto più tardi, nel 2005, proprio in occasione dei festeggiamenti per il primo centenario dell’azienda, a commercializzare una riserva denominata Testarossa Principio, una gran cuvée in edizione limitata, con 60 mesi di maturazione sui lieviti, che ha segnato un ulteriore salto qualitativo del sistema produttivo dell’azienda. Come mi spiega Francesco, tutto è in divenire, ma tutto nasce dalla vocazionalità che l’Oltrepò ha nella produzione di Pinot nero.

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FRANCESCO CERVETTI


LA VERSA


OLTREPÒ PAVESE DOCG VSQ BRUT TESTAROSSA PRINCIPIO MILLESIMATO Il vino è prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero provenienti dai vigneti dei soci conferitori della public company che operano su terreni posti in alta Valle Versa, mediamente argillosi, calcarei con poco scheletro e molto profondi, a un’altitudine compresa tra i 350 e i 400 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 10°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per circa 10-12 giorni (a 18°C), in barriques di rovere francese; qui il vino rimane fino al gennaio dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti almeno 84 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Uno spumante che colora il bicchiere di un giallo paglierino dai riflessi dorati e lo arricchisce con spuma cremosa e un perlage fine e persistente; al naso propone una buona freschezza giocata su note tostate di panificazione e lievito che si mescolano a quelle floreali di glicine e acacia e ad altre vegetali. Un crescendo di aromi inebria l’olfatto, con percezioni di nocciola tostata e fruttati di uva spina, pera e agrumi. In bocca è articolato e ha capacità di affascinare, risultando elegante, armonioso, equilibrato, fresco e persistente, con un finale di mentuccia e biscotto allo yogurt.

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MONSUPELLO Amo definirmi un settantaseienne che tende a diventare un settantasettenne e che è già da troppi anni nel mondo del vino. Pensa che da ragazzo, la terra non mi piaceva, non mi piaceva fare il contadino, né mai avrei voluto produrre vino. Da giovane volevo soltanto trovare un lavoro che mi consentisse di potermi guadagnare da vivere e, terminato il quale, aver tempo da dedicare alle mie passioni, come quella del ballo, ad esempio. Ripensando alla gioventù, ricordo che sognavo di guadagnare tanti soldi, avere una bella casa e un’automobile con un lavoro pensato fuori dall’ambito agricolo familiare. Mi rendo conto che non avevo grandi aspettative, né, tanto meno, ambizioni. Mi interessava solo vivere una vita tranquilla e serena. Secondo te, chiedevo molto? Guardando cosa ho fatto, invece, in questi cinquant’anni e quanto mi sia attaccato a questo lavoro di vignaiolo, mi stupisco di come nella vita si possa cambiare e di come mutino desideri, ideali e interessi. Fortunatamente quelle mie lontane aspirazioni mi hanno distratto per breve tempo - e di questo devo ringraziare il Signore - da ciò che oggi rappresenta per me il senso della vita e mi chiedo come sia stato possibile che io, da subito, non abbia apprezzato la terra che possedevamo, la quale, pur essendo poca, teneva unita la famiglia, tutta protesa a dare un po’ di redditività ad un’economia precaria che si basava su alberi da frutta, grano, fieno, sulla stalla e su poche vigne. Poi, non so cosa sia successo, se sia stata la nascita del dente del giudizio e, con esso, l’arrivo di un po’ di senno, o se, invece, abbia incominciato ad ascoltare il richiamo atavico che ogni uomo ha per la terra. Sta di fatto che mi sono ritrovato, senza quasi accorgermene, a continuare la tradizione di famiglia, facendo prima il contadino e poi il vignaiolo. È dal 1959 che sono alla guida di questa azienda e, come vedi, sono cambiate molte cose in questi anni; l’azienda di un tempo ha cambiato pelle, si è ingrandita e a questo ho contribuito anch’io, con l’aiuto di mia moglie Carla e dei nostri figli Pierangelo e Laura, riuscendo a portarla dai 6 ettari iniziali agli attuali 50, tutti vitati e di proprietà. Quando subentrai a mio padre e a mio zio, acquisii nuovi terreni nel comune di Torricella Verzate e via via negli anni a Casteggio, Redavalle e Pietra De’ Giorgi; realizzai vigneti, ammodernai la vecchia cantina di famiglia, l’impianto di vinificazione, la linea d’imbottigliamento, ampliando anche lo spazio per lo stoccaggio dei vini. Avevo le idee abbastanza chiare su come avrei voluto condurre quest’azienda e comprendevo benissimo che il percorso mi avrebbe dovuto portare ad un innalzamento qualitativo della filiera produttiva. Ma non avevo nessuno con cui confrontarmi o per-

sone esperte con le quali potessi veramente rapportarmi. L’incontro con Veronelli, avvenuto nel 1966, in occasione di una mostra a Pavia, non solo confermò le mie idee, ma mi dette l’opportunità di avere, da quel momento in poi, un interlocutore importante. Come vedi, alla mia età ti parlo ancora di passioni e di entusiasmo, che da allora non sono cambiati: sono solo un po’ più profondi e un po’ più lenti a manifestarsi, mentre quando ero più giovane si esprimevano in maniera più energica e diretta... Con essi credo di aver irrimediabilmente contagiato i miei figli, che lavorano con me in azienda, insieme a mia nipote Carlotta, che fra non molto sarà anche lei dei nostri. Da padre (e nonno) sono orgoglioso di vederli muovere con disinvoltura dentro questo ambiente che, in qualche modo, ho contribuito anch’io a creare e il loro impegno, così sentito, è per me fonte di grande gioia, poiché mi dà la certezza che qualcuno proseguirà la tradizione di famiglia. Tutto ciò mi fa sentire ancora un giovanotto e me ne accorgo quando prendo la mano di mia moglie Carla, che è al mio fianco dal 1969. Quando lo faccio le sorrido, non solo per dimostrarle, ancora una volta, i profondi sentimenti che mi legano a lei, per descrivere i quali non basterebbero le pagine di questo libro, ma soprattutto per ringraziarla di essermi stata vicina e di avermi dato sempre la forza e il sostegno per realizzare la nostra azienda.

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CARLO BOATTI CARLA DELLERA BOATTI


MONSUPELLO


OLTREPÒ PAVESE DOC PINOT NERO BRUT CLASSESE MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione di uve Pinot nero (90%) e Chardonnay (10%) provenienti da vigneti di prima fascia collinare situati nei comuni di Torricella Verzate e Oliva Gessi, su terreni di natura argilloso-calcarea, ad un’altitudine di 160 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene in genere a partire dalla terza decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo una pulizia statica a temperatura controllata (7-10°C), sono avviati, tramite l’inoculo dei lieviti, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 1012 giorni in tank di acciaio termoregolati. In questi recipienti i vini rimangono fino a primavera; un 50% della massa svolge la malolattica. Si effettuano poi l’assemblaggio delle partite, l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane in cantina sui propri lieviti per 50-65 mesi, al termine dei quali si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Una spuma fine e intensa e un perlage di bella persistenza fanno da proscenio alla tonalità giallo paglierina, calda, vivace, dai riflessi tendenti all’oro zecchino con i quali questo spumante colora il bicchiere. Al naso giunge un intenso bouquet che propone un tocco di lieviti, un po’ di farina appena macinata, mandorle fresche, fiori bianchi, aprendosi poi a ricordi balsamici, mentolati di anice e resina. Uno spettro olfattivo caratterizzato da un’armonia più che buona e da un’interessante complessità. L’ingresso gustativo è sapido, di bella struttura, modulato il calore e buona l’acidità, mentre lungo la beva la componente minerale si fa sempre più evidente, in un ambito di grande armonia palatale: nessuna sensazione svetta sulle altre e ogni componente è ottimamente calibrata. Elegante, in bocca palesa ancor più personalità che all’olfatto e chiude, persistente, su note di polverosa grafite e miele di acacia.

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QUAQUARINI

Vado verso il mio giornaliero appuntamento con un’altra storia e un altro produttore e procedo talmente lento che, senza accorgermene, ho fatto quasi fermare dietro di me anche un trattore! Mi sposto per lasciarlo passare, cogliendo l’occasione per chiedere anche qualche informazione sulla strada più breve per raggiungere Monteveneroso, una piccola frazione di Canneto Pavese, dove è ubicata l’azienda che sto cercando. Ricevo informazioni talmente precise che, pochi metri dopo aver salutato quel trattorista, trovo già il cartello che fa al caso mio e, cinque minuti dopo, sono già al cospetto di Umberto, il figlio di Francesco Quaquarini. La loro è un’azienda storica dell’Oltrepò; qui non sono molte le imprese che possono contare su 60 ettari di vigneti, in questo caso accorpati in due blocchi distanti un paio di chilometri l’uno dall’altro, fra Canneto, Castana e Montescano. Vigneti che forniscono uve con le quali, come nel più classico degli stili delle cantine del territorio, si producono un’infinità di vini: dallo storico Buttafuoco alla Bonarda, dal Barbera al Pinot nero, dal Pinot grigio al Riesling, dal Classese Spumante al Sangue di Giuda, che scopro essere il loro vino principe, realizzato con uve provenienti da un vecchissimo vigneto (Vigna Acqua Calda), appartenuto, originariamente, ai proprietari di Riccadonna, anch’essi originari di Canneto Pavese, i quali avevano altri vigneti dove producevano uve per i vini base dei loro Spumanti di Canelli. Pur riconoscendo il grande valore di tutta la linea produttiva aziendale, mi concentro su quel Classese Spumante con il quale i Quaquarini identificano il loro Brut. Mentre si stappano le bottiglie e si riempiono le flûtes, come mi è già capitato con alcune aziende trentine nel caso del “Talento”, faccio scivolare provocatoriamente il discorso sull’argomento “Classese”, chiedendo se abbia ancora un senso, in termini di comunicazione, identificare uno spumante con un nome simile.

La provocazione cade nel vuoto, perché, con molta calma, Umberto mi fa notare che esiste ancora un’associazione fra produttori del territorio, composta da una decina di aziende, che fin dal lontano 10 ottobre 1984 indica lo Spumante Metodo Classico con quel nome e lui non l’ha mai più tolto dalle sue etichette, ritenendo che “Classese” sia il miglior sinonimo con il quale indicare Vini Spumanti d’Oltrepò Pavese Metodo Classico. Del resto, fino ad oggi non c’è stata un’alternativa, ma forse con l’arrivo della DOCG qualcosa si modificherà, soprattutto con quel Cruasé, nome con il quale verranno identificati gli Spumanti Metodo Classico Rosé. Lo sforzo intellettivo è stato enorme e sarebbe disdicevole criticarlo a priori, e comunque non è questo il luogo e il tempo per affrontare un simile argomento. Davanti a me c’è Umberto con il suo Brut di Pinot nero Classese Millesimato: interessante, fresco e di grande eleganza; lo ritengo il prodotto che contribuisce, più di ogni altro, ad innalzare l’immagine dell’azienda e ad esso, a mio parere, i Quaquarini farebbero bene a demandare il compito di essere l’ambasciatore dell’alta qualità dei vini da loro prodotti. Del resto, in azienda la produzione di Spumanti fu iniziata già a partire dal 1980 e in questi anni l’aumento del numero delle bottiglie è stato costante, anche se, per via degli investimenti fatti su altri prodotti, non è cresciuto come, invece, la domanda avrebbe richiesto, attestandosi, ormai da un po’ di anni, su circa 12.000 bottiglie e 4.000 Magnum. Chissà se la nuova DOCG porterà un nuovo impulso e maggiore convinzione. Vedremo.

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MARIA TERESA, UMBERTO QUAQUARINI


QUAQUARINI


OLTREPÒ PAVESE DOC CLASSESE PINOT NERO SPUMANTE BRUT Lo spumante è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero provenienti da vigneti a conduzione biologica certificata situati nel comune di Canneto Pavese, su terreni prevalentemente argilloso-limosi, calcarei, mediamente plastici a reazione alcalina e poveri di sostanza organica, ad un’altitudine di 240 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e, dopo una pulizia statica, il mosto, attraverso l’inoculazione dei lieviti, effettua la fermentazione alcolica, fatta svolgere in tank di acciaio a temperatura controllata (18-19°C). Il vino viene travasato due volte e posto in vasche di cemento a temperatura controllata, dove rimane, sulle proprie fecce, fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui propri lieviti per almeno 60 mesi, durante i quali almeno una volta all’anno si procede al coup de poignet delle bottiglie per mettere in sospensione tutte le fecce. Si passa poi al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition, procedura per la quale viene usato solo il vino della stessa annata. Dotato di spuma abbondante e di un perlage fine e persistente, lo spumante colora il bicchiere di un giallo paglierino scarico, mentre al naso, di buona intensità, presenta percezioni tostate, sentori di frutta matura che ricordano la banana, la mela e la pesca, profumi floreali di tiglio, caprifoglio e sambuco e ricordi di miele. In bocca l’acidità è pronunciata e, oltre a ricordi particolari di fieno, si percepiscono sentori di magnesia, cedro e limonata. Una decisa nota sapida sfuma su note tostate che rendono il vino piacevole lungo e persistente.

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TENUTA IL BOSCO Anche se oggi non se ne ha traccia, su questo territorio, un tempo, dovevano essere presenti dei ginepri, poiché Zenevredo deriva dal latino ginepretum. Ed è proprio in questo luogo che mi sto recando al fine di poter visitare la cantina e i 152 ettari di vigneti della Tenuta Il Bosco, acquistata, nel 1988, dalla famiglia Zonin che ha investito molto sul Pinot nero come base per i propri Spumanti Metodo Classico, essendo, per tradizione e storia, il vitigno più intimamente legato al territorio e capace di dare vini riconoscibili e di grande carattere. Spumanti, che secondo il mio personale giudizio, trovo fra i più interessanti nel novero dell’intera proposta che oggi è in grado di offrire l’Oltrepò Pavese e che spero di poter assaggiare insieme a Piernicola Olmo, l’enologo, e a Domenico Zonin, con i quali ho appuntamento. Una tenuta che avrei dovuto raggiungere già da un’ora, ma nevica come non ho mai visto nevicare in vita mia. Il paesaggio, se fosse osservato dalla finestra di una calda stanza dove riecheggia lo schioppettìo della legna nel caminetto, potrebbe apparire anche fiabesco e rilassante, ma, ritrovandomi su una strada di campagna, della quale non distinguo neanche le banchine, diventa alquanto angosciante e se a questo si aggiunge che già un paio di volte ho sbandato pericolosamente e in un altro paio di occasioni ho lasciato che l’auto finisse la sua corsa arrestandosi da sola su dei cumuli di neve ammonticchiati provvidenzialmente da uno spazzaneve, la cosa diventa anche preoccupante. Ma, cocciutamente, ho deciso di andare avanti, poiché questo è il mio ultimo giorno di permanenza in Oltrepò, e non potendo tornarci per un po’ di tempo, visto che fra qualche giorno inizieranno le Festività natalizie, ho intenzione di raggiungere la mia destinazione a tutti i costi, anche a piedi. Dopo varie vicissitudini, finalmente arrivo, scoprendo che anche Domenico è stato bloccato da qualche parte dalla nevicata e che Olmo, ormai, non ci sperava più, e per questo è sorpreso quanto e più di me, che sia riuscito a raggiungere l’azienda. Dopo essermi rilassato un po’ ed evitando di pensare al viaggio di ritorno, per il quale scomoderò qualche altro Santo, incominciamo la nostra degustazione che si rivela, da subito, un percorso sensoriale molto più complesso ed interessante di quanto immaginassi. Stappiamo bottiglie di spumante con 10-14-16 anni di permanenza sui lieviti, che trovo fantastiche e soprattutto uniche, poiché vanno in controtendenza rispetto all’abitudine di molti produttori della zona di commercializzare i loro Champenois a base di Pinot nero troppo giovani, estremamente immaturi e,

qualche volta, acerbi. Per la convinzione che mi sono fatto in questo tour d’Italia sugli Spumanti, ho trovato che quelli a base di Pinot nero hanno bisogno di tempo per esprimersi, molto più di quanto le aziende concedano loro; un tempo che non può essere inferiore ai cinque o sei anni fra la vinificazione dei vini base e la commercializzazione del prodotto. Purtroppo sono in molti a seguire una tradizione che detta canoni e tempi diversi per la commercializzazione degli Spumanti Metodo Classico. È forse inamovibile, statica, che non può essere messa in discussione o, essendo un percorso sempre in divenire, va considerata mutevole e soggetta a cambiamenti a seconda del tempo cui ci si riferisce? Una prima, timida risposta me la fornisce Piernicola che, fin dall’inizio del suo impegno in quest’azienda, a partire dal 1991, ha sempre dovuto fare i conti con la tradizione. Mi racconta, infatti, che, nei primi anni, la vinificazione del Pinot nero era effettuata seguendo rigorosamente una metodologia già vecchia e obsoleta per quel tempo, che prevedeva la raccolta, la pressatura e la pigiatura delle uve secondo un ordine che sembrerebbe logico per la produzione di vini rossi con uve a bacca rossa, ma che, con il Pinot nero, provocava il passaggio nel mosto di parecchia sostanza colorante che doveva essere poi tolta, per ottenere dei vini bianchi e puliti, con chiarifiche forti e decise tali da sminuire la qualità del prodotto e renderlo molto più ossidabile. Come sostiene Olmo, quelli erano dei Pinot neri “ammaccati”, che sapevano di mela pesta o ossidata al contatto con l’aria, dopo essere stata tagliata. Fu così che venne modificata quella tradizione e anche il suo disciplinare produttivo, incominciando a raccogliere l’uva manualmente e in cassette, vinificandola intera ed effettuando pressature sofficissime, in presse piccole e larghe. Furono altre le modifiche apportate a quella vecchia tradizione ed oggi ciò che era innovazione è divenuto tradizione e in azienda, così come in tante altre cantine, si vinifica in modo diverso e forse, grazie ad altre persone come Piernicola, ciò che è oggi si trasformerà nuovamente, diventando a sua volta attuale. Un modo di perpetuare sempre il nuovo che è lo stesso con il quale questa cantina si presenta al futuro. E le sue parole mi fanno comprendere quanto tutto sia collegato a quel supremo esercizio dell’intelligenza che si compie quando si cerca di modificare qualcosa che, talora, viene data per immutabile.

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GIANNI ZONIN


TENUTA IL BOSCO


OLTREPÒ PAVESE DOC BRUT Il vino è prodotto vinificando le migliori uve Pinot nero (80%) e Chardonnay (20%), provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Il Bosco, nel comune di Zenevredo, su terreni morenici ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 400 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C), in tini di acciaio inox. In questi contenitori i vini rimangono fino al giugno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, poi all’imbottigliamento con l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 108 mesi, al termine dei quali si effettuano il remuage delle bottiglie, il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e la contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Uno spumante di estrema eleganza che colora il bicchiere di un giallo paglierino ricco di riflessi dorati e lo abbellisce con un perlage fine, continuo e persistente; all’esame olfattivo si offre in modo sobrio, piacevole, con note evolute di francese memoria. Un bouquet complesso che giostra su profumi di biscotti all’anice e di panificazione che si intrecciano a percezioni floreali di glicine e sambuco, per scivolare dopo un po’ su un fruttato di pera, mela e cedro, con un finale dai ricordi di torta di nocciole piemontese d’altri tempi. Anche in bocca risulta elegante, ma ciò che sorprende maggiormente è la freschezza e l’equilibrio tra la vena sapida e quella acida; una bella beva accompagna tutta la degustazione. In uscita si avvertono gradevoli sensazioni di frutta secca, miele di tiglio e acacia; nel lungo e persistente finale riaffiorano in bocca nuances fruttate e ricordi agrumati.

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TERRE D’OLTREPÒ Scopro che la cooperativa Terre d’Oltrepò, nata dalla fusione della cooperativa di Casteggio e di quella intercomunale di Broni, non è una cantina qualsiasi o una matrioska - come forse potrebbe apparire - che racchiude dentro di sé un numero imprecisato di aziende, né una realtà creata per soddisfare lo sfizio elettorale di chissà quale politico, ma è solo una delle più belle realtà cooperativistiche dell’Oltrepò Pavese. Non è solo per questo che l’ho visitata e presa in considerazione per questo volume sugli Spumanti d’Italia, bensì per la curiosità stimolata in me dalla qualità degli Spumanti prodotti che, pur essendo già di buon livello, hanno grandi potenzialità per il futuro, essendo l’espressione di una base associativa dinamica che può solo migliorare ciò che fin qui ha realizzato, credendo nel fatto che l’unione sia la forza di un territorio. Le cifre che mi sciorina il suo direttore generale, il signor Livio Cagnoni, sono impressionanti e confermano la sensazione di trovarmi al cospetto della più grande cooperativa della Lombardia, la quale, pur avendo solo 870 soci, numero che di per sé l’accomuna a molte altre cooperative, opera su un territorio che interessa ben 35 comuni e 3.500 ettari di vigneti, per il 90% a Denominazione di Origine Controllata (e tutti vincolati contrattualmente alla cantina), nei quali sono raccolti 300.000 quintali di uve, per un 60% a bacca bianca. Da queste uve sono prodotti, annualmente, circa 200.000 quintali di vino che, in un futuro prossimo, potrebbero contribuire alla realizzazione di 24.000.000 di bottiglie; un potenziale molto superiore rispetto agli attuali 5.000.000, numero che comprende 200.000 bottiglie di Metodo Classico e 250.000 di Metodo Charmat. Un altro fatto che mi ha sorpreso è che, con questa unione, si è venuto a costituire il più importante polo produttivo di Pinot nero d’Italia, con oltre 100.000 quintali annui di uve ai quali, per dare una dimensione, devono essere sommati i 50.000 quintali di Riesling e i 20.000 quintali di Moscato che vengono, per adesso, immessi sul mercato e venduti sfusi. Parlando con Cagnoni mi accorgo che le cifre sopra elencate creano grandi opportunità, ma danno origine anche all’oggettiva necessità di adattare gli aspetti tecnico-produttivi della cantina alla realtà che i numeri stessi evidenziano. Quindi grandi investimenti, ristrutturazione e ampliamento delle strutture di vinificazione e stoccaggio. In tutto questo però mi accorgo che qualcosa all’interno dell’azienda è rimasto immutato e credo sia proprio il valore che, da sempre, viene attribuito al lavoro fornito alla cooperativa da ogni persona, sia esso un dipendente o un conferitore. Tutti sono utili e tutti indispensabili, in questo e in ogni altro momento; insomma, ognuno deve contribuire al buon funzionamento di questo interessante progetto che, se

ben guidato, può diventare una realtà molto importante e forse anche dirompente per i fragili equilibri sui quali si è mosso, per anni, l’Oltrepò Pavese. È un futuro con delle incertezze, ma anche con molte opportunità che mi fanno pensare a cosa potrebbe diventare questo territorio se le cinque cooperative si unissero: allora sì che quella massa critica prodotta potrebbe far esplodere definitivamente questa terra, ponendola all’apice delle gerarchie spumantistiche nazionali e mondiali. Si creerebbe una nuova “Champagne pavese” con una propria identità, dove esisterebbe un polo che da sempre, proprio per le sue caratteristiche pedoclimatiche, ha fatto del Pinot nero il suo cavallo di Troia; avremmo così sul mercato dai 10 ai 20 milioni di bottiglie di Pinot nero Metodo Classico tutte provenienti dall’Oltrepò Pavese. Un sogno o forse solo una grande utopia che fa discutere e pensare.

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LIVIO CAGNONI EMILIO TRAVERSA


TERRE D’OLTREPÒ


OLTREPÒ PAVESE DOC CLASSESE BRUT BRONIS Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (90%) e Chardonnay (10%) provenienti dai vigneti collinari di proprietà dei soci conferitori della cantina, situati nei comuni di Montalto Pavese, Montecalvo Versiggia, Lirio e Pietra de’ Giorgi, su terreni moderatamente profondi di natura calcarea. Dopo la vendemmia, che avviene dalla seconda metà di agosto, separatamente per ogni vitigno, si passa alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, sottoposti a 12 ore di decantazione statica alla temperatura di 12°C, si avviano alla fermentazione alcolica attraverso l’inoculo di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 1012 giorni, a 18°C ed è fatta svolgere in tank di acciaio dove i vini sostano fino al maggio successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane a maturare in cantina a temperatura costante sui suoi lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Spuma fine, fitta e abbondante che si apre a un perlage anch’esso fine, copioso e durevole; il bicchiere si colora di un giallo paglierino brillante, ma un po’ cangiante, che sfuma su riflessi quasi verdolini. Al naso, moderatamente morbido, coniuga una certa intensità ad una indubbia eleganza, proponendo un armonioso bouquet di lieviti freschi, farina appena macinata, mandorle verdi, fave, tigli e biancospini, con un finale di foglie di limoncella. Alla beva si percepiscono una certa cremosità, una discreta struttura e un certo calore: solo l’acidità è leggermente inferiore all’optimum. In sottofondo, morbidi richiami al tabacco da pipa e ai fiori gialli danno una spiccata rotondità ad un finale di bocca di discreta persistenza e armonia.

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TRAVAGLINO “Dal 1868 un grande vigneto in Oltrepò Pavese”. È questa la scritta che trovo su una lapide all’ingresso della tenuta Travaglino, il cui nome potrebbe derivare dal piemontese travaj, che significa lavoro, oppure da un tipo di uva autoctona detta, in dialetto, uga travajena. Sapevo già dell’esistenza di quella scritta, come di tante altre cose di questa cantina, fondata da Marco Antonio Volpelandi nel 1111, perché, prima di arrivare, mi ero documentato attraverso una vasta rassegna stampa all’interno della quale mi aveva sorpreso leggere non solo che la tenuta si estende su una superficie di 470 ettari, di cui 234 de-stinati a riserva di caccia, 160 a pascoli e seminativi e 76 coltivati a vigneti, situati su terreni sciolti, calcarei, argillosi, molto fertili, dove si producono Pinot nero e Riesling, ma che, da sola, copre il 90% del territorio del comune di Calvignano, il quale vanta ben... 125 abitanti! È facile supporre che lungo una storia che si snoda nell’arco di un millennio, diversi siano stati i periodi di splendore dell’azienda. Fu a partire dal 1865, da quando cioè divenne proprietà della famiglia Comi e soprattutto nel 1965, annus mirabilis, in cui la direzione venne assunta da Vincenzo Comi, che Travaglino incominciò un nuovo rinascimento che l’avrebbe condotta verso una graduale trasformazione tendente a metterne in risalto, secondo una più moderna interpretazione, le grandi ed effettive possibilità. Fu proprio da quegli anni che venne avviata una profonda opera di ristrutturazione di tutto il complesso aziendale, dei vigneti e delle cantine, alle quali, negli anni ’80, si aggiunse anche il restauro del lato sotterraneo e più antico delle stesse che divenne la perfetta sede naturale per la lenta maturazione dei prestigiosi Spumanti Metodo Classico qui prodotti, fra cui il Pinot nero Brut Rosé Montecérésino, lo Spumante che, più di ogni altro, mi ha incuriosito e che è prodotto nell’omonimo appezzamento, situato a 380 metri s.l.m. Ad attendermi, al momento del mio arrivo, trovo il deus ex machina dell’azienda, Fabrizio Maria Marzi, enologo e direttore di Travaglino e la signora Lorella Comi, che rappresenta la sesta generazione della famiglia che si perpetua alla guida della proprietà; una donna affascinante, dai grandi occhi

chiari, con la quale mi intrattengo, cercando di comprendere come le sia possibile integrare i suoi quotidiani impegni milanesi - visto che ha casa e famiglia nel capoluogo lombardo - con quelli che, altrettanto quotidianamente, le procura questa complessa azienda. I progetti futuri, l’eventuale ricettività di un luogo come questo - che potrebbe essere di gran lunga più favorito se vi fosse una migliore viabilità - e le tante altre opportunità che potrebbe avere l’Oltrepò Pavese - se i se e i ma sparissero dalla bocca di chi amministra politicamente queste terre - sono solo alcuni degli argomenti che tocchiamo nel nostro conversare. Anche se il nostro incontro non si prolunga per molto tempo, mi fornisce la sensazione che Lorella si ritenga una custode della tradizione e della storia dell’azienda e, conscia di questo, si sia posta a controllo della stessa, al fine di farla giungere intatta alle generazioni future, così come altri hanno fatto con lei. Un’interlocutrice un po’ particolare, con la quale non posso parlare di vinificazioni o barriques, né di vitigni autoctoni o di come avvenga la selezione dei lieviti per i vini base utilizzati negli Spumanti, notizie che, invece, mi fornirà poi Fabrizio. Con lei, posso comprendere l’importanza che questa tenuta ha per la famiglia Comi e il valore che essa assume per il territorio al quale appartiene e con il quale ricerca, da sempre, un fertile connubio anche attraverso progetti complessi come quello che la vede oggi sviluppare la “Valle del Riesling”. È comunque la mancanza di un’adeguata corrispondenza fra l’impegno profuso dalla sua azienda e quello delle altre componenti del territorio il maggior cruccio della signora Lorella. Un territorio che anch’io trovo poco incline a farsi conoscere, come se fosse avulso o distaccato rispetto alla comunicazione e all’impegno che le aziende vitivinicole del territorio, a proprie spese, devolvono per la sua promozione. Del resto è un po’ così in ogni parte d’Italia: siamo una nazione principalmente agricola, ma, ancora oggi, riconosciuta solo come una terra di santi, poeti e navigatori, non di contadini.

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LORELLA COMI


TRAVAGLINO


OLTREPÒ PAVESE PINOT NERO MONTECÉRÉSINO BRUT ROSÉ Tutti i Rosé prodotti in Oltrepò che dalla vendemmia 2007 otterranno la DOCG saranno chiamati Cruasé) Il vino è un cru che nasce dalla vinificazione di una selezione di uve Pinot nero provenienti da un vigneto di 3,50 ettari, denominato Montecérésino, situato nel comune di Calvignano, su terreni bruno-calcarei, argillosi, con marne e arenarie, ad un’altitudine di 380 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che ha luogo a partire dalla prima decade di settembre, si procede, separatamente, alla pressatura soffice delle uve e ad una breve macerazione pellicolare con contatto con le bucce; il mosto ottenuto è sottoposto poi a una decantazione statica alla temperatura di 7-10°C, ed è avviato, attraverso l’inoculo di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni, a 18°C in tank di acciaio nei quali il vino sosta fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina a temperatura costante sui suoi lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Questo Rosé si presenta con una spuma abbondante che si dissolve rapidamente consentendo di ammirare un perlage fine, fitto e persistente. Il colore è un piccolo capolavoro, di un bel ramato intenso e brillante, dagli scintillanti riflessi di tonalità corallo. Al naso propone un profilo armonico, fine, di valida ampiezza e un bouquet piuttosto intenso, con morbidi effluvi di fiori rossi e crostata di ribes, ma anche più asciutti sentori di terriccio e foglie di tabacco essiccate per chiudere con una composta ai frutti di bosco, crosta di pane e torroncino. In bocca v’è ricchezza, rotondità e l’entrata è suadente, anche se, in progressione, la beva si fa più austera, con note di tabacco. Uno spumante che sa coniugare polpa a eleganza, freschezza e persistenza. Intenso, succoso e croccante, risulta d’impeccabile armonia.

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VERDI BRUNO Mi addentro nel cuore dell’Oltrepò e, dopo essere uscito da Canneto Pavese, mentre mi ritrovo circondato dai vigneti, ripenso a un vecchio film in bianco e nero degli anni Cinquanta, Marcellino pane e vino, che neanche tanto tempo fa è stato riproposto alla televisione. Mi è venuta in mente questa vecchia pellicola dopo aver visitato la chiesa di San Marcellino, eretta a Canneto Pavese nel 1742 e definita “il piccolo duomo della collina” per la sua mole che svetta tra queste alture, all’interno della quale ho potuto ammirare lo splendido altare maggiore, un’opera d’intarsio per la cui creazione sono stati utilizzati lapislazzuli e marmi pregiati e il vecchio organo che, mi dicono, sia ancora oggi oggetto di studio. È un paesaggio vario quello che qui mi fa compagnia: in primo piano ci sono i vigneti, a ridosso dei quali trovano ampio spazio campi d’erba medica fiorita o altri coltivati a granaglie, mentre frassini e lecci delimitano sia infossature naturali del terreno che i confini fra le varie proprietà. Una terra ricca di storia, raccontata da castelli e chiese, testimone di quella passione infinita che caratterizza i sapienti agricoltori del luogo i quali, con pennellate d’artista colorano i campi di verde, giallo e viola e disegnano ogni anno l’architettura di queste terre. Discreto e silenzioso, Paolo sembra un chierico, uscito da uno dei tanti chiostri che punteggiano la provincia di Pavia. È un figlio antico di queste terre e non tanto perché le stesse ospitano la sua famiglia dal XVIII secolo, quando un suo avo, Antonio Verdi, si stabilì qui, proveniente dalla provincia di Parma, innesto ben fertile, visto che ad oggi, sette generazioni dopo, i Verdi sono ancora sulle stesse terre. Per questa famiglia, la storia del vino è, invece, molto più recente. Infatti fu Bruno Verdi, il padre di Paolo, il precursore dello sviluppo della vitivinicoltura che, fino a quel momento, non era predominante nell’azienda, la quale si reggeva su un’attività promiscua dove ogni coltura contribuiva a dare una propria redditività, consentendo una minima agiatezza all’economia della famiglia che poteva sempre fare affidamento su qualche prodotto da vendere, anche nella malaugurata occasione che, un anno, le vigne non avessero prodotto uva, le mucche non avessero partorito o gli alberi da frutta fossero stati insolitamente avari. È stato Bruno ad avere l’idea di imbottigliare ed etichettare vino, ingegnandosi per promuovere quella produzione, forse credendo in uno sviluppo più sostenibile e nella possibilità di ripresa dell’attività agricola dopo il grande black out della Seconda Guerra Mondiale. Da come ne parla, mi rendo conto che le scelte di Paolo

sono state subordinate al fatto che, fin da piccolo, deve aver respirato l’odore del mosto e cresciuto, non a “pane e vino”, ma, per così dire, a “vigne e botti”, avendo per compagni di giochi quegli stessi contadini che aiutavano in azienda e che lo conducevano nei campi, insegnandogli a manovrare le dure leve che comandavano ora l’aratro, ora il trattore. Chiedo conferma di queste mie impressioni e Paolo le avvalora, fino al punto di raccontarmi che da ragazzino era un gran “rompi coglioni” - come lui stesso si definisce petulante e curioso nel voler apprendere ogni sfumatura di quel mestiere che, era sicuro, avrebbe svolto da grande, anche se dovette, per ragioni logistiche ed economiche, affrontare la propria crescita formativa non in un Istituto Agrario, ma nell’Istituto per Geometri a due passi da casa, accondiscendendo alla volontà della madre, la quale desiderava che accrescesse la sua cultura e scoprisse che, in fondo, qualsiasi studio amplia gli orizzonti della vita. Mentre Paolo parla, in lontananza sento il suono di una campana che quasi accompagna il botto dello spumante appena stappato. Sono proprio quelle bollicine la sua passione; tra l’altro, sono state il primo vino che ha prodotto personalmente, facendosi aiutare da suo padre e dal cugino, Umberto Verdi, il quale, a livello amatoriale, già produceva spumante fin dagli anni ’60. Percepisco che quelle 300 bottiglie iniziali hanno tracciato la linea di un futuro diverso per questa azienda, forse adesso anche più impegnativo con l’arrivo della nuova DOCG. Mentre Paolo gira tra le mani una flûte del suo spumante, la campana suona un’altra volta. Il tempo corre via. Omnia transit, tutto passa, anche se sono convinto che Paolo rimarrà immutabile nel tempo: è parte integrante di questo Oltrepò Pavese.

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PAOLO VERDI


VERDI BRUNO


OLTREPÒ PAVESE DOC VERGOMBERRA BRUT MILLESIMATO Lo spumante è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (70%) e Chardonnay (30%), provenienti dai vigneti di proprietà dall’azienda, situati in località Vergomberra, nel comune di Canneto Pavese, su terreni collinari in prevalenza sabbiosi ad un’altitudine compresa fra i 150 e i 200 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, effettuata manualmente in cassette da 20 kg interamente forate a partire dalla seconda metà di agosto, segue un raffreddamento delle uve in cella frigorifera per circa 12 ore prima della pressatura. Dopo una decantazione statica di alcune ore a bassa temperatura, i mosti sono avviati alla fermentazione alcolica, svolta a 15-16°C, utilizzando per metà Chardonnay barriques austriache, mentre il resto è mantenuto in vasche di acciaio. I vini, dopo alcuni travasi, sostano nei contenitori fino all’aprile successivo alla vendemmia, quando avviene l’assemblaggio delle partite prima del tiraggio. Il vino resta a maturare in cantina sui propri lieviti per almeno 30 mesi, poi si procede con remuage e dégorgement (sboccatura) con l’aggiunta del liqueur d’expédition. Il bicchiere è inondato di una spuma abbondante e cremosa che svanisce lasciando spazio ad un perlage sottile, fitto e persistente, mentre il vetro si colora di un tenue giallo paglierino con sfumature verdognole. Al naso si percepiscono decise note tostate che rimandano alla crosta di pane e alla pasticceria, evolvendo su sentori agrumati di pompelmo e cedro. Si evidenziano inoltre sentori di pesca e fieno e un curioso ricordo di noci e castagne al forno. In bocca l’effervescenza è decisa, l’acidità pronunciata e richiama un’arancia matura, mentre la nota sapida è ben presente e rimanda a sentori di lieviti e crosta di pane. Buona la lunghezza e la chiusura con accenni vegetali.

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Un paesaggio caratterizzato da montagne e vallate, ricco di riserve idriche, numerosi laghi e corsi d’acqua. Il Trentino ha una superficie totale che supera i 6.200 km quadrati, di cui più del 50% coperto da boschi, mentre l’agricoltura ricopre il 25% della superficie della provincia di Trento. Un territorio non facile da coltivare, dove le poche pianure presenti si concentrano a ridosso dei fiumi; il resto è terreno da “conquistare” alla montagna. Vecchi agricoltori sono riusciti a mantenere radici profonde in questo territorio anche quando l’industria sembrava la via più facile per portare a casa un salario. Una proprietà diffusa, con aziende agricole che hanno una superficie media inferiore ai 5 ettari, media che nel caso della viticoltura si abbassa a poco più di un ettaro. Questa situazione in altre zone d’Italia è stato un fortissimo “handicap” per un’economia ormai “globalizzata”; qui, al contrario, la creazione di forme di cooperazione e di associazione tra i produttori ha dato i suoi frutti. A rafforzare questo settore negli ultimi decenni vi è stato poi il fenomeno dell’agriturismo, che si è aggiunto al turismo più “tradizionale” legato agli sport invernali e che rappresenta un’altra fonte di rendita per l’agricoltura trentina e che ha permesso di legare i giovani alla terra, creando nuove forme di marketing, attraverso le più moderne forme di comunicazione come il web e facendo conoscere i prodotti locali in tutto il mondo. Un equilibrio sospeso tra antico e moderno che ha trovato in una provincia autonoma uno strumento per mantenere aggiornata tutta la collettività senza scendere a compromessi che avrebbero avuto ripercussioni sull’ambiente. Le aziende più grandi, cooperative e private, hanno svolto la funzione di centro di raccolta ed elaborazione di prodotti agricoli di qualità da destinare a diversi canali commerciali, dalla grande distribuzione ai piccoli punti

vendita di “nicchia”, varcando i confini provinciali e nazionali. Traino della produzione agricola sono la coltivazione del melo e della vite; quest’ultima occupa una superficie di circa 10.000 ettari con una prevalenza di varietà a bacca bianca. Numerose sono le varietà autoctone coltivate: Teroldego, Marzemino, Enantio, Lagrein, le diverse varietà di Schiave fino alle più rare Nosiola e Moscato rosa, solo per citarne alcune; al fianco di queste si sono aggiunti numerosi vitigni, i famosi “internazionali”, che hanno beneficiato del clima e dei suoli particolari di questa provincia, come ad esempio lo Chardonnay, che risulta la varietà più coltivata. La produzione risulta impostata verso prodotti di alta qualità, tanto che oltre l’80% del vino prodotto è sotto una denominazione DOC; una percentuale davvero notevole se riportata alla media italiana che non arriva al 30%. La produzione di vini in Trentino non esclude nessuna tipologia: vini bianchi, rossi e rosati, di pronta beva, dal lungo affinamento e passiti. In questo variegato panorama enologico, ovviamente non poteva mancare lo spumante; nel 1993 viene approvato il disciplinare di produzione del Trento DOC, spumante ottenuto esclusivamente dalla rifermentazione in bottiglia. La storia della viticoltura trentina ha origini millenarie, come del resto in tutta Italia, ma il Metodo Classico e la coltivazione dello Chardonnay hanno qui radici ben più profonde. Nella seconda metà del 1800 è Edmund Mach ad introdurre il Borgogna bianco, l’odierno Chardonnay, all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, istituto che ha da sempre contribuito, allora come adesso, alla valorizzazione a livello nazionale dell’agricoltura e soprattutto della viticoltura. Nel 1902 è invece Giulio Ferrari, tecnico e cantiniere trentino, che decide di sperimentare

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la presa di spuma in bottiglia nella sua terra, dopo averla appresa in Champagne. Il successo fu quasi immediato: la diffusione dello Chardonnay e gli spumanti prodotti in Trentino aumentarono quasi esponenzialmente. Dati del 2007 indicano che la superficie dedicata a questa produzione è stata di quasi mille ettari, distribuiti su 74 comuni del Trentino, con un panorama viticolo che si estende sui versanti delle montagne fino ad altezze che possono superare i 700 metri e una produzione che ha quasi raggiunto gli otto milioni di bottiglie; in questo contesto alcune grandi cantine sono riuscite ad imporre il proprio marchio su tutto il territorio nazionale; infatti, tre aziende trentine sono tra le prime dieci a contendersi il mercato nazionale del Metodo Classico per fatturato (Ferrari è prima, Mezzacorona terza, Cavit nona), riuscendo comunque a coniugare qualità a quantità. 1. Il territorio Posizionata nel Nord-Est italiano, zona di passaggio tra la Pianura Padana e le Alpi, il Trentino è caratterizzato da numerose vallate percorse da fiumi, il principale dei quali è l’Adige, che attraversa la provincia da Nord a Sud. In questo territorio mancano vere e proprie pianure e le uniche zone pianeggianti sono i fondovalle percorsi dai fiumi Adige, Brenta, Sarca, Noce e Avisio, per citare i maggiori. La superficie provinciale risulta in prevalenza montagnosa, con il 19,6% posta ad altezza superiore ai 2000 metri, il 21,7% tra i 500 e i 1000 metri e solo l’8,5% sotto i 500 metri. Anche la viticoltura segue la conformazione del territorio, con il 39% dei vigneti posti a ridosso delle pianure create dai fiumi, il 41% in collina e il 20% in montagna. La presenza a sud del Lago di Garda e dei numerosi altri laghi (Caldonazzo, Molveno, Ledro, Levico e Toblino) è un importante volano termico per le zone viticole circostanti.


Le principali zone di produzione viticola sono la Valle dell’Adige, che nella sua parte meridionale prende il nome di Vallagarina, la Val di Cembra e la Valle dei Laghi.

maggiormente interessata dalla viticoltura parte dal comune di Lavis, alla destra del fiume Adige fino a quello di Segonzano, con terrazzamenti posizionati soprattutto sulla “destra idrografica”, che risultano meglio esposti 1.1 I suoli al sole. Grazie a questa felice esposizione i Anche dal punto di vista geologico il Trentino vigneti sono impiantati anche sopra i 700 metri appare di diversa conformazione. La parte di altezza. centro-orientale costituisce la piattaforma porfirica trentino-altoatesina che si estende 1.2 Clima da Trento a Bolzano tra i 1000 e i 1600 metri Il territorio, con un paesaggio che rapidamente e si è formata nell’età Permiana (280-240 passa da quello prealpino a quello alpino, è milioni di anni fa). caratterizzato da un clima assai variabile da Nell’era secondaria si hanno le deposizioni dei zona a zona, come dimostrano le temperature sedimenti marini, quando il territorio era ancora medie annuali che variano in modo notevole occupato dal mare, prima della creazione delle dai 12,5°C di Riva del Garda ai -1°C del passo Alpi (orogenesi); in particolare nel Triassico, si del Tonale; in questo gradiente termico è inclusa ha la formazione dei calcari e della dolomia, che tutta l’eterogeneità del Trentino, con variazioni costituiscono le Dolomiti e il Brenta, insieme a che intervengono allontanandosi dalla Pianura parte delle Prealpi trentine. Padana e avvicinandosi alle Alpi. In un periodo più recente, nel Giurassico e nel Nel Trentino meridionale è presente un clima Cretaceo, si plasmano i rilievi prealpini orientali di tipo padano-prealpino caratterizzato da e meridionali del Trentino, insieme a qualche precipitazioni concentrate in autunno e poi zona di origine lavica e tufacea. in primavera, con minori piogge in inverno Su queste rocce vi sono stati poi dei depositi di ed in estate; nel Trentino settentrionale è natura glaciale, alluvionale e colluviale avvenuti invece presente un clima di tipo continentale nel quaternario. Molto diffusi, soprattutto con precipitazioni diffuse quasi in maniera nei fondovalle e nei declivi fino ai 1600-1700 omogenea durante tutto l’anno, con un metri, depositi morenici lasciati dall’azione dei massimo in estate. ghiacciai. Si tratta di depositi che assumono la Il mese più freddo risulta gennaio con una conformazione eterogenea di ciottoli, ghiaie e temperatura media giornaliera di -0,3°C; luglio sabbie miste a limo e poca argilla. quello più caldo, con media giornaliera di 21,4°C La Valle dell’Adige è il risultato dell’azione dei (misurati a San Michele all’Adige). ghiacciai, che nella loro espansione e ritiro Le precipitazioni variano dagli 800 mm/anno hanno modellato morfologicamente questa di Cavalese, nel nord-est della provincia, fino vallata. A caratterizzare il fondovalle, sono agli oltre 2000 mm al confine con il Veneto. I stati i fenomeni alluvionali avvenuti più venti sono generalmente deboli in direzione “recentemente” nel Quaternario, sui quali si nord-ovest e sud-est. Il più caratteristico e sono depositati anche detriti provenienti dalle sicuramente “benedetto” dai viticoltori è l’Ora rocce più antiche a seguito di attività di frane che nelle più calde giornate estive spira dal lago ed erosioni. Lo spessore di questo strato va di Garda per spostarsi a nord seguendo le valli. assottigliandosi dal fondovalle diminuendo progressivamente salendo sui versanti. 2. Aspetti viticoli La Vallagarina, parte meridionale della Valle Tra gli anni ‘70 e ‘80 anche in Trentino, come dell’Adige, da Trento alla Chiusa di Ceraino, su tutto il territorio nazionale, vi è stata una durante il definitivo ritiro dei ghiacci è stata sensibile diminuzione della superficie dedicata occupata da formazioni lacustri, colmate poi alla viticoltura e un’inversione delle percentuali dai depositi fluviali dell’Adige. I terreni paludosi tra varietà a bacca rossa e quelle a bacca bianca. sono stati bonificati a più riprese; i suoli in Se negli anni ‘80 la percentuale a favore delle prossimità del fiume sono dati dai sedimenti uve rosse era dell’80%, attualmente sono le alluvionali, generalmente limoso-sabbiosi, con bianche a costituire oltre il 60% del totale. un’elevata frazione di sabbia fine e solitamente La viticoltura, per le varietà destinate alla ricchi in calcare. spumantizzazione, si trova generalmente ad La Val di Cembra è una vallata relativamente altezze maggiori rispetto a quelle destinate ai stretta, creata dall’azione erosiva del vini fermi. torrente Avisio sulla roccia porfirica e sui I sistemi di allevamento più diffusi sono quelli materassi morenici. La porzione di territorio tradizionali trentini, quindi soprattutto pergola

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trentina, semplice o doppia, che costituisce l’80% di tutto il patrimonio viticolo provinciale, a seguire, e nei vigneti più moderni, c’è il Guyot, che garantisce una maggiore densità di allevamento. Le densità per ettaro, nel caso dei vigneti per uve destinate alla spumantizzazione, variano dai 3000-3500 ceppi/ettaro fino alle 5000-6000 per i nuovi impianti. Particolare attenzione viene posta all’ecosistema; in un territorio con elevate pendenze e quindi così fortemente soggetto all’erosione, l’inerbimento tra i filari è costantemente attuato, proprio per fermare tale fenomeno. Notevole è stato l’impegno da parte di tutto il mondo produttivo per adottare la lotta integrata, pratica agronomica che si impegna nella riduzione dell’utilizzo dei fitofarmaci al minimo necessario, e le pratiche biologiche sono ormai diffuse largamente su molta parte della superficie provinciale. 2.1 Varietà La varietà regina del Trentino risulta lo Chardonnay, che è la varietà più coltivata in assoluto, con oltre 2.600 ettari iscritti agli albi per la produzione dei vini DOC. Lo Chardonnay è anche la varietà più utilizzata per il Metodo Classico Trento DOC, anche se il disciplinare prevede l’utilizzo di Pinot nero, Pinot bianco e Pinot meunier. Nella vinificazione dello spumante rosato entra in gioco soprattutto il Pinot nero, varietà che grazie alla sua molteplice attitudine, fornisce anche vini rossi con una notevole propensione all’invecchiamento. Chardonnay È la varietà più coltivata, occupando oltre il 26% dell’intera superficie viticola provinciale. Lo Chardonnay viene definito un “vitigno internazionale naturalizzato” nel Trentino, viste sia la sua secolare presenza sul territorio, sia il riconoscimento che hanno conquistato in giro per il mondo gli spumanti e i vini fermi ottenuti a partire dalle sue uve. Ad introdurlo in questo territorio, nella seconda metà dell’Ottocento, fu Edmund Mach, fondatore e primo direttore dell’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, a cui è stata intitolata sia la fondazione che gestisce tale istituto che la Riserva Spumante prodotta dalla Cantina dell’Istituto. Scopo di Edmund Mach era lo studio delle diverse varietà di Vitis vinifera (la vite europea) e di quelle americane. Nei suoi impianti sperimentali si trovavano anche le piante di quello che allora veniva chiamato Borgogna bianco. A diffondere poi


Carta litografica con l’indicazione di tutti i comuni della DOC.

tale vitigno fu Giulio Ferrari, che oltre a dare l’avvio alla tradizione spumantistica trentina, era anche un vivaista. Il nome Borgogna bianco metteva in luce la sua origine, ma accomunava diverse varietà, tra le quali anche il Pinot bianco. Analisi molecolari del DNA allora non esistevano e l’unico modo, tuttora comunque valido, per capire la differenza tra una varietà e l’altra è stata l’Ampelografia, lo studio cioè delle caratteristiche morfologiche e produttive della pianta. In Francia, e in special modo in Borgogna, intanto venivano alla luce differenze tra le due varietà e nel 1903 appare per la prima volta il termine Chardonnay nell’opera Ampelographie di Viala e Vermorel. In base a questi studi, nel 1955 Rebo Rigotti notava caratteristiche diverse tra le piante di un vigneto di Pinot bianco individuandone alcune che potevano essere catalogate come “Pinot Chardonnet”. I professori Fischer e

Manzoni nel 1967 ribadirono queste differenze proponendo il nome Pinot giallo per marcarne le peculiarità. A livello istituzionale bisognerà poi aspettare il Decreto Ministeriale del 24 ottobre 1978, che iscriverà lo Chardonnay nel Catalogo Nazionale delle Varietà su richiesta appunto della Provincia trentina e dell’Istituto di San Michele. Alla base di questa “confusione” vi è sicuramente l’elevata somiglianza tra le due varietà e la loro tendenza - soprattutto il pinot - a subire mutazioni genetiche. La diffusione del vitigno cresce rapidamente negli anni, passando dai 700 ettari del 1980, ai 2000 del 1990, fino agli oltre 2600 attuali, che corrispondono ad oltre il 20% dello Chardonnay piantato in Italia. Un successo dovuto all’eccellente risposta che questa varietà ha nei diversi suoli e alle diverse altitudini ed esposizioni del Trentino, in grado di fornire

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vini dal diverso profilo sensoriale e adatti a differenti tipi di vinificazione: da vini bianchi freschi e di pronta beva a quelli, sempre fermi, caratterizzati da un passaggio in legno - che conferisce loro anche una discreta attitudine all’invecchiamento - fino alla spumantizzazione secondo il Metodo Classico. Pinot bianco Varietà che sta progressivamente per essere soppiantata dallo Chardonnay; attualmente raggiunge quasi 95 Ha di superficie destinata alla produzione di vini DOC, rappresentando solo l’1% della superficie DOC totale. È di norma coltivato nei vigneti di maggiore quota, per la difficoltà di controllarne l’acidità dei mosti e per la sua alta sensibilità alla Botrite. Spesso confuso con lo Chardonnay, anche lui come il Pinot grigio deriva da una mutazione gemmaria del Pinot nero. Viene spesso vinificato in purezza.


SMA 130

VCR 4

76

95

CLONE

Produzione

Medio-elevata

Media

Media

Media

Grappolo

Medio-grande

Medio-piccolo

Medio

Medio-piccolo

Acino

Medio

Medio

Piccolo

Medio-piccolo

Vigore

Medio

Elevato

Medio

Medio-elevato

Fertilità

Medio-elevata

Medio-bassa

Media

Media

Caratteristiche Enologiche

Acidità e aromi

Aromi e struttura

Finezza aromatica

Equilibrio e complessità

Sono numerosi i cloni di Chardonnay a disposizione dei viticoltori. Nella tabella sono riportati 4 cloni, due italiani e due francesi, utilizzati soprattutto per la vinificazione degli spumanti.

Pinot nero Molto richiesto attualmente dal mercato, è caratterizzato da una molteplice attitudine, essendo vinificato in bianco o in rosato, per fornire ottime basi spumanti, oppure in rosso per dare vini destinati ad un medio-lungo affinamento in legno. Ovviamente clima, suoli e cloni utilizzati creano a monte la distinzione delle uve destinate a queste tipologie. Attualmente la superficie DOC destinata a questa varietà sorpassa i 200 ettari. Originario della Francia, dove è coltivato soprattutto in Borgogna e nello Champagne, si è diffuso in tutto il mondo, risultando però idoneo e fornendo vini pregiati soltanto in particolari situazioni dove clima e terreno lo consentono. Pinot meunier Presente nel disciplinare, ma rappresentato sul territorio solo nei vigneti più elevati e in Valsugana. Questa varietà di origine francese è un genitore del Pinot nero. Il suo nome deriva dal francese e significa mugnaio per la peluria che ricopre le giovani foglie, facendole appunto sembrare ricoperte di farina. 2.2 L’interazione tra vitigno e ambiente Come già accennato, lo Chardonnay e il Pinot nero sono vitigni che possono essere destinati a diversi obiettivi enologici; in particolare, nel Trentino, sia lo Chardonnay che il Pinot nero forniscono la materia prima per la vinificazione dello spumante e sono altresì in grado di dare vini fermi di ottima struttura e capacità d’invecchiamento. Caratteristiche peculiari date dalla possibilità

di disporre di cloni con diverse attitudini produttive e dalla presenza di suoli, altimetrie ed esposizioni molto eterogenei, in grado di far maturare diversamente le uve per le particolari vinificazioni. Anche il semplice drenaggio dell’acqua, legato anche alla tessitura del suolo, favorisce l’accumulo degli zuccheri nell’uva; al contrario, con riserve idriche più consistenti, favorirà un maggiore sviluppo vegetativo della pianta, con una conseguente minore concentrazione zuccherina, ma con un incremento del livello acidico del mosto, fattore positivo per la vinificazione delle basi spumante. Da suoli franco-sabbiosi derivano vini Chardonnay in cui risultano prevalenti i descrittori di frutta matura e sapidità; nelle uve prodotte da terreni franchi ad emergere sono soprattutto le note speziate, mentre da quelli franco-argillosi sono le note più evolute di pane e miele ad essere messe in evidenza. Anche l’altitudine dei vigneti gioca un ruolo fondamentale per ottenere le migliori uve per il Trento DOC; le quote variano sensibilmente, passando dai 200 metri s.l.m fino ai 700 metri e oltre come nel caso particolare della Val di Cembra e della Valsugana. Nella Valle dei Laghi i vigneti sono posti ad altezze che superano mediamente i 300 metri. Nel comprensorio della Vallagarina la fascia altimetrica ottimale dove ottenere le uve Chardonnay da destinarsi alla produzione di spumanti risulta quella compresa tra i 400 e i 500 metri. I fattori ambientali quali altitudine, natura dei suoli, esposizione e microclima particolare, se ben combinati sono necessari per il

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mantenimento di alti tenori di acidi e di aromi fruttati che si riscontreranno poi negli spumanti in bottiglia. 3. Aspetti enologici Il disciplinare, che è stato introdotto nel 1993, prevede la possibilità di vinificare le varietà Chardonnay, Pinot nero, Pinot bianco e Pinot meunier. La varietà maggiormente utilizzata nell’elaborazione degli spumanti rimane lo Chardonnay, mentre nella tipologia in rosato diventa fondamentale l’apporto del Pinot nero. Presente, ma meno utilizzato, è il Pinot bianco, mentre il meunier risulta poco diffuso sul territorio. 3.1 Tipologie e vinificazione La produzione del Trento DOC prevede tre tipologie di vino: Bianco, Rosato e Riserva. Il periodo minimo di permanenza sulle fecce è di 15 mesi per i prodotti che non riportano annata in etichetta. Sono spumanti bianchi e rosati ottenuti dal taglio di diversi vini - le “basi” - che permettono di ottenere un prodotto qualitativamente costante negli anni. È prevista anche la menzione millesimato quando lo spumante viene vinificato utilizzando solo le uve vendemmiate in quella particolare annata. In questo caso l’affinamento sui lieviti di rifermentazione deve essere di almeno 24 mesi. Il periodo di contatto con le fecce fini aumenta a minimo 3 anni nel caso della Riserva che, come per il millesimato, deve sempre riportare l’indicazione in etichetta dell’annata di vendemmia; per la Riserva è prevista esclusivamente la tipologia Brut, con gli zuccheri residui nello spumante finito inferiori ai 15 g/l. In tutte le tipologie rimane comunque l’obbligo di riportare l’annata della sboccatura, ossia l’operazione di espulsione dei depositi costituiti dai lieviti della fermentazione in bottiglia, periodo che coincide appunto con la fase di affinamento sulle fecce fini. Tutte le operazioni di vinificazione fino alla definitiva tappatura devono essere compiute nella zona di produzione. Nel caso delle riserve e di particolari spumanti qualche azienda effettua la vinificazione di parte del vino base in barrique. 3.2 Il profilo sensoriale dei vini Per tutte le tipologie di spumante la spuma è intensa con un perlage (cioè le “catenelle” di bollicine che si staccano dal fondo del bicchiere e risalgono sulla superficie), fine,


La viticoltura in Trentino si sviluppa sui versanti delle montagne a ridosso dei fiumi. In particolari situazioni e con buona esposizione, i vigneti si trovano anche oltre i 700 metri s.l.m.

L’influenza dell’altezza di coltivazione dello Chardonnay è riscontrabile sui profili organolettici dei vini (Fonte: Porro et al. 2003)

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cioè di piccole dimensioni, e persistente, cioè prolungato nel tempo. Queste caratteristiche sono dovute ad una corretta rifermentazione in bottiglia oltre che alla presenza nel vino di composti, soprattutto di origine azotata, che favoriscono il processo di formazione della spuma. Il colore del vino varia dal paglierino scarico con leggeri riflessi verdi per il bianco e tende a caricarsi di colore, da giallo paglierino carico fino a riflessi più dorati, con l’aumentare dei mesi di affinamento sui lieviti, come nel caso del millesimato e soprattutto per le riserve. Colorazione ancora più intensa, tendente al dorato, nel caso di vinificazione in barrique del vino base destinato alla rifermentazione. Nel caso del rosato, l’apporto del Pinot nero si evidenzia con una colorazione che assume toni più o meno tenui in proporzione alla durata della macerazione; anche la permanenza sulle fecce influenza la tonalità del vino, ricordando che parte del colore viene assorbito dai lieviti in affinamento, espulsi successivamente nell’operazione della sboccatura. I riflessi del vino passeranno quindi dal ramato fino alle colorazioni più o meno aranciate in base al periodo di affinamento. I profumi di un Metodo Classico sono caratterizzati da sentori che si originano durante la seconda rifermentazione e che ricordano la crosta di pane; l’intensità di questa sensazione aumenta proporzionalmente con la durata dell’affinamento, assumendo anche sfumature che ricordano la crema pasticcera e le mandorle nei vini rimasti a contatto per più tempo con le lies, cioè le fecce fini. Questi descrittori non sono gli unici a caratterizzare un Metodo Classico; è infatti fondamentale il profilo aromatico apportato dalle uve utilizzate ed espresso durante la prima fermentazione. Nel caso delle tipologie in bianco, soprattutto negli spumanti meno affinati, si possono percepire distintamente note di mela e pesca o di frutta esotica insieme ad intense sensazioni floreali, soprattutto di fiori di campo. Questi sentori diventano più evoluti nel caso dei millesimati e nelle riserve, con profumi che ricordano più la frutta matura fino ad arrivare a delicate note di miele. Nel caso di utilizzo di barrique per i vini base, si aggiungono anche leggere note vanigliate e di nocciole tostate. Nel caso del rosato, si percepiscono anche profumi legati alla breve macerazione sulle bucce del Pinot nero, in particolare delicati sentori di frutta rossa, soprattutto quella di bosco, ribes e more.

Le percezioni gustative sono particolarmente legate all’acidità e alla presenza di anidride carbonica, cioè le bollicine che conferiscono freschezza al vino. La percezione della morbidezza aumenta nel caso dei vini base in parte o totalmente vinificati in legno e in funzione del tempo di permanenza sulle fecce fini. Particolare poi l’apporto dato dalle varietà, con una maggiore morbidezza dallo

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Chardonnay e più struttura dal Pinot nero. Particolare e “segreto” rimane poi il contributo del liquore o sciroppo di dosaggio (liqueur d’expédition), una miscela di vino e zucchero in grado di fornire un’impronta gustativa e olfattiva che rimane come sigillo aziendale sul prodotto finito.


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Istituto Agrario di San Michele all’Adige: “Stella polare” della vitienologia trentina Il Trentino è terra di grandi spumanti e uno dei maggiori produttori italiani. Sono circa otto milioni le bottiglie che dalle cantine della provincia raggiungono tutte le parti del mondo: il 35 per cento della produzione nazionale. Il settore, in continua crescita, potrà contare presto anche sul supporto di tecnici altamente specializzati. E questo grazie al master universitario sui vini spumante, il primo a livello nazionale, attivato dall’Istituto Agrario di San Michele all’Adige - Fondazione Edmund Mach con la collaborazione tecnica e scientifica dell’Università degli Studi di Milano. Il master, che si sviluppa su un percorso di tre moduli riguardanti la viticoltura per le basi spumante, l’enologia dei vini spumante e il mercato degli spumanti, intende dare un’approfondita conoscenza interdisciplinare finalizzata alla gestione tecnica delle risorse viticole ed enologiche delle diverse vocazionalità spumantistiche. Gli iscritti diventeranno tecnici specializzati in produzione di uve, trasformazione ed elaborazione di vini spumante, con competenze in analisi sensoriale e strumentale, nella gestione economica del comparto, nel marketing e nella comunicazione. Non c’è dubbio che la realizzazione di questo percorso va a colmare non solo un vuoto formativo nel panorama nazionale, ma intende contribuire alla creazione di esperti qualificati, in grado di far crescere ulteriormente il comparto spumantistico nazionale. Questa, in realtà, è solo una delle attività formative proposte dall’Istituto Agrario di San Michele che da 135 anni è impegnato nel valorizzare il comparto agricolo, agroalimentare e ambientale trentino, attraverso attività di ricerca scientifica, istruzione e formazione, sperimentazione, consulenza e servizio alle imprese. Una mission con una vocazione ben precisa, fin dall’origine: dedicarsi agli studi in campo viti-enologico. Non c’è da meravigliarsi, quindi, di fronte al suo importante apporto nello sviluppo della spumantistica trentina, in particolare nella valorizzazione del Metodo Classico. Nel 1984 ha contribuito alla nascita dell’Istituto Trento DOC e ne fa tutt’ora parte, insieme ad altre 26 aziende, per tutelare la qualità, l’origine, il metodo e la diffusione dello spumante di origine trentina. Ma la storia delle bollicine trentine inizia ancora più in là nel tempo, nei primi anni del Novecento, grazie alla passione e alla tenacia di Giulio Ferrari, che ebbe l’intuizione della grande vocazionalità del Trentino in fatto di spumantistica. La sua formazione viticolo-enologica è stata fortemente forgiata dall’allora Imperial Regia Scuola Agraria di San Michele dove il giovane frequentò i corsi sotto la direzione del fondatore Edmund Mach. I suoi quaderni e appunti autografi, donati dal nipote Gianni, sono preziosamente custoditi nel fondo

storico della biblioteca e rappresentano, senza dubbio, le pietre miliari della spumantistica trentina. Infine, mi preme menzionare il risultato di un’importante attività di ricerca condotta di recente all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige: il sequenziamento del genoma del Pinot nero, una scoperta definita storica per l’impatto che avrà sulla viticoltura mondiale. La lettura del dna della vite pone, infatti, le basi oggettive per il miglioramento di alcune caratteristiche qualitative dei vitigni attualmente coltivati e per la costituzione di eventuali nuove varietà che meglio si adattino alle caratteristiche del territorio viticolo trentino. La conoscenza più approfondita dei meccanismi biologici della vite consentirà, inoltre, di attuare interventi più mirati per la difesa dalle avversità parassitarie, diminuendone il numero e l’impatto, realizzando così una politica di agricoltura sostenibile, rispettosa dell’ambiente. Alessandro Dini Direttore generale Fondazione Edmund Mach Istituto Agrario di San Michele all’Adige

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METODO CLASSICO di territorio



ABATE NERO Ci sono idee, pensieri e cose che sembrano nascerti dentro per caso, ma non è così. E un bel giorno ti accorgi che erano state sempre lì, dove poi, improvvisamente, le hai trovate. Da subito ti appaiono troppo belle per essere vere e, per paura di rimanerne deluso o di non esserne all’altezza, le allontani rifiutandole. Altre volte, invece, le consideri semplici e banali sensazioni, piccole percezioni emozionali a cui, forse, è bene non dare troppa importanza. Con il tempo succede che alcune di esse scompaiano e, stoltamente, sembra che ciò ti possa rassicurare, invece che rattristarti; altre volte, inspiegabilmente, le stesse cose diventano assillanti e molto più ingombranti di quanto avresti pensato: ti appaiono quasi delle ubbie, ti pulsano dentro la testa e sono lì solo per farsi ricordare, al pari di un’unghia incallita o di un mal di denti! È così che nasce l’idea dell’Abate Nero, il mio Spumante Metodo Classico. L’avevo qui dentro, nella mia mente, da sempre, fin da quando lavoravo come giovane enologo per una realtà cooperativa. Sapevo che prima o poi, un giorno, avrei fatto il mio Spumante, senza troppi compromessi o sotterfugi. Doveva essere “eccellente”, il meglio che io potessi fare utilizzando le uve e le conoscenze tecniche a mia disposizione. Ma come avrei potuto realizzare una cosa simile se non avevo né beni al sole, né tanto meno dei vigneti? Dalla mia avevo un grande vantaggio: quello di lavorare in una cantina cooperativa e di conoscere tanti vigneti, sparsi un po’ per tutto il territorio della provincia di Trento. Una conoscenza che, negli anni, mi ha consentito di scoprire quali fossero le aree più vocate del territorio trentino e, in quelle aree, gli appezzamenti che avrebbero potuto fornire le uve migliori per “costruire” il mio spumante. Una conoscenza che cresceva, anno dopo anno, e man mano andava ad alimentare, e a nutrire sempre più, il sogno del mio personalissimo spumante. L’ho tenuto per anni nel cuore, confinato in un angolo remoto, perché la mia priorità era l’impegno lavorativo con

la cantina. Poi, un giorno, successe che parlandone con Eugenio, il mio socio attuale che si occupa della commercializzazione del nostro spumante, decisi che era giunto il momento di iniziare l’avventura, di preparare la mia prima cuvée e provare così l’ebbrezza di far vivere un vino in una bottiglia. Tutto è partito da qui, da quello che ho avuto sempre dentro di me, da quello che mi insisteva nella testa e mi premeva sul cuore. Fin dalle prime “sboccature” - che furono subito un successo - tutto ha preso i contorni di una raffinata e artigianale impresa produttiva, caratterizzata dal rispetto dei dettami del buon fare che, a loro volta, mi hanno indotto ad un’attenta selezione delle uve destinate alla realizzazione dei vini “base”, quelli che, sagaciamente interpretati, si trasformano, poi, nel mio Abate Nero. In questo viaggio ho avuto come compagno un altro pensiero fisso: lo spumante da me prodotto avrebbe dovuto essere in perfetta sintonia con la vocazione naturale e le condizioni pedoclimatiche di questo magnifico Trentino, le stesse che lo rendono la regione italiana più simile alla zona dello Champagne. Con questa convinzione mi sono messo a ricercare quelle caratteristiche di sobrietà, eleganza, finezza e sapidità che fanno la reale differenza fra i “grandi” Spumanti e i “buoni” Spumanti. È così che ho iniziato, ventidue anni fa, affrontando un viaggio che mi avvicinasse al mio territorio, cercando di sperimentarne le possibilità e le potenzialità e sottoponendomi ad un percorso tecnico-formativo con cui imparare a conoscerlo, per ottenere una produzione che mi caratterizzasse e fosse l’espressione della peculiare tipicità di queste terre. Non ho mai voluto rincorrere le mode, anzi, mi sono mantenuto fermo su concetti meno effimeri, come la vera territorialità, anche se, dopo tante vendemmie, devo ammettere che ho ancora tanto da scoprire e ho espresso solo una parte infinitesimale del vero potenziale di questo territorio.

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vel toto estLUNELLI iunior anno.” Utor LUCIANO permisso, caudaeque ut EUGENIO DE TERLAGO VEL TOTO CASTEL EST I pilos UNIOR ANNO.” UTOR


ABATE NERO


TRENTO DOC BRUT RISERVA CUVÉE DELL’ABATE MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (70%), Pinot nero (20%) e Pinot bianco (10%) raccolte nei vigneti situati nei comuni di Trento e Lavis, su terreni calcareoargillosi e granulosi molto drenanti, ad un’altitudine compresa fra i 300 e i 400 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni, a 18°C, per l’80% in tini di acciaio inox e per il 20% in barriques di rovere di 2° e 3° passaggio. In questi contenitori il vino rimane fino all’aprile dell’anno successivo alla vendemmia, quindi si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per 48-50 mesi, durante i quali si movimentano manualmente le bottiglie almeno 3 volte (coup de poignée). Al termine di questo lungo periodo si procede al remuage, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. È uno spumante che veste il bicchiere di un colore paglierino dai riflessi dorati che vanno ad arricchire un perlage fine, ricco e persistente. Al naso, nell’insieme intenso e profondo, si apre lentamente agli aromi di fiori di acero, piante officinali, rosmarino, salvia e timo, che con il tempo lasciano spazio a note di caffè d’orzo, caramella mou e nocciole. In bocca risulta armonioso, elegante, fresco e mescola con sagacia la sapidità all’acidità, per un finale pulito, lungo e persistente.

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BALTER Ci sono posti che emanano energia. E ciò avviene nonostante gli uomini che li abitano o la storia che li contraddistingue. Ovunque tu diriga lo sguardo non potrai fare a meno di percepire l’originaria vocazione militare di questo luogo ed è per questo forse che qui non ci sono molti spazi da utilizzare per scopi aziendali. Ti basti pensare che nella sala d’accoglienza, dove ci troviamo, una volta c’era un fienile, mentre sotto c’era la stalla e, per recuperare spazi, ho dovuto trasformare anche quella. In cima a questa collina, durante la seconda guerra mondiale c’era la FLAK, la famosa contraerea tedesca, che, sfruttando la natura del terreno sottostante, completamente pianeggiante e privo di particolari declivi, teneva sotto scacco tutta la zona. Non ti nascondo che, in azienda, abbiamo anche dei residuati bellici, utilizzati dagli americani nel corso della Liberazione e, nonostante che nel dopoguerra mio padre Franco abbia fatto un grandissimo lavoro di bonifica di tutta la proprietà, ce ne sono ancora oggi. A me piace qui: anche in giornate piovose come questa; sappi comunque che a primavera è tutto diverso e l’esplosione vegetativa che accompagna la stagione lascia senza fiato chiunque venga quassù. È un luogo magico che si presterebbe a mille alternative, ma so per certo che ogni luogo ha il suo fine ed è giusto che qui io faccia vino. Da questa casa, posta proprio sulla collina alle spalle di Rovereto, è possibile, come potrai constatare di persona, osservare tutta la sottostante valle dell’Adige. Però non so se il fascino che io percepisco è dovuto all’architettura che la contraddistingue, con le merlature che si intravedono dalla finestra e che danno all’ambiente un tocco storico, o se, invece, sia la suggestione che provo nel considerare il valore che questa casa aveva per mio padre, il quale l’ha difesa e l’ha saputa mantenere integra per tutta la vita, così come l’aveva ereditata. Avresti dovuto conoscerlo. Non puoi immaginare quanto lui amasse queste mura e, ancor più, quanto fosse legato a questa terra a cui dedicava, però, solo il tempo che gli era concesso dall’impegnativa attività familiare di commercializzazione di manufatti edili. Non posso nasconderlo: devo molto a mio padre Franco, così come non mi vergogno a dirti che, ora che non c’è più, sento forte la sua mancanza. Sì, è vero, anche fra noi sono esistite delle divergenze, che però non hanno mai intaccato il legame che ci univa, più forte degli scontri che derivano dagli usuali contrasti

generazionali tra padre e figlio. Nel suo lavoro lo ricordo pragmatico e metodico, con un grande senso organizzativo e sempre impegnato nel mantenimento di questa proprietà, che teneva giorno per giorno sotto osservazione, anche solo attraverso la documentazione contabile che gli perveniva fra le mani. Questa azienda era la sua passione e vi dedicava ogni minuto libero del suo tempo, curandola e dimostrandosi non solo pignolo e oculato nella sua direzione, ma, in alcune cose, anche attento osservatore e precursore dei tempi. Già a partire dal 1970, infatti, insieme al professor Attilio Scienza, portò dalla Francia in Trentino le prime marze di Cabernet Sauvignon. Il suo era un impegno rigoroso, come quello che potrebbe avere uno scienziato verso la sua ricerca. Per lui ogni cosa doveva essere ponderata e valutata secondo schemi e risultati, anche se, come si sa, non sempre ciò è possibile e, certe volte, è bene anche dare ascolto all’istinto e alle passioni, che lui certamente aveva, ma che riusciva a controllare con il suo pragmatismo, ricacciandole in chissà quale angolo del suo cuore. Io sono molto diverso da lui. Non riesco a star fermo con le gambe sotto la scrivania per più di dieci minuti. Sono più portato per le cose pratiche e mi sento a mio agio solo se c’è da superare un ostacolo, aggiustare qualcosa o arrivare, in quattro e quattr’otto, alla risoluzione di un problema. È comunque da lui che mi deriva la passione per il mestiere di vignaiolo, la stessa che mi ha fatto abbandonare un percorso universitario e mi ha condotto ad approfondire questo legame con il vino e a conoscere uomini per me importanti, come Mario Pojer e Peter Dipoli, i quali mi hanno stimolato a costruire un mio personale percorso. Devo dire che questo viaggio è lungi dall’essere concluso, benché, nel frattempo, io abbia iniziato ad avere delle soddisfazioni; mio padre, il quale trepidava per questo mio slancio vitivinicolo, non se l’era mai sentita di varcare quel confine che l’avrebbe condotto a definirsi “produttore”, ma, nonostante questo, era entusiasta, quanto e più di me, che io ci stessi provando e riuscendo. Ogni tanto mi raccontava che un giorno avrebbe voluto avere la possibilità di dare un nome ad un vino. Rammento che ne aveva uno fisso che gli girava in testa: “Barbanico”. Ed è quello che ho poi voluto mettere in un’etichetta prodotta in omaggio a lui e alla passione per il mio sogno.

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NICOLA BALTER


BALTER


TRENTO DOC BRUT RISERVA MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (80%) e Pinot nero (20%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Vallunga, nel comune di Rovereto, in una zona collinare su terreni in parte morenici, limosi, ricchi di argilla, ad un’altitudine di 350 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima metà di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 12°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C) per l’80% in tank di acciaio inox e per un 20% in barriques di rovere francese di 1° e 2° passaggio. In questi contenitori il vino svolge la malolattica e rimane fino al giugno dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Questo spumante veste il bicchiere di un colore giallo paglierino dai riflessi dorati che vanno ad arricchire un perlage finissimo e persistente. Al naso, intenso, classico e armonico, è caratterizzato da note di pane appena sfornato e biscotti, che si amalgamano con buon equilibrio a percezioni minerali e a ad altre più suadenti di nocciole e vaniglia: un bouquet armonioso nell’insieme che propone anche ricordi agrumati. In bocca risulta fresco, avvolgente, equilibrato, elegante: un vino di stoffa e di buona persistenza grazie alla sua vena sapida; curiose certe nuances di mela nel finale.

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CANTINA ROTARI Entrare nella Cantina Mezzacorona lascia veramente senza fiato. Eppure non dovrei meravigliarmi, dato che, andando in giro per l’Italia, di cantine ne ho visitate tante, ma posso assicurare che una di queste dimensioni, così ben organizzata, non l’avevo mai vista. Appena si arriva, asseconda l’idea d’imponenza, mentre, visitandola, si scopre che non solo è grande, ma è una macchina quasi perfetta che deve garantire, a chi sa farla funzionare, grande efficacia e tanta efficienza. La sua logistica è straordinaria, essendo disposta su una superficie di circa 13 ettari, fra San Michele all’Adige e Mezzocorona, proprio a ridosso dell’Autostrada del Brennero e a pochi centinaia di metri dal casello. Una struttura costruita per far fronte a una massa critica di uve molto importante, poiché vinifica quelle dei 1500 agricoltori associati, raccolte nei 2600 ettari posti fra il Trentino e l’Alto Adige. Vasche di acciaio a perdita d’occhio e magazzini enormi dove si stoccano oltre ai vini qui prodotti anche quelli realizzati non solo nei circa 1000 ettari di proprietà, dislocati fra la Sicilia e la Toscana, ma anche quelli di altre aziende nelle quali il Gruppo ha piccole o grandi partecipazioni. Movimentare circa 40 milioni di bottiglie annue non deve essere una cosa facile, ma penso che, con uno spazio così, forse tale incombenza deve sembrare meno gravosa. Un’Azienda con una lunga storia alle spalle, fondata nel 1904 da chi, sicuramente, con grande fede cristiana, aveva maturato una forte coscienza sociale e democratica e aveva stabilito dei princìpi che sono, ancora oggi, un valido punto di riferimento per chi opera qui dentro, come ad esempio l’apoliticità e quel concetto di “avere sempre la porta aperta”, dando così il diritto, a chi ne ha fatto richiesta, di diventare socio. Una struttura a capo della quale c’è un “controllo democratico”, che delinea il pari diritto di voto per ogni socio, a prescindere dalla quantità di denaro investito, oltre a creare le basi e l’opportunità di riconvertire parte dei profitti nel sistema “sociale” e sul territorio. Princìpi che i padri fondatori sentivano fortemente propri e che, forse, mi pare di comprendere, siano stati fatti propri anche da chi ha proseguito su quel percorso iniziale; princìpi d’altronde ripresi anche nell’articolo 45 della Costituzione italiana nel passo che recita “la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. Penso a queste cose mentre Claudio Rizzoli, l’amministratore e il manager director della Cantina Rotari, mi parla delle vicissitudini e degli alti e bassi della Cooperativa che, fino a qualche decennio addietro, nel piazzale d’ingresso, vendeva l’uva dei soci ai commercianti che venivano qui un po’ da tutta Italia, strappando i prezzi che il mercato imponeva e che non garantivano ritorni economici adeguati ai sacrifici fatti dagli agricoltori: ma era così, poiché il potere contrattuale di questi ultimi era inesistente. Rimango affascinato dal suo racconto, perché, guardando cos’è diventata oggi Mezzacorona, sembrano quasi inverosimili e sono sicuro che

mi tratterrei volentieri su quell’argomento se non ne avessi altri da sviscerare come, ad esempio, quello che mi ha portato qui e che mi spinge a parlare del loro Spumante o, meglio ancora, come insistono giustamente a chiamarlo, del Talento, la cui prima bottiglia fu prodotta già a partire del 1977. Un vino che ha consentito loro, come tiene a precisare Claudio, di riappropriarsi di una storia tutta italiana che è nata qui, su questo territorio trentino prima che da ogni altra parte. Mentre parliamo, noto che l’argomento “Talento” suscita una forte sensibilità nel mio interlocutore, che sviscera le motivazioni, le cause e i perché ancora oggi l’azienda voglia prepotentemente insistere su una classificazione così precisa dello Spumante da loro prodotto. Con franchezza, affrontiamo l’argomento dei pro e dei contro di tale scelta, constatando che l’argomento è molto più interessante di quanto si possa pensare, perché tocca aspetti di geopolitica, spaziando dalla territorialità alla superficialità con la quale, troppo spesso, si è trattata la questione “bollicine e Metodo Classico” in Italia. Infatti, ancora oggi, non vi è una normativa precisa e la cosa paradossale è che, con la parola Spumante si è identificato ogni vino “mosso”, gassato artificialmente o naturalmente, mettendo dentro tutto e niente. Una babele indefinibile per il consumatore, causata forse ad arte, perché, non essendoci in Italia una zona come quella dello Champagne, era bene che ognuno facesse i propri interessi. Per questo motivo tutti i tentativi di dare un nome al Metodo Classico italiano sono miseramente falliti a causa della nostra mentalità campanilistica. Lo ascolto sostenendo alcune sue tesi, dandogli certe volte ragione e altre volte contrastandolo e facendogli presente che se il nome Talento non ha decollato in questi anni ci sarà pure un motivo. Pensieri e concetti che mi aiutano a far chiarezza, poiché da mesi sono in giro per l’Italia, incontrando praticamente quasi tutti i più importanti produttori di Spumante Metodo Classico e constatando, in questo effervescente pellegrinaggio, che ognuno difende una sua propria filosofia con accanimento, anche se tutti sono accomunati dall’utilizzo del solito metodo di vinificazione che, più di ogni altro metodo, rappresenta l’Esperanto della tradizione spumantistica italiana, un linguaggio condiviso, pur nelle sue infinite varianti dialettali.

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CLAUDIO RIZZOLI


CANTINA ROTARI


TRENTO DOC TALENTO BRUT RISERVA FLAVIO MILLESIMATO Il re longobardo Rotari assunse storicamente il titolo onorifico di Flavio per richiamare il prestigio imperiale romano e bizantino. Da qui il nome di questa riserva Blanc de blancs ottenuta da uve Chardonnay provenienti dalle zone collinari di natura alluvionale della Valle dell’Adige a nord di Trento. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima metà di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti, dopo 48 ore di pulizia statica alla temperatura di 7-10°C, si avviano, attraverso l’inoculo di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni a 18°C per il 60% in tank di acciaio e per il 40% in barriques di 1° e 2° passaggio; qui i vini rimangono fino al febbraio successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura a temperatura costante in cantina sui suoi lieviti per almeno 60 mesi, al termine dei quali si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Al primo esame visivo, lo Spumante propone un perlage composto da catenelle di bollicine persistenti, giustamente distribuite e, soprattutto, finissime; il colore è paglierino vivo, dai riflessi molto caldi tendenti all’oro zecchino. Al naso, all’inizio leggermente chiuso, offre un bouquet sottile, con note di foglie di tè e camomilla e un profilo olfattivo fine, elegante, reticente a mostrarsi subito, ma che poi fa uscire sensazioni resinose, di lieviti e mandorle fresche, farina e fiori bianchi. Al palato si avvertono percezioni quasi setose, di grande finezza più che potenza, con cremosità assai suadente; anche l’intensità non è esagerata, calibratissima la freschezza acida, così come l’alcol. Uno Spumante, insomma, che si fa soprattutto notare per la sua armonia, con un’uscita che lascia morbidi ricordi di frutti e fiori gialli e un tocco di miele.

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CANTINE MONFORT Che vuol dire fare Spumanti Metodo Classico in Trentino? È sulla scia di questa domanda che, ormai da più di venti giorni, mi aggiro per questo territorio e, come ogni mattina, anche oggi, mi sto recando in una nuova azienda per comprendere, conoscere e scoprire i segreti di questo movimento. Di buon’ora mi lascio alle spalle Trento e percorrendo la statale della Valsugana mi dirigo verso Civezzano, per incontrare Lorenzo Simoni, titolare di Cantine Monfort. L’appuntamento è alla tenuta di Maso Cantanghel che la famiglia Simoni ha acquisito alcuni anni fa. La tenuta è posta sulla strada che passa sulle pendici occidentali della catena del Lagorai e che riconduce da Civezzano a Trento. Una stretta via di montagna che sale subito dopo il paese e che, proprio dopo una curva e passando sotto un arco di pietra calcarea, mi porta davanti ad un’antica fortificazione austriaca costruita fra il 1868 e 1876, rimodernata nel 1914, trasformata in una polveriera e dismessa poi molti anni dopo la Seconda Guerra Mondiale dal Demanio Militare Italiano. Una struttura ricca di fascino e di sicuro interesse storico, situata in posizione strategica, all’imboccatura della Valsugana che si apre verso il Veneto. Questo, mi racconta Lorenzo, era un forte che faceva parte di un più ampio complesso di fortificazioni mirate a chiudere, ad oriente, l’accesso a Trento e poste a controllo del confine fra l’Italia e l’Austria; un forte che oggi è l’affascinante ufficio di rappresentanza delle Cantine Monfort. Parlando con Lorenzo scopro che la strada che mi ha condotto fin qui si identifica con il ramo altinate della romana Via Claudia Augusta, costruita su un antichissimo tratturo attraverso il quale poi Goti e Longobardi giunsero in Italia. Dalle feritoie dei cannoni, mai utilizzati, si gode di un paesaggio spettacolare che si apre sui vigneti sottostanti e su tutta la valle. Dopo aver terminato l’affascinante visita, mi siedo per ascoltare Lorenzo che mi narra la storia delle Cantine Monfort, la quale, mi sembra di capire, è indissolubilmente legata a quella della sua famiglia e, soprattutto, alla figura del non-

no Giovanni che, nel 1945, creò la cantina Simoni, a Palù di Giovo, in Valle di Cembra, dove ancora ci sono dei vigneti di proprietà. La cantina, dopo un po’ di anni, fu trasferita dal padre di Lorenzo e dai suoi fratelli proprio nel centro storico di Lavis, nel Palazzo Monfort, che un tempo era stato la residenza dei Conti de’ Melchiori. Solo ultimamente, all’inizio del 2006, una parte della produzione e dello stoccaggio del loro Metodo Classico Trento DOC è stato spostato in questo Maso dove ci troviamo, al quale sono collegati dei vigneti sottostanti che si trovano su terreni particolarmente vocati alla coltivazione del Pinot nero, vitigno utilizzato per la produzione dello Spumante che sono invitato a degustare. Ciò che dà origine a questo vino - le cui prime sperimentazioni risalgono al 1986 - è il frutto di un duro lavoro e di una viticoltura “eroica”, come la definisce Lorenzo, poiché qui le vigne sono posizionate su pendii impraticabili, dove non è possibile impiegare mezzi meccanici e la vendemmia deve essere svolta tutta a mano. Mi basta poco per comprendere cosa stia dicendo e, osservando la natura dei terreni, condivido con Lorenzo il concetto che la miglior forma di pubblicità che potrebbe fare oggi il Trentino, per farsi apprezzare sotto l’aspetto spumantistico, dovrebbe essere proprio quella di far conoscere non solo la viticoltura, ma, soprattutto, questo paesaggio, incastonato fra montagne e valli diverse, ognuna delle quali, aprendosi in direzione dei vari punti cardinali e soggetta all’influenza di molti venti, più o meno caldi, possiede diversi sistemi pedoclimatici che forniscono tipicità e caratterizzazione ai vini prodotti. Concordo con lui che il futuro, per questa terra, è quello di portare avanti, con insistenza e determinazione, la forza del territorio che, dovunque si guardi, è sempre affascinante.

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LORENZO SIMONI


CANTINE MONFORT


TRENTO DOC BRUT CASATA MONFORT Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (80%) Pinot nero (15%) e Pinot bianco (5%) provenienti da vigneti situati nei comuni di Trento (località Meano) e Lavis, in zone collinari su terreni franco sabbiosi a un’altitudine compresa tra i 300 e 500 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 16°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 18°C) in tank di acciaio; qui i vini rimangono fino al giugno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 30 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Una spuma densa e cremosa e un perlage finissimo e persistente fanno da corollario ad uno spumante che colora il bicchiere di un giallo paglierino ricco di riflessi dorati. Al naso, piuttosto intenso, asciutto, fresco, senza concessioni a una facile morbidezza, armonico e fine, propone sentori “classici” di lieviti e note piacevoli di biscotti, crosta di pane, nocciole e vaniglia. La beva è accattivante, retta da una bella trama setosa e da una struttura compatta che, a dispetto degli anni passati sui lieviti, propone non solo complessità e ricchezza gustativa, ma anche una spigliata freschezza acida che rende il tutto ancora più gradevole; lungo e persistente anche nel finale.

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CAVIT Un’altra realtà come la CAVIT non esiste in Italia. Questo è un dato di fatto e non pensare che lo dica per sentirmi più importante o per arricchire il discorso di quella falsa modestia che appartiene più a chi vuol apparire solo un po’ più grande e più bello di quanto, poi, sia in realtà. Affermo questo, invece, con l’orgoglio di chi è consapevole e ha la sicurezza di aver lavorato, per più di trent’anni, in una struttura che ha dato impulso, tutelato e valorizzato un’intera area vitivinicola italiana, quella che va dal confine con il Veneto a quello austriaco della provincia di Bolzano, una zona che, negli anni Cinquanta, era caratterizzata da un’agricoltura e una viticoltura disastrate da due conflitti mondiali. La CAVIT ha contribuito alla ricostruzione del tessuto sociale ed economico e, nel tempo, ha condotto questa regione ad essere un punto di riferimento importante nel panorama vitivinicolo non solo dell’Italia, ma anche internazionale. Questa è la CAVIT e non è Giacinto Giacomini, il direttore generale, che te ne parla, ma sono gli stessi numeri dei tabulati che ti sto mostrando, a raccontarti chi siamo e a farti capire cosa rappresenta, oggi, questo consorzio. Ti basti pensare che, entrando in questo nuovo stabilimento, situato proprio a ridosso dell’autostrada del Brennero, sei entrato nella storia del Trentino e ciò che vedi è il risultato e la sommatoria delle volontà di 11 cooperative trentine che, a loro volta, sono responsabili socialmente di oltre 5.400 famiglie, fra le quali ci sono 4.500 associati conferitori che operano, tutelano e valorizzano circa 6.000 ettari di vigneti dai quali si producono 750.000 ettolitri di vino che vanno a costituire, solo in parte, il nostro portafoglio di etichette che, tutte insieme, danno un totale di bottiglie commercializzate che si aggira, anno più anno meno, sui 72 milioni. Sono numeri importanti, come ti dicevo, che solo le Cooperative Riunite Emiliane, avendo oggi acquisito la GIV, superano; numeri, comunque, ai quali io devo far sempre riferimento e che mi confermano dove stiamo andando, anche in un momento di crisi come questo, e che mi dicono che, alla fine dell’anno 2008, eravamo il marchio più commercializzato di tutti gli Stati Uniti, dove spediamo i nostri vini, fra i quali circa 3 milioni di casse di solo Pinot grigio.

Ti vedo sorpreso e quindi il tuo stupore è la riprova, visto che sei un profondo conoscitore del mondo vitivinicolo italiano, che questi sono numeri rilevanti, risultanza di un perfetto equilibrio fra ciò che il territorio offre e ciò che il mercato vuole. Avendo la possibilità di lavorare su molti luoghi che spaziano dalla Valle dei Laghi alla Valle del Sarca, dalla Vallagarina alla Valdadige, dalla Piana Rotaliana alla Val di Cembra, puoi comprendere quali enormi potenzialità viticole abbiamo a disposizione e, tramite esse, è facile intendere che l’equilibrio di cui ti parlo non è difficile da raggiungere, anzi, a dire il vero, ci ha dato anche l’opportunità di sostenere altri progetti specifici, mirati all’innalzamento della qualità e con i quali, attraverso l’aiuto del professor Attilio Scienza, abbiamo cercato di valorizzare quelle piccole aree vitivinicole che erano intorno ai nostri Masi, le antiche strutture architettoniche che caratterizzano le nostre aree rurali e che, come le fattorie in Toscana, i bagli in Sicilia e le masserie in Puglia, sono stati, per secoli, un punto di riferimento, produttivo e sociale, del sistema agricolo trentino. Ecco, in questi casi, quando cioè parlo dei Masi, mi lascio trasportare dalle passioni e mi piace raccontare la poesia che sta intorno a questi luoghi e al microuniverso del vino da essi rappresentato. Sono strutture storiche fantastiche, dove produciamo vini eccezionali che, però, abbiamo dovuto valorizzare con altri progetti, più mirati e consoni alle particolari esigenze che ci venivano offerte da queste specifiche costruzioni, collocate in aree particolari, utili più a dare un’altra immagine a ciò che facevamo che non una maggiore redditività a quel sistema sociale di cui siamo responsabili. Come un grande albero, con tanti rami, alcuni più grossi, altri più piccoli: è così che mi piace raffigurare la realtà della CAVIT e in questa grande, complessa e florida pianta, il settore delle bollicine ha la sua parte importante, ma di questo potrai parlare più dettagliatamente con Paolo Turra, il giovane responsabile del settore spumanti, che ti posso assicurare è entusiasta dell’impegno che l’azienda sta ponendo in questo comparto.

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GIACINTO GIACOMINI


CAVIT


TRENTO DOC ALTEMASI GRAAL BRUT RISERVA MILLESIMATO Il vino è prodotto vinificando le uve Chardonnay (70%) e Pinot nero (30%) provenienti da vigneti collocati nelle aree collinari più elevate e vocate della spumantistica trentina - dalla Valle dei Laghi alle colline attorno a Trento, sino all’Altopiano di Brentonico - su terreni sciolti, di natura glaciale, fluvio-glaciale e vulcanica, mediamente profondi. Dopo la vendemmia, svolta in genere a partire dalla prima settimana di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo una pulizia statica a bassa temperatura, è avviato, tramite l’inoculazione dei lieviti, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere a temperatura termoregolata, separatamente per ogni vitigno, ponendo solo il 10% dello Chardonnay in barrique, mentre il resto è messo in tank di acciaio. Qui i vini rimangono fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e alla successiva aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane poi in cantina sui propri lieviti per almeno 48 mesi, al termine dei quali si effettua il remuage delle bottiglie, il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e la contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. Una spuma soffice, non fittissima e di calibrata dissolvenza, e un perlage serrato, fine e di buona persistenza, riempiono il bicchiere che si colora di un giallo paglierino di media intensità, vivido e cristallino. L’attacco olfattivo è inizialmente un po’ reticente, ma poi si fanno strada sentori di mughetto e terriccio, lieviti e farina, caucciù e mandorle fresche. Le sensazioni nasali rimangono armoniche, ma tenui e chiudono su note di fiori gialli secchi e miele di tiglio. Al palato si fa apprezzare per la bella cremosità e per la polpa, con suadenti ricordi mielati. Intenso, morbido, dalla sapidità minerale, discretamente acido, risulta piacevole, di valida eleganza, con gradevolissimi ricordi, tutti “in punta di piedi”, di mandorle fresche, foglie di limoncella e agrumi.

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CESARINI SFORZA

Incontro Fausto Peratoner, Direttore Generale del Gruppo La-Vis nella sede della Cesarini Sforza Spumanti, azienda del Gruppo di cui Peratoner è anche Amministratore Delegato, per degustare, insieme all’enologo Francesco Polastri e al Segretario Generale di Cantina La Vis, Marco Raengo, il loro Trento DOC Riserva Aquila Reale Millesimato 2001 che avevo degustato, qualche tempo addietro, a casa di amici. Mentre si stappano le bottiglie, mi ricordo di aver letto che quest’azienda appartenne alla nobile famiglia dei Cesarini Sforza che, trasferitasi due secoli or sono da Parma nell’allora Principato Vescovile di Trento, giunse ad assumere come Podestà la guida della città; come ogni nobile casata dell’epoca, si faceva titolo di merito, in quell’economia prettamente agricola, di possedere grandi vigneti, considerati già allora di gran pregio, da cui ricavare vini altrettanto preziosi. Raccogliendo quell’eredità storica, nel 1974, un membro della famiglia, insieme ad un gruppo di qualificati imprenditori del settore vitivinicolo trentino, fondò l’A zienda Spumantistica Cesarini Sforza, con l’obiettivo di produrre spumanti di alta qualità che sapessero affermarsi non solo tra i consumatori trentini, ma anche sulla scena nazionale. Presto la conversazione prende il sopravvento su questi miei pensieri e, complici le molte bottiglie che vengono stappate e i bicchieri di vino che abbiamo davanti, le parole scivolano in un dialogo armonico e scorrevole che ci coinvolge tutti e tocca, di volta in volta, le peculiari caratteristiche delle terre trentine, della viticoltura che caratterizza questo territorio e di quanto, in questa regione, sia importante la cooperazione, passando poi ad approfondire il tema di quanto Cantina La Vis sia un punto di riferimento per quest’area geografica. Fausto è un perfetto affabulatore che conosce bene quali siano i risvolti e le increspature del mare nel quale ha navigato la cooperativa - in cui è entrato ormai trent’anni fa come cantiniere ed è arrivato oggi ad esserne il Direttore. Un percor-

so complesso per chiunque e che richiede, indubbiamente, grandi capacità e una duttilità intellettiva non comuni, poiché non è facile distogliere l’attenzione dalla viticoltura per passare ad interessarsi dei problemi commerciali, strutturali e finanziari di un’azienda, arrivando a ricoprire un ruolo d’importanza strategica per le sorti di un gruppo imprenditoriale che fattura oltre cento di milioni di euro. Avevo avuto già modo di incontrarlo a Pitigliano, nel grossetano, questo brillante e dinamico Direttore dalle grandi vedute. Lo avevo invitato in occasione di un convegno, da me organizzato, sul ruolo e le opportunità che, ancora oggi, ha la cooperazione in Italia. Già in quell’occasione, avevo ammirato la sua grinta e quel suo naturale ottimismo, con cui contagia un po’ tutti quelli che gli stanno intorno e che, anche ora mi trasmette davanti a questo Trento DOC Riserva Aquila Reale Millesimato di Cesarini Sforza, raccontandomi del passato, del presente e del futuro di La-Vis. Lo guardo con ammirazione, e anche con un po’ di perplessità, poiché per uno come me, che ha cambiato diversi lavori nella propria vita, tutti utili per allargare i suoi orizzonti, non è facile capire come si possa rimanere, per trent’anni nel solito posto; un periodo che, comunque, non sembra pesare a Peratoner. A vederlo sorridere e raccontare cosa sia successo in questi anni, sembra proprio che non soffra di aver dedicato tutta la sua vita ad un’azienda non sua, anzi, sembra entusiasta di essere riuscito a rimanere così a lungo a La Vis e mi racconta: “Questa è sempre stata un’azienda in continuo movimento, sempre capace di rinnovarsi, dando, a chiunque vi lavori, l’impressione di essere nuova ogni volta, poiché, in essa, la tradizione che, come si sa, non è mai statica, ha trovato la sua naturale evoluzione. Un movimento che prima ha pensato a consolidare l’esistente, poi a progettare il futuro acquisendo altre imprese e costruendo un gruppo omogeneo che conta, oggi, oltre a Cantina La Vis e a Cantina Valle di Cembra, un’azienda imbottigliatrice nel veronese, due aziende vitivinicole in Toscana, una nel Chianti e una in Maremma, e la Cesarini Sforza che, per i 1.500 soci che operano su circa 1.800 ettari e che conferiscono più di 70.000 quintali di Chardonnay e 10.000 quintali di Pinot nero, è strategicamente importante come naturale valvola di sfogo e strumento da utilizzare per commercializzare quella produzione di uve che tende a valorizzare un’area particolarmente vocata alla spumantistica come quella di Trento”.

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FAUSTO PERATONER


CESARINI SFORZA


TRENTO DOC AQUILA REALE RISERVA MILLESIMATO Blanc de blancs prodotto dalla vinificazione di uve Chardonnay provenienti dai vigneti situati a Maso Sette Fontane, in Val di Cembra, su terreni detritici, leggermente calcarei, sabbiosi non molto profondi, a 500 metri s.l.m.. Dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo una pulizia statica a temperatura controllata, è avviato, tramite l’inoculazione dei lieviti, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere a temperatura termoregolata per il 50% in barriques di 1°, 2° e 3° passaggio e per il 50% in tank di acciaio. Qui i vini svolgono la fermentazione malolattica e rimangono 12 mesi sur lies, durante i quali vengono effettuati bâtonnages settimanali. Seguono poi l’assemblaggio delle partite, l’aggiunta della liqueur de tirage per la presa di spuma e l’imbottigliamento. Il vino resta in cantina sui propri lieviti per almeno 72 mesi, quindi si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta della liqueur d’expédition, costituita da vini di riserva elevati in legno. Si presenta con una spuma non di lunghissima persistenza, ma che risuona melodiosa nel calice, lasciando una sinuosa corona di bollicine sul bordo del cristallo, introducendo a un perlage piuttosto fine, di valida trama e modulata persistenza. Veste il bicchiere di un colore paglierino brillante, con riflessi quasi zecchini; il bouquet risulta maturo, con sentori di composta di mele cotogne, tarte tatin, tabacco da pipa, crema pasticcera, scorza di agrumi canditi. Un profilo olfattivo rotondo e opulento, di esuberante personalità e decisa intensità, che chiude su note di fichi secchi e bonet all’amaretto. In bocca è coerente con le sensazioni olfattive, arricchito da una morbida speziatura di rovere. Cremoso, strutturato, caldo, di bella intensità. La freschezza acida bilancia le note più mature, instaurando un bell’equilibrio gustativo. La beva si chiude persistente su sensazioni di frutta tropicale e nocciole tostate.

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DORIGATI L’incontro con i fratelli Dorigati è uno di quelli che difficilmente si dimenticano. Vengo accolto da questi trentini DOC con un misurato e quanto mai veloce saluto. Ciò che ottengo è un buonasera formale di quelli convenzionali che si potrebbe dare ad un qualsiasi estraneo che è entrato in cantina e, aggirandosi a testa alta, appare confuso non avendo ancora ben chiaro cosa stia veramente cercando. Trovo la cosa fantastica e ne rimango sorpreso, perché è la prima volta, da quando sono arrivato, che sto toccando con mano la timidezza e la riservata chiusura che caratterizza il Trentino e i suoi abitanti; ne avevo sentito parlare, ma fino a questo momento non l’avevo mai “incontrata”. Mi guardo attorno e mi accorgo che tutti, incuranti della mia presenza, continuano a sbrigare le proprie faccende. A togliermi da uno stand by che stava diventando d’impiccio, ecco sopraggiungere, fortunatamente, Michele, il figlio di Franco, il quale è rimasto seduto alla sua scrivania, continuando a lavorare a testa bassa, senza dimostrare nessuna voglia di interloquire con me, mentre l’altro fratello è sparito già da un po’ in cantina. Fra me e me penso che questa è sicuramente gente vera, “autoctona” dalla testa ai piedi; gente che appartiene alla categoria di chi non sa cosa siano i fronzoli o le smancerie e, forse, proprio per questo è di poche parole; quelle che ha, invece, il giovane Michele, che rappresenta la quinta generazione della famiglia Dorigati, ed è quindi uno degli eredi della grande tradizione vitivinicola dell’azienda, ormai giunta ai suoi 150 anni di vita, essendo nata nel 1858. Un gran traguardo, ma il bello è che la loro è una storia che si percepisce immediatamente. Basta guardarsi intorno per respirarla, magari osservando i particolari, verificando come la struttura della cantina sia cresciuta ricavandosi spazi all’interno del centro cittadino di Mezzacorona che si trova nel cuore della Piana Rotaliana, dove il prodotto principe è il Teroldego. È una storia palpabile anche semplicemente osservando gli

arredi e le suppellettili degli uffici, che hanno quel fascino un po’ rétro che a me piace molto, o l’insieme del contesto architettonico che contraddistingue la struttura. Mi trovo quindi al cospetto di una famiglia con una solida tradizione e ne prendo atto leggendo un piccolo volume che Paolo Dalla Torre ha dedicato ai 150 anni della cantina Dorigati a Mezzocorona. Tutto parte da molto lontano, proprio da chi ha saputo guardare e costruire un percorso che fosse importante soprattutto per le generazioni future, le quali, nel corso dei decenni successivi, hanno poi proseguito sulla strada della produzione di vini di qualità. Dal 1986 si è affiancata la produzione delle “bollicine” Trento DOC, portata avanti anche con l’aiuto dell’enologo Enrico Paternoster, socio in questa magnifica avventura, la quale prende inizio dall’utilizzo, per le basi spumante, delle uve dei vigneti di proprietà dell’azienda, posti in collina, nelle zone di Faedo e Pressano. Una produzione nata quasi per gioco, ma con l’idea di fare qualcosa che sottolineasse un importante momento di cambiamento dell’azienda. Con Michele visito le cantine di stoccaggio, scoprendo un luogo non tanto carico di fascino o suggestione, ma in cui si intuisce, osservando le cataste delle bottiglie annualmente accantonate e periodicamente mosse, il reale significato del tempo, che qui acquisisce una dimensione sacrale e più rispettosa del significato della parola “pazienza”. Saper attendere che il frutto del proprio lavoro dia il miglior risultato possibile è un’arte che i fratelli Dorigati hanno imparato bene. Il resto non conta. Che rimangano pure ombrosi e silenziosi e diano pure l’impressione di essere ermetici e chiusi: l’importante è che continuino a fare dei prodotti così, come questo loro sorprendente Metodo Classico che riesce, fra le altre cose, a renderli, ai miei occhi, anche simpatici.

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MICHELE DORIGATI


DORIGATI


TRENTO DOC TALENTO METHIUS BRUT RISERVA MILLESIMATO Il vino base è prodotto dalla vinificazione di uve Chardonnay (60%) e Pinot nero (40%), raccolte nei vigneti della fascia collinare di Faedo e Pressano, su antichi suoli di origine glaciale, ad un’altitudine compresa fra i 350 e i 500 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene in genere nella prima decade di settembre, si passa alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo una pulizia statica a temperatura controllata, è avviato, tramite l’inoculazione dei lieviti, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere a temperatura termoregolata separatamente per ogni vitigno; parte dello Chardonnay è posto in barrique, parte in tank di acciaio. In questi recipienti i vini rimangono fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui propri lieviti per almeno 60 mesi, durante i quali si procede a periodici sur lies dei lieviti movimentando le cataste delle bottiglie. Si dà poi avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Seguono 6-8 mesi di affinamento in bottiglia. Spuma abbondante, soffice e persistente con una fontanella di bollicine fitta, fine e durevole; la tonalità cromatica è ancora molto giovane e di un paglierino scintillante, con qualche riflesso verdolino. Il naso è relativamente intenso, piuttosto classico di lieviti e crosta di pane grigliato, ma evidenzia anche inaspettate fragranze balsamiche, resinose, mentolate e silvestri. Un profilo olfattivo ancora in divenire, fine e molto armonico, che chiude su più morbide note di miele e torroncino. In bocca riprende le sensazioni nasali, ma più smussate, con una trama sottile e setosa; è più maturo, con bei ricordi di pasticceria e spezie nobili da legno; poi, in progressione, si fa strada una spina sapido-minerale, ricca di verve. Intenso e persistente, di calibrata struttura e misurato alcol, armonico al palato.

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ENDRIZZI Quando si sta fuori casa da molto tempo, un invito a cena è sempre cosa gradita e lo è ancora di più se può essere consumato in casa di un piacevole ospite, in compagnia della sua famiglia. Personalmente, credo sia una delle cose più belle che può accadere ad un viaggiatore durante i suoi pellegrinaggi. Così, quando Paolo mi ha invitato nella sua casa di Trento per continuare la nostra chiacchierata sulle sue bollicine, non ho saputo resistere al richiamo di un focolare domestico e, con la timidezza che mi contraddistingue, non sono stato capace di rifiutare. Nevica e dal terrazzo dell’appartamento, situato nella zona alta della città, godo della vista di Trento che mi mostra, poco più in basso e proprio in primo piano, la rocca del Castello del Buonconsiglio, eretto nel Duecento e sede, per oltre cinque secoli, dei Principi Vescovi della città. Il panorama è bellissimo e, come un ragazzino, mi lascio incantare da quei fiocchi che scendono dal cielo come piume, mentre i tetti innevati diventano tutti sempre più eguali rendendo l’insieme confuso, ma splendido. Qualcuno richiama la mia attenzione per un brindisi di benvenuto, mentre la tavola s’imbandisce e la compagnia diventa sempre più ciarliera e confidenziale, con le chiacchiere della splendida e solare Christine, moglie di Paolo, dei figli Lisa Maria e Daniele, oltre a quelle di Caterina, che mi ha accompagnato in questo viaggio, che si intersecano e si sovrappongono rendendo omaggio a questa serata, trascorsa in una bella famiglia. Sono contento, perché l’immersione che sto vivendo nella cultura di questa terra si arricchisce stasera anche dei profumi del vino e dei sapori del cibo che la rappresentano; a ciò si aggiungono i discorsi e le testimonianze di chi la conosce bene: tutti elementi che mi forniscono momenti di grande riflessione, certamente maggiori di quelli che avrei avuto se mi fossi limitato a visitare la cantina, poco distante da San Michele all’Adige, nella quale Paolo prosegue la storia vitivinicola di famiglia che dura da 124 anni. Chiacchierando, scopro una cultura fortemente influenzata da tutte le popolazioni che hanno attraversato queste terre, andando indifferentemente verso sud o verso nord, le quali hanno dato origine a quel forte individualismo - forse peggiore anche di quello di noi toscani - che contraddistingue all’apparenza i trentini e che li spinge a vivere in modo molto riservato. Dall’altro lato scopro che, invece, esiste in loro un grande senso di solidarietà, che sfocia nel fatto che ogni ragazzino vuol diventare pompiere o che tutti vogliono cantare nel coro della chiesa parrocchiale o fare qualcosa per la propria comunità, con gli altri e per gli altri. Credo che questa sia una delle connotazioni più interessanti di questa terra che riesce a dar vita a mille associazioni no-profit, che si attivano in mille iniziative, spesso - almeno sostiene Paolo - scelte senza troppa fantasia, ma che danno il senso della grande affidabilità di questa gente. Dopo questa divagazione, i discorsi ritornano alla cantina e alla storia di Paolo

che scopro essere iniziata sfogliando i codici di procedura penale e civile, per cercare di proseguire la tradizione della famiglia materna che, da oltre quattrocento anni, vede un suo membro come avvocato nelle terre trentine. Poi, invece, un “fulmine sulla via di S. Michele” gli fece capire come l’agricoltura potesse dare ancora di più. Una piccola deviazione sul percorso che il fato, invece, aveva già tracciato per lui e sul quale si è riposizionato, dando retta forse al richiamo ancestrale della terra o forse al fascino del Maso di proprietà della famiglia paterna fin dal lontano 1885 o a quello della tradizione vitivinicola di queste terre, che hanno visto, da ben quattro generazioni, gli Endrici produrre dell’ottimo vino; man mano che acquistava notorietà, veniva via via apprezzato sempre più come il vino degli Endrizzi, lo pseudonimo trentinizzato degli Endrici, un nome forse troppo difficile da queste parti. Una tradizione orientata, per decenni, sempre verso il nord, verso quell’Europa al di là delle Alpi che dava, forse, più riferimenti e più sbocchi commerciali rispetto ad un’Italia che sembrava molto piccola e anche lontana. Devo dire che anche a me piace ogni tanto guardare a nord e soffermarmi sulla grande cultura tedesca, ricca di filosofi e viaggiatori come Goethe, il sublime poeta, che, pur essendo innamorato dell’Italia, l’ha sempre descritta con un linguaggio squisitamente tedesco. Pensando a lui non posso fare a meno di pensare con quali parole avrebbe raccontato questa terra di confine. La serata scorre piacevole, come i vini dell’azienda nei bicchieri; soprattutto quel Trento DOC Brut Riserva Millesimato con il quale Christine, da buona padrona di casa, continua amabilmente a riempirmi il calice fino all’ultimo brindisi di arrivederci. Il tempo è volato e solo ora mi accorgo del silenzio che c’è per strada, reso ancor più profondo dalla copiosa neve caduta fino ad una mezz’ora fa e che ora scricchiola, come la ghiaia, sotto i miei piedi, mentre sorridendo ripenso ai momenti sereni che ho appena trascorso.

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PAOLO, CHRISTINE ENDRICI


ENDRIZZI


TRENTO DOC TALENTO BRUT RISERVA Il vino base spumante è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (60%) e Pinot nero (40%) provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda situati in località Pian di Castello, nel comune di Faedo, in una zona collinare su terreni calcarei, franco limosi con forte presenza di scheletro, ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 420 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni, ad una temperatura di 18°C, per il 90% in tini di acciaio inox, mentre un 10% dello Chardonnay matura in barriques di rovere francese. In questi contenitori i vini rimangono fino al giugno dell’anno successivo alla vendemmia, quando si effettua l’assemblaggio delle partite, l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti dai 36 ai 48 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Lo spumante, ricco di un perlage fine, continuo e persistente, colora il bicchiere di un bel giallo oro dai riflessi brillanti; al naso, piacevolmente intenso, si presenta con note di lieviti, crosta di pane ed erbe officinali che si aprono poi a percezioni piacevolissime di liquirizia e a note minerali che ricordano la fioritura delle saline. In bocca è piacevole, avvolgente, armonioso, elegante, giustamente sapido. Buona la persistenza, con un finale che ci proietta su sentori di torta di nocciole fusi ad altri di mela, pera e cacao in polvere.

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FERRARI Da dove dovremmo incominciare? Dacci tu un’idea. Noi ne abbiamo tante di cose da dirti, tante e poi tante che tu non puoi neanche immaginare. Forse potremmo iniziare narrandoti degli oltre cento anni di storia di questa azienda e di come la stessa si sia evoluta, modificata e adattata ai mutamenti dei tempi che hanno visto la disfatta di imperi, la nascita di repubbliche e l’avvicendarsi di conflitti mondiali, riuscendo a superare il tutto solo attraverso l’accondiscendenza al lavoro, che è l’elemento che contraddistingue noi trentini. Cento anni in cui siamo rimasti fedeli a quei princìpi cardine che ci hanno indotto a fornire sempre un’alta qualità, come base promotrice di chi si è alternato alla direzione di questa cantina, anche in periodi in cui il vino era considerato un alimento. Princìpi che, già a partire dal 1902, erano stati dettati dal fondatore, Giulio Ferrari, il quale fece suo il pensiero di Aristotele, per il quale ottenere l’eccellenza non era un’arte, ma doveva essere una quotidiana abitudine. Ecco, forse potresti capire meglio chi siamo se ti parliamo del grande e lungimirante Giulio Ferrari, che all’inizio del Novecento, dopo aver studiato a San Michele all’Adige, essersi specializzato a Montpellier in Francia e aver effettuato diverse vendemmie in quella zona, tornò in patria convinto che la sua terra, quel Trentino che egli amava tanto, fosse il territorio italiano più vocato per produrre ciò che, a quei tempi, si poteva ancora chiamare “Champagne italiano”. Già un secolo fa egli sosteneva che ogni bottiglia prodotta, per potersi fregiare in etichetta del nome Ferrari doveva essere un’opera d’arte e di questo era talmente convinto che nelle poche bottiglie commercializzate metteva un grande amore che sfociava in continua ricerca ed evoluzione. Potremmo parlarti però anche di noi, della nostra famiglia e di Bruno Lunelli, che acquistò l’azienda nel 1952, grazie anche all’interesse che Giulio Ferrari aveva di lasciare tutto ad un trentino DOC, grande commerciante e conoscitore dei mercati, nonché serio appassionato di viticoltura come era nostro nonno. La grande capacità imprenditoriale del nonno, sommata a quella dei nostri genitori, ha fatto il resto. Così, in qualche decennio, c’è stata una graduale trasformazione dell’azienda che ci ha portato a ciò che tu vedi oggi: dalle 8.800 bottiglie prodotte nel 1952 agli attuali 5.000.000; un aumento dei volumi produttivi che non ci ha fatto scendere a compromessi, poiché, contemporaneamente, è andata via via ampliandosi non solo l’area vitivinicola di nostra proprietà, che oggi conta 120 ettari, ma anche la capacità di costruire una

solida collaborazione con quei piccoli produttori-conferitori locali, che oggi sono più di 500 e che riteniamo tutti nostri partners e parte integrante della Ferrari. Per cambiare argomento, potremmo portarti alla scoperta delle bellezze e di quelle piccole e spesso nascoste perle architettoniche e paesaggistiche del nostro Trentino, così da farti comprendere il vero valore aggiunto che questa terra fornisce ai nostri spumanti. Per farlo dovresti dedicare un po’ del tuo tempo a Villa Margon, al Palazzo Pretorio, al castello del Buonconsiglio, alla città di Trento, alla sua chiesa di Santa Maria Maggiore - che dall’aprile 1562 al dicembre 1563 ospitò l’omonimo Concilio - all’Eremo di San Colombano, arroccato su una parete a strapiombo nei pressi del torrente Leno, vicino a Rovereto, o alla piazza principale di Gardolo con la chiesa parrocchiale della Visitazione, sul vecchio campanile della quale sarebbe salito Napoleone Bonaparte nel 1796 per studiare le posizioni degli Austriaci schierati verso Lavis. Ci sarebbero poi tutti quei piccoli borghi e quegli angoli che scopriresti solo se ti addentrassi all’interno delle valli. Sono queste le nostre perle, ognuna delle quali si incastona dentro una bollicina di quello spumante che stai degustando, il quale, insieme alle percezioni olfattive e gustative, sa raccontarti - se hai orecchie per udire - un’altra storia ricca di Papi, Re, Imperatori, soldati, ma anche di quei contadini e artigiani raffigurati in molti affreschi della zona. Guardando attentamente tutte queste bellezze, potresti comprendere molte cose di noi trentini e, tornando a casa, saresti in grado di portarti via il loro ricordo e anche l’immagine di questo paesaggio, che noi difendiamo e che è alla base della qualità della vita che abbiamo deciso di vivere e, contemporaneamente, l’esempio della serietà della nostra gente. Come vedi ne avremmo di cose da dirti... e sai perché? Perché abbiamo la possibilità di spaziare in cento anni di storia, con mille aneddoti e altrettante storie, mille appunti scritti in decine di diari, una moltitudine di racconti e immagini che hanno caratterizzato il percorso anche di noi che rappresentiamo la terza generazione della famiglia Lunelli. Tutto quello che puoi vedere o hai sentito oggi, noi lo abbiamo vissuto sulla nostra pelle, proprio dall’interno e siamo cresciuti con questo retaggio storico che ci ha educati, dandoci la possibilità di essere qui, con la voglia di traghettare questa cantina verso il futuro.

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MARCELLO, CAMILLA, MATTEO LUNELLI


FERRARI


TRENTO DOC BRUT PERLÉ MILLESIMATO Lo spumante è ottenuto vinificando una selezione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda situati nella zona collinare nei dintorni di Trento, a un’altitudine che varia da 300 a 700 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene in genere a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo una pulizia statica a temperatura controllata, è avviato, tramite l’inoculazione dei lieviti, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere a temperatura termoregolata in tank di acciaio. Qui il vino rimane fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura poi in cantina sui propri lieviti per almeno 48-53 mesi, al termine dei quali si procede con il remuage delle bottiglie, il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e l’aggiunta del liqueur d’expédition. Propone una bella spuma e un fine perlage, di opportuna intensità e interessante persistenza; le note cromatiche sono caratterizzate da un colore paglierino vivido e scintillante, di calda tonalità. Il naso è piuttosto intenso, con sentori classici di lieviti, pasta di pane, farina appena macinata, fiori bianchi, mandorle fresche, oltre a ricordi più sottili di balsamo e resina. Un naso asciutto, fresco, senza concessioni a una facile morbidezza, armonico e fine, che si stempera su delicati effluvi di frutta a polpa bianca e crostata alla crema. La beva è accattivante, retta in progressione da una trama setosa e da una compatta struttura, proponendo una spigliata freschezza acida che rende il tutto ancora più gradevole e croccante. Facendo più attenzione, emergono poi nuances agrumate e di nocciole tostate. Un gusto armonico, giovane, elegante, più fine che potente, caratterizzato da bella persistenza e grande pulizia esecutiva, oltre che da uno spiccato e vibrante dinamismo, tra il sapido e il minerale.

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ISTITUTO AGRARIO DI SAN MICHELE ALL’ADIGE FONDAZIONE EDMUND MACH I due abitati di San Michele e Grumo, sorti sulle rive del fiume Adige, sulla via romana Claudia Augusta, per lungo tempo hanno vigilato sull’importantissima arteria di comunicazione che attraversava il Trentino e conduceva verso il confine austriaco. Ancora oggi, i due paesi e i dintorni, offrono, a chi ne abbia tempo e voglia, belle testimonianze storiche. Purtroppo, la mia presenza in questa parte d’Italia non è dovuta al motivo di un giustificabilissimo accrescimento del bagaglio culturale, ma bensì al desiderio di tuffarmi in uno dei più prestigiosi baluardi della cultura enologica e vitivinicola nazionale: l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige. L’ente ha sede in un monastero agostiniano, risalente al XII secolo, che fu sede dell’antica Prepositura, secolare spettatrice delle lunghe contese fra i Conti del Tirolo e i Principi Vescovi di Trento. Mi sento un po’ emozionato ad entrare nelle antiche e suggestive mura del monastero, avendo l’impressione di varcare la soglia di un ambiente sospeso tra il fascino centenario della storia e una razionale modernità. Questa è la sede istituzionale, ma tutt’intorno sorgono edifici, laboratori, aule e serre dove la didattica e l’arte del saper far vino sono insegnate ininterrottamente da 135 anni parallelamente alla conduzione di attività di ricerca scientifica. L’Istituto Agrario Provinciale di San Michele all’Adige nasce nel 1874, per merito di Edmund Mach che, oltre ad essere ricordato per la fondazione della scuola, è noto anche per l’impulso dato allo sviluppo della cultura vitivinicola nel Trentino, una zona ai suoi tempi molto depressa, ma con il vanto di essere considerata, assieme all’Ungheria, la “cantina dell’Impero austro-ungarico”. Qui, per le linde sale dell’Istituto, tutto sembra essere al suo posto. Niente mi appare casuale o fuori luogo. Sobrietà e rigore caratterizzano un ambiente nel quale sono transitati allievi provenienti da tutto il mondo che, entrati qui poco più che adolescenti, ne sono usciti ormai uomini fatti e con la loro professione d’enologi hanno poi dato lustro a questo istituto che li ha formati. A ricevermi, al mio arrivo, trovo il Direttore Generale, il dottor Alessandro Dini, il quale mi racconta che, fin dalla sua nascita, l’Istituto ha sempre avuto tre chiare impronte che interessano la didattica e l’insegnamento, la ricerca e la sperimentazione e l’assistenza al territorio. Con mia sorpresa constato, infatti, che l’Istituto è organizzato come un vero campus all’americana. Ogni anno si contano circa 700 studenti, che arrivano a oltre mille se si considerano i frequentanti dei corsi post-secondari e universitari e le iniziative formative per gli agricoltori “adulti”. Molti ragazzi, per lo più quelli che vengono dalle aree rurali più remote della provincia o da fuori regione, hanno la possibilità di alloggiare, da settembre fino a giugno, in un convitto che conta 170 posti letto. Ma oltre alla ricettività, i ragazzi dispongono di laboratori efficientissimi e, in un prossimo futuro, potranno anche proseguire la propria formazione frequentando la Facoltà di Viticoltura ed Enologia, attualmente a Mezzolombardo, ma che presto avrà una

propria sede adiacente al convento e che coprirà una superficie di 6000 metri quadrati, tra aule e laboratori per le analisi. Un altro aspetto che il Direttore tiene a sottolineare riguarda la ricerca e la sperimentazione che, negli ultimi anni, ha compiuto interventi nel settore della genetica vegetale, mappando e sequenziando, per primi al mondo, il genoma del Pinot nero. Un campo importante che, nel prossimo futuro, consentirà di approfondire lo studio sui geni della resistenza, allo scopo di diminuire l’utilizzo dei prodotti chimici in agricoltura. Per l’assistenza, invece, l’Istituto - mi viene precisato - è un punto di riferimento, ormai imprenscindibile, per il territorio, dal momento che dà ufficialmente il via alla vendemmia e alla raccolta delle mele. Ascolto, anch’io come un buon discente, la “lezione” del Direttore, che prosegue nell’archivio scolastico, dove scopro, con grande emozione, i quaderni e gli appunti originali di lontani allievi; fra questi, i manoscritti di Giulio Ferrari, mito della spumantistica italiana: tutti redatti in francese, con pennino a china, in occasione del viaggio in Francia, a fine Ottocento, in cui il giovane Ferrari descrisse, per primo in Italia, con minuziosa esattezza, il Metodo Champenois e, soprattutto, come lo stesso venisse vinificato e quanti e quali fossero i tipi di lieviti aggiunti. È davvero un’emozione, per me, trovarmi davanti a quelle pagine vergate a mano che restituiscono tutto l’incanto e la meraviglia che il giovane Ferrari deve aver provato, allora, nel vedere quell’inedita tecnica di spumantizzazione, sperimentando, forse, lo stesso stupore e l’entusiasmo che provo anch’io, in questo mio appassionante viaggio fra gli Spumanti d’Italia. Sono infatti qui, nella cantina dell’Istituto, nell’antico monastero agostiniano, per conoscere e quindi raccontare il Trento DOC Riserva del Fondatore Mach Millesimato: il sunto della trasformazione delle uve provenienti dal vigneto aziendale, come mi spiega più avanti Enrico Paternoster, enologo dell’Istituto, che, in collaborazione con il professor Attilio Scienza, ha ripristinato un maso posto quasi ai limiti della quota altimetrica adatta per la coltivazione della vite: 700 metri di altitudine. Una “bollicina” nata quindi da un progetto didattico, poi divenuto un programma produttivo a tutti gli effetti, che ha originato uno spumante che, personalmente, trovo estremamente interessante, ricco di personalità e di eleganza.

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ENRICO PATERNOSTER ALESSANDRO DINI


ISTITUTO AGRARIO DI SAN MICHELE ALL’ADIGE FONDAZIONE EDMUND MACH


TRENTO DOC BRUT RISERVA DEL FONDATORE MACH MILLESIMATO Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione di uve Chardonnay (70%) e Pinot nero (30%), provenienti dal vigneto Maso Togn, situato sull’apice del conoide di Faedo, su suoli di natura morenica, marnoso-calcarei, ricchi di scheletro e con tessitura franco-limosa, a un’altitudine di 700 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a fine di settembre, si procede a una pressatura soffice delle uve intere e il mosto ottenuto, dopo una decantazione statica di 24 ore alla temperatura controllata di 8°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inoculo di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, ad una temperatura di 16°C ed è svolta per il 70% in tank di acciaio, mentre un 30%, tra Chardonnay e Pinot nero, fermenta in barriques di rovere francese. In questi contenitori il vino rimane fino al mese di maggio successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane a maturare in cantina sui lieviti per almeno 36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Una spuma densa e un perlage persistente, fitto e sottile, caratterizzano questo spumante dal colore paglierino con riflessi verdognoli. Intenso al naso e complesso nel suo insieme, con piacevoli note mature, offre una tostatura decisa che ricorda la frutta secca, le nocciole, la crosta di pane e il caffè, pur mantenendo, contemporaneamente, i sentori di frutta matura. Interessante il suo ingresso in bocca, dove propone ancora percezioni tostate e di frutta secca, crosta di pane e caffè. Morbido e cremoso, sapido e ben strutturato, il vino chiude lungo su piacevoli note agrumate.

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LETRARI Dirigendomi verso l’azienda Letrari, nel cuore della Vallagarina, percepisco in queste terre di Rovereto qualcosa di familiare, forse per il fatto che le ho lette cantate da Dante, nella sua Divina Commedia, nel Canto XII dell’Inferno. Il Poeta, forse impressionato da certi enormi massi franati sulla sinistra dell’Adige, scrisse poi infatti: “Qual è quella ruina che nel fianco / di qua da Trento l’Adige percosse, / o per tremoto o per sostegno manco, / che da cima del monte, onde si mosse, / al piano è sì la roccia discoscesa, / ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse”. Anch’io rimango affascinato da questi luoghi che ai miei occhi appaiono ancora forti e “robusti”, come testimonia il toponimo stesso di Rovereto, figlio del latino robur. Le sorprese continuano anche visitando l’azienda Letrari, situata a Borgo Sacco, il cui impianto originario risale al 1647. Qui sono lavorate le uve dei 23 ettari di vigneti - dislocati in diverse località della Vallagarina - seguìti con occhio vigile dal quasi ottantenne Leonello Letrari, che mi accoglie solare come questa bellissima giornata di febbraio. Lo vedi, lo osservi e difficilmente lo dimentichi, proprio per l’immediata freschezza che trasmette, per quel suo essere come una vecchia quercia indomita, per come ti sorride, per il suo rassicurante vocione, il suo austero modo di proporsi, e la sua possente stretta di mano che sembra conciliare un’anima contadina con una gentilezza d’altri tempi. Non ostenta titoli, anche se potrebbe vantarsi di essere “Grand Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”. Lui è ricco soltanto di onestà e genuina modestia intellettuale, tipica di chi grande lo è veramente; il che lo rende ancora più simpatico e sereno. Mi racconta, sedendosi vicino a me, in compagnia dei suoi due figli, Lucia (enologo come il padre) e Paolo Emilio, che tutto ebbe inizio nel 1951, sul lago di Garda, quando, in un’azienda del luogo, si trovò a dover sostituire l’enologo “titolare”. La storia, poi, proseguì alla cantina Sartori, a Negrar di Verona; Leonello la raggiungeva tutti i giorni attraverso un vero e proprio “viaggio” che iniziava alle cinque del mattino e che lo vedeva costretto a prendere il treno delle sei, passando sull’altra sponda dell’Adige in barca, dato che i ponti erano stati distrutti dalla guerra. Una volta montato sul treno, in un’ora

giungeva a Verona da dove poi percorreva in bicicletta i chilometri che lo separavano dalla cantina a Negrar. Un pendolarismo quotidiano, durato ben cinque anni, avanti e indietro, con oltre due ore di viaggio al mattino e altrettante la sera. “Una vita in costante viaggio, tanto che potrei definirmi come un perenne migrante, talora al contrario di come si potrebbe pensare, un vero e proprio emigrante del vino dal nord verso il sud, come quando presi la valigia di cartone e me ne andai a lavorare in Puglia. Tutti scappavano dal sud, salendo verso il nord Italia o, addirittura, emigrando in altri paesi; io, invece, scendevo inseguendo il mio speciale e unico sogno di fare vino, lo stesso sogno che mi ha condotto ad avere oggi questa azienda”. Continua a raccontarmi la sua avventura che si arricchì più tardi anche di un’altra esperienza: quella che fece nella Bossi Fedrigotti, dove entrò giovanissimo, rimanendovi per ben 22 anni. Lavori, come lui ammette, che lo hanno portato a viaggiare, a conoscere e a comprendere le opportunità che avrebbe potuto offrire il mondo delle bollicine. “Ricordo che eravamo una ventina di enologi, di ritorno da un tour che aveva toccato la Spagna, la Francia e il Portogallo. Quel viaggio mi fece capire che, nelle generali difficoltà di quei tempi, le cantine tradizionali andavano male e le sole che brillavano di luce propria erano quelle che producevano Champagne. Mi sembrò che lo Champagne fosse quasi la nuova frontiera e la speranza in un futuro migliore. Non le nascondo che questa impressione fece breccia in me e mi spinse a costituire, nel 1965, una società che producesse Spumante Italiano Metodo Classico. Quella società si chiamava Equipe 5, dal numero dei suoi soci; zitti zitti, partendo con le prime 3000 bottiglie, diventammo, in breve tempo, i secondi produttori di Metodo Classico del Trentino: secondi soltanto a Ferrari. Nessuno ci insegnò niente. Dovemmo imparare tutto a nostre spese, selezionando addirittura i lieviti e procedendo da soli alla definizione del liqueur d’expédition per ottenere le prime cuvée. Niente è stato facile”. Mentre lui parla, io sorseggio il suo Brut Riserva del Fondatore Millesimato Trento DOC Talento del 1998. Mi guarda e interrompendo la sua storia, mi apostrofa: “Un grande Metodo Classico vero? È il frutto della nostra passione per il più aristocratico dei vini trentini. Un dégorgement tardivo con oltre 96 mesi di permanenza sui lieviti, il tutto per creare un vero capolavoro enologico, ispirato dalla migliore annata del decennio, perché le posso assicurare che questa del 1998 è stata sicuramente una grande annata”. Non so se sono più affascinato da quest’uomo o dal vino. Del resto, perché dover decidere ad ogni costo? Sono mirabili entrambi.

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MARIA VITTORIA, PAOLO EMILIO, LEONELLO, LUCIA LETRARI


LETRARI


TRENTO DOC TALENTO BRUT 976 RISERVA DEL FONDATORE LEONELLO LETRARI MILLESIMATO Il vino è prodotto vinificando le migliori uve Chardonnay (50%) e Pinot nero (50%) provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nei comuni di Rovereto e Nogaredo, in una zona collinare su terreni sassosi in parte morenici e ricchi di scheletro, ad un’altitudine di 400 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 12 ore di pulizia statica alla temperatura controllata di 16°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 8-10 giorni (a 18°C) per il 90% in tini di acciaio inox, mentre per un 10% di Chardonnay e Pinot nero in barriques. In questi contenitori i vini rimangono fino a maggio dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento con l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino rimane in cantina sui lieviti per almeno 96 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’expédition. È uno spumante dal perlage finissimo e persistente, che veste il bicchiere di un colore giallo dorato ricco di riflessi brillanti; al naso, intenso e complesso, si presenta profondo, con un ampio bouquet che spazia dalle note di lieviti alla liquirizia, dalla menta selvatica all’eucalipto e al timo. Un variegato spettro olfattivo che si arricchisce di percezioni minerali di pietra focaia e poi di nocciole e cedro. In bocca è avvolgente, armonioso e, nonostante il lungo periodo sui lieviti, brioso, fresco, ma soprattutto elegante; sapido e di equilibrata acidità, è decisamente persistente, con un finale in cui nuances fruttate si fondono ad accenni di cacao in polvere.

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MASO MARTIS Mentre attendo di incontrare Antonio e Roberta Stelzer che, dal 1990, si dedicano alla coltivazione della vite sulle terre del loro Maso Martis, mi guardo attorno e mi accorgo di quanto sia strategica la collocazione di questa costruzione rurale, situata a Martignano, ai piedi del monte Calisio, e inserita in un piccolo borgo sopra la città di Trento. Una bella struttura che neanche tanti anni addietro doveva essere piuttosto distante dalla città, mentre ora sembra ergersi a baluardo di un territorio rurale che sta ormai scomparendo, ultima difesa di un’urbanizzazione che, maleducatamente, bussa ormai anche alla porta di questa cantina. Sicuramente un tempo, in questo luogo si doveva vivere una vita contadina un po’ più vera di quella che oggi percepisco, che, con il tempo, è scomparsa, banalmente assorbita da una città sempre più invadente. Antonio e Roberta mi raccontano che, fin dal primo momento, decisero che nel loro futuro di vignaioli ci sarebbe stato spazio solo per gli spumanti. Fin dall’inizio, hanno avuto idee ben chiare e precise, tutte raggruppate in un ben definito progetto che li proiettava verso la realizzazione di grandi spumanti che dovevano essere affascinanti e seduttivi affinché, stappandoli, si potesse percepire ogni volta una magia. Bollicine da ricordare, perché capaci, salendo nel calice, di consolidare gli affetti, riunire le famiglie e far diventare importanti i piccoli gesti quotidiani, le feste, le occasioni speciali o anche i semplici momenti da condividere con gli amici, avendo il piacere di gustare la loro effervescenza, fragranza e intensità: in definitiva ciò che ogni giorno dovrebbe regalarci la vita. Li ascolto mentre sono seduti davanti a me: belli, simpatici e affascinanti come le bollicine che producono, ed è proprio intorno a quelle bottiglie e alle bollicine che salgono nel calice, che mi raccontano la loro storia, iniziata nel 1984. Mi narrano dei loro sacrifici, delle difficoltà iniziali, dei dubbi e delle perplessità legate al fatto di dover operare su un

territorio dove l’80% del vino prodotto è vinificato dalle cooperative, le quali, solo ultimamente hanno compreso l’importanza dei piccoli produttori e la necessità di collaborare con loro per mantenere viva quella cultura contadina che, nel Trentino, si sta perdendo. In un contesto così, quale importanza vuoi che abbia il resto della produzione? Domanda legittima, quella che mi pone Antonio. Del resto, se le dimensioni aziendali sono queste, è facile comprendere come i piccoli produttori si sentano isolati e poco rappresentativi nel contesto provinciale. Così si sono fatti forti del loro individualismo che però non ha contribuito certo a far nascere una vera e propria identità spumantistica trentina, quella che solo ora si incomincia a percepire nell’aria. Mi parlano accoratamente ed è facile comprendere che siano due giovani che si sono dati molto da fare, ma, nonostante siano partiti da zero, e in questi anni abbiano prima impostato l’azienda, dandole un nome, e poi sviluppato un marchio con prodotti che avessero un adeguato sbocco commerciale, sono consapevoli del fatto che la strada da fare è ancora molta per sentirsi almeno un po’ più tranquilli e fiduciosi nel domani. In questo loro difficile percorso di crescita si sono suddivisi i compiti all’interno dell’azienda; così il dinamico e laborioso Antonio si è occupato, fin da subito, della campagna e della spumantizzazione, mentre la bella e attraente Roberta, si è preoccupata dell’aspetto amministrativo e di quello commerciale. Abbiamo cercato di distinguerci un po’ dagli altri spumantisti trentini - mi dice Roberta - e oggi quello che ci differenzia maggiormente è proprio l’uso del Pinot nero nei nostri spumanti in un territorio dove, per questo processo di vinificazione, è quasi esclusivamente usato lo Chardonnay. Se lo assaggi attentamente, credo sia proprio questo il valore del nostro Trento DOC Brut Riserva Maso Martis millesimato che, come avrai notato, presenta una particolare morbidezza, quella che s’impegna ad ottenere Antonio, vinificando le uve di questi nostri vigneti, ai quali dedica praticamente tutto il suo tempo. Antonio mi parla poi di sé, della sua campagna, del Trentino e di queste terre di passaggio, attraversate nei secoli da eserciti, mercanti, pellegrini ed ininterrotti flussi migratori. Terre difese da soldati e da vescovi; terre che costringevano, chi viveva qui, a diffidare e a chiudersi in un riserbo che, certe volte, è facile confondere con la rudezza. Lo ascolto e mi rendo conto che i tempi sono cambiati, poiché scopro, anch’io novello pellegrino, solo persone affabili: gente non solo ospitale, ma che sa anche realizzare grandi vini. Forse oggi tutto è diverso: si sente un’aria nuova, quasi più frizzante, che assomiglia molto a queste bollicine.

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ANTONIO STELZER ROBERTA GIURIALI


MASO MARTIS


TRENTO DOC BRUT RISERVA MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero (70%) e Chardonnay (30%) raccolte nei vigneti situati nel comune di Trento, in una zona collinare su terreni sassosi, in parte morenici ricchi di argilla ad un’altitudine di 450 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, eseguita manualmente in piccole casse e che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti ottenuti, dopo 12 ore di una pulizia statica alla temperatura controllata di 16°C, si avviano alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, a 18°C ed è fatta svolgere per il Pinot nero in tank di acciaio, mentre lo Chardonnay fermenta in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura. In questi contenitori il vino rimane fino al maggio dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane a maturare in cantina sui propri lieviti per almeno 52 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Perlage finissimo e persistente; colora il bicchiere di un giallo paglierino luminoso con riflessi dorati; all’esame olfattivo si presenta complesso, con note di frutta gialla, lieviti, pane tostato e biscotto, che lasciano spazio a sentori di erbe officinali, fiori di tiglio e mandarino con un finale di leggeri e piacevoli accenni ossidativi. In bocca entra deciso, morbido, fruttato, con sentori di pesca gialla in evidenza e con una chiusura, lunga e piacevole, su sentori di crema pasticcera, biscotto e pasta di mandorle.

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PEDROTTI SPUMANTI Oggi mi dirigo verso Nomi, un piccolo centro agricolo della Vallagarina, in Trentino, dove vivono circa 1200 anime, situato sulla destra del fiume Adige e sovrastato dai ruderi di un vecchio maniero medioevale. L’appuntamento è con l’enologo Paolo Pedrotti, il quale dopo essersi “distratto”, come sostiene lui, per una quindicina d’anni in varie attività industriali, d’imbottigliamento e di confezionamento, ha deciso che era ora di prendersi cura dell’azienda enologica di famiglia, fondata all’inizio del secolo dal nonno Emanuele. Un ritorno alle origini che è stato felice di condividere con le figlie Donatella e Chiara, con l’intento di ridare lustro, vigore e importanza alla pregiata produzione di spumante che aveva, anche nel passato, contraddistinto l’attività della cantina. L’incontro si svolge all’interno di una grotta, scavata proprio sotto la rupe sulla quale si erge il castello che, un secolo fa, quando questo territorio era sotto il dominio austro-ungarico, fu ampliato per ordine dell’Imperatore Francesco Giuseppe d’Asburgo, in vista del primo conflitto mondiale, per ospitarvi, in sicurezza, gli alti comandi militari di stanza sul fronte lagarino, al confine tra Italia ed Austria. La grotta, denominata ufficialmente, in quel periodo storico, come “fortificazione campale di carattere provvisorio”, era a prova di bomba e fu per questo che, durante la Seconda Guerra Mondiale, divenne anche un rifugio antiaereo per la popolazione del paese. Mi inoltro nel cunicolo, che trasuda d’umidità per le abbondanti piogge invernali, e, camminando lungo le pupitres, disposte ai lati del camminamento centrale, scopro che vi sono molte bottiglie di vecchie annate, ancora disposte a stagionare sui propri lieviti. Osservo i cartellini che indicano l’anno d’imbottigliamento e inoltrandomi nella cavità rocciosa, mi accorgo che le annate scendono a ritroso fino a fermarsi al 1988. Sono mesi che giro per cantine e degusto spumanti e, francamente, non mi ero ancora imbattuto in bottiglie così vecchie. A questo punto sono curioso sia del motivo che ha spinto l’azienda a tenersi così a lungo i suoi Spumanti, sia di come essi si siano potuti mantenere così nel tempo. La curiosità di assaggiarli è grande, a tal punto che rinuncio a qualsiasi altra “provocazione” gustativa che Paolo intende propormi e rimango categorico sulla mia decisione; scopro che quelle bottiglie sono ancora lì a causa di quella distrazione che aveva visto, per lungo tempo, Paolo in altre faccende affaccendato. Mi descrive ogni sua passata esperienza, ma, in questo resoconto, percepisco,

velatamente, la sua voglia di dar corpo a questa sua seconda giovinezza enologica che si arricchisce di una nuova vitalità, di entusiasmo, della storia del fondatore Emanuele Pedrotti e di quella di Italo, il padre di Paolo, esperto conoscitore e grande vinificatore delle uve della zona. Sarebbe stato un sacrilegio se una tale esperienza fosse andata perduta ed è forse per questo che Paolo e le sue due figlie, oggi, hanno ridato vita alla tradizione familiare, sicuramente innovandola, ma facendo attenzione a rimanere fedeli a ciò che ha significato, negli anni, la cantina Pedrotti per il territorio. Mentre Paolo continua il suo racconto, mi avvicino, con trepida attesa, alla degustazione dello Spumante Brut Riserva Speciale Italo Pedrotti 1988, il quale ha riposato ad una temperatura fra i 13 e 14°C costanti, lontano da luci e rumori per ben 21 anni, protetto da queste grandi volte rocciose che mi sovrastano. Ho sempre sostenuto che i grandi vini spesso sono nati per caso, talora per l’incuria dell’uomo che, dimenticandoseli per anni nelle cantine, molto più tardi ha scoperto quanto il tempo fosse stato, invece, loro amico, oltre che magnanimo e benevolo nei confronti di quei prodotti enologici che, spesso, risultano unici. Così è per questo Spumante, ottenuto vinificando uve di Chardonnay e Pinot nero, e prodotto in 17000 bottiglie; se non conoscessi i retroscena, penserei immediatamente che il vino non sia altro che il risultato, e il capolavoro, dell’impegno, dell’ingegno e dell’abilità di Paolo, il quale, in tutti i casi, ha, tra gli altri meriti, quello di aver pazientato e saputo attendere il momento giusto per presentarlo al mercato. Per il resto, ha fatto tutto il tempo, quel gran gentiluomo che aggiusta, appiana e rende tutto molto più morbido e rotondo. E quindi non ha importanza di chi sia il merito: l’importante è che anche in Italia si possa pensare di realizzare degli Spumanti Metodo Classico così incredibili. Non so se ne troverò altri ancora nel mio giro per la penisola, come non so se il merito sia da attribuirsi al fatto che Paolo avesse una grotta così unica o che lui, per anni, fosse così attentamente distratto oppure se, invece, questo sia il livello qualitativo raggiungibile dagli Spumanti del territorio, come non so se senza tutte queste componenti questo vino sarebbe mai potuto esistere. So solo che esiste, senza se e senza ma; forse il caso, magnifico, di un destino che era stato scritto 21 anni fa. Comunque sia andata la cosa, è stato incredibilmente magnifico berlo.

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PAOLO, DONATELLA PEDROTTI


PEDROTTI SPUMANTI


VSQ PEDROTTI BRUT RISERVA SPECIALE ITALO PEDROTTI MILLESIMATO 1988 Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (90%) e Pinot nero (10%), provenienti da vigne della zona della Valle dei Laghi e della Val Lagarina, situate in aree collinari medio-alte su terreni calcarei ad un’altitudine di 400 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima metà di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e i mosti ottenuti, dopo 12 ore di sedimentazione alla temperatura di 7-10°C, si avviano, attraverso l’inoculo di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, per 10-12 giorni a 18°C in tank di acciaio; qui il vino svolge anche la fermentazione malolattica e resta fino a marzoaprile dell’anno successivo alla vendemmia, allorché si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino, ora in bottiglia con il classico tappo a corona, viene messo a maturare nelle grotte di Nomi, alla temperatura naturale costante di 14°C, e rimane sui suoi lieviti per almeno 20 anni, al termine dei quali si dà avvio al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. È uno spumante che propone ancora una spuma soffice, di modulata persistenza e un perlage fitto, vista l’età del vino, e che nel bicchiere si evidenzia con persistenza. Il colore, ancora curiosamente giovane, è un paglierino vivido, dai riflessi caldi e intensi, ma non ancora tendenti all’oro; al naso, essendo fisiologicamente maturo, offre un bouquet dove ovviamente dominano note terziarie, ma assai eleganti; armonico, ampio, ricco di fascino, fa emergere sentori di nocciole tostate, frutta secca, idrocarburi, pietra focaia e pane grigliato che sfumano su più morbidi ricordi di scorza di cedro candita e crema catalana. La beva è ricca, cremosa, intensa, matura, ma ancora vivace, fresca di acidità. Un gusto elegante e grandemente armonico nel suo essere evoluto; chiude, persistente, su sfumate note terrose e di tabacco essiccato.

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PISONI Lentamente percorro la meravigliosa strada che da Trento conduce al Lago di Garda, la SS 45bis, che attraversa la “Valle dei Laghi”, ai piedi delle Dolomiti di Brenta, una zona ricca di antichi castelli e fortezze, alcune delle quali situate, come baluardi inattaccabili, in cima a speroni di rocce, mentre altre si trovano sulle sponde dei numerosi laghi alpini e del Garda, che è poco più avanti. Una zona splendida che, nel periodo della dominazione austriaca, era denominata la “Riviera dell’Impero”, contraddistinta da un mite clima mediterraneo, come testimonia anche la vegetazione, composta da olivi, lecci, conifere, alloro e muschio. Pur essendo la zona molto a nord, difficilmente vive inverni rigidi, anche perché l’ambiente gode di un fenomeno meteorologico unico denominato “l’Ora del Garda”, un vento che, ad un’ora stabilita della giornata, sistematicamente, si alza e mitiga la temperatura, in qualsiasi stagione dell’anno, provocando escursioni termiche eccezionali che non fanno altro che “arricchire” le uve qui prodotte. Sono proprio queste escursioni a consentire, nell’uva, lo sviluppo di quelle sostanze aromatiche che ho ritrovato nei vini del Garda e anche in quel superbo Trento DOC Extra Brut Riserva Millesimato dei Pisoni che ho assaggiato, al fresco della cantina dell’enoteca provinciale, e che mi ha spinto a venire fin qui, a conoscere un altro fondamentale tassello del movimento spumantistico trentino. Ho appuntamento con i Pisoni, una famiglia di vignaioli e distillatori che, come mi racconta più tardi Arrigo, abita a Pergolese di Lasino dalla nascita, vale a dire “dall’anno decimo dell’era fascista” (cioè dal 1932), un anno di cui - lui sostiene, e a ragion veduta - io conosco poco o nulla. Arrigo è una persona affabile e dinamica verso la quale nutro subito un’istintiva simpatia, avendo la netta sensazione di trovarmi al cospetto di una di quelle figure ormai rare di “Re Contadini” che, talvolta, ho avuto la fortuna di incontrare in questo mio andar per cantine, pur essendo difficile riconoscerle in questa bislacca e “teatrale” Italia del vino. Devo dire che Arrigo è proprio un Re Contadino, una delle definizioni con cui mi piace indicare quei vignaioli che sanno dialogare con il tempo e con la terra, con la quale vivono in simbiosi, avendo imparato a rispettarla, ponendosi in equilibrio con la stessa e avendo cura di comprenderne i bisogni e le necessità. Il loro è un lavoro giocato tra il vento e il sole, fra le zolle e il cielo, un lavoro che appartiene più al mondo delle ipotesi che a quello delle certezze e che è basato, in massima

parte, sull’esperienza. Come ogni Re Contadino che si rispetti, Arrigo ha gli occhi “buoni” e questo mi è già sufficiente per rispettarlo. I suoi sono gli occhi di chi vive con sincerità le emozioni che la vita gli propone, come quelle provocate da una bella vendemmia o da una grappa ben distillata. Lo ascolto raccontarsi con il semplice orgoglio di chi conosce le origini della propria stirpe di agricoltori, le cui tracce si perdono nei secoli passati. Mentre parliamo mi porta in una grotta scavata originariamente dagli austriaci e poi ingrandita durante la Seconda Guerra Mondiale dove troneggiano diverse botti di rovere di Slavonia, costruite con la tecnica dello “spacco” e composte da doghe di oltre 15 centimetri ricavate spaccando longitudinalmente il legno e non segandolo, come avviene oggi. Alcune risalgono anche al 1862 (l’azienda è nata nel 1852) e non è difficile definire la data di costruzione delle altre, visto che è indicata su tutte, insieme alla capacità e allo stemma asburgico, lo stesso stemma che devono aver avuto tutte le case di questa terra, per lungo tempo territorio austriaco, sebbene, da come parlino e vivano, i Pisoni, così come tutti gli altri abitanti della piccola frazione, siano fuor di dubbio italiani di lingua, costume e tradizione. Italiani che, comunque, devono essere stati trattati molto bene dagli austriaci, poiché, nel 1908, la popolazione ha dedicato la piazza della frazione a Francesco Giuseppe, anche se, con lo stesso fervore, pochi anni dopo la fine della Grande Guerra, gli abitanti hanno rigirato la lapide, intitolando la piazza a Vittorio Emanuele. Così, noto che, su un lato, c’è lo stemma dei Savoia e, sull’altro, quello dei regnanti austriaci. In tutto questo cambiare di statue e simboli, solo loro, i Pisoni, sono rimasti gli incontrastati Re Contadini di Pergolese di Lasino, sottomettendosi al ciclo naturale delle stagioni con devota obbedienza alla terra. Quando finalmente usciamo fuori dalla grotta, mi stupisco del gran via vai di persone, clienti e commercianti di vino che animano l’azienda; le voci si contrappongono improvvisamente al silenzio delle ombrose volte sotterranee in cui mi trovavo fino a pochi minuti addietro, ma ha poca importanza se quel via vai interrompe la nostra conversazione, poiché in questo perfetto disordine mi accorgo che tutto qui è sereno come se fosse il tratto distintivo della gente che vi abita.

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ARRIGO, ELIO, VITTORIO PISONI


PISONI


TRENTO DOC EXTRA BRUT RISERVA MILLESIMATO Il vino è il prodotto della vinificazione delle uve Chardonnay (90%) e Pinot nero (10%) provenienti dai vigneti San Siro e Mas del Gobo, di proprietà dell’azienda, situati nella Valle dei Laghi, su terreni calcarei ad un’altitudine compresa fra i 250 e i 350 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, anticipata rispetto a quella dei vini fermi per avere un tenore di acidità maggiore, si procede alla pressatura soffice delle uve e, dopo una pulizia statica, i mosti sono avviati alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per l’80% in tank d’acciaio, mentre il 20% di Chardonnay fermenta in barriques di rovere francese per circa 15-20 giorni. Successivamente è sottoposto a periodici bâtonnages. I vini rimangono nei rispettivi contenitori fino al gennaio successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite. Dopo circa 4 mesi, nel mese di maggio, si effettua l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino riposa poi nella cantina scavata nella roccia, per un minimo di 36 mesi, poi si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Il vino, che propone una spuma abbondante e cremosa e un perlage persistente, fitto e sottile, colora il bicchiere di un bel giallo dorato; al naso evidenzia dapprima delle note ossidative che riportano alla mente la mela tagliata e poi sentori leggermente aromatici, note di biscotti, crosta di pane, nocciole tostate, percezioni di frutta fresca e, data la lunga permanenza sui lieviti, accenni di erbe aromatiche e ricordi agrumati. In bocca l’effervescenza è decisa, ma nel complesso il vino è morbido, dotato di buona struttura che rimanda nuovamente ai sentori di frutta secca, nocciole e pane tostato percepiti al naso. Sapido e complesso, propone un finale agrumato.

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POJER E SANDRI Penso a Faedo, mentre cerco di non distrarmi troppo nella guida che si dimostra impegnativa seguendo attentamente i tornanti della strada che da San Michele all’Adige si inerpica su questa montagna imponente che si erge come argine del sottostante fiume. Man mano che salgo, si apre alla mia vista uno splendido colpo d’occhio su tutta la piana Rotaliana, mentre mi sforzo di scorgere Faedo, che sembra voler giocare a nascondino, apparendo e sparendo ad ogni curva. Manca poco ormai e, forse, adattandomi alla strada, scopro che anche la mia mente gira, svolta e si inerpica per ricordi che corrono verso i due amici, Mario e Fiorentino, che incontrerò di qui a poco. Mi sono intrattenuto l’ultima volta con loro in belle chiacchierate, alle otto di mattina, puntuali come un rituale, seduti al bar vicino alla porta B dell’ingresso della fiera di Verona, davanti a un caffè o a un cappuccino. La mia mente di nuovo sterza verso altri pensieri e va a frugare questa volta nella memoria di quel vecchio e scolastico latino, studiato qualche decennio addietro, per cercare di capire la radice del nome Faedo e, quasi immediatamente, con mia sorpresa, accosto il nome a quel “ad Faggium” con il quale gli antichi un tempo indicavano i luoghi circondati da boschi di faggi. Guardandomi intorno, tuttavia, di quegli antichi boschi, se mai vi sono stati, non c’è più traccia. Da qualsiasi parte volgo lo sguardo è un susseguirsi di vigneti. Salgo, giro e salgo ancora, fin quasi a seicento metri sul livello del mare, e, osservando ciò che mi circonda, penso che la viticoltura deve aver avuto un ruolo importante nell’economia di questo territorio, almeno nell’immediato passato. Sicuramente deve aver portato un radicale cambiamento, soprattutto in quella cultura contadina che, soltanto qualche decennio addietro, forse, si sorreggeva su un’agricoltura promiscua che condizionava in modo radicale il vivere di queste genti. Sì, credo che proprio attraverso la vite qui devono esserci state grandi trasformazioni, consolidatesi attraverso il successo del vino prodotto. Insieme a quella sana economia deve essere arrivata un po’ di “modernità” che ha fatto sbocciare il fiore del cambiamento. In tutto questo ho il vago sospetto che i miei due amici abbiano un ruolo importante e di riferimento. Ne sono quasi convinto e sicuramente, tra poco, quando li incontrerò, chiederò loro delle conferme. Del resto chi, come loro, ha negli occhi orizzonti così belli e ampi deve avere una mente aperta e molto più pronta di chi vive nel fondovalle. Un tornante ancora e di nuovo svoltano i miei pensieri verso considerazioni di geografia. L’Austria non deve essere molto distante da qui - mi dico. Chissà se proseguendo su questa strada tortuosa e attraversando la Val di Cembra, si arriva in Austria... Penso che per questa gente l’Austria non deve aver rappresentato solo una semplice vicina di casa con la quale

tenere, a ragion di cose, degli ottimi rapporti; anzi, scorrendo, nella mia mente il file della storia, penso che questo Paese deve aver significato, per questa gente, un’adesione forte alla cultura d’Oltralpe, visto che qui si parlava, almeno fino a circa due generazioni addietro, un dialetto austro-ungarico. Una nuova svolta e ora penso all’azienda che, da come mi hanno raccontato Fiorentino e il baffuto Mario, nasce nel 1975, allorché il primo eredita poco meno di due ettari di vigneto e, nonostante faccia il metalmeccanico con un posto fisso e uno stipendio a fine mese, decide di mettersi a fare il vignaiolo e sposare le idee rivoluzionarie del secondo che, nel frattempo, si è appena diplomato alla prestigiosa scuola di enologia di San Michele all’Adige. Certo che il paesaggio è bello, ma quassù, lo devo dire, i due “ragazzacci ” sono stati proprio bravi, non solo a fare vino, ma ad “inventarsi” un lavoro. Forse la loro fortuna iniziale è stata proprio quella di aver ragionato in maniera diversa dagli altri compaesani e, andando contro certe convinzioni del luogo ormai consolidate, hanno combattuto prima contro la chiusura tipica di queste genti di montagna e poi contro tutti quelli che non avrebbero mai creduto che i loro sogni si sarebbero potuti realizzare anche qui, a Faedo.

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FIORENTINO SANDRI MARIO POJER


POJER E SANDRI


SPUMANTE EXTRA BRUT CUVÉE Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay (65%) e Pinot nero (35%) di due vendemmie, provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nei comuni di Faedo e Cembra, in una zona montana su terreni calcarei (Dolomia) e porfidici, ad un’altitudine di circa 600 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che avviene a seconda della maturazione delle uve, si procede ad una pressatura soffice e i mosti ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura di 15°C, si avviano alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni (a 18°C) ed è fatta svolgere per lo Chardonnay in vecchie barriques di rovere, mentre il Pinot fermenta in barriques dove è rimasto a maturare per anni il brandy dell’azienda. In questo periodo vengono effettuati settimanali bâtonnages con rotazione dei legni. In questi contenitori il vino rimane fino al marzo successivo alla vendemmia; poi si procede all’assemblaggio delle partite che, in attesa dell’aggiunta della base dell’annata successiva, sono poste in tank di acciaio. L’anno successivo, una volta composta la cuvée, seguono l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma (in questo caso lo stesso vino dell’annata più vecchia di Chardonnay). Il vino matura poi in cantina sui lieviti per 30-36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e all’aggiunta del liqueur d’expédition. Curioso ed elegante, ha una spuma cremosa e un perlage finissimo e persistente, colorando il bicchiere di una tonalità che varia da note verdoline ad altre più calde e ricche di riflessi dorati. Al naso, complesso, profondo e intenso, propone un bouquet ampio che spazia dalla caramella mou al caffè d’orzo, dai sentori erbacei e officinali di timo, origano e camomilla a percezioni di fieno secco, per concludere con nuances di cedro che si fondono con percezioni di mela e pera. In bocca è avvolgente, armonioso, elegante e sapido. Una bella acidità lo rende fresco e persistente, con un finale che ricorda la frutta cotta e una gustosa nocciola.

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ZENI Mi piace questo Roberto Zeni perché è uno schietto, uno che dice le cose come stanno, senza troppi preamboli da utilizzare per arrivare dritti e precisi allo scopo. A sentirlo sembrerebbe quasi più un toscano che un trentino. Ah… Per lui ci sono poche storie. Le cose che vanno dette devono uscire senza giri di parole e poi… “pane al pane e vino al vino”, come si usa dire. Spedito, incomincia a raccontarmi e a descrivermi questa terra trentina che ancora non conosco. Devo dire che la sua scioltezza da una parte mi sorprende, ma dall’altra mi consente, finalmente, di rilassarmi un po’, senza essere costretto, come spesso mi capita, a dover estorcere le parole dalla bocca della gente. Lo ascolto, cercando di interpretare il valore aggiunto, le virtù, le ombre e le luci del sistema vitivinicolo di questo Trentino di cui incomincio ad innamorarmi. Non ho altra scelta e non posso far altro che prestare attenzione ai discorsi di chi ne sa più di me e non è qui da pochi giorni come lo sono io. Per il tempo che ho avuto a disposizione non avrei potuto avere né le occasioni, né gli interlocutori giusti per conoscere i risvolti concatenati al mondo del vino di questa provincia. Così, davanti a un buon bicchiere di spumante, vengo a sapere che l’85% della produzione vitivinicola, come anche quella di altri settori produttivi trentini, è gestita dalla cooperazione, il 10% dagli industriali e solo il 5% dai vignaioli o dagli artigiani del vino, come ama chiamarli Roberto. La cosa mi sorprende, in quanto credo sia un fenomeno unico nel contesto nazionale, un fenomeno che avrà innescato meccanismi diretti e indiretti di ricaduta sul tessuto sociale di questa provincia, fornendo garanzie, gratificazioni economiche e servizi sicuramente maggiori di altre zone d’Italia. Una cooperazione che ha dato dignità all’esser contadino, una cosa che qui ha un significato molto diverso da ciò che questa stessa parola assume in altri territori, soprattutto perché qui la terra in grado di garantire una redditività sicura, costante e importante nel bilancio annuale di una famiglia, costa tantissimo, più che in ogni altra parte d’Italia. Questa politica sociale ha consentito il mantenimento e l’utilizzo di ogni particella, sulla quale, però, si è pensato a produrre di tutto e di più, non provvedendo a costruire quello spirito imprenditoriale alla base di qualsiasi movimento economico e che caratterizza certamente gli artigiani del vino come Roberto, costretti a rincorrere la prepotente concorrenza cooperativistica vicina di casa, non sapendo se indossare i panni della gazzella o quelli del leone. Una realtà che non ha costruito una sua precisa identità produttiva

con cui identificare il Trentino che, pur essendo un territorio fortemente vocato alla viticoltura, non ha, oggi, una sua precisa collocazione nel panorama nazionale. Del resto, non so rispondere a Roberto quando mi domanda per cosa sia conosciuto il Trentino, se per i vini bianchi, i rossi o gli Spumanti Metodo Classico... Quella che sto ascoltando è, indubbiamente, una disamina seria e quanto mai realista, che coinvolge anche la famiglia Zeni, che, giunta ormai alla quarta generazione di vignaioli, solo negli ultimi decenni è stata capace di uscire dai meravigliosi, ma angusti confini di queste valli. Secondo Roberto, alla base dello stagnante sviluppo di una piccola, ma dinamica imprenditoria vitivinicola, ci sono comunque diversi fattori, fra i quali la chiusura mentale di chi si arrocca nel suo “particulare” e si pone in difesa dei personali risultati ottenuti. Una mentalità tipica del mondo contadino di qualsiasi regione d’Italia, sempre portata più alla difesa dei piccoli risultati ottenuti che alla verifica delle opportunità create da un confronto, sia esso interno od esterno. Fra gli altri motivi c’è da considerare che, essendo questa una terra di cantine sociali, si è venuto a creare proprio nell’associativismo uno strumento collettivo che supplisce ai limiti del singolo, un fattore che, di per sé, sarebbe anche positivo, ma che, paradossalmente, non è riuscito a spostare di un solo millimetro quella mentalità profondamente individualista di chi, qui in Trentino, opera in viticoltura. Dalle parole di Roberto mi sembra di aver compreso che l’obiettivo principale per la cooperazione sia sempre stato quello di remunerare il socio e non di esaltare il livello qualitativo del prodotto che veniva dal territorio. Per anni qui si è puntato più alla ricaduta economica che alla crescita della consapevolezza della cultura dell’appartenenza, capace di identificare il prodotto “vino” con il terroir da cui proviene. Mi piacciono le parole di Roberto, soprattutto perché lo identifico come uno spirito libero, un tratto che caratterizza i più significativi personaggi dell’Italia del vino che io conosco. Con intelligenza e acuta arguzia, credo che lui abbia saputo prima osservare ciò che lo circondava e poi, facendo di necessità virtù, costruire un suo personale percorso imprenditoriale, in modo che le cose accadessero, costruendo ipotesi vere e proprie e fatti nuovi più positivi, capaci di svecchiare l’inadeguata mentalità che rappresenta un freno verso la ricerca della qualità assoluta.

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RUDY, ROBERTO ZENI


ZENI


TRENTO DOC BRUT MASO NERO MILLESIMATO Il vino è prodotto con uve Chardonnay provenienti dai 3,7 ettari del vigneto Zaraosti, situato alle pendici del Monte Corona, su terreni sassoso-limosi a un’altitudine di circa 350 metri s.l.m. Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura delle uve e il mosto ottenuto, dopo 10 ore di decantazione statica a temperatura controllata (12°C), si avvia alla fermentazione alcolica, che si protrare per 10 giorni, sempre a temperatura controllata (18-20°C) in tank di acciaio; viene fatta svolgere anche la fermentazione malolattica per ridurre l’acidità naturale. Dopo alcuni travasi, il vino resta nei contenitori fino all’agosto successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui propri lieviti per oltre 40 mesi, al termine dei quali si effettua il remuage delle bottiglie, il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e l’aggiunta del liqueur d’expédition. Si presenta alla vista con una spuma abbondante e un bellissimo perlage che riempie il bicchiere e lo colora di giallo dorato; al naso risulta intenso, proponendo netti sentori di frutta tropicale, mango, ananas, melone, papaia, pesca gialla matura e note floreali che rimandano al tiglio. Lo spettro olfattivo si completa anche con note di miele, erbe officinali e pane tostato. Di buona struttura in bocca, il vino offre percezioni di biscotto e caffè tostato, aprendosi nuovamente su ricordi di frutta gialla matura. La nota sapida, i sentori di fieno e gli accenni agrumati di mandarino chiudono un lungo finale di bocca.

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Glossario Acidità - L’acidità ha un ruolo importante nell’equilibrio gustativo di uno Spumante Metodo Classico. Infatti sono gli acidi che danno sapidità, freschezza e vivacità al vino e, se risultano in eccesso, portano una certa asprezza e durezza, mentre, se sono carenti, il vino risulta piatto, molle e vuoto nella degustazione. Acidulo - É il termine con il quale si definisce un vino che possiede un’acidità decisamente in eccesso che risulta alle papille gustative con un sapore “verde”, un po’ mordente. Può succedere di incontrare questi sapori in Spumanti troppo giovani che non hanno subìto la fermentazione malolattica oppure in vini con insufficiente dosage. Aroma - L’aroma di uno spumante presenta una grande complessità e una grande variabilità, poiché è il risultato di una lunga sequenza di fattori che interagiscono fra loro, da quelli biochimici a quelli tecnologici. L’aroma di uno spumante è composto da: Aromi varietali: provenienti dalle uve utilizzate nella realizzazione dei vini base. Aromi pre-fermentativi e di fermentazione: prodotti dai lieviti sia durante la fermentazione alcolica, sia durante la presa di spuma o rifermentazione in bottiglia. Aromi d’invecchiamento: o terziari, prodotti durante la permanenza del vino sui propri lieviti. A questi si possono aggiungere anche gli aromi provenienti dal legno, per i vini base affinati in barrique, e gli aromi derivanti dall’aggiunta della “liqueur d’expédition” nello Spumante. Assemblaggio - É una procedura operativa di cantina che, di solito, si effettua nella primavera successiva alla vendemmia e che consiste nell’unire e assemblare materialmente, in uno o più contenitori, le migliore partite dei vini maturati durante l’inverno, provenienti dalla vendemmia precedente, sia che essi siano originari della stessa zona produttiva o di zone diverse, sia che siano stati maturati in vasche di acciaio, di cemento oppure in barrique. Bidule - È il sottotappo in plastica che serve a raccogliere i sedimenti del vino quando le bottiglie sono posizionate in punta prima della sboccatura. Blanc de Blancs - Spumante prodotto utilizzando esclusivamente uve Chardonnay. Blanc de Noirs - Spumante prodotto utilizzando esclusivamente uve Pinot nero e/o Pinot Meunier vinificate in bianco. Brillante - Vino perfettamente limpido e trasparente. Brut Nature - Menzione che si applica a quei vini che sono stati addizionati di zucchero dopo la presa di spuma. In questo caso lo Spumante ha un grado zuccherino comunque inferiore a 3 g/l. Brut - Lo spumante più apprezzato, caratterizzato da un gusto in giusto equilibrio fra freschezza e morbidezza. Purtroppo la variabilità del residuo zuccherino che, per legge, ha una forbice ampia - da 0 a 15 g/l - può riservare delle sorprese, facendoci ritrovare a degustare Spumanti un po’ troppo “dolci”.

Chef de Caves - È il responsabile della cantina: colui che, in pratica, segue la vinificazione e cura l’assemblaggio e la realizzazione delle cuvée per mantenere costante lo stile e il gusto della casa produttrice. Cristallino - Vino che si presenta all’esame visivo con la massima luminosità e trasparenza. Cuvée - È il termine con il quale si identificano due importanti momenti della fase produttiva di uno Spumante Metodo Classico. Come cuvée si intende sia il mosto ottenuto dalla prima spremitura (circa 2.000 litri di mosto ottenuti da 4.000 kg di uve), sia l’unire, nell’assemblaggio fatto in primavera, ai vini base nature provenienti da crus o da vitigni diversi e da zone diverse, vini di riserva di altre annate, conservati proprio per aumentare le percezioni gustative e olfattive degli Spumanti che l’azienda intende realizzare. Dégorgement - Sboccatura. Con questo termine si classifica quella fase specifica con la quale si sancisce l’immissione del vino sul mercato e consiste nell’eliminazione del deposito di lieviti che si formano durante la presa di spuma. Questa operazione si effettua al termine del rémuage, quando cioè le bottiglie che erano state messe nelle pupitres, si trovano tutte in punta. Il dégorgement si può effettuare in due modi: “à la volée” o “à la glace”. Nel primo caso la bottiglia viene stappata manualmente e il residuo feccioso fuoriesce, insieme a una certa quantità di vino, mentre, nel secondo caso, invece, si procede al raffreddamento del collo della bottiglia che viene posto a -20°C in una soluzione refrigerante per congelarne il sedimento, dopodiché si procede meccanicamente alla stappatura e alla sua espulsione. Di corpo - Vino con buona vinosità, bella struttura e ben equilibrato. Dosage - È uno dei tanti segreti che ogni azienda custodisce gelosamente e consiste nel dosare, e quindi personalizzare, subito dopo l’espulsione del sedimento della bottiglia, e durante la sboccatura, il liqueur d’expédition, che identificherà e caratterizzerà lo Spumante di quell’azienda. Di solito è una soluzione zuccherina preparata con zucchero di canna al quale sono aggiunti acquavite di vino, vino vecchio o altro. Il regolamento CEE n. 333/92, modificato dal regolamento CEE n. 429/96, stabilisce, secondo il tenore degli zuccheri residui presenti in uno Spumante Metodo Classico, le seguenti diciture: Pas dosé, Brut nature, Dosage zero: questa dicitura è riservata al vino spumante non dosato. Extra brut da 0 a 6 g/l Brut < 15 g/l Extra Dry da 12 a 20 g/l Sec da 17 a 35 g/l Demi-sec da 33 a 50 g/l Dolce da > 50 g/l Dosage Zero - Vino a tenore in zucchero inferiore a 3 g/l. Questa menzione si può applicare solamente a quei vini che non sono stati addizionati di zucchero dopo la presa di spuma. Il gusto è decisamente secco, talvolta un po’ asciutto. Effervescenza - Effetto che si verifica versando lo Spumante nel bicchiere; è il momento con il quale si dà avvio alla formazione di una

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spuma abbondante, ma piuttosto fugace. Questa prima “tumultuosa” fase è seguita poi da una seconda, più duratura, che dà origine, sulle pareti del bicchiere, a un collare - o cordone - di spuma, alimentato dalle bollicine che, partendo dal fondo o dalle pareti del bicchiere, risalgono in superficie formando lunghe catenelle. Queste file continue di bollicine, che prendono l’avvio sempre dagli stessi punti (siti di nucleazione), costituiscono l’effervescenza. Limpido - Vino perfettamente trasparente, ma senza luminosità. Liqueur de tirage - Speciale sciroppo preparato con zucchero di canna al 50%, al quale sono aggiunti dei lieviti selezionati. Serve per ottenere la rifermentazione in bottiglia e la necessaria presa di spuma. Liqueur d’expédition - La liqueur d’expédition viene usata per il dosage ed è uno speciale sciroppo che si prepara sciogliendo dello zucchero di canna, o di barbabietola, nel vino invecchiato, al quale si possono aggiungere anche acquaviti pregiate di vino. In alcuni casi, come specificato nel Dosage zero, viene utilizzato solo il vino della stessa annata di produzione. Magro - Vino generalmente di annata mediocre, vuoto e disarmonico, per mancanza di vinosità e struttura. Millesimato - Spumante prodotto solamente in grandi annate e preparato esclusivamente con le uve di quella particolare annata. Gli spumanti millesimati possono essere messi in vendita dopo almeno 36 mesi di maturazione sui lieviti. Morbidezza - Termine con il quale si definisce l’insieme delle sostanze di sapore dolce (alcool, zuccheri e glicerina) contenuti nel vino. Queste sostanze provocano in bocca sensazioni di dolcezza e di morbidezza, le quali vanno smorzate e poste in equilibrio con l’acidità del vino. Pas Dosé - Menzione che si può applicare solamente a quei vini che non sono stati addizionati di zucchero dopo la presa di spuma. Il vino ha un grado zuccherino inferiore a 3 g/l e il gusto è decisamente secco e asciutto. Perlage - Termine con cui si definisce il movimento delle bollicine che salgono dal fondo del bicchiere, come file o collane di perle, e con le quali si misura l’effervescenza degli spumanti. Piatto - Vino che manca decisamente di freschezza o per difetto di acidità o per un eccesso di residuo zuccherino, come in certi vini troppo dosati.

Pupitres - Doppi tavoloni con fori di diverse inclinazioni adatti a contenere le bottiglie in varie posizioni. Remuage - Processo utilizzato per rimuovere il sedimento che si trova nella bottiglia e farlo scivolare verso il collo, cioè verso il tappo. Tale processo, fino a una decina di anni fa, veniva effettuato solo a mano e consisteva, in pratica, nel far roteare ogni bottiglia di 1/8 di giro al giorno per circa un mese, per poi portarla, progressivamente, in una posizione verticale (sur pointe), così da convogliare il deposito contro il tappo. Il remuage si può effettuare sia a mano, sia utilizzando delle macchine meccaniche tipo gyropalette. Rosato o Rosé - Colore che viene naturalmente trasferito ad alcuni vini dalla tecnologia di preparazione degli stessi che, di solito, avviene attraverso una macerazione pellicolare dei vini a bacca rossa utilizzati per le basi spumante. Le tonalità degli spumanti rosati sono: rosato chiaro, rosato, rosa salmone, rosa cipria. Sapido - Vino equilibrato, con sufficiente acidità e buona morbidezza. Spuma - Fenomeno molto instabile ed effimero che avviene nei vini Spumanti, risultante di due azioni contrastanti che prendono avvio dalla sua stessa formazione e dalla sua distruzione. Per avere una buona tenuta di spuma, il vino spumante deve essere particolarmente ricco di macromolecole come proteine e polisaccaridi, in grado di rendere più stabili le bollicine e rallentare la distruzione della spuma. Tirage - Processo che, di solito, è avviato con i vini base, quando, ormai stabilizzati e imbottigliati, viene aggiunto, in ogni bottiglia, un liqueur de tirage, uno speciale sciroppo preparato con vino vecchio, zucchero di canna e lieviti selezionati che personalizza in modo particolare ogni vino e, addirittura, ogni bottiglia. Per ottenere i 3 bar di sovrappressione di anidride carbonica obbligatori per legge sono sufficienti circa 12 grammi di zucchero per litro di vino (4 grammi di zucchero = 1 bar)1. 1 In realtà le perdite di pressione sono molteplici e pertanto al vino base ne vengono aggiunti più del doppio (24-30 g/l) che sviluppano poi una pressione di circa 5-7 bar. Lo zucchero utilizzato può derivare sia dalla canna da zucchero, sia dalla barbabietola. Nella preparazione del liqueur de tirage e d’expédition, si impiega solamente zucchero cristallizzato di tipo 1, di qualità superiore (Regolamento CEE n°2, 103/77), il più puro e privo di quelle impurità che potrebbero alterare il gusto del vino.

Pieno - Vino di grande stoffa e struttura, decisamente ricco ed elegante. Presa di spuma - Processo fermentativo attraverso il quale, dopo l’aggiunta del liqueur de tirage nelle bottiglie e dopo che le stesse sono state tappate, con tappo a corona, e poste orizzontalmente su cataste (sur lattes), in appositi locali, alla temperatura di 10-12°C, si sviluppa, al loro interno, anidride carbonica (presa di spuma) la quale, a sua volta, crea una pressione interna di circa 5-6 bar.

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Indirizzario ALTA LANGA Bera Azienda Agricola Via Castellero Loc. Palazzo, 12 12050 Neviglie (CN) Tel. +39 0173 630194 - 630500 Fax +39 0173 630956 www.bera.it - info@bera.it Giulio Cocchi Spumanti S.r.l. Via Orfanotrofio, 10 (Cantine in Via Liprandi, 21 - Cocconato) 14100 Asti Tel. +39 0141 600071 - Fax +39 0141 907085 www.cocchi.it - cocchi@cocchi.com Fontanafredda S.r.l. Via Alba 15 12050 Serralunga d’Alba (CN) Tel. +39 0173 626111 - Fax +39 0173 613451 www.fontanafredda.it - info@fontanafredda.it F.lli Gancia & C. S.p.A. Corso Libertà, 66 14053 Canelli (AT) Tel. +39 0141 8301 - Fax +39 0141 835341 www.gancia.it - infogancia@gancia.it Germano Ettore Az. Agr. di Germano Sergio Loc. Cerretta, 1 12050 Serralunga d’Alba (CN) Tel. +39 0173 613528 - Fax +39 0173 613593 www.germanoettore.com germanoettore@germanoettore.com Martini & Rossi S.p.A. Piazza Luigi Rossi, 2 10023 Pessione - Chieri (TO) Tel. +39 011 94191 - Fax +39 011 9419209 www.martinierossi.it Giovanni Bosca Tosti S.p.A. Viale Italia, 295 14053 Canelli (AT) Tel. +39 0141 822011 - Fax +39 0141 823773 www.tosti.it - info@tosti.it Vigne Regali Via Vittorio Veneto, 76 15019 Strevi (AL) Tel. +39 0144 362600 - Fax +39 0144 363777 www.castellobanfi.it/vigneregali/ - banfi@banfi.it FRANCIACORTA Bellavista Via Bellavista, 5 25030 Erbusco (BS) Tel. +39 030 7762000 - Fax +39 030 7760386 www.bellavistawine.it - info@bellavistawine.it

Guido Berlucchi & C. S.p.A. Piazza Duranti, 4 25040 Borgonato di Cortefranca (BS) Tel. +39 030 984381 - Fax +39 030 984293 www.berlucchi.it - info@berlucchi.it

La Montina S.r.l. Via Baiana, 17 25040 Monticelli Brusati (BS) Tel. + 030 653278 - Fax +39 030 6850209 www.lamontina.it - info@lamontina.it

Ca’ del Bosco S.r.l. Società Agricola Via Albano Zanella, 13 25030 Erbusco (BS) Tel. +39 030 7766111 - Fax +39 030 7268425 www.cadelbosco.com - cadelbosco@cadelbosco.com

Società Agricola Monte Rossa S.r.l. Via Monte Rossa, 1/R 25040 Bornato di Cazzago San Martino (BS) Tel. +39 030 725066 - 030 7254614 Fax +39 030 7750061 www.monterossa.com - info@monterossa.com

Castello Bonomi - Tenute in Franciacorta Via San Pietro, 46 25030 Coccaglio (BS) Tel. +39 030 7721015 - Fax +39 030 7701240 www.bonomitenutacastellino.it info@bonomitenutacastellino.it Azienda Agricola Cavalleri Via Provinciale, 96 25030 Erbusco (BS) Tel. +39 030 7760217 - Fax +39 030 7267350 www.cavalleri.it - cavalleri@cavalleri.it Azienda Agricola Cola Battista Via Indipendenza, 3 25030 Adro (BS) Tel./Fax +39 030 7356195 info@colabattista.it - www.colabattista.it Contadi Castaldi S.r.l. Via Colzano, 32 25030 Adro (BS) Tel. +39 030 7450126 - Fax +39 030 7450322 www.contadicastaldi.it contadicastaldi@contadicastaldi.it Azienda Agricola Fratelli Berlucchi S.r.l. Via Broletto, 2 25050 Borgonato di Corte Franca (BS) Tel. +39 030 984451 - Fax +39 030 9828209 www.fratelliberlucchi.it - info@fratelliberlucchi.it Agricola Gatta Via San Rocco, 33/37 25064 Gussago (BS) Tel./Fax +39 030 2772950 www.agricolagatta.com - info@agricolagatta.com Società Agricola Enrico Gatti di Lorenzo Gatti & C. S.S. Via Metelli, 9 25030 Erbusco (BS) Tel. +39 030 7267999 - Fax +39 030 7760539 www.enricogatti.it - info@enricogatti.it Azienda Agricola Il Mosnel Via Barboglio 14 25040 Camignone (BS) Tel. +39 030 653117 - Fax +39 030 654236 www.ilmosnel.com - info@ilmosnel.com

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Azienda Agricola Monzio Compagnoni S.r.l. Società Agricola Via Nigoline, 18 25030 Adro (BS) Tel. +39 030 7457803 - Fax +39 030 7457853 www.monziocompagnoni.it info@monziocompagnoni.com Azienda Agricola Ricci Curbastro Via Adro, 37 25031 Capriolo (BS) Tel. +39 030 736094 - Fax +39 030 7460558 www.riccicurbastro.it - info@riccicurbastro.it Agricola Ronco Calino S.r.l. Via Fenice 45 - Frazione Torbiato 25030 Adro (BS) Tel. +39 030 7451073 - Fax +39 030 7453000 www.roncocalino.it - info@roncocalino.it Azienda Agricola Uberti Via Enrico Fermi, 2 - Loc. Salem 25030 Erbusco (BS) Tel. +39 030 7267476 - Fax +39 030 7760455 www.ubertivini.it - info@ubertivini.it Villa Franciacorta Via Villa, 12 25040 Monticelli Brusati (BS) Tel. +39 030 652329 - Fax +39 030 6852585 www.villafranciacorta.it - info@villafranciacorta.it Azienda Agricola Fratelli Muratori Tenuta Villa Crespia Via Valli, 11 25030 Adro (BS) Tel. +39 030 7451051 - Fax +39 030 7451035 www.fratellimuratori.com - info@fratellimuratori.com OLTREPÒ PAVESE Anteo Azienda Agricola Località Chiesa 27040 Rocca de’ Giorgi (PV) Tel. +39 0385 99073 - Fax +39 0385 951814 www.anteovini.it - info@anteovini.it


Cantine Scuropasso Frazione Scorzoletta, 40/42 27040 Pietra de’ Giorgi (PV) Tel./Fax +39 0385 85143 www.scuropasso.it - info@scuropasso.it

Verdi Bruno di Paolo Via Vergomberra, 5 27044 Canneto Pavese (PV) Tel. +39 0385 88023 - Fax +39 0385 241623 www.verdibruno.it - info@verdibruno.it

Azienda Agricola Caseo Frazione Caseo, 9 27040 Canevino (PV) Tel. +39 0385 99937 - Fax +39 0385 951949 www.caseo.it - info@caseo.it

TRENTO DOC

Cantine Conte Carlo Giorgi di Vistarino S.r.l. Frazione Scorzoletta, 82/84 27040 Pietra de’ Giorgi (PV) Azienda Agricola Conte Carlo Giorgi di Vistarino Villa Fornace - 27040 Rocca de’ Giorgi (PV) Tel. +39 0385 241171 - Fax +39 0385 241166 www.contevistarino.it - info@contevistarino.it Fattoria Il Gambero Frazione Case Nuove, 9 27047 Santa Maria della Versa (PV) Tel +39 0385 79268 - Fax +39 178 2733256 www.fattoriailgambero.it - info@fattoriailgambero.it La Versa S.p.A. Via F. Crispi, 15 27047 Santa Maria della Versa (PV) Tel. +39 0385 798411 - Fax +39 0385 7984500 www.laversa.it - info@laversa.it Azienda Agricola Monsupello di Carlo Boatti Via San Lazzaro, 5 27050 Torricella Verzate (PV) Tel. +39 0383 896043 - Fax +39 0383 896391 www.monsupello.it - monsupello@monsupello.it Azienda Agricola Quaquarini Francesco Via Casa Zambianchi, 26 27044 Canneto Pavese (PV) Tel. +39 0385 60152 - Fax +39 0385 262056 www.quaquarinifrancesco.it info@quaquarinifrancesco.it Tenuta Il Bosco Località Il Bosco 27049 Zenevredo (PV) Tel. +39 0385 245326 - Fax +39 0385 245324 www.ilbosco.com - info@ilbosco.com Terre d’Oltrepò S.c.a.p.a. Via Sansaluto, 81 27043 Broni (PV) Tel. +39 0385 51505 - Fax +39 0385 56025 www.bronis.it - www.cantinacasteggio.it info@bronis.it Azienda Agricola Travaglino Loc. Travaglino 27040 Calvignano (PV) Tel. +39 0383 872222 - Fax +39 0383 871106 www.travaglino.it - info@travaglino.it

Abate Nero S.a.s. di de Castel Terlago Eugenio & C. Sponda Trentina, 45 38100 Trento Tel. +39 0461 246566 - Fax +39 0461 247819 www.abatenero.it - spumante@abatenero.it Azienda Agricola Balter S.n.c. di Nicola Balter Via Vallunga II, 24 38068 Rovereto (TN) Tel. +39 0464 430101 - Fax +39 0464 401689 www.balter.it - info@balter.it Cantina Rotari Via del Teroldego, 1 38016 Mezzocorona (TN) Tel. +39 0461 616399 - Fax +39 0461 605695 www.rotari.it - info@mezzacorona.it Cantine Monfort S.r.l. Via Carlo Sette, 21 38015 Lavis (TN) Tel. +39 0461 246353 - Fax +39 0461 241043 www.cantinemonfort.it - info@cantinemonfort.it Cavit S.C. Via del Ponte di Ravina, 31 38123 Trento Tel. +39 0461 381711 - Fax +39 0461 912700 Numero verde: 800 491280 www.cavit.it - cavit@cavit.it Cesarini Sforza Spumanti S.p.A. Via Stella, 9 38040 Ravina (TN) Tel. +39 0461 382200 - Fax +39 0461 382222 www.cesarinisforza.com - info@cesarinisforza.com Azienda Vinicola Fratelli Dorigati S.n.c. Via Dante, 5 38016 Mezzocorona (TN) Tel. +39 0461 605313 - Fax +39 0461 605830 www.dorigati.it - vini@dorigati.it Endrizzi Loc. Masetto 38010 San Michele all’Adige (TN) Tel. +39 0461 650129 - 650148 Fax +39 0461 650043 www.endrizzi.it - info@endrizzi.it Ferrari F.lli Lunelli S.p.A. Via Ponte di Ravina, 15 38123 Trento Tel. +39 0461 972311 - Fax +39 0461 913008 www.cantineferrari.it - info@cantineferrari.it

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IASMA - Istituto Agrario di San Michele all’Adige - Fondazione Edmund Mach Via E. Mach, 1 38010 San Michele all’Adige (TN) Tel. +39 0461 615111 - Fax +39 0461 650872 www.iasma.it - cantina@iasma.it Letrari S.a.s. Via Monte Baldo, 13/15 38068 Rovereto (TN) Tel. +39 0464 480200 - Fax +39 0464 401451 www.letrari.it - info@letrari.it Maso Martis Azienda Agricola Via dell’Albera, 52 38121 Martignano (TN) Tel. +39 0461 821057 - Fax +39 0461 820394 www.masomartis.it - info@masomartis.it Pedrotti Spumanti Via Roma, 2 38060 Nomi (TN) Tel. +39 0464 835111 - Fax +39 0464 830143 www.spumanti.it - info@spumanti.it F.lli Pisoni S.r.l. Via San Siro 7/a - Pergolese di Lasino 38076 Sarche (TN) Tel. +39 0461 564106 Fax +39 0461 563163 www.pisoni.it - info@pisoni.it Azienda Agricola Pojer e Sandri Via Molini, 4 38010 Faedo (TN) Tel. +39 0461 650342 - Fax +39 0461 651100 www.pojeresandri.it - info@pojeresandri.it Azienda Agricola Roberto Zeni Via Stretta, 2 38010 Grumo - San Michele all’Adige (TN) Tel. +39 0461 650456 - Fax +39 0461 650748 www.zeni.tn.it - info@zeni.tn.it


Finito di stampare nel mese di ottobre 2009 presso la Tap GraďŹ che S.p.A. Poggibonsi (Siena) - Italy



E 130,00


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