L' Emilia e la Romagna: terre di vini e confini

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ANDREA ZANFI

CARLO CAMBI EDITORE





A mio padre Aldo e a quel piccolo San Martino in Rio nella piana fra Modena e Reggio Emilia che gli dette i natali.


Carlo Cambi Editore

L’Emilia e la Romagna. Terre di vini e confini di Andrea Zanfi Fotografie: Giò Martorana Coordinamento editoriale e di redazione: Marco Biotti Direzione artistica: Laura De Biasio Collaborazione nella stesura dei testi: Alessandra Bruni Still-life delle bottiglie: Andrea Fantauzzo Traduzione inglese: StudioLingue2000 Fotolito e stampa: Tap Grafiche - Italy Per le foto di pag. 19: mese di agosto (preparazione dei tini) e mese di settembre (vendemmia), provenienti dall’Officium Beatae Virginis, codice membranaceo, manoscritto e miniato; area padana, sec. XIV BCFo, Antico Fondo, Armadio Mss. XVII, inv. 324, un ringraziamento ad Antonella Imolesi, Responsabile Fondi Antichi, Manoscritti e Raccolte Piancastelli della Biblioteca “A. Saffi” di Forlì e ad Ambra Raggi per i crediti fotografici. Per la foto di pag. 22 (affreschi della Galleria di Bacco all’interno del Palazzo Ducale di Sassuolo, Modena), si ringrazia il Ministero per i Beni Culturali e le attività culturali - Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici di Modena e Reggio Emilia. Per la foto di pag. 26 (“Salone dei Mesi”: Marzo - la potatura - Palazzo Schifanoia - Ferrara) si ringrazia la Fototeca Civica del Comune di Ferrara (Foto Ghiraldini-Panini). Ringraziamo il Museo Ettore Guatelli di Ozzano Taro (PR) per aver concesso la possibilità di realizzare lo scatto fotografico di pag. 214215 Un sincero ringraziamento va all’Enoteca Regionale Emilia Romagna per la disponibilità, il sostegno, la collaborazione e l’ospitalità concesse allo staff della Carlo Cambi Editore.

Immagine di copertina: Opera realizzata da Tony Palladino 2002 su idea e commissione di Marco Montanari. La riproduzione anche parziale è proibita. © Copyright Marco Luigi Montanari - Villa Liverzano - Brisighella (RA) - Italy.

Carlo Cambi Editore Via San Gimignano snc 53036 Poggibonsi (Siena) Tel. 0577 936580 - Fax 0577 974147 www.carlocambieditore.it - info@carlocambieditore.it 2010 © Copyright Carlo Cambi Editore Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy I diritti di riproduzione, di traduzione, di memorizzazione elettronica e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi microfilm, copie fotostatiche e cd), nonché l’inserimento in siti internet, sono riservati per tutti i paesi. Prima edizione: novembre 2010 ISBN Versione italiana: 978-88-6403-067-8


ANDREA ZANFI

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Sommario Dove trovare, in terre di vini e confini, l’Italian lifestyle? di Andrea Zanfi

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Emilia Romagna: una viticoltura dell’Etruria settentrionale di Mario Fregoni

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Prospettive dell’enologia emiliano-romagnola nel commercio italiano e internazionale del vino. Nuovi scenari impongono nuove strategie? di Matteo Marenghi

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Dal Grande Fiume all’Adriatico, dalla pianura all’Appennino: una storia di diversità che si confrontano soprattutto a tavola di Andrea Dal Cero

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Pensieri e parole sulla mia terra...

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Ritratti di vignaioli emiliani e romagnoli Altavita Ancarani Ariola Balìa di Zola Berti Stefano Bonfiglio Ca’ di Sopra Calonga Cantine Ceci Cardinali Castelluccio Cavazza Isolani Cavicchioli Cesari Umberto Chiarli 1860 Cinti Floriano Costa Archi Drei Donà - Tenuta La Palazza Fattoria Camerone Fattoria Casetto dei Mandorli - Nicolucci Fattoria Monticino Rosso Fattoria Paradiso Fattoria Zerbina Fattorie Vallona

28 32 36 40 44 48 52 56 60 64 68 74 78 82 86 90 94 98 102 106 110 114 120 124

Ferrucci Folesano Gaggioli Gallegati Isola La Mancina La Stoppa La Tosa Leone Conti Longanesi Luretta Lusvardi Wine Madonia Giovanna Mattarelli Medici Ermete Monte delle Vigne Podere Vecciano Poderi dal Nespoli 1929 Rinaldini - Azienda Moro San Patrignano San Valentino Tenuta Bonzara Tenuta Casali Tenuta di Aljano

128 132 136 140 144 148 152 156 160 166 170 174 178 182 186 190 194 198 202 206 210 216 220 224

Tenuta La Viola Tenuta Masselina Tenuta Pandolfa Tenuta Pederzana Tenuta Pennita Tenuta Pernice Tenuta Santa Croce Tenuta Uccellina Terre della Pieve Tizzano Torre Fornello Tre Monti Trerè Venturini Baldini Vigneto delle Terre Rosse - Vallania Villa Bagnolo Villa Liverzano

228 232 236 240 244 248 252 256 262 266 270 274 278 282 286 290 294


Già da alcuni anni l’enologia emiliano romagnola si è rivelata capace di esprimere prodotti di elevata qualità e di proporli con efficacia sempre maggiore in Italia e all’estero. Oggi, infatti, non siamo soltanto la seconda regione produttrice di vini in Italia, ma stiamo emergendo anche sui mercati europei ed extraeuropei come attore di primaria importanza, capace di coniugare una qualità elevata e prodotti distintivi con prezzi competitivi e una forte organizzazione di filiera. I vini dell’Emilia Romagna oggi sono vini attuali, adatti al nuovo gusto dei consumatori e ad uno stile di alimentazione moderna. In questi anni, i produttori emiliano romagnoli hanno operato un profondo rinnovamento nelle logiche produttive, nelle pratiche di vigna e di cantina e nell’organizzazione aziendale. L’Enoteca Regionale ha promosso i nostri vini tipici con professionalità ed efficacia, con uno sguardo sempre lungimirante sia sul mercato interno che sui mercati esteri. La Regione Emilia Romagna sostiene con convinzione le iniziative di valorizzazione di questo settore così strategico per l’agricoltura regionale, condividendo le modalità di promozione che vedono i vini abbinati agli altri prodotti unici di questa terra: dal Parmigiano-Reggiano al Prosciutto di Parma, dall’ Aceto Balsamico Tradizionale al Culatello, a tanti altri prodotti che fanno dell’Emilia Romagna la prima regione in Italia per numero di prodotti DOP e IGP. Tiberio Rabboni Assessore Agricoltura Regione Emilia-Romagna


Con largo anticipo anche quest’anno ho terminato di scrivere un altro libro su quel fantastico viaggio che sto compiendo, da dieci anni a questa parte, nell’Italia del vino, aggiungendo nuove storie alle centinaia fin qui raccontate nei volumi che compongono la collana editoriale “Le grandi aziende vitivinicole d’Italia”. Non so dire quanti siano i chilometri percorsi, girovagando in lungo e in largo, avviando, in ogni luogo raggiunto, un rituale con cui cerco di dare avvio ad una reale e costruttiva full immersion per tentare di trasformarmi, di volta in volta, in piemontese, lombardo, friulano oppure in marchigiano o ancora, compito più arduo, in siciliano o anche, come in questo caso, in emiliano o romagnolo, con il risultato, ahimé, di non esserci mai riuscito. Del resto, da toscanaccio quale sono, so bene che è impossibile riuscire in un compito del genere e, per quanto mi sforzi di pensare, mangiare e muovermi con cadenze e abitudini che appartengono ad altri italiani, non sono mai stato capace di assomigliare a nessuno di loro. Questo, però, non ha mai pregiudicato il mio procedere, con il quale ho indagato, riconoscendo ad ognuno di questi viaggi, lunghi, faticosi e difficili, il merito di risultare fantastici e tutti da ricordare, proprio per quelle peculiari caratteristiche che ho percepito nel mettermi in contatto con il variegato mondo di vignaioli che andavo incontrando, composto da infinite tipologie di uomini, soprattutto italiani, tutti diversi, più o meno acculturati, borghesi, imprenditori o contadini, divisi fra chi opera in pianura e chi in collina, chi al Sud e chi al Nord d’Italia, ognuno con le sue idee e con le sue filosofie produttive, diverse da quelle del confinante, con una storia da raccontarmi e una tradizione da rappresentarmi in quelle poche ore che trascorro in loro compagnia. Uomini e donne splendidi, con i quali

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ho parlato e, qualche volta, discusso animatamente, con quell’indole polemica tutta toscana che un po’ mi contraddistingue, vivendo insieme a loro incredibili momenti di condivisione che mi hanno fatto sentire, alla fine di ogni viaggio, soddisfatto di aver appagato sia la mia innata curiosità verso l’altro, sia il mio desiderio di comprendere quale fosse il legame che li unisce al territorio in cui essi operano. È stata una ricerca difficile, selettiva e complessa, quella che ho attuato in ogni territorio, con l’intento di stilare, poi, un elenco di aziende da menzionare nei volumi che scrivo, menzioni che premiassero solo quei vignaioli che condividono con me l’idea costruttiva di indirizzare le loro energie produttive verso una sempre maggiore “obbedienza alla terra”, al fine di farla tornare al centro del loro agire e del loro pensare, riacquisendo così, di fatto, il ruolo di veri custodi e ambasciatori del patrimonio vitivinicolo, ambientale, culturale e tradizionale, al quale ognuno di essi appartiene. Un compito non facile, poiché, fra tanti, ve ne sono moltissimi, anzi forse i più, ancora impacciati non solo nel


costruire il loro terroir, ma anche nel definirne i contenuti e il suo stesso significato; terroir a cui dovrebbero ispirarsi invece che limitarsi al “semplice” compitino d’imprenditore vitivinicolo che, però, pur combaciando molte volte anche con una buona produzione enologica, non lo pone in equilibrio con il contesto in cui opera, rendendolo, di fatto, non rappresentativo dello stesso. Al contrario, quando mi trovo, invece, al cospetto di personaggi che contribuiscono non solo a custodire, ma anche ad arricchire quel patrimonio ambientale, culturale e tradizionale che li circonda, mi esalto e, ispirato, cerco di raccontarli, narrando come le fortune, i successi, le speranze, le capacità, la lungimiranza, la rigidità intellettiva e morale e l’apertura creativa che sono dosate in quantità diverse e contraddistinguono ognuno di essi, non solo hanno contribuito a cambiare le loro vite e i microcosmi imprenditoriali che gestiscono, ma hanno dato impulso al sistema vitivinicolo con il quale si raffrontano e con cui interagiscono giornalmente, riuscendo, con il loro saper fare, a costruire una differenza fra loro e il territorio, esaltando l’immagine del comparto vitivinicolo regionale a prescindere dai vitigni e dalle tipologie di vini prodotti per i quali sono conosciuti a livello locale, nazionale o internazionale. Viaggi con i quali ho appreso quale sia il reale stato dell’arte di tante zone produttive vitivinicole italiane, ognuna delle quali ha contribuito a completare una mia più ampia visione del sistema vino che esiste, oggi, nel nostro Paese. Quelle che troverete in questo libro sono un limitato, ma rappresentativo numero di aziende che vi voglio far conoscere attraverso delle storie descritte in punta di matita come semplici appunti di viaggio, con cui ho provato a raccontarvi l’impatto con una regione come l’Emilia Romagna che ho trovato molto più bella e complessa di quanto immaginassi all’inizio e, per questo, anche molto difficile da narrare. Difficoltà dovute un po’ a quell’innata riservatezza che tutti mi hanno dimostrato da queste parti e un po’ al fatto che non si capisce mai quali siano le reali forze che interagiscono in questa regione, se più quelle politiche, economiche, culturali o sociali. Così, da Piacenza mi sono ritrovato a Rimini e dai Lidi Ferraresi, lungo il Reno, a Sasso Marconi, muovendomi su e giù per fantastiche colline o attraverso l’opulenta Pianura Padana che, amichevolmente, ho ribattezzato “la Piana”, compiendo un viaggio a ritroso nelle mie origini, soprattutto quando mi sono ritrovato ad abbracciare la terra che ha dato i natali a mio padre e ritrovando, in molti dei miei interlocutori, lo stesso carattere fiero che lo contraddistingueva, oltre a quella schiettezza, bontà d’animo e sincera passione per la natura e l’amorevole attaccamento per tutto ciò che gli ricordava le sue radici, facendomelo, spesso, accostare all’uomo più agreste fra gli urbanizzati che io conoscessi e, contemporaneamente, anche al più raffinato fra i campagnoli che io abbia mai frequentato e amato in vita mia. Una terra che, seppur conosciuta da fanciullo, quando venivo a trovare i suoi fratelli a San Martino in Rio, per anni ho dimenticato o solo attraversato troppo velocemente per riuscirne a visualizzare le reali bellezze paesaggistiche, monumentali e storiche e capire quanta complessità culturale vi fosse in quel dinamismo imprenditoriale tipico di tutta la sua gente. Avevo solo una grande infarinatura di questa regione e, pur conoscendo molte delle etichette che ho poi degustato nelle varie aziende, non pensavo di trovare una così accentuata biodiversità nella produzione enologica o, pur conoscendone le strade e avendo visitato molte sue città, tutto mi è sembrato una grande sorpresa. Allo stupore, con il passare delle settimane, si è aggiunta anche la comprensione delle trame sottili con cui sono delimitati i territori vitivinicoli; trame che

non riguardano gli aspetti pedoclimatici che, comunque, esistono, ma altri e più sottili confini, quasi immaginari, che mi hanno dato una più complessa visione d’insieme del mondo del vino di questa regione che va ben oltre quello rappresentato, nell’immaginario collettivo, dell’Emilia come terra di Lambrusco o vini frizzanti e della Romagna come terra di Sangiovese e vini fermi. Le divisioni sono più ampie di quanto possano dare a vedere le aree vitivinicole, dove, purtroppo, le terre vocate all’Albana o a vitigni come il Pignoletto, la Barbera, la Bonarda, il Pagadebit o quelle del Centesimino, del Bursôn, del Lambrusco e del Sangiovese non esistono più e quei vitigni si sono mischiati ad altri e, dovunque si vada, tutti producono tutto. Le divisioni che dovevo quindi ricercare e che ho riscontrato riguardano prima di tutto gli aspetti culturali e non solo fra emiliani e romagnoli, ma fra piacentini, parmensi, reggiani e modenesi, fra bolognesi, faentini, forlivesi, cesenati e riminesi, oltre che fra ravennati e ferraresi. Diversità che, comunque, mi hanno incuriosito, riconoscendo loro il merito di dare una forte unicità e un imprinting caratterizzante anche alla produzione enologica. Diversità che si fondano su elementi storici ed economici e che prendono origine dai ducati liberali d’influenza francese di Piacenza, Parma e Reggio o dalla potente e agguerrita Modena, oppure dalla cattedratica Bologna o dalla contadina Romagna oltre che dalla “lombarda” Ferrara. Stati che fino a centocinquant’anni or sono erano ancora vivi e ben presenti nella vita quotidiana di queste genti. Un viaggio durato mesi che, seppur studiato a tavolino, con largo anticipo, mi ha visto concretamente correre su e giù, per quasi tutto il tempo, lungo quella Via Emilia sulla quale sono passati torme di saltimbanchi e gladiatori, carri pieni di statue e di leoni, di processioni, di santi e prigionieri, labari e stendardi, aquile e gonfaloni, reliquie e governanti, macchine da guerra e d’industria, anfore e cannoni, scialli e corazze, oltre ogni varietà di uomini e di cose, soavi e nauseanti, ignobili e sublimi. Un’arteria consolare che, ieri come oggi, pulsa più che mai, nonostante l’autostrada le passi poco distante, e sulla quale

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scorre il traffico domenicale dei turisti che, distratti, si guardano intorno andando verso il mare. Anch’io sono stato, per molte settimane, uno dei tanti che è passato su quella Via, fermandomi a mangiare nelle mitiche trattorie che tanto la caratterizzano, trovandomi al fianco di nobili contadini e insigni imprenditori, condividendo con loro quella genuina e sana atmosfera che si respira ovunque si mettano i piedi sotto un tavolo e si usi la forchetta. Questa è una terra fertile e generosa - anche se contaminata da coltivazioni intensive e da allevamenti di mucche, maiali e polli in batteria - consacrata verso tutto ciò che riconduce ad autentici e genuini sapori. Terra di ospitalità antica, mai gratuita, ricca di gente schietta, semplice, di rado grossolana, anche se, ultimamente, un po’ troppo imborghesita. Una terra di personaggi famosi, musicisti, poeti, sognatori solitari, di matti e beati, di grandi ballerini e orchestrali, di belle e affascinanti donne, di motori, di ciclisti, marciatori e maratoneti, di lavoratori stoici e orgogliosi, di cooperative rosse e bianche; una terra strana che ha dato i natali prima a dei gerarchi e poi a sindacalisti e comunisti. È una terra ricca e solidale, che ho scoperto distaccata verso il forestiero, godereccia, laica e baciapile, geniale e conformista. Così la descrivevano maestri letterati ed è così che l’ho trovata, stupenda nel suo insieme, ma, paradossalmente, priva di un amalgama proprio, poiché le mille eccellenze e le tante unicità produttive che la caratterizzano, pur facendo brand in modo autonomo, non sono riuscite a costruire, fino ad oggi, un’insieme e un’identità a questa regione. Anche nel vino vi sono mondi contrapposti che rispecchiano le scelte politiche effettuate in passato, le quali hanno stimolato, stranamente, la coltivazione della vite non in collina, dove, invece, avrebbe dovuto avere il suo habitat naturale e la sua massima espansione, ma più nella Pianura Padana, dove sono state incentivate produzioni intensive. Così, da una parte vi è “l’industria” delle cooperative e, più in alto, l’artigianato delle piccole imprese familiari, che mi sono maggiormente soffermato ad osservare, scoprendo come quello straordinario sistema vitivinicolo pedemontano abbia enormi margini di miglioramento. Da Piacenza, lungo la Via Emilia e per quasi 290 km più in giù, fino a Rimini, lungo tutto l’asse appenninico che delimita la regione a Sud e ad Ovest, ho visitato diverse terre da vino e, su tutte, ho trovato dei vignaioli ancora oggi in possesso di quello spirito pionieristico che caratterizzava un po’ tutta la viticoltura italiana negli anni Settanta, quando si incominciò a percepire il senso del nuovo e il reale valore di un rinascimento enologico che emetteva i suoi primi vagiti. Non so se sia stato l’ambiente, il paesaggio o i ritmi meno frenetici, ma, dovunque andassi, mi trovavo al cospetto della prima, unica e vera generazione di vignaioli, cioè di chi fa solo questo di mestiere. Tutti, uomini o donne, ricchi di una vitale energia e di una grande volontà di voler fare il loro sublime mestiere proprio su quelle terre che, per decenni, avevano visto l’unico esodo migratorio subìto da questa regione, che ha spopolato i colli per rifocillare la fame dell’industria della “Piana”; colli che, personalmente, trovo fantastici, pur percependo come lì sia tutto

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più complesso che da altre parti, poiché a quei vignaioli non basta fare vino e per loro non è sufficiente neanche farlo buono, poiché ciò che realizzano deve essere necessariamente accompagnato da un’originale intraprendenza e da molto coraggio al fine di sopperire alle difficoltà che comporta produrlo su terre sconosciute ai più. Guardandoli negli occhi sono arrivato a pensare che possedessero quella genuina filosofia dei pionieri d’altri tempi, la stessa che spingeva i coloni verso la “frontiera”, oltre la quale ritrovavano la speranza di un mondo nuovo da costruire: questa era la loro linea immaginaria oltre la quale l’ipotetico poteva diventare realtà. In ognuno di loro ho visto la voglia di andare avanti, nonostante le contingenti difficoltà, cercando, con ogni mezzo, di far fronte alla sfida lanciata a quelle grandi cooperative che commercializzano altri Sangiovese o Lambrusco a pochi euro. Sfide fra chi cerca di fare un percorso di qualità nelle terre di collina e chi cerca il proprio nelle terre di pianura, quelle, per intenderci, dove si sono sviluppati i “Galassi”, i “San Crispino” e altri marchi, più o meno noti, capaci di promuovere con i loro brand una diversa enologia, fatta di milioni di bottiglie e altrettanti milioni di confezioni di vino in tetrapack. Ma i due elementi enologici che più di ogni altra cosa mi hanno sorpreso, oltre naturalmente al grande “Sangiovese”, che qui tocca punte d’eccellenza stupefacenti, sono il Pignoletto dei Colli Bolognesi che, spero, possa presto assurgere al valore di grande bianco, dando un nuovo impulso e implementando tutto il sistema vitivinicolo regionale, e anche il Lambrusco; un vino, quest’ultimo, che per decenni ha ricevuto giudizi poco lusinghieri da parte della critica specializzata che lo ha sempre messo in secondo piano rispetto a quei prodotti opulenti che, per decenni, sembravano essere il punto di riferimento per tutti. Invece, grazie all’innovazione e all’arguto pensiero evolutivo dei suoi produttori, si è sempre più affermato sui mercati internazionali, tanto da essere oggi il vino italiano più venduto nel mondo. Dopo mesi, quasi alla fine del mio viaggio, ho scoperto che questa è una terra unica, per conoscere la quale ho stretto forte la mano a chi la vive, bevendo con loro un bicchiere di vino, standomene quieto ad ascoltare quel loro dialetto musicale, senza dover scrivere, come d’abitudine, degli appunti. Una terra di confine, posta fra il Nord e il Sud d’Italia, per conoscere la quale invito tutti a dedicarle il tempo necessario, in modo da poter scoprire il fascino di camminare sotto i portici delle sue città ducali, comprendendo, nella bella mostra delle sue vetrine e in quel vivere civile che caratterizza la quotidianità di questi emiliani o romagnoli, quale sia il significato vero di ciò che altri definiscono “qualità della vita”. Questa è la terra di Giuseppe Verdi, Alfredo Pazzini, Marino Moretti, Renato Serra, Alfredo Oriani, Vincenzo Monti, Federico Fellini; questa è una terra dove la tradizione e la memoria del passato rendono il presente già futuro. Questa è una regione fra le più dinamiche del mondo che ha, di fatto, il primato italiano come Bil, “benessere interno lordo”, e secondo me, rappresenta nella maniera migliore quell’Italian lifestyle che tutti vanno cercando e che, invece, è solo qui, in Emilia Romagna. Andrea Zanfi


L’inquadramento produttivo

Per importanza produttiva l’Emilia-Romagna è la seconda Regione viticola su scala nazionale, dato che nel 2007 il Veneto ha prodotto 7.679.000 ettolitri di vino, mentre l’Emilia-Romagna si è attestata sui 5.757.000 hl circa. Terza viene la Puglia con circa 5,4 milioni di hl e quarta la Sicilia con circa 3,9 milioni di ettolitri. Nella produzione di vini a denominazione di origine l’Emilia Romagna non si conferma al secondo posto: il Veneto è sempre primo con circa 2,5 milioni di hl, il Piemonte è secondo con 2,2 milioni di hl, la Toscana è terza con quasi 1,6 milioni di hl, l’Emilia-Romagna è comunque quarta con oltre 1,4 milioni di hl. Rispetto alla produzione regionale, questo dato rappresenta solo il 24,4%, mentre nel Trentino-Alto Adige le DOC rappresentano l’87,6% della produzione, in Piemonte l’81,1%, in Lombardia il 72,2%, nel Friuli-Venezia Giulia il 64,6% e così di seguito. L’Emilia-Romagna possiede pertanto molti vini da tavola, IGT e di marca. Tuttavia le statistiche Federdoc rivelano che dal 1998 al 2007 la produzione DOC dell’Emilia-Romagna è incrementata da circa 1 milione di hl a 1.407.000 hl. Le zone viticole: la pianura emiliano-romagnola

Un po’ di storia

Solo la storia viticola regionale meriterebbe un volume, ma qualche cenno può essere sufficiente a dimostrare che la viticoltura di queste terre risale ai tempi antichi, come rivelano i vinaccioli ritrovati in molti scavi di antiche palafitte del territorio. I ritrovamenti di antichi vinaccioli a Fontanellato (PR) del IX sec. a.C., a Casteldebole (BO) del IX-VIII sec. a.C. e a Cures Sabini (RM) dell’VIII-VII sec. a.C., sono considerati prove di interesse viticolo e di consumo del vino presso i popoli primitivi della Regione Emilia-Romagna. Senza tema di smentita si può affermare che lo sviluppo maggiore della prima viticoltura si ebbe con la civiltà etrusca, che ha lasciato tracce ed eredità indelebili giunte sino ai giorni nostri, come le storiche alberate, con la vite maritata all’olmo, all’acero e a tante altre piante arboree che fungevano da sostegni vivi. Quelli morti erano usati solo nella Magna Grecia, ossia nell’Italia meridionale. Gli Etruschi sono giunti nella Regione circa nove secoli a.C., ma contrariamente ai Greci che hanno colonizzato il sud, non erano grandi viticoltori e praticavano una potatura saltuaria di rimonda del secco, molto lunga e ricca, cioè con molte gemme e tanti grappoli. La pianura emiliana era particolarmente ricca di alberate mentre in Romagna il gelso e altri sostegni vivi sostenevano le pergole ai bordi dei campi. Ai tempi dell’imperatrice Galla Placidia (390-450 d.C.), Attila (detto il flagello di Dio), dopo avere bevuto l’Albana esclamò: “sei degna di berti in oro”, da cui l’origine del nome Bertinoro, cru famoso dell’Albana. A Piacenza è stata trovata l’anfora romana “Gutturnium” con la quale Cesare avrebbe bevuto l’antesignano del Gutturnio. La viticoltura piacentina, contrariamente alla restante parte etrusca emiliana, ha avuto tuttavia origini greche, dopo la fondazione di Massalia (Marsiglia), sei secoli a.C. da parte dei greci focesi. Famoso è anche il fegato etrusco in bronzo di Settima (Piacenza), del II secolo a.C., che riporta più volte il nome Fufluns, dio del vino etrusco (corrispondente al Bacco romano e al Dioniso greco).

La viticoltura della Regione Emilia-Romagna si può suddividere in due grandi aree: quella di pianura e quella di collina. La prima è quella che produce la maggiore quantità di vino e comprende la zona storica emiliana etrusca dei Lambruschi, nonché quella del Trebbiano in Romagna. I Lambruschi sono i vitigni più antichi della Regione, sicuramente di origine etrusca e in ogni caso geneticamente più prossimi alla vite selvatica o Vitis silvestris, dalla quale sono stati selezionati. I Lambruschi sono varietà più resistenti alle malattie rispetto alle varietà selezionate e gentili di origine greca, in particolare. I Lambruschi sono le varietà emiliane più conosciute al mondo, anche se gli stranieri li confondono con la vite americana Labrusca, originaria del nord-ovest USA e che ha dato varietà come l’Isabella o Uva fragola, la Concord e ibridi come il Clinton, ecc. I Lambruschi emiliani appartengono invece alla Vitis vinifera, ossia alla specie di origine asiatica selezionata in Europa, al punto da essere chiamata vite europea. È pur vero che gli antichi georgici romani (Plinio, ecc.) chiamavano Labrusca o Lambrusca la Vitis silvestris (Fregoni, 1981), donde la confusione americana, dove hanno battezzato la loro specie come Vitis Labrusca, ovviamente dopo il 1492, mentre quella Europea ha circa 2.000 anni di coltivazione. I francesi hanno sempre denominato Lambrusques le varietà originate dalla Vite selvatica, come in Emilia. I Lambruschi sono, pertanto, i vitigni più originali dell’Emilia e sono una famiglia numerosa; vale la pena di elencarli iniziando dai tre che danno il nome anche alle rispettive DOC: Lambrusco di Sorbara, Lambrusco Grasparossa, Lambrusco Salamino di S. Croce. Al registro ampelografico nazionale sono iscritti anche i seguenti vitigni: il Lambrusco Maestri, il

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Lambrusco Marani, il Lambrusco Montericco, il Lambrusco Oliva. L’area dei Lambruschi va da Parma a Modena, con forte concentrazione nel Reggiano. Vi sono infine Lambruschi nel Trentino e nel Mantovano, di minore rilevanza economica. Sempre nella pianura emiliana si trova il vino del Reno (da non confondere con quello tedesco) elaborato con il vitigno Montuni. Nella pianura della Romagna esiste la zona del Trebbiano romagnolo, varietà che fa parte di una famiglia di Trebbiani, estesi in molte regioni italiane, tra i quali il più famoso è il Trebbiano Toscano, conosciuto nel mondo come Ugni blanc, perché così ribattezzato dai francesi, dal quale ottengono i distillati di vino dai nomi famosi, Cognac e Armagnac. Il Trebbiano romagnolo è un vitigno geneticamente distinto dai confratelli italiani e dà origine alla DOC Trebbiano di Romagna, di consistente estensione e produzione. Lungo il litorale ferrarese sino ai confini con il ravennate, esiste un terroir particolare che produce i vini delle sabbie della DOC Bosco Eliceo, spesso con viti franche di piede della varietà Fortana o Uva d’Oro. La collina viticola

Come estensione la viticoltura di collina è sicuramente meno importante, ma la qualità è molto più complessa, distinta e sicuramente superiore a quella di pianura, che prevale come importanza economico-sociale, per le sue numerose cantine sociali e private, formata da aziende più consistenti per ettaraggio. La collina, al contrario, è basata su molte piccole aree e produzioni limitate, non paragonabili ai Lambruschi e al Trebbiano di Romagna. Iniziando a nord dai Colli Piacentini, va richiamata la tradizione grecoromana della zona, che trova nel Gutturnio il vino principe dei colli, frutto dell’uvaggio fra Barbera e Bonarda (=Croatina) nella proporzione di circa il 60 e 40%. L’acidità del Barbera è da secoli ammorbidita dalla Bonarda, che ha un tannino dolce e un colore vivacissimo. Si coltiva da qualche anno anche l’incrocio Barbera x Bonarda di Fregoni, denominato ERVI, che dovrebbe sostituire parzialmente i due vitigni storici. Fra i bianchi vanno rammentati l’Ortrugo, vitigno già noto a Bobbio ai tempi di San Colombano (circa VI secolo d.C.), diffuso in particolare in Val Trebbia, forse la patria di origine del Trebbiano oggi definito romagnolo, presente anche sui Colli piacentini. Infine la Malvasia di Candia aromatica del piacentino è il vitigno più aromatico fra le 17 Malvasie presenti in Italia. La stessa Malvasia produce sui Colli di Parma un fine bianco apprezzato nella città ducale, assieme al Sauvignon e al rosso, anch’esso frutto di uvaggi fra Barbera, Bonarda e altre varietà. Nei Colli di Scandiano e Canossa si ottengono ottimi bianchi a base di Sauvignon, mentre nei Colli Bolognesi va segnalato l’ottimo bianco Pignoletto, unitamente ai rossi a base dei vitigni bordolesi Cabernet e Merlot. Verso la Romagna si producono prelibati rossi sui Colli di Imola e di

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Faenza, ma il grande rosso romagnolo puro sangue della collina rimane lo storico Sangiovese di Romagna. Alcuni autori locali (Dolcini, Zavoli) hanno sostenuto che il Sangiovese è originario della Romagna, contrariamente al pensiero generale che lo reputa un vitigno selezionato in epoca etrusca in Toscana. Le ricerche sul DNA pongono, tuttavia, in dubbio anche questa ipotesi, perché uno dei genitori è toscano (il Canaiolo), mentre l’altro (il Calabrese) si dice campano. Ad ogni buon conto è risaputo che la Romagna ha fornito molti ottimi cloni di Sangiovese alla ricostituzione viticola della Toscana, che attualmente predominano nei vigneti dell’Etruria centrale. La gemma preziosa della collina a sud della Regione è comunque l’Albana di Romagna che, nella tipologia passita, vanta radici storiche antiche ed è l’unico vino DOCG della Regione. L’originalità dell’allevamento viticolo regionale Per gli esperti viticoli e di paesaggio indubbiamente l’Emilia, soprattutto, ma anche la Romagna, rappresentano segni di identità di un territorio viticolo che discende dalla storia etrusca. Gli etruschi seppero adattare la vite anche nelle plaghe umide di pianura, nelle quali l’uva marciva per gli attacchi di Botrytis. La fecero salire sugli alberi per distanziarla dall’umidità prossima al terreno e così riuscirono a produrre vino. La vite era inoltre coltivata ai bordi dei campi e le alberate venivano collegate fra loro con le “tirelle” (lunghi cordoni permanenti), sia nel senso del filare che in traverso, sopra i campi coltivati a frutta, a cereali, a prati, a ortaggi, ecc. Era un’agricoltura promiscua stratificata, dove il sostegno vivo produceva le foglie per la lettiera degli animali. Da queste alberate sono derivati i Raggi (o Belussi), perché i cordoni permanenti delle viti erano tirati a raggiera al centro dei campi. Come nel caso delle alberate ogni sostegno aveva attorno 4 ceppi di vite. “I cordoni a raggiera sono come lunghe braccia che vanno verso la luce del sole”, così si espresse il Prof. J. Branas, eminente studioso francese di viticoltura. Attualmente i vigneti vengono allevati a spalliera alta ed espansa (cordoni orizzontali a tralci penduli) con strutture adatte alla meccanizzazione, sia della potatura che della vendemmia. La viticoltura della pianura emiliana si può oggi condurre con circa 100 ore/ettaro di lavoro, mentre quella della collina, allevata a spalliera bassa (Guyot, Cordone speronato basso) con elevate densità di piante a ettaro, richiede mediamente il triplo delle ore di lavoro. I vini rispecchiano le due macrozone viticole dell’Emilia-Romagna, perché la pianura produce vini più leggeri e beverini, mentre la collina ha spesso vini più strutturati, eleganti e persistenti all’olfatto e al gusto. Tuttavia la tecnologia tende ad approssimare le categorie dei vini delle due macroaree, in quanto sempre più spesso il Lambrusco assomiglia al più corposo Gutturnio dei Colli Piacentini. Infine: l’Emilia-Romagna è la patria dei vini frizzanti (rappresentati dai Lambruschi in particolare), caratteristica che accomuna i vini della pianura e della collina, da nord a sud della Regione. Sono frutto di una lunga tradizione locale, che tuttavia spesso non trova consensi nelle altre regioni italiane e all’estero. Mario Fregoni Presidente Onorario dell’OIV


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L’Emilia Romagna è lunga, varia, vasta e diversificata. Ed è diversa l’Emilia dalla Romagna, per economia, struttura produttiva e sociale, e anche per la storia, dato che ad est di Bologna (è questo il confine) non si è vissuta l’Italia dei Comuni. Queste, per secoli, sono state terre pontificie. Dal punto di vista economico, l’Emilia è terra di medie e grandi industrie, in Romagna prevalgono turismo, agricoltura ed artigianato. C’è comunque un solido legame che unisce (dal 187 a.C.) i due estremi, Piacenza e Rimini, ed è la Via Emilia, lungo la quale tutto si collega. Strada consolare romana fra le più famose, delimita e separa, contemporaneamente, anche la pianura dalla collina; la prima a nord dell’arteria, la dorsale appenninica (che parte immediatamente) a sud. Da Piacenza a Rimini di certo i prodotti agroalimentari e le tradizioni cambiano notevolmente; lo stesso fanno i vini, e una gamma così ampia è la forza della regione, ma anche motivo di non facile identificazione nei confronti del consumatore. E i contrasti enoici si amplificano nel tessuto produttivo, con la convivenza di grandi gruppi cooperativi e di una miriade di piccoli produttori, alcuni impegnati nei segmenti più alti della qualità. La regione, nel suo insieme, è comunque indubbiamente una “terra da vino”, rappresentando circa ben l’8% del vigneto Italia e producendo, pur con le immancabili oscillazioni annue, quasi sei milioni e mezzo di ettolitri di vino (anno 2009) ovvero il 13% della produzione nazionale. Eppure, soprattutto all’estero, quando si pensa ad una regione vitivinicola italiana si pensa alla Toscana, al Piemonte, alla Sicilia, ma non all’Emilia Romagna. I numeri del vino

I due terzi del vino prodotto in regione sono Dop e Igp e predominano le tipologie rosso o rosato. La provincia che produce la maggiore quantità di vino Dop è Modena (480.000 ettolitri, 28% della produzione Vqprd regionale). Se si esamina invece la “densità” di produzione di Vqprd nelle diverse province, sono Piacenza e Rimini a fare la parte del leone, rispettivamente con un 75% e un 70% di vino Dop sul totale prodotto. I trend produttivi raccontano una storia di conversione sempre più decisa verso la “qualità certificata”; nel 2009 (dati Enoteca Regionale dell’Emilia Romagna) a trainare la crescita del 10% registrata rispetto al 2008 sono stati infatti l’aumento del 17% relativo ai vini Vqprd e quello del 10% relativo ai vini Igp; il prodotto non ad indicazione è avanzato invece di un 6%. L’Emilia Romagna esporta vino per 239 milioni di euro in 91 paesi del mondo; principale partner commerciale è la Germania, che assorbe oltre 1.500.000 ettolitri, pari al 49% dell’export regionale, seguita da Stati Uniti e Spagna. Nei confronti di questi paesi le esportazioni emilianoromagnole hanno dimostrato una buona tenuta, grazie anche al loro rapporto qualità/prezzo, un punto di forza che diventa particolarmente importante per orientare le scelte del consumatore in una congiuntura economica come quella attuale. La vocazione “emiliana”

Si parla di Emilia e si pensa alla sua cucina gustosa, semplice nelle materie prime, ma elaborata nei sapori. Una cucina cordiale, saporita

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e ospitale, specchio della gente di questa terra. Non a caso il vino che “tradizionalmente” vi si produce è frizzante, brioso, semplice e, per questo, buono. Si narra che il vino è tale per abbinarsi alla cucina, grassa e ricca, che abbisogna di vini beverini capaci di rinfrescare il palato; è una spiegazione piacevole e logica, ma non corretta. I vini sono “tradizionalmente” frizzanti perché in Emilia (meno in Romagna) naturalmente completavano la fermentazione in bottiglia, non riuscendo a svolgerla (per l’abbassarsi delle temperature autunnali, per la presenza di ceppi di lieviti indigeni non estremamente tolleranti l’etanolo...) tutta nelle vasche di fermentazione. Oggi questa “frizzantatura” è invece cercata ed ottenuta con la tecnologia, tramite rifermentazione in autoclave. In tutte le Dop emiliane, da Piacenza a Bologna passando per l’apoteosi delle bollicine che è il regno dei Lambruschi di Modena e Reggio, non mancano mai versioni vivaci, frizzanti (spesso quantitativamente predominanti) o spumanti. Questa regione detiene l’80% dell’intera produzione italiana di frizzanti (che, non dimentichiamolo, a sua volta rappresenta l’80% della produzione dei frizzanti mondiali). In Emilia nascono quindi oltre il 60% dei vini frizzanti del mondo! Quando questa tecnica incontra vitigni quali la Malvasia di Candia aromatica, i Lambruschi, il Pignoletto o la Fortana, nascono vini fragranti di profumi primari, floreali e fruttati. Salvo eccezioni, comunque anche i vini fermi sono consumati giovani, esaltando l’immediata e piacevole bevibilità. Per queste caratteristiche, molti dei vini regionali sono da un lato oggi assolutamente trendy e rispondenti alle richieste di un consumatore che oramai rifugge dai vini iperconcentrati, soverchiati dal legno ed eccessivamente alcolici, dall’altro ideali per la conquista di mercati emergenti, per il più facile approccio organolettico e, inutile negarlo, per il prezzo più abbordabile. Eppure né l’una, né l’altra caratteristica sono ancora messe adeguatamente a frutto. Una regione ricca di innovazione

L’Emilia Romagna, nel suo complesso, è comunque una regione enologicamente in fermento e portata verso la sperimentazione. In Romagna si punta senza tentennamenti sul Sangiovese, il più diffuso fra i vitigni italici rossi, che diversi studiosi ritengono aver avuto qui i natali, e sull’Albana, vitigno bianco la cui versione passita è la più meritevole di nota. Il Trebbiano è comunque di gran lunga il vitigno più presente in regione, con concentrazione massima nel ravennate, ed origina soprattutto vini beverini, secchi ed aciduli, di non elevata gradazione alcolica. Tornando al Sangiovese, considerata l’indiscutibile maggior fama dei produttori toscani con un modello di vino spesso più impegnativo, appropriate paiono le più recenti scelte aziendali romagnole che puntano sulla vinificazione in purezza e su un affinamento che, per esaltarne il frutto, la freschezza e l’acidità, non prevede il legno. Ovviamente vi sono anche tanti esempi di ottimi Sangiovese di Romagna invecchiati in legno ben apprezzati dal mercato. All’altro estremo, a Piacenza, si scommette invece da tempo sul Gutturnio, uvaggio di Croatina (localmente detta Bonarda) e Barbera. Un vino beverino, ma “di sostanza”, che però non ha risolto la dicotomia fra la versione ferma, a volte anche invecchiata, e quella frizzante e d’annata, faticando

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quindi ad affermare un’immagine univoca di sé. Altro punto fermo di Piacenza è la Malvasia di Candia aromatica, con espressioni che coprono tutti i segmenti dal frizzante allo spumante e dal secco al dolce, passando per interessantissimi passiti. La Malvasia, seppur su di un ettarato ben più ridotto, la si trova anche a Parma, assieme al Sauvignon. Ma il cuore dell’Emilia enologica è dato dal Lambrusco, questo sì forte di un’immagine più definita nella tipologia; frizzante (qualche volta spumante) e rosso (in crescita pure il rosato, però). Anche se segnato da un ampio range di variazione qualitativa (con rari, ma infelici esempi di “bianco Igp” destinati al mercato inglese) si tratta indubbiamente di un prodotto con caratterizzazioni uniche e conosciuto in tutto il mondo. Il vero cambiamento di rotta su questo vino è stato, negli ultimi anni, l’adozione di severi principi di qualità, soprattutto in vigna (forme di allevamento e rese). Discorso a parte merita il ferrarese, dove, nelle limitate plaghe sabbiose del Bosco Eliceo, nascono appunto i cosiddetti “vini delle sabbie”, capitanati da quella Fortana beverina che ottimamente si abbina all’anguilla delle Valli di Comacchio. Non mancano poi, in ogni territorio emiliano-romagnolo, vinificazioni innovative o recuperate dal passato, di vitigni autoctoni quali Uva Longanesi, Ortrugo, Lancellotta, Montù, Cagnina, o l’oramai famoso Pignoletto, ben valorizzato sulle colline di Bologna e non solo. Assieme a queste varietà convivono, senza problemi, le internazionali, quali Cabernet, Merlot, Pinot, Chardonnay, Sauvignon, diffuse un po’ ovunque, ma non raramente interpretate secondo le tradizioni enologiche locali. Altro fenomeno da rilevare è il crescendo di riconoscimenti per i vini emiliano-romagnoli da parte delle principali Guide del Vino italiane, sempre troppo poco interessate ad una regione che, come si diceva, non ha mai creato un mito della sua produzione. Le aziende regionali recensite sono infatti salite da una media di 47 nel 2002 a 96 nel 2009. Oltre ad una maggiore affermazione nel panorama dei vini di qualità nazionali, per queste produzioni ci sono poi indubbiamente tanti spazi da occupare in mercati nuovi (e nuovissimi) quali Nord Europa, Gran Bretagna, Irlanda, Austria, Russia, Giappone, Hong Kong, Cina, Malesia… e, fortunatamente, ci sono anche gli strumenti per farlo, data la presenza quarantennale (è nata nel 1970) dell’Enoteca Regionale Emilia Romagna che, con un’accelerazione negli ultimi anni, si è dimostrata in grado di guidare efficacemente numerose spedizioni commerciali dei produttori e di organizzare incontri con buyer e operatori. Lo scenario del prossimo futuro

Venendo a prospettive ed analisi più ampie, è superfluo ricordare come viviamo in questi ultimissimi anni un periodo di grande incertezza, enfatizzata dalla recente crisi economico-finanziaria che ha fiaccato tutti i paesi industrializzati del mondo. Ovviamente le ripercussioni sono fortissime in tutti i settori, e non sono solo nel vino; qui, però, il colpo lo si accusa più pesantemente, perché la programmazione nel medio-lungo periodo è obbligatoria, dato il ciclo di vita e l’onerosità dell’impianto di un vigneto, ed oggi latita. Di certo, complici diversi fenomeni, in tutta Europa si assiste da anni ad un ridimensionamento del vigneto; e l’Italia non fa eccezione, anzi. È infatti nel nostro paese in atto una riduzione dell’ettarato vitato nazionale (con stime che ne prevedono una forte accelerazione nel decennio prossimo), anche grazie al finanziamento all’abbandono dei vigneti contemplato nell’Ocm già in vigore. Saranno più interessate regioni come la Puglia e la Sicilia, da anni in sofferenza, ma anche il Centro Italia e alcune aree specifiche del settentrione. Verranno quindi intaccati anche ettari a vigna dell’Emilia-Romagna, dove scomparirà la vitivinicoltura meno efficiente, in genere rappresentata da fasce collinari diffuse in tutto il territorio, dove la qualità ottenibile è elevata, ma i costi produttivi risultano oggi insostenibili. Si produrrà, di conseguenza, meno vino, ma la diminuzione potrebbe non essere proporzionale all’ettarato perso, perché, nell’ottica di abbattere i costi unitari, vi sarà la tendenza a spingere sulle rese, aumentandole. Altro fenomeno in atto, da più tempo, è la coda della congiuntura sfavorevole che ha visto progressivamente calare i prezzi del vino (dopo eccessivi rialzi). Alla crisi del consumo, con una diminuzione degli acquisti di vino, sia per uso domestico che nei locali, si aggiunge inoltre la diminuzione degli stock presso la rete commerciale (nessuno tende più a fare magazzino) e la tendenza ad ordinativi di vino, da parte degli operatori, più contenuti e frequenti (appesantimento della logistica). La crisi quindi sta accelerando lo svecchiamento del sistema italiano (dimensione fisica ed organizzativa delle aziende), agendo anche sul versante della distribuzione (fusioni in questo settore stanno già avvenendo). I piccoli produttori sono dubbiosi di poter rimanere attori in un tessuto sempre più fatto per i grandi; di certo sopravviverà chi potrà vantare riconosciute capacità e peculiarità. Nella diminuzione degli ettari vitati e delle aziende acquisirà un maggiore peso la cooperazione, ed infatti il segmento delle cantine sociali sta reagendo più di quanto facciano le aziende private, accelerando un processo di fusione già intrapreso da tempo. Aumentare le dimensioni è un obbligo e non un’opzione


ed il vantaggio enorme della cooperazione è quello di potersi ingrandire facendo accordi, ma senza dover comprare. Ovviamente ci sono, anche in Emilia Romagna, esempi di cooperazione inefficace, ove il punto mai risolto è la carenza o debolezza della managerialità, oggi indispensabile. Marchi centenari e blasonati di aziende private gettano intanto la spugna, mentre i grandi gruppi (privati o cooperativi) acquisiscono la commercializzazione di vini che continuano ad essere prodotti dagli originari vitivinicoltori. Si sfrutta così una rete commerciale già efficace e consolidata: una via “virtuosa” che merita di essere seguita. Infine accade che evidenziano difficoltà le aziende di taglia non solo piccola, ma anche media (30-50 ettari); è una mera questione di presidio dei canali di vendita: infatti solo con certe dimensioni si giustifica la creazione di reti commerciali. Affrontare le sfide puntando su naturalità, caratterizzazione e personalità

L’Emilia Romagna, seguendo le mode, ha, al pari di altri territori, spesso oscillato fra bianchi e rossi, vini barricati e vini fruttati. Anche il patrimonio ampelografico è mutato nel tempo: si sono introdotti vitigni internazionali (come ovunque), ma è anche andata crescendo l’attenzione verso varietà locali, di cui la regione è ricca. La crisi e le mutate situazioni spingono a riscoprire maggiormente le proprie vocazioni e premere l’acceleratore sui punti di forza! È quindi d’obbligo per le aziende emiliano-romagnole sfoltire le etichette aziendali, sovvertendo una tradizione a fare un po’ di tutto e ovunque! Occorre inoltre migliorare continuamente i prodotti avendo come filosofia l’enologia varietale, individuando modalità di coltivazione e vinificazione in grado di esaltare le differenze fra le varietà. Molto aiuta l’identificazione di modelli enologici diversi e più definiti, per non ricadere nel tranello del “pensiero unico” che concepisce i vini di qualità solamente caratterizzati da concentrazione, colore esasperato, elevata alcolicità. Altrettanto interessante sarebbe puntare su vini monovitigno composti al 100% dalla varietà dichiarata, anche se i disciplinari in genere si accontentano dell’85%: il consumatore è a caccia di vini “più caratterizzati”. Essendo l’Emilia-Romagna una terra portata alla sperimentazione e all’innovazione, dovrebbe fare maggiormente da apripista anche verso le nuove istanze di tipo etico-ambientali. È infatti cambiata, sotto pressione del consumatore e dei grandi gruppi d’acquisto (specie nordeuropei) ad esempio l’attenzione al contenitore: ora sono trendy il vetro leggero, le chiusure ecologiche, carta riciclata per le etichette, e tutte quelle opzioni che rendono meno forte l’impatto del ciclo di vita del prodotto sull’ambiente. Il dibattito, inconcludente, che ha contrapposto la vitivinicoltura convenzionale a quella “organica” è arrivato al capolinea, spazzato via dai nuovi orientamenti commerciali: oggi, fare vini eco friendly (dalla vigna alla cantina, dallo stoccaggio al trasporto) è già non più un’opzione, ma un pre-requisito per entrare nei mercati. In ogni caso è un plus molto gradito dal consumatore! Molto spazio ad esempio si è aperto nel segmento dei vini sulphite free. Infine, il settore del vino ha bisogno di più “verità”, che non deve essere solo “sbandierata” nei comunicati o negli articoli (prezzolati) sulle riviste… ma “dimostrata”! Urge anche riavvicinare il consumatore grazie ad

un nuovo linguaggio del vino, più diretto e meno retorico. In queste nuove esigenze l’Emilia Romagna è enormemente avvantaggiata, dato che non ha mai ceduto troppo ad atteggiamenti snobistici e ingessati che hanno invece caratterizzato altre aree vinicole. La regione è il simbolo della schiettezza e della naturale allegria; deve solo meglio declinare questi attributi sia nella produzione, sia nella comunicazione istituzionale e aziendale dei propri vini. Il caso dei frizzanti, un’arma non sfruttata!

L’Italia - pochi lo sanno - è di gran lunga il maggior produttore al mondo di vini frizzanti; i suoi 3,5 milioni di ettolitri rappresentano l’80% circa del totale prodotto. Seguono, alquanto distanziati, la Francia con 100.000 ettolitri e la Germania con 50.000. Per la cronaca, ricordiamo che vengono classificati come ‘frizzanti’ tutti quei vini con una pressione da 1 a 2,5 bar (gli spumanti partono da 3 atmosfere, i Vsqprd da 3,5). Come riportato precedentemente, oltre l’80% della produzione nazionale si concentra in Emilia, seguono, ma molto distanziate, Veneto (con il Prosecco), Lombardia (Oltrepo Pavese e Colli Mantovani) e Puglia. Indiscusso protagonista del segmento è invece il Lambrusco, la cui produzione fra Dop e Igp arriva a circa 1,6 milioni di ettolitri, con un’incidenza del 46% sul totale dei frizzanti prodotti in Italia. Anche se si tratta di prodotti dotati di forte caratterizzazione e tipicità, i vini frizzanti non hanno ancora trovato un posto preciso e dignitoso, né nelle categorie merceologiche dei vini (manca infatti anche una precisa legislazione di riferimento), né nel sentire collettivo del consumatore. Sono prodotti estremamente radicati nei territori in cui nascono, ma al di fuori dei luoghi di origine, le bollicine, se non declinate sui vini spumanti, vengono guardate con diffidenza (specie se si tratta di rossi) e comunque non associate all’idea di un prodotto di qualità. Fino a qualche anno fa anche le mode non aiutavano, perché il vino di pregio doveva essere assolutamente di corpo, giustamente tannico (rossi), invecchiato in legno o meglio barricato, ricco di sentori speziati e complessi. I vini frizzanti mediamente hanno caratteristiche opposte, che però ora sono divenute moderne: poco alcolici, elevata acidità, colore accattivante, facili da bere, generosi negli abbinamenti. Esemplificativa la storia del successo commerciale del Lambrusco sulle piazze estere, iniziato nei primi anni ’70 con la Germania e continuato fino agli anni ’80 con il boom ineguagliato da nessun altro vino al mondo sul mercato statunitense. Negli anni ’90 è stata poi l’Inghilterra a riscoprire le piacevolezze di questo vino. Però, per una serie di motivi, l’immagine del Lambrusco è quella della cenerentola dei vini italiani, e quando si parla del miracolo americano del Lambrusco (negli anni ’70-80 i jingles pubblicitari delle Cantine Riunite erano canticchiati dai bambini per le strade di New York), spesso si sottolinea come si sia in quel modo infangata la fama dei vini italiani per la creazione dello stereotipo del vino semplice e di basso prezzo. È ora di riscrivere l’immagine dei vini frizzanti di qualità. In un mercato globale in cui il rischio maggiore è l’appiattimento gustativo non solo sui vitigni ma sugli stili “internazionali”, l’Emilia-Romagna non può non sfruttare una “rendita da posizione” di un prodotto che nel mondo non ha concorrenti per quantità, qualità, varietà, tecnologia e tradizione. Una più matura presa di coscienza di queste potenzialità dovrebbe pertanto sfociare nell’adozione di azioni comuni in grado di far emergere le doti uniche di questi vini. Al diavolo la barrique, il Cabernet, il sentore di vaniglia, i vini dai 20 euro in su...: dovremmo tutti riscoprire l’orgoglio di produrre e bere i vini frizzanti, ovviamente quelli buoni! Matteo Marenghi Agronomo e giornalista vitienologico

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Percorrendo la Via Emilia in direzione dell’Adriatico, pochi chilometri dopo Bologna si finisce inevitabilmente per inciampare in quel trattino che, dall’unità d’Italia, unisce e divide l’Emilia e la Romagna. È quel che rimane dopo secoli di guerre tra Longobardi prima ed imperiali poi a Ovest ed Esarcato e frammenti dell’Iconoclastia a Est: un trattino da sempre oggetto di revisionismi storici e speculazioni culturali, che unisce etnie molto diverse per origine e divide modelli comportamentali spesso agli antipodi l’uno dall’altro. Confinante con ben sei regioni a cui si deve aggiungere la Repubblica di San Marino, l’Emilia-Romagna è la porta d’accesso all’Italia peninsulare: storicamente luogo di passaggio, di incontro, scontro e confronto per genti diverse costrette a percorrere le sue strade e a convivere nelle sue città. Da tanta contaminazione deriva quello che si è usi chiamare “il modello emiliano-romagnolo”: un sistema di produrre, vivere e consumare conosciuto nel mondo, ma praticamente ignorato da chi in questa regione vive da sempre seguendone i ritmi e le tradizioni vecchie e nuove. “Se hai sete e chiedi qualcosa da bere - recita un adagio condiviso in Emilia ti danno un bicchiere d’acqua mentre in Romagna, lo stesso

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bicchiere, te lo riempiono di vino”. Non so se sia ancora così, ma il vecchio detto popolare spiega bene la differenza sostanziale delle due anime della regione. Una differenza che origina dall’alimentazione oltre che dalla storia e che rimane presente nelle sue connotazioni più profonde e nella sua migliore modernità. L’Emilia grassa e sonnacchiosa, di luoghi silenti e di anime perfettibilmente razionali, patria del Formaggio Grana, terra di salumi frollati e rotondi come la Coppa Piacentina o il nebbiosissimo Culatello di Zibello, di dolci prosciutti, di ricchi salami, di zamponi e cotechini a cui si accompagnano i poliedrici Gutturni e poi le Malvasie di Candia diverse a seconda dei versanti collinari tra Piacenza e Parma; la Barbera che diventa maschio (il Barbera) mentre si allontana sempre più dal Piemonte e saluta frettolosamente la Bonarda; i Lambruschi di differente grana, struttura e colore che dalle colline Matildiche di Reggio Emilia imperano a Modena, arrivano alle sponde del fiume Po e si continuano nel Mantovano; il Pignoletto che sotto le Due Torri si presenta spesso frizzante e con un’immancabile nota aromatica che invita a nozze la Mortadella. La Romagna nervosa e roboante, California italiana di irrazionale animosità e generosa tracotanza, essenziale nei sapori e quasi in odore di forzosa sobrietà, dove i pescatori sotto costa fino a ieri “aravano il mare” quasi fosse un orto e le differenze di campanile si riconoscono anche oggi a seconda del modo di allargare o stringere le vocali nel discorso. Qui il Sangiovese segue le colline della Via Emilia da Imola a Bertinoro fino a Rimini e va benissimo sia con l’agnello e la piadina della tradizione che, nelle sue versioni più rilevanti, con le pietanze più impegnative e saporite, con il Formaggio di Fossa di Sogliano al Rubicone e i sognanti prosciutti di Carpegna. Sotto di lui impera il Trebbiano, vino d’autostrada e a tutto pasto destinato oggi in grande parte al brick dei colossi cooperativi, di cui si salvano pochi e sorprendenti episodi di grande qualità. Capita molto più raramente tra Forlì, Cesena e Ravenna di incontrare l’Albana nella sua versione


secca, il primo vino italiano a bacca bianca che ha raggiunto la Docg già nel 1987, oppure la Cagnina e il Pagadebit o il ritrovato Burson di Bagnacavallo. E poi c’è Ferrara, né Emilia né Romagna, che si appoggia sul Po e stende la sua provincia fino al mare: città estense di grande bellezza e capitale della consonante alveolare, dotata di condizioni climatiche autonome e ritmi di vita deliziosamente ciclabili. I ferraresi dicono che è merito dell’acqua, a sentir loro tra le migliori del mondo, se il loro pane (la Coppia Ferrarese) è così unico e non replicabile altrove. Quando mangiano i tortelli di zucca non mettono gli amaretti nel ripieno e dileggiano volentieri i Mantovani. Con la Salama da Sugo non sanno scegliere tra il purè di patate e la polenta gialla, ma comunque ci abbinano sempre volentieri il Fortana del Bosco Eliceo: il loro vino di bandiera che nasce dalle sabbie in prossimità dell’Adriatico ed è uno tra i pochi vini italiani franchi di piede. L’Emilia-Romagna è la regione delle diversità, delle grandi distanze, dell’Appennino e della pianura, del grande fiume e dell’acqua del mare: difficile anche solo abbozzare una continuità tra i suoi estremi. Ma è anche la regione dove tutte queste differenze vengono stemperate nella genuinità dei suoi abitanti che vivono ancora oggi nelle abitudini, o più spesso nel dolente ricordo, di un recente passato in cui i ritmi della tavola caratterizzavano la qualità del

vivere quotidiano. Ed è proprio il rispetto del e per il cibo uno dei fattori basilari che ha unito da sempre la nostra gente: probabilmente più colto e ricco a Ovest del Santerno tra foyer di melomani e prestigiosi ristoranti dedicati all’eccellenza industriale; sicuramente più istintivo e vivace a Est, dove dai muri di tante osterie occhieggiano tuttora i ritratti di personaggi illustri del socialismo internazionalista. Quanto la cultura materiale, e in special modo quella più specifica del cibo, sia sempre stata importante in Emilia-Romagna è del tutto evidente. Più che i confini amministrativi sono i ripieni della pasta all’uovo a separare tra loro le province: marubini, anolini, tortellini, tortelloni, cappellacci e cappelletti indicano infatti i percorsi meglio di una carta geografica in un’amorosa polemica senza fine in cui solo la soddisfazione del palato conta e la qualità delle persone prevale. Ma a fronte di tanta specializzazione per il cibo non si può dire che altrettanta attenzione fosse in tempi storici riservata al vino, che pure è stato sempre ben presente sulla nostra tavola. Ancora negli scapicollati anni Sessanta e Settanta dai Colli Piacentini e dalle pianure tra Faenza e Ravenna arrivava il Frizzantino, da Reggio e Modena un Lambrusco talmente colorato che macchiava il bottiglione, dalle colline romagnole diverse tipologie di Sangiovese spesso tagliato con Barbera e uve di Clinton che, se imbottigliato con la prima luna dopo Pasqua, rompeva una bottiglia su due. In una girandola di camion e damigiane molto vino arrivava dal Piemonte, specie il Dolcetto; grande successo riscuoteva il Verdicchio, principalmente dalla zona di Jesi; dal Veneto arrivava il Bardolino, dal Friuli il Cabernet. Il Chianti, invece, qui non ha mai imperversato più di tanto. Il successo della vitivinicoltura di qualità, per l’Emilia-Romagna, è storia recente: non più di un paio di generazioni di vignaioli separano la damigiana dall’eccellenza. E per chi ha avuto l’avventura di vivere questo periodo di coraggio, imprenditoria, investimenti e sperimentazione è stata una storia affascinante che ancora si continua tra molte sorprese e amichevoli, spesso intime, gratificanti conferme. Andrea Dal Cero Condirettore del mensile La Madia Travelfood

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Il vino è il profumo della mia prima infanzia. Nella casa di via San Vitale 51 mio nonno faceva il vino. Ogni estate andava ad acquistare l’uva da coltivatori della zona di Monte San Pietro sui Colli Bolognesi. Raramente dallo stesso viticoltore. Passava infatti di podere in podere e, forte dell’esperienza straordinaria che aveva, valutava quei grappoli ancora acerbi prevedendo quanto gli avrebbero fruttato in quantità, ma soprattutto in qualità. Concordato il prezzo, si avviava verso la Porrettana dove avrebbe preso la corriera per Bologna. Tornava soddisfatto dell’acquisto attendendo trepidante il giorno dell’arrivo del grande tino colmo di mosto. Da quel giorno, la gran parte del suo tempo, eccettuati i pasti, la trascorreva in cantina. Il vino era da sempre la sua passione, ma solo nell’ultimo decennio della sua vita, dopo un’esistenza intera trascorsa come operaio all’Arsenale, era riuscito a dedicarvisi. Quando spillava il primo vino, che è dolce, chiamava noi bimbi ad assaggiarlo e così avevamo accesso in quell’antro rischiarato da una grata che faceva spiovere povera luce dal soffitto. E si arrivava alla prima bottiglia portata religiosamente in tavola. Pretendeva, prima di aprirla, che ne guardassimo tutti il contenuto in trasparenza per apprezzarne il nitore, quindi la stappava (tappo rigorosamente di sughero spagnolo) facendo sgorgare il contenuto spumeggiante nei bicchieri. Per lui (come d’altra parte per il suo ben più illustre concittadino Giorgio Morandi) ogni bottiglia era dotata di una sua propria identità, diversa da tutte le altre e il vino che conteneva doveva confermare questa peculiarità. Rammento ancora oggi il suo sguardo, la sua attesa di un giudizio dopo il primo sorso, giudizio che, nell’apprezzamento incondizionato, doveva comunque in qualche misura continuamente variare con motivazioni che non era facilissimo addurre. Ma se lui aveva imparato a fare il vino, noi tutti avevamo imparato a fargli i complimenti che si attendeva e che mai avrebbero dovuto deluderlo, nella consapevolezza di tutte quelle giornate trascorse là sotto, lui e la sua uva, stretti in un patto di assoluta complicità. Malgrado un nonno così talentuoso, io intenditore di vini non lo sono mai diventato. Lo bevo, spessissimo, con piacere sommo, riconoscendo al vino questa capacità che possiede di farmi piacere di più le cose, le persone, i luoghi, di rimuovere la malinconia, di liberare la mia creatività. Naturalmente senza arrivare ad ubriacarmi. Dei vini della mia Emilia adoro il Pignoletto, tipico dei Colli Bolognesi, e soprattutto il Lambrusco. Un rosso frizzante, con una gradazione bassa, che si può bere senza sensi di colpa. Poi naturalmente c’è il Sangiovese, il grande vino della Romagna apprezzato dai grandi di quella terra, da Tonino Guerra a Federico Fellini.

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Il frizzare d’un tempo contro palato e gola Di modenese, dico sempre, mi sono rimaste dentro due cose fondamentali: l’accento, che però si va via via attenuando, ed un’altra che fortunatamente non si attenua, l’amore per il Lambrusco. Sarebbe meglio dire i Lambruschi, perché, minimo, sono tre, ma questa è roba da tecnici, io qui parlo da bevitore volgare, di quelli che non s’intendono molto di cru o di bouquet ma che amano avere sempre, quando mangiano, un sano “pistone” sulla tovaglia. Già, il “pistone”. Era anticamente la misura vinaria da due litri, ma negli anni ’50 significava semplicemente una bottiglia di vino, soprattutto Lambrusco. La parola viene probabilmente da pistone nel senso di stantuffo, pestello, ma non ha importanza la storia linguistica. Era la parola sempre usata, tocco un poco ammiccante e malevolo di lingua zerga, e ricordo la bottiglia, di vetro grosso e scuro, e quando la si stappava con il “tirabusòun” e lo schiocco che produceva e come ci si affrettava a mettere sotto un bicchiere per cogliere il primo sbuffo di anidride carbonica (prodotta dalla fermentazione naturale) e di violacea schiuma, perché a quei tempi non c’erano tanti frigo a tenerle, le bottiglie, che venivano servite massimo a temperatura di cantina, chi ce l’aveva. E dato che quelle bottiglie non c’erano tutti i giorni, quando si stappava era festa. Si preannunciava, quella festa, d’autunno. Quando la stagione cominciava a declinare, e le prime fumane interrompevano le pallide giornate di sole, e la scuola già avviliva lo spirito, passavano, provenienti dalla campagna, i carri carichi di uva, che allora molta gente si faceva il vino in casa, e girando per le strade della città vecchia si sentiva, dalle cantine, provenire l’odore indimenticabile del vino che si stava facendo. O avevi la fortuna di avere un amico con un po’ di terra, in campagna, e allora eri invitato a assaggiare il vino nuovo, col sole che stava raso la piana o una fumana da chiedere come fare per tornare a casa. Ma dentro, in quelle vecchie case coloniche semiabbandonate, si stava bene, e nelle cantine quell’odore di vino in fermentazione ci prendeva la gola e le narici e già ti dava ebbrezza, come la dava ai nugoli di moscerini impazziti contro le lampade fioche che pendevano, appese a un filo, dai soffitti neri. Mani amorose di resdore impastavano pasta per il gnocco fritto, e qualcuno affettava salame e, qualche rara volta, addirittura prosciutto. Era tutt’uno, spettacolo per i cinque sensi, le donne affaccendate, lo gnocco che friggeva nello strutto e veniva servito bollente e dorato, i tappi che saltavano del Lambrusco vecchio e le caraffe del vino nuovo odorosissime che venivano messe in tavola, il colore sul rosso rosa dell’affettato, quello viola del vino e le mani unte che mangiavano, e le bocche che bevevano, e le prime leggere ebbrezze che ti facevano lucidi gli occhi e affrettate le parole. Ora so che i Lambruschi modenesi sono tre, Sorbara, Castelvetro e Salamino S. Croce, e ne conosco le diverse caratteristiche, e conosco etichette e marche e tutto. Ora è festa spesso, e il Lambrusco posso averlo quando ne ho voglia. Ma qualcuno mi ridia anche una sola di quelle antiche giornate d’autunno, e la sensazione di quel frizzare d’un tempo contro palato e gola.


Un vino da bambini La prima volta che ho assaggiato un sorso di vino è stato immergendo le mie labbra di bambino nella schiuma arrossata di un bicchiere di Lambrusco. Più che incuriosito ero intimorito. Fino a quel momento - avevo undici anni - nella mia immaginazione il vino era associato a cose terribili. In linea con la pedagogia terroristica che si usava una volta, quando ero piccolo io, bere vino avrebbe portato conseguenze terribili; in questo caso particolare un effetto collaterale piuttosto curioso: smettevi di crescere. E io me lo immaginavo: un sorso di vino e bum! bloccato per sempre sotto il metro e venti, con i calzoncini corti e la vocina. Insomma, bere vino non era una cosa da bambini, come giocare con l’elettricità o attraversare da solo la strada, e, al pari di altre pratiche illecite, poteva avere effetti letali. Ora, io non sono mai stato un bambino particolarmente trasgressivo, però è ovvio che quando ti proibiscono una cosa, questa diventa automaticamente molto interessante, soprattutto se vedi che i grandi, il vino proibito se lo bevono eccome e con grande soddisfazione. Per cui, o aspetti di diventare grande - e per un bambino piccolo significa un sacco di tempo - oppure disobbedisci. Io e il mio amico Stefano scegliemmo una terza soluzione. Se il vino prodotto dai grandi era per i grandi e non per i bambini, noi bambini ne avremmo prodotto uno nostro, tutto per noi. Insomma, un vino da bambini. Il mio amico Stefano abitava in periferia e aveva un campo dietro casa, con una vigna. Aspettammo ottobre, tempo di vendemmia, e andammo sotto il carro in cui avevano stipato i grappoli per portarli alla cantina. Avevamo conservato le bottigliette dei succhi di frutta bevuti nei giorni precedenti e le abbiamo riempite con il succo d’uva che colava dagli interstizi del carro. Nella nostra logica già quello era vino - succo d’uva, no? - ma avevamo sentito dai grandi che il vino migliore era quello vecchio, così lo mettemmo ad invecchiare. Due giorni. E dal momento che Stefano aveva sentito anche, e chissà da chi, che per conservare meglio il vino i contadini ci mettevano sopra un filo d’olio, proprio sull’imboccatura, lo facemmo anche noi. Così due giorni dopo ci versammo nei bicchieri un succhino giallo torbido su cui galleggiavano chiazze d’olio come nel brodo e brindammo alla nostra salute. Sul momento non ci trovammo molta soddisfazione, sembrava di bere dell’uva con un vago sentore di pesca, dovuto probabilmente al fatto che non avevamo lavato le bottiglie. Poi arrivò l’effetto dell’olio. Ecco allora che quando mio nonno, un giorno dei miei undici anni, mi disse che era arrivato il momento di assaggiare un po’ di vino, io, memore della cagarella del nostro vino da bambini, all’inizio mi tirai indietro. Però, c’era questo rumore spumeggiante mentre scendeva dalla bottiglia al bicchiere e anche questa schiuma sottile, che a me ricordava la coca cola e me lo rendeva più familiare, meno pericoloso.

Va bene, e quella storia che se un bambino beve il vino poi non cresce più? Beh, se era proprio mio nonno ad offrirmelo, e quella cosa me la diceva sempre lui, i casi erano due: o non ero più un bambino o ero già cresciuto abbastanza. Così presi il bicchiere e lo avvicinai alle labbra e senza saperlo bevvi come i grandi, prima con il naso, quell’odore fresco e aspro che pizzicava un po’, poi con la lingua, quel sapore dolce che schiumava e subito diventava secco, e poi con la gola, perché quello era appunto Lambrusco e il Lambrusco è un vino che si beve anche con la gola. Era solo mezzo bicchiere di vino, ma quello che accadde dopo me lo ricordo ancora, perché prima sentii caldo nelle gambe, poi una gran fiacca nelle braccia, poi un’allegria strana che mi fece dire un sacco di sciocchezze e subito dopo una malinconia che mi faceva venir voglia di non parlare più, poi l’allegria, poi la malinconia di nuovo e così via, finché non mi venne un gran sonno. Capii più avanti che quella era la mia prima sbronza, sbronza da bambini, ancora indecisa se diventare sbronza allegra o sbronza triste. Da allora di vini ne ho bevuti tanti, e diversi, e anche di sbronze ne ho prese altre e più decise. Ma tutte le volte che bevo un bicchiere di Lambrusco mi tornano in mente quelle sensazioni là, di quando avevo undici anni. Per cui allora è vero, forse, che quando si beve il primo vino da piccoli si smette di crescere. Ma nel senso che in qualche modo, poi, si resta sempre un po’ bambini.

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Non sono mai stato un gran bevitore e non posso nemmeno definirmi un conoscitore; tuttavia in casa mia abbiamo sempre fatto il vino. Ovvero lo faceva mio padre e noi davamo una mano. Era la sua una piccola impresa del tutto artigianale che produceva circa tremila bottiglie e vendeva il resto sfuso in damigiane a prezzo più contenuto. Data la mia robusta complessione fisica, il mio compito era quello delle consegne, il che significava andare in città e portare le casse piene di bottiglie nelle cantine, casse da trentacinque bottiglie che pesavano una cinquantina di chili: un’impresa non da poco. Anche quando insegnavo all’Università Cattolica a Milano approfittavo per portare il vino ad amici che vivevano là e ricordo che a volte partivo con la macchina piena di bottiglie: roba da restarci secchi se fosse capitato un incidente in autostrada. Comunque tutti erano molto soddisfatti, soprattutto del nostro Pignoletto o del misto MontuniAlionza, un vecchio vitigno, quest’ultimo, dai grandi chicchi color d’oro, molto buoni anche da mangiare. Era un bianco abbastanza leggero, ma secco, spumante e molto gradevole se bevuto ben freddo. Per burla i miei amici che lo sapevano prodotto in quel di Piumazzo (il mio paese) lo chiamavano “Dom Piumazzòn”. Lo stesso faceva il mio amico Giovanni Tamburini, della notissima salsamenteria di via Drapperie a Bologna che per qualche tempo si servì da noi. La preparazione era un’impresa collettiva: si vendemmiava insieme invitando tutti gli amici

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e alla sera si faceva una cena all’aperto e poi si cantava con l’aiuto del vino dell’annata precedente. Poi, esaurita la parte corale-conviviale, cominciava la lavorazione: pigiatura, fermentazione, filtraggio, torchiatura e poi la conservazione per un paio di mesi in grandi botti di rovere marchiate a fuoco con il prestigioso nome di Renzi. Da ultimo l’imbottigliamento e la vendita in damigiane. Molti dei clienti venivano a fare gli acquisti prima di Natale e compravano una miscela di vino completamente fermentato a cui era stata aggiunta una parte di filtrato che avrebbe creato la fermentazione in bottiglia e le bollicine del Dom Piumazzòn. Il Lambrusco era più di tradizione modenese e quindi prodotto comunque per avere l’assortimento di base, ma era comunque abbastanza gradevole: Salamino di Santa Croce e Sorbara. Si produceva anche una porzione minore di Lambrusco di Castelvetro per chi preferiva un sapore più abboccato. Quando mio padre si ritirò mantenemmo la vigna per alcuni anni, ma nessuno di noi aveva raccolto il testimone e così, non senza un po’ di malinconia, il business fu abbandonato, la vigna sostituita con un bosco che ora ha raggiunto dimensioni rispettabili. Ogni tanto, qua e là si vedono ancora spuntare dei tralci rinselvatichiti che si arrampicano lungo il tronco degli aceri e degli olmi e d’autunno prendono un bel colore rosso scarlatto, come un bicchiere di Lambrusco contro il sole di ottobre.


Evviva la Romagna, Evviva il Sangiovese! Romagna e Sangiovese, c’è sempre nel mio cuore, quest’aria di paese, ci invita al far l’amor. La briscola e il tresette si gioca all’osteria; e col bicchiere in mano si brinda in compagnia... Se a questa canzone ho fatto fare il giro del mondo, è facile intuire quanto sia forte il mio rapporto con i vini dell’Emilia Romagna. Li amo tutti, lo ammetto e credo fermamente che il vino sia una grande medicina naturale. Non a caso l’insigne saggio ci racconta che il vino fa buon sangue. E per confermarlo vi voglio raccontare che il mio cardiologo, uno dei migliori d’Italia, dopo aver valutato le controindicazioni sul mio fisico dell’aspirina che mi stava prescrivendo, mi ha consigliato in alternativa, di bere un bicchiere di buon vino rosso, a pranzo e a cena. Questa cura mi è piaciuta molto, tanto che ho pensato di raddoppiarla a mio favore! Magari il dottore non sarà d’accordo, ma io ho più di 70 anni e sto benissimo, senza aver mai rinunciato a questo elisir davvero speciale. Ho cantato spesso il vino nelle mie canzoni, perché davanti ad una buona bottiglia la serata gira sempre bene! Amo molto il vino rosso e, solo a guardarlo decantare in un bel ballon, mi incanto e i miei pensieri viaggiano... È così che lo bevo ogni volta a tavola, rigorosamente in un grande calice a coppa larga, che lo valorizza anche per il suo bel colore... (lo faccio anche perché in quel bicchierone la mia dose automaticamente raddoppia!). Fra i vini dell’Emilia Romagna, preferisco il Sangiovese, che trovo sia perfetto anche con il pesce, come insegnano i vecchi marinai di Cesenatico, dove vivo da sempre con la mia famiglia. Il Barbera accompagna spesso le tavolate con gli amici cacciatori, tanto che il ritornello Barbera... Barbera... Barbera, si ripete nel coro allegro della mia canzone Bracconieri o cacciatori. Il Trebbianello, quello un po’ acerbo della zona di Ravenna, amo berlo come aperitivo. Ha pochi gradi e scivola magicamente dalla bocca, rimbalzando nella mia mente, fra un crostino con burro e acciuga doc - preparata da mia moglie con il pesce azzurro dell’Adriatico - o con una fetta di salame vero, quello del contadino del nostro meraviglioso entroterra! Con i dolcetti naturali e la crostata con marmellate fatte in casa che prepara mia moglie, scelgo invece la nostra eccellenza di Romagna: l’Albana passito. Questa sì che è vita... Ho una produzione di Sangiovese, che faccio fare per me e per regalarlo agli amici e ai grandi personaggi della televisione, per public relation. Il mio Sangiovese nasce sulla collina di Roncofreddo, nel lato caldo e luminoso che si affaccia a Rimini, dove batte sempre il sole. Anche per questo, il vinello che produco ha un aroma speciale e un gusto morbido e rotondo. E quando il vino è così buono e non sa di bisolfito, anche se ci si lascia andare a qualche bicchiere in più non va mai troppo alla testa. A volte ammetto di esagerare un po’. Quando sono a caccia o a pesca e ognuno porta da casa qualche specialità culinaria, ci lasciamo andare e capita che andiamo a letto un po’... allegrotti e avvinazzati! Ecco perché nella mia canzone intitolata All’Osteria dico ...canta con il bicchiere nella mano e si rivolge solo al vino: tu sei la mia rovina, ma ti perdono! Vi racconto questo aneddoto. Qualche anno fa ho partecipato a L’Isola dei Famosi. Lì davvero non si mangia e si soffre la fame, direi ancor di più di quanto si vede in televisione. Pensavo che dietro le telecamere ci allungassero un bicchier di vino o un po’ di tabacco. Invece no. Sono proprio rigorosi e severi. Anche perché il gioco, per una buona audience, è quello di far arrivare i personaggi al limite della pazienza e della sofferenza, per istigarli a discutere e a litigare. Sono dimagrito 11 kg in un paio di settimane... e mi sono perfino mangiato un granchio vivo che sono riuscito ad agguantare su uno scoglio! Ci credete che io, invece di sognare un bel piatto di pasta fumante,

mi sognavo ogni notte una buona bottiglia di vino?! Infatti appena sono uscito e mi sono trovato davanti ad una tavola imbandita piena di cibo e di leccornie, ho cercato l’angolo di bacco e mi sono tuffato su una bottiglia di rosso cileno, dal sapore intenso! Amo il vino perché il vino è un grande collante fra le persone. Niente di meglio che ritrovarsi con gli amici intorno ad una “Tavola grande” (titolo di una mia canzone) e ad un buon vino. Sì, perché vino fa rima con le cose belle della vita. Vino fa rima con amicizia, fa rima con simpatia. Vino è amore; vino è sesso... Vino è un caminetto acceso, un fuoco che arde; vino è una serata speciale, un brindisi ad un successo, ad un augurio, ad una ricorrenza. Vino è un’eccellenza del territorio e noi emiliano romagnoli sappiamo valorizzare anche il vino più povero, abbinandolo alla buona cucina che ci rende famosi in tutta Italia e non solo. Vi cito un’altra canzone che ho scritto qualche anno fa, dedicata alla nostra terra, piena di tradizioni, sapori, colori: Tradizioni della mia gente, Val Padana come sei bella. Canta il vecchio Po, brilla una stella Val Padana sei nel mio cuor. C’è una fisarmonica che suona, anche se c’è nebbia in Val Padana... c’è sempre una coppia ballerina, lei fra le sue braccia si abbandona... e sento il profumo del fieno, il sapore del vino, l’odore del grano... Oggi anche i ragazzi hanno imparato a valorizzare la propria identità e ad apprezzare le eccellenze del territorio e sono felice che i giovani dell’Emilia Romagna bevano sempre più spesso e volentieri un buon bicchiere di vino come aperitivo, piuttosto che un mojito o un cuba libre! Come canto in una mia polketta: La fameja rumagnola ha solo un Santo... il Sangiovese! Una bandiera per noi romagnoli, che siamo fatti così: semplici, solari, appassionati e orgogliosi di ciò che ci appartiene. A sèm d’i’ rumagnùl, a sèm dal fàti péli, us pis a steli e’ sol, sa tott al doni beli. U’s’ pis e’ ven d’Bartnora... in fondo noi romagnoli non abbiam tante pretese, ci droghiam col Sangiovese (da La Musica Solare). Alla salute!

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Intervento raccolto da Rita Giannini, biografa del Maestro Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore, ha scritto film che hanno fatto la storia del cinema, per De Sica, Antonioni, Fellini, Anghelopoulos, Tarkovskij, Rosi, i Taviani, Bellocchio e moltissimi altri grandi registi. Un film per tutti: Amarcord, vincitore dell’Oscar. Guerra si sofferma spesso a parlare del vino e dei suoi profumi. Interviste e racconti ne sono la testimonianza, ma la sua estrosità di artista eclettico, che con disinvoltura passa dalla

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poesia alla pittura, all’ideazione di installazioni, fontane e parchi, in cui riversa il suo agire artistico e la sua forza poetica, ha fatto sì che ne fosse testimonial e che creasse anche loghi, denominazioni ed etichette proprio per il vino. Anzi, per il Sangiovese. Un nome su tutti, frutto del suo burlesco sarcasmo che lo ha spinto ad usare ancora una parola dialettale intraducibile, Sburoun, che all’incirca significa spaccone. Il riferimento è al Sangiovese prodotto dalla romagnola Cantina Braschi, imbottigliato in una maxi bottiglia da sei litri quale sinonimo di grande convivialità. Il Sangiovese si lega alla sua terra, la Romagna e la città di Santarcangelo di Romagna, dove è tornato dopo trent’anni vissuti a Roma.


L’Emilia Romagna

Gli altri vini

La regione Emilia Romagna è tra le più importanti d’Italia. È una terra che ha dato molto anche al mondo. Poi c’è la Romagna, che è una parte della regione e ha un suo carattere particolare: grande generosità e sempre un occhio felice e benevolo per gli altri. C’è la Romagna bagnata dal mare e quella che fiorisce a maggio e ti profuma gli occhi attorno a Longiano. Oltre San Marino e San Leo ci sono le montagne grandi che da lontano diventano trasparenti. E da lassù puoi vedere il mare che è una riga lunga e blu. È un posto dove ti senti bene.

Mi tolgo tanto di cappello davanti a molti eccellenti vini stranieri e italiani. In Francia, nella zona di Bordeaux, dove sono stato insignito di una Laurea ad honorem, mi hanno nominato tribuno del loro famosissimo e costosissimo vino, vestendomi con grandi e pesanti mantelli rossi. Io quel giorno ho dichiarato a tutti: il Bordeaux è ottimo, ma non ha la forza dei ricordi che mi manda il Sangiovese. Insomma, col Sangiovese bevo la memoria.

Il vino

Si beve l’infanzia

Dalle mie parti, se chiedi da bere a qualcuno ti offrono il vino, mai l’acqua. Per me quando si parla di vino si intende il Sangiovese. Probabilmente non è il vino più buono del mondo, ma ha il sapore della mia infanzia.

I piatti che più amiamo sono quelli dell’infanzia, perché tutti i sapori vengono da lì e noi mangiamo l’infanzia. Anche per il bere è la stessa cosa. Spesso disegno le etichette per amici che producono un ottimo Sangiovese.

Il Sangiovese

Il Sangiovese è nato a Santarcangelo

È un ottimo rosso che può sembrare povero, ma che invece è potente, perché si abbina a tutto: agli antipasti, alle tagliatelle e a tutti i primi piatti, alle carni e ai secondi più diversi, dagli uccelletti alle rane. Ricordo un Sangiovese che conservava l’odore delle viole, il suo profumo tradizionale, oggi scomparso in tante produzioni anche note e costose. Io amo ancora adesso quel particolare Sangiovese, violaceo, brillante, dal sapore abboccato, quasi amabile, ed è un bel godimento sorseggiarlo a tavola, magari con gli amici, di fronte a un piatto di tagliatelle come quelle di Zaghini a Santarcangelo.

Un giorno, tornando a Santarcangelo da Roma, dove ho lavorato per trent’anni, trovo sulla Piazza una colonna che veniva da Forlì. Su un lato della base quadrata era scritto: Qui sul Colle che di Giove ha il nome, oggi XXIX ottobre MCMLXXVII la Romagna dei vini e dei vigneti recinge la fronte del nume con l’aureola del San-Giovese rivendicandone con certezza di fede la feconda primogenitura. Il Tribunato vini di Romagna. L’Ente tutela vini romagnoli. La Società del Passatore. I sommeliers d’Italia. OSPITÒ NEL LORO XI CONGRESSO. P.Z. “Credo alla metà delle cose che vedo coi miei occhi” - diceva il Professor Malaguti. Io, invece, credo sempre alle cose che mi fanno piacere. E del resto il piccolo Colle su cui sorge la vecchia Santarcangelo si chiama ancora Monte Giove. Le vigne non sono mai mancate e so che il Presidente Gronchi, sotto il fascismo, veniva a Santarcangelo per vendere il Sangiovese che gli davano i produttori della cittadina.

Abbinamenti Credo che il Sangiovese sia buono con tutto, come le prostitute di qualità. Era ottimo al tempo della mietitura col pollo alla cacciatora. Quando si mieteva il grano era per tutti un momento di straordinaria magia. Quel vino che veniva offerto si aggrappava ai sapori, esprimeva le sue delicatezze.

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Se attraversi la Romagna ti accorgerai che su queste terre vi sono diverse tipologie di viticoltura, da quella di pianura a quella di collina, da quella rivolta alla quantità a quella, invece, indirizzata alla qualità produttiva. Potrai anche notare che vi sono diversi imprenditori vitivinicoli, quasi tutti appartenenti alla prima vera generazione enologica romagnola; come ti accorgerai delle diverse tipologie di cantine, intorno alle quali, tranne minuscole esercitazioni, non si è mai costruito un minimo spirito di squadra che potesse consentire ai vari produttori di spalleggiarsi per riuscire a vincere la partita nei confronti dei mercati. Sono giovane, ma dalla mia breve esperienza credo di poter asserire che queste sono problematiche storiche, direi quasi ataviche e anche un po’ comuni a tutto il comparto viticolo nazionale, che non è mai riuscito a fare sistema. Sono questioni che qui si evidenziano e si amplificano ancora di più, perché trovano fondamento nei meandri della diffidente cultura contadina che

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contraddistingue noi romagnoli e alla quale si è aggiunta quella particolare impostazione economicistica con cui, negli ultimi decenni, le cooperative ortofrutticole e le cantine sociali dirigono l’agricoltura della regione. Girando per questi territori non troverai nessuna grande azienda, una che sia leader, una di quelle di successo che, in qualche modo possa essere presa ad esempio ed emulata dagli altri viticoltori. Quell’effervescenza enologica che ti ha stimolato e spinto dalla Toscana in Romagna è poca cosa rispetto alle potenzialità che potrebbe offrire questo territorio pre-appennico. È l’effetto ritardato dell’onda lunga di quell’euforia enologica che, nel decennio passato, stimolò molte altre regioni italiane e che oggi sembra essere arrivata qui. È la conseguenza di un piccolo movimento, nato dalla volontà di poche aziende, come la nostra, che si sono prodigate ad accendere delle fiammelle che avrebbero potuto illuminare il panorama vitivinicolo di questa terra se fossero state capaci di far scomparire le ombre che oscurano qualsiasi idea di condivisione e che, purtroppo, hanno contraddistinto a lungo il nostro modo di pensare. Se andrai a casa di qualche contadino, e sicuramente ci andrai, ti accorgerai che ognuno di loro è convinto di produrre il miglior vino del mondo e questa convinzione è talmente radicata nella testa che ti sarà impossibile rimuoverla e se proverai a convincerli che, poi, forse, non è proprio così, stai certo che te ne inimicherai qualcuno. Sono persone ancora legate a ciò che è stato insegnato loro dai padri e dai nonni, i quali erano convinti, a loro volta, di fare solo e soltanto buoni vini e a nessuno di loro è mai venuta l’idea di confrontarli con quelli di un altro, perché non c’è mai stato nessun interesse di considerare cosa facesse o non facesse il vignaiolo della porta accanto. Sono lì a piangersi addosso, ma non si smuovono da dove sono, né si adoperano per cambiare le cose e, come si dice in Romagna: “S’tai mòll a la Panighina in s’ven piò a cà” (se li lasci alla Panighina non sanno più tornare a casa, ossia non conoscono altro che il loro mondo limitato); rimangono lì, immobili, magari lavorando tutto l’anno per 20 ore al giorno, chini dalla fatica a coltivare un po’ di vigna, un po’ di frutteto o un ettaro piantato a fragole rigorosamente consigliato da “mamma” cooperativa. Molti viticoltori romagnoli considerano ancora oggi la loro cantina come un deposito di botti e di attrezzature utili solo per fare


Enrico Giunchi

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del vino, così come considerano le vigne il mezzo per arrivare al loro scopo produttivo, invece di prodigarsi per accudirle come lo strumento ideale a loro disposizione per ottenere il miglior risultato possibile. Sono pochi quelli che si preoccupano di cosa stia realmente succedendo nel mondo del vino e ancor meno quelli che, pur domandandoselo, hanno avviato un serio processo qualitativo sull’intera loro filiera produttiva. Noterai che con essi potrai parlare di vino, forse con qualcuno anche un po’ di vite, ma con nessuno di quale sia il reale valore o il potenziale della loro terra. Personalmente ho preferito seguire altre strade, rifiutando questi vecchi stereotipi e accettando, invece, il cambiamento. Avevo 16 anni quando decisi di fare l’imprenditore agricolo, lasciando la scuola per dedicarmi, con mio padre, al lavoro nei campi e iniziando un percorso che ancora non si è arrestato, ma che, sicuramente, mi ha condotto ad aprire la mia mente e a diversificare la mia iniziale visione di questo lavoro e della campagna, la stessa che avevo acquisito in famiglia. Un processo evolutivo che ha intaccato il mio approccio con la terra, offrendomi l’opportunità di formarmi una visione ampia, diversa, con la quale ho trasformato l’azienda agricola in una fattoria didattica, nella quale c’è sempre un via vai di scolaresche, acquisendo altri terreni che ho trasformato e adattato alle loro specifiche

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caratteristiche per arrivare a renderli economicamente produttivi. Sono partito con tanta volontà, ma anche con il convincimento di poter contribuire a cambiare lo stato delle cose e, a distanza di anni, devo dire che i fatti mi hanno dato ragione, perché oggi posso contare sulla collaborazione di 8 persone che mi aiutano a gestire gli oltre 120 ettari che conduco, un po’ di proprietà e molti in affitto. Una crescita continua che mi consente, ad oggi, fortunatamente, di disconoscere il significato della parola crisi. Anche il progetto Altavita della Fattoria dei Gessi, che nasce nel 2006, segue la stessa idea guida con la quale ho rimodellato su queste terre, insieme ai miei soci Nerio Alessandri e sua moglie Stefania Migani, il concetto vino. Partendo dalla terra e dalle reali potenzialità che la stessa è in grado di offrire, ho provato a fare dei vini che le appartenessero e avessero una forte caratterialità territoriale, cercando di farli conoscere per il connubio perfetto che potevano avere con il loro terroir originale. Con questa filosofia Nerio, Stefania ed io, insieme ad una nutrita schiera di persone, abbiamo dato corpo e, soprattutto, anima alle nostre idee, alle quali sono seguiti degli investimenti non solo finalizzati ad un ritorno economico, ma anche all’acquisizione stessa di quella filosofia che, se radicata, può dare grandi risultati, come si può iniziare ad evincere da questi vini che stai degustando. Anche l’idea di Altavita, che è il nostro progetto di identità, si insinua perfettamente in questa filosofia, anzi la amplia e pone su un piano principale la qualità assoluta che diventa protagonista e che viene continuamente ricercata nella terra, nelle viti, nell’uva, in cantina e in altre cose, fino a giungere all’etichetta con un dinamismo rivolto all’avvenire, alla prospettiva del tempo che verrà, alla ricerca di una migliore qualità e salubrità della vita.


TEMPORA SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti Vigna del Pianto e Podere Macereti, di proprietà dell’azienda, situati in località Celincordia e Saiano, nel comune di Cesena, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 40 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni di origine pliocenica argilloso-calcarei con vene sabbiose ricche di gesso, ad un’altitudine media di 180 metri s.l.m., con un’esposizione a sud e sud-ovest. Uve impiegate Sangiovese di Romagna 90-92%, Cabernet Sauvignon e Merlot 10-8% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla terza decade di settembre alla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in contenitori di acciaio, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 22 e i 25°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10 giorni, durante i quali si effettuano frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in cisterna a temperatura controllata; qui svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques da 2.25 Hl di 1°, 2° e 3° passaggio in cui rimane per 12 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi

ogni 4 mesi. Terminata la maturazione, e dopo 1-2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6-8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 4.500 bottiglie Note organolettiche Di colore rosso rubino con riflessi purpurei, al naso risulta ampio, complesso, piacevole, proponendo equilibrate percezioni olfattive che spaziano da suadenti note balsamiche a quelle di frutti rossi maturi, da accenni speziati e di cuoio a nuances di erbe officinali e floreali di mammola. In bocca esprime al meglio il suo grande equilibrio e la sua eleganza che si armonizza ad una bella vena sapida e ad una struttura tannica fine e vellutata che rende il vino piacevole, lungo e persistente. Prima annata 2006 Le migliori annate 2007, 2009 Note Il vino, che prende il nome dalla volontà di evocare la longevità della storia del vitigno Sangiovese di Romagna nella sua forma più originale, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda Di proprietà della Fattoria dei Gessi Soc. Agr. srl dal 2005, l’azienda agricola si estende su una superficie di 20 Ha, di cui 18 vitati e 2 occupati da oliveto. Collaborano in azienda Alessandro Giunchi, l’agronomo Fabio Burroni e l’enologo Sergio Parmeggiani.

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Claudio Ancarani Il vino è come la vita per gli uomini purché tu lo beva con misura. Che vita è quella di chi non ha vino? Questo fu creato per la gioia degli uomini. Allegria del cuore e gioia dell’anima è il vino bevuto a tempo e a misura. Siracide, 31, 27-28 Sono qui, perché mio bisnonno, mio nonno e mio padre facevano i contadini e a me è sembrato giusto continuare a farlo. Lo facevano nella campagna faentina sulla quale anch’io sono cresciuto, riuscendo a dare dignità a questo lavoro di vignaiolo con il quale trasformo l’uva in vino. Un impegno giornaliero, che mi pone a contatto con la terra, dove coltivo e raccolgo i frutti del mio quotidiano impegno e allevo i miei sogni, cresciuti man mano che sono diventato grande. Questa è la mia terra. Se la osservi bene, noterai che è una terra ricca, opulenta direi, sulla quale filari di piante di kiwi, pesche, albicocche e cachi si alternano a quelli delle viti. Una terra dove le aree fruttifere sono sempre più orientate verso una vera e propria industrializzazione dell’attività produttiva, mentre quelle viticole adiacenti vanno nella direzione di un crescente rispetto della pianta, al fine del raggiungimento dell’equilibrio produttivo. Ritengo di aver effettuato la scelta giusta, e di essere stato anche fortunato a rimanere in contatto con questo ambiente, perché non solo ho potuto impratichirmi in entrambi i settori, ma perché ho

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vissuto esperienze uniche, stando a contatto sia con mio padre Serafino, che mi ha dato cognizioni specifiche del comparto fruttifero, sia di mio nonno Pietro, soprannominato Delmo, ma meglio conosciuto come Capân - capanna - un grande esperto e conoscitore d’uva che mi è stato al fianco fin quasi al compimento del mio diciannovesimo compleanno, insegnandomi gran parte di ciò che conosco nel settore. Un uomo straordinario, un “azdor” un capo famiglia - che, ogni mattina, se ne andava in piazza per concludere degli affari di compravendita dei prodotti agricoli. Uno che potrebbe assomigliare a un moderno broker, ma che preferisco ricordare come un vecchio e arcaico uomo di campagna che, mentre gli altri stavano a casa a sbrigare i lavori, stipulava contratti con una semplice stretta di mano e risolveva, con maestria, tutti quei problemi burocratici che è necessario adempiere per poter mandare avanti un’azienda agricola. Grazie a Delmo e Serafino, ho potuto respirare la tradizione di questo territorio, assimilare i gesti e quei rituali con i quali, da sempre, vengono scanditi i tempi in questa campagna faentina. Crescendogli al fianco, compresi il significato del valore che potevano avere gesti che, ai più, magari, apparivano insignificanti, ma che a me affascinavano e mi legavano ancora di più a questi luoghi: le partite a carte giocate fra il brusìo di vecchi compagni di gioco con i quali condividere una bottiglia di vino, mentre, da un’altra parte, un vocìo accompagnava il giornaliero, acclamato torneo di bocce. Ogni cosa era espressione di una socialità schietta, sincera, ma ormai, ahimé, scomparsa, compresa in quel semplice e genuino mutuo soccorso con il quale tutti si scoprivano, nel momento del bisogno, amici solidali. Starei ore a raccontarti di questi ricordi che appartengono ad un passato recente, del quale frasi, gesti e profumi ritornano spesso alla mente e al naso, come l’odore di certe pesche che mio padre produceva quando ero bambino, proprio qui su queste colline, riuscendone a raccogliere, senza un filo d’irrigazione, anche centocinquanta quintali per ettaro. Se osservi ora, non esiste più un solo pescheto su queste alture,



mentre li troverai più a valle in pianura, dove l’irrigazione è più semplice e il terreno è forse anche più fertile che qui, ma dove non ti sarà più possibile sentire quel profumo di cui io, quasi come un lusso, posso ancora godere raccogliendo i frutti delle poche piante superstiti che ho mantenuto per uso domestico. Forse è la forza di questi ricordi a spingermi avanti, lavorando questa campagna con rispetto ed attenzione, proteggendola e mantenendola come mi è stato insegnato e adoperandomi per migliorarla, opponendomi con tutte le mie forze per non diventare, un giorno, un numero nei tabulati di qualche cooperativa della zona che identifica tutti come una particella, atta solo a realizzare un determinato prodotto. Cooperative dove moderni manager, ben diversi da Delmo, decidono cosa e come produrre, ti dicono quali anticrittogamici usare, dove comprarli, come usarli, quando raccogliere e consegnare i frutti, decidendo a chi venderli, evitandoti anche il fastidio di andare, quell’unica volta all’anno, a riscuotere la divisione degli utili, accreditandoti in una banca, scelta da loro, quel misero compenso annuale dal quale provvedono a sottrarti le somme utili per saldare le fatture dei fornitori che hai utilizzato, anch’essi scelti da loro. Tristi storie che riducono il fascino di questo lavoro e la bellezza di avere una visione diversa di questa terra sulla quale mio padre Serafino e mio nonno Delmo hanno costruito la loro esistenza e dove io oggi lavoro, dopo i miei studi di agrotecnico, con il solo scopo di poter rimanere in campagna e trasformare, come ti dicevo, l’uva in vino. Potevo fare tante altre scelte e anche un altro tipo di vita che, forse, avrebbero potuto rendermi diverso, ma, ne sono sicuro, non sereno come sono adesso. A volte mi chiedo se non sia stata la paura a trattenermi qui, come se, in qualche modo, dentro di me, avessi intuito che, qualsiasi altra cosa avessi fatto, non avrei potuto incontrare che un’effimera felicità. Invece, credo che sia stata la consapevole certezza che soltanto qui, dove sono radicate le mie radici, avrei potuto davvero trovare me stesso. Questo è un luogo visceralmente mio, dove combatto, quotidianamente, una mia personale battaglia contro tutto ciò che è puro e semplice business, contro tutto ciò che conduce alla standardizzazione e all’omologazione dei gusti nel mondo del vino, nella speranza di riuscire a identificarmi in quel terroir che, da anni, vado costruendo, l’unico che mi può caratterizzare in questo contesto globalizzato. Questa libertà, con la quale affronto il quotidiano, mi costa sia in termini economici, sia di innumerevoli sacrifici, poiché ciò che faccio, cerco di farlo onestamente e in modo etico: si tratti della ristrutturazione della cantina, di un nuovo vigneto o del non utilizzo di composti o soluzioni chimiche durante la vinificazione, pensando esclusivamente, e prima di tutto, alla salubrità dei miei vini e dell’ambiente in cui vivo. Metodi, sistemi, idee, pensieri e sogni che si intrecciano e scandiscono il mio modo di essere allo stesso tempo agricoltore, vignaiolo, contadino, imprenditore e, soprattutto, quel semplice ragazzo che cerca di porsi in armonia con ciò che fa e con ciò che lo circonda.

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SAVIGNÔN ROSSO IGT RAVENNA ROSSO Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Centesimino provenienti da un vigneto di proprietà dell’azienda, situato in località Oriolo dei Fichi, nel comune di Faenza, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 15 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni di origine franco-argillosa, ad un’altitudine compresa tra i 40 e i 70 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate Centesimino 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 3.300 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla metà di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica, che è svolta in tini di acciaio e si protrae per 15-20 giorni (contemporaneamente alla macerazione sulle bucce), periodo durante il quale vengono effettuati délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in botti di cemento vetrificato in cui rimane per circa 9 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati alcuni travasi. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 4.000 bottiglie l’anno

Note organolettiche Di un rosso rubino intenso quasi impenetrabile con un’unghia color granato, al naso il vino offre note di mora, ribes, prugna e melograno, oltre che percezioni di rosa canina e nuances speziate di pepe che si arricchiscono nel finale di una bella mineralità. In bocca è elegante, fresco, gradevole, con tannini ben equilibrati ad una buona sapidità che conferisce al vino piacevolissima bevibilità. Prima annata 2001 Le migliori annate 2001, 2004, 2006 Note Il nome Savignôn Rosso in origine era usato localmente per identificare la varietà di uva con cui si produceva questo vino. La vite, riconosciuta poi in seguito varietà autoctona, è stata rinominata Centesimino; il vino raggiunge la maturità dopo circa 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 2 e 5 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Ancarani dal 1933, l’azienda agricola si estende su una superficie di 18 Ha, di cui 14 vitati e gli altri occupati da frutteto e seminativi. Svolge le funzioni di agronomo lo stesso Claudio Ancarani, mentre per quelle di enologo l’azienda si affida alla consulenza di Giovanni Masini.

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Lascio alle mie spalle la città di Parma per inoltrarmi nelle sue immediate colline, in direzione Pilastro di Langhirano, verso l’azienda Ariola, per incontrare Marcello Ceci, membro di una delle famiglie storiche di produttori di vino della provincia, staccatosi dalla cantina paterna per seguire la sua indipendente avventura di vignaiolo in terra d’Emilia. Un incontro capitato per caso, dopo aver aggiunto, all’ultimo minuto, un altro nome a quella lunga lista di aziende che mi ripromettevo di visitare durante il mio viaggio

nell’enologia emiliano-romagnola. Mi ritrovo così davanti ad un vignaiolo con il quale, inspiegabilmente, costruisco un immediato feeling. Senza un motivo apparente, riesco ad avviare con Marcello un bellissimo dialogo, schietto, sincero, ma soprattutto aperto, dove scopro non solo quale sia il

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suo passato, ma anche il piacere della condivisione delle mie stesse sensazioni iniziali che spingono, entrambi, a superare la fase del semplice racconto narrativo, di cosa abbiamo o non abbiamo fatto, valicando la soglia della confidenza con la quale conosco sempre meglio il suo carattere. Così, poco a poco, forse anche erroneamente, mi convinco che il motivo di quella nostra reciproca e immediata empatia sia da ricercare nel fatto che anche lui, come me, pur essendo più giovane di dieci anni, è nato il 24 luglio ed è venuto al mondo, come me, alle 5,30 del mattino, e cosa ancora più sconvolgente, che non solo anche lui ha come segno zodiacale quello del leone, ma, come me, lo stesso segno anche per ascendente. All’apparenza mi sembra un mix esplosivo, pur non sapendo se tutto quello che si racconta intorno ai segni zodiacali sia vero e se nelle nostre vite incidano i giorni, i minuti e i secondi in cui siamo nati, o se a condizionare le nostre esistenze siano più la luna, le stelle o il magnetismo dei pianeti. Sta di fatto che questa strana coincidenza mi fa ritrovare davanti al mio stesso ologramma, proiettato, all’improvviso, sullo sfondo di un’altra vita, dove l’immagine di un altro uomo si mischia alla mia e a quella folta criniera di leone con la quale faccio da cornice ai pregi e ai difetti che mi caratterizzano e che, spesso, si esprimono con un coraggioso - o stonato - ruggito di difficile interpretazione con cui affronto gli alti e i bassi delle vicissitudini che la vita sa, magnificamente, offrirmi. Sensazioni che credo appartengano anche a Marcello, con il quale scopro molte similitudini nelle storie che mi racconta e che si intrecciano ad altre storie molto vicine fra loro con le quali, anche lui come me, si è confrontato alla soglia dei suoi quarant’anni, rimettendosi in gioco e ridiscutendo ogni cosa vissuta precedentemente, decidendo di affrontare la propria vita in modo diverso rispetto a quella


Marcello Ceci, Claudia Ghezzi

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che aveva condotto, molto agevolmente, all’interno dell’azienda di famiglia, condividendo le sorti della stessa con fratelli e cugini. Non ha importanza se a spingerlo in quella direzione sia stata una vena di pazzia o d’incoscienza, ma posso assicurare che, a quarant’anni, ci vuole coraggio a lasciare alle spalle il sicuro per l’incerto, trovando la voglia di voltare pagina per iniziare a scriverne una nuova, come ha fatto lui. Non so se, in questi casi, conti più la casualità o le circostanze che uno si trova a vivere, o se, invece, siano l’ambizione e l’aspirazione i veri motori che smuovono le cose, oppure la rabbia o l’orgoglio, lubrificanti perfetti nello spingere le persone a cercare di trasformarsi in ciò che hanno sempre voluto essere. Non so se, a tutti questi elementi, ve ne siano da aggiungere altri che, insieme a svariati aspetti, hanno dato origine a quell’insieme di eventi catartici che sconquassano il preesistente e costruiscono le basi per un futuro diverso da quello immaginato. Non so se, senza i contrasti avuti nella precedente azienda con cugini e fratelli, avrebbe deciso lo stesso di “costruirsi” come imprenditore e vignaiolo, come

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non so se senza la nascita dei figli avrebbe avuto la stessa determinazione che ha oggi di costruire qualcosa d’importante per loro. Scelte affrontate per casualità o per ambizione e orgoglio, ma anche con la consapevolezza di chi ha voglia di affermarsi e di riuscire a costruire qualcosa d’importante nella vita. Il suo è stato un ruggito forte, risoluto, contrastato, lo stesso che lo ha indotto a scrivere una nuova storia, acquisendo quest’azienda, che era di proprietà di Forte Rigoni, un agricoltore settantottenne che, pur producendo dell’ottimo vino e commercializzando oltre 200.000 bottiglie, dovette cederla, non avendo nessuno a cui lasciarla, dato che i suoi figli non ne volevano sapere di proseguire l’attività di famiglia. È qui, su questi settanta ettari, di cui poco più di trenta vitati, che Marcello ha costruito il suo futuro, puntando sulle vigne, sulla qualità dei prodotti e su quella mentalità innovativa e commerciale che possedeva dalle sue precedenti esperienze. Da quello che comprendo non è stato tutto così facile e non tutto gli deve essere sembrato rose e fiori, anzi, dai suoi racconti mi sembra di percepire che sono stati anni di duro lavoro e di sacrifici, durante i quali molte notti sono trascorse insonni e molte giornate sono passate dividendo le sue energie tra i singoli aspetti che coinvolgono la filiera produttiva di un’azienda vitivinicola artigianale che aveva l’ambizione di crescere. Sono portato a pensare che la sua sia stata una sfida personale, avviata con se stesso per recuperare e mantenere viva la propria libertà d’agire e poter condividere i frutti della sua giornata solo con sua moglie e i suoi figli, certo e sereno per il futuro e felice per il presente.


MARCELLO LAMBRUSCO DELL’EMILIA IGT VINO FRIZZANTE ROSSO Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Lambrusco Maestri provenienti dal vigneto Barbiano, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Felino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 4 e i 12 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni di origine calcarea ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a est-ovest. Uve impiegate Lambrusco Maestri 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede prima alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è posto in tank di acciaio, dove svolge la fermentazione alcolica alla temperatura controllata di 12-14°C per circa 8 giorni; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura per altri 8 giorni, periodo durante il quale vengono effettuati délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo una decantazione statica e mantenendo sempre le temperature basse, il vino è messo in autoclave dove rimane per circa 6 mesi; quindi si procede alla presa di spuma e all’imbottigliamento. Segue un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta 100.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Il vino si presenta all’esame visivo di un bel colore porpora, intenso, luminoso e con

una spuma densa e cremosa, mentre al naso propone sentori di fragoline selvatiche, ribes e note erbacee e floreali che si ampliano su percezioni speziate. In bocca è deciso e avvolgente, ampio e fresco; nonostante una fibra tannica giovane e presente, risulta equilibrato e in possesso di un finale fruttato. Prima annata 2004 Le migliori annate 2004, 2006, 2007, 2009 Note Il vino, che prende il nome dal titolare dell’azienda, Marcello Ceci, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 3 anni. L’azienda L’azienda, di proprietà di Marcello Ceci e della moglie Claudia dal 2003, si estende su una superficie di 70 Ha, di cui 65 vitati e 5 occupati da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Andrea Florian e l’enologo Stefano Zappellini.


È ormai sera e le luci dei negozi illuminano quel che rimane dello struscio pomeridiano dei faentini lungo i portici che disegnano l’ingresso di Piazza del Popolo. Sono portici alti, costruiti per essere eleganti e far apparire poca cosa molti di quelli che contraddistinguono, con le loro volte, le architetture delle altre cittadine romagnole. Imponenti, s’indirizzano a V verso sud, dando ospitalità a quanti, come me, all’imbrunire, ormai non hanno più fretta e si ritrovano in piazza per regalarsi un aperitivo serale che ha il grande merito di prolungare la giornata, mantenendo vivo un luogo che, ahimè, cadrebbe, con l’avanzare della notte, in un pauroso silenzio. Fuori fa freddo, ma non me ne curo e sulla soglia del bar dove sono entrato, ascolto le chiacchiere di chi mi circonda per capire quali siano i gesti e i rituali che questo luogo possiede e quanto sia borghese l’anima di Faenza. Mi diverto a sentire lo slang dialettale quasi incomprensibile di questi faentini così creativi, provinciali e snob, sforzandomi di confrontarli con gli altri romagnoli fin qui conosciuti che, come loro, fanno pulsare in modo costruttivo questa Romagna, di cui sto ancora cercando di identificare, senza riuscirci, i confini. Romagnoli che mi hanno sorpreso per il dinamismo, per l’innata ruvidezza campagnola, per la riservata timidezza, per la diffidenza, per la delicata solidarietà, per l’altruismo e per quel loro orgoglio che si “accende” tutte le volte che qualcuno nomina la loro Romagna. Sono uomini consapevoli di appartenere ad una razza diversa dalle altre che popolano questa regione, perché hanno radici forti, incuneate profondamente in questa terra, nutrite di quella sana e genuina cultura contadina che li contraddistingue. Guardo l’orologio, poi cerco di

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capire se, per caso, nel frattempo stia per arrivare Veruska, con la quale ho appuntamento. Stamani, quando sono andato nella sua azienda, a Balìa di Zola, per varie ragioni tecniche, dovute alla troppa neve caduta nella nottata, non mi è stato possibile né assaggiare i suoi vini, né scambiare due parole su quella giovinezza che contraddistingue la sua passione per il vino, la stessa che l’ha spinta a lasciare non solo San Giovanni Valdarno, in Toscana, suo luogo di nascita, ma anche gli studi e l’attività di restauratrice che svolgeva all’Opificio delle Pietre Dure a Firenze. Un desiderio che aveva sentito seguendo Claudio in giro per Cantine con la convinzione che quello poteva essere il suo mondo. Una passione che l’ha indotta a dar vita ad una piccola azienda vitivinicola, situata proprio sopra Modigliana, sull’Appennino Tosco-Romagnolo, a quasi quattrocento metri di altitudine, su delle colline da cui ho goduto di un paesaggio splendido e indimenticabile, candido di neve e che, per natura, avrebbe dovuto essere destinato interamente a una fiorente viticoltura, la quale, invece, ha trovato inspiegabilmente sbocco giù a valle. Mentre sono in attesa di appagare la mia curiosità, e prima ancora che finisca il mio bicchiere di vino, eccola. La vedo attraversare la piazza con in mano una confezione di due bottiglie che, sicuramente, avremo il modo di degustare in uno dei ristoranti aperti nel centro storico di Faenza, trovando anche il piacere di accostarle a qualche piatto tipico. Così, senza attendere oltre, pago e le vado incontro. In una piccola trattoria poco distante troviamo un tavolo a cui sedersi. Come se ci conoscessimo da lunga data, incominciamo a parlare. Mi accorgo presto di non aver bisogno di stimolarla per farmi raccontare le cose; Veruska si dimostra subito una spigliata e diretta interlocutrice, capace di raccontarsi e farmi comprendere quali siano stati i motivi per i quali oggi lei è qui, in questo luogo, il motivo per il quale sta stappando un suo vino, parlando di sé, del suo impegno, delle sue passioni e di ciò che l’ha spinta ad innamorarsi di un luogo come Balìa di Zola; qui ha deciso di vivere insieme ai suoi due figli e a suo marito, il quale - mi confessa candidamente - da enologo, non si è lasciato ammaliare, come lei, dalle bellezze paesaggistiche del posto, ma piuttosto dai terreni che lo caratterizzano e da un vigneto di Sangiovese vecchio di oltre quarant’anni che dimostrava, viste alcune degustazioni di vino fatte nella piccolissima cantina del vecchio proprietario, di avere enormi potenzialità. Fu solo a quel punto che anche a Claudio non interessò più il fatto che la casa non fosse abitabile, né che la cantina fosse da costruire o che vi fosse poco meno di un ettaro di Sangiovese


Veruska Eluci Fiore

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(che sarebbe stato il vivaio da cui realizzare le marze per i nuovi impianti): per entrambi l’importante era che vi fossero altri undici ettari sui quali puntare e che Balìa di Zola potesse rappresentare un progetto a cui credere per il futuro. La lascio parlare, poiché mi piace come si accalora e come, in modo autorevole, prende in mano la conversazione, dettando anche i tempi tecnici della degustazione di quel suo Redinoce, un Sangiovese austero ed elegante che lei definisce il suo “Re”; mi racconta di come quel vino le parli, dicendole: “Ehi! Guarda Veruska, che io posso fare quello che mi pare e non m’interessa se tu sei enologo, un semplice contadino o un grande Winemaker! Sappi che a me non importa di te e di chiunque tu sia, perché qui, su queste colline appenniniche, sono io il vitigno Re dei vini”. Sorrido e lei con me quando mi confessa che suo marito non ne vuol sentir parlare di questo suo dialogo con il vino, poiché è convinto che quel vino è così perché c’è lui a farlo, mentre lei, invece, è convinta che ciò non sia del tutto vero, ma che, anzi, gran parte del merito di tutta questa grazia di Dio percepita in quel bicchiere di vino sia da attribuirsi proprio al Sangiovese impiantato su quelle terre. Ride, nel raccontarmi questo, così come ride di felicità tutte le volte che una cosa le piace e la diverte. Noto che il chiacchiericcio degli altri commensali è aumentato, mentre i nostri due bicchieri tintinnano; non mi distraggo e rimango affascinato da come lei si stia muovendo in questo ruolo che stasera interpreta per me; scopro come dentro esso vi siano il suo desiderio di voler diventare vignaiola e fare l’imprenditrice e allo stesso tempo quello di essere anche moglie, madre e femmina. In lei ci sta tutto e ciò che esce dalla sua bocca è qualcosa di genuino, di schietto e di vero che va dritto al nocciolo della questione, senza troppi preamboli o giochi di parole, facendola assomigliare al vino che produce, ricco di una forte personalità, che può piacere o non piacere, ma che, come lei, è ruvido, vero e verace.

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REDINOCE IGT FORLI’ ROSSO Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Bianca, di proprietà dell’azienda, posto in località Zola, nel comune di Modigliana, le cui viti hanno un’età compresa tra i 40 e i 45 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni di origine argillosa, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 320 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 6.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, con lieviti indigeni, è avviato alla fermentazione alcolica, fatta svolgere in tank di acciaio alla temperatura controllata di 28°C per circa 8-10 giorni, durante i quali si effettuano alcuni délestages. Dopo la svinatura, il vino è messo in barriques di rovere francese da 350 lt di primo passaggio, dove non solo svolge la fermentazione malolattica, ma rimane anche per 12 mesi, periodo durante il quale si effettuano almeno 4 travasi. Terminata la maturazione e dopo l’assemblaggio delle partite e 2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione.

Note organolettiche Di un colore rosso rubino intenso e vivace, con un’unghia violacea, il vino si propone all’esame olfattivo con piacevoli profumi fruttati di ciliegie e di frutti del sottobosco che si aprono a note speziate per terminare in un finale minerale e verso sensazioni erbacee. In bocca risulta incisivo, equilibrato con, in prospettiva, una grande eleganza, che ora è un po’ smussata da una fibra tannica viva, ben marcata, che crea personalità e tipicizza il prodotto, conferendogli, insieme ad una buona mineralità, sicura lunghezza e longevità. Prima annata 2004 Le migliori annate 2004, 2007, 2008 Note L’etichetta del vino è un disegno fatto da Vittorio, primogenito di Veruska, quando aveva sei anni. Lui vedeva così Zola: con il grande albero di noci dove aspettava le poiane a fare il nido. Da qui il nome del vino, che raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà di Veruska Eluci dal 2004, si estende su una superficie di 13 Ha, di cui 4,5 vitati, 1,5 a oliveto e il resto occupato da bosco. Svolge la funzione di agronomo e di enologo Claudio Fiore.

Quantità prodotta circa 5.000 bottiglie l’anno

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Ov’è ‘l buon Lizio e Arrigo Mainardi? Pier Traversaro e Guido di Carpigna? Oh Romagnuoli tornati in bastardi! Quando in Bologna un Fabbro si ralligna? quando in Faenza un Bernardin di Fosco, verga gentil di picciola gramigna? Dante, Commedia, Purgatorio, Canto XIV, vv. 97-102 Guarda questi quaderni. All’interno vi troverai appunti riguardanti le fasi operative che hanno interessato la stagionalità delle mie vendemmie passate, proprio di tutte quelle che ho fatto fino ad oggi. Minuziosamente, ogni anno, continuo ad appuntare ogni cosa e tutto ciò che mi possa consentire di costruire una memoria storica del mio mestiere di vignaiolo che svolgo su queste colline forlivesi dove, se si esclude un po’ la zona di Predappio, non vi era mai stata, fino ad una decina di anni addietro, una men che minima cultura viticola che, in qualche modo, potesse essere posta alla base di un humus capace di indirizzarsi verso la produzione di vini con sempre maggiore qualità enologica. Sono appunti a cui tengo molto, essendo la testimonianza di quanti e quali sacrifici sia stato costretto a fare, di anno in anno, con i mezzi a mia disposizione; mi hanno fornito indubbiamente dei risultati, anche se da verificare ogni volta per controllare se vi sia mai qualcosa che accomuni ciò che ho fatto in vigna e in cantina. È un lavoro minuzioso di registrazione e spuntatura di tutto quello che sto portando avanti, anche se guardando gli scarabocchi e cosa scrivo, mi rendo conto che ogni anno è diverso dall’altro. Una diversità non dovuta soltanto all’aspetto oggettivo delle variazioni climatiche che interagiscono, mutevolmente, sui processi produttivi in vigna, ma riconducibile anche a fattori soggettivi con cui io stesso mi confronto nella risoluzione di tutte quelle problematiche che insorgono, nel vigneto e in cantina e, modificando il mio modus operandi, arricchisco di fatto la stessa mia cultura enologica di nuove e altre conoscenze che a loro volta si vanno modificando e innescano una sperimentazione che crea un circolo virtuoso intorno ad un lavoro mai ripetitivo e sempre affascinante. Così vivo una vendemmia dietro l’altra e ogni volta continuo a scrivere cosa vi sia di diverso rispetto a quella che si è appena conclusa: mi racconto un po’ dove io stia andando,

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come vignaiolo e come uomo. La mia è una storia giovane, dato che sono passati pochi anni da quando ho incominciato a costruire il mio piccolo brand, anche se mi sembrano appartenere ad un tempo lontano, molto lontano; un tempo fatto di tanti e tanti giorni, messi uno di seguito all’altro, ricchi solo di lavoro, di pazienza e di una costante presenza sul campo, proprio in mezzo a queste vigne, come si conviene ad un piccolo vigneron, anche perché è questo che so fare e non credo potrei fare diversamente, viste le dimensioni aziendali di cui dispongo. Non ho possibilità né di avere dipendenti fissi, né di pagare qualcuno che, periodicamente, vada al posto mio in mezzo alle viti ed è per questo che, con il tempo, si è venuto a costruire un rapporto magico con le vigne e con questa terra. Un attaccamento forte, nato all’inizio degli anni ’80, quando, rientrato dal servizio militare, incominciai ad aiutare i miei genitori nella conduzione di quest’azienda di 12 ettari che essi avevano acquistato nel 1964, dedita, perlopiù, a colture cerealicole e fruttifere, a corollario delle quali vi era una piccola vigna, situata proprio in mezzo agli altri appezzamenti, piantata da mio padre nel 1968 e dalla quale, qualche anno dopo, partii per ampliare l’estensione viticola aziendale. Una riconversione importante, avviata dopo aver preso coscienza che quella promiscuità produttiva non era redditizia e non mi avrebbe mai potuto permettere di mantenere una famiglia, come, invece, avevo intenzione di fare avendo progettato di sposarmi con Renata. La redditività aziendale non poteva basarsi più su quei pochi introiti scaturiti dalla vendita della frutta, di quel po’ di frumento che producevamo e del vino sfuso che vendevamo. Se avessi continuato in quella direzione non avrei avuto un futuro. Decisi così di puntare tutto su una viticoltura d’eccellenza e sul


Stefano Berti

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vino di qualità e, senza ascoltare i consigli delle varie cooperative, che mi proponevano di piantare vitigni come il Bombino, il famoso Pagadebit, il Trebbiano o l’Albana, incominciai a produrre del buon Sangiovese, convinto, come sono sempre stato, che queste terre fossero vocate per vitigni a bacca rossa. Questa decisione, però, modificò di poco la situazione preesistente, non certo come io mi aspettavo e forse sarebbe rimasta tale se non fossi stato stimolato dall’incontro avvenuto con il produttore Michele Satta e con l’enologo Attilio Pagli, a imbottigliare il vino che producevo, lasciando perdere quella vendita del vino sfuso che mi consentiva solo di sopravvivere, come era sempre accaduto negli anni precedenti. Ricordo il primo Vinitaly, quello del 2001, al quale partecipai con dei campioni e con solo cinquemila bottiglie in cantina. Rammento ancora l’emozione che mi suscitò l’incontro con il mio primo cliente e quello con il primo importatore americano che sembrava aver l’intenzione di comprarmi tutta la produzione. Fu la fiducia in me stesso il credito più grande che riportai da quel Vinitaly dopo il quale, quasi magicamente, l’attività incominciò un lento ma costante progresso che mi consentì di impiantare nuove vigne e aumentare la produzione fino a portarla all’attuale, che conta poco meno di 40.000 bottiglie annue. Giorni ai quali seguirono altri giorni, con una continua crescita di tutto il sistema aziendale in un continuo divenire nel quale arrivarono i primi riconoscimenti e la comparsa dell’azienda sulle riviste; con l’aumentata visibilità, crebbe anche lo squillare del telefono che si mise improvvisamente a suonare all’impazzata, proprio in occasione dell’assegnazione da parte di una guida del massimo punteggio a un mio vino. Dopo più di un decennio riconosco che quell’incontro con Michele mi cambiò la vita. Sospinto dal quel suo sostegno morale del tutto disinteressato e dal pragmatismo anche un po’ geniale che caratterizza noi romagnoli, mi sono adoperato per modificare le sorti dell’azienda e i progetti della mia stessa vita, costruendo un sogno che, ancora oggi, sto perseguendo e attraverso il quale cerco di promuovere, nel mondo, questa terra di Romagna, questo Sangiovese e il mio stesso nome, partendo proprio dal mio piccolo “garage” aziendale posto sopra Forlì.

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RAVALDO SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, situato in località Ravaldino in Monte, sui colli pre-appenninici proprio sopra Forlì, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 20 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni argilloso-calcarei ad un’altitudine compresa tra i 120 e i 150 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est / sud-ovest. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda metà di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, senza inoculo di lieviti, è avviato alla fermentazione alcolica, fatta svolgere in tank di acciaio per circa 7-8 giorni ad una temperatura di 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae, a seconda dell’annata, per altri 8-10 giorni, durante i quali si effettuano frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è nuovamente posto nei contenitori in acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per altri 9 mesi; segue l’imbottigliamento e un ulteriore affinamento di altri 8 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta circa 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino si presenta all’esame olfattivo ricco, quasi carnoso, maturo, con spiccate note fruttate che si mescolano a percezioni floreali di fiori appassiti e spezie come cannella e liquirizia. In bocca ha un’entratura snella, fresca, pulita, elegante, suffragata da una struttura tannica armoniosa, elegante e ben equilibrata che unisce le varie componenti gustative, compresa una buona acidità, rendendo il vino piacevole alla beva e persistente, con un finale che ricorda molto la frutta fresca percepita al naso. Prima annata 2000 Le migliori annate 2001, 2004, 2007 Note Il vino, che prende il nome dalla località dove ha sede l’azienda, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 7 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà di Stefano Berti dal 1964, si estende su una superficie di 12 Ha, di cui 7,5 vitati, 2 occupati da oliveto e i restanti da seminativi e bosco. Collaborano in azienda gli enologi Attilio Pagli e Leonardo Conti.

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Crediamo che vi sia una profonda verità in ciò che dici e nel fatto che le nostre storie di vita somiglino, come tante altre del resto, ad una valigia, dove ognuno di noi ha disposto dentro non solo le cose più care, ma anche quelle che, scioccamente, pensava fossero sue e non lo erano. Tutte lì, dentro a quella valigia, insieme a tanti altri ricordi, alle gioie, ai dispiaceri, alle passioni e agli amori, riempiendola e appesantendola a tal punto da costringerci a rallentare il nostro viaggio. Quella valigia ci ha fatto compagnia, seguendoci dove volevamo andare e facendo incrociare i nostri destini qui a Monteveglio dove ci siamo conosciuti, insieme abbiamo incominciato a parlare, imparando ad ascoltare cosa avevamo da dirci, decidendo, piano piano, di iniziare a costruire dei progetti comuni: ci siamo amati, sposati, abbiamo avuto figli e ci siamo aperti entrambi ad un tempo sereno, durante il quale abbiamo unito le nostre esperienze, costruitesi lungo strade diverse: quella di Bruno è partita da Roma e ha seguito la direzione indicatagli dall’area commerciale di una grande

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azienda internazionale, mentre quella di Angela si è evoluta in un ventennio dietro al fascino del mondo della moda. Nel frattempo sono trascorsi molti anni e tanta acqua è passata sotto i ponti: ora, come puoi immaginare, quell’ingombrante bagaglio è riposto in un angolo della nostra casa. Ma non vogliamo aggiungere altro che riguardi le nostre storie passate, se non accennarti che ora siamo felici, avendo scoperto come quelle nostre precedenti esperienze lavorative, apparentemente distanti fra loro, dimostrarono di avere, invece, molti punti in comune e ci consentirono non solo di acquisire una forte capacità con la quale stabilire immediatamente un feeling comunicativo con le persone, ma anche di avere una cocciuta determinazione con la quale ricercare sempre e comunque il miglior risultato possibile. Non fu un caso quindi quello di fondere assieme le nostre vite e dedicarci a qualcosa che ci stimolasse ancora di più, come avrebbe potuto fare solo il grande appeal che il mondo del vino ad entrambi è stato in grado di trasmettere e grazie al quale ci siamo accostati a quest’azienda storica di Monteveglio, dove entrammo nel 1997 in società con Pio Vannozzi, allora unico proprietario e presidente del Consorzio di Tutela dei Vini DOC Colli Bolognesi. Rincorrendo quella nostra passione, unimmo le forze alla corte di una nobile e antica famiglia, condividendo con essa una lunga tradizione enologica che ci ha fatto prima innamorare e poi coinvolto a tal punto da voler migliorare ogni anno ciò che eravamo riusciti a realizzare nella vendemmia precedente, puntando sulla ricerca di tecniche enologiche e di vinificazione innovative nella nostra realtà territoriale, grazie alle quali siamo stati in grado di dar vita a prodotti che rappresentano con autenticità il vero carattere dei Colli Bolognesi. Dal 1997 iniziammo a realizzare importanti opere strutturali, orientando l’azienda verso un costante innalzamento della qualità; un deciso balzo in avanti c’è stato a partire dal 2000, quando abbiamo rinnovato anche gli impianti viticoli, mettendo a dimora 6 nuovi ettari di vigneti ed investendo con sempre maggior convinzione sul vitigno autoctono Pignoletto, che in questo territorio ha la fortuna di poter trovare il suo migliore habitat e che la Bonfiglio è riuscita a far esprimere nel più ampio ventaglio delle sue naturali potenzialità.


Bruno Azolini, Angela Baraldi

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Ancora oggi non ti nascondo che ci capita di inciampare in quella valigia, rendendoci conto che non siamo stati capaci ancora, in tutti questi anni, di svuotarla. Anzi, abbiamo la netta percezione che, invece, questa lunga e intrigante storia che stiamo vivendo intorno ai vigneti e a questa cantina, l’abbia ancora di più appesantita. Non importa, tanto resta lì e non si muoverà più e non ci interessa se lo sforzo continuo compiuto nel miglioramento delle tecniche di vinificazione e l’impegno profuso per tenere sotto controllo tutta la filiera produttiva la colmerà ancora di più di quanto non lo sia già. Se ti permettessimo di aprirla, ti

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renderesti conto che contiene mille cose, dai momenti irripetibili vissuti insieme in questi anni alle grandi soddisfazioni e alle delusioni che ci hanno unito, dai buoni propositi con i quali annaffiavamo i nostri sogni alle opportunità che pensavamo di avere e che, alcune volte, sono venute meno, dalla conoscenza che abbiamo acquisito all’innovazione che abbiamo attuato, partendo proprio dalla tradizione che abbiamo trovato qui ancora vitale e attiva. Sono tante piccole o grandi cose che, comunque, hanno ormai come punto di riferimento solo e soltanto l’azienda Bonfiglio. Questa è la nostra storia e, se siamo riusciti almeno un po’ ad incuriosirti, speriamo che un giorno tu possa venire a trovarci e vedere di persona la nostra cantina e i nostri vigneti che fanno da sfondo ad un paesaggio naturalistico di grande effetto, a buon titolo dichiarato Parco Regionale, in cui domina dall’alto l’antica Abbazia di Monteveglio che risale all’anno Mille... Potrai ammirare questi luoghi e le persone che li animano, così riuscirai ad assaporare il gusto delle nostre terre e del buon vino che siamo in grado di offrirti. Ti aspettiamo... Bruno & Angela


COLLI BOLOGNESI DOC PIGNOLETTO SUPERIORE Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Monteveglio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 20 anni.

maggiore struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 2 mesi prima della commercializzazione.

Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni arenareo-argillosi di origine pliocenica, ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest.

Quantità prodotta circa 8.000 bottiglie l’anno

Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato e guyot

Note organolettiche Di colore giallo paglierino con riflessi vivi e lucenti, il vino offre all’esame olfattivo spiccate note di frutti tropicali molto maturi come mango e banana che si mescolano ad altre più agrumate quasi di zagara con una chiusura minerale veramente intrigante. In bocca è piacevole, persistente, di buon corpo e ripropone nel finale i sentori fruttati percepiti al naso.

Densità di impianto 3.400 ceppi per Ha

Prima annata 2003

Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione pellicolare in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 8-10°C. Dopo 8 ore di débourbage, consistente in una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 1012°C, lo stesso è messo in vasche di acciaio; qui, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura di 1516°C per circa 10-15 giorni con eliminazione delle fecce pesanti. Vengono quindi effettuati periodici bâtonnages delle fecce nobili per almeno 4 mesi ad una temperatura inferiore ai 15°C al fine di ottenere

Le migliori annate 2003, 2005, 2008, 2009 Note Il vino raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 4 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà di Angela Baraldi dal 2008, si estende su una superficie di 35 Ha, di cui 20 vitati. Collabora in azienda l’enologo Giovanni Fraulini.

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Un omino con le ruote contro tutto il mondo... E va su... Viene su dalla fatica e dalle strade bianche. La fatica muta e bianca che non cambia mai. E va su ancora E va su... Poi lassù contro il cielo blu con la neve che ti canta intorno... e poi giù... e va su e va su... pedala, pedala, pedala, un omino che non ha la faccia da campione... ...e va su e va su... pedala, pedala, pedala... Gino Paoli, Coppi

Oggi vengo a conoscere chi fosse Diego Ronchini, senza dubbio uno dei corridori che hanno segnato la storia del ciclismo dilettantistico di questa regione, quello d’altri tempi, quello eroico, corso sulle strade bianche. Si racconta che, nel giro di Lombardia del 1956, proprio in quella gara classica tanto cara a Fausto Coppi, il destino propose una lunga fuga del Campionissimo e di questo debuttante romagnolo di grandi capacità, il quale, sul passo più alto di tutta la corsa, si comportò come il più devoto dei gregari e, con gambe da campione, sostenne il mitico Fausto come meglio non avrebbe potuto. Così, pensando a quell’eroe del ciclismo di una volta, mi concentro sulla storia di Camillo e di suo fratello Giacomo, dell’azienda Ca’ di Sopra, i quali mi raccontano di come anche loro abbiano avuto, con diverse modalità e intensità, importanti esperienze nel settore del ciclismo dilettantistico, certamente prima che iniziassero quella che è risultata sicuramente la sfida più difficile della loro vita: riuscire a fare grandi vini su queste colline che si innalzano da Marzeno verso Brisighella, facendoli apprezzare dai mercati nazionali e internazionali. Osservandoli, mi sembrano una squadra perfetta, un tandem affiatato che, una volta messosi in movimento, sa, con esattezza, come misurare gli sforzi e le energie per raggiungere l’obiettivo prefissato, che è anche quello di dare un futuro all’azienda che il padre, il buon Mario, li ha aiutati a mettere in piedi. Giovani e dinamici, sembrano avere le idee chiare e precise: ognuno

Ca' di Sopra

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di loro si è ritagliato un proprio spazio operativo, contribuendo con le proprie specifiche caratteristiche personali, caratteriali e professionali, all’ottenimento del miglior risultato possibile. Così scopro che Camillo contribuisce con strategie e capacità manageriali al buon funzionamento amministrativo e strategico della cantina, viste le sue spiccate predisposizioni alle relazioni e agli scambi interpersonali e grazie alla laurea in Economia e Commercio, conseguita all’Università di Bologna e completata dall’esperienza acquisita frequentando un master di specializzazione in Toscana. Giacomo, invece, dopo aver deciso di diventare vignaiolo e di approfondire l’aspetto “Viticoltura e Enologia”, attraverso la frequentazione del Corso di Laurea dell’Università di Bologna (Dipartimento distaccato di Cesena), e l’acquisizione di competenze nel settore agronomico viticolo, contribuisce all’andamento aziendale dedicandosi alla cura delle vigne. Chi si occupa di marketing e chi di viti, quindi, chi di comunicazioni e chi di vendemmia: un connubio intorno al quale le specifiche personalità e le buone pratiche, l’estrema accortezza e la grande competenza danno, come risultato finale, la qualità, fattore imprescindibile che caratterizza gli alti standard qualitativi già raggiunti, in pochi anni, dall’azienda Ca’ di Sopra, come dimostrano i vini che Giacomo e Camillo producono. La limitata esperienza fin qui acquisita (in fondo hanno solo quattro vendemmie alle spalle!), appare già di alto livello e traspare chiaramente dai vini che ho assaggiato; li ho trovati estremamente


Camillo, Giacomo Montanari Nome

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interessanti, soprattutto l’interpretazione del loro Sangiovese Riserva, ennesima dimostrazione di quanto siano grandi le potenzialità di questo territorio faentino che, in questo caso, è anche coadiuvato da impianti vitati ben tenuti che, in qualche modo, hanno contribuito, in modo paritetico, alle capacità dei due fratelli nell’ottenimento di simili risultati. E non poteva essere altrimenti, visto che le due personalità, senz’altro diverse, di Camillo e Giacomo si coniugano, però, in una grande sensibilità che caratterizza entrambi e in una costante e continua opera di studio, ricerca e sperimentazione il cui obiettivo è l’innalzamento di ogni minimo dettaglio che possa contribuire a farli crescere e far crescere il livello qualitativo del loro lavoro. Quello di cui maggiormente hanno bisogno, ora, è il tempo e la pazienza di saper attendere, facendo maturare la loro esperienza vissuta a contatto con questo territorio. Sono giovani e il tempo è dalla loro parte e sono sicuro che non avranno fretta, perché sanno bene che nel mondo del vino ciò che conta sono le sfumature, i particolari, le percezioni e le sensazioni emotive su cui si regge una filosofia produttiva che deve essere capace di resistere al tempo per farsi apprezzare. Tutto il resto è effimero e i piccoli successi, se alle spalle non c’è un costrutto filosofico, possono risultare momentanei e insignificanti. Sono tutti elementi che interagiscono con la gestione dei vigneti, con le idee enologiche apportate in cantina, con le strategie comunicative, con ogni elemento e persona che incide nel sistema produttivo e commerciale che, in qualche modo, può alterare (o esaltare) i risultati. Una bella sfida la loro, quella forse più difficile, che essi sanno, però, di poter vincere perché hanno dalla loro l’intelligenza, la preparazione e l’amore fraterno che li lega.

Ca' di Sopra

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CADISOPRA IGT RAVENNA SANGIOVESE Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti denominati Montale, Punta Querce e Ca’ del Rosso, di proprietà dell’azienda, situati in località Marzeno, nel comune di Brisighella, le cui viti hanno un’età compresa tra i 9 e i 18 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni calcareo-argillosi, mediamente profondi, ad un’altitudine compresa tra i 120 e i 240 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-est / sud-est. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 3.300-5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato per 7-8 giorni alla fermentazione alcolica, che in parte è fatta svolgere in barriques di rovere aperte e in parte in acciaio ad una temperatura compresa tra i 26 e i 33°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 5-20 giorni, durante i quali si effettuano frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto tutto in barriques di 1° e 2° passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi, periodo

durante il quale si eseguono almeno 4 travasi. Terminata la maturazione, dopo aver assemblato le partite e dopo 6 mesi di decantazione statica di tutta la massa in tank di acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta 1.000 bottiglie circa Note organolettiche Di colore rosso rubino quasi impenetrabile, il vino si presenta al naso in modo complesso, ampio, con uno spettro olfattivo che spazia dalle note fruttate ricche e sanguinolenti di marasche mature, prugne succose e fragoline selvatiche e lamponi ad altre di tabacco, pellame e spezie dolci, oltre a nuances di cioccolato. In bocca è avvolgente, rotondo, morbido, sensuale, con una fibra tannica armoniosa, fine e ben equilibrata che si amalgama ad una mineralità che lo rende lungo e persistente. Prima annata 2008 Le migliori annate 2008, 2009 Note Il vino, che prende il nome dal principale podere aziendale, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Montanari dal 1967, l’azienda agricola si estende su una superficie di 52 Ha, di cui 29 vitati, mentre il resto è occupato da frutteti, oliveti, aree calanchifere e bosco. Svolge funzione di enologo ed agronomo Giacomo Montanari.

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Contessa, che è mai la vita? È l'ombra d'un sogno fuggente. ������������������¿������ il vero immortale è l'a mor. Giosuè Carducci, Jaufré Rudel Lascio la Via Emilia per inoltrarmi verso le colline forlivesi, mentre mi riecheggiano in mente le parole con cui Alfredo Oriani descrisse questa arteria ricordandola percorsa da “torme di saltimbanchi e gladiatori, carri pieni di statue e di leoni, di processioni di santi e prigionieri, labari e stendardi, aquile e gonfaloni, reliquie e governanti, macchine da guerra e d’industria, anfore e cannoni, scialli e corazze, oltre ogni varietà di uomini e di cose, soavi e nauseanti, ignobili e sublimi. Tutto è passato per questa strada che fu per lunghi secoli la più frequentata al mondo”. Un’arteria romana pulsante, nonostante l’autostrada poco più in là, con il suo traffico di turisti che, distratti, si guardano intorno mentre vanno verso il mare. Ad attendermi, all’azienda Calonga, trovo Maurizio Baravelli e i sui tre figli, Lorenzo, Matteo e Francesco, tre bei ragazzi che il padre ha cercato di far studiare, inducendoli a laurearsi, convinto che la cultura contribuisca a costruire maggior libertà e opportunità per il futuro. Princìpi nobili di un uomo che trovo meravigliosamente semplice, onesto e intriso di una disarmante bontà. Una persona positiva, in possesso di una grande serenità d’animo che, sorridente, mi ospita in casa dove, accanto a un caminetto acceso, trovo una tavola imbandita con prodotti di norcineria, che lui stesso ha preparato l’inverno scorso, accanto a bottiglie di vino approntate sia per la degustazione, sia per accompagnare quello che ha tutta l’aria di

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essere un imminente spuntino di benvenuto. L’aria familiare mi pone subito a mio agio e, tralasciando l’orologio nonché qualsiasi etichetta o programma stabilito, mi lascio andare ad una chiacchierata simile a quella che potrebbero fare due vecchi amici, nella quale si parla dei figli, dei loro programmi, della scelta di Maurizio di lasciare lo studio, dove praticava la libera professione di geometra, per dedicarsi alla campagna e alle vigne che suo padre Armando, il deus ex machina di quest’azienda, aveva piantato diversi anni addietro. Una fetta di “guanciale”, una di rigatino e un’altra di salame ci aprono, invece, a una lunga divagazione sui legami che uniscono questa terra al maiale e all’antica professione di norcino praticata da mio padre Aldo e anche dal suo, e ora da lui, nuovo “custode” di quella sacrale tradizione con la quale in famiglia, ogni anno, si affrontavano le “nozze del maiale”. Un grande momento di festa, al quale partecipavano tutti, compresi i ragazzi che marinavano la scuola. Era una festa speciale che riempiva la casa di un tripudio di salsicce, costole, coppa di testa, pancetta, ciccioli, salami, prosciutti e chi più ne ha più ne metta, con un’opulenza rara, per quei tempi, sulle tavole, che veniva accompagnata, ieri come oggi, da qualche bicchiere di buon Sangiovese i cui tannini sgrassano e puliscono la bocca e aiutano la conversazione. Nel nostro caso, essa prosegue andando a frugare, sempre più, nei ricordi di Maurizio; dilatatisi a dismisura, tornano indietro fino ai suoi 19 anni, al rapporto con suo fratello Bruno, alle difficoltà di comunicazione con il padre e a quelle che, invece, incominciò a scoprire nell’attività professionale di geometra che lo faceva assomigliare, ogni giorno di più, a un solerte azzeccagarbugli occupato a districare pratiche e adempimenti burocratici di ogni genere negli uffici tecnici dei comuni limitrofi. E presto arrivò quindi la decisione che lo spinse a lasciare tutto questo per dedicarsi alla terra. Man mano che chiacchieriamo, anche sovrapponendoci l’un l’altro, scopro che Maurizio è uno a cui piace molto la vita che ha scelto di condurre, perché l’ha affrontata nella massima libertà, scoprendosi, ogni anno di più, legato a quelle vigne e a quell’uva che, fino al


Maurizio, Matteo, Monica Balducci, Francesco Baravelli


1998, vendeva alle cantine sociali per la vinificazione industriale. Capisco, da come ne parla, che quella massificazione produttiva che premiava la quantità, non lo soddisfaceva, sentendo sempre più crescere in lui la voglia di trasformare il proprio lavoro e chiudere la filiera produttiva all’interno della propria azienda, così da consentirgli di avere una maggiore redditività con la quale costruire un futuro migliore per sé ed i suoi figli. L’ordine perentorio che si dette fu quello di fare qualità e, per farlo, si attivò realizzando, forse, il più grosso progetto lavorativo della sua vita, quello di costruire una cantina, dove poter vinificare e rispondere dei risultati ottenuti. Un impegno forte che tenne conto anche dei consigli di un enologo, seguendo il quale fece un vero e proprio balzo in avanti nella qualità dei vini proposti sul mercato e che gli dette lo stimolo per apportare altri e più importanti cambiamenti nella cultura aziendale e produttiva. Con la semplicità con cui ne parla sembra quasi che tutto sia avvenuto tanto naturalmente da sembrare ovvio, così come può sembrare normale (ma non lo è), che, di questi tempi, un’azienda che non supera le ventimila bottiglie possa avere ancora una sua precisa visibilità. Eppure è così, ma credo che non sia stato tutto facile, perché è certo che Maurizio si è dovuto scontrare, prima di tutto, con quella radicata tradizione che, ancora oggi, impone una beva giovane ai Sangiovese di Romagna, tanto piacevole ma di scarsa remunerazione, e poco appeal nei confronti di un mercato che, invece, richiede sempre più vini longevi e ricchi di una forte personalità. In mezzo al suo disquisire mi sciorina delle massime di saggezza che solo all’apparenza potrebbero sembrare scontate; denotano, invece, un processo evolutivo importante, unidirezionale, di non ritorno, quello che conduce alla qualità assoluta, ricco d’impegno, di sacrifici, di sperimentazioni, nel quale ha trovato la forza di opporsi a quella stessa tradizione della quale ha anche cercato, tuttavia, di recuperare gli aspetti più positivi.

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MICHELANGIÒLO SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Castiglione, nel comune di Forlì, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 45 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni di varia natura che presentano prevalentemente sabbie “molasse”, argille e limo, ad un’altitudine compresa tra 80 e 120 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot

e dopo altri 8 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta 8.000 bottiglie circa Note organolettiche Di un bel colore rosso rubino, il vino offre al naso un frutto profondo, ampio, complesso, affascinante, che si inoltra verso un viaggio olfattivo di frutti rossi e neri come ciliegia, prugne, cassis e more, per poi passare a percezioni di rosa appassita, sentori di erbe officinali e nuances speziate di liquirizia e cannella. In bocca risulta elegante, con una fibra tannica ben strutturata che si equilibra con una buona acidità tale da renderlo lungo e persistente.

Densità di impianto 3.500 ceppi per Ha

Prima annata 1999

Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 8-10 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino viene posto nuovamente nei tini di acciaio dove inizia a svolgere la fermentazione malolattica, che si conclude in barriques, di 1°, 2° e 3° passaggio; qui rimane 12 mesi, periodo durante il quale si effettuano almeno un paio di travasi. Terminata la maturazione

Le migliori annate 2001, 2003, 2007 Note Il vino, che prende il nome dall’Arcangelo Michele, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda Di proprietà di Maurizio Baravelli dal 1977, l’azienda agricola si estende su una superficie di 7 Ha vitati. Collabora in azienda, in qualità di agronomo ed enologo, Fabrizio Moltard.

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Romagna


Così vi ho detto, amici miei, come sono nati il mio pretone e il mio grosso sindaco della Bassa [...] Chi li ha creati è la Bassa. Io li ho incontrati, li ho presi sottobraccio e li ho fatti camminare su e giù per l'alfabeto. Giovannino Guareschi, Don Camillo e il suo gregge (Mondo piccolo)

Questa è una terra unica, per conoscere la quale bisogna entrare in contatto con chi la vive, bere con loro un bicchiere di vino e starsene quieti ad ascoltare quel dialetto musicale, senza dover scrivere per forza degli appunti. Guardati intorno, così potrai ricevere un’infinità di notizie che ti aiuteranno a comprendere dove sei e ritornartene poi in Toscana con mille cose da raccontare su questa Emilia Romagna. Una terra di confine che, però, non si è mai sognata di sdoganare niente e nessuno e che si snoda, chiusa ad ovest dall’Appennino, “dalla via Emilia al west, e anche più in là” visti gli orizzonti che ad est sembrano non volerla mai circoscrivere. Devi solo dedicargli un po’ del tuo tempo per scoprire le sue unicità, magari trovando anche un pomeriggio da trascorrere in mezzo al flusso di gente che anima i portici delle sue città ducali per capire quale sia il vero significato di ciò che altri definiscono “qualità della vita”. Questa è terra d’eccellenze, di musicisti, poeti e contadini, di scrittori, registi e vignaioli. È la terra dove ti perdi in decine di prelibatezze gastronomiche fra l’opulenza di salumi, prosciutti e culatelli

Cantine Ceci - 60

che si mescolano all’ingegno imprenditoriale e dove ascoltare Verdi al Teatro Regio di Parma fa parte di un’esperienza iniziatica unica; qui trovi sempre degli stimoli nuovi che si costruiscono nella tradizione del passato che viene utilizzata per rendere il presente già futuro. Tu capisci perché, terminati con profitto gli studi in enologia a Conegliano Veneto, non mi sono mosso da questi luoghi natii e perché non ho avuto dubbi nel credere che, appartenere alla terza generazione che si alterna alla guida delle Cantine Ceci, fondate da mio nonno Otello, famosissimo oste della bassa parmense, rappresentasse una fortuna e l’opportunità di coniugare la mia storia al futuro. Tutto nacque in quella trattoria, forse un po’ grezza e grossolana per i parametri moderni, dove si mangiava la migliore trippa della zona, grazie a quella straordinaria cuoca che era mia nonna Teresa, e dove il nonno mesceva quel Lambrusco che produceva acquistando l’uva dai contadini della zona. Mio padre Giovanni e lo zio Bruno erano ancora dei bambini, ma avevano già compreso quale fascino suscitasse in loro la pigiatura dell’uva all’osteria nella stagione della vendemmia, un evento che, con il passare degli anni, aveva assunto il sapore di una vera e propria festa di paese dove tutti si sentivano coinvolti nel voler aiutare Otello Ceci a pigiare l’uva. Il lavoro che ne conseguiva era certamente minore rispetto a quello richiesto quotidianamente dalla ristorazione, che fu abbandonata quando il nonno diventò vecchio, per dare avvio all’avventura delle Cantine Ceci. Come ti dicevo, si tratta di una tradizione che si trasforma e si evolve, pur nella continuità, e che ha fatto scoprire a noi fratelli Ceci l’amore per l’uva, per il vino, per le vigne e per quei poetici e ribollenti tini, arrivando a farci prendere coscienza di ciò che avremmo voluto raggiungere. In questo processo ci inseriamo io e mia sorella Maria Teresa, mia cugina Paola e le sue figlie Elisa e Chiara: tutti noi rappresentiamo l’anima nuova dell’azienda e contribuiamo, ognuno con la propria specifica competenza, a fornire un nuovo impulso a ciò che è stato fatto in precedenza, per costruire basi ancora più solide per quelli di famiglia che verranno dopo di noi. Ognuno ha occupato il posto che più gli era congeniale, dal punto di vista caratteriale o a seconda delle opportunità che, in quel


Alessandro Ceci


momento, l’azienda offriva. Tutti uniti e concordi nell’obiettivo di parlare sempre attraverso il nostro territorio e di esprimere ciò che questa terra è in grado di dare, senza mistificazioni, puntando sulla grande qualità di ciò che proponiamo sul mercato enologico, non trascurando minimamente l’innovazione dei nostri prodotti, sia dal punto di vista organolettico che del marketing o del packaging, facendo arrivare a distribuire i nostri spumanti in una bottiglia quadrata, disegnata e brevettata, unica al mondo. Una crescita continua - e con orgoglio devo dire quasi inarrestabile - dove ogni anno incrementiamo ciò che è stato fatto l’anno precedente in termini di risultati, bottiglie prodotte, gratificazioni e riconoscimenti ricevuti. Un incremento che è iniziato negli anni ’90, quando registrammo il marchio “Terre Verdiane Lambrusco”, con il quale allargammo notevolmente l’indotto del nostro vino che conobbe una nuova giovinezza e un rilancio la cui spinta ancora non si è esaurita. Un lavoro che non ha mai fine e che richiede sempre più applicazione e

Cantire Ceci

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professionalità per dare delle risposte concrete a quei consumatori che, potendo scegliere fra la grande offerta, qualitativamente importante presente sul mercato, decidono di acquistare i vini delle Cantine Ceci. Una grande storia italiana, come vedi, con profonde radici locali che ci tengono ben saldi al territorio e ci consentono, anche, di non aver timore nell’espanderci. Storie che sono state costruite da uomini che hanno avuto idee, intùito, strategie: tutte doti che appartengono al DNA della mia gente e che ci hanno consentito di ottenere importantissimi risultati utili ad unire ancora di più la mia famiglia intorno ad un mix di speranze, progetti e ottimismo che ci fa collaborare ogni giorno nella certezza della validità dei nostri propositi e del fatto che nessuno di noi vivrebbe da nessun’altra parte se non qui.


OTELLONERODILAMBRUSCO IGT EMILIA Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Lambrusco Maestri provenienti da vigneti collinari, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 20 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni argilloso-calcarei, ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate Lambrusco Maestri 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto circa 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vasche d’acciaio si protrae per circa 5 giorni ad una temperatura controllata di 15-17°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 5 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in autoclavi termocondizionati per la rifermentazione e la presa di spuma, un’operazione della durata di circa 3 mesi. Segue una filtrazione sterile, poi il vino è imbottigliato ed è pronto per la commercializzazione. Quantità prodotta circa 100.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Il vino veste il bicchiere di una spuma cremosa e compatta; il colore è rosso

violaceo quasi impenetrabile; all’esame olfattivo offre profumi fragranti e marcati di fragole, more, lamponi e mirtilli a cui si aggiungono percezioni di viola e rosa canina. Vino fresco ed armonico dalla struttura morbida, ma importante; in bocca l’ottima tannicità è mitigata da un importante residuo zuccherino, mentre le papille gustative sono sfiorate da una piacevole sensazione di pungenza che contribuisce ad una grande beva e ad un’ottima persistenza. Prima annata 2003 Le migliori annate 2008, 2009 Note Il vino, che prende il nome dal fondatore dell’azienda, Otello Ceci, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 4 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Ceci dal 1938. L’enologo è Alessandro Ceci.


In una citazione bacchica del Senato di Roma, Marco Tullio Cicerone attaccò il suo avversario politico Lucio Calpurnio Pisone, nativo di Piacenza, rimproverandogli pubblicamente di far eccessivamente onore ai vini della sua provincia. Una testimonianza storica che dimostra come queste colline piacentine, “affastellate”

e morbide, siano uno splendido territorio vitivinicolo - ricco di una rigogliosa cultura enologica - che, però, solo in tempi recenti ha cercato di recuperare l’antica notorietà e lo splendore del passato, cercando di uscire da quell’anonimato in cui era caduto per diverso tempo, acquistando l’attenzione di un sempre maggior numero di estimatori e di curiosi. Per salire verso la fascia collinare della Val d’Arda, verso l’antico borgo medioevale di Castell’Arquato, attraverso l’ovattata atmosfera delle vecchie cascine e dei campanili di quella “Bassa” pianura che così tanto ha ispirato il Guareschi e permeato di poetiche emozioni molte celebri pellicole cinematografiche firmate da Soldati e Bertolucci, oltre a opere d’arte di quel

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genere fantastico che ha dato unicità alla pittura padana, fino agli espressionistici acuti di Ligabue. Alle spalle mi sono lasciato Fiorenzuola, prima ancora Piacenza e, ancor prima, il Po, che si infila a mo’ di slalom in terra d’Emilia, disegnando, intorno ai suoi alti argini, geometriche e rigogliose zone boschive di pioppi bianchi e neri, mentre i salici, sempre più rari, sembrano indicare spiaggette e golene, intorno alle quali trova origine un leggero sottobosco da dove si alzano eleganti aironi e solitarie garzette. Nei giorni passati ho scoperto non solo quanto sia bello questo paesaggio, ma come esso nasconda gelosamente una genuina tradizione gastronomica di alto livello che, difficilmente, potrà deludere un viaggiatore, ovunque esso si fermi. Arrivato a Castell’Arquato, davanti a questo antico borgo medioevale rimasto quasi completamente intatto nel corso del tempo, mi fermo per fissare nella memoria le bellezze architettoniche del luogo. Uno spettacolo di cui continuo a compiacermi anche quando giungo all’azienda Cardinali, posta su una magnifica terrazza vitata, proprio di fronte al paese. Ad attendermi trovo Alberto e Laura, che hanno preso le redini dell’azienda, nata nel 1973 per volontà della mamma Milena (che aveva già radici nel podere confinante) e del padre Giulio. L’intento di Giulio era quello di poter soddisfare non solo la sua grande passione per il vino - che lo ha portato in giro a visitare le più importanti aziende vitivinicole del mondo - ma anche di trovare, in mezzo a quei filari di viti e in quella campagna, una pausa ristoratrice all’impegno dell’attività di disegnatore e stimatore di pietre preziose. Sempre di gemme preziose comunque si trattava...! Una struttura piccola, ma ben organizzata e dimensionata rispetto alle risorse umane disponibili, che non sono molte e contemplano i membri della famiglia e saltuariamente un operaio; ognuno di essi ha un ruolo preciso e proprie responsabilità. Non è difficile entrare in sintonia con i Cardinali, persone ospitali, aperte, di cultura, che sanno costruire un impatto immediato, semplice e amichevole con chi li va a trovare; non ho percepito nessuna difficoltà a dialogare, né con Laura, né con Alberto, nemmeno quando abbiamo parlato delle molte difficoltà, ma anche delle grandi opportunità che sta vivendo la viticoltura piacentina. Sembra che in questa apertura dialettica sia soprattutto Alberto il più curioso, quello che cerca di capire e conoscere i motivi che mi hanno spinto fin quassù e cosa ne penso dei suoi vini, quelli stessi che sto degustando. Uno scambio di idee svelto, chiaro, che apre le porte alla sua storia e ai racconti di come


Alberto, Laura Cardinali 65 - EmiliaRomagna


egli sia fuggito dall’Università e, in special modo, da quella Facoltà di Chimica che non lo interessava più, e di come sia approdato alla campagna, di come abbia superato i contrasti generazionali che si sono venuti subito a concretizzare con il padre, e di come, invece, dopo, abbia trovato il piacere di dedicarsi a quella viticoltura che lo ha appassionato al punto da volersi “costruire” come vignaiolo. Un mestiere differente da quello che pensava di fare fino a pochi anni addietro. Parlando con lui, ho la sensazione che sia arrivato dove è oggi tramite un vero e proprio viaggio a ritroso - ancora di là dall’essersi concluso - svolto alla ricerca di qualcosa che egli sentiva appartenergli e che lo ha condotto attraverso strade contorte, scoprendo il piacere delle cose semplici, il senso della famiglia, ma, soprattutto, il valore della terra. Un viaggio che lo ha portato - cosa ancora più importante - a porsi in equilibrio con quelle viti che rappresentano, più di ogni altra cosa, il segno tangibile del tempo che gli scorre accanto, vendemmia dopo vendemmia. Un tempo sempre più rapido e veloce, che corre, ma che, invece di spaventarlo, lo induce a godere del contatto epidermico con la terra, arrivando a prendere sempre più le distanze da tutta quella artificiosa, macchinosa e coinvolgente tecnologia che stravolge, modifica e accelera ogni fase di quel mondo del vino al quale Alberto si è accostato, con la consapevolezza di operare nel rispetto dei tempi e di una sempre maggiore naturalezza verso tutto ciò che lo circonda e verso ogni fase operativa con la quale interagisce lungo tutto l’asse della filiera produttiva. Il suo è anche un processo evolutivo di curiosità e ricerca, che lo ha indotto, da protagonista, a cercare di

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divenire sempre più un semplice, ma attento osservatore di quell’evoluzione naturale che, ogni anno, coinvolge la sua vigna e che si coglie, poi, nel vino prodotto. Un segno di continuità con l’azione intrapresa vent’anni prima dal padre, il quale, subito dopo aver comprato l’azienda, nel piantare le vigne si preoccupò di rispettare l’habitat naturale fino ad interventi volti a favorire la vita di lombrichi e di altri organismi naturali del terreno. Una mattinata piacevole, trascorsa a conversare e conclusasi con un pranzo in famiglia preparato dalle mani esperte di quel grande cuoco gentleman che è Giulio, avendo così l’occasione di deliziarmi della loro ospitalità e approfondire la conoscenza dei Cardinali, oltre a scoprire quel grande e bel personaggio, così espressivo, capace e semplice, che è il capo famiglia, gentile mescitore dei suoi vini che si sposano perfettamente con il suo amore per la tavola.


TORQUATO COLLI PIACENTINI DOC GUTTURNIO CLASSICO RISERVA Zona di produzione Come tutti i vini dell’azienda, è una selezione prodotta dalla vinificazione di Barbera e Croatina (nella zona chiamata comunemente Bonarda) provenienti dal vigneto Torquato, situato all’interno della proprietà di Montepascolo, nel comune di Castell’Arquato. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni collinari di epoca pliocenica ricchi di fossili marini e con tessitura di medio impasto, calcarei con presenza di sabbie e argille, ad un’altitudine di circa 250 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Barbera 60%, Croatina (Bonarda) 40% Sistema di allevamento Controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto 3.500 ceppi per Ha (anno d’impianto intorno al 1960) Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che solitamente si svolge a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica in modo spontaneo, senza l’utilizzo di lieviti selezionati. Questa fase, svolta in tini di cemento, si protrae per circa 14 giorni ad una temperatura non controllata; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce; soprattutto nelle fasi iniziali vengono effettuate follature manuali. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere di età mista, variamente già utilizzate, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per almeno 24 mesi. In seguito si effettua l’assemblaggio delle barriques e dopo 2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di circa 12 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 2.000 bottiglie l’anno numerate a mano Note organolettiche Di colore rosso rubino intenso con una venatura purpurea, il vino si propone al naso in modo complesso, con uno spettro olfattivo ampio che evidenzia sensazioni speziate dolci che si arricchiscono di una stuzzicante nota pepata, oltre a percezioni di frutti maturi come amarene, prugne e mirtilli, per arrivare ad un finale minerale e di tabacco da pipa. In bocca è fresco, piacevole, ricco di una fibra tannica ben evoluta e setosa che si amalgama ad una grande sapidità, conferendo al vino lunghezza e persistenza. Prima annata 1990 Le migliori annate 1990, 1997, 1999, 2000, 2004, 2006 Note Nel II secolo a.C. un cavaliere romano, certo Caio Torquato, si impossessa del luogo e lo chiama Castel Torquato (toponimo modificatosi poi nel tempo in Castell’Arquato). Da qui il nome del vino, che raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Cardinali dal 1973, l’azienda agricola, legata per scelta ad una dimensione famigliare-artigianale, si estende su una superficie di 9 Ha vitati. Svolge funzione di enologo e agronomo lo stesso Alberto Cardinali.

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Il cinema non ha bisogno della grande idea, degli amori infiammati, degli sdegni: ti impone un solo obbligo quotidiano, quello di fare. Da un’intervista di Tullio Kezich a Federico Fellini, in La Repubblica (1982)

È stata una storia come quella a cui puoi assistere guardando un film a lieto fine. Un film che si è avvalso, prima di tutto, di una straordinaria scenografia, potendo usufruire, per le scene più importanti, di questa azienda di Castelluccio e di un luogo unico come lo sono queste alte colline preappenniniche, situate fra Modigliana e Brisighella, che, fino al 1930 e prima che Mussolini decidesse il contrario, erano

terre toscane, le stesse che oggi hai la possibilità di ammirare imbiancate e coperte da questa meravigliosa nevicata, scesa questa notte, e che ha ovattato e addolcito le impervie e scoscese forme di questo paesaggio. Un film nel quale ho interpretato la parte di un enologo, che è poi la stessa con la quale ho costruito la mia carriera professionale, assistendo attivamente, come attore protagonista, alla storia che ha caratterizzato il movimento enologico di questi ultimi quarant’anni italiani, quella che tu, del resto, conosci molto bene e

Castelluccio

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che sarebbe bello tu riuscissi, un giorno a raccontare, in un tuo libro. Una pellicola quindi con una trama un po’ speciale, sviluppatasi intorno all’avventura enologica di chi, come me, appena diplomatosi all’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, si è subito ritrovato al cospetto prima delle problematiche di una Toscana che, alla fine degli anni Settanta, stava evolvendosi straordinariamente, sotto l’aspetto vitivinicolo, con un fervore e un dinamismo non uguali a nessun’altra regione italiana, e poi di una “dormiente” Romagna dove, invece, si percepivano i primi bagliori di quel potenziale rinascimento enologico che, però, avrebbe iniziato a vedere la luce solo dopo molti decenni e grazie a sporadiche aziende, le quali, con fatica enorme, ancora oggi, cercano di far germogliare quella cultura viticola necessaria per far emergere un territorio a livello internazionale. Due mondi contrapposti che condividono l’Appennino, ma divisi da una diversa interpretazione della viticoltura e lì, in mezzo, io, con la mia storia e con tutto quello che sono riuscito a costruire e a dare in tutti questi anni, affidandomi ciecamente a quel regista che ha saputo dirigere, in maniera grandiosa, il film della mia vita, in parte girato qui, a Castelluccio, contribuendo a darmi spunti importanti con i quali crescere come uomo e come enologo. Una storia iniziata nel 1979, a 450 metri s.l.m., da un’idea di Gian Vittorio Baldi, fondatore di quest’azienda, il quale mi interpellò per tradurre in realtà la sua grande passione per il vino, la stessa che lo spingeva a riproporre, su queste terre romagnole, la stessa strada percorsa dai viticoltori francesi, che amano classificare la loro produzione in piccoli e grandi crus, al fine di mantenere una forte identità territoriale, che qui lui identificava in quei pochi vigneti - alcuni dei quali di soli 1000 m² - collocati su terreni strappati ai ronchi, al bosco e ai calanchi. Mi appassionò quella sua scommessa temeraria e allo stesso tempo mi esaltò l’idea di lavorare su un territorio vitivinicolo sconosciuto, anche agli stessi romagnoli, in cui un detto popolare ricordava, a chiunque, che il vino buono doveva essere fatto solo laddove la bottiglia può


Claudio, Vittorio Fiore

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stare in piedi, escludendo quindi quelle colline sulle quali Gian Vittorio stava scommettendo e dove non era per niente logico che fiorisse una viticoltura di alta qualità. Pregiudizi difficili da estirpare, al punto che, ancora oggi, è minima la produzione di vino dei colli romagnoli, rispetto alla grande quantità realizzata nella bassa pianura, dove la grande cooperazione detta le regole con cui la Regione si propone ai mercati. Mentre al di là dell’Appennino assistevo alla nascita dei grandi vini toscani come il Tignanello, da questa parte, partecipavo alla nascita del Tavernello. Due mondi contrapposti ed io lì in mezzo a destreggiarmi in un meraviglioso gioco di contrapposizioni e contrasti, di opportunità e difficoltà. Non puoi immaginare quanto sia stata, in quegli anni, predominante e rivoluzionaria, in Romagna, la figura di Baldi: un imprenditore geniale a cui qualcuno avrebbe dovuto dare l’Oscar per l’ingegno e la lungimiranza e anche per il successo ottenuto con quella sua cocciuta determinazione: i suoi vini vennero inclusi nell’enoteca del Presidente della Repubblica e scelti per una cena con l’allora

Castelluccio - 70

Presidente dell’U.R.S.S. Gorbaciov, entrarono nelle carte dei vini dei migliori ristoranti del mondo e i migliori crus riuscirono a strappare prezzi estremamente interessanti per i primi anni Ottanta, raggiungendo quotazioni sui mercati internazionali di 70.000 lire a bottiglia, all’epoca in cui un Chianti non superava le 1.000 lire. Doveva essere un esempio da seguire, che però nessuno capì - se si eccettua Gino Veronelli, che si innamorò subito dei vini di Castelluccio ignorando quell’eccellenza enologica per anni e anni, ascoltando, invece, le Cassandre che vedevano in un vino solo uno spudorato processo speculativo fatto da chi poteva permetterselo invece che una grande opportunità per questi territori montani che andavano spopolandosi. È andata così, ma non importa. Sappi che la pellicola di quel film continua, tutti i giorni, ad essere ancora impressa, avendo, oggi, il tempo e l’opportunità di osservare quei fotogrammi che, a sera, scorrono sotto i miei occhi a rappresentare queste vigne, queste colline e questa terra di Romagna che molti credono piatta. Del resto, sono molte le cose che si credono a torto quando si parla della Romagna, ma, purtroppo, non ho certo io le possibilità di poter cambiare i simboli con cui l’immaginario collettivo identifica questa terra con la costa che da Milano Marittima scende fino a Rimini o con quei Sangiovesi a cui fa da sottofondo il liscio di una balera. Da parte mia posso continuare a fare vini come il Ronco delle Ginestre, il Ronco dei Ciliegi ed il Ronco del Re, provenienti dai vigneti omonimi che, da oltre trent’anni, fanno parte della proposta commerciale dell’azienda a testimonianza di quanto fosse geniale il lavoro svolto inizialmente da Gian Vittorio e da me su questo territorio. La cosa sorprendente è stappare qualche bottiglia del 1982 o del 1985, di quel bianco e di quel rosso che produciamo, per scoprire non solo come quei primi vini reggano al tempo, ma anche quale sia l’essenza della filosofia che anima Castelluccio da oltre trent’anni ed è distillata nei vini che dimostrano come la qualità assoluta non dipenda solo dai terreni, ma anche dalla capacità che certi uomini dimostrano di saper leggere il futuro.


RONCO DEL RE IGT FORLÌ SAUVIGNON BLANC Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sauvignon Blanc provenienti dal vigneto Ronco del Re, di proprietà dell’azienda, situato in località Poggiolo, nel comune di Modigliana, le cui viti hanno un’età compresa tra i 30 e i 35 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni argilloso-limosi, ad un’altitudine compresa tra i 330 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate Sauvignon Blanc 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 6.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione pellicolare in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 13°C. Dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 10°C, lo stesso è sistemato in acciaio dove, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che, a distanza di 12 ore, è fatta proseguire in barriques nuove da 350 lt. e continua poi a temperatura controllata per altri 10 giorni. Dopo circa 9 mesi, durante i quali il vino svolge la fermentazione malolattica e vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore

affinamento di almeno 24 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta 2.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore paglierino con brillanti riflessi oro, il vino si presenta al naso con note gentili, sapide e minerali che si aprono a percezioni di pietra focaia e mandorla e poi a note eleganti di finocchio selvatico, ginestra, fiori di campo e narciso, con un dolce finale di miele millefiori, frutto della passione e accenni di ortica e uva spina. La bocca è cremosa, elegante, avvolgente, equilibrata, affascinante, fresca e sapida tanto da rendere il vino vivace, lungo, persistente e in possesso di un finale goloso. Prima annata 1980 Le migliori annate 1980, 1985, 1987, 1990, 1995, 1999, 2001, 2004, 2007 Note Il vino, che prende il nome dal vigneto di provenienza, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 25 anni. L’azienda Di proprietà della Castelluccio Soc. Agr. S.r.l. dal 1994, l’azienda si estende su una superficie di 43 Ha, di cui 12 vitati, 1,5 occupato da oliveto, 2 da castagneto e il resto da calanchi e boschi. L’agronomo è Claudio Fiore che collabora anche come enologo con il padre Vittorio Fiore.

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Mi lascio Bologna alle spalle, oltrepasso Casalecchio di Reno e mi dirigo verso Monte San Pietro, raggiungendo quasi subito i primi dossi dei Colli Bolognesi; mi inoltro poi nella campagna e giungo infine all’azienda agricola di Montevecchio, di proprietà dei fratelli Francesco e Gualtiero Cavazza Isolani. La tenuta si estende intorno al palazzo senatorio dell’antica famiglia Isolani, costruito alla metà del Cinquecento sulla proprietà acquistata il 20 aprile 1456 - come testimoniato dall’atto custodito nell’Archivio Isolani - inglobando nella costruzione la torre matildica dell’XI secolo facente parte del vasto complesso difensivo intorno alla città di Bologna. Con stupore mi trovo davanti una villa imponente innanzi alla quale si apre un bellissimo giardino e sul fianco uno stabile dove si trovano le cantine. Situata in cima ad una collina, al suo interno si aprono saloni ampi, illuminati da finestroni, dai quali è possibile arrivare a vedere in lontananza anche Bologna. Nell’attesa che arrivino i miei nobili ospiti, visito, in compagnia dell’amico giornalista, bolognese DOC, Andrea Dal Cero, le campagne circostanti e le scuderie dell’azienda; qui, oltre a trovare custoditi una dozzina di cavalli e altrettanti ponies, utilizzati dal Pony Club Montevecchio ospitato in azienda, mi imbatto in un simpatico e vecchissimo maiale vietnamita, che vagabonda stancamente intorno alla stalla. L’incontro con i Cavazza Isolani è cordiale, anche perché, prima di metterci a parlare di vino, dedichiamo un po’ del nostro tempo alle comuni passioni: i cavalli e le auto d’epoca. Per quanto riguarda questi fantastici animali, almeno da quello che ho potuto constatare, è una passione animata in famiglia, molto più di quella per le auto, comunque ravvivata da due vecchie Fiat 124 Sport Spyder ben mantenute che trovano rifugio nei locali sottostanti la villa, ormai poco utilizzati come, mi confessano, anche le autovetture. Chiacchierando con Francesco e Gualtiero mi

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accorgo della loro complementarietà, pur essendo caratterialmente e anche fisicamente molto diversi. Francesco, il commercialista di famiglia, dal fisico magro e sportivo, mi sembra più predisposto verso i rapporti esterni e le relazioni necessarie in un lavoro così complesso come quello della gestione delle diverse aziende agricole di proprietà della famiglia, a cui abbina anche altri molteplici interessi che vanno dalle costruzioni edili all’impegno “istituzionale” - da un paio di anni ricopre infatti la carica di Presidente del Consorzio dei vini dei Colli Bolognesi - ad altri ancora che però non riesco a memorizzare. In sua contrapposizione c’è l’agronomo Gualtiero, più robusto del fratello, che ai miei occhi sembra essere l’icona e l’immagine stessa di quella nobiltà agricola che così tanto ha contribuito a salvaguardare, in Italia, il patrimonio delle tradizioni contadine. È lui che segue i lavori nelle campagne, di questa e delle altre proprietà giunte tramite l’eredità della madre, che li rese orfani quando ancora Francesco non aveva neanche dieci anni e Gualtiero appena tredici. Così sono cresciuti, stando vicini fra loro e passando insieme un’intera vita lavorativa, senza che mai sfiorasse loro l’idea di potersi dividere e prendere ognuno strade diverse da quelle che li hanno condotti


Francesco, Gualtiero Cavazza Isolani

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ad oltrepassare la soglia dei cinquant’anni così uniti, tanto da voler convincere anche i loro rispettivi figli a lavorare insieme per non distruggere tutto ciò che da generazioni la famiglia Cavazza Isolani ha mantenuto e costruito. Un lavoro che riguarda anche la valorizzazione del vino principe di queste terre bolognesi, il Pignoletto, con l’impegno di Gualtiero in cantina e di Francesco nel Consorzio, dove - mi racconta - sta provando a ottenere, nel suo mandato di presidenza, almeno due obiettivi: consolidare il gruppo delle aziende iscritte e modificare radicalmente il disciplinare (e qui c’è bisogno di tanto impegno); se si arriverà in fondo all’iter burocratico, come lui stesso si augura, si potranno vedere nei prossimi anni molte novità sui Colli Bolognesi, perché, al di là del Pignoletto, che nella versione classica diventerà già dalla prossima vendemmia DOCG, tutti gli altri vini prodotti con vitigni come Barbera, Sangiovese, Cabernet Sauvignon e Franc, Merlot, Riesling Renano e Italico, Sauvignon e Chardonnay, piantati fino a pochi anni addietro, quelli a bacca rossa rientreranno nel Rosso Bologna e quelli a bacca bianca nel Bianco Bologna DOC. Una soluzione interessante, alla quale suggerisco, come consiglio del tutto personale, di poter almeno aggiungere in etichetta, dove venisse usato dai produttori al 100% un unico vitigno, il nome dello stesso, facendolo diventare, per esempio, Rosso Bologna DOC Cabernet, al fine di dare sia soddisfazione a quei produttori che da decenni investono su un vitigno, sia per non creare altra confusione sui mercati che ne hanno già molta da smaltire; il sistema vitivinicolo italiano, infatti, si ostina ancora a discutere di come riuscire a comunicare la provenienza dei vini, mentre dall’altra parte i consumatori stanno cercando disperatamente di conoscere l’origine degli stessi. Un difficile compromesso che apre fra i presenti un dibattito che si prolunga per molto tempo, durante il quale si delineano idee contrapposte, ma finalizzate al solito obiettivo: quello di far conoscere la straordinaria bellezza dei Colli Bolognesi che nessuno ancora è riuscito a valorizzare come essi meriterebbero.

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MONTEVECCHIO ISOLANI COLLI BOLOGNESI CLASSICO DOC PIGNOLETTO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dal vigneto Montevecchio Isolani, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Monte San Pietro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 31 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni argillososabbiosi ricchi di fossili, ad un’altitudine compresa tra i 210 e i 250 metri s.l.m., con un’esposizione a nord. Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 2.500-4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve. Dopo 8-10 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto, effettuata ad una temperatura controllata inferiore ai 10°C, lo stesso è messo in acciaio; qui, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge ad una temperatura inferiore ai 17°C per 12-18 giorni; in seguito, tolte le fecce “pesanti”, il vino rimane in acciaio ad una temperatura inferiore ai 15°C e vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione.

Note organolettiche Di un colore giallo paglierino con riflessi dorati, il vino si presenta all’esame olfattivo con note di mandorla e fiori di biancospino, gelsomino e ginestra che si aprono a percezioni un po’ più minerali e di erbe officinali come salvia e lavanda, con un finale che ricorda molto il peperone giallo. In bocca ha un’entratura ampia, tondeggiante e ricca che avvolge il palato e lo scalda, adagiandosi su una vena non molto acida che lo rende più ampio che lungo. Prima annata 2001 Le migliori annate 2002, 2005, 2008, 2009 Note Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 3 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Isolani dal 1456, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, di cui 11 vitati e il resto occupato da seminativi e bosco. Gualtiero Cavazza Isolani si occupa della parte agronomica. Collabora in azienda l’enologo Giovanni Fraulini.

Quantità prodotta circa 3.300 bottiglie l’anno

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E verde e fosca l ‘a lpe, e limpido e fresco è il mattino, e traverso gli abeti tremola d’oro il sole. Cantan gli uccelli a prova, stormiscono le cascatelle, precipita la scesa nel vallone di Niel. Ecco le bianche case. La giovine ostessa a la soglia ride, saluta e mesce lo scintillante vino. �������������������� ��������������¿��������������� certo nel sogno d’una canzon d’arme e d’a mori. Giosuè Carducci, L’ostessa di Gaby Fa caldo, in questa fine di luglio, ma, nonostante l’afa, mi accingo a raccontare dell’esperienza vissuta, qualche mese addietro, girovagando nel nutrito e variegato sistema vitivinicolo dell’Emilia Romagna, nel quale industriali, commercianti, vignaioli e contadini si adoperano, con sofisticati e modernissimi meccanismi, o ancora con arcaici artifizi, a promuovere il vino che producono. Il sottofondo del gracchiare estivo delle cicale accompagna la mia lettura della scheda delle cantine Cavicchioli. Frugando nella memoria, insieme all’immagine di Sandro Cavicchioli, il mio interlocutore aziendale, non so come mai, mi ritorna in mente una vecchia poesia di Giosuè Carducci, L’ostessa di Gaby. Non so se quell’incontro svoltosi a San Prospero di Modena, e poi conclusosi con un frugale pranzo in un ristorante adiacente all’azienda, abbia contribuito a stimolare la mia memoria scolastica, o se, invece, siano stati altri e inconsci elementi a indurmi a ricordare le parole del grande poeta. Sta di fatto che ripenso a quei versi con la certezza che in quella trattoria non ho trovato nessuna piacente “ostessa” che mi abbia accolto, né una sola cameriera sorridente, né altri mescitori di un qualsiasi scintillante vino! Forse, di brillante e di brioso, in effetti, qualcosa c’era in quella circostanza e, con piacevole sospetto, credo sia stato proprio quel Lambrusco Grasparossa che Sandro ha stappato per l’occasione: piacevole, equilibrato, con una bella e fragrante schiuma, fruttato e in possesso di un leggero residuo zuccherino da renderlo assai gradevole. Un vino sicuramente lontano da quello che il poeta amava bere quando si recava dall’Ostessa in quell’antica osteria che, ancora oggi, esiste e porta il suo nome. Quello era un Lambrusco acidulo, spigoloso, più ruvido di quello odierno. Un Lambrusco artigianale, conservato, certamente, in quelle spesse e pesanti bottiglie, chiuse con tappi legati al collo con lo spago o il fil di ferro, così da riuscire a conservare, all’interno, la fragrante effervescenza. Quella loro briosità aveva marcato, come ho poi scoperto, non solo l’adolescenza di Sandro, ma anche la

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mia. Anch’io, infatti, avevo avuto modo di accostarmi a quegli arcaici Lambruschi e questo avveniva tutte le volte che mi recavo a casa di mio zio Mario, a San Martino in Rio, il paese dove era nato mio padre, posto a cavallo fra la provincia di Reggio e quella di Modena. Ricordo che Mario, borbottando in stretto dialetto emiliano, prima di sederci a tavola si allontanava per andare nella vecchia cantina dove, con molta attenzione, stappava delle fantastiche bottiglie di Lambrusco, proprio tagliando lo spago e trattenendo il tappo con le sue grandi mani. Anche quelli erano vini prodotti con quella Vitis labrusca, di cui mi parlò Sandro, conosciuta fin dall’epoca romana, la stessa che i latini chiamavano labrum e ruscum e i cui frutti davano, appunto, un vino dal gusto fresco, ma abbastanza acidulo e aspro, diverso da quello moderno che, per la sua piacevolezza, è riuscito ad incontrare il gusto dei mercati risultando oggi il vino italiano più venduto al mondo. Per chi, da queste parti, vive la terra come l’ha vissuta Sandro, il Lambrusco è parte della quotidianità e ricopre, al pari del Parmigiano, del prosciutto, delle tigelle, dei ciccioli, del culatello, dei tortellini e dell’aceto balsamico, un ruolo importante sulla tavola. È un vino “didattico” che si incomincia ad apprezzare fin dalla gioventù e Sandro, come mi raccontò in quel nostro incontro, ha avuto una grande scuola, vista l’opportunità di un punto di osservazione eccezionale come lo stabilimento di trasformazione delle cantine di famiglia, il cui cortile fu, per lunghi anni, il pianeta e il luogo ideale delle sue scorribande infantili. Crescendo in quell’ambiente gli fu facile comprendere quale sarebbe stato il suo futuro e da esso nacque, crebbe e si ampliò la grande passione per il vino che lo spinse a diventare, più tardi, l’enologo dell’azienda e che oggi lo caratterizza e lo mette in condizioni di lavorare infaticabilmente, affinché il Lambrusco dell’azienda di famiglia, prodotto fin dal 1928, continui ad essere il fiore all’occhiello delle Cantine Cavicchioli che, come leggo nelle note che ho sul tavolo, “vinificano oltre 52 mila quintali di uve di Lambrusco, nelle diverse


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tipologie, arrivando a produrre più di 20 milioni di bottiglie l’anno commercializzate in Italia e in oltre 50 paesi del mondo”. Quello fu un pranzo senza Ostessa, ma che si arricchì di prelibate portate che smorzarono il mio noto e logorroico desiderio di disquisire sul vino e sui “massimi sistemi” che lo regolano, arrivando non solo a placare la mia loquacità, ma anche a farmi tacere del tutto, trovandomi al cospetto di chi ne sapeva molto più di me sul Lambrusco e sulle sottili regole che governano i mercati. Ricordo che rimasi in silenzio, ammirato davanti al racconto, intenso e vivido, che Sandro mi faceva della storia di quel prodotto e della viticoltura emiliana, che coinvolgeva direttamente anche quella della sua famiglia, affondando le proprie memorie fino all’inizio del secolo passato, quando, avvalendosi dell’esperienza maturata dalle precedenti generazioni, i Cavicchioli iniziarono ad imbottigliare e a valorizzare questo vino che, personalmente, ritengo non sia solo un patrimonio degli Emiliani, ma dell’intera enologia nazionale. Memorie che ritornarono vive grazie a quel veloce pellegrinaggio narrativo che Sandro mi espose,

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e mentre le sue parole si sciorinavano sincere, il Lambrusco, posto nel bicchiere davanti a me, mi invitava a bere e a ribere nuovamente. Un vino “social popolare” come lo definì Sandro, rimasto sociale e popolare - dico io - più di tanti altri; un vino unico ed inimitabile, se prodotto con i crismi qualitativi giusti, che ha l’educazione, propria degli emiliani, di non proporsi sfacciatamente al consumatore con artifici, finzioni o come un vino difficile e complicato, ma che si offre semplicemente come vino e chiede solo di essere bevuto, donandosi fresco, garanzia di veracità e sincerità della gente che lo produce. Un vino privo di concetti edonistici, sempre uguale e sempre frizzante come lo sono - l’ho potuto constatare personalmente - Sandro, Umberto, Guido, Claudio e tutta la famiglia Cavicchioli, i quali hanno saputo coniugare i valori e le competenze in un propulsivo legame tra passato, presente e futuro, manifesto della passione per il Lambrusco che è il loro vero, unico, legale rappresentante nel mondo.


LAMBRUSCO DI SORBARA DOC VIGNA DEL CRISTO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Lambrusco di Sorbara provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda situati in località il Cristo, nel comprensorio del comune di Sorbara, le cui viti hanno un’età compresa tra i 3 e i 7 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in prossimità del fiume Secchia, su terreni sciolti, sabbiosi e limosi molto fertili, ad un’altitudine di circa 80 metri s.l.m., con un’esposizione a est-ovest. Uve impiegate Lambrusco di Sorbara 100% Sistema di allevamento Doppia cortina con potatura a cordone speronato Densità di impianto 13.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla fine di settembre alla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte, poi si inserisce il mosto ottenuto in tank di acciaio, dando avvio, dopo averlo inoculato con lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, che si svolge ad una temperatura controllata di 14-16°C per circa 5-6 giorni; quindi si svina e, dopo una breve decantazione statica, si abbassa la temperatura portandola a 5-10°C, bloccando di fatto la stessa fermentazione e lasciando che il vino rimanga sulle proprie fecce nobili per accrescerne un po’ la struttura. Al termine della maturazione si procede alla presa di spuma attraverso l’utilizzo del metodo Martinotti, poi al suo imbottigliamento e ad breve periodo di affinamento prima della commercializzazione.

Quantità prodotta circa 83.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Il vino si presenta all’esame visivo con una spuma fresca ed evanescente e un perlage fitto e persistente; il colore è rosa fragola brillante e intenso; all’esame olfattivo offre sensazioni floreali di viola oltre a percezioni di gelatina di frutti rossi come amarena e mora, con piacevoli note finali di ribes e lamponi. In bocca è fresco, ricco di una buona sapidità che lo rende secco, ma non tralascia però di esaltare le percezioni fruttate percepite al naso. Prima annata 1986 Note Il vino, che prende il nome dalla località omonima, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 3 anni. L’azienda Di proprietà della Cavicchioli e Figli S.p.A. dal 1928, l’azienda agricola si estende su una superficie di 160 Ha, di cui 150 vitati. L’enologo è Sandro Cavicchioli.

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Osservate con quanta previdenza la Natura, madre del Genere umano, ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza, la vecchiaia neppure ci sarebbe. La vita umana non è altro che un gioco della follia. Il cuore ha sempre ragione. Erasmo da Rotterdam, Elogio della Follia Prima di raggiungere l’azienda con la quale ho appuntamento, ho il tempo di effettuare una veloce visita al “Parco Regionale dei Gessi”, situato proprio sulle colline adiacenti alla città di Bologna; qui ho l’opportunità di osservare uno spettacolo naturale di estrema bellezza dovuto, principalmente, alla formazione carsica di un rilievo gessoso unico nel suo genere e sicuramente il più imponente d’Italia, essendo lungo circa 25 chilometri e largo più di uno, dal quale affiorano argille di svariati colori e terreni marnosi bianchissimi oltre ad altri elementi che caratterizzano fortemente il paesaggio come le doline, le valli cieche, i calanchi e le numerose grotte. Uno spettacolo tutto da godere che mi conferma ancora una volta la grande diversità dei terreni di questi Appennini che incidono fortemente sulla produzione vitivinicola sviluppatasi lungo tutto il loro asse; ciò contribuisce a dare una forte impronta ai Sangiovesi coltivati e degustati in questo mio viaggio enologico con il quale cerco di definire, necessariamente, le zone e le sottozone produttive, soprattutto quelle capaci di creare un distinguo netto fra il Sangiovese d’altura e quello di pianura, entrambi genericamente denominati “Sangiovese di Romagna”. Una denominazione che sminuisce il valore di certi vini prodotti su queste colline, diversissimi non solo da quelli della bassa Padana, ma anche fra loro, come ad esempio quelli realizzati sulle colline sabbiose forlivesi,

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differenti da quelli prodotti sulle argille di Modigliana, a 450 metri d’altitudine, entrambi a loro volta differenti da quelli prodotti sulla striscia gessosa che si snoda, quasi senza interruzione, e ad una certa altezza, da Faenza fino a Bologna lungo l’asse appenninico e anche in certe rare aree pre-appenniniche, più a valle. Mentre ho ancora negli occhi quel bianco paesaggio, m’inoltro in direzione di Castel San Pietro Terme, sulla via Stanzano, per incontrare il fondatore della Umberto Cesari, il settantenne Umberto; un uomo particolarmente affabile, dinamico e ricco di un’incredibile vitalità che il figlio Giammaria riesce a stento a controllare. Un uomo di vecchio stampo, che non disdegna però di allenarsi almeno due volte alla settimana per preparare la maratona, che cerca di correre un po’ ovunque; mi racconta, tra l’altro, di aver appena partecipato a quella di New York. Lo osservo mentre mi mostra la sua azienda e ho l’impressione di trovarmi al cospetto di un gentlemen d’altri tempi, per il quale vale più una stretta di mano che un contratto. Una percezione che scaturisce dal suo modo semplice, schietto, sincero e preciso che ha di raccontarsi; un modo comunicativo che sento molto vicino al mio e che mi dà la sensazione di conoscerlo da lunga data. Un uomo che ha passato momenti difficili da dimenticare, che ha vissuto l’emigrazione nel lontano Brasile degli anni Cinquanta, studiando, ancora ragazzino, al liceo Dante Alighieri di

Ponta Grossa Paranà, capitale del legname e del caffè, difendendo ogni giorno l’onore di tanti “stranieri” come lui. Sono convinto che chi come lui ha sperimentato la vita da emigrante non può scordare facilmente il passato e ha un diverso approccio verso le cose, anche verso le più semplici - che vengono maggiormente valorizzate - e verso le più complesse e difficili - che vengono ridimensionate e circoscritte. L’impressione che ne ricevo è positiva. La riscontro anche parlando con il figlio, il quale, appartenendo a un’altra generazione, ha un altro modo di fare e una visione meno romantica e più pragmatica dell’azienda di famiglia che contribuisce a gestire con idee chiare e una visione globale di come essa dovrebbe posizionarsi nel prossimo futuro sui mercati internazionali. Preciso e determinato, mi descrive minuziosamente la sua opinione sui grandi mutamenti che interagiscono


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nel mondo del vino, succube di una distribuzione troppo “cannibale”; per ovviare a questo è stato indotto a trovare sistemi molto più diretti per interloquire in prima persona con i mercati, specialmente quelli del Nord America, che sono i suoi più importanti, acquisendo, su quel territorio, un’agenzia di distribuzione canadese con un grande background. Da una parte, il nuovo con numeri, fatturati, mercati, globalizzazione, strategie di marketing e di comunicazione, dall’altra la storia dell’azienda e la consapevolezza di Umberto di aver fatto il proprio dovere di imprenditore e di padre nel delineare un percorso importante per i suoi figli Gianmaria e Ilaria, che oggi non è qui. Mentre parliamo, il sole sembra voler riscaldare l’aria e darci il piacere di osservarlo. Rispetto alle giornate piovose delle scorse settimane, il cielo è terso, di una grande limpidezza, grazie alla quale, dalla bellissima sala degustazione dell’azienda posso osservare Bologna in lontananza e il paesaggio circostante ricco di vigne un po’ ovunque; molte di esse appartengono alla Umberto Cesari, i cui vigneti si estendono su circa 120 ettari, una superficie enorme non solo rispetto agli storici 10 ettari con i quali Umberto iniziò, ma soprattutto rispetto alla media delle altre aziende romagnole. Nelle parole di Umberto c’è sempre un giusto ed equilibrato orgoglio e anche un senso di grande responsabilità nei confronti del presente e del futuro di questa viticoltura. Lo ascolto mentre le frasi scorrono e in lui riaffiorano i ricordi del suo rientro dal Brasile e di quegli inizi; con la voglia di guardare ancora al futuro, li descrive quasi appartenessero alla preistoria, come quando le strade che conducevano a queste colline erano sterrate e nelle case non era ancora arrivata né la luce, né il telefono, né l’acqua potabile. Con la fantasia seguo il suo racconto e penso a come dovesse essere il paesaggio di queste terre alla fine degli anni Sessanta; penso al ristorante di famiglia, “Da Cesari”, ancora aperto a Bologna, dal quale Umberto era partito per tuffarsi nella produzione del vino. Mentre lui parla, penso a quella Fiat Coupé 2300 che Umberto aveva comprato usata, dal direttore di Banca della filiale davanti al suo ristorante e che egli usava per portare tutta la famiglia, ogni fine settimana, in campagna a Castel San Pietro Terme o per trasportare le prime casse di vino da scaricare agli amici, come il Bertino Travagli de “La Vecchia Chitarra”, una trattoria blasonata di Ferrara o a qualche altro ristoratore o conoscente scovato in occasione delle trasferte che, abitualmente, compiva per arbitrare le partite di calcio del campionato della lega professionisti di serie A e B. Sono ricordi di sacrifici, ma anche anni animati da grande passione che sembra non essere mai venuta meno e che lo ha spinto a produrre sempre un Sangiovese di alto lignaggio da far conoscere e apprezzare in Italia e nel mondo. Il suo è stato un viaggio avviato con tenacia e caparbietà all’inizio degli anni Sessanta proprio quando vi era la tendenza all’abbandono delle campagne, nella convinzione di voler legare il Sangiovese al suo territorio, proteggendolo e valorizzandone le tradizioni enogastronomiche e la storia, fino ad investire, oggi, in progetti di recupero di ville settecentesche che daranno lustro, insieme al vino, a questa terra. Resto ancora affascinato nell’osservare come padre e figlio si perdano nel racconto dei particolari di questo nuovo e splendido sogno, comprendendo che in quest’azienda c’è cuore e voglia di fare.

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TAULETO IGT SANGIOVESE RUBICONE Zona di produzione Il vino è il risultato della vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Bursona Longanesi provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Castel San Pietro Terme, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 18 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate Sangiovese 90%, Bursona Longanesi 10% Sistema di allevamento In parete con potatura a cordone speronato Densità di impianto 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire da fine settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini troncoconici di rovere ad temperatura controllata di 25-28°C, si protrae per circa 18-20 giorni, durante i quali si eseguono quotidianamente frequenti folature e délestages per favorire una completa estrazione della frazione colorante e dei tannini dolci delle bucce; contemporaneamente si esegue anche una macerazione post fermentativa che si prolunga di altri 10 giorni. Dopo la svinatura, il vino viene posto in serbatoi in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale è messo in barriques e tonneaux da 225 e 500 lt di rovere francese di Allier in cui rimane per 24 mesi; al termine di questo periodo si procede all’assemblaggio delle partite e ad una breve decantazione in acciaio prima di

procedere all’imbottigliamento e ad un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 25.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un bel rosso rubino fitto con riflessi color granato, il vino si apre alle percezioni olfattive in modo ampio, complesso e molto piacevole, con note speziate che partono dall’anice stellato per passare alla liquirizia e a nuances di sigaro e cioccolato amaro; le percezioni si aprono poi ad altre fruttate di composta di prugne e more in confettura, con un finale che ricorda un pot-pourri di fiori appassiti e accenni di sottobosco. In bocca ha un’entratura ampia, con una fibra tannica ben equilibrata, fine e ben evoluta, oltre ad una sapidità che lo rende fresco, lungo e persistente. Prima annata 1998 Le migliori annate 2000, 2003, 2004 Note Il vino, che prende il nome dall’omonimo podere, raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso tra i 4 e i 10 anni. L’azienda Di proprietà di Umberto Cesari dal 1967, l’azienda agricola si estende su una superficie di 120 Ha vitati. Collabora in azienda un team di enologi e agronomi.

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La moda esprime la tensione tra uniformità e differenziazione, il desiderio contraddittorio di essere parte di un gruppo e simultaneamente starne fuori, affermando la propria individualità... Georg Simmel

Esco a Modena Nord e poi, seguendo delle strade interne perse in mezzo alle campagne, che si orientano in direzione delle prime propaggini collinari, mi dirigo verso la Cantina di Castelvetro, dell’azienda Chiarli, per la costruzione della quale sono stati utilizzati alcuni fabbricati della vecchia Tenuta del Generale Cialdini, che si trovavano già all’interno della proprietà e che sono stati ben armonizzati con quelli nuovi, che accolgono la zona di vinificazione. Entro in punta di piedi, conscio del fatto di trovarmi al cospetto della Storia con la “S” maiuscola; in questo caso essa abbraccia non solo tutto ciò che riguarda l’evoluzione della tradizione, costruitasi intorno a un vino come il Lambrusco (di cui la Chiarli è, indubbiamente, considerata la più vecchia azienda imbottigliatrice), ma mi racconta anche dell’importantissimo contributo che questa famiglia ha fornito al settore vitivinicolo emiliano. Fu Cleto Chiarli a fondare l’azienda nel 1860 e a partire da quella data incominciò a commercializzare, su vasta scala, il Lambrusco che, prima di allora, produceva personalmente e mesceva agli avventori della Trattoria dell’Artigliere, nel centro di Modena. Fra giardini, casa padronale e uffici mi ritrovo nelle vecchie scuderie dove è stata ricavata una bella sala degustazione. Davanti a me ho una serie di vini, dal Lambrusco di Sorbara

Chiarli 1860

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Vecchia Modena al Lambrusco Grasparossa Vigneto Enrico Cialdini, dal Rosé Brut al Prumonero, al Nivola Lambrusco Scuro e a tante altre etichette. Dietro quelle bottiglie trova posto Anselmo Chiarli che, dopo una breve descrizione del luogo e della struttura che mi circonda, ci tiene a puntualizzare come l’azienda di famiglia venga al primo posto e prima di ogni altra cosa, e che lui è lì solo perché è stato “geneticamente assunto” per traghettare verso il futuro ciò che è già stato fatto in passato da chi lo ha preceduto e consegnarlo alle generazioni che verranno, implementando e ampliando ciò che ha ereditato. E queste forze nuove e vitali - mi confessa con orgoglio - stanno già operando in azienda. Il suo è un impegno assunto quando, appena laureatosi in Giurisprudenza, a 23 anni, entrò in azienda accanto al padre Giorgio, trovando la forza e la volontà di ritagliarsi (un po’ alla volta e come si usava fare nelle storie belle e antiche delle famiglie di un tempo), un proprio spazio operativo da guadagnare faticosamente, attingendo ai valori di quello spirito di onestà imprenditoriale, etica e gerarchie familiari che muovono le cose in casa Chiarli. Furono anni - mi racconta - in cui si destreggiava nell’azienda di famiglia occupando tutti i ruoli della filiera produttiva, fino a trovare la propria collocazione nell’attività commerciale verso i

mercati esteri che, all’epoca, erano ancora tutti non solo da scoprire, ma anche da costruire. Iniziò così il suo lungo viaggio, ritrovandosi ambasciatore nel mondo di quell’enologia emiliana che, negli anni Cinquanta, incominciava ad emettere i primi vagiti ed era proiettata al cospetto di aree geografiche diverse, per culture e stili di vita, nelle quali non esisteva nessuna conoscenza del vino. Una presenza ambiziosa, quella che presto condusse la Chiarli ad essere inserita nelle mappe mondiali dei mercati del vino, dove si apprezzavano vini come il Frascati, il Cirò e l’Orvieto, ma anche il Chianti, il Verdicchio e il Valpolicella oltre, naturalmente, al Barolo e alla Barbera. Il confronto con poche decine di aziende (e provenienti da altre regioni), non incuteva nessun timore reverenziale, risultando la Chiarli fra le più vecchie aziende italiane presenti sui mercati internazionali e una delle poche che poteva contare su una buona e strutturata organizzazione aziendale. Furono anni di esplorazione, ma soprattutto di grande consolidamento del marchio Chiarli sui mercati, dai quali l’azienda riceveva un feedback continuo che contribuì a modificare, gradualmente, il gusto di quel Lambrusco delle origini che da secco, asprigno, asciutto e chiaro, divenne, via via, sempre più morbido e abboccato, trovando, ora negli Stati Uniti, ora in Brasile, in Spagna o in


Anselmo Chiarli

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Oriente, una strada più facile per accreditarsi. Cambiamenti ai quali, però - mi racconta Anselmo - non mancarono delle eccezioni, come nel caso del mercato parigino, dove Chiarli ebbe un successo travolgente. Infatti, sugli Champs-Élysées, alla fine degli anni Sessanta, in piena rivoluzione studentesca, si preferiva bere Lambrusco di Sorbara con le vecchie caratteristiche originali. Un altro esempio di quella Storia con la “S” maiuscola che meriterebbe un libro che la raccontasse tutta. Scopro poi che un’altra importante svolta avvenne all’inizio degli anni Settanta quando, per la vinificazione del Lambrusco, fu adottato il sistema italiano del Dottor Martinotti (quello erroneamente conosciuto come metodo Charmat), utilizzando il quale si incominciarono a costruire dei Lambruschi molto diversi da quelli commercializzati fino ad allora e distanti anni luce da quelli “originali”. Lo ascolto, come faccio sempre quando incontro chi ne sa più di me. Trovo stuzzicante l’idea che il Lambrusco italiano, così bistrattato da qualsiasi banale degustare e dalle guide specialistiche, sia

Chiarli 1860

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utilizzato, da molti, come il miglior amico per approcciarsi al vino, riuscendo così a costruirsi dei consensi e acquisendo una diffusione planetaria. Un vino simile, credo, dovrebbe avere il plauso unanime di tutti per la capacità che ha di portare, in giro per il mondo, l’immagine del Made in Italy. Ascolto Anselmo e mi piace il suo pensiero pulito, fresco, chiaro che mi riporta alla mente l’idea del filosofo e sociologo berlinese Georg Simmel che asseriva come la storia della società si svolge nella lotta di pochi e nel compromesso di molti, nelle conciliazioni lentamente conquistate (e rapidamente perdute) che intervengono fra la fusione con il nostro gruppo e la volontà di distinguersi individualmente. Uno spirito sociologico e imprenditoriale che, credo, abbia sempre animato l’azienda Chiarli, come penso abbia sempre stimolato anche Anselmo e tutti gli altri componenti della famiglia, orientati alla valorizzazione del brand Chiarli, ma anche del Lambrusco come elemento e anima rappresentativa del territorio, al pari delle altre eccellenze dell’Emilia, facendolo essere, ancora oggi, dopo più di mezzo secolo, il vino italiano più venduto al mondo. Un vino che, grazie ai suoi produttori, ha saputo adattarsi ai cambiamenti dei gusti dei consumatori, non perdendo mai di vista la propria originalità e la propria trasparenza e proponendosi, senza particolari segreti, nella massima semplicità di volersi considerare un buon vino da bere tutti i giorni. Questa è la forza del Lambrusco, ma non solo. È anche la forza di chi, come i Chiarli, cerca di produrlo con onestà, serietà ed etica, che sono poi i valori di una famiglia che, da oltre 150 anni, parla di vino.


LAMBRUSCO DI SORBARA DOC VECCHIA MODENA PREMIUM Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Lambrusco di Sorbara provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nella frazione Sozzigalli, nel comune di Soliera, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 30 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano nella piana alluvionale del fiume Secchia su terreni profondi a tessitura franco-limosa con reazione modestamente alcalina. Uve impiegate Lambrusco di Sorbara 100% Sistema di allevamento Cortina doppia Densità di impianto 2.800 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve con conseguente macerazione pellicolare in vinificatore per alcune ore ad una temperatura di circa 10°C. Dopo la svinatura in pressa, si opera una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 10°C; quindi il mosto è inserito in serbatoi d’acciaio. e successivamente addizionato con lieviti selezionati per dare avvio alla fermentazione alcolica e alla presa di spuma che si svolge a una temperatura di 15°C per circa 60 giorni.

spuma ricca e cremosa; il colore è un brillante rosso rubino; all’esame olfattivo offre bei profumi di ciliegia, ribes e mirtilli e suadenti note floreali di viola. In bocca è seducente ed equilibrato, con grande acidità e buona sapidità; tannini giovani e vivaci si mescolano ad un leggerissimo residuo zuccherino a rendere il vino piacevole ed assai godibile. Prima annata 1980 Note Il vino, la cui confezione riproduce l’immagne di un’originale bottiglia di Lambrusco datata 1890, raggiunge la maturità dopo 6-8 mesi dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 mesi e i 2 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Chiarli, l’azienda agricola si estende su una superficie di 105 Ha, di cui 25 vitati e i restanti occupati da seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Stefano Todeschini e l’enologo Michele Faccin.

Quantità prodotta circa 60.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Il vino veste il bicchiere di una

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Un uomo può vivere solo, solissimo; ma quando sa che intorno, invisibili, gli uomini e i luoghi gli sono amici, o almeno familiari. E quando gode la compagnia di qualche forte pensiero. Mario Soldati, America primo amore

Esco dall’autostrada, seguendo le indicazioni che mi conducono lungo i costoni della montagna verso Pontecchio Marconi per poi passare sotto un lungo cavalcavia autostradale, trovandomi, improvvisamente, a fiancheggiare il corso del fiume Reno, le cui acque, luccicanti per i raggi di sole delle prime ore del mattino, sembrano la giusta cornice allo spettacolo meraviglioso offertomi dalla nevicata di polline e fiori che i pioppi, posti lungo le sue rive, oggi hanno deciso di regalarmi. Dopo qualche chilometro, a ridosso di un piccolo lago di pesca sportiva, trovo l’azienda di Floriano Cinti, dove una moltitudine di muratori e carpentieri si adoperano per concludere la costruzione delle nuova cantina che sarà, forse, pronta, per la prossima vendemmia. In un bailamme di ruspe e camion, allontanandoci dai quali troviamo un angolo per parlare, scopro quanto Floriano abbia sempre ritenuto la terra il suo principale interlocutore, credendo da sempre che, con essa, gli sarebbe stato possibile costruire un proficuo e serio dialogo attraverso cui dar vita ai suoi sogni e alle sue precise convinzioni. Taccio davanti alle sue riflessioni, accorgendomi quanto le stesse siano simili a quelle del grande Mario Soldati, il quale scriveva che si può vivere da soli quando sappiamo che uomini e luoghi che ci circondano sono familiari e abbiamo la compagnia di un pensiero forte. Quello stesso pensiero che, sicuramente, tanti anni fa spinse Floriano ad abbracciare la campagna di Sasso Marconi, annusando gli odori che essa emanava e fregandosene del fatto che, in nome del progresso, l’avessero deturpata con una lunga striscia di asfalto. Un abbraccio forte con cui si ripromise di proteggere e tutelare quella terra affinché quel fascino, che lui vi aveva trovato, fosse più forte di qualsiasi cementificazione che l’uomo avesse voluto gettargli in grembo. Un contatto epidermico, iniziato

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come un’avventura, riconducibile al mito del ritorno alla vita bucolica e agricola che affascinava molti giovani negli anni Settanta, quando anche in Italia, sull’esempio d’oltreoceano dei “figli dei fiori”, nacquero le prime comunità che si prefiggevano di tornare alle origini, attribuendosi l’egida di proteggere ciò che gli altri invece volevano distruggere. Mi era già capitato ad Offida, nelle Marche, di trovarmi al cospetto di una simile filosofia di vita, al centro della quale vi era la libertà ricercata proprio con un impegno sulla terra e per la terra. Sono pensieri forse più miei che di Floriano, ma che si devono avvicinare a quello spirito che deve averlo animato e spinto, con il suo gruppo di amici, Roberto, Paolo, Piero e Claudio, a trovare questo spazio, posto fra gli Appennini e lo scrosciare delle acque del fiume Reno, facendolo entrare in quel vecchio magazzino scalcinato, amata tana di serpenti e volpi, e costruire lì, proprio in quel luogo, un futuro per sé e per quella famiglia da costituire. Una storia che mi appassiona quanto i vini che, nel frattempo, mi trovo a degustare, immaginando Floriano e i suoi amici come prodi guerrieri greci poco più che adolescenti, che, impugnata la vanga, giurano all’unanimità il loro desiderio di libertà e la volontà di concretizzare su quelle terre poco più grandi di due ettari, tra vigneto e campi, l’idea di un’agricoltura sociale, rispettosa e solidale. Una terra di tutti, quindi, che quei dilettanti agricoltori non sapevano cosa fosse, né tanto meno avevano idea di come coltivare. Acqua passata, storie di gioventù che hanno arricchito lo spirito e aperto la mente a nuovi orizzonti dove, spesso, succede di riuscire a ragionare meglio sul termine dell’io che, invece, su quello di un ipotetico e idilliaco noi. Quell’iniziale spirito trovò presto spazio nell’amore delle famiglie che vennero a crearsi e le cose non furono più le


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stesse. Così, quando le responsabilità e il gioco divennero impegno, ognuno prese la propria strada e di quei contadini alle prime armi, nelle menti di Roberto, Paolo, Piero e Claudio rimasero solo degli indelebili ricordi. L’unico del gruppo a saper costruire un proficuo e serio dialogo con la terra, tale da farla diventare davvero il principale interlocutore, fu Floriano. Su queste colline ha costruito il sogno di diventare vignaiolo e ha radicato le proprie convinzioni che qui, sui Colli Bolognesi, si potessero fare dei grandi vini. Un processo lento che lo ha portato prima a vivere la campagna e poi a scoprire quali fossero le regole e le difficoltà di lavorare e trasformare il frutto di quelle viti alle quali avrebbe scelto di dedicare la propria vita. Ad un certo momento decise infatti di essere più solidale con se stesso che con gli altri: rilevata l’azienda agricola, acquistò sei ettari di terre in località Tignano, dove approntò nuovi vigneti e trovò la voglia di affittarne altri, fino ad arrivare a costruire quella nuova cantina che adesso vedo sorgere in diretta davanti a me, nella quale egli prevede, orgogliosamente, di incrementare la propria produzione. C’è voluto tempo, ma c’è l’ha fatta e anche se molte cose sono cambiate in quel luogo dove una volta c’era un allevamento di conigli e in cui ora ho trovato un buon vignaiolo che produce degli ottimi vini, lui non è cambiato e continua ad avere voglia di mettersi in discussione e di non interrompere mai quel dialogo avviato con la terra tanti anni fa.

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COLLI BOLOGNESI CLASSICO DOC PIGNOLETTO SASSOBACCO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Tignano, nel comune di Sasso Marconi, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 20 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni di origine pliocenica a prevalente componente sabbiosa, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 2.800 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve e dopo una pulizia statica del mosto, effettuata in tank di acciaio alla temperatura controllata di 10°C, si dà avvio, una volta inseriti i lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura controllata di 18°C per circa 15 giorni. Terminata questa fase, avviene la separazione delle fecce grossolane, dopodiché vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili del vino, in modo da accrescerne struttura e longevità. Si procede poi all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta circa 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di color paglierino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi fruttati di pera e ananas, piacevoli sensazioni di pasta di mandorla e nocciola tosata che si aprono poi a note floreali di tiglio e di sambuco oltre che di erbe aromatiche. In bocca è avvolgente, elegante, equilibrato, con una bella nota sapida che lo rende piacevolissimo e lungo al palato; chiude con nuances di mandorla e altre che ricordano molto le percezioni avute nella fase olfattiva. Prima annata 1996 Le migliori annate 2001, 2004, 2005, 2006, 2007, 2009 Note Il vino appartiene alla linea SassoBacco, che identifica l’eccellenza della produzione aziendale e raggiunge la maturità dopo 1-2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 4 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà di Floriano Cinti dal 1992, si estende su una superficie di 27 Ha, di cui 25 vitati. In azienda, la funzione di agronomo viene svolta da Floriano Cinti, quella di enologo da Giovanni Fraulini e Giovanni Mazzoli.

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Ci sono dei grandi sogni che, ogni tanto, riempiono la mia mente e dai quali, spesso, rifuggo per concentrarmi, invece, su quelli un po’ più piccoli, molti dei quali penso e spero di essere in grado di concretizzare. Alcuni sono piccoli piccoli, altri, invece, un po’ più sostanziosi, ma tutti perseguibili e, quando riesco a realizzarne uno, mi fanno trovare il piacere di assaporare e colorare la mia vita, come succede con il rosso scuro, quello del mio vino - con cui dipingo non solo le mie vendemmie e, quando è buono, anche il vestito con cui mi presento al mondo - o con il celeste di questo cielo - con cui delineo il mio animo e il mio lavoro - oppure con il verde delle mie viti - con cui disegno le mie giornate - o con le mille sfumature dorate di questi tramonti - con cui nutro il mio cuore e l’amore verso la mia famiglia. Sogni che mi spingono ogni mattina ad alzarmi e ad affrontare la mia quotidianità con il sorriso. Piccoli sogni che mi accompagnano per tutta la giornata, motivandomi e appassionandomi sempre di più a questo mestiere di viticoltore che ho scelto di intraprendere dopo essermi laureato alla facoltà di Agraria dell’Università di Bologna. Fare vino era uno dei miei desideri, il più grande, e mi sento fortunato ad averlo potuto realizzare, grazie alla disponibilità dei miei pochi ettari, posti in questa zona fantastica, sulle prime propaggini appenniniche della Serra di Castel Bolognese, nel ravennate. Terreni di famiglia che, dopo i primi tentativi, decisi di prendere in affitto da mia madre, la quale non voleva assolutamente che mi prodigassi nel ricominciare a fare il vino, soprattutto quel vino che a suo padre, mio nonno Gian Battista, aveva dato non solo piaceri,

ma anche tanti dispiaceri, ed anche poca remunerazione economica. Sapevo bene che qui avrei potuto fare ottime cose, sicuramente diverse da quelle che faceva lui; per i suoi tempi, non è che facesse poi un vino tanto cattivo, anzi, ma in certe annate, dovendosi fidare dei cantinieri, succedeva che questi, a volte, combinavano dei guai che andavano poi ad incidere sul prodotto finale con odori strani e difetti. Una “tragedia”, che purtroppo continuò per molti anni, anche dopo la morte del nonno, che avvenne nel 1981, e sotto la conseguente gestione di mia madre e mia zia che, essendo insegnanti, erano costrette a lasciar seguire quelle poche vigne presenti nell’azienda da operai che non mutarono di una sola virgola le loro pessime abitudini di fare vini imbevibili. Fin dall’inizio, avviando una personale ricerca e una filosofia produttiva quanto mai realista, non ho mai cercato di produrre qualcosa di diverso da ciò che io, questo territorio e il patrimonio genetico delle vigne che avevo a disposizione eravamo in grado di offrire, adoperandomi, anno dopo anno, per riuscire a porre ogni elemento che interagiva con la filiera produttiva, in equilibrio con tutto il resto. Non ho mai voluto farmi trascinare in facili scorciatoie, né costruire vini che seguissero ciecamente i gusti dei mercati, ma ho sempre puntato avanti con idee chiare, tenendo fede solo a quanto di più naturale avevo dentro e intorno a me. In questo percorso esplorativo mi sono sentito particolarmente attratto da quei vitigni autoctoni, come il Sangiovese, da cui ritenevo di poter ricavare dei prodotti enologici che sentivo particolarmente vicini al mio modo di concepire la consistenza, l’essenza, il modo stesso di proporsi e identificarsi di un vino, oltre alla sua stessa capacità di mantenersi nel tempo facendo scoprire nelle sue fibre, a chi lo avrebbe degustato dopo anni, l’espressione del suo interagire con il territorio di origine. Chi assapora il mio Sangiovese si accorge che ha già incominciato ad avere la giusta corrispondenza con la mineralità forte di queste terre, tanto da esserne fortemente marcato, pur rimanendo elegante ed equilibrato. Sono risultati che arrivano dopo anni e che non sono certamente riconducibili, come è facile constatare per chiunque arrivi nella mia azienda, a smaniose, minuziose, sofisticate e costose attrezzature tecniche, utili forse, ma per me insignificanti. Questo è un


Gabriele Succi

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Sangiovese prodotto con la sola forza della mia volontà, percorrendo chilometri fra i filari, ascoltando quello che hanno da dirmi le mie viti e prendendomi cura di loro, come faccio con i miei figli, con questa casa, ancora da finire di ristrutturare, e con i locali della cantina, tuttora da sistemare: elementi di un puzzle che ho costruito e all’interno del quale ogni cosa, anche minima, ha una sua speciale ragion d’essere. Un pragmatismo che mi aiuta a superare gli ostacoli, a mettermi in gioco e a provare a realizzare, ogni giorno un piccolo, piccolissimo sogno. Spero che questa mia cocciuta determinazione possa portarmi a risultati tangibili, così come molti altri in regione hanno fatto, riuscendo ad ottenere prestigiosi traguardi e anche leadership di alcuni settori specifici, siano essi quello automobilistico, motociclistico, agroalimentare o turistico.

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Purtroppo qui non ci sono famiglie come gli Antinori o i Frescobaldi, né tanto meno i Biondi Santi o i Gaja da poter seguire. Qui mi ritrovo in un territorio che, nell’immaginario collettivo, è identificato con le abbondanti produzioni dei grandi gruppi industriali cooperativistici del vino e, per questo, rimane ancora più difficile poter comunicare che esiste anche un’altra realtà, più artigianale di quella conosciuta, che trova la propria ragione di esistere nella capacità di fare vini di grande qualità, lontani dalla massificazione con la quale si identifica la produzione enologica di questa regione. Occorre gridare forte e certe volte non basta. Bisognerebbe, allora, gridare tutti insieme ancora più forte, affinché i mercati possano conoscere quanto i colli Piacentini, le aree vitivinicole di Parma, Reggio, Modena, i Colli Bolognesi e le singole zone della Romagna, siano territori unici, capaci di esprimere differenze notevoli sia a livello di cultivar che di prodotto. Per questo ti posso assicurare che non è facile fare il viticoltore in questa regione. Qui nessuno ha saputo (o voluto) legare il vino al territorio. Credo che gli unici che ci stanno provando siano proprio i piccoli vignaioli come me, che si sforzano di far comprendere l’unicità del lavoro fatto per realizzare vini apprezzati un po’ ovunque, non solo dal mercato territoriale all’interno del quale si sono adagiati per decenni. Non nascondo di sognare che il mio vino parta un giorno verso gli Stati Uniti, il Canada, la Germania o l’Inghilterra. Chissà! Forse un sogno un po’ troppo grande, ma sono sicuro che è raggiungibile, se continuerò ad amare questo lavoro come ho fatto fino ad ora.


PRIMA LUCE COLLI DI FAENZA ROSSO DOC Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon e Sangiovese, provenienti dai vigneti aziendali, situati in località Serra, nel comune di Castel Bolognese, le cui viti hanno un’età compresa fra gli 8 e i 10 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni pleistocenici prettamente limoso-sabbiosi e/o argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 70 e gli 80 metri s.l.m., con un’esposizione a est. Uve impiegate Cabernet Sauvignon 95%, Sangiovese 5% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot

Quantità prodotta circa 2.700 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore rosso rubino intenso, quasi impenetrabile, con un’unghia purpurea, il vino si presenta all’esame olfattivo con sentori netti di eucalipto e di menta piperita che si aprono a note di ciliegie e frutti rossi del sottobosco, come ribes neri e mirtilli; offre poi un’accentuata mineralità che confluisce in un finale sapido e speziato che ricorda il pellame e il tabacco da sigaro. In bocca ha un’entratura ampia, calda, con una vena tannica evidente, ma in via di evoluzione, sorretta da una mineralità e da una sapidità che riequilibrano l’aspetto alcolico, conferendo al vino lunghezza, eleganza e longevità certa.

Densità di impianto 3.500 ceppi per Ha

Prima annata 2005

Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre per il Sangiovese e dalla prima decade di ottobre per il Cabernet Sauvignon, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica utilizzando alcune volte i lieviti indigeni, in altri anni dei lieviti selezionati. Questa fase, svolta in tini da 7 Hl, si protrae per circa 20 giorni senza controllo della temperatura; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuate follature manuali 3-5 volte al giorno. Dopo la svinatura, il vino viene travasato 1 volta per togliere le fecce grossolane e poi è posto in barriques da 2,25 Hl, di 1°, 2° e 3° passaggio, dove effettua spontaneamente la fermentazione malolattica e in cui sosta per circa 14 mesi. Terminata la maturazione, e dopo 2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione.

Le migliori annate 2006, 2007, 2009 Note Il nome del vino indica che queste sono le prime vigne ad essere irradiate dalla luce dell’alba. Raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Archi dalla fine dell’Ottocento, l’azienda agricola si estende su una superficie di 11 Ha, con ulteriori 2 Ha condotti in affitto, tutti vitati. Gabriele Succi svolge la funzione di agronomo ed enologo.

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Tutti i sogni sono sempre un pò misteriosi e questo è il loro bello, ma certi sono misteriosissimi, cioè non si capisce niente, sono come dei rebus. Mentre i rebus hanno una soluzione, loro non ce l'hanno, puoi dargli cento significati diversi e l’ uno vale l’ altro. Luigi Malerba, Il serpente Vuoi che ti sorprenda con dei dati? Vuoi, invece, capire cosa sia realmente questa Romagna e questa regione? Bene, basta che tu controlli i tassi del mercato del lavoro per accorgerti che superano la media europea, come basta poi osservare l’occupazione femminile per scoprire che è sopra l’obiettivo che si erano dati i paesi comunitari a Lisbona, arrivando circa al 63% rispetto al 47% nazionale, oppure soffermarsi sul Pil o la ricchezza procapite, che supera di gran lunga quella nazionale, per capire che non sei su una terra qualunque, ma sei in Emilia Romagna. Quello che sto cercando di farti comprendere, attraverso alcuni aspetti statistici, è che chiunque può conoscere il valore di questa terra e cosa essa potrebbe rappresentare, come esempio, confrontandola con le altre regioni italiane. Ma a noi, emiliani o romagnoli, stranamente, la cosa non interessa, come non interessa comunicare che questa è una regione fra le più dinamiche del mondo, la prima in senso assoluto per le eccellenze agroalimentari, per la dinamicità imprenditoriale e per quel vivere civile che tutti ci invidiano, senza considerare il fatto di aver il primato italiano come Bil - il “benessere interno lordo” - ovvero l’indice

Drei Donà

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della qualità della vita che nessun’altro è riuscito ad incarnare come noi e che rappresenta, secondo me, nella maniera migliore, quell’Italian lifestyle di cui tutti si riempiono la bocca, ma che, in realtà, è solo qua. Se qui ci sono le industrie automobilistiche e motociclistiche più importanti del mondo, se abbiamo un’infinità di prodotti agroalimentari Dop e Igp che gli altri paesi c’invidiano e se le industrie più all’avanguardia nel settore del fitness, della moda e di tanti altri settori produttivi sono qui, vorrà pur dire pure qualcosa? O no? Anche se tu sei un toscano, mi dispiace dirtelo, ma non credo vi siano in Italia altri Italian lifestyle se non quello che siamo stati capaci di costruire noi, riuscendo a raggruppare, in un mix perfetto, cultura, arte, gioia di vivere, imprenditoria e lavoro. Siamo gente fantastica, sotto questo aspetto; siamo consapevoli che quando c’è da essere seri, noi necessariamente lo siamo, come riteniamo che sia non solo un piacere, ma anche un dovere, quello di goderci la vita al di fuori delle ore lavorative. Non dico questo per convincerti, ma semplicemente per esprimere uno stato di fatto di cui noi romagnoli dovremmo prendere coscienza ed esserne orgogliosi a tal punto da promuoverlo al di fuori dei nostri confini, come faccio io quando presento i miei vini in giro per il mondo. Anche culturalmente non abbiamo niente da invidiare a nessuno. Non è, infatti, Bologna la città con l’Università più antica del mondo? Non è forse vero che a Ravenna vi sono i mosaici tra i più belli d’Italia? Come ti dicevo l’Italian lifestyle è qui in Emilia Romagna; il resto, se esiste, è solo una brutta imitazione. Ma è su questo fatto che noi, purtroppo, non ci prendiamo troppo sul serio e non puntiamo su questa unicità come un jolly da avere sempre in mano e da giocarci per la promozione del nostro meraviglioso territorio. È con questa determinazione che racconto la mia terra e, pur


Enrico Drei DonĂ


essendo giovane, capto in me la risoluzione di un settantenne che, raggiunta la sua veneranda età, non ha timore di dire “pane al pane e vino al vino”. Con lo stesso fervore, dal 1995, cerco di costruire un futuro per quest’azienda e questo territorio che è legato strettamente a ciò che produco. Un impegno continuo, animato da un grande sogno: riuscire a coniugare e far apprezzare al mondo intero il nostro Sangiovese, così unico e diverso da qualsiasi prodotto presente nelle altre regioni limitrofe. È forse per questo che dico che non potrei mai smettere di fare vino, perché è così e sarà così per tutti i giorni della mia vita. Questo è un lavoro che mi trasferisce energia, la stessa che spinge ancora mio padre a visionare i vigneti e la cantina, portando avanti ciò che aveva iniziato agli inizi degli anni ’80, quando lasciò l’avvocatura per dedicarsi completamente alla viticoltura, riuscendo, magicamente, a trasferire anche a me il suo sogno di produrre, su queste colline, grandi vini. Un testimone che ho impugnato volentieri, apprendendo sul campo tutto ciò che conosco e acquisendo il mio saper fare con pratica e teoria, con esperienza e sapienza, nella speranza di riuscire un giorno, con un armonico passaggio generazionale, a trasmettere tutto questo a mio figlio.

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PRUNO SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti del Pruno e dei Peschi, di proprietà dell’azienda, situati in località Massa di Vecchiazzano, nel comune di Forli, le cui viti hanno un’età compresa tra i 18 e i 28 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni di medio impasto argilloso con 14% di sabbia, ad un’altitudine compresa tra 130 e 157 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti autoctoni, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tank di acciaio inox, si protrae per circa 8 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 13 giorni, periodo durante il quale vengono effettuate frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è mantenuto ancora nei tank di acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica; in seguito viene spostato in tonneaux e barriques da 225 e 500 lt di 1° e 2° passaggio, in cui rimane per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano dei travasi ogni 4-8 mesi. Terminata la maturazione e dopo l’assemblaggio delle partite e 1 mese di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 18.000-20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore rosso rubino intenso e luminoso, il vino si propone al naso con grande freschezza e tipicità, con belle sensazioni di ribes, more e frutti rossi che, a seconda delle annate, si evolvono come se fossero sotto spirito, andandosi a mischiare poi a piacevoli percezioni speziate, in alcune annate di grafite e di liquirizia, mentre in altre vengono esaltate di più quelle dolci. In bocca ha un’entratura avvolgente, decisa, con tannini importanti in continua evoluzione che si uniscono ad una bella mineralità che conferisce lunghezza e persistenza; chiude quasi sempre con piacevoli note speziate. Prima annata 1989 Le migliori annate 1989, 1993, 1995, 1997, 1998, 2000, 2001, 2004, 2006 Note Il vino, che prende il nome da uno dei cavalli dell’allevamento-scuderia di famiglia, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 12 e i 20 anni. L’azienda Di proprietà dei conti Drei Donà dal 1923, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 23 vitati, 1 occupato da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’enologoagronomo Monia Ravagli e l’enologo Marco Bernabei.

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Quel che si dovrà fare, sarà di non vergognarci di sentimenti troppo grandi. Antonio Delfini

Erano altri ritmi quelli che vivevamo nei paesi, tanti anni fa. Ritmi scanditi da rapporti di socializzazione profonda, attraverso i quali veniva trasferita ai giovani la memoria storica della tradizione, contribuendo, di fatto, a costruire le radici che li avrebbero legati a quel concetto più alto di appartenenza alla terra e alla propria cultura. Ritmi scanditi dal lavoro, che iniziava all’alba e si concludeva al tramonto, ma che era intervallato dal pranzo e dalla cena che le donne dovevano servire in orario, in modo da non perdere poi il piacere di ritrovarsi, per qualche ora, con i paesani, nella piazza del paese o al tavolo del bar per quella quotidiana partita a carte con gli amici, alla conclusione della quale gli sfottò, le risate, le imprecazioni e le “incazzature” non mancavano mai. Negli anni che dal dopoguerra mi condussero fino all’inizio degli anni Settanta, ebbi la fortuna di svolgere, in una vasta zona dell’imolese e del faentino, in Romagna, l’antica e ormai scomparsa attività di veterinario libero professionista, simile a quella raccontata dalla pubblicità di quel famoso amaro italiano a tutti noto; mi ritrovai a correre in lungo e in largo per queste campagne romagnole, a seguire i suini nei grandi allevamenti qui un tempo molto diffusi. Quando vado indietro a quei tempi, ripenso a quegli animali, quelli con la A maiuscola, e non a quelli domestici che le donne amano portare al guinzaglio, relegandoli nell’appartamento di un condominio in città e che servono solo ad arricchire queste giovani

generazioni di veterinari che non saprebbero oggi far nascere né un vitello, né distinguere una peste suina da un’intossicazione da piombo. Mi scuserai della franchezza, ma alla mia età non si hanno molte remore a dire cosa si pensa. Ormai, le donne di casa mi classificano come un vecchio, anche se, ti devo dire che i miei 82 anni non me li sento e sai da cosa me ne accorgo? Dal fatto che ho ancora molte cose da fare e molti sogni nel cassetto da realizzare. Ottantadue anni per molti potrebbero rappresentare un fardello, ma non per me e se non fossero quei necrologi di qualche mio coetaneo o di qualche paesano più giovane di me, che leggo quando vado in paese, non mi accorgerei neanche degli anni che passano e non avrei difficoltà ad ammettere di averne molti meno di quelli che ho. Se mi regge ancora lo spirito e ho ancora quest’energia, è grazie alla mia famiglia, a mio figlio Alessandro e alle mie due figlie,

Franca e Valentina, oltre, naturalmente, a Edda, mia moglie, con la quale divido la mia vita da oltre cinquant’anni. Una donna fantastica che mi ha sempre spronato a fare le cose giuste. Grazie a lei mi sono deciso a trasferirmi definitivamente dal paese al “Camerone”, dove, del resto, io trascorrevo molto del tempo libero che mi concedeva la professione, spendendolo proprio nel restauro della fattoria che tu vedi, la quale, trovandosi lungo l’asse della Linea Gotica, era stata completamente distrutta durante la IIª Guerra Mondiale. È sempre stata Edda a convincermi a vinificare le uve che producevo e che vendevo alle cooperative nate,


Edoardo, Valentina, Franca, Edda, Giuseppe Marabini

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nel frattempo, qui intorno. Il resto è storia recente, quella degli ultimi cinquant’anni, che a raccontarla tutta ci vorrebbero settimane, non ore, e così ti potrà apparire breve il passaggio dalla produzione all’imbottigliamento del vino, come il fatto di veder circolare, già nei primi anni Sessanta, le nostre etichette e sentir parlare di quest’azienda da personaggi del calibro di Veronelli, che, ricordo, mi telefonò a casa dopo aver assaggiato i nostri prodotti in un locale a Milano. Dopo qualche anno i vini incominciarono ad avere un buon successo, tanto da spingermi ad abbandonare, alla fine di quel decennio, l’attività di veterinario che, con la scomparsa dei grandi allevamenti di suini nella zona, mi avrebbe spinto, ormai, ad un trasferimento nell’Emilia che non avevo nessuna voglia di effettuare. Ti potrei raccontare mille aneddoti di questi cinquant’anni nel mondo del vino, alla cui evoluzione posso dire di aver partecipato direttamente. Anni passati accanto a una donna, mia moglie, che non solo mi ha donato tre figli, ma ha contribuito enormemente al successo di quest’azienda, divenendo, nel 1974, una delle prime donne sommelier dell’Emilia Romagna e che ha saputo darsi da fare nella promozione, in Italia, del nostro marchio aziendale, mentre io mi adoperavo per promuoverlo con quei primi e timorosi viaggi effettuati per il mondo con il Consorzio di Tutela. Ora che mi soffermo a pensare, stimolato dalla tua curiosità, mi vengono in mente un’infinità di particolari e anche storielle simpatiche, come quando, nella prima uscita del Consorzio a Milano, al prestigioso Circolo della Stampa, al cospetto di Agnelli, De Benedetti, Tronchetti Provera e del gotha dell’intellighenzia industriale e della stampa italiana, ci presentammo non con delle bottiglie di vino, ma con damigiane di Sangiovese da 28 litri. Fu un’apoteosi. Fummo applauditi, essendo riusciti a far passare quel rude servizio come un originalissimo sistema promozionale. I complimenti si sprecarono. Ricordo che, essendo l’unico laureato del gruppo, quando si presentò la necessità di parlare, toccò al sottoscritto raccontare la nostra giovane storia, cosa che feci sorprendendo l’auditorio, poiché, partendo dal presupposto che vi fossero le condotte mediche e quelle veterinarie, proposi che si incominciasse a parlare anche di condotte agrarie, di filiera, di produzione territoriale, protetta e garantita, di salubrità dei cibi e di salvaguardia della terra. Discorsi che, solo dopo vent’anni, altri incominciarono a fare e di cui solo oggi i consumatori incominciano a percepire l’importanza. Più parlo è più mi rendo conto di quante cose abbia da dire, che vanno a segnare i numerosi anni trascorsi fin qui, durante i quali ho visto grandi cambiamenti, da quelli che hanno subìto certi paesaggi a me cari, a quelli che hanno interessato la quotidianità della mia vita; cambiamenti che mi sono sempre sentito pronto ad affrontare, perché, allora come oggi, mi affidavo alla forza delle mie radici, a quel sentirmi romagnolo, parte integrante di questa terra di Romagna e delle sue tradizioni, dalle quali traevo, e traggo ancora oggi, la forza di amare la vita.

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ROSSO DEL CAMERONE SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Serra, nel comune di Castel Bolognese, le cui viti hanno un’età media di 15 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni di medio impasto calcareoargilloso ad un’altitudine compresa tra i 50 e i 100 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-est. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 3.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini di acciaio inox, si protrae per circa 12 giorni ad una temperatura compresa tra i 18 e i 24°C; contemporaneamente si effettua anche la macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 5 giorni, durante i quali vengono eseguiti frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in vasche di cemento vetrificate, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 20 giorni, al termine dei quali il 50% è posto in barriques di 1°, 2° e 3° passaggio dove resta per 6 mesi. Terminata la maturazione, si effettua l’assemblaggio delle partite e, dopo 3 mesi di decantazione in vasche, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 6.000 bottiglie circa Note organolettiche Di colore rosso rubino con riflessi purpurei, il vino si presenta al naso con ampie note complesse che spaziano da quelle fruttate in confettura di more e mirtilli a quelle di amarena, per chiudere con percezioni floreali di fiori appassiti e speziate di cannella e pepe bianco. L’impatto gustativo è piacevole e offre una fibra tannica morbida ed elegante, sorretta da buona acidità e sapidità che conferiscono lunghezza e persistenza. Prima annata 1967 Le migliori annate 1967, 1973, 1983, 1993, 1997, 2000, 2005, 2007 Note Il vino, che prende il nome della casa stessa, vicina al fiume Senio, dove si pescavano i gamberoni (Camerone), raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Marabini dal 1963, l’azienda agricola si estende su una superficie di 25 Ha, di cui 18 vitati e il resto occupato da frutteti. Svolge funzione di agronomo e di enologo Giuseppe Marabini, l’attuale proprietario.

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Io la madia e la botte amo; e il loquace tino ben canta, e bene odora il forno: io ridirvi non so quanto mi piace il vin d'un anno con il pan d'un giorno! Giovanni Pascoli, Grano e Vino in Primi Poemetti Mi arrampico lungo una strada tortuosa che da piazza Garibaldi, a Predappio, mi conduce a Predappio Alta, verso la fattoria Casetto dei Mandorli, dove ho appuntamento con il vignaiolo Giuseppe Nicolucci. Percorrendo la strada provinciale che da Forlì conduce a Predappio, mi trovo a dover rallentare entrando in paese; ho così modo di rimanere sorpreso dal numero di persone che, scese da due autobus parcheggiati di fianco all’arteria, si accalcano davanti alle vetrine di un paio di negozi dove sono in mostra gadget del Ventennio di malinconica e vecchia memoria. Rallento ancora di più per capire, spalancando gli occhi e notando l’intenso viavai di gente che entra ed esce da quei bazar portandosi via bandiere, tazze, magliette di ogni genere o bottiglie di vino con, stampata in etichetta, l’immagine del Duce. Quella confusione nostalgica mi riporta alla mente vecchie reminescenze storiche con le quali arrivo a ricordare improvvisamente, che, proprio a Predappio, è nato Mussolini. Nonostante siano lontani i tempi in cui arringava, con i suoi discorsi, il popolo italiano, mi accorgo che qui esiste un piccolo, ma vero e proprio pellegrinaggio, a dimostrazione di

Fattoria Casetto dei Mandorli

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come non sia venuto meno il ricordo di quell’uomo, tanto da richiamare non frotte di turisti vestiti con sgargianti camicie hawaiane, ma altri tipi di viaggiatori, alcuni dei quali non hanno remore ad indossare camicie nere. Mentre salgo lungo quella tortuosa strada, ripenso a ciò che ho appena visto e a quanto questa terra intrigante riesca a far coesistere la cooperazione socialista al culto della fiamma tricolore. La mia dissertazione mi conferma ancora una volta come in Romagna sia impensabile discriminare ciò che invece è possibile coniugare. Un ragionamento semplice per una terra al contempo godereccia e paradossale, sempre divisa fra grande laicità e una schiera infinita di baciapile. Una terra dove convivono la genialità imprenditoriale e il conformismo arcaico dei contadini, la loro innata diffidenza con l’ambizione che qui, ognuno, ha di misurarsi con il mondo. Quante volte, in queste settimane, ho sentito pronunciare quel “a te degh me” (te lo dico io) detto per confermarmi non un pensiero qualsiasi, o generale, ma il proprio, quello dell’interlocutore che avevo davanti, il quale, ogni volta, ponendosi al di sopra delle parti, cercava di darmi la sua versione su questa Romagna e sui romagnoli che, per la maggior parte, devono avere ”l’osteria, la piadina, il casino e il pied à terre, non troppo distanti dal posto di lavoro”. Una terra che, per secoli, si è specchiata più nella campagna che nel mare, forgiando così in quell’immagine il carattere stesso della sua gente e uno stile proprio di vita, che ha preso spunto dalle radici agricole e dalla cultura popolare, alimentandosi di tradizioni antiche, nate nelle campagne, dove, fino a non molto tempo fa, ogni occasione era buona per far baldoria, si trattasse di festeggiare la vendemmia o la fine della mietitura del grano, il santo del paese o il bandito sfuggito alla legge.


Giuseppe Nicolucci

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Trovandomi al cospetto di un Sangiovese che riporta in etichetta il nome di “Vigna del Generale”, mi sento di esporre al vignaiolo Giuseppe le mie riflessioni su quanto ho visto arrivando fin qui e sulle idee che mi hanno accompagnato lungo tutta la strada, fino alla soglia della sua cantina. Nelle sue parole trovo conferma delle mie meditazioni e anche del fatto che, un tempo, c’erano momenti di grande aggregazione sociale e divertimento, nelle campagne circostanti questa terra, che i romani chiamarono Castrum Petrae Appi (Borgo petroso di Caio Appio - Console romano - da cui Predappio) una terra dove Giuseppe è cresciuto seguendo quella tradizione di famiglia che, dal 1885, vede i Nicolucci produrre quello stesso vino che, spesso, accompagnava i baccanali campestri che si concludevano con musica e balli. Ecco che, a sentire le sue parole, mi appare chiaro il senso della cultura della musica che caratterizza questa terra: la cultura del liscio, degli orchestrali, delle balere che appartengono a quella tradizione musicale consolidatasi in maniera così forte da riuscire a portare la musica della Romagna un po’ ovunque e far diventare la canzone “Romagna mia” la terza canzone italiana più conosciuta al mondo dopo “Volare” e “O sole mio”. Se avessi voluto capirne di più, avrei dovuto andare a fondo nella ricerca delle origini di quei balli, di quei suoni e di quei canti che un tempo si facevano nelle aie dei poderi e in quelle feste rurali che, forse, ora non ci sono più. Erano feste - mi racconta Giuseppe - che duravano anche due giorni e nascevano per il semplice piacere di divertirsi, come accadeva proprio a Predappio, soprattutto dopo la vendita dell’uva. Vi partecipavano un’infinità di compratori, osti e vinattieri, provenienti da ogni parte della Romagna. Le fotografie alle pareti della cantina non mentono e scopro così che anche Giuseppe è cresciuto fra vino e musica, lavorando tra i filari di quelle vigne che, un tempo, coprivano ovunque le colline intorno a Predappio e continuando a fare, da grande, quello che faceva da piccolo, quando, per gioco, pigiava l’uva nella mustarola, in cantina. Da ciò che mi racconta è stato un coinvolgimento forte e indissolubile quello che lo ha legato alle sue due più grandi passioni; la prima, la musica, con il passare degli anni e per “raggiunti limiti d’età”, è venuta un po’ meno rispetto all’altra, il vino, che, invece, si è arricchita di competenza ed esperienza, anche grazie a suo figlio Alessandro che, da anni, lo affianca, avendo scelto di intraprendere gli studi di Enologia a Conegliano Veneto e dimostrando fin da subito la volontà di proseguire la tradizione familiare. Lo lascio parlare, mentre, terminata la degustazione, sorseggio quel suo Sangiovese del “Generale”, allontanandomi per un attimo da quel vignaiolo per immergermi nell’atmosfera di quelle vendemmie di un tempo, nel mercato dell’uva di Predappio di qualche decennio addietro, rinfrescato da un venticello che, ora come allora, spira tra i filari, immaginando che gonfi i capelli di qualche bella romagnola con cui avrei condiviso volentieri un bicchiere di vino e un ballo, cementando, accompagnato dalla musica di un’orchestrina, uno stretto legame, fra me, lei e questa terra.

Fattoria Casetto dei Mandorli

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SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC PREDAPPIO DI PREDDAPPIO VIGNA DEL GENERALE RISERVA Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto “Vigna del Generale”, di proprietà dell’azienda, situato in località Predappio Alta, nel comune di Predappio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 30 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni di natura argillosa e calcarea, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Cordone speronato Densità di impianto circa 4.500-5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla fine di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati (in annate favorevoli, quando le uve sono perfettamente sane, per rispettare la tipicità d’origine non vengono usati lieviti selezionati, per cui i mosti fermentano con i propri lieviti indigeni), è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta dopo la vendemmia in vasche, si protrae per circa 20 giorni ad una temperatura compresa tra i 24 e i 26°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce e durante questo periodo vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in botti di rovere, dove svolge la fermentazione malolattica ad una temperatura controllata di 20°C, al termine della quale viene travasato in altre botti in cui rimane per 20 mesi; durante questo

periodo si effettuano travasi ogni 3 mesi. In seguito viene imbottigliato per un affinamento di 3-4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore rosso rubino dall’unghia sfumata, il vino si propone al naso con sensazioni floreali di viola mammola e note fruttate di frutti neri selvatici del sottobosco, come more e mirtilli, e percezioni di cera e rosa rossa che si aprono a più complesse note speziate di caffè e di mandorle. In bocca ha un’entratura decisa, tipica, di notevole rilevanza varietale, con tannini importanti, ma ben amalgamati ad una struttura solida, lunga e persistente. Prima annata 1980 Le migliori annate 1993, 1995, 2004 Note Il vino, che prende il nome dalla vigna di provenienza e dal paese stesso, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda Di proprietà di Giuseppe e Alessandro Nicolucci, l’azienda agricola si estende su una superficie di 12 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di enologo lo stesso Alessandro Nicolucci.

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Romagna solatìa, dolce paese cui regnarono Guidi e Malatesta, cui tenne pure il Passator cortese, re della strada, re della foresta. Giovanni Pascoli, da Romagna (Myricae)

Se dovessimo raccontarti i motivi per i quali oggi siamo qui, non sapremmo da dove iniziare, poiché non ve ne è uno specifico, ma molti, così tanti che, alla fine, si confondono, rendendoci difficile trovarne uno che, più di altri, valga la pena di menzionare o dal quale partire per iniziare a narrarti il motivo per cui siamo in terra di Romagna a fare i vignaioli. Ti possiamo assicurare, però, di essere entrambi convinti di aver fatto la cosa giusta, la scelta più naturale, non pensando mai se fosse o non fosse quella più sicura o più facile. Non sappiamo se entrambi abbiamo voluto seguire l’istinto, il cuore o quello che, forse, aveva tracciato per noi il destino o ciò che era più vicino alle nostre aspettative e ai nostri desideri. Non sappiamo proprio dire cosa ci abbia condotto a fare questo mestiere; come non sappiamo se, senza avere dentro certi ricordi o nella mente gli odori di quando giocavamo, ancora fanciulli, in cantina o l’aver ripetuto decine di volte, insieme a nostro padre, i gesti rituali che accompagnano ogni vendemmia, noi, oggi, avremmo avuto la certezza di voler essere entrambi vignaioli. Siamo qui e

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questo, ti possiamo assicurare, ci appaga, anche perché non c’è niente di strano o complicato dietro la nostra storia: è semplice ed è scritta da chi, seguendo le orme e gli insegnamenti del padre, ha saputo mettersi in gioco e, con passione e dedizione, costruire un futuro migliore non solo per sé, ma per quest’azienda, ricercando il meglio, pur senza mai farsi prendere da troppo entusiasmo e rimanendo sempre con i piedi ben piantati per terra. Se rimani a pranzo capirai meglio di cosa stiamo parlando e ti accorgerai di come noi due, i nostri genitori e anche nostra sorella, che ancora non hai conosciuto, siamo un tutt’uno e parte integrante del passato, del presente e del futuro di quest’azienda. Siamo cresciuti uniti, appropriandoci del lavoro con quello spirito di grande apertura che ha sempre caratterizzato nostro padre Antonio, il quale si è sempre impegnato in quest’azienda, essendo convinto assertore di una sana e genuina filosofia del lavoro. La sua è stata una convinzione radicata che lo indusse, all’inizio degli anni Cinquanta, a lasciare il Molise per recarsi in Venezuela dove, a Caracas, è nato Luciano, e non tanto per soddisfare un indomito spirito d’avventura o la propria ambizione, ma come consapevole certezza che nella sua terra natìa, in quegli anni, non fosse sufficiente la volontà per lavorare. E non sappiamo se fu il solito motivo o, invece, la sua personale necessità di riappropriarsi di un più stretto contatto epidermico con la terra, a spingerlo nuovamente a ritornare, all’inizio degli anni Sessanta, in Italia e a fermarsi su queste colline alle spalle di Imola - dove sono nato io, Gianni - terre dalle quali, ci racconta, erano in molti a fuggire per andarsene a lavorare in fabbrica. Sta di fatto che entrambi, oggi, siamo qui a fare i vignaioli, convinti che il volerci bene, l’aver unito le nostre forze e l’aver cementato, con il lavoro, il nostro legame familiare ci abbia portato a quei risultati che sono sotto i tuoi occhi. Di questo siamo orgogliosi, anche se il nostro non è un orgoglio rumoroso o sbattuto in faccia a quanti si affacciano sulla porta della nostra azienda, ma silenzioso, che ci serve per andare avanti e migliorarci sempre e che contribuisce

ad arricchire la nostra storia; essa non è molto diversa da quella di tanti altri nuclei familiari o fraterni che incontrerai: come noi, sono rimasti in seno alla famiglia per volontà e per desiderio di lavorare la vigna e produrre dei vini che sapessero comunicare questo territorio. Sicuramente non ti mancherà l’occasione di incontrarne molti altri, in questo tuo viaggio che ti conduce a visitare le cantine romagnole. Guardandoli ti accorgerai che quasi tutti sono dei giovani, ricchi di una gran volontà, di intraprendenza e tenacia; si sono posti alla guida delle loro aziende vitivinicole e sono diventati, di fatto, i rappresentanti nuovi di quella prima vera generazione di viticoltori che fa pulsare questa Romagna e che non per hobby, ma come principale attività aziendale, oggi si prodigano per comunicare al mondo il valore del vino che producono. Tu sei appena arrivato, ma presto scoprirai quanto sia frammentato e parcellizzato il vigneto romagnolo e quanto, in queste terre, vi sia una cultura enologica estremamente giovane, nata da una decina di anni e venutasi a costituire in modo spontaneo e autonomo rispetto al grande movimento cooperativistico che, per decenni, ha caratterizzato la viticoltura della pianura. Se stai attento, percepirai che qui c’è qualcosa di nuovo, di innovativo, di evolutivo e una grande potenzialità, la stessa che sa offrire questa viticoltura pre-appenninica. Ti accorgerai che, anche in un momento di crisi come questo, c’è un buon ottimismo e, in molti, noi compresi,


Gianni, Luciano Zeoli

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siamo proiettati verso il futuro, verso una più collettiva identità di territorio e di produzione, nella ricerca di una sempre maggiore qualità dei vini commercializzati. Sono storie giovani, di gente comune, storie di vita che, nel nostro caso, iniziano nel 1964, l’anno in cui nostro padre produsse del vino tramite una piccola vigna che aveva piantato qualche anno prima a margine delle colture fruttifere di fragole, albicocche e pesche, che caratterizzavano il paesaggio del nostro podere: l’Olmo. Vigne che andarono sempre più aumentando e che divennero, presto, i luoghi delle nostre scorribande, a cui si aggiunsero poi avventurose esplorazioni in cantina, ed è questa, forse, la nostra vera scuola, più autentica di quella didattica, in aula, dalla quale entrambi scappavamo, sbagliando, attratti forse dalle mille cose che avevamo da imparare da nostro nonno Francesco e da quel fantastico senso di libertà che vivevamo tra i filari. Era impossibile, per nostro padre, non accorgersi della schietta e sincera passione che nutrivamo e con la quale crescevamo per questo lavoro e fu certamente questo a spingerlo ad acquistare, nel 1989, i 24 ettari di un altro podere, quello del Monticino Rosso, dove ci siamo incontrati e dove ha sede la nostra nuova cantina. Eravamo ormai già abbastanza grandi e liberi di dedicarci completamente alle vigne e alla cantina, riuscendo a tradurre il nostro entusiasmo in concrete innovazioni che applicammo in azienda senza trovare mai un ostacolo o un impedimento, anche minimo, da parte di nostro padre, sebbene, per lui, certe nostre idee, come quelle di fare l’inerbimento lungo i filari, per ovviare alla troppa generosità dei nostri terreni, o di vendemmiare le uve di Albana tardivamente, quando le stesse sono attaccate dalle muffe nobili, dovessero sembrargli delle eresie. Ci conquistammo sul campo la sua fiducia, anche se, per arrivare a questi risultati, sono occorsi lunghi anni di sacrifici e sperimentazioni, nell’obiettivo di valorizzare le particolarità territoriali delle nostre uve e senza mai allontanarsi dal solco di quella tradizione che, una volta recuperata, ci ha spalancato prospettive fertili e inedite di lavoro per il futuro.

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CODRONCHIO ALBANA DI ROMAGNA DOCG Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Albana provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Montecatone, nel comune di Imola, le cui viti hanno un’età di 20 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni franco-argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 150 metri s.l.m., con un’esposizione a ovest. Uve impiegate Albana 100% Sistema di allevamento Pergola romagnola Densità di impianto 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, quando gli acini incominciano ad essere attaccati da muffe di Botrytis cinerea, si procede alla pressatura soffice delle uve e il mosto ottenuto, dopo 24 ore di decantazione statica effettuata alla temperatura controllata di 10°C, è messo in acciaio e, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura controllata di 18°C per circa 20-25 giorni; la parte più nobile delle fecce fini svolge la fermentazione in barriques, dove vengono effettuati periodici bâtonnages e qui rimangono 6-8 mesi prima di essere aggiunte alla base del vino che nel frattempo è stato mantenuto in tini di acciaio. Dopo l’assemblaggio e una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore giallo paglierino con brillanti riflessi dorati, il vino si presenta al naso con spiccati profumi di frutta a pasta gialla matura e percezioni di fiori di camomilla e di campo. In bocca è suadente, piacevole, complesso, di spessore ed eleganza, con note fruttate che lo esaltano e forniscono grande carattere e struttura al vino, il quale, con una piacevole acidità e anche con una certa tannicità, rende la degustazione assai interessante, lunga e persistente. Prima annata 2001 Le migliori annate 2001, 2004, 2006, 2007, 2008 Note Il vino, che prende il nome dall’antica famiglia nobile dei Conti Codronchi, proprietaria dei terreni dove si trovano le vigne dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 2-3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Zeoli dal 1962, l’azienda agricola si estende su una superficie di 40 Ha, di cui 20 vitati e il resto occupato da frutteti. Collabora in azienda con funzioni di agronomo e di enologo Giancarlo Soverchia.

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A Gramadora Bela burdela fresca e campagnola Da i' ' o cc e daj cavel com e carbòn, da la boca piè rossa dna zarzola te tsì la mì passiòn.(...) Batibat e strech' m un occ Strech' m un occ e batibat, al fasegna ste barat? t’ a m dè un sciaf c’ h at dag un bes. La Gramolatrice (Bella ragazzina giovane e campagnola dai capelli e dagli occhi come il carbone dalla bocca più rossa di una ciliegia tu sei la mia passione(...) Batti la canapa e fammi l' occhiolino Fammi l ' occhiolino e batti la canapa Facciamo questo scambio? Dammi uno schiaffo e io ti do un bacio.) Cesare Martuzzi, Aldo Spallicci, 1928

Fattoria Paradiso

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L’incontro con Graziella Pezzi suscitò nel mio animo la stessa emozione che mi produce, abitualmente, leggere l’introduzione di un bel libro. Sentimento che scaturì spontaneo fin dalla visione della “copertina” rappresentata dal cartello indicante l’ingresso della Fattoria Paradiso. Fattoria Paradiso. Quali e quante immagini scaturiscono da un nome che indica perfettamente l’idea di quell’attrazione fatale che suscita la lettura di un bel titolo, che ti fa ritrovare poi, irrefrenabilmente, costretto ad acquistare quel volume in libreria per appagare il desiderio. Una sensazione che andò via via ampliandosi ad ogni parola che ascoltavo, fino al punto di unirle una per una e con esse delineare un vero e proprio racconto, ricco di trame “felliniane”, da scrivere immediatamente. Una fantastica esposizione di cronaca con cui Graziella riuscì a comporre un arabescato drappo narrativo, intessuto coi tanti fili colorati con cui descriveva la fattoria e l’opera di suo padre Mario, le passioni che l’hanno sempre animata e i torti subiti, fino a dilungarsi su quelli più sgargianti con cui ha ricamato le soddisfazioni che, più di ogni altra cosa, l’hanno incatenata a questo “Paradiso”, dandogli la forza di continuare, conferendo solidità emotiva al suo vissuto, così da aver voglia di continuare a fare altre cose, trovando anche il tempo di narrarle a chi, come me, ha il tempo di ascoltarla. Tinte forti e vivaci, quelle del suo romanzo, ascoltando il quale mi accorsi che erano coinvolti non solo vecchi e nuovi collaboratori come, ad esempio, il fattore, il cantiniere, l’enologo o il “mitico” cameriere della trattoria aziendale, ma anche altri personaggi che, pur non essendo presenti, si trovano ad

aleggiare nell’aria come fantasmi, apparendo e scomparendo dal racconto in un susseguirsi di vicissitudini in cui il protagonista principe è sempre, solo e soltanto il vino. Ancora una volta ho potuto constatare come il vino abbia il potere e la forza di imprigionare le anime delle persone ad un luogo, disegnando le loro vite che, per la maggior parte, si snodano in una lunga e dispendiosa sequenza di azioni e ricerche, finalizzate e utili a fornire la notorietà a quel loro splendido aguzzino che è il vino stesso. Fu un incontro splendido quello fra me e Graziella, uno dei pochi in cui mi sentii alleato di quei registi, scrittori, poeti che hanno raccontato questa terra, come fece l’amico di famiglia Aldo Spallicci, il quale spese la propria vita negli studi folcloristici, dedicandosi al racconto, in versi dialettali, delle tradizioni popolari romagnole. Un grande personaggio, un mazziniano nel profondo dell’animo, la cui legge di vita fu “passione e azione”. Così, mentre lei mi parla di suo padre, di suo figlio, del marito e dei suoi grandi vini, la immagino, come avrebbe, forse, fatto il poeta, nelle vesti della bella Gramadora che, scacciate le tristezze regalatele dall’inverno della vita, si prepara allegramente alla prossima festa e non le importa in che modo essa vi parteciperà. L’importante è che sia una bella festa, una di quelle che sicuramente ci saranno, come se ne svolgono ad ogni occasione nei paesi e nelle campagne romagnole. “Baccanali” durante i quali le donne, roteando le capricciose gonne nell’aria, danzano intorno agli uomini con giochi, sguardi e ammiccamenti. Pensieri di un film in bianco e nero che scorreva nella mia mente mentre sentivo Graziella parlarmi, continuando a pensare a quella Gramadora, al suono delle fisarmoniche e al frastuono delle feste d’altri tempi, anima di


Gabriella Pezzi

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quella Romagna che, forse, non c’è più o che, forse, si è persa e che, personalmente, ho trovato sempre più simile all’Emilia, scoprendola impegnata a rincorrere solo il business. Tempi lontani che non sarebbero più ritornati, ma che sentivo ancora vivi, invece, nell’animo di Graziella, come lo furono sicuramente quelli in cui, stando accanto al padre Mario, lei vide la Fattoria Paradiso divenire, per lunghi decenni, punto di riferimento importante di tutta l’enologia romagnola e crocevia di persone e di un’intellighenzja rara - fatto che avvenne, grazie e soprattutto, all’intùito e alla lungimiranza di quel padre che, prima di ogni altro, capì le grandi potenzialità del territorio di Bertinoro, dove era possibile fare una grande viticoltura e ottenere splendidi vini. Pur essendo scomparso, percepii che Mario era ancora lì, accanto a lei, seguendo ciò che Graziella stava dicendo, consigliandola di prendermi per mano e condurmi in quella cantina storica che lui aveva pazientemente costruito, avendo cura che la sua memoria fosse ben rappresentata in quel luogo. Un incontro bello, soprattutto quando, in un momento, suscitò un moto nostalgico d’emozioni dovuto al fatto che, Graziella, raccontandosi, si commosse al pensiero di quel genitore e di quella mano che, oggi, le manca molto. Mentre mi accingevo a degustare i vini, ho fatto poi una carrellata delle innumerevoli fotografie, esposte un po’ ovunque, e mi sono reso conto che Mario doveva essere un grande personaggio, uno di quelli che hanno fatto la storia, non solo della sua azienda, ma anche dell’enologia romagnola e, nelle mie orecchie, ritornavano le musiche di vecchie canzoni, nonostante in cantina vi fosse un via vai di enoturisti che sconquassavano l’abituale silenzio, acclamando il piacere di assaggiare i vini qui prodotti. L’osservavo per un attimo per riconcentrarmi sulla mia privata degustazione, cercando di non perdere quelle lievi note che mi erano venute in mente e trattenerle il più possibile per non dimenticarle. Un omaggio a donna Graziella.

Fattoria Paradiso

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BARBAROSSA IL DOSSO IGT FORLÌ ROSSO Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Barbarossa provenienti dal vigneto Vigna del Dosso, di proprietà dell’azienda, situato in località Capocolle, nel comune di Bertinoro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 30 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni calcareotufacei ricchi di roccia gialla, ad un’altitudine di 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Barbarossa 100% Sistema di allevamento Spalliera con cordone speronato Densità di impianto 5.000-9.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto è posto in tank di acciaio; dopo esser stato inoculato con lieviti autoctoni, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura controllata di 26°C per circa 10 giorni; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura per altri 3-4 giorni, periodo durante il quale si effettuano rimontaggi e follature periodiche, prima di procedere alla svinatura e ad una breve decantazione del vino; subito dopo è messo in barriques di rovere francese, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per almeno 24 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite, poi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 12 mesi prima della sua commercializzazione. Quantità prodotta 30.000 bottiglie l’anno

Note organolettiche Di colore rosso rubino intenso quasi impenetrabile, si presenta all’esame olfattivo in modo complesso, fornendo percezioni opulente, piene e armoniche di frutti maturi a bacca nera (come ciliegie, prugne, more e mirtilli) e speziate di tabacco, pepe bianco e paprica dolce nonché note di erbe officinali e di eucalipto, macchia mediterranea, fra le quali si riconoscono divagazioni di finocchietto selvatico e rosmarino. In bocca risulta avvolgente, equilibrato, armonico, con una bella vena sapida e mineralità; i tannini sono ben evoluti ed elegantissimi e creano un mix di altissimo livello qualitativo, conferendo lunghezza e persistenza al vino che chiude con note fruttate e balsamiche. Prima annata 1962 Le migliori annate 1968, 1973, 1975, 1986, 1990, 1996, 1999, 2001, 2004, 2006, 2007 Note Il vino, che prende il nome dal vitigno autoctono scoperto da Mario Pezzi nel 1955 ed “esclusivo” dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 30 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà della famiglia Pezzi dal 1853 e oggi condotta da Graziella Pezzi “donna del vino” che ha sempre collaborato con il padre Mario, si estende su una superficie complessiva di 70 Ha, di cui 50 vitati, 5 occupati da oliveto e il resto dalle strutture aziendali e da bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Franco Calini e l’enologo Maurizio Cavallaro.

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Tornate all'antico e sarà un progresso. Giuseppe Verdi, in un lettera da Genova (5 gennaio 1871) a Francesco Florimo

Scoprirsi ancora ottimista, dopo quasi trent’anni passati da vignaiola in terra di Romagna, è un bel risultato, all’ottenimento del quale hanno contribuito un’infinità di fattori e di coincidenze che hanno disegnato non solo un percorso di vita, ma anche uno professionale e un’altro imprenditoriale sicuramente più

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complessi e difficili di quelli che avrei incontrato se avessi svolto quest’attività in un’altra regione italiana e che sono riuscita a superare anche grazie all’aiuto di mio fratello Vincenzo. Un percorso soddisfacente che non mi porta ad avere rimpianti o a lamentarmi di come siano andate le cose, ma, anzi, ad essere fiera dei risultati fin qui ottenuti, impensabili quando, nel 1985, mi fu concesso di inserirmi, anche grazie alla mediazione di mio padre Franco, in quest’azienda di famiglia, dove mi ritrovai ben presto a dover porre in equilibrio la passione e l’autorità con la quale mio nonno Vincenzo conduceva la Zerbina - da lui acquistata ormai alla soglia dei settant’anni - e il mio entusiasmo nel voler mettere in pratica ciò che avevo appreso all’Università di Agraria di Milano e al Master di Enologia frequentato a Bordeaux subito dopo la laurea. La Zerbina mi sembrò il banco di prova ideale per l’applicazione di tutte quelle teorie, pur riconoscendo quanto la loro realizzazione richiedesse professionalità, competenza ed esperienza, che io, all’epoca, ancora non avevo. La Zerbina mi consentì, con il tempo, di acquisire queste prerogative, offrendomi l’occasione di crescere in fretta, allenandomi nella gestione di una serie di correlazioni, in azienda e sul territorio, non facili per una ragazza giovane quale ero io e fra le quali vi era anche quella che poneva in rapporto diretto il mio desiderio di voler accelerare i tempi della mia personale crescita professionale con l’incredibile tempra e ferrea tenacia possedute da quel fiero uomo che era mio nonno, il quale, passato indenne attraverso ben due guerre, all’inizio non vedeva di buon occhio chi andava a scuotere la sua serenità acquisita su queste colline e che tanto raramente aveva assaporato nel corso della sua lunga vita. Ma era un uomo fantastico e presto mi concesse il suo placido consenso per operare come meglio credevo in azienda, avviando, di fatto, un processo evolutivo che coinvolse l’intera filiera produttiva, con idee innovative per quei tempi, quando erano ancora poche le aziende italiane che si adoperavano in tal senso. Ricordo che, dopo ogni azione, ero ansiosa di misurarne i risultati, cercando di confrontarmi con altri viticoltori della zona, senza però riuscirci. Un percorso di crescita che si è trasformato, piano piano, in un vero e proprio viaggio, affrontato con passione e dedizione assolute, vissuto per molto tempo in grande solitudine in questa Romagna vitivinicola, splendida ma dormiente che, per molti anni, è sembrata sorda, cieca e muta, oltre che incapace di comunicare


Maria Cristina Geminiani

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e far conoscere la grande tradizione viticola che l’ha sempre caratterizzata e alla quale anch’io ho attinto, prendendo spunto per riattivare quelle colture viticole di allevamento ad alberello che, un tempo, caratterizzavano i vigneti di questa zona. Un territorio che, per anni, si è dimostrato indifferente nei confronti di quanti, come me, si prodigavano nel promuoverlo, trovando, in quest’opera, ogni tipo di difficoltà, ostacoli e pregiudizi che però, almeno nel mio caso, invece di abbattermi e demoralizzarmi, mi hanno dato forza, energia e ancor più voglia di fare, spingendomi fino al punto di cementare un legame indissolubile con questo terroir al quale, pur non essendo romagnola, mi sento oggi fortemente legata. Ci sono voluti anni prima di arrivare a una seria condivisione con altri produttori - con i quali abbiamo costituito un piccolo Consorzio - su quali fossero le strategie,

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le prerogative e le azioni da attivare per promuovere quest’area e il fatto di non trovarmi più sola mi dà ancora più entusiasmo e mi incoraggia a guardare avanti con ottimismo, avendo ancora la voglia di spingermi oltre e controllare cosa vi sia dietro l’angolo e quali siano gli scenari futuri di questa Romagna vitivinicola. Così, dopo trent’anni, continuo a mettermi in gioco e lasciarmi sedurre dalla vita senza permettere ad altri di viverla al posto mio. Non so se in questo mio perenne ottimismo vi sia un segreto, ma, se c’è, è quello di far scorrere i sogni per cercare di realizzarli. Una scelta terapeutica che fa bene all’animo e al cuore ed è semplice seguirla: basta non avere grandi sogni difficili da realizzare, ma tanti, piccoli e tutti possibili. Ve n’è uno, in particolare, che spero di poter realizzare ed è quello che mi vede impegnata nel costruire, un giorno, un’anima a questo territorio, tanto grande e bella da essere capace di dargli impulso, vitalità, riconoscibilità, personalità e un’identità vitivinicola indiscussa e individuata da tutti. Un sogno che mi sforzo di creare, imbottigliandolo insieme al mio vino e portando questo dolce pensiero in giro per il mondo, proprio come se fosse l’etichetta delle mie bottiglie o il biglietto da visita di questa Romagna che, come è facile percepire, sento fortemente mia.


SCACCO MATTO ALBANA DI ROMAGNA DOCG PASSITO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Albana provenienti dal vigneto Laghetto, di proprietà dell’azienda, situato in località Marzeno, nel comune di Faenza, le cui viti hanno un’età compresa tra i 22 e i 40 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni collinari di origine quaternaria, con tessitura di medio impasto, ricchi di ossido di ferro che dona alle argille la tipica colorazione rossastra, ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 250 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate Albana di Romagna 100%

Note organolettiche Di color giallo oro vivo e brillante, il vino offre al naso note affascinanti, dolci, di grande carattere, come tutti i vini che caratterizzano l’azienda; in questo caso si arricchiscono di un’eleganza particolare, con foglie di tè, frutta sciroppata e secca (fichi secchi e albicocche) in un susseguirsi infinito di percezioni olfattive e di un equilibrio di altissimo livello, dove le muffe nobili assistono ed arricchiscono la vena acida dell’Albana a comporre insieme un supporto gustativo in cui lo zucchero residuo (pur “importante”) non disturba e risulta piacevolmente sostenibile da una beva polposa, affascinante, suadente e bilanciata.

Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot e pergoletta romagnola “rivisitata”

Prima annata 1987

Densità di impianto 1.800-3.300 ceppi per Ha

Le migliori annate 1992, 1998, 2001, 2004, 2006

Tecniche di produzione In un’annata regolare la vendemmia è svolta di solito a partire dalla seconda decade di ottobre e può protrarsi fino a novembre inoltrato, in relazione all’andamento climatico tardo estivoautunnale che influenza l’insorgenza della muffa nobile. La raccolta viene effettuata in tanti passaggi successivi, selezionando nel vigneto solamente quella parte di grappolo o anche acini singoli, colpiti e disidratati dalla Botrytis cinerea. Ogni volta che si effettua una raccolta, le uve vengono pressate, il mosto chiarificato e fermentato in piccoli contenitori di acciaio da 100 litri per circa 15-20 gg. L’affinamento del vino prosegue in vasca per un periodo di circa 12 mesi.

Note Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 30 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Geminiani dal 1967, l’azienda agricola si estende su una superficie di 40 Ha, di cui 32 vitati, 1 occupato da oliveto e i restanti da seminativi e bosco. Collabora in azienda come consulente enologico Franco Calini.

Quantità prodotta circa 6.000 bottiglie l’anno (da 375 ml)

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Il vero coraggio è quando non vedi nessuno vicino a te. Allora devi partire da solo. E poi magari ti volti indietro e c’ è qualcuno, in mezzo agli alberi, sulla cima di una montagna, al di là del fiume. E capisci che sta camminando al tuo fianco. Stefano Benni, Spiriti

Dei ciliegi imponenti, alti e grossi come non ne avevo mai incontrati prima, mi fanno compagnia lungo la strada di fondovalle che mi conduce da Vignola al Castello di Serravalle, sfiorando sia il Parco dell’Abbazia di Monteveglio, sia quello dei Sassi di Roccamalatina, situati entrambi su questi meravigliosi Colli Bolognesi. Pur non essendo numerosi come un tempo e pur non rappresentando più la fonte di reddito principale per questo territorio, sono ancora dei “patriarchi” che regalano uno spettacolo unico, mettendomi davanti agli occhi il bianco dei loro fiori in contrasto con il verde acceso della lussureggiante campagna circostante. Oggi sembra una giornata fortunata, poiché, oltre lo spettacolo offertomi dai ciliegi, sembra volermi fare compagnia anche un leggero sole che illumina questa stanca primavera che tarda ad esplodere. Così, godo di questo viaggio che mi conduce a scovare le cantine emiliane anche in

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questa zona, conosciuta non per il vino, ma per le fantastiche ciliegie di Vignola: belle, grosse, buone, di un color rubino intenso, corpose, dolci e goduriose, sensuali come sanno esserlo i frutti che, a due a due, sono legati in coppie. E qui mi fermo, perché so che potrei dilungarmi all’infinito nel descrivere questi frutti, avendo la consapevole certezza di non saper resistere davanti a queste bacche, per le quali potrei tranquillamente spingermi fino al punto di fare un’indigestione. Meno male che da queste parti non è ancora tempo di ciliegie e posso, quindi, dedicarmi ad altro, ricercando nella mia mente quelle canzoni e quegli stornelli i cui versi, in qualche modo, coinvolgono questo frutto. Certo non pensavo, affrontando questo viaggio, di trovarmi in terra di ciliegie, né di incontrare un uomo come Maurizio Vallona che, per soddisfare il suo piacere di fare vino, ha via via eliminato dai propri campi i sacri ciliegi, quelle stesse piante che il nonno Silverio, grande appassionato di ciliegie come me, aveva allevato, per decenni, con cura e maestria. Non so ancora se giudicarlo per ciò che ha fatto a quelle piante o per quello che è riuscito ad ottenere in viticoltura. Sta di fatto che, dopo aver appreso questa notizia, mi rendo conto che il mio rapporto con lui è improvvisamente cambiato e non riesco a guardarlo nello stesso modo rispetto a prima. Del resto, ognuno nella vita fa delle scelte e quelle di Maurizio lo hanno indotto verso il mondo del vino e non verso quei frutti succosi

e ricchi di consistente polpa che ha sempre regalato questa terra, dove la tradizione riteneva sacrilego tagliare un ciliegio e necessario, se ne moriva uno, piantarne subito un altro. Ma le cose si evolvono e quelli erano altri tempi, altri momenti storici, quando ai mercati ortofrutticoli di Bologna, i più importanti d’Italia, la ciliegia di Vignola era attesa come una primizia degna di essere pagata ai produttori per ciò che valeva, poiché non aveva, e non lo ha tutt’ora, niente a che vedere con quei frutti insapori che arrivano sulle nostre tavole un po’ da ogni parte del mondo. Quei cambiamenti, che Maurizio notò prima di altri, avevano innescato ormai dei meccanismi incontrovertibili, nei quali l’offerta agricola si dimostrava debole rispetto alle enormi speculazioni che si registravano sui mercati, percependo, che l’unica attività che potesse consentirgli di essere indipendente, chiudendo l’intera filiera produttiva, era quella offerta dalla viticoltura attraverso la produzione di vino. Parlando, Maurizio mi confessa di aver sempre amato l’ordinamento del vigneto e l’impegno quotidiano che esso richiede e questo lo aveva spinto ad orientarsi verso l’attività vitivinicola che, dopo aver frequentato la Facoltà di Agraria a Bologna, trovò sfogo in quei pochi filari di vite che il nonno utilizzava per produrre un po’ di vino per uso domestico, lo stesso vino che suo padre, commerciale di una famosa azienda di elettrodomestici, dopo averlo imbottigliato ed etichettato, utilizzava come gadget natalizio per i suoi clienti. Cocciutamente


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da quelle poche viti e da quell’idea, egli prese spunto per iniziare a far vino seriamente, per poi ritrovarsi, dopo aver affrontato lotte e scontri generazionali, a togliere via via i ciliegi e ad impiantare, sui campi di proprietà della famiglia, sempre più vigneti, proprio in una terra dove non c’era una vera e propria cultura viticola. Maurizio, di fatto, decidendo di fare il vignaiolo, non avviò solo una sfida con se stesso, ma anche con le reticenze e le perplessità di quel territorio dove la vite non era mai stata una protagonista. Ci sono voluti molti anni, quasi trenta, ma alla fine egli è riuscito a far porre l’attenzione sul suo lavoro e considerando i vini che sto degustando e i risultati ottenuti, con i quali si sono dissolte le diffidenze iniziali, credo che Maurizio si possa ritenere soddisfatto di essere diventato un portabandiera di questa viticoltura bolognese, trovando la sua collocazione in una terra dove si producono non solo delle bellissime ciliegie, ma anche dei grandi vini, come il suo Pignoletto, che personalmente trovo fantastico. Risultati che comunque sono il frutto di una grande determinazione, di un’accurata precisione e di una ferrea volontà alla quale ha attinto per non demordere mai in questi ultimi trent’anni nei quali si è costruito una cantina modello di grandi prospettive future. Sorseggio i suoi vini, parlando dei figli, dei suoi sogni, delle aspirazioni che nutre per i nuovi vini che presto andranno in commercio e sui quali punta molto. Poi, lo saluto, confidandogli scherzosamente le mie iniziali riserve, ma facendogli i miei sinceri complimenti per i vini che trovo caratterialmente ricchi, minerali, succosi come le ciliegie che qui si coltivano.

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AMMESTESSO COLLI BOLOGNESI PIGNOLETTO CLASSICO DOC Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dal vigneto del podere Lamezzi, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Monte San Pietro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 35 e i 40 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni marnosocalcarei ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 3.300 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve, alla quale seguono in successione la pressatura, una macerazione pellicolare per 6 ore, la pulizia statica del mosto in serbatoio di acciaio inox a 10°C; poi, una volta inoculato il lievito, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura controllata di 18°C per circa 20 giorni. Terminata questa fase, il vino è spostato in un serbatoio di cemento interrato nella cantina, dove rimane per i successivi 36 mesi, durante i quali, di solito, svolge naturalmente la fermentazione malolattica e vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede ad una leggera filtrazione, prima di imbottigliare il vino che subisce un ulteriore affinamento di almeno 12 mesi

prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 6.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore giallo paglierino con riflessi dorati, il vino si presenta all’esame olfattivo con note di marzapane, mandorla dolce e nocciola che si aprono a percezioni di amaretto e fiori bianchi di iris e sambuco per passare a nuances dolci di miele millefiori e ad un finale minerale e sapido. Mineralità che risulta evidente anche in bocca, dove il vino si apre ad una piacevolezza gustativa di grande equilibrio, sorretta da una bella acidità che lo rende lungo e persistente, riportando alla mente le note di mandorla percepite al naso. Prima annata 2006 Le migliori annate 2006 Note Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Vallona dal 1900, l’azienda agricola si estende su una superficie di 60 Ha, di cui 30 vitati e il resto occupato da bosco. Svolge funzione di enologo e di agronomo lo stesso Maurizio Vallona.

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È una mattinata grigia che dopo un po’ diventa anche piovosa, fredda e cupa. Guardo il cielo; non promette niente di buono, anzi ho l’impressione che sia sempre più vicino e che abbia voglia di appoggiarsi sulla mia testa. Lo guardo e lo riguardo, mentre, con aria di sfida, mi addentro nelle campagne alle spalle di Castel Bolognese, cercando di fargli comprendere che non sarà certo l’incessante pioggia che cade, a togliermi il sorriso. Ci vuole ben altro per fermarmi, abbattere il mio ottimismo o distogliermi dal desiderio, dalla curiosità e dall’impegno che ho di scoprire quale sia lo stato dell’arte delle aziende vitivinicole romagnole. Parlo fra me e me, ma intanto, qualcuno lassù non se ne importa dei miei obiettivi o della mia visione positiva della vita e continua ad accanirsi non facendo cessare, neanche per un attimo, la pioggia che, copiosa, continua a scendere. Mentre entro nel grande spazio aziendale della cantina, un tuono squassa il cielo. Ad attendermi trovo la giovane Ilaria e la giovanissima Serena Ferrucci, le figlie dello scomparso Stefano, uno dei promotori e dei pionieri della rinascita dell’enologia in questo lembo di Romagna. Educate, leggermente timide, mi conducono prima a vedere la cantina e poi a sedermi insieme a loro intorno a un tavolo per raccontarmi la loro storia e il motivo che le ha spinte a continuare sulla strada che loro padre Stefano aveva tracciato, forse non preoccupandosi neppure del fatto che, un giorno, le sue due figlie avrebbero potuto mantenere fede o meno a ciò che lui faticosamente andava costruendo. Delle due sorelle, quella che ha un po’ più d’esperienza è Ilaria, la più grande. Entrata ormai da diversi anni nei meccanismi che regolano la conduzione della cantina, si dedica all’aspetto

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produttivo e commerciale dell’azienda, mentre Serena segue quello amministrativo e delle due è la più defilata, rimanendo ad osservare e cucire nella sua mente tutto ciò che le succede intorno per capire quali siano i meccanismi che regolano il mondo del vino. Silenziosa, controlla, con occhi furbi e vispi, ogni cosa: i miei gesti, quelli di sua sorella e quelli del fotografo che si appresta a realizzare il reportage. Osserva per scoprire il suo ruolo in questa giornata e se, quando e come, sarà chiamata ad intervenire. Mi piacciono, perché sono ragazze semplici, di buona famiglia, “acqua e sapone”, come si dice in questi casi; giovani in possesso di una profonda cultura umanistica che ha consentito loro di avere una visione ampia delle opportunità, per scegliere, poi, cosa fare delle loro vite. Opportunità acquisite soprattutto grazie al padre Stefano e alla madre Piera, che un po’ mi rammarico di non aver conosciuto in quest’occasione, ma che sono certo sia sicuramente una donna splendida, non solo per come ha educato queste sue due ragazze, ma anche per l’intelligenza e l’aiuto fornito loro, proprio nel momento in cui, morto il marito Stefano, hanno preso in mano le redini dell’azienda. Delle due, Ilaria risulta essere la più loquace e mi racconta di come, una volta laureatasi in Scienze della Formazione, abbia scoperto che studiare psicologia, filosofia, pedagogia e i massimi sistemi dell’interazione nel mondo dell’occupazione, e le motivazioni applicabili alle risorse umane disponibili in azienda, non le era, in fondo, servito a niente e che quelle materie erano piene solo di parole, prive di entusiasmo, sterili di sogni e non le avevano insegnato che, per inserirsi nel mondo del lavoro, avrebbe dovuto scendere a compromessi, politici e sindacali, aderire a bandi o partecipare a concorsi ideati non per accedere all’insegnamento, ma solo per dar vita a vili speculazioni autorizzate, poste come intralcio al diritto al lavoro che, invece, dovrebbero avere tutti i giovani come lei, che sentono di avere qualcosa in cui credere. L’insoddisfazione e le preoccupazioni che avevano accompagnato quell’amara considerazione la indussero a guardare negli occhi il padre che, sebbene rattristati per la grave malattia da cui era stato colpito, emanavano ancora una luce particolare, quella che si percepisce nello sguardo di chi fa ciò che ama e, con passione e amore, svolge un’attività che lo gratifica e lo ripara da qualsiasi negatività esterna. Era lo sguardo che anche lei aveva sempre desiderato, poiché sarebbe stato il combustibile migliore per alimentare il motore della propria vita, quello stesso carburante che,


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pur cercandolo, non aveva trovato negli studi affrontati, leggendo e approfondendo la conoscenza di grandi filosofi e psicologi. Nello sguardo di quel padre malato, ma vitale, comprese che i sogni e i grandi ideali che colorano con tinte forti il futuro li aveva avuti sempre lì accanto. In quell’uomo, che scoprì di amare tanto, vi era l’essenza della terra e delle vigne, alle quali lui aveva dedicato gran parte della sua vita, creando una commistione ideale fra ciò che faceva e ciò che desiderava essere. Questa comprensione la indusse a cambiare strada e, pur avendo sempre nel cuore il nichilismo schiacciante di Nietzsche, la psicologia di Freud o la filosofia di Sartre e Schopenauer, iniziò a seguire il padre e ad apprendere ciò che lui aveva il piacere e la gioia di trasferirle negli ultimi mesi della sua vita. “E tu?”. La domanda improvvisa coglie di sorpresa Serena, che si riprende come da un sogno e subito inizia a raccontare di come lei in quegli anni fosse ancora adolescente, e, dovendo frequentare le scuole medie superiori, non poteva essere al fianco del padre, né seguire la sorella in quella lenta, ma costante presa di possesso dell’azienda, vivendo tale passaggio più da spettatrice che come interprete e avendo ancora da metabolizzare alcune cose del dramma vissuto. Tuttavia, anch’essa, quando ha dovuto scegliere cosa fare, non ha avuto dubbi nel seguire le orme della sorella, volendo diventare interprete di quel mondo del vino che più di ogni altro le consente di avere un rapporto diretto con il proprio operato. La lascio parlare, accorgendomi di quanto abbia bisogno di esternare molte cose che, per lungo tempo, forse ha tenuto dentro, mentre Ilaria maternamente la osserva con sensibilità e delicatezza senza mai interromperla. Devo ammettere che mi piace il loro modo di approcciarsi a questo mestiere: semplice, privo di fronzoli, quasi scarno, direi, ma essenziale, poiché si basa sulla ricerca dell’equilibrio, posto al vertice della loro visione della vita, che travalica l’importanza del vino e della stessa filiera produttiva e tocca ogni rapporto, azione o pensiero, ricevendo da questo semplice concetto un’enorme energia che si riversa poi sugli affetti, sulla terra, sulle vigne e nel vino, affinché lo stesso non possa più essere identificato come il vino di Stefano Ferrucci, ma come quello di Ilaria e Serena.

Ferrucci

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DOMUS CAIA SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto di proprietà dell’azienda, situato in località Serra, nel comune di Castel Bolognese, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 35 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare, su terreni calcareoargillosi ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 220 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 4.300 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire da metà settembre, si procede alla selezione e all’appassimento delle uve, un appassimento naturale che avviene su graticci posti sotto tettoie. Dopo un periodo che varia dai 30 ai 40 giorni, a seconda dei fattori climatici dell’annata e organolettici dell’uva raccolta, si procede ad un’ulteriore selezione e alla successiva diraspapigiatura delle uve e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in cemento vetrificato, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per circa altri 8 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in cemento vetrificato, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene messo in tonneaux da 5 Hl, di 1°, 2° e 3° passaggio, in cui rimane per 12 mesi, periodo durante il quale si effettua almeno 1 travaso. Terminata la maturazione e dopo 2

mesi di decantazione in cemento vetrificato, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 14 mesi prima della sua commercializzazione. Quantità prodotta circa 18.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un bel rosso rubino quasi impenetrabile con intensi riflessi color granato, il vino si presenta all’esame olfattivo con note dolci di frutti maturi e altre speziate di cannella, vaniglia, tabacco dolce, caffè e cioccolato bianco. In bocca ha un’entratura morbida, consistente, importante, di buon equilibrio, con tannini ben evoluti e una buona acidità che lo rende fresco, elegante, lungo e persistente. Prima annata 1982 Le migliori annate 1993, 1998, 2000, 2001, 2003, 2006 Note Il vino prende il nome dalla casa (Caia) in cui è stata ricavata la cantina che, situata lungo la direttrice Castel Bolognese-Riolo Terme, la voce popolare vuole fosse una stazione di cambio dei cavalli fatta costruire da Caio Gracco (Gens caia); raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Ferrucci dal 1932, l’azienda agricola si estende su una superficie di 20 Ha, di cui 16 vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Gianfranco Bertozzi e l’enologo Federico Giotto.

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Lascio l’autostrada e procedo verso il Parco di Monte Sole per Marzabotto e la memoria torna ad un recente passato che deve restare un monito per l’intera umanità. Mi arrampico in compagnia di questi pensieri, su per il colle lungo la Porrettana, che comincia ad inerpicarsi proprio subito dopo il ponte sul fiume Reno. Dopo qualche curva si spalanca alla mia vista il paesaggio di una luminosa e profonda vallata, incuneata all’interno degli Appennini, lungo la quale scorrono le limpide acque del fiume Reno e l’antica strada che porta in Toscana, mentre le pendici dei monti che disegnano la gola da entrambe le parti, sono ricoperte da una fitta vegetazione nella quale, specialmente su un versante, si aprono ampi spazi coltivati. Salgo lungo la sinuosa strada che sembra fatta apposta per essere percorsa in moto, magari in sella a una vecchia Moto Morini, storico marchio emiliano, andando

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adagio, senza fretta e prendendosi tutto il tempo necessario per godere di questi bellissimi, silenziosi e riservati Colli Bolognesi, situati alla giusta distanza dal traffico che ruota attorno alla splendida Bologna. Passando per la piccola chiesa di Panico, gioiello di architettura romanica, salgo verso la Pieve San Silvestro, dove raggiungo la Tenuta Folesano, cantina che Luigi Berti e sua moglie Carla Cavara conducono con estrema passione e con quel tocco di originalità artistica che non guasta mai. I loro vigneti, perfetti e ben disposti, circondano a 180 gradi l’azienda da ovest a est, appoggiandosi alla parete del monte ricco di castagneti. Senza esitazione esterno ai miei ospiti i complimenti per la magnifica posizione dei vigneti che godono di un clima estremamente favorevole e di un’altitudine ideale a formare aromi, ma anche a preservarli dalle nebbie e dalle gelate notturne della sottostante pianura. Un luogo scelto da Etruschi e Romani, poi successivamente dalla Chiesa di Roma e dai Conti di Panico, potente famiglia del Contado Bolognese, vissuta nell’Alto Medioevo, ai cui personaggi storici si ispirano i nomi dei vini dell’azienda. Il piccolo borgo medioevale della Tenuta, oggi monumento nazionale, è menzionato nei libri ecclesiastici del ‘700 che lo indicano come luogo di aria buona e fine e di uva buona ed abbondante. Direi anche luogo magico e ricco di energia, che si può percepire un po’ ovunque e credo che, se ben introiettata, contribuisca a migliorare la vita. Non so se sia stata quell’energia a spingere Carla e Luigi a dedicarsi totalmente a questo luogo, nel tentativo di valorizzare appieno l’antica proprietà familiare, per realizzare un loro preciso progetto: fare grandi vini attraverso la pratica di un’agricoltura d’eccellenza. Un obiettivo che spinse Carla a frequentare l’Università di Enologia alla soglia del suo quarantatreesimo compleanno, acquisendo, dopo quella in Filosofia, una seconda laurea, mentre Luigi si è adoperato nella risoluzione degli aspetti tecnici legati alla cantina e ai vigneti. Il recupero di antichi vitigni e l’attenta vinificazione delle loro uve è la


Carla Cavara

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grande passione di Carla, che cura scrupolosamente la parte agronomica ed enologica della Tenuta, che considera eredità preziosa della famiglia e patrimonio unico di biodiversità. Mentre parliamo, camminando lungo i filari dei vigneti, mi ritrovo all’improvviso distratto dal verso stridulo di un gheppio o di un falco, non so bene, che richiama la mia attenzione senza che però io riesca a vederlo. Abbasso gli occhi e riposando lo sguardo, mi concentro su questa interessante viticoltura appenninica, fortemente voluta da chi vede in essa importanti potenzialità enologiche e grandi opportunità economiche di sviluppo e che io trovo, personalmente, non molto distante da quell’idea filosofica che asserisce come, attraverso il rapporto con la natura, si possa comprendere meglio il senso del proprio cammino. La

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prolifica Madre Terra sa offrire non poco sostegno nell’aiutarci a capire e ci insegna a vedere le varie fasi della nostra vita senza attaccamento, come parte di un disegno più vasto nel quale indirizzare le nostre scelte. Un cammino in salita quello che mi ha portato da Carla e Luigi, fino a questo grande terrazzamento, dove sembra che la viticoltura bolognese, qui ben rappresentata, possa orgogliosamente muovere passi importanti verso un luminoso futuro in un luogo che si erge a salvaguardia di una natura che è stata eletta a Parco, dove trovano rifugio daini, caprioli, cervi, cinghiali e ora anche lupi. Trascorro in compagnia di Luigi e Carla una piacevole mattinata, andando via con la convinzione che riscoprire un diverso senso della vita sia stato, comunque, il vero motivo che li ha legati a Folesano, unendoli ancora di più di quanto non lo fossero già, stimolandoli con una passione che solo un grande sogno sa trasmettere, il più grande forse, che hanno saputo perseguire, dopo quello con il quale hanno costruito amorevolmente la loro famiglia: fare qui, su questi Colli Bolognesi, il loro vino.


GUIDESCO COLLI BOLOGNESI DOC MERLOT Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Merlot provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel Parco di Monte Sole, nel comune di Marzabotto. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni di marne calcaree con presenza di argille risalenti al Miocene medio superiore, ad un’altitudine di 260 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate Merlot 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 6.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla cernita attenta delle uve seguìta dalla pigiadiraspatura e con l’uso di pompa peristaltica si trasportano i chicchi integri in piccoli vasche di acciaio inox. La fermentazione alcolica avviene in maniera spontanea con i lieviti autoctoni che naturalmente si sono selezionati durante l’annata; a questa fase segue una lunga macerazione sulle bucce di circa 1 mese in presenza dei vinaccioli. La fermentazione malolattica ne ammorbidisce il bouquet, armonizzandolo. Il vino passa poi in piccole botti di rovere a media tostatura dove matura per 14 mesi, al termine dei quali si procede all’assemblaggio delle partite, ad una breve decantazione statica e all’imbottigliamento, a cui fa sèguito un lungo affinamento in bottiglia prima della sua commercializzazione.

Quantità prodotta 5.500 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore rosso rubino con brillanti riflessi purpurei, il vino si presenta all’esame olfattivo con percezioni complesse che spaziano dalla confettura di more ai frutti freschi del sottobosco neri maturi, da profumi di un sottobosco ricco di erbe officinali a nuances speziate dolci che si inoltrano verso note di tabacco. In bocca è avvolgente, corposo, succulento, con una buona base sapida che conferisce un buon equilibrio a una fibra tannica ben equilibrata. Prima annata 2006 Le migliori annate 2007, 2008 Note Il vino, che prende il nome da Guidesco, Conte di Panico, feudatario medioevale della Tenuta Folesano, raggiunge la maturità dopo 2-3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 12 anni. L’azienda Di proprietà di Carla Cavara & C. dal 1959, l’azienda agricola si estende su una superficie di 35 Ha, di cui 6 vitati, 1 occupato da oliveto e 28 da seminativi e bosco. In campo ed in cantina il tecnico viticolo ed enologo è Carla Cavara.

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Come dare torto a mio padre Carlo, quando afferma sorridendo e con sguardo dolce che è necessario amare e scacciare il male dai pensieri per riuscire ad essere felici di vivere la vita che ci è stato dato di vivere? Concetti semplici da dire, ma forse un po’ più difficili da mettere in pratica, anche se a lui riesce molto bene farlo e non credo che questa sua convinzione dipenda molto dal fatto che ha rischiato diverse volte di perdere la vita nel corso della sua esistenza, sia durante la Seconda Guerra Mondiale, sotto i bombardamenti e i mitragliamenti “alleati”, sia, in tempi più recenti, per via di un infarto. Non credo di sbagliarmi se dico che il mondo sarebbe diverso da quello che vediamo oggi se tutti avessero ben chiaro il significato di questi princìpi, seguendo i quali verrebbe spontaneo determinare le priorità e il valore delle cose e quale sia il rispetto che esse meritano. Seguendole arriveremo a modificare le nostre esistenze e anche quella quotidianità che, personalmente, mi spinge ad alzarmi ogni mattina contenta di farlo, sapendo di avere davanti, comunque, una splendida giornata e un’infinità d’incombenze che sono chiamata a

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soddisfare se voglio seguire un’azienda vitivinicola con annesso agriturismo e ristorante. Per capire questo mi è bastato seguire l’esempio di mio padre che da quel veterinario stimato e assai conosciuto qual’era in queste campagne, si è trasformato, raggiunta l’età della pensione, in un esperto vignaiolo, dopo aver deciso di dedicarsi completamente a quest’azienda di Zola Pedrosa, da lui stesso acquistata negli anni Sessanta; qui egli aveva già iniziato una graduale bonifica dei terreni e una ristrutturazione degli edifici in disuso, trovando, negli anni, anche la forza di impiantare dei vigneti e dare vita ad una piccola cantina, nella conduzione della quale anch’io iniziai a lavorare, saltuariamente dall’età di 18 anni, e poi stabilmente dopo i 23. Da quel momento le vigne divennero il predominante impegno della sua dinamica terza età, facendo confluire nella conduzione generale e nei metodi produttivi non solo tutta l’esperienza acquisita in oltre quarant’anni di attività professionale, ma anche quella filosofia di vita - appresa attraverso l’insegnamento di due meravigliosi personaggi come Don Zeno Saltini e Padre Olinto Marella - con la quale egli si rapporta da sempre con spontaneità, semplicità, naturalezza e schiettezza; infatti, l’ambiente e tutte le cose poste intorno a lui richiedono il massimo rispetto, avendo un loro specifico ruolo nel contesto del mosaico delle idee di Carlo. È sempre stata quest’essenza la vera forza di mio padre ed è la stessa con la quale ha costruito l’azienda, donandosi ad essa in modo totale e facendo sì che non fosse un’entità che rispondesse, in qualche modo, solo alle regole economiche - a cui dovrebbe invece rispondere qualsiasi impresa agricola - ma, andando al di là di questo concetto, lui è riuscito ad arricchirla di emozioni e sentimenti, grazie ai quali si è posto in armonia con tutto ciò che lo circonda. Un patrimonio culturale enorme che ho fatto poi mio, trovando il piacere di applicarlo non solo nella mia vita privata, ma anche in quest’attività, che era molto distante dalla professione a cui sembravano destinarmi i miei studi medici all’Università di Bologna. Forse è per queste idee che, pur passando gli anni, il mio entusiasmo non è mai venuto meno, anzi è aumentato, trasformando l’iniziale passione in amore verso questo lavoro e verso tutto ciò che esso si trascina dietro. Non nascondo che trovo fantastico sentirmi ogni giorno partecipe di qualcosa d’importante che si svolge proprio sotto i miei occhi: dal lavoro richiesto da


MariaLetizia, Carlo Gaggioli

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questo piccolo ma qualificato agriturismo e dal suo ristorante, al minuzioso impegno che è necessario attivare nelle vigne e nella cantina, dal contributo che giornalmente devo dare per costruire rapporti di proficua collaborazione con tutti i ragazzi che compongono lo staff aziendale - con i quali mi trovo straordinariamente bene - fino al sostegno che ancora ricevo da mio padre che, nonostante il cuore e gli acciacchi degli anni, resiste cocciutamente al timone di questa cantina. Sorrido nel vederlo impegnato così assiduamente, sapendo bene che non è felice senza condurre la sua azienda vitivinicola, poiché il farlo, significa vivere dinamicamente, parallelamente e contemporaneamente, più esperienze lavorative molto diverse fra loro, alcune delle quali distanti anni luce, come quelle che possono dividere la gemma di una vite da una strategia di marketing. Lavori diversi che richiedono non solo investimenti, ma anche grandi capacità di programmazione e professionalità specifiche, oltre all’impegno, all’abnegazione e ai continui sforzi finalizzati agli aggiornamenti tecnici, tecnologici, scientifici, comunicazionali, promozionali e commerciali, costruendo un’alternanza di ruoli e di competenze intercambiabili fra loro che possono avvicendarsi più volte anche nell’arco della stessa giornata lavorativa. Difficoltà che anche dopo anni non mi hanno tolto dalle labbra quel sorriso che ogni giorno mi illumina il viso. Mi sento felice di aver realizzato e condiviso tutto questo con Carlo, potendo gioire insieme a lui dei risultati fin qui raggiunti. Conseguenze e soddisfazioni dovute alla sua instancabile tempra di bolognese verace, che non si è mai fermato davanti a niente, convinto assertore dell’idea che, prima o poi, sarebbero state riconosciute, al pari di molte altre prestigiose zone vitivinicole italiane, le grandi potenzialità di questi Colli Bolognesi, contraddistinti dall’inconfondibile profilo e dall’immagine della chiesa di San Luca, che dall’alto della collina domina tutta la “piana” sottostante, offrendo a chiunque una sua propria riconoscibilità con la quale tutti identificano Bologna già da molto, molto lontano, infondendo ai bolognesi in viaggio, quando la vedono, la sensazione di essere finalmente arrivati a casa.

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COLLI BOLOGNESI DOC PIGNOLETTO SUPERIORE Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dal vigneto Bagazzana, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Zola Predosa, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 35 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni pliocenici argilloso-calcarei, ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sudovest. Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato e doppio capovolto Densità di impianto 3.500-5.000 ceppi per Ha, a seconda dell’età dei vigneti Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve e, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto effettuata alla temperatura controllata di 14°C, lo stesso è messo in tank di acciaio dove, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica, che si svolge alla temperatura controllata di 15°C per circa 10 giorni. Terminata questa fase, il vino rimane ancora nelle vasche di acciaio per i successivi 4 mesi, durante i quali si inibisce la fermentazione malolattica, mentre vengono effettuati periodici sur lies al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo

in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 2 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore giallo paglierino con riflessi dorati e brillanti, il vino si propone all’esame olfattivo con note mandorlate e di pinolata; innalzandosi man mano la temperatura del vino nel bicchiere durante la degustazione, si apre a note fruttate di pompelmo rosa, mela e altre floreali di fiori bianchi, acacia e ginestra. In bocca è ampio, ben strutturato, elegante e ben equilibrato, rivelando una vena acida che sorregge l’ottima bevibilità. Prima annata 1985 Le migliori annate 1993, 2001, 2008 Note Il vino raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 3 anni. L’azienda Di proprietà di Carlo Gaggioli dal 1960 e in affitto alla figlia Maria Letizia Gaggioli, l’azienda agricola si estende su una superficie di 23 Ha, di cui 22 vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Stefano Bongiovanni e l’enologo Giovanni Fraulini.

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Non ci è mai piaciuto starcene immobili con le mani in mano nell’attesa che le cose accadessero e ancor meno osservare impotenti ed indifferenti le sorti di un’agricoltura in grossa difficoltà, poco dinamica e costruttiva. A noi, invece, è sempre piaciuto attivarci per comprendere cosa vi fosse al di là degli ostacoli, interrogandoci sul motivo o sulla causa per cui certe cose accadono. Un processo di crescita continuo, nel quale abbiamo trovato la forza morale per far sì che le nostre idee si realizzassero. Non sappiamo se a muovere tutto ciò sia stata una sana ambizione o se, invece, a darci la spinta per guardare avanti e costruire i nostri sogni, siano stati il desiderio e la curiosità di conoscere. Sta di fatto che nel momento in cui ci siamo trovati a stabilire cosa fare dell’azienda agricola di famiglia, non abbiamo avuto dubbi: di comune accordo abbiamo deciso di avviare un nuovo e più stimolante percorso in grado di unirci in un dialogo propositivo e accattivante, che ci facesse ragionare su come organizzare e mettere a frutto i terreni che nostro padre Carlo, per raggiunti limiti di età, ci aveva affidato. Entrambi avevamo la necessità di ragionare in grande, senza mai disconoscere quale fosse il punto di partenza e la realtà di cui stavamo prendendo le redini, composta da frutteti e vigneti con vecchie vigne buone per fare dei grandi vini, ma destinate al conferimento in Cooperativa o utilizzate per la produzione di un po’ di vino da commercializzare in damigiana. Erano poche cose, ma ci stimolavano a tal punto da decidere di costruire una collaborazione mai sperimentata fino a poco tempo prima, tutta

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da testare e soprattutto da accettare; questo ebbe però il merito di spingerci a dimostrare l’uno all’altro di essere entrambi in grado di riporre nel cassetto le nostre velleità per dipingere i sogni comuni con gli stessi colori. Sapevamo di avere dalla nostra parte una grande volontà e una buona formazione culturale e professionale, grazie agli studi universitari presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, sperimentata in occasione di esperienze vissute dopo la laurea presso strutture produttive. Ma era sufficiente tutto ciò? Sapevamo che insieme potevamo fare molto di più di quanto saremmo mai stati in grado di realizzare singolarmente, ma partire con poche risorse economiche e con un’azienda quasi marginale da riconvertire verso una marcata specializzazione produttiva non era cosa semplice, soprattutto perché il farlo avrebbe richiesto non solo investimenti maggiori di quelli che potevamo permetterci, ma anche la forza morale di attendere, per anni e anni, i risultati che ci auguravamo di ottenere. Attraverso l’analisi della realtà decidemmo di procedere con un’attenta politica dei piccoli passi che ci permettesse, nel tempo, il riordinamento dell’intera filiera produttiva, sia quella che interessava i frutteti, situati qui nella zona pianeggiante intorno a Faenza, sia quella viticola, posta, invece, sul Monte Coralli sopra Brisighella, sulla quale, fin dall’inizio, puntammo fortemente ricercando la qualità assoluta delle uve e dei vini. A distanza di tanti anni, sappiamo che il percorso intrapreso potrebbe apparire più facile di quanto in verità sia stato, ma ti possiamo assicurare che dopo dodici anni, pur non venendoci mai meno l’entusiasmo e la passione per il nostro lavoro, non c’è nulla di ovvio, concretamente scontato o consequenziale. Per di più, ancora oggi, quando si parla della Romagna viticola si pensa ad una terra generosa, ma capace solo di fare grande quantità, ma nessuna qualità. Noi crediamo che la nostra esperienza, insieme a quella di tante altre piccole, ma combattive aziende del nostro bellissimo territorio, stia dando un contributo a far rivedere questo giudizio, tanto che, con i primi risultati, sono incominciate ad arrivare grandi gratificazioni anche per la nostra Romagna, che ci riempiono di fiducia e che ci danno motivo di pensare che la strada intrapresa sia quella giusta.


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CORALLO NERO SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Monte Coralli, nel comune di Brisighella, le cui viti hanno un’età compresa tra i 12 e i 40 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni di origine pliocenica e pleistocenica caratterizzati da sedimenti argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est e nord-ovest. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla metà di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini di acciaio inox, si protrae per circa 12-14 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è riposto nuovamente nei tank di acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques (30%) e in tonneaux (70%) di primo, secondo e terzo passaggio in cui rimane per 14 mesi; durante questo periodo si effettuano dei travasi secondo necessità. Terminata la maturazione e dopo l’assemblaggio delle partite, si procede ad una stabilizzazione del vino che si protrae per 2-3 mesi; dopo essere

stato messo in bottiglia, segue un ulteriore affinamento di 8-12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 9.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore rosso rubino intenso con riflessi granata, il vino si presenta al naso con percezioni complesse ed ampie che spaziano dalle note di confettura di frutti neri maturi del sottobosco come more e mirtilli a quelle più leggere di frutti neri freschi che con l’invecchiamento si ampliano di note speziate che variano dalla liquirizia nera al cioccolato, dal cacao in polvere al caffè. In bocca è ampio, l’impatto è caldo, mentre i tannini risultano morbidi, equilibrati, armoniosi, ben sorretti da una struttura acida che rende il vino lungo e persistente. Prima annata 2000 Le migliori annate 2003, 2004, 2006 Note Il vino, che prende il nome dai monti sopra Brisighella, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà di Antonio e Cesare Gallegati dal 1998, l’azienda agricola si estende su una superficie di 22 Ha, di cui 7 vitati, 1 occupato da oliveto e 8 da frutteti. Le funzioni di agronomo sono svolte da Antonio Gallegati, quelle di enologo dal fratello Cesare.

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...Ahi, permette signorina sono il re della cantina vampiro nella vigna sottrattor nella cucina Son monarca son boemio se questa è la miseria mi ci tuffo con dignità da rey... Vinicio Capossela, Che coss’è l’amor Non so se il mio vino sia il migliore o sia da considerarsi superiore agli altri della zona. So solo che a me piace produrlo con semplicità e naturalezza, la stessa che mi ha sempre contraddistinto, quella che applico sia che mi ritrovi a lavorare in mezzo alle viti o in cantina. Non faccio vino per arrivare primo in qualche competizione enologica, né per avere il plauso dei critici o della stampa specializzata, né per inseguire quell’apparire che altri rincorrono, ma che a me non piace: preferisco tenere un profilo più consono alle mie caratteristiche di semplice vignaiolo dei Colli Bolognesi. Faccio vino perché mi piace farlo, perché è ciò che mi riesce meglio e anche perché fare vino è ciò che hanno fatto tutti i componenti della mia famiglia che mi hanno preceduto alla guida di quest’azienda, esistente ancor prima del 1898, anno in cui i documenti attestano come essa sia stata assegnata al ramo dei Franceschini di cui faccio parte. Una tradizione instauratasi principalmente con mio padre, anche se già mio nonno e altri ancora prima di lui in famiglia, si erano adoperati per produrre del vino per consumo domestico su queste terre. Il mio bisnonno, pur essendo nato povero, nel corso della sua vita riuscì ad accumulare un po’ di beni, tra i quali, appunto, una grande tenuta che, alla sua morte, fu divisa tra i dodici figli: a ciascuno di loro toccarono ben due poderi. Due furono assegnati a mio nonno e, in seguito, uno di questi fu ereditato da mio padre che, negli anni ’70, si dedicava, in maggior misura, all’allevamento di mucche, il cui latte conferiva poi ad un caseificio cooperativo per la produzione del Parmigiano Reggiano. L’industrializzazione del settore caseario e l’importazione di latte da altre zone dettero un duro colpo a quell’attività, portando alla distruzione di quel patrimonio zootecnico che era sempre stato presente in zona, contribuendo alla chiusura di quasi tutte le stalle con il conseguente abbandono delle campagne e lo spopolamento di questi Colli Bolognesi. Non pago di quei segnali e pur sapendo

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che quell’attività non avrebbe avuto un futuro, mio padre volle insistere e creare, insieme ad alcuni altri allevatori, una grossa stalla dove vennero a confluire oltre 400 capi di mucche da latte, nell’ottica di dare un forte segnale di vitalità, nella speranza che la grande qualità produttiva realizzata in quel luogo potesse contrastare lo strapotere degli interessi industriali che, invece, furono agevolati, ciecamente, dagli stessi Consorzi di tutela e dalle amministrazioni locali. Ma a chi poteva interessare salvare le aree produttive che avevano fornito il latte migliore per la realizzazione di quel formaggio? A chi importava che decine e decine di piccole stalle che un tempo coloravano e profumavano questi Appennini Emiliani venissero chiuse e che quell’impegno, profuso da centinaia di contadini, sparisse così, nel nulla, portando via con sé gli aspetti antropologici di una cultura contadina che si fondava sull’unicità dei pascoli qui coltivati, il cui foraggio da sempre caratterizza fortemente la migliore produzione del Parmigiano? Sono interrogativi che hanno suscitato prima sdegno e poi un grido di rabbia, urlato in faccia a chi avrebbe dovuto contribuire alla salvaguardia di un patrimonio che caratterizzava tutta quest’area appenninica, ma che, invece, è stato lasciato morire, come sta oggi accadendo con le ciliegie di questa zona e chissà, forse anche un domani con il vino che produciamo su queste colline. Non ci voglio pensare. Per questi motivi mio padre decise che, se avesse voluto mantenere ciò che era suo, avrebbe dovuto dedicarsi alla viticoltura che, per anni, era rimasta ai margini della sua attività e, pur non avendo ancora ben chiaro come la stessa avrebbe potuto trasformarsi in una valida opportunità per il futuro, si mise a produrre vino, cercando di comprendere, vendemmia dopo vendemmia, dall’inizio degli anni Novanta, come si stesse evolvendo il mercato di questo prodotto. La cosa che lo stimolò maggiormente fu il constatare come il comparto vitivinicolo fosse un’attività unica nel panorama


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agricolo che lui aveva conosciuto: per la prima volta gli consentiva di essere l’unico responsabile dell’intera filiera produttiva e di poter rispondere, in prima persona, del successo o dell’insuccesso del suo operato. Non c’erano più consigli d’amministrazione, né cooperative, né altri intermediari fra lui e il mercato. Comprese che doveva fare affidamento sulle sue capacità e su questa terra particolarmente vocata per la viticoltura, incominciando a piantare vigneti, a produrre vino e a commercializzarlo, creando quel processo operativo nel quale sono cresciuto e che ho assimilato fino al punto di farlo diventare una parte di me. È per questo che mi sono diplomato all’Istituto Professionale per l’agricoltura di Zocca, in provincia di Modena. E per il solito motivo mi sono specializzato, successivamente, in viticoltura ed enologia, con l’intento di accrescere le mie conoscenze e diventare tutt’uno con questo terroir sul quale ho scelto, liberamente, di rimanere. Non so se ho fatto bene o male a non costruirmi altre esperienze, magari in qualche altra cantina; sta di fatto che non mi sono mai mosso da Monte San Pietro e, per adesso, nella mia giovane vita non ho fatto altro che starmene in mezzo alle mie vigne e in cantina, al fianco di mio padre, dal quale ho appreso l’etica, il rispetto e l’umiltà del lavoro, consapevole che, facendo affidamento su tutto ciò, posso centrare l’obiettivo di aumentare la qualità dei vini che produco, figli solo di quei frutti che raccolgo nella mia azienda. Sono un vignaiolo, sic et simpliciter, che non cerca mai di apparire diverso da ciò che è. Un modo d’essere riscontrabile nel Pignoletto che produco, nel mio modo di rapportarmi agli altri, che possono essere i clienti che vengono in azienda a comprare il vino o quel ristorante della zona dove vado spesso a mangiare, dimenticandomi sempre di portare dietro il mio vino, oppure quell’enoteca di Bologna che frequento abitudinariamente e che solo dopo anni mi ha riconosciuto come produttore di vino, quel Franceschini dell’azienda Isola, dal quale, ogni tanto, ordinava pure, per fax, qualche cartone di vino! Sono uno di quei vignaioli che crede ancora che il lavoro, la serietà e la correttezza ripaghino sempre e che, prima o poi, gratifichino sia chi, come mio padre, ha investito più di quanto poteva, credendo nelle mie potenzialità e fidandosi ciecamente del mio desiderio di rimanergli accanto, sia chi, come me, ha visto che quella passione iniziale si è via via trasformata in un grande amore per questo lavoro di vignaiolo. Non so se tutto questo sarà sufficiente per trasformare ogni cosa in rose e fiori, ma, purtroppo, sono capace solo di lavorare con il cuore e mi sento un po’ inadeguato a competere con certi miei colleghi produttori, molto più disinvolti commercialmente e molto più bravi di me a livello di marketing o di promozione. La sola cosa di cui sono ricco è una gran voglia di fare, di lavorare e di creare il mio vino e, più di questo, non posso e non voglio fare, perché il produrlo mi consente di tutelare questo bellissimo territorio e starmene in simbiosi con lui, in attesa che venga il tempo per una nuova vendemmia.


COLLI BOLOGNESI DOC PIGNOLETTO SUPERIORE Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nei comuni di Monte San Pietro e Castello di Serravalle, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 40 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni pliocenici ricchi di argilla e sabbie, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a ovest / nordovest. Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Controspalliera con potatura a guyot capovolto e semplice Densità di impianto 2.000-5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e, dopo una pulizia statica del mosto effettuata alla temperatura controllata di 16°C, lo stesso è messo in acciaio e in tini di cemento dove, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura controllata di 18°C per circa 10 giorni; dopo essere stata inibita la fermentazione malolattica, si avviano periodici sur lies al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione, che si protrae per 8 mesi, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 6.500 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un bel colore giallo paglierino luminoso con riflessi dorati, il vino si presenta all’esame olfattivo con percezioni di mandorle dolci, mela, papaia, ananas e fiori bianchi come iris e tiglio, per chiudere con un finale minerale quasi marino. In bocca ha un’entratura elegante, lineare, dove si riscontra di nuovo la mineralità; l’acidità sorregge la bella e ampia struttura gustativa del vino che risulta lungo e persistente. Prima annata 1982 Le migliori annate 1990, 1996, 1998, 2001, 2004, 2007, 2008 Note Il vino raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 10 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Franceschini e dal 1975 gestita da Marco Franceschini, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 12 vitati, mentre il restante è occupato da seminativo e alberi di ciliegie. Svolge le funzioni di agronomo Gianluca Franceschini; collabora in azienda l’enologo Giovanni Fraulini.

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Mancano cinque minuti alle sei della sera e Francesca, con la sua figura longilinea, alta e svelta raggiunge, con passo spedito, la sala di degustazione dell’azienda. Mancano soltanto pochi istanti al rintocco delle campane della chiesa che non è molto distante. La osservo mentre si accinge a stappare con maestria le bottiglie di vino e, lentamente, avvicina al naso i tappi per saggiarne l’aroma. Un gesto rituale, simile a quello visto in molte altre cantine, la visita delle quali ha scandito i tempi di questa mia avventura enologica in Emilia Romagna. Mi ritrovo oggi in un’altra azienda, situata questa volta sui Colli Bolognesi, a Montebudello, frazione di Monteveglio, ad un passo da Bologna, di fronte a uno spicchio di paesaggio che degrada, dolcemente, verso l’infinito. Pur non essendo ad un’altitudine elevata, La Mancina - questo il nome dell’azienda - è inserita in un contesto naturale unico e al mio arrivo mi ha fatto ricordare alcuni versi dell’Odissea cantata da Tonino Guerra in dialetto romagnolo; infatti, in questa bella giornata, trascorsa, ahimé, senza godere di un solo raggio di sole, mentre sporgo la mia testa da una ringhiera, contemplando estasiato queste colline, la piana emiliana che si srotola in lontananza e l’approssimarsi della sera, mi sono sentito un po’ come “I truièn / ch' i stévva sémpra sla tèsta spandlèun / dal murài (I troiani che stavano sempre con la testa penzoloni dalle mura). Sorseggio lentamente i vini aziendali, uno ad uno, partendo da quel Pignoletto che, nella versione ferma, trovo sorprendentemente elegante e di buona struttura; mi sento invadere da piacevoli sensazioni molto terrene che si elevano e si mischiano ad altre più spirituali, dettatemi dall’eco del rintocco che preannuncia l’approssimarsi delle preghiere serali. Mentre mi adopero per rimanere concentrato, mi sento osservato. In un angolo della stanza il nonno di Francesca, Franco, un uomo quasi novantenne, alto e ancora ben piantato a terra, mi guarda silenzioso, cercando di carpire o di anticipare il mio giudizio su quei vini che egli ha contribuito, in larga misura, a realizzare. Così lo coinvolgo, facendomi raccontare in breve la sua vita, il suo impegno e l’affetto che lo lega alla sua bella nipote, pensando alla quale lo vedo sorridere, mentre quel suo viso simpatico e lo sguardo, sveglio e arguto, s’irradiano. Lui parla e io rifletto su quanto il vino può essere capace di mettere in stretta correlazione due persone che si sono appena conosciute, fare da tramite fra generazioni oppure essere un mezzo per scoprire stralci privati di vite vissute, le stesse che vado raccontando nei miei libri da ormai dieci anni. Anche Francesca mi osserva, sebbene in modo più discreto, annusando e sorseggiando diverse volte lo stesso vino che anch’io sto degustando, ma, garbatamente, davanti ai miei silenzi, tace. Del resto, che valore avrebbe un mio giudizio? E perché mai dovrei darne uno a gente simile, che opera con estrema professionalità e che, innamorata del proprio lavoro fa di tutto per ottenere il massimo? Sono sicuro di trovarmi davanti a persone che davvero amano il loro mestiere e, dai vini che assaggio, devo dire lo svolgono assai bene e in un territorio non facile da far conoscere e apprezzare e sul quale c’è ancora molto da fare in considerazione delle grandi potenzialità. Personalmente, ho trovato i Colli Bolognesi meravigliosamente belli e stupendamente

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Luciano, Francesca, Franco Zanetti 149 -

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vocati in termini vitivinicoli. Proprio su queste terre ha puntato Francesca, fin dall’inizio degli anni Novanta, avviando una riqualificazione di tutta la filiera produttiva, grazie anche, forse, ad un’estrema fiducia in un vitigno come il Pignoletto, da molti considerato, erroneamente, capace solo di fornire uve dalle quali estrarre vinellini frizzanti, beverini e adatti a un mercato locale quale quello di Bologna, invece che grandi bianchi, anche molto longevi. Scelte azzardate, che andavano un po’ contro quella filosofia produttiva, applicata dalla vitivinicoltura del luogo che aveva sempre puntato su vitigni internazionali come il Merlot, il Cabernet Sauvignon o il Cabernet Franc, invece che sui vitigni autoctoni. Le sue idee ebbero conferma con l’ingresso in azienda dell’enologo Giandomenico Negro che le aprì la mente su altri e più importanti obiettivi; con lui continuò in quella politica aziendale che, durante tutti gli oltre quindici anni trascorsi dal suo iniziale ingresso nel mondo del vino, l’aveva condotta a fare sempre scelte importanti, riuscendo a convincere anche suo nonno, dispiaciuto dal fatto che nessun uomo della famiglia, prima di Francesca, si fosse mai interessato alla sua cantina e che all’inizio non pensava che lei fosse tanto determinata. Dai discorsi fatti e dai racconti ascoltati, credo che per Francesca non sia stato facile condividere quest’avventura con quel pezzo d’uomo di suo nonno, il quale è un coriaceo vignaiolo d’altri tempi, uno di quelli da prendere nel giusto verso, quello che sicuramente lei sa usare. Sono passati anni, ma, con il trascorrere del tempo, non è certo venuta meno la sua voglia di fare, anzi ho scoperto che Francesca ha nel cassetto un’infinità di progetti da mettere in pratica per l’azienda e per la valorizzazione di questi “giovani” Colli Bolognesi, così belli che qualsiasi viaggiatore sono convinto ne rimanga entusiasmato e se poi a questo entusiasmo si aggiunge il paesaggio, un buon bicchiere di vino, un po’ di parmigiano e della mortadella, è chiaro che nessuno ha più voglia di andar via.

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TERRE DI MONTEBUDELLO COLLI BOLOGNESI CLASSICO DOC PIGNOLETTO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Monteveglio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 30 e i 35 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni calcareoargillosi, ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte, con conseguente macerazione pellicolare in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 10°C. Dopo 36 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto effettuata alla temperatura controllata di 10°C, lo stesso viene inserito per il 95%in tank di acciaio, mentre il restante 5% è messo in tonneaux di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura da 500 lt; in questi contenitori, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura controllata di 15°C per circa 15 giorni; il vino rimane poi in botte ancora per circa 1 mese prima di unirsi alla massa e rimanere in acciaio per i successivi 12-18 mesi, periodo durante il quale di solito svolge la fermentazione malolattica e vengono effettuati periodici sur lies al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio

delle partite e, dopo una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 4-6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore giallo paglierino con brillanti venature dorate, il vino si presenta all’esame olfattivo con note complesse, armoniose, sapide e minerali che spaziano da quelle di pasta di mandorle ai fiori bianchi, da profumi di frutta esotica e a pasta gialla a percezioni di mela e mimosa, da accenni di grafite e di erbe officinali per giungere, man mano che si “apre”, a nuances di pompelmo rosa e ad altre più mielose. In bocca è fresco, piacevole, minerale, pulito, mentre la beva risulta piacevole e il vino lungo e persistente. Prima annata 2001 Le migliori annate 2001, 2004, 2006, 2008, 2009 Note Il vino, che prende il nome dalla località omonima, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e gli 8 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Zanetti dal 1964, l’azienda agricola si estende su una superficie di 40 Ha, di cui 30 vitati e il resto occupati da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Riccardo Cornale e l’enologo Giandomenico Negro.

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Te at curr cunteint/ in dla scarnebbia ad dla matein/ salutà dai salaz ca pianza/ e dai piopp ca sbusa al ciel./ La to acqua l'è amisa/ col riv e coi bosch/ chi musican l'aria/ d' un verd ca respira/ coi so mill sulfegg' / chi culuran ill puesii/ che la to maestà l' ispira. Tu corri contento nella bruma del mattino / salutato dai salici piangenti e dai pioppi che bucano il cielo./ La tua acqua è amica/ con le rive e con i boschi che musicano l'aria/ di un verde che respira/ coi suoi mille solfeggi/ che colorano le poesie/ che la tua maestà ispira. Alfredo Lamberti, Sguardi sul Po

Mi arrampico e ridiscendo su e giù per questi colli piacentini, così suggestivi e belli da non sembrare veri, ma di cartone, come quei paesaggi che usavo preparare con mio padre per il Presepe a Natale, arricciando la spessa carta mimetica sulla quale posavo case e pastori, disegnando finti fiumi nelle scanalature, con gli acquarelli. Anche qui, lasciate le due o tre principali strade di comunicazione, come la SS 45 che da Piacenza conduce verso la Liguria o la SP654 che, sempre dal capoluogo, conduce verso Ferriere, è facile lasciarsi cullare dal dolce saliscendi digradante dall’Appennino verso il letto del Po. Poco prima di attraversare il fiume Trebbia, andando in direzione di Rivergaro, passo attraverso Gossolengo, che reca sullo stemma comunale un elefante, immagine che mi riporta alla mente la traversata di Annibale, il grande condottiero africano che passò proprio da queste parti ai tempi della seconda guerra punica. Annibale sostò con il suo esercito nelle campagne circostanti, lasciando in custodia ai contadini che abitavano la zona un grosso

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elefante ferito in battaglia. Si racconta che, una volta superato il timore iniziale, la popolazione si abituò alla presenza di quello strano animale e, siccome nessun cartaginese tornò a reclamarlo, essi decisero di tenerlo con loro, utilizzandolo per il lavoro nei campi o come mezzo di trasporto. Alla sua morte, i contadini, che ormai gli si erano affezionati, scavarono una buca e diedero all’esotico animale un’onorata sepoltura. Con questi pensieri raggiungo Rivergaro e da lì mi inoltro verso Ancarano di Sopra, per incontrare Elena Pantaleoni, titolare dell’azienda vitivinicola La Stoppa. Un’azienda importante, fra le prime in zona ad iniziare un’accurata ricerca finalizzata all’innalzamento della qualità dell’intera filiera produttiva. Di fronte mi ritrovo una donna risoluta, ben determinata, che ha costruito le proprie capacità imprenditoriali mettendosi giornalmente alla prova con robusta e fiera determinazione; non so come mai, Elena mi riporta un po’ alla mente l’immagine di quell’elefante di cui parlavo prima e mi dà l’impressione di essere dotata di quella stessa consolidata saggezza che è considerata una delle principali caratteristiche di quei fantastici animali. Gesti semplici che si concretizzano subito in alcune bottiglie stappate immediatamente davanti ai miei occhi e poste lì, sul tavolo della cucina di casa, costruendo un mix di ospitale familiarità e concreta operatività, priva di fronzoli. Mi sento a mio agio in questo senso di grande operosità che la circonda e mi piace constatare come abbia le idee ben chiare sulla sua azienda, tanto da percepire quelle stesse certezze che contraddistinguono molte


Elena Pantaleoni


vignaiole che ho conosciuto in questo mio lungo viaggio nel mondo del vino italiano. Per il poco tempo che ho ha disposizione, quelle che percepisco sono solo impressioni, ma, per l’esperienza acquisita, posso senz’altro affermare di trovarmi davanti a una donna tenace che ha saputo convertire le passioni in energia e con essa si è costruita come viticoltrice, seguendo l’evolversi dinamico e ottimale della sua cantina. Anche lei appartiene a quella nutritissima schiera di vignaioli di prima generazione che si sono dovuti costruire non solo l’azienda, ma la stessa cultura vitivinicola che, fino a trent’anni or sono, non esisteva ed è un po’ ciò che caratterizza tutta l’enologia non solo emiliana e romagnola, ma anche molta parte di quella italiana. Anche lei come tanti altri vignaioli aveva un padre che faceva altro nella vita, essendo, in questo caso, a capo di un grosso stabilimento tipografico, lavoro che gli consentì di coronare, nel 1973, quel sogno che aveva coltivato per anni e anni fin dai tempi della Seconda

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Guerra Mondiale, durante la quale, passando in bicicletta qui vicino, si riprometteva che un giorno questa collina sarebbe stata sua. Così La Stoppa, dove più di cento anni fa il suo precedente proprietario, l’avvocato genovese Ageno, piantò vitigni francesi, incominciò la sua lenta trasformazione verso quel futuro a cui anche Elena ha dato un forte contributo, affinché si realizzasse. Ancora adolescente, Elena forse giocava a fare la regina intorno alla vecchia torre di impianto medioevale. Quando poi, all’inizio degli anni Novanta, dopo aver frequentato il liceo Linguistico, decise di entrare definitivamente in azienda, vi erano già suo fratello Giuseppe - che, però, si era sempre dedicato all’allevamento di bestiame - e Giulio Armani, l’attuale enologo, con il quale avrebbe costruito una profonda e sincera amicizia, oltre ad una proficua collaborazione, tanto forte e consolidata da durare ormai da oltre vent’anni. E Giulio è ormai come il suo secondo fratello. Un lungo percorso, durante il quale non sono mancate le paure, ma non è venuto meno neppure il coraggio; non sono scarseggiate le difficoltà, ma non è mai scemato neanche l’ottimismo che, grazie a ottimi collaboratori, le ha consentito di avviare un programma operativo dalle grandi potenzialità di sviluppo, nel medio e nel lungo termine, che tiene conto della stretta relazione fra le potenzialità del suo territorio e il proprio saper fare. La saluto compiacendomi di aver incontrato una bella persona che, con decisione, riluttante a dare ascolto alle proprie paure, si è legittimata il ruolo d’imprenditrice vitivinicola in un territorio che ha ancora molto da offrire.


VIGNA DEL VOLTA IGT EMILIA MALVASIA PASSITO Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Malvasia di Candia e Moscato provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda con la migliore esposizione, situati in località Ancarano, nel comune di Rivergaro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 60 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni argilloso-limosi, ad un’altitudine compresa tra i 230 e i 250 metri s.l.m., con un’esposizione a est e ovest. Uve impiegate Malvasia di Candia 95%, Moscato 5% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 4.000-6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che è svolta di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede all’appassimento delle uve raccolte, che si svolge al sole su teli di plastica bianchi per circa 10-15 giorni. Il momento della spremitura avviene di solito nello stesso mese di settembre, quando le uve hanno raggiunto la giusta (ed elevata) gradazione zuccherina. Dopo una pigiatura non estremamente soffice, con torchi verticali con pistone idraulico, il mosto ottenuto viene messo in barriques da 250 lt e tonneaux da 500 lt. di rovere francese e qui è fatto fermentare e matura per circa 10 mesi. Segue l’imbottigliamento per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta 15.000 bottiglie circa (da 500 ml)

Note organolettiche Di un brillante colore ambrato chiaro, il vino si presenta all’esame olfattivo in modo equilibrato ed intrigante, con note di albicocca candita, caramella d’orzo e piacevoli percezioni di miele di castagno, fiori di sambuco, mandorla dolce, dattero e un finale di manna e vaniglia. In bocca stupiscono la sua dolcezza e la sua freschezza, ma soprattutto l’eleganza con la quale riesce a porre in equilibrio la vena sapida con quella alcolica, rendendo gradevolissimo il gusto di questo passito che invita a riempire nuovamente il bicchiere e che nel finale ricorda piacevoli sensazioni di fichi. Prima annata 1995 Le migliori annate 1997, 2000, 2004, 2006 Note Il vino, che prende il nome dal signor Volta, che era solito condurre il vigneto prima della seconda guerra mondiale, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e migliora nel tempo. L’etichetta riporta l’immagine di una figura maschile risalente al Medioevo. L’azienda Di proprietà della famiglia Pantaleoni dal 1973, l’azienda agricola si estende su una superficie di 58 Ha, di cui 30 vitati e 28 occupati da bosco. Collabora in azienda come agronomo ed enologo Giulio Armani.

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M entre cammino e lascio orme nella neve, sento che qualcuno mi segue: mio Dio fa sì che i miei passi non si dimentichino l’ uno dell’ altro, seguendosi linearmente. La neve è entrata fin nella mia tana; che riccio sono, ospito i fiocchi pensando al calore e a una vita!: e prego perché i miei passi siano più lunghi, escano generando quote altissime e vicine. Stefano Pizzamiglio, Preghiera dei passi nella neve

Esco dall’azienda agricola La Tosa con la sensazione di aver passato una bella giornata e di aver conosciuto due splendide persone. Due fratelli, Stefano e Ferruccio Pizzamiglio, che da ventisei anni si trovano impegnati fra questi vigneti, situati nelle prime colline della Val Nure, nel Piacentino, con costanza e puntigliosa applicazione, tanto da aver modificato più volte, nel corso di tutto questo tempo, il progetto enologico che si erano prefissati inizialmente, indirizzandolo non solo a migliorare la qualità dei vini prodotti, ma anche a diversificare la proposta commerciale dell’azienda, aumentando l’importanza dell’immagine percepita all’esterno e arricchendola di contenuti quali, ad esempio, un museo del vino, affiancato da una piccola biblioteca comprendente, oltre ai libri, anche antiche carte catastali, mentre al pian terreno è attivo, nel fine settimana, un ristorante che offre piatti tipici. Salutandoli, ho scoperto di avere piacevolmente l’animo sollevato, leggero, quello che si ha, appunto,

quando si è stati bene insieme a persone piacevoli e non mi interessa neanche un po’ che mi abbia fatto compagnia per tutta la giornata una pioggia insistente e che mi sia dovuto infagottare a causa di una temperatura non proprio primaverile, come invece avrei dovuto trovare in questo periodo. Un arrivederci e una calorosa stretta di mano mi convincono di aver speso bene il mio tempo con questi due vignaioli. Durante la mia permanenza, attraverso la voce di Stefano, sono venuto a conoscenza di alcuni stralci della loro storia privata. Due fratelli complementari, ma allo stesso tempo molto diversi fra loro, sia sotto l’aspetto morfologico, sia sotto quello caratteriale: uno altissimo e l’altro assai più basso, uno meticoloso e scrupoloso amministratore, l’altro frenetico, vibrante e viticoltore quanto mai irrequieto con la passione della poesia. “Un letterato ebbro”, come si è simpaticamente definito stamani, innamorato della poesia tanto da sentire, in gioventù, la necessità di abbandonarla... per troppo rispetto verso il “sacro fuoco” che non si sentiva più all’altezza di interpretare; una scelta sofferta, poiché essa lo coinvolgeva profondamente, ritrovando, però, molti anni dopo, il piacere e il desiderio di riabbracciarla grazie anche a quel quotidiano contatto con la natura che riesce ad avere alla Tosa, riscoprendo la gioia e la voglia di essere ancora una volta un “aquilone” capace di librarsi nell’aria e raccontare, in versi e con animo gentile, le emozioni dell’anima. Non nascondo che ci siamo persi per più di un’ora nei concetti filosofici che animano l’arte della poesia e sono rimasto


Ferruccio, Stefano Pizzamiglio

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sorpreso che Stefano mi rendesse partecipe della lettura di alcune sue poesie, le stesse che, mi confida, lo avevano avvicinato a Dio e accostato a quel senso di purezza che solo la fede sa trasmettere. Discorsi profondi, che lasciavamo per un po’, per poi ricaderci dentro un’altra volta, trovando il piacere di tuffarci entrambi nella ricerca, io della conoscenza di quel suo percorso spirituale e lui dell’apertura che sperimentava nel raccontarmelo. Un dialogo privo di barriere grazie al quale scopro che Stefano, dopo la letteratura, ha come ulteriore passione quella del vino che si è trasformata, via via, in amore per la vite. Una passione iniziata a diciotto anni e coltivata frequentando tutti i corsi di degustazione possibili e immaginabili, che lo ha spinto a spendere gran parte dei suoi soldi in enoteca, dove alternava alla poesia il vino, e arrivando al punto di non sapere più quale dei due elementi gli provocasse maggiore ebbrezza. Il vino lo ha portato, piano piano, a prendere contatto con il vigneto, dal quale non può più staccarsi e di cui non può fare a meno, sentendo la necessità

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di avere, quotidianamente, un contatto epidermico con quell’ambiente e con le stesse viti, in mezzo alle quali vive un’esperienza di grande serenità e pace interiore. È stata una giornata in cui ho sorriso e scherzato con Stefano e Ferruccio, convincendomi, alla fine, che ognuno dei due fratelli aveva usato il vino come passepartout per arrivare a soddisfare le proprie passioni, che hanno condotto il primo ad innamorarsi della viticoltura, riscoprendo la poesia, e il secondo a dare sfogo alla sua passione per il collezionismo di libri e di oggetti per l’agricoltura. Un ambiente magico quello in cui sono stato tutto il giorno: ho trovato un’ottima qualità di vini prodotti, genuine e profonde passioni, un’amorevole fratellanza, il buon gusto e il desiderio di tramandare le tradizioni attraverso la gastronomia, i documenti, i libri della biblioteca, gli oggetti antichi e gli attrezzi appartenuti alla civiltà contadina. Cosa potevo chiedere di più ad un’azienda? Per poche ore avevo goduto di un luogo unico, vero, che, più che assomigliare ad una cantina, sembrava quello di una casa aperta a chiunque avesse voglia di entrare per assaporare una genuina ospitalità proposta da persone semplici, forse all’inizio anche un po’ introverse, ma sicuramente senza troppi fronzoli; gente seria e incapace di mistificazioni, veri imprenditori che stanno costruendo un futuro per la loro azienda. Con questi pensieri in testa mi ritrovo nuovamente a ripercorrere a ritroso la strada che, nella mattina, mi aveva condotto da Piacenza a Vigolzone, passando nuovamente davanti a quella “Grazzanolandia Viscontiana”, che ogni volta mi dà l’impressione di essere quanto di peggio e di falso si possa concepire nel recupero di vecchie architetture agricole che, un tempo, dovevano aver vissuto ben altri splendori, rispetto a quelli odierni, spudoratamente commerciali. Distrattamente getto uno sguardo a quelle finte mura medioevali, poi passo oltre, convinto come sono che ambienti come La Tosa siano tutta un’altra cosa, vale a dire l’immagine stessa di chi li vive, luoghi ormai rari dove all’ospitalità fa sèguito una vera e concreta umanità.


SORRISO DI CIELO COLLI PIACENTINI DOC MALVASIA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Malvasia di Candia provenienti dai vigneti Ronco e Morello, di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Vigolzone, le cui viti hanno un’età compresa tra i 18 e i 27 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni argillosolimosi poco fertili, ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 210 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate Malvasia di Candia 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 2.200-5.000 ceppi per Ha, a seconda dell’età dei vigneti Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione pellicolare in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 18°C per 3 ore. Dopo 18 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 14°C, il vino è messo in acciaio dove, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica, che si svolge ad una temperatura controllata di 13-15°C per circa 20 giorni; qui il vino rimane per i successivi 6 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati periodici sur lies al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima della commercializzazione.

Note organolettiche Di colore giallo paglierino con riflessi dorati, il vino si propone all’esame olfattivo con percezioni tipiche del vitigno e piacevoli sentori dolci di fiori come rosa gialla, glicine e ginestra, oltre a note minerali e sapide che si mescolano a quelle di pesca, papaia e ad altre un po’ più complesse di panificazione e di orzo. L’entratura in bocca è piacevolissima, armonica, di grande morbidezza e buon equilibrio: una malvasia estremamente elegante, lunga e persistente. Prima annata 1991 Le migliori annate 1991, 1996, 2000, 2004, 2007, 2008 Note Il vino prende il nome da una frase di Platone che menzionava come “il vino riempie l’anima di coraggio. Dove cresce la vite ivi è sorriso di cielo; ivi è sorriso di uomo”; raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 12 anni. L’azienda Di proprietà dei fratelli Pizzamiglio dal 1980, l’azienda agricola si estende su una superficie di 19 Ha, di cui 13 vitati, mentre il resto è occupato da seminativi e bosco. Svolge funzione di agronomo e di enologo Stefano Pizzamiglio.

Quantità prodotta 11.000 bottiglie l’anno

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Esco da Faenza per inoltrarmi nelle campagne circostanti verso la zona di Santa Lucia. Il cielo cupo è fratello di questa primavera che, restìa e schizzinosa, tarda ad arrivare, nonostante la stia corteggiando tremendamente. Qualche sporadico e casuale raggio di sole, nei giorni passati, non ha scosso il mio umore invernale, né è stato sufficiente a farmi comprendere come mai, con aprile ormai alle porte, faccia così freddo, tanto da costringermi, ogni mattina, a controllare l’agenda, rimanendo sorpreso di come, pur essendo marzo ormai volato via, ancora non si sentano nell’aria né i profumi, né il dolce tepore della bella stagione. Dopo aver chiesto informazioni ad alcuni

contadini che parlottavano fra loro lungo il ciglio della strada sulla quale stavo procedendo, ne imbocco un’altra, più stretta di quella che ho appena lasciato e mi ritrovo, dopo poche centinaia di metri, nell’azienda di Leone Conti. All’ingresso spicca un cartellone pubblicitario che sostituisce, per il momento, la grande e sbiadita scritta che faceva mostra di sé proprio sulla facciata della vecchia

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casa poderale che si augura, quanto prima, di poter tornare agli splendori di un tempo. Fra un’impalcatura e cespugli alti di oleandro, posti davanti al piccolo porticato d’ingresso, leggo la dicitura “...enda Agricola Vinicol. F.lli Conti e... ” Scopro così di essere arrivato. Scendo dall’auto e mi accorgo che nel piazzale, oltre a qualche altra auto parcheggiata, c’è solo Lilly, un Border Collie che sta lì, sdraiato per terra, limitandosi ad osservare chi arriva e avviando nei suoi confronti, senza fretta, un rituale di conoscenza attraverso un’attenta e scrupolosa annusata che si prolunga per qualche secondo e con la quale stabilisce se gli è possibile stringere un’amicizia con l’intruso o se gli conviene elargire allo stesso una semplice e distaccata indifferenza, evitando di rispondere ad eventuali suoi richiami o carezze. L’osservo mentre si accosta prima all’amico Giò, il fotografo, che, irrigidendosi, non lo ispira più di tanto e poi a me che, invece, conoscendo il carattere docile e giocherellone della razza, mi adopero subito per soddisfare le sue aspettative, incominciando a calciare una palla poco distante e Lilly, sistematicamente, me la spinge proprio davanti ai piedi, come se volesse invitarmi a dar vita a un gioco molto semplice fra noi e quella palla che, una volta, doveva essere ben gonfia. Il rumore di quei calci richiamano l’attenzione di Leone che, affacciatosi dalla porta della cantina, mi viene incontro con aria simpatica e molto disponibile. Strette di mano, presentazioni, ma anche lui, come Lilly, ha bisogno di “annusarmi” per comprendere se fidarsi, capire cosa io stia facendo e lo scopo della mia visita alla sua piccola cantina, la cui ristrutturazione, si evince, è ancora da terminare. Trascorso il tempo fisiologico di mezzo minuto a lui necessario per espletare il suo naturale rituale di conoscenza, si lascia andare e, trasportato dalla naturale positività che dimostra verso ogni cosa, mi accompagna, un po’ materialmente e un po’ virtualmente, nella visita dell’azienda agricola e della cantina, descrivendomi come si presenterà quest’ultima nel prossimo futuro, molto diversa da quanto oggi appare ai miei occhi. Quelle che usa sono parole semplici, intrise di grande umiltà e ottimismo. Mi basta poco per comprendere quanto sia una persona schietta e di animo pulito, sempre disponibile a un sincero dialogo con chi giunge al suo cospetto per conoscerlo. Mi parla delle sue passioni, del suo rapporto con gli altri, delle prime esperienze, dell’Albana, dei vigneti autoctoni, del suo vino, della sua prossima paternità, della


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sua compagna Coral e della figlia che presto nascerà. Mi parla della forza che gli amici, quelli veri, gli hanno trasmesso per superare i momenti di crisi, della sua famiglia e dei figli avuti con il primo matrimonio, del lavoro duro avviato con l’enologo Giancarlo Soverchia nel recupero dei vecchi vitigni come il Centesimino. Lo ascolto e, mentre parla, mi rendo conto di come io sia stato fortunato ad incontrare una così bella persona che mi sembra capace di donarsi agli altri, riuscendo, contemporaneamente, a vivere la propria vita fino in fondo senza preoccuparsi ormai di dover dimostrare a nessuno di quale pasta egli sia fatto. Le parole corrono e scopro di trovarmi al cospetto, forse, di un mancato avvocato, di un ipotetico giudice o di un probabile notaio; un uomo che, a mio avviso, è stato baciato dalla fortuna, poiché, come tanti altri incontrati in questo mio viaggio nel mondo del vino, si è salvato da un grigio, cupo e “sfigato” futuro svolto fra carte e

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marche da bollo, tra ingombranti tribunali o all’interno di uffici troppo lontani dalle vigne, dal vino e dalla gioia che questi due elementi sanno trasmettere. Ascoltando l’entusiasmo con il quale descrive il suo operato non so se il diventare notaio - carriera che mi confessa ha provato a perseguire - lo avrebbe fatto arrivare ad essere quell’uomo che invece è oggi, poiché qualsiasi atto avesse mai potuto redigere, nella più splendida e luminosa carriera notarile, sarebbe stato sempre inferiore, per importanza e passionalità, all’ultimo dei suoi vini, se mai ve ne sia uno che si possa definire “ultimo”; vini che lui sostiene siano l’espressione vera e sincera della forza e della bellezza del suo lavoro e del connubio che è riuscito ad instaurare con questa terra. Un connubio a cui è arrivato attraverso un meditato percorso personale, durante il quale ha saputo trasformare i dubbi in passioni e le stesse, poi, in amore, talvolta talmente traboccante di entusiasmo da dover essere arginato ed educato dall’amico e saggio enologo Soverchia, affinché tutta la sua energia fosse finalizzata ad una più costruttiva creatività e ad una più scientifica produzione con l’innalzamento della qualità. Un lavoro difficile, affrontato con costanza e pazienza, anche attraverso un’accurata ricerca e sperimentazione sui vitigni autoctoni che rappresentano la cultura e la tradizione del territorio, diventando loro stessi i messaggeri di quel rapporto speciale che Leone stabilisce con il suo lavoro di vignaiolo-contadino.


ARCOLAIO IGT RAVENNA ROSSO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Centesimino provenienti dai vigneti denominati Vigna Vecchia e Vigna del Campo del Mezzo, di proprietà dell’azienda, situati in località Santa Lucia, nel comune di Faenza, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. Tipologia dei terreni I vigneti, che si trovano in una zona pianeggiante su terreni alluvionali di medio impasto molto profondi, sono situati ad un’altitudine di 40 metri s.l.m., con un’esposizione a nordest. Uve impiegate Centesimino 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato

1 mese di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta 6.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore rosso rubino quasi impenetrabile, il vino offre al naso note piacevoli, speziate e fresche che si mescolano a percezioni di bacche di ginepro e a più ampie sensazioni di frutti neri del sottobosco. La piacevolezza continua anche in bocca, dove il vino risulta fresco, pulito, ben strutturato, aggiungendo ad una fibra tannica ben equilibrata anche una bella acidità che invoglia a bere. Un vino d’amicizia, da porre sulla tavola per costruire una convivialità con chi sa sorridere.

Densità di impianto 2.000-3.000 ceppi per Ha

Prima annata 1987

Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato, dopo una breve macerazione a freddo che si protrae per 24 ore a 10°C, alla fermentazione alcolica con l’utilizzo di lieviti selezionati. Questa fase si svolge in tini d’acciaio per circa 15 giorni ad una temperatura non superiore ai 27°C; contemporaneamente avviene anche la macerazione statica sulle bucce che dura ancora per altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati alcuni rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è lasciato nei tini dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene posto in barriques di rovere di 1°, 2° e 3° passaggio in cui rimane per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano almeno 2 travasi. Terminata la maturazione, segue l’assemblaggio delle partite e, dopo

Le migliori annate 2001, 2003, 2004, 2006, 2007 Note Il vino, che prende il nome dallo strumento per la lavorazione della lana, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Conti dalla metà del ‘700, e dal 1994 di Leone Conti, l’azienda agricola si estende su una superficie di 42 Ha, di cui 17 vitati, 3 occupati da oliveto e il resto da seminativi. Collabora in azienda, con le funzioni di agronomo e enologo, Giancarlo Soverchia.

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…Ma l'impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale… Lucio Dalla, Disperato erotico stomp

Qui in Romagna, il “bé” (il bere) identifica tout court il vino, proprio quel vino che, fino a non molto tempo addietro, aveva quasi sempre un gusto un po’ deciso, rude, duro e privo di vie di mezzo, brusco e sincero al contempo, ma anche ricco di quella forte personalità che contraddistingueva il carattere dei romagnoli, quasi sempre un po’ diffidenti e difficili ad aprirsi al primo venuto, pragmatici e poco avvezzi a dolcezze e smancerie affettive. Gente più da “scarpe grosse e cervello fino” che da “scarpe verniciate, fumi, profumi o lamé”. Gente vera, come lo è questo Bursôn che sto degustando nella cantina della famiglia Longanesi, la stessa che riscoprì e dette il proprio nome al vitigno dal quale si ricava questo vino severo, ma schietto. Una storia iniziata nel 1913, quando il bisnonno di Daniele - l’attuale proprietario che mi accompagna

Longanesi

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in questo esercizio gustativo - acquistò quest’azienda di 3 ettari, sulla quale esisteva una sola e vecchissima vite che, nonostante fosse arrampicata e abbracciasse un albero, produceva un’uva strepitosa. L’ascolto, mentre cerco di pormi in sintonia con quelle spigolose sensazioni che l’audace e verace Bursôn mi trasmette, scoprendo dal racconto di Daniele che il secondo capitolo della saga vitivinicola della famiglia Longanesi ebbe inizio nel 1956, quando Pietro e Antonio, rispettivamente suo padre e suo zio, decisero di innestare e moltiplicare con il sistema massale quella strana vite, impiantando i primi quattro filari da cui produssero, per loro consumo personale, un vino che risultava buono solo dopo almeno un paio di anni dalla vendemmia, presentando, tuttavia, tante caratteristiche uniche che andavano al di là della norma degli standard enologici romagnoli di quegli anni; ciò indusse Pietro a registrare ufficialmente, all’inizio degli anni ’70, quelle viti a bacca rossa all’Istituto Nazionale delle Vite, pur sapendo che il vino non avrebbe avuto una giusta attenzione dal mercato; in quegli anni, infatti, sembrava che la gente amasse molto di più i vini bianchi. Si è dovuto attendere però il 1996 e l’ingresso in azienda di Daniele, prima di riuscire a vedere quel piccolo tesoro vitivinicolo - per lungo tempo esclusiva proprietà dell’azienda oltrepassare i confini aziendali e incominciare a far parlare di sé, innescando i primi segnali di un graduale riconoscimento. Un inizio incoraggiante, ma ancora insufficiente per consentire a Daniele di abbandonare il suo lavoro - svolto soprattutto in autunno e in primavera - di agrotecnico e di operaio contoterzista, che aveva rappresentato, fino a quel momento, la principale fonte di reddito; non poteva ancora contare su ciò che proveniva da quei tre ettari aziendali e dall’insufficiente produzione enologica, forse la sola cosa che lo appassionava. Nonostante il tempo limitato, Daniele apportò dei cambiamenti incominciando a diradare, a potare più corte le viti, inerbendo i filari, così da limitare l’esuberanza di quelle piante, intervenendo, di fatto, su molti aspetti della filiera produttiva, ma innescando un processo che limitasse al minimo le operazioni fra le sue vigne. Non fu facile far accettare al padre Pietro e allo zio Antonio quella nuova filosofia produttiva, alla quale essi aderirono, comprendendo la bontà delle innovazioni introdotte da Daniele, soltanto quando iniziarono a giungere in azienda i primi risultati economici, dettati dall’innalzamento delle vendite che consentirono alla famiglia di costruire una nuova cantina. Ma


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presto Daniele comprese che qualsiasi sforzo avesse mai potuto fare, sarebbe risultato inutile se la conoscenza di quel vitigno “familiare”, l’unico vitigno realmente romagnolo, fosse rimasta all’interno del perimetro aziendale. Così, come ultima “saga” del Bursôn e della storia del vitigno Longanesi, nel 1999 Daniele decise di condividere con un gruppo di amici quest’importante eredità vitivinicola, creando il Consorzio Il Bagnacavallo, grazie al quale nel 2001 fu possibile registrare ufficialmente l’uva Longanesi e cominciare a diffondere la conoscenza di questo impegnativo e affascinante vitigno. Mentre Daniele racconta, continuo a sorseggiare questo vino robusto che mi sorprende: una volta superato il primo impatto, risulta essere sempre più gustoso e ricco di una personalità intrigante. Facendo un plauso al produttore, mi accorgo che, se avesse voluto, Daniele avrebbe potuto anche continuare a risultare l’unico viticoltore a produrre quest’uva e questo vino, ma facendo così non avrebbe stimolato altri a seguirlo e non avrebbe innovato, con successo, quella tradizione che la sua famiglia aveva mantenuto viva intorno a questo vitigno per quasi un secolo. Una lungimiranza esemplare e anche una grande capacità di aggregare, intorno ad un’uva che porta il suo cognome, un numero non grande, ma ben affiatato di produttori della zona che hanno deciso di collaborare per far crescere il prestigio del Bursôn. Sono ancora piccoli i numeri che caratterizzano l’intera produzione del vino, che è realizzata in poco più di 20 ettari di vigneti dislocati, per la maggior parte, nelle campagne intorno al grazioso paese di Bagnacavallo. Visitando la campagna circostante mi rendo conto che è lungo il cammino che questi produttori devono ancora compiere, ma faccio loro coraggio, perché la strada è ben delineata e se nel prosieguo del viaggio che Daniele e gli altri riusciranno a fare insieme, non verrà meno il rispetto reciproco e l’ottimismo (oltre alla voglia di crescere e di migliorarsi), sicuramente in futuro sentiremo parlare del Bursôn in modo entusiastico.

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BURSÔN DI BURSÔN ETICHETTA NERA IGT RAVENNA ROSSO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Longanesi provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Boncellino, nel comune di Bagnacavallo, le cui viti hanno un’età compresa tra i 35 e i 56 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni di origine alluvionale di medio impasto con presenza di argilla, sabbie e limo, ad un’altitudine di 14 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-sud. Uve impiegate Longanesi 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 2.500-4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla selezione delle uve, il 50% delle quali subisce un appassimento in fruttaio per 30 giorni, prima di essere anch’esse diraspapigiate come le altre uve raccolte, il cui pigiato, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tank di acciaio, si protrae per circa 12-15 giorni ad una temperatura compresa tra i 22 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 5-6 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo di nuovo in acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in tonneaux da 500 Hl di 1°, 2° e 3° passaggio, in cui rimane per 24 mesi. Terminata la maturazione e dopo l’assemblaggio delle partite, il vino è posto in botti di rovere per una breve decantazione; segue l’imbottigliamento e un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della

commercializzazione. Quantità prodotta circa 8.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore rosso rubino intenso, scuro, quasi impenetrabile, dai riflessi purpurei sull’unghia del bicchiere, il vino si presenta all’esame olfattivo con intensi profumi di frutti rossi e neri del sottobosco freschi (more, ribes neri, mirtilli, lamponi); aprendosi man mano durante la degustazione, queste percezioni virano verso la confettura per proseguire su note speziate di pepe, liquirizia, cuoio e cioccolato fondente. In bocca ha un’entratura potente, importante, complessa, dove si evidenziano tannini corposi e ben presenti in via di evoluzione, i quali, insieme ad una bella acidità, sostengono la degustazione, rendendo il vino lungo e persistente. Prima annata 1999 Le migliori annate 2001, 2005, 2006 Note Il nome del vino deriva dal soprannome attribuito nella zona alla famiglia Longanesi; raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà di Daniele Longanesi dal 1996, l’azienda agricola si estende su una superficie di 4,5 Ha, di cui 4 vitati e il resto occupato da frutteto. Collabora in azienda l’enologo Sergio Ragazzini.

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La storia siamo noi, nessuno si senta offeso; siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo. La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso. La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da raccontare (...) Francesco De Gregori, La Storia

Un’altra giornata trascorsa su questi colli Piacentini, che ho la sensazione certe volte si inerpichino più ripidamente del solito, mentre altre volte sembra degradino più dolcemente, portandomi ora verso la Val Trebbia, ora verso la Val Tidone. Come ogni mattina, ormai da una settimana, mi inoltro, lasciato il cementificato fondovalle, in un paesaggio collinare splendido, costellato da un sistema di castelli fantastico, per imponenza e bellezza, a cui si abbinano nutrite schiere di case rurali che mi sorprendono, per grazia ed armoniosità architettonica, riuscendo a far rallentare il mio girovagare verso quella Val Luretta da cui prende il nome l’azienda che oggi devo

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visitare. Improvvisamente mi ritrovo davanti al cartello aziendale, posto proprio un po’ prima del paese di Gazzola; rimango sorpreso di essere arrivato e di non essermi perso nel dedalo di strade e stradine incrociate per giungere fin qui. Così, seguendo le indicazioni, dopo poche centinaia di metri mi ritrovo davanti ad un magnifico maniero, il Castello di Momeliano, di cui scoprirò più tardi esistono attestazioni che fanno risalire le sue fondamenta all’anno Mille. Si tratta di un fortilizio a pianta quadrata, con torri angolari sporgenti e un bel cammino di ronda, a ridosso del quale si trova la cantina di proprietà di Carla Asti e dove trovo ad accogliermi, oltre alla signora, anche il figlio Lucio. Lo osservo, mentre stappa le bottiglie, standomene seduto davanti a lui, intorno a un grande tavolo, posto in una bella sala degustazione dove, oltre agli scaffali dei vini, all’affettatrice, ai libri, alle riviste e a varie altre cose, sono presenti statue in ceramica di animali a grandezza naturale che riempiono piacevolmente l’ambiente e danno un tocco di elegante originalità. Lo osservo mentre esegue gesti meccanici e percepisco l’impressione di assistere ad un rituale di cui Lucio, oggi, avrebbe fatto volentieri a meno, ma che, invece, per dovere e, forse, per altre circostanze che non conosco, è costretto ad eseguire. Non so come mi sia nato questo pensiero, fatto sta che, comunque, poco dopo si dissolve, dimostrandomi, invece, come il mio ospite sia, da perfetto e intrigante padrone di casa, capace di mostrare tutta la sua generosa e vitale radice emiliana che si alimenta dell’humus di questa terra piacentina, “respirato”


Lucio Salamini


fin da piccolo stando accanto al padre nell’azienda agricola di famiglia che, per anni, non ha seguito l’indirizzo vitivinicolo, ma quello zootecnico. Una radice che si è consolidata nel tempo, tanto da trasformarlo da quel giovinastro irrequieto che studiava poco, suonatore di chitarra appagato dal piacere della giovinezza, in un buon vignaiolo capace di vestire di viti queste colline e far profumare l’aria di mosto e vino. Dopo un po’ noto nel suo volto che quella durezza o passività iniziale è quasi del tutto scomparsa. Ora il suo linguaggio scorre spedito e mi piace sentirlo raccontare la sua storia, così come mi diletta degustare i vini che produce; in qualche modo gli somigliano, essendo anch’essi freschi, briosi, ma anche schietti e sinceri come lui, che ama esprimersi dicendo le cose che pensa, senza troppi giri di parole. Sorseggio i vini e lo osservo, avendo ancora una volta la

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conferma che, davvero, in molti casi i vini assomigliano all’animo del produttore e, soprattutto, a chi ha studiato, valutato, assimilato e definito un rapporto sempre più profondo, quasi intimo, con il suo territorio, scoprendo, anno dopo anno, quali siano le potenzialità e l’empatia che, con esso, riesce a costruire: elemento alla base di una grande viticoltura e unica cosa certa che possa garantire la realizzazione di buoni vini. Un processo lento, vissuto da molti vignaioli in modo introspettivo, silenzioso, quasi viscerale direi, che arriva a stimolare passioni nel profondo dell’animo, contribuendo a creare quel mix che altri chiamano terroir. Un mix che, tante volte, pur essendo condivisibile, ai vignaioli resta difficile spiegare, poiché non è sempre facile, per loro, trovare le parole per raccontare quali strani e sottili meccanismi li leghino a quel luogo, a quelle vigne e a quel vino, risultando forse più semplice parlare di altro che non di come nasca il loro vino. Sono molti quelli che ho incontrato, in questo mio peregrinare nel mondo del vino italiano, che trovano difficoltà a raccontare il loro saper fare, ritenendo che l’essere riusciti a fare quel vino sia sufficiente per farlo apprezzare al resto del mondo. Lucio, ragazzo intelligente e ben preparato, sa che non è così, ed è per questo che si adopera con intelligenza per trasmettere agli altri la sua filosofia produttiva, quella alla quale si ispira sia quando lavora in vigna, sia quando si trova in cantina. Filosofia che non è molto diversa da quella che applica, poi, nella vita quotidiana. Continuiamo a parlare, mentre prendo appunti cercando di non tralasciare nulla di questa sua storia, che mi risulta composita e ricca di un quotidiano che parla di terra, musica e vino.


SPUMANTE METODO CLASSICO PRINCIPESSA BRUT PAS DOSÉ MILLESIMATO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot nero e Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Bagnolo, nel comune di Vigolzone, che hanno una età compresa fra i 10 e i 12 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni di marna calcarei, in parte profondi, ma mediamente sottili e ondulati, ricchi di cave di gesso, ad un’altitudine di circa 300 metri s.l.m., con un’esposizione a est e nord. Uve impiegate Pinot Nero 80%, Chardonnay 20% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve e i mosti fiore ottenuti, dopo 12 ore di decantazione statica alla temperatura controllata di 6°C, si avviano, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere per 10-12 giorni (a 16°C), in tini di acciaio inox. In questi contenitori il vino rimane fino al mese di febbraio successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, a cui segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la presa di spuma. Il vino matura in cantina sui lieviti per almeno 36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea colmatura delle bottiglie con il vino della stessa annata.

Quantità prodotta 2.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Questo Metodo Classico veste il bicchiere di una spuma cremosa e un perlage fine, continuo e persistente; il colore è un giallo paglierino dai bei riflessi dorati. Al naso, fresco e piacevole, propone belle fragranze di panificazione che si mischiano ad altre un po’ più agrumate di arancio e cedro maturo, per arricchirsi poi di note floreali di acacia e mughetto. Un bouquet che chiude su percezioni di pesca, melone bianco e ananas. In bocca è piacevolissimo, avvolgente, morbido, sapido, molto sensuale capace di riproporre le piacevoli note agrumate percepite al naso e un persistente finale che ricorda un po’ la mela. Prima annata 2005 Le migliori annate 2005 Note Il vino, che ha un nome di fantasia, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 7 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Salamini dal 1987, l’azienda agricola si estende su una superficie di 57 Ha, di cui 43 vitati.

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Il futuro appartiene a coloro che credono alla bellezza dei propri sogni. Eleanor Roosevelt So che anche tu sei legato alla terra emiliana e a questo piccolo paese reggiano di San Martino in Rio, che ha dato i natali a tuo padre e a tuo zio Mario, il quale, ogni anno ai primi di dicembre, neve o non neve, se ne veniva qui da noi in cascina per lavorare il maiale che mio padre Giuseppe aveva ucciso. Una terra strana, calda d’estate e fredda d’inverno, ma dalla quale, stranamente, nessuno vuole andar via. È qui che abbiamo dato corpo ai nostri sogni, concretizzatisi in questa piccola azienda, non più grande di 7 ettari, che rappresenta il nostro porto e il luogo dove vogliamo vivere e far crescere tranquilli i nostri figli, convinti come siamo che piantare una vigna sia un segno di grande speranza per il futuro e di forte legame con la terra, tanto da stipulare con

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la stessa un’alleanza costruttiva nell’attesa di raccogliere i frutti del nostro lavoro. Un posto sicuro dal quale partire per questo viaggio enologico quanto mai innovativo e sempre più proiettato verso una maggiore internazionalizzazione di quel prodotto “vino” che è frutto di una nostra diversa interpretazione della tradizione. Una visione ampia, aperta, figlia delle esperienze personali acquisite negli anni passati, le quali non ci devono portare un solo centimetro lontano dalle nostre vigne e dalla storia che esse rappresentano, né da quel senso di appartenenza che questa terra ci trasmette in modo prepotente. Una consapevolezza maturata lentamente e alla quale siamo giunti con il tempo, ma che, una volta acquisita, ci ha fatto interrompere quell’esperienza professionale bellissima ed entusiasmante che stavamo vivendo negli Stati Uniti, durante la quale sentivamo crescere in noi la necessità di mettere definitivamente solide radici in questo territorio, dal quale eravamo stati distanti per ben dieci anni e che ad ogni nostro ritorno ci appariva sempre più estraneo, ma anche profondamente nostro. Una sensazione a cui ci siamo aggrappati per non decidere di staccare il cordone ombelicale che ci legava a San Martino in Rio, pur sentendoci smarriti per lunghi periodi, sia di qua che di là dall’Oceano, e non sapendo a chi e a che cosa appartenevamo. Credo che alla fine l’amore per i luoghi della nostra infanzia abbia avuto il sopravvento sullo stato d’animo che ci spingeva a pensare di non avere più legami con queste terre, che vedevamo mutare troppo rapidamente rispetto a ciò che ricordavamo. Così siamo tornati, non trovando poi difficoltà a riunirci nuovamente al nostro territorio, verso il quale ci sentivamo in debito per averlo a lungo tempo abbandonato; abbiamo deciso così di provare a valorizzarlo proprio attraverso quella viticoltura che aveva frustrato mio padre per anni, fino al punto di farlo disamorare; egli non riceveva infatti nessuna gratificazione dal produrre più o meno uve di qualità, visto che, pur essendo certo che le sue fossero le migliori che questa campagna poteva dare, era


Rita, Andrea Lusvardi

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costretto a conferirle a trasformatori, che le consideravano alla stregua di tutte le altre, senza riconoscergli nessun merito verso l’impegno che lui applicava nel suo lavoro fra le vigne. Non volendo disperdere quel patrimonio genetico, né tanto meno cassare con un colpo di spugna tutta la tradizione familiare, abbiamo deciso di iniziare a produrre del vino, verso il quale nutrivamo entrambi una profonda passione e una buona conoscenza, acquisita nelle moltissime cene svolte nei ristoranti più famosi del mondo, durante le quali non perdevamo l’occasione di stappare delle importanti bottiglie, condividendo il piacere di berle insieme, tanto che davanti a una di esse decidemmo di sposarci... Sono passati pochi anni da quando abbiamo iniziato ad imbottigliare, ma già stanno arrivando i primi risultati e di questo siamo felici, nella speranza che il nostro esempio possa contribuire a stimolare il comparto enologico di questo piccolo territorio. Un tempo relativamente breve durante il quale stiamo provando a farci conoscere e a far apprezzare ciò che produciamo. Credo che la cosa più bella sia stata proprio l’aver avuto voglia di prenderci per mano e, insieme, rincorrere quei sogni che entrambi tenevamo custoditi nei nostri cuori, riuscendo, in parte, a realizzarli e in parte a colorarli, tinteggiandoli con belle sfumature, senza concentrarci troppo sugli aspetti economici che spesso condizionano e frenano velleità e passioni. Dalla nostra avevamo come capitale aziendale il nostro amore e la voglia di stare vicini, cosa questa che non è mai venuta meno, fin da quando, a sedici anni, giocavamo insieme a tennis. Un’unione che ci ha spinto ad andare avanti senza badare a quale risultato potevamo ottenere, sicuri che, stando uniti, non avremmo mai potuto perderci, neanche in questo nostro viaggio intrapreso nel mondo del vino.

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LAMBRUSCO ROSÉ BRUT VINO SPUMANTE Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Lambrusco Salamino e Lambrusco Grasparossa provenienti dal vigneto Podere il Serraglio, di proprietà dell’azienda, situato in località Molino di Gazzata, nel comune di San Martino in Rio, le cui viti hanno un’età media di 14 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni a medio impasto tendenti all’argilloso, ad un’altitudine di 50 metri s.l.m., con un’esposizione a nord / sud. Uve impiegate Lambrusco Salamino 60%, Lambrusco Grasparossa 40% Sistema di allevamento Sylvoz Densità di impianto 1.330 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia manuale, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede al raffreddamento delle uve ad una temperatura di 0°C prima della loro lavorazione, dopo di che si procede alla loro diraspapigiatura e ad una macerazione pellicolare del mosto che avviene sempre a basse temperature per circa 12 ore in serbatoi condizionati; segue la svinatura del mosto fiore. Dopo una pulizia statica del mosto effettuata a temperatura controllata, il mosto d’uva viene fatto fermentare direttamente con conseguente presa di spuma in un’unica fermentazione. La durata della spumantizzazione è di 40 giorni e la temperatura di fermentazione di 15 gradi.

Note organolettiche Il vino si presenta all’esame visivo vestendo il bicchiere di un colore rosa velo di cipolla molto brillante, vivo e con una cremosa spuma rosata oltre ad un perlage fine e persistente; al naso offre sensazioni intense, vivaci, di frutti freschi del sottobosco (fragoline selvatiche, lamponi e ribes) oltre a note di mela verde che si uniscono a quelle floreali di glicine e rosa canina. In bocca ha un impatto fresco, avvolgente, con un’entratura elegante, fine e sottile che si sposa ad una persistente acidità che fornisce un buon equilibrio e rende piacevole la beva e il vino lungo e persistente. Prima annata 2008 Le migliori annate 2009 L’azienda Di proprietà di Rita Covezzi dal 2008, l’azienda agricola si estende su una superficie di 6,7 Ha, di cui 3,5 vitati e 3,2 a seminativi. Collaborano in azienda gli agronomi Giuseppe Lusvardi e Igor Bonvento e l’enologo Federico Giotto.

Quantità prodotta 12.000 bottiglie l’anno

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La verità spesso è così semplice ed elementare che appare incredibil e. Giovanni Guareschi, Chi sogna nuovi Gerani?

È più forte di me, ma a me piace avere tutto sotto controllo. Amo l’idea di gestire le situazioni, cercando di conoscere i piccoli meccanismi che governano le cose, rimanendo certe volte meravigliata non solo per la complessità o per l’interpretazione che ognuno riesce a dare loro, ma anche perché, in fondo, arrivo a creare una forte empatia con esse, fino a sentirle profondamente mie. Mi entusiasma la conoscenza, poiché, attraverso di essa, posso avere padronanza e familiarità con tutti gli elementi che conducono alla verità; grazie a ciò riesco ad acquisire una maggiore consapevolezza dei miei mezzi dai quali ricevo ulteriori stimoli per costruire qualcosa di nuovo e originale. Una volontà che, certe volte, si scontra con la realtà, che è composta dal dover conciliare, quotidianamente, quattro figlie, una casa, un compagno, l’azienda, le vigne e la cantina. Sembrerebbe impossibile, ma è così, e il segreto - se ve n’è uno non so - sta nel fatto di non dare a nessuna cosa, la priorità assoluta. Tutte hanno la stessa importanza, dato che è mio dovere

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affrontarle ogni giorno, poiché ho stabilito che queste devono interagire con la mia vita. Le metto tutte sul solito piano, sia che si tratti di dover accompagnare alla stazione o all’aeroporto una figlia che parte o seguire l’importatore appena arrivato. Ho scoperto che con il buon senso e con l’amore riesco a fare un po’ di tutto e mi dà conforto il constatare come siano cresciute le mie figlie, come si sia consolidato in tutti questi lunghi anni il mio rapporto sentimentale, come la qualità del vino che riesco a produrre nei 12 ettari della mia azienda vada crescendo di pari passo con l’apprezzamento ricevuto dai mercati. Per fare tutto questo bisogna essere prima di tutto una donna, poi moglie, madre e vignaiola. Mi basta cambiare d’abito e avere la mente lucida per ricordarmi di cosa si stia parlando e poi, ecco, il gioco è fatto e ogni cosa, per incanto, va dove deve andare e quel puzzle della mia vita, che a molti sembra complesso, risulta chiaro e limpido non solo a me, ma anche a chi mi vive intorno e al mio stesso compagno che, da sempre, mi osserva amorevolmente e mi lascia fare nella ricerca della conoscenza e nell’appagamento delle mie passioni e, dalla sua posizione di artista, scultore e pittore di livello internazionale, si diverte nel vedermi mentre mi prodigo in mille faccende quotidiane, sorridendo all’idea di ritrovarsi in casa “la botte piena e la moglie ubriaca”. Come dargli torto? A me va bene così, perché è ciò che ho scelto di fare e so che di questo devo rispondere solo a me stessa. Anche per questo lavoro di vignaiola, di cui non sapevo nulla. Ti confido che se non avessi avuto quella cocciuta determinazione che, come avrai capito, un po’ mi caratterizza, di voler conoscere e sperimentare i meccanismi che dalla vite conducono alla bottiglia, oggi non sarei qui con te a parlare di vino. Quando da Roma ci trasferimmo in quest’azienda in Romagna, trovai nella proprietà alcuni filari di vite che producevano del Sangiovese per uso domestico. Non volendo interrompere quella tradizione familiare e


Giovanna Madonia

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sapendo quale fosse la vocazione vitivinicola di questo territorio di Bertinoro decisi, a dispetto di tutti i consigli contrari che mi giungevano da ogni parte, di iniziare a produrre, imbottigliare e commercializzare il vino che Giovanna Madonia avrebbe fatto. Seguirono consultazioni con agronomi ed enologi, studi e ricerche che mi convinsero ancora di più delle reali potenzialità di ciò che avevo fra le mani e del fatto che qui si sarebbe potuto ottenere un grande vino se avessi seguito alla lettera chi ne sapeva più di me. Convinzione che divenne certezza quando, degustando il vino di un’azienda di Modigliana, mi resi conto del livello qualitativo raggiunto dal Sangiovese su

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queste terre, se vinificato bene. Quello del vino era un mondo a me sconosciuto, per affrontare il quale ho fatto di tutto pur di arrivare ai risultati che desideravo ottenere. Tutto è iniziato nel 1992, pochi anni fa quindi. Ricordo che non avevo né esperienza, né soldi, ma soltanto le mie vecchie vigne che coprivano a malapena un ettaro e poco più della superficie aziendale a dispetto dei 12 di oggi. Per arrivare a questo ho approfondito lo studio della materia enologica con la solita applicazione che ho sempre messo in tutte le cose che faccio fin dalla mia gioventù, quando parlavo poco, ma studiavo molto, pensando non solo al programma didattico che, in quel momento, stavo affrontando, ma al valore intrinseco che lo studiare assumeva nella mia formazione personale, cosciente di come essa avrebbe contribuito ad aprirmi la mente a più complessi processi formativi, al fine di poter governare le cose e poter quindi arrivare a dei risultati che, per me, non devono essere, per forza, eclatanti, ma sufficientemente stimolanti. Oggi riesco a gestire direttamente tutto il lavoro in cantina e la cosa mi gratifica per il semplice fatto che ho la possibilità di controllare ogni singolo processo enologico, anche se ho l’assoluta certezza che non finirò mai di imparare, perché è difficile essere degli artigiani del vino, ma è ancora più difficile confrontarsi con la natura.


OMBROSO SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Ca’ Gnano, di proprietà dell’azienda, situato in località Cagnano, nel comune di Bertinoro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 17 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni calcareo-argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Alberello Densità di impianto 6.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima metà di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica che è fatta svolgere in tank di acciaio a temperatura controllata per circa 12 giorni; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae, a seconda dell’annata, per altri 15-20 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è dapprima lasciato nei contenitori di acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, e poi spostato in barriques e in tonneaux di 1° e 2° passaggio, in cui rimane per 12-14 mesi, periodo durante il quale si effettuano in genere 2 travasi. Terminata la maturazione, dopo l’assemblaggio delle partite e qualche mese di decantazione in acciaio, il vino è

messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di circa 18 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di color rosso rubino, con un’unghia porpora, il vino si presenta all’esame olfattivo in modo etereo, con intensi profumi fruttati di ciliegie in confettura che si vanno ad ampliare con altri frutti selvatici, percezioni floreali di viola e rosa rossa oltre a belle note balsamiche e speziate di anice stellato, erbe officinali, ginepro e pepe nero, con un finale minerale. In bocca ha un’entratura potente, fresca, piacevole, sorretta da quella stessa mineralità percepita al naso che, insieme ad una trama tannica incisiva, rende il vino lungo e persistente. Prima annata 1996 Le migliori annate 1997, 1998, 2000, 2001, 2003, 2004, 2007 Note Il vino, che prende il nome dal disegno di Altan riportato in etichetta, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà della famiglia Madonia dal 1948, si estende su una superficie di 17 Ha, di cui 12 vitati, 1 occupato da oliveto e 4 da bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Remigio Bordini e l’enologo Attilio Pagli.

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Al par sut al parsut! Ac bon cafè ca fè! (Sembra asciutto il prosciutto! Che buon caffè che fate! ) Scioglilingua in dialetto ferrarese

Con piacere accettai di inserire Mattarelli nell’elenco delle aziende da visitare nel viaggio che mi avrebbe condotto, nei mesi di aprile e maggio, per le terre di Romagna. Un allungamento dell’elenco iniziale dovuto a due o tre motivi, fra i quali la genuinità di quel Fortana frizzante che l’azienda vinifica in modo egregio, un vino che amo particolarmente per la bella ruvidezza che il vitigno sa esprimere nel bicchiere. Un altro motivo che stimolava la mia curiosità, oltre ad alcune specifiche caratteristiche che contraddistinguono certi vigneti situati sulle sabbie nella zona del Parco del Po, era la vicinanza dell’azienda

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Mattarelli a Ferrara, una delle città più belle d’Italia e anche l’idea di avere l’occasione di poter incontrare di nuovo un romagnolo verace e schietto come lo scrittore Graziano Pozzetto, un grande personaggio che mi onora della sua amicizia. Non mi perdonerebbe mai se venisse a sapere che, in qualche modo, ho speso delle parole per elogiarlo in questo mio libro: troppo schivo per lasciarsi cullare da qualche ricercata parola fuoriuscita dalla penna di un maremmano come me. Tralascio quindi qualsiasi plauso per invitare quanti desiderino conoscerlo, ad informarsi sull’opera antropologico-gastronomica di questo personaggio. Così, quando arrivò il momento di trasferirmi verso il ferrarese, ripetutamente provai a far collimare i miei desideri, riuscendoci - ahimé solo in parte e non con quella consequenzialità che avrei voluto. Provai prima a passare da San Pietro in Campiano, nelle vicinanze di Ravenna, per incontrare Graziano, ma senza riuscirci, perdendo così molto più tempo del previsto, tempo che dovetti, poi, sottrarre alla visita che avevo già programmato a Ferrara, dove mi persi nelle sue bellezze, ritrovandomi in mezzo a un fantastico, sereno e tranquillo via vai di biciclette - il mezzo di locomozione preferito dai “sudditi” di questo antico Ducato - e restando affascinato, un’ennesima volta, dal Castello degli Estensi e dalla bellissima Cattedrale dedicata a San Giorgio. Non ci volle molto per

accumulare un forte ritardo, soprattutto con i tempi ristretti che, di solito, contraddistinguono le mie giornate, scoprendo alla fine che, qualsiasi cosa avessi fatto, non sarei mai riuscito ad arrivare in orario dai Mattarelli. Ricordo che Emanuele si dimostrò molto comprensivo, soprattutto quando seppe quali erano state le cause che avevano provocato il mio ritardo, compiacendosi della comune amicizia con Graziano e del grande fascino che suscita in me la nobile Ferrara, la quale dista pochi chilometri da Vigarano Mainarda, dove ha sede la sua cantina. Questa è terra di confine, che si sposa con l’acqua e con il cielo, ma è anche terra di grandi orizzonti: basta solo arrivare in cima ad un campanile per vedere chiaramente, anche se in lontananza, il mare. Una terra diversa dalle altre che avevo fin lì visitato, con una sua precisa storia, posta nella parte nord-est della regione, quella che nessun emiliano, quelli dei ducati di Modena e Reggio, e nessun romagnolo, della Romagna papalina e contadina, ha mai considerato. I ferraresi sono diversi, sono fatti di un’altra pasta, sono Longobardi. Emanuele mi racconta che suo bisnonno “Palina”, suonatore ambulante, si prodigava come musicante per le campagne ferraresi, interpretando quel repertorio di musiche virtuose dai suoni morbidi e dolci che somigliava alle laudi come quelle composte, in memoria del cielo, del mare, della terra e degli eroi, dal poeta Gabriele D’Annunzio: O


Emanuele Mattarelli

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deserta bellezza di Ferrara, / ti loderò come si loda il volto / di colei che sul nostro cuor s'inclina / per aver pace di sue felicità lontane. Storie di vita che accadevano agli inizi del Novecento, quando spiriti appassionati, come il bisnonno di Emanuele, incarnazione di quei trovieri del XII-XIII secolo, accompagnavano con musica le poesie, andando in giro per poderi, abbracciando la viola e rallegrando con gioviale spirito il lavoro agricolo, tanto che quel sollevare per un attimo l’attenzione dalla fatica faceva esclamare: “È arrivato Palina”. Come mi piacerebbe essere un “Palina” dei miei tempi e saper rallegrare con i miei scritti i volti dei vignaioli, avendo la forza di portarli con me nel mondo e raccontar di loro e dei loro vini. Musica, passione e parole con le quali scopro che, molti anni dopo, dall’altra parte della strada, nacque un’osteria chiamata proprio con il nome del bisnonno di Emanuele, Palina. Dal fiasco e dal vino sfuso all’imbottigliamento: è stata questa la storia evolutiva dell’azienda Mattarelli, che ha avviato le sue fortune con il commercio dei vini, prima che in famiglia decidessero di diventare anche produttori, dando vita ad un processo evolutivo che dal nonno Vittorio al padre Umberto ha condotto la famiglia ad uscire nel 1964 con la prima etichetta e a costruire oggi una delle più belle cantine della zona. Mentre ascolto Emanuele, sorseggio piacevolmente quel suo Fortana frizzante, accompagnandolo con un po’ di salame e scoprendo quanto oggi egli si prodighi a vinificarlo in modo diverso, anche nella versione ferma, differente dalla Fortana tradizionale; mi rendo così conto di quanto questo vitigno si stia dimostrando estremamente eclettico e proponibile in svariate tipologie. Vini gradevoli, tipici, amabili, molto simili allo stesso Emanuele, con il quale concludo una splendida giornata andando in uno dei numerosi ristoranti della zona.

Mattarelli

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ROSA X EMY VSQ Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Fortana provenienti da vigneti situati nel comune di Comacchio, le cui viti hanno un’età di 12 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona litorale su terreni sabbiosi, al livello del mare, con un’esposizione a est.

e pere, con un finale di fiori gialli e camomilla. In bocca risulta ampio, caldo con un equilibrio gustativo che si sorregge tra una buona acidità e una leggera fibra tannica; il finale ricorda percezioni molto piacevoli di fragole. Prima annata 2007

Uve impiegate Fortana 100%

Le migliori annate 2007, 2009

Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot rovesciato

Note Il vino, che prende il nome dall’ultima nipote nata nella famiglia Mattarelli, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia.

Densità di impianto 2.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima settimana di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve a bacca rossa raccolte con conseguente separazione del mosto dalle vinacce e dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto effettuata alla temperatura controllata di 5°C, si dà avvio alla fermentazione alcolica che è fatta svolgere in acciaio ad una temperatura controllata intorno ai 13°C per circa 30 giorni direttamente in autoclave, dove il vino rimane sui propri lieviti a circa -2°C per ulteriori 5 mesi, al termine dei quali si procede ad una lieve filtrazione e poi all’imbottigliamento.

L’azienda Di proprietà della famiglia Mattarelli dal 1936, l’azienda agricola si estende su una superficie di 17 Ha. Collabora in azienda l’enologo Enzo Matterei.

Quantità prodotta 7.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Il vino si propone all’esame visivo con un color cipria leggerissimo, una spuma cremosa e intensa e un perlage fitto e persistente; all’esame olfattivo offre note di fragole di bosco, frutta matura a pasta gialla e purea di mele

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Vista ch' e bbe la guida, - maledetto!- disse tra sè: – che tu m' a bbia a venir sempre tra’ piedi, quando meno ti vorrei! -Data poi un' occhiata in fretta a Renzo, disse, ancora tra sè: non ti conosco:ma venendo con un tal cacciatore, o cane o lepre sarai: quando avrai detto due parole, ti conoscerò. -– Però, di queste riflessioni nulla trasparve sulla faccia dell' o ste... Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. XIV

Tutto ebbe inizio con nostro bisnonno Remigio che, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, decise di aprire ben quattro osterie in questa zona, posta a cavallo delle attuali province di Reggio Emilia e Parma, commercializzandovi il vino che imbottigliava. Era un grande personaggio, pioniere e precursore per i suoi tempi, avendo intuìto con cent’anni d’anticipo quale fosse il significato della filiera corta e il vantaggio che procurava il saper chiudere il cerchio fra il sistema produttivo e il mercato; una perspicacia che lo portò a gestire un podere con vigneto, di proprietà del padre Leonardo, nella zona di Gaida (in prossimità dell’attuale Cantina); dette poi la conduzione di quelle attività commerciali alle sue bellissime quattro figlie e impegnò, invece, i suoi tre figli maschi nel lavoro in cantina e nella distribuzione dei vini che, dopo essere stati imbottigliati, erano messi in gabbie e trasportati sui calessi nei locali della zona. A quei tempi le osterie non erano solo un luogo dove si somministrava del vino e del cibo, ma angoli

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di conviviale socializzazione in cui gli uomini della comunità si ritrovavano per parlare e tramandare oralmente la tradizione che racchiudeva gli elementi di quella cultura contadina che, in queste campagne emiliane, si respirava ancora. Queste osterie erano, inoltre, dei precisi punti di riferimento per quanti viaggiavano per strada o per ferrovia. Si trattava di locali dai nomi strani, magari indicati semplicemente solo da una frasca posta lungo la strada, sulle cui insegne venivano raffigurati leoni, corone o spade. Quelli di Remigio si chiamavano La Grotta, Da Mafalda, Scorzamara e La Stazione, essendo quest’ultima annessa al Dopolavoro Ferroviario della stazione di Parma. In tutti questi luoghi veniva proposto quel Lambrusco che, da oltre cento anni, rappresenta il fiore all’occhiello della nostra azienda. Osterie nate dalla genialità di quell’uomo e che sono rimaste attive fino a circa una ventina di anni fa. Tutto, quindi, è partito da lì e in quegli anni è iniziata la nostra storia, che è poi proseguita subito dopo la Seconda Guerra Mondiale con nostro nonno Ermete, uno dei sette figli di Remigio, che ampliò i mercati, mettendo di fatto le basi di quella moderna azienda, alla guida della quale subentrarono i suoi due figli Valter e Giorgio Medici e oggi noi, Paolo, Pierluigi, Alberto e Alessandra, che rappresentiamo la quarta generazione. A differenza di Valter e Giorgio, che nel 1964 dovettero entrare in azienda velocemente e con grande senso di responsabilità, interrompendo gli studi a causa della morte improvvisa di Ermete, il nostro ingresso è invece figlio di un personale ragionamento e non è dovuto né alla logica emotività di sentirsi responsabili del futuro dell’azienda di famiglia, né ad una ragione di puro interesse, né ad uno spirito di emulazione. Ognuno di noi è arrivato in azienda seguendo strade ed esperienze diverse, decidendo liberamente di confluire nell’attività familiare con l’intento di dare il proprio contributo al rinnovamento della leadership della cantina Medici Ermete & figli. Come i nostri genitori si divisero i ruoli e le


Paolo, Valter, Pierluigi, Giorgio, Alessandra, Alberto Medici

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responsabilità, anche noi ci siamo suddivisi le competenze all’interno della struttura operativa, stabilendo chi doveva fare cosa, non tramite una decisione collegiale presa a tavolino, ma lasciando che ognuno facesse spontaneamente “uscir fuori” le sue personali attitudini, per arrivare autonomamente al settore che più gli si confaceva. Così oggi Alberto, seguendo le orme e i consigli del padre Giorgio, si occupa dell’area commerciale, Pierluigi, seguendo i consigli di suo padre Valter, si occupa dell’area commerciale e produttiva vitivinicola, Paolo, commercialista, ha ritenuto gli fosse più congeniale seguire gli aspetti amministrativi, mentre Alessandra, avendo acquisito una forte esperienza nel mondo dell’arte e della moda, ha scelto di occuparsi delle pubbliche relazioni. Un gruppo ampio, giovane, che sa porsi in equilibrio e amalgamare i sentimenti affettivi e di parentela che ci legano con le nostre qualità caratteriali, riuscendo a stare insieme in armonia. Un gruppo affiatato che opera con lo stesso spirito che decenni addietro ha caratterizzato il lavoro di Giorgio e Valter, prima quello di Ermete e prima ancora quello di Remigio; questo spirito ha marchiato fortemente la filosofia aziendale che ha sempre puntato ad un’alta qualità dei vini commercializzati, elemento caratterizzante garantito oggi dal lavoro svolto nelle nostre tenute, all’interno delle quali viene riposta una particolare attenzione alla viticoltura. Non è un caso che oggi tutti i nostri vini più importanti provengano da vigneti di proprietà, attraverso i quali cerchiamo di ridare dignità enologica e vitivinicola al nostro territorio e a questo Lambrusco che merita molta più considerazione di quanto in Italia gli venga data. Così, dopo quasi un secolo, la storia continua e quella tradizione che ci identificava come imbottigliatori si è evoluta e trasformata, collocandoci oggi fra quei produttori che contribuiscono a dare una nuova immagine del Lambrusco Reggiano. Senza timori e sicuri di ciò che facciamo ci presentiamo con il nostro Lambrusco al mondo, cercando di vincere la sfida che ci vede impegnati da anni con l’intento di offrire ai mercati internazionali vini in milioni di bottiglie di qualità unica. Una missione intraprendente e difficile, perseguita con soddisfazione da tutti noi e che ci fa comprendere che il futuro del nostro vino è ancora un orizzonte tutto da scoprire.

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ARTE E CONCERTO REGGIANO DOC LAMBRUSCO ROSSO SECCO Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Lambrusco provenienti dal vigneto (Tenuta) Rampata, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Montecchio Emilia, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 20 anni.

Quantità prodotta 150.000 bottiglie circa

Uve impiegate Lambrusco Salamino 100%

Note organolettiche Il vino si presenta all’esame visivo con una schiuma cremosa e purpurea colorando il bicchiere di un rosso cupo fitto e concentrato; all’esame olfattivo si propone vinoso, con netti profumi di frutti rossi del sottobosco come il lampone e anche di prugna, oltre a note floreali di geranio e petali di rosa canina, con un finale minerale e nuances ferrose. In bocca risulta piacevole, fresco, equilibrato, sapido, di grande beva, con percezioni fruttate finali simili a quelle percepite al naso.

Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato

Prima annata 1993

Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni di origine alluvionale, ad un’altitudine compresa tra i 60 e 70 metri s.l.m., con la direzione dei filari a nord-sud.

Densità di impianto 3.900 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto viene immesso in fermentini di acciaio dove, a contatto con le bucce, viene fatto macerare a bassa temperatura per 5-6 giorni. Successivamente, dopo una breve filtrazione, il vino è travasato in autoclavi e inoculato con lieviti selezionati per consentire lo svolgimento della fermentazione alcolica e avviare la presa di spuma. Al termine di questa fase, che si protrae per circa 30 giorni ad una temperatura compresa tra i 13 e i 15°C, il vino viene raffreddato e mantenuto a basse temperature per circa 20 giorni, durante i quali avviene la stabilizzazione; successivamente si ha una nuova e più lieve filtrazione prima che il vino venga imbottigliato e dopo 1 mese commercializzato.

Le migliori annate 1993, 1995, 1998, 1999, 2000, 2002, 2004, 2005, 2006, 2008 , 2009 Note Il vino, che prende il nome dalla passione che la famiglia Medici ha da sempre verso la musica, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 2 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Medici dalla fine dell’Ottocento, l’azienda agricola si estende su una superficie di 60 Ha, di cui 55 vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Angelo Chezzi e l’enologo Otello Venturelli.

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Va, pensiero sull'a li dorate, va, ti posa sui clivi, sui colli ove olezzano libere e molli l’aure dolci del suolo natal! Del Giordano le rive saluta, di Sïonne le torri atterrate... Oh mia patria sì bella e perduta! Oh membranza sì cara e fatal! Arpa d'or dei fatidici vati, perché muta dal salice pendi? Le memorie nel petto raccendi, ci favella del tempo che fu! O simìle di Solima ai fati traggi un suono di crudo lamento, o t'ispiri il Signore un concento che ne infonda al patire virtù! Giuseppe Verdi, Nabucco, Coro degli schiavi Ebrei, Parte Terza, Scena IV.

Mi fermo un po’ alla “solina” - come usiamo dire noi toscani quando ci lasciamo scaldare dai primi raggi di sole primaverili - restando ad osservare il paesaggio sottostante che declina leggermente verso la bassa pianura parmense, scoprendo di trovarmi al cospetto di un luogo meraviglioso che mi fa comprendere quanto l’Emilia Romagna sia un’altra regione italiana bellissima. Una terra che non conoscevo, sorprendente per la sua unicità e per la suggestione del paesaggio, che si distingue dalle altre zone d’Italia fin qui visitate. Ambienti unici che riescono a stupirmi, facendomi riflettere su quanto sia stato fortunato a nascere in uno dei paesi che per biodiversità, bellezza e

Monte delle Vigne -

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storia è al primo posto al mondo. I luoghi in cui mi trovo adesso sono “Li monti de le vigne”- come usava chiamarli Fra’ Salimbene nelle sue cronache medioevali - dolci colline, che avendo alle spalle le alte montagne appenniniche, si sono adagiate sulla riva destra del fiume Taro. Increspature collinari che arrivano fin oltre i 300 metri s.l.m., e sulle quali è situata l’azienda Monte delle Vigne che rappresenta la passione e insieme l’amore per questa terra da parte di Andrea Ferrari e del Cavaliere del Lavoro Paolo Pizzarotti. Apro e chiudo gli occhi per provare ad emozionarmi ancora; è un gesto semplice, il più “minimalista” che io possa fare per godere più volte di questo luogo che sembra pensato da Dio.

Entrando nella cantina, una struttura funzionale e moderna, trovo appeso un grande cartello sul quale vi è l’immagine di Andrea Ferrari e un suo scritto in cui si racconta che il “Nabucco, prima di diventare un vino, è stato un sogno. Il sogno di un vignaiolo da anni convinto che la terra o meglio i Colli di Parma possano dare di più, enologicamente parlando. Quanto di più è stato difficile dimostrarlo. C’è voluta tenacia, esperienza, ottimismo e ambizione. Da allora è passato qualche anno e importanti risultati sono arrivati. Io sono certo che tanta strada sia ancora da percorrere e che questo sia solo l’inizio del cammino”. Mentre le note immortali della musica verdiana mi risuonano nella


Andrea Ferrari

Nome

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mente, mi convinco di essere arrivato in un luogo dove cultura, ambiente e uomo hanno trovato una grande intesa basata su scienza, conoscenza, capacità e affidabilità. Sono i cardini sui quali si basa la filosofia aziendale, come mi viene confermato dal cordiale Andrea Ferrari, il deus ex machina aziendale, un imprenditore di prima generazione, un farmer inside, con l’agricoltura dentro, come ama dire, costruitosi nella viticoltura a cui è arrivato percorrendo il sentiero a ritroso che conduce dalla commercializzazione del vino alla terra, avendo la fortuna di incontrare su questo cammino persone che hanno creduto in lui e gli hanno dato fiducia. Una terra che, del resto, lo aveva segnato profondamente, fin da piccolo, avendo avuto la fortuna non solo di nascere in campagna, ma di avere anche dei nonni che gli hanno trasferito un senso

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genuino del bello e del naturale, un vero e proprio imprinting molto simile a quello con il quale il grande biologo Konrad Lorenz influenzò l’agire delle sue oche che crebbero, fin da piccole, intorno ai suoi passi e, pur volando via, ritornavano sempre ogni anno a trovarlo. In effetti le prime persone o esperienze con le quali veniamo in contatto appena nati restano impresse per tutta la vita nel profondo dell’anima, pronte a riemergere e a riportarci alle nostre origini, qualunque esse siano. Origini che, almeno nel caso di queste terre parmensi, non prevedevano una grande tradizione enologica se non quella dei vini frizzanti fra cui anche quella Malvasia di Candia spumantizzata in autoclave; una tradizione sovvertita da lui e dall’enologo Attilio Pagli che insieme hanno costruito un percorso aziendale di grande livello dove vitigni come la Barbera e il Merlot sono stati allocati, e poi vinificati, per realizzare delle “sinfonie di gusto” uniche. Vini di cui tutti hanno parlato e che hanno ripagato in parte Andrea del grande impegno profuso; egli ha dato poca importanza al fatto che i suoi bianchi fermi non abbiano passato l’esame della commissione camerale, la quale lo ha costretto a declassarli a IGT, ma ha guardato, piuttosto, al pieno riconoscimento del suo lavoro da parte del mercato che, pian piano, ha iniziato a recepire e ad apprezzare non solo i vini, ma anche queste magiche colline che mi hanno incantato. Sono sicuro che il progetto iniziato sulle note del Nabucco continuerà ancora a far parlare di sé, riservandoci per il futuro chissà quali tonalità musicali, che spero riescano a rendere i vini di Monte delle Vigne unici ed inimitabili come le opere di Giuseppe Verdi.


NABUCCO IGT EMILIA ROSSO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Barbera e Merlot provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati proprio sopra le prime colline preappenniniche in località Ozzano Taro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 9 e i 30 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni argilloso-calcarei, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione ad ovest. Uve impiegate Barbera 70%, Merlot 30% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot semplice Densità di impianto 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica, fatta svolgere in tank di acciaio alla temperatura controllata di 25-28°C; contemporaneamente si procede alla macerazione del mosto sulle bucce che dura, a seconda delle annate, 18-20 giorni, durante i quali si effettuano follature e rimontaggi. Dopo la svinatura e una decantazione statica, il vino è mantenuto sempre nei tank di acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, in seguito alla quale è messo in barriques di rovere di 1°, 2° e 3° passaggio, dove rimane per 12 mesi; al termine di questo periodo si procede all’assemblaggio delle partite e a un breve periodo di stabilizzazione in acciaio; segue l’imbottigliamento del vino, che rimarrà in cantina per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della sua commercializzazione.

Quantità prodotta circa 22.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore rosso rubino intenso e quasi impenetrabile, con un’unghia violacea, il vino offre all’esame olfattivo sentori pieni, sanguigni e ricchi di frutti rossi e neri maturi (ciliegie, more, mirtilli e ribes) che si mescolano a percezioni del sottobosco, erbe officinali, floreali di petali appassiti di rosa rossa, con un finale minerale che sfocia in nuances speziate di cannella, vaniglia e cacao in polvere. In bocca risulta incisivo, ampio, potente, con una carica polifenolica e tannica ancora di là dall’aver sviluppato la sua potenzialità e sostenuta da una mineralità che conferisce lunghezza e persistenza. Chiude con le piacevoli note fruttate percepite al naso. Prima annata 1992 Le migliori annate 1993, 1997, 2003, 2006 Note Il vino, il cui nome è un omaggio all’opera verdiana, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda L’azienda agricola si estende su una superficie di 150 Ha, di cui 60 vitati e il resto occupato da bosco e campi coltivati. Federico Curtaz svolge le funzioni di agronomo, Attilio Pagli quelle di enologo.

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Un dè d’untòubar i s’è mèss a caminé te fióm èulta i santìr ad sabia (...) De mèr u i avéva zcòurs piò di tótt una piscèra che fina e’melanovzentoquarènta la i arivéva a là so in biciclètta (...) Rico e la Zaira i n éva mai vést e’ mèr che in linea d’ aria, pasénd da i sentìr de fióm l’ era a trénta chilometri gnénca (...) E’ caratèr u i invidé sòura la bròza par purtèi fina maròina (...) E’ caratèr u i à scargh ma tèra che ormai i era a du pas da l’aqua mo u i era una nèbbia ch’la cruvéva iniquèl (...) Lòt, lòt, lòt, lòt, i è arivàt a mètsi disdài sòura la sabia sótta e i stéva si ócc a guardè dróinta la nèbbia in dò che féva piò cèr e Rico u i géva d’avài pazinzia che da un mumént a cl’èlt l’a róiva e’ mèr. Un giorno di ottobre si sono messi a camminare nel fiume, lungo i sentieri di sabbia (...) Del mare gli aveva parlato più di tutti una pescivendola che fino al millenovecentoquaranta arrivava lassù in bicicletta (...) Rico e Zaira non avevano mai visto il mare che in linea d’a ria, passando per i sentieri del fiume era a nemmeno trenta chilometri (...) Il carrettiere li ha invitati sul barroccio per portarli fino a marina (...). Il carrettiere li ha scaricati a terra quando ormai erano a due passi dall’acqua, ma c’era una nebbia che copriva tutto (...) Piano piano sono arrivati a mettersi a sedere sulla sabbia asciutta e stavano con gli occhi a guardare dentro la nebbia dove faceva più chiaro e Rico le diceva di avere pazienza chè da un momento all’a ltro arriva il mare. Tonino Guerra, Il viaggio


Davide Bigucci


Basta guardarsi intorno per vedere quanto sia bella questa mia Romagna, divisa, com’è, fra mare e terra. Ma a renderla incomparabile non sono certo i suoi suggestivi paesaggi, ma la gente che la vive e la fa pulsare. Sono i romagnoli ad essere unici, anche se ormai stanno perdendo purtroppo, quella loro spavalda e gioviale convivialità che, certe volte, sfociava in allegria, e anche in un po’ di sana pazzia. Ancora oggi sono sempre pronti alla battuta, a far baldoria e a godere fino in fondo della vita in un modo che non ha eguali in nessun’altra parte d’Italia. Pensa che a Coriano, il paese sopra a Podere Vecciano, quando ero bambino, e quindi neanche tantissimi anni fa, il lunedì mattina in occasione del mercato si ballava. Tutti i lunedì che Dio metteva in terra si ballava ed era l’occasione per incontrarsi e divertirsi e molti contadini, per non perdere l’opportunità, erano disposti a lavorare la domenica pur di essere lì, il lunedì, a ballare. Una cosa unica mai esistita in nessuna parte del mondo, che è andata avanti, pensa, fino a quando io sono stato un giovincello. Tutto si svolgeva accanto all’osteria del paese che si chiamava ancora Il Grottino - e proprio lì intorno si ballava. Come puoi comprendere, questo è un territorio non particolare, ma speciale, incrocio fra terra e mare, due mondi che qui entrano in simbiosi a differenza di ciò che accade da altre parti dove sembrano distanti. Qui si avvicinano e si incontrano, dando origine alla Romagna, terra dove i marinai sono contadini e i contadini spesso sono anche marinai, gli uni con il desiderio di sentirsi lontani dalla salsedine e dalle bizze dell’Adriatico, gli altri per assaporare il senso di libertà e di apertura che solo il mare sa offrire. Pur essendo attratto dal mare, devo confessare che, fin da piccolo, ho sempre perseguito il sogno di fare il contadino ed era tanto forte il mio amore per la natura che, invece di vivere nella casa paterna e giocare con gli amici nella piazza del paese, preferivo stare nella casa degli zii, in campagna. Crescendo, la sensazione di

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appartenenza a questo mondo rurale si intensificò e non mi lasciai certo scappare l’occasione di acquistare questo podere, vicino al paese, iniziandovi a lavorare prima come escursionista equestre, attività che praticavo con quattro o cinque cavalli, conducendo piccoli gruppi di persone a visitare la zona e poi scoprendo, giorno dopo giorno quel mondo del vino, grazie anche ad alcuni viaggi in Francia e a qualche amico che vinificava in proprio. All’inizio portavo le uve alla Cantina Sociale e ogni anno che passava sentivo ripetere grandi discorsi sulle opportunità e su un futuro prossimo che, però, rimaneva sempre uguale all’anno precedente, un bla, bla, bla, dove non era mai menzionata la parola “qualità” che per me, invece, già allora era un chiodo fisso. Sono andato avanti così, per qualche anno, aspettando sempre che succedesse qualcosa di tangibile; alla fine ho fatto, forse, la scelta più importante della mia vita, decidendo di vinificare e imbottigliare ciò che producevo. Per 15 anni ho avuto la grande fortuna di avere a fianco mio padre Enio che, occupandosi dell’accoglienza, per la quale era particolarmente predisposto, mi permise di dedicarmi alla produzione senza troppe distrazioni. Così, guardando sempre il mare poco distante, ho costruito, piano piano, il mio sogno, stando sempre attento a fare il passo non più lungo delle mie possibilità. Un pezzo alla volta, curando i particolari e facendo attenzione ad ogni minimo dettaglio. Un’attenzione che si è ancora più accentuata con l’arrivo dei miei tre figli verso i quali nutro non solo un grande amore, ma anche un enorme senso di responsabilità che, in alcuni casi, mi frena, mentre in altri mi stimola a costruire un futuro anche per loro. Senza dimenticare il prezioso e straordinario supporto di mia moglie, senza la quale non sarei qui, a fare vino, ma, forse, su una barca a viaggiare... È la mia famiglia a trasmettermi quella giusta concentrazione e quell’energia di cui ho bisogno in campagna, grazie alla quale opero nella massima correttezza; ascoltando e seguendo i ritmi della vigna, operando correttamente e mettendo in atto le giuste pratiche produttive, ho la possibilità non solo di innalzare la qualità e la salubrità dei vini che commercializzo, ma di contribuire a tutelare anche questo meraviglioso territorio, splendidamente vocato, che si tuffa nel mare.


VIGNALAGINESTRA COLLI DI RIMINI DOC REBOLA Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Rebola provenienti dal vigneto Vignalaginestra, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Coriano, sulle primi appendici dei colli Riminesi, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 15 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni mediamente argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 60 e i 100 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate Rebola 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione pellicolare in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 18°C. Dopo 3 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 12°C, il 30% del mosto è inserito in acciaio, mentre il resto è messo in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura; qui una volta inoculati i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che dura circa 10 giorni ed è svolta, almeno per la parte in acciaio, a temperatura controllata. Trascorsi 4 mesi nei rispettivi contenitori, dove si provvede ad effettuare periodici bâtonnages, al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità, si effettua l’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6-8 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 4.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Un vino molto particolare, originale, prodotto con l’utilizzo di un vitigno autoctono non molto diffuso neanche nella zona. Si presenta all’esame visivo con un colore giallo paglierino ricco di brillanti riflessi dorati, mentre all’esame olfattivo si affida a note piacevoli e suadenti, a percezioni aromatiche dolci, che spaziano da quelle floreali di acacia, ginestra e camomilla e quelle di frutta a pasta gialla matura, proponendosi con un finale fresco, leggermente vegetale e minerale. In bocca ha un’entratura ampia, armonica, sorretta da una splendida acidità che contribuisce a dare equilibrio al vino e a renderlo piacevole alla beva. Prima annata 2000 Le migliori annate 2003, 2004, 2006, 2007, 2008 Note Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda Di proprietà di Davide Bigucci dal 1989, l’azienda agricola si estende su una superficie di 11 Ha, di cui 10 vitati e 1 occupato da oliveto. Collaborano in azienda l’agronomo Remigio Bordini e l’enologo Sergio Parmeggiani.

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Beviamo e ribeviamo il Sangiovese; e, nonostante il continuo rinforzo di piadine e di squacquerone, presto siamo anche troppo felici. Mario Soldati, Viaggio in Emilia Romagna

Lascio la Via Emilia all’altezza di Forlì e m’inoltro lungo la SP4, una strada che, passando per Civitella di Romagna - dove ho appuntamento con l’azienda Poderi dal Nespoli - e valicando il passo della Calla, arriva in Toscana, nel Casentino. Guidando, ripenso alla notizia che ho saputo stamani, mentre mi trovavo in un’altra azienda vitivinicola, e cioè che il simbolo del Gallo, antico emblema della Romagna è stato, come si sa, attribuito a un famoso Chianti, evento che ha costretto i viticoltori romagnoli ad utilizzare, come emblema per i loro vini, il volto, barbuto e

Poderi dal Nespoli 1929 -

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simpatico del Passatore, il bandito la cui immagine, appesa in ogni cantina che mi reco a visitare, trovo non abbia personalmente un grande nesso né con i vini, né con la reputazione dei produttori di questo territorio. Non credo, però, sia importante il mio pensiero, né tantomeno se sull’etichetta di un vino viene raffigurata una cresta o una barba: l’importante è che il vino sia buono. Riflessioni che mi servono, una volta giunto a destinazione, come spunto di partenza per aprire l’incontro con Fabio Ravaioli, uno dei titolari dell’azienda Poderi dal Nespoli, fantastico e solare romagnolo dal cappello in testa, come il Passatore, e baffetti alla Clark Gable. Mi conduce a visitare la cantina e, pur avendo molto da dire sul mondo del vino di questa regione, mi sembra voglia tenere un certo distacco, come se in fondo la cosa non lo riguardi... Ma le mie impressioni si dimostrano subito errate. Infatti, scopro che non avrei potuto avere un interlocutore migliore per parlare di vino e, soprattutto, di quel Sangiovese di Romagna che fa così tanta fatica ad emergere nel panorama enologico nazionale. Quella di Fabio è un’esperienza consolidatasi in oltre venticinque anni di attività nel mondo del vino, a cui - mi confessa - deve molto, se non tutto, nel quale la sua famiglia opera da generazioni e dove lui si è ritagliato il ruolo di responsabile commerciale della società. Ci vuole poco per entrare in empatia con una persona come lui, affabile, schietta, pragmatica; ci ritroviamo a parlare delle evoluzioni e dei cambiamenti che hanno interessato negli ultimi dieci anni il settore enologico di questa Romagna, passato da un tradizionalismo estremo ad un modernismo assoluto, per fare, poi, ritorno ad una rivalutazione completa dei vitigni autoctoni, nello strenuo tentativo di recuperare quote di mercato. Un’evoluzione che ha visto nascere, da un lato vini giovani, fruttati, beverini e poco impegnativi e dall’altro vini neri, dolci, opulenti e grassi, maturati in ogni genere di legno; nel frattempo si è assistito al cambiamento radicale dei mercati e delle abitudini di quel consumatore finale che, da preda ambìta, è divenuto sempre più un predatore, con la capacità di discernere e decidere cosa comprare e cosa bere, prescindendo dalle guide e dai consigli di tutti quegli winemaker famosi che animavano le cantine. Un cambiamento epocale che, secondo Fabio, molti non hanno percepito e al quale, invece, la sua famiglia e Gianni Romanini, socio storico dell’azienda, hanno risposto con strumenti adeguati, attuando, ormai da anni, una sana e costruttiva politica con la quale è stato tenuto in equilibrio il rapporto qualità-prezzo dei vini commercializzati. Per saper interpretare i cambiamenti e, certe volte, gli umori dei mercati, ci vuole


Fabio Ravaioli 199 - Emilia

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quell’esperienza che Fabio, entrato in azienda nel 1987, quando ancora era giovanissimo e stava riprendendosi da un grave incidente motociclistico, ha acquisito al fianco non solo del cugino Valerio che, essendo più grande di lui, era già ben inserito nel settore, ma anche di uomini preparati e capaci come Alberto Antonini, Federico Curtaz, Giampiero Romana, Beppe Caviola, Fabrizio Moltard: tutti professionisti esperti e competenti che lo aiutarono a comprendere i meccanismi che regolano la produzione enologica; tecniche e conoscenza che Fabio utilizzò nella commercializzazione dei vini aziendali quando li proponeva in giro per il mondo. Un’esperienza che gli ha fatto comprendere sempre più quanto sia importante la salvaguardia e la tutela di quello stesso ambiente in cui era cresciuto e verso il quale si era sempre adoperato, affinché venisse difeso dalla mancanza di sensibilità e di conoscenza che aleggiava imperante un po’ ovunque, a qualsiasi livello sociale, e da cui Fabio si è sempre sentito esente, forse grazie alla grande fortuna di essere cresciuto in una famiglia dove c’era un’istruzione superiore alla media, che si apriva al mondo con una mentalità cosmopolita e che, fin dall’immediato dopoguerra, aveva operato su molti mercati, locali, nazionali ed internazionali. Questi elementi, nel tempo, sono divenuti il vero valore aggiunto del suo agire,

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tutti collegati al mondo del vino, alla generosità del suo territorio e alle capacità di chi lo ha preceduto, da cui egli ha ricavato gli strumenti per costruire ciò che oggi gli consente di avere il giusto successo. Con la schiettezza linguistica e la franchezza d’animo che lo caratterizzano, Fabio ammette, senza pudore, di aver commesso molti errori in questi anni, tra i quali, forse il più grande, è stato quello di aver dato per buono tutto ciò che non era Sangiovese, accorgendosi però, prima di altri, che quel vitigno era la vera forza prorompente con la quale l’azienda e questo suo territorio avrebbero potuto reggere al cambiamento e farsi conoscere sui mercati. Ecco la molla che lo ha spinto a lottare per non perdere quella che, secondo lui, rappresenta l’eredità più importante lasciatagli dalla famiglia e che consiste in un patrimonio genetico di viti unico, da tramandare, che Fabio, con la sua consueta sensibilità, ritiene non sia soltanto suo, ma rappresenti, invece, un’eredità comune di chi, con lui, abita la sua stessa terra. Questo lavoro ha costruito reddito che - assicura Fabio - è sempre stato investito in azienda, comprando nuove terre sulle quali impiantare altre vigne o realizzando mille altre piccole e grandi opere; presto vedranno inizio i lavori per la ristrutturazione di tutta la cantina, con l’ambizione non solo di migliorare tecnicamente la struttura aziendale e la sua stessa immagine, ma anche di innalzare la qualità della vita per sé, i suoi cari e le generazioni future, alle quali far comprendere quanto sia importante vivere in un ambiente salubre e genuino. Dopo mezza giornata trascorsa insieme è l’ora di andare. Ci salutiamo e, mentre salgo in macchina, lo vedo allontanarsi; con gesto elegante si rimette il cappello per sparire di lì a poco dietro l’angolo della sua cantina.


PRUGNETO SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE Zona di produzione Il vino è un cru realizzato con la vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, situato in località Cusercoli, nel comune di Civitella di Romagna, le cui viti hanno un’età media di 13 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni prevalentemente argillosi, ad un’altitudine di 180 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si effettuano la selezione e la diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica con l’utilizzo di lieviti selezionati. Questa fase si svolge in tini di acciaio per circa 10-12 giorni, ad una temperatura compresa tra i 26 e i 30°C; a fine fermentazione, dopo la svinatura, il vino è lasciato nei tini dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale un 30% della massa viene spostato in barriques nuove in cui rimane per 8 mesi; durante questo periodo si eseguono almeno 2 travasi. Terminata la maturazione si effettua l’assemblaggio delle partite e dopo 2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 3 mesi prima della commercializzazione.

Note organolettiche Di colore rosso rubino con riflessi purpurei, il vino si presenta al naso con percezioni olfattive fresche, vinose, piacevoli, tipiche di un bel Sangiovese giovane, ricco di frutti freschi rossi, come ribes, ciliegie e lamponi ai quali si aggiungono note di mandorle e spezie di pepe e ginepro. In bocca risulta dinamico, pulito, netto, elegante, con una fibra tannica fine e ben equilibrata che si mescola ad una bella sapidità che lo rende beverino e invita a riempire nuovamente il bicchiere. Prima annata 1968 Le migliori annate 1988, 1990, 1993, 1995, 1997, 1999, 2001, 2006, 2007, 2008 Note Il vino, che prende il nome dal podere omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda Di proprietà delle famiglie Ravaioli e Romanini e MGM Mondo del vino, l’azienda agricola si estende su una superficie di 67 Ha, di cui 41 vitati e il resto occupati da bosco e macchia mediterranea. Collaborano in azienda gli agronomi Valerio Ravaioli e Carlo Ammoniaci e gli enologi Giuseppe Caviola, Scipione Giuliani e Celita Ravaioli.

Quantità prodotta 93.300 bottiglie l’anno

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S'è seimper fat acsè e seimper sfarà acsè. Si è sempre fatto così e sempre si farà così. Non mi è mai piaciuto il concetto dell’immutabilità delle cose, né lo sciocco pensiero con il quale, erroneamente, si considera la tradizione un’entità statica, disconoscendo come, invece, essa nasca proprio in funzione del cambiamento che diventa infine successo. Non è forse vero che non esiste niente di statico, ma che, invece, tutto è in movimento? Quindi niente può risultare inamovibile, anche perché, se lo fosse, creerebbe monotonia e in essa non c’è amore e voglia di fare, né vitalità, né il desiderio di misurarsi, di progredire e di migliorarsi, né la capacità di mettersi in dubbio e veder sgretolare la cementificazione con la quale, le paure e i pregiudizi bloccano il pensiero e l’azione. Per comprendere questo basta pensare al distinguo che si è venuto a creare intorno al Lambrusco, che ha sempre dovuto combattere contro certe remore e giudizi precostituiti formulati da una sciocca critica specializzata che lo ha considerato un vino minore, declassandolo rispetto a prodotti “opulenti” di altre zone d’Italia - che per decenni sembravano essere l’unico punto di riferimento per “dare peso” alla parola vino - arrivando a farlo considerare, dal mercato nazionale, poco o nulla, mentre l’innovazione e l’arguto pensiero evolutivo dei suoi produttori lo hanno condotto non solo a rimanere il vino della vera tradizione enologica di questa regione, ma anche a raggiungere il prestigioso riconoscimento di essere il vino italiano più venduto al mondo. Un prodotto che, per me,

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rappresenta l’immagine stessa delle atmosfere familiari che respiro a casa, oltre ai profumi di quella gastronomia unica e ineguagliabile che ci caratterizza e odora di serena intimità domestica, nutrita da gesti buoni, semplici ma briosi, effervescenti e amorevoli che contraddistinguono il saper fare di noi emiliani. Messaggi intimi, veri, forti e anche un po’ rivoluzionari, che vorrei potessero essere percepiti dal mondo e da tutti quelli che stappano una bottiglia di Lambrusco. Non è che io abbia l’indole della rivoluzionaria, anzi, il contrario; mi sono accorta, però, che forse è giunto il momento di incominciare ad esserlo, affermando in modo perentorio quale è l’impegno che serve per produrre una bottiglia di buon Lambrusco e definire perciò quale dovrebbe essere il vero ruolo di questo vino nel contesto enologico nazionale. Ci vorrebbe un’azione forte, e non tanto per sottolineare che siamo i più bravi o i migliori produttori italiani, ma per dare il giusto valore a tutto ciò che abbiamo fatto durante l’ultimo mezzo secolo di storia di questo vino, impegnandoci a valorizzare le esperienze accumulate in vigna e in cantina, riuscendo così a soddisfare un mercato che, in tutto questo tempo, ha cambiato ripetutamente i suoi gusti. Un processo evolutivo che ha significato anche riuscire ad abbattere molte remore e pregiudizi che si trovavano all’interno delle stesse aziende, le quali hanno fatto molta fatica a introdurre una minima sperimentazione e quelle novità che, come nel mio caso, ritenevo indispensabili per intervenire su una tradizione vitivinicola familiare che da troppo tempo era rimasta statica, essendo figlia di quella praticata in questo bellissimo territorio non ancora giustamente valorizzato. Ti dico questo a ragion veduta, facendo parte, da più di quattordici anni, del Consiglio di Tutela del Consorzio del Lambrusco, nel quale ho sempre combattuto una personale crociata, affinché fosse innalzato il livello comunicativo e l’immagine del Lambrusco, non tanto per spostare più in alto quel concetto socialpopolare all’interno del quale si è sempre collocata l’immagine di questo vino, ma per mettere il Lambrusco ai primi posti dell’enologia mondiale per difficoltà produttive, qualità e numeri, essendo un vino


Paola Rinaldini, Marco, Luca, Angelo Melegari

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unico, territoriale, inimitabile, degno rappresentante di questa Regione che, più di ogni altra, identifica lo stile italiano. Cambiare, quindi, pur rimanendo compatibili con quella tipologia produttiva dei contadini, mantenendo vivo tutto il meglio di quella cultura e gettando l’inutile, facendo contemporaneamente attenzione ad ogni piccolo particolare che attiene al passato e ad ogni piccolo cambiamento che riguarda il futuro. Un’attenzione che in me non è mai venuta meno, poiché quest’azienda assume ai miei occhi anche un grande valore affettivo e la sua storia coincide con la mia, essendo anch’essa figlia di mio padre Rinaldo che la comprò alla fine degli anni Sessanta, quando io ero ancora piccola, per soddisfare soprattutto le esigenze ortofrutticole ed enologiche del ristorante “MORO”, che egli già possedeva a Sant’Ilario d’Enza. Un’azienda nella quale sono cresciuta, ritrovandomi ora fra i fornelli e i tank di acciaio della cantina, ora fra i taglierini e il mosto o fra i filari delle viti e i tavoli del ristorante che poi vendemmo molti anni dopo. Diventando adulta mi sembrò logico rimanere qui dove ero cresciuta, anche perché, per me, questa è casa mia e qualsiasi sacrificio abbia fatto o qualsiasi rinuncia sarò costretta a fare, non mi allontanerà mai da questo luogo, né cambierà l’amore che nutro per queste quattro mura e per questi quindici ettari di vigneti. È qui che sono diventata vignaiola ed è qui che mi sono sposata con mio marito Marco, che collabora con me; è qui che ho visto crescere mio figlio Luca, che è ora sulla scavallatrice, e mia figlia Monica che sta concludendo l’ultimo anno di Enologia all’Università di Milano. Come vedi, tutto è in movimento e ritmato da quella mentalità contadina di una volta: tutto è diviso fra passato e futuro e mi ritrovo ad andare avanti, tenace, testarda e determinata, dando voce a ciò che sento dentro, cercando di pronunciare le parole giuste per trasmettere tutto il buono e l’utile di questa tradizione territoriale emiliana e la bellezza di questo nostro Lambrusco.

Rinaldini - Azienda Moro

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VECCHIO MORO LAMBRUSCO DELL’EMILIA IGT Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Lambrusco, Ancellotta e Marzemino provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Calerno, nel comune di Sant’Ilario d’Enza, le cui viti hanno un’età di 22 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su un terreno di origine alluvionale misto-ghiaioso, ad un’altitudine di 64 metri s.l.m., con un’esposizione a est-ovest. Uve impiegate Lambrusco Grasparossa 85%, Ancellotta 10%, Marzemino 5% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto circa 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla prima-seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vinificatori, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura di 23-25°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura tramite pressatura soffice, il vino è posto in vasca dove decanta in modo naturale; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 15-20 giorni. Terminata la maturazione, il vino è messo in autoclave per la rifermentazione e la presa di spuma tramite innesto di lieviti selezionati; questa fase si protrae per circa 30 giorni ad una temperatura di 20°C, quindi il vino è stabilizzato con refrigerazione a -5°C per circa 40 giorni e in seguito è

imbottigliato per un affinamento di almeno 1 mese prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 50.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Il vino si presenta all’esame visivo vestendo il bicchiere di una spuma cremosa e compatta, con un colore rosso impenetrabile; all’esame olfattivo si offre giovane, vinoso, fragrante, con note mature di frutti del sottobosco rossi e neri (ribes, mirtilli, fragole selvatiche) oltre a percezioni di semi di melograno, rosa canina ed erbe officinali. In bocca è piacevole, fresco, con una buona vena di acidità che si amalgama perfettamente ad un certo residuo zuccherino, contribuendo a rendere il vino piacevole, beverino e di buona persistenza. Prima annata 1996 Le migliori annate 1999, 2004, 2007, 2009 Note Il vino prende il nome dal soprannome del nonno “Moro” e la prima annata prodotta è avvenuta in occasione del centenario della sua nascita; raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 4 anni. L’azienda Di proprietà di Paola Rinaldini dal 2002 - donata dal papà Rinaldo, fondatore nel 1970 l’azienda agricola si estende su una superficie di 15,50 Ha, tutti vitati. Collabora in azienda l’enologo Luca Zavarise.

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Penso che forse a forza di pensarti potrò dimenticarti, amore mio Patrizia Cavalli, Poesie

È una storia che, ogni tanto, capita di sentir dire, ma non è facile trovarne di simili tra le pieghe dei giorni. È una storia di passione che coinvolge e si decuplica in modo esponenziale, fino al punto di apparire non più una, ma un “insieme” di storie differenti e vicine, più di quanto si pensi. È soprattutto una storia d’amore elargito per soddisfare un irrefrenabile moto dell’animo verso gli altri e verso ogni cosa bella della vita. Un dono da offrire a chi si è perso e ha bisogno di ritrovarsi, a chi, emarginato, sente il bisogno di unirsi, a chi non è mai stato capace di amare e ha deciso di imparare; a

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chi non si era mai accorto di quanto i sentimenti siano capaci di colorare il presente e il futuro dei suoi giorni, facendogli ritrovare il piacere di vedere l’esistenza in technicolor. È una storia che devi saper interpretare e avere la predisposizione ad ascoltare. È nata così dal niente, lì in cima a una collina posta vicino all’azzurro e al blu del cielo e a quelle stelle che, da lassù, si specchiano con quelle più giovani cadute a terra. Una storia iniziata con il passaparola, intorno a questo lembo di Romagna, su quelle alture dietro Rimini, verdi come il verde della vite, quando la vite è verde, o gialle come il grano, quando il grano è giallo come l’oro, lì dove ogni cosa è dipinta con il colore giusto, e si armonizza con le altre infinite cromìe che compongono il quadro disegnato da chi, con fede, ha saputo amare il prossimo come se stesso. È questo ciò che ha spinto mio padre a ridare delle ali più forti a chi aveva voglia di ricominciare a volare. Non so se ciò che ha fatto è stato rivoluzionario, ma è certo che la storia di questo “colorificio dell’animo” da lui costruito è una di quelle cose che ha portato moltissime persone a riflettere, spingendone anche molte altre a compiere un gesto d’amore e aprire il proprio cuore ai più deboli, con l’obiettivo di farli diventare una straordinaria fonte d’energia per chiunque viva, direttamente o indirettamente, questo luogo. È grazie a questa convinzione da singolo, umile e modestissimo uomo della strada, che mio padre ha dato vita alla Comunità di San Patrignano che ha raggiunto, grazie al suo impegno e alla sua capacità di “vedere oltre”, una dimensione internazionale. San Patrignano, infatti, è un’organizzazione non governativa accreditata dalle Nazioni Unite come una tra le esperienze più significative ed efficaci nel recupero e nel reinserimento sociale e lavorativo dei tossicodipendenti del mondo. Con la sua straripante energia ha insegnato a molti ragazzi della comunità a credere in se stessi e ad aver voglia di riprendere in mano i pennelli che avevano abbandonato, certe volte troppo precocemente, ricominciando a colorare le speranze e i sogni. No, non è una storia che puoi trovare facilmente sotto le pieghe dei giorni, perché è di quelle difficili, contrastate, che ha vissuto momenti splendidi, epici, tristi e altri drammatici in cui credevo che per bugie e cattiveria, tutto quello per cui mio padre aveva lavorato e dato la vita, crollasse e fosse spazzato via dalla bruttura di questo mondo che, incapace di sognare, boicotta chiunque provi a farlo. Confesso che è stato, per me, estremamente difficile assumere in prima persona la responsabilità di gestire l’eredità morale che lui aveva lasciato; ho dovuto rispettare fino in fondo la scelta delle persone che, insieme a lui, avevano guidato la Comunità, rappresentando San Patrignano nel ruolo di responsabile, impegno che cerco di svolgere nei miei limiti al meglio ogni giorno. In realtà mi sarebbe bastato poter


Andrea Muccioli

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rimanere qui, magari dando il mio modesto contributo a questo luogo nel quale sono cresciuto e rimasto fino al termine della mia adolescenza prima di affrontare un percorso formativo e di crescita personale che mi ha portato a viaggiare per il mondo e a laurearmi. Il mio è stato un ritorno consapevole, una scelta libera, affrontata senza dover rendere conto a un partito o una toga purpurea, ma solo seguendo l’esempio di chi aveva sempre confidato nella capacità che hanno sempre dimostrato i ragazzi di San Patrignano di saper ricominciare a sorridere. Dovresti vedere il loro sorriso, le loro lacrime e la disperazione dei loro occhi che si trasforma in gioia quando si rendono conto di avere delle ali sempre più robuste per poter volare. Qui imparano un mestiere, si impegnano, affrontano le tante difficoltà del loro percorso di crescita, preparandosi a tornare nella società, e nel mondo del lavoro, come persone finalmente libere, pienamente responsabili della loro vita e del loro futuro. Ognuno di loro e ognuno di noi prova un sentimento di appartenenza, si sente parte integrante di San Patrignano, assumendosi l’impegno di proteggerla e farla crescere. Ecco che allora anche il vino diventa il frutto del loro impegno e in questa bellissima tavolozza che è San Patrignano ben venga il rosso del vino, quando il vino è rosso.

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AVI SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località San Patrignano, nel comune di Coriano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 14 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni di origine calcareo-argillosa, ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 120 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato e guyot

Quantità prodotta circa 60.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un rosso rubino concentrato e luminoso con riflessi color granato nell’unghia del bicchiere, il vino si presenta all’esame olfattivo con sentori sapidi, minerali e marini che si mescolano a note fruttate di ribes e more mature oltre a piacevoli percezioni floreali, di cera d’api, legno di cedro, spezie dolci e humus. In bocca ha un’entratura ampia, slanciata, marcata, pulita oltre che netta, ponendo in perfetto equilibrio la potenza con l’eleganza, la freschezza con una fibra tannica ben strutturata e vellutata; è piacevolmente lungo e persistente con un finale fruttato e leggermente balsamico.

Densità di impianto 4.400-7.400 ceppi per Ha

Prima annata 1997

Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica, fatta svolgere in tank di acciaio per circa 12 giorni ad una temperatura controllata compresa tra i 26 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche con la macerazione sulle bucce che dura, a seconda delle caratteristiche dell’annata, per altri 7 giorni, con délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura e una decantazione statica, il vino, prima è lasciato in acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, e dopo è messo in botti grandi da 28 Hl in cui rimane per circa 24 mesi, periodo durante il quale si effettuano travasi a seconda delle esigenze. Terminata la maturazione e dopo un periodo di stabilizzazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 15-18 mesi prima della commercializzazione.

Le migliori annate 1999, 2000, 2004, 2005, 2006 Note Il nome è stato dato al vino dopo aver pensato al senso e al valore della tradizione e degli avi che l’hanno costruita, ma soprattutto al fondatore di San Patrignano, poiché AVI vuole significare anche un omaggio “A Vincenzo”. Raggiunge la maturità dopo 5 anni e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà della Comunità di San Patrignano, si estende su una superficie di 250 Ha, di cui 104 vitati, 8 occupati da oliveto e il resto dedicato a diverse altre colture. Collaborano in azienda l’agronomo Roberto Dragoni e l’enologo Riccardo Cotarella.

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Le occasioni della vita sono infinite e le loro armonie si schiudono ogni tanto a dar sollievo a questo nostro pauroso vagare per sentieri che non conosciamo. Pier Vittorio Tondelli, Pao Pao Mi mancavano pochi esami per laurearmi, ma, nonostante dovessi dedicare gran parte del mio tempo allo studio, non seppi resistere dal profondere un ulteriore sforzo partecipando intensamente, fin da subito, a tutte le attività che si svolgevano in quest’azienda agricola, situata in direzione del Monte Titano, sulle colline riminesi a pochi chilometri dal mare, che mio padre Giovanni acquistò nel 1990. Un’attività nuova per tutta la famiglia, basata principalmente sulla conduzione vitivinicola dei pochi vigneti di proprietà e della conseguente produzione di vino che, comunque, mi appassionava tantissimo, soprattutto per il fatto che si svolgeva all’aria aperta, consentendomi di usufruire e godere delle bellezze di questo territorio, nel quale volli venire a vivere subito. Fu, però, solo a partire dal 1997 che subentrai attivamente, insieme a mia sorella Maria Cristina, nella direzione aziendale, dove ero già impegnato assiduamente, avendo deciso, da molto tempo, di abbandonare l’idea di perseguire la carriera prospettatami dalla Laurea in Scienze Politiche, con la quale sarei sicuramente finito dietro una scrivania di un ufficio qualsiasi. Qui potevo essere il Roberto che volevo. In questo luogo, unico e sorprendentemente magico, avrei potuto costruire qualcosa di originale, di veramente mio e soddisfare l’indole creativa che mi caratterizzava, interfacciandomi con l’attività di vignaiolo, così complessa e articolata; per svolgerla mi sarebbe stato necessario non solo approfondire un’infinità di argomentazioni, che sarebbero andate dalla conoscenza dei sistemi tecnici e

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burocratici all’amministrazione e alle strategie commerciali e comunicazionali, ma avrei dovuto anche promuovere e vendere i vini, viaggiando per il mondo e divenendo, contemporaneamente, capace di progettare programmi operativi a media e lunga scadenza con cui disegnare nuovi scenari futuri. Abbandonando la strada intrapresa da mio padre e sapendo di non avere alle spalle un’azienda “storica” che potesse concedermi il vantaggio di far conto su una tradizione certa, iniziai da zero, impostando un’attività completamente nuova, il cui pregio maggiore era quello di essere inserita in un territorio vitivinicolo splendido, ma del tutto sconosciuto per quei tempi. D’istinto decisi che, se avessi voluto produrre vini diversi da quelli che aveva sempre fatto mio padre, staccandomi da quelle damigiane con le quali lui commercializzava ciò che produceva, identificando con esse l’azienda, avrei dovuto puntare tutto sulle inespresse qualità offertemi dal mio territorio, concentrandomi sulla ricerca di un’eccellenza con la quale far identificare agli altri i vini che sognavo di produrre (infischiandomene del fatto che ciò avrebbe comportato il dover passare attraverso un lungo periodo di ricerca e sperimentazione nelle vigne) e affrontando quella crescita personale e professionale necessaria per effettuare un importante salto qualitativo. Non mi sarei accontentato di qualcosa che fosse inferiore ai miei desideri, né sarei sceso a patti con le mie aspettative, pur essendo consapevole che per mettere in atto tutte le idee che mi frullavano in testa - e che riguardavano la necessità di

costruire una cantina, di rinnovare i vigneti e di acquistare nuovi e più tecnologici macchinari per la vinificazione - avrei avuto bisogno di investimenti importanti. È trascorso poco più di un decennio e se oggi dovessi elencarti come sia riuscito a far tutto quello che vedi senza perdermi d’animo un solo momento, non saprei da dove partire. Posso assicurarti che ho sempre confidato sulla buona sorte, sulla speranza e in quella buona stella che aiuta un po’ gli audaci e gli incoscienti, la stessa che mi ha spinto a cercare, fin dall’anno 2000, qualcuno che potesse aiutarmi in questo mio progetto; ho trovato, fortunatamente, lungo la mia strada quell’onesta e meravigliosa persona di Fabrizio Moltard con il quale ho disegnato quest’azienda così come è possibile vederla oggi, rendendola, almeno ai miei occhi, unica ed originale, anche nel suo aspetto, che la fa apparire viva e colorata, contraddistinguendone l’immagine. Insieme abbiamo perseguito gli obiettivi di rifare completamente i vigneti, progettati con un’alta densità per ettaro, dai quali ottenere basse rese produttive e grandi uve da vinificare con una tecnologia che, ogni anno, è andata via via modificandosi per arrivare, piano piano, ai parametri più moderni, come quelli di cui disponiamo oggi. C’è stato molto da fare per trasformare l’azienda, ma penso che siamo già a un buon punto, visto che, fino adesso, non ho nessun ripensamento, né rimpianto, né dubbio alcuno sulle scelte fin qui fatte, compresa quella di non aver puntato tutto sui vitigni autoctoni, verso i quali sembra vi sia una lieve predisposizione e attenzione dei mercati. Visti gli ottimi risultati


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che stiamo ottenendo, devo dire che, se tornassi indietro, rifarei esattamente tutto ciò che ho fatto, sopportando di nuovo quei sacrifici, quegli sforzi e quelle rinunce che sono state necessarie, ma con le quali sono cresciuto come uomo e come vignaiolo, scoprendo che per me questo non è soltanto un lavoro, ma una passione che cresce ogni anno di più e colora la mia vita, concedendomi gioie e soddisfazioni che non sono altro che la conseguenza di quell’impegno continuo con il quale sono riuscito a superare i tempi, neanche tanto lontani, in cui le cose erano ben diverse da come si prospettano oggi. Una costanza con la quale credo di aver contribuito a dimostrare come anche

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la Romagna pre-appenninica possa essere annoverata fra le più interessanti zone vitivinicole italiane, avendo dalla sua diversi elementi di unicità, come gli aspetti pedoclimatici caratterizzati da una proficua vicinanza al mare o quelli inerenti all’altimetria e all’esposizione delle zone vitate, oltre agli aspetti morfologici dei territori, ricchi di una forte mineralità. Tutti elementi che conferiscono grande potenzialità ad una viticoltura che, in termini qualitativi, ha davanti un futuro roseo, nonostante le difficoltà dei tempi in cui viviamo. Di questo sono assolutamente convinto, come lo sono altrettanto del fatto che, per ottenere il plauso e il giusto riconoscimento del mio lavoro, sarà necessario che io continui ad operare nella massima correttezza e onestà. Princìpi che appartengono a molti dei miei colleghi viticoltori di questa zona collinare, con i quali mi impegno per diffondere, sempre più, la conoscenza dei vini d’eccellenza dei colli riminesi, convinto assertore che l’unione fa la forza e che lo spirito di gruppo sia il più importante valore aggiunto del nostro lavoro e che questo possa creare attenzione positiva verso un territorio, così vicino, ma al tempo stesso così lontano da quelle affollate spiagge, i cui innumerevoli turisti difficilmente oltrepassano l’autostrada per venire in collina.


TERRA DI COVIGNANO SANGIOVESE DI ROMAGNA SUPERIORE RISERVA DOC Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località San Martino Venti, sulle colline alle spalle del comune di Rimini, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni argillosi con una forte presenza di calcare, ad un’altitudine di 100 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 7.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica con l’utilizzo di lieviti selezionati. Questa fase, svolta in tini di acciaio si protrae per circa 10-12 giorni ad una temperatura di 26°C; a fine fermentazione si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 7 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è lasciato nei tini dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in tonneaux nuovi di rovere francese da 400 lt in cui rimane per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano almeno 2 travasi. Terminata la maturazione, avviene l’assemblaggio delle partite e, dopo 2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta circa 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino si presenta all’esame olfattivo con spiccate note fruttate di ciliegie, ribes e mirtilli che si spalancano a profumi di erbe officinali come il timo e il ginepro, floreali di rosa rossa e di mammola, oltre a nuances speziate di rabarbaro. In bocca è ampio, ricco, armonioso e ben strutturato; elegante e potente, ma contemporaneamente fresco e in possesso di una fibra tannica ben evoluta; ciò lo rende lungo e persistente, con un finale piacevolissimo di cioccolato amaro e marmellata di prugne. Prima annata 2001 Le migliori annate 2001, 2002, 2003, 2005, 2007 Note Il vino, che prende il nome dalla collina alle spalle dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà di Roberto Mascarin dal 1990, l’azienda agricola si estende su una superficie di 12 Ha, di cui 9 vitati e il resto occupato da oliveto e annessi. L’azienda è in conversione biologica, in attesa di passare ad una coltivazione biodinamica dei vigneti. Collaborano in azienda l’agronomo Roberto Lucchi e l’enologo Benoît De Coster.

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“Guida poco perchè devi bere” Anonimo Bolognese L’incontro con il professor Francesco Lambertini, docente di Economia Aziendale all’Università di Bologna, è uno dei più simpatici che potessi fare in questo viaggio, durante il quale, per diverse settimane mi sono avventurato a salire e scendere questi Colli Bolognesi alla ricerca della migliore produzione vitivinicola di queste terre. Per giungere alla Tenuta Bonzara percorro la provinciale 26 Valle del Lavino, ritrovandomi poi a salire, dopo aver attraversato un piccolo ponte sul

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torrente Lavino, verso San Chierlo, arrivando fino alla sua sommità, a quota 500 metri s.l.m, dove si trova il vecchio Borgo della Tenuta Bonzara, dal quale godo della vista di un paesaggio incantevole. Francesco non solo è divertente, ma è anche un personaggio unico, preparato, attento e ironico, forse più con se stesso che con gli altri; una mente intelligente, consapevole di quanto siano molteplici i fattori che interagiscono nel sottile limite tra il successo o l’insuccesso nella vita di una persona. Per questo riesce anche a prendersi poco sul serio. Per capire di cosa stia parlando, basta entrare nella sala degustazione e nel suo punto vendita e leggere i cartelloni affissi alle pareti. Vi sono riportate citazioni ed epigrafi ironiche sul mondo del vino, fra le quali, una, proveniente da fonte a me sconosciuta, mi incuriosisce più di ogni altra: “Guida poco perchè devi bere!” Veramente fantastica. Sorridendo, mi ritrovo a parlare con lui e ci raccontiamo di quanto sarebbe bello che intorno al mondo del vino si respirasse un’aria meno pesante e seriosa di quella che invece c’è e che vi fosse più goliardia e maggiore propositività in tutti quelli che operano al suo interno, al fine di riportare il vino nel suo àmbito naturale e cioè sulle tavole della gente, dando meno considerazione a tutti coloro che lo hanno idealizzato a tal punto da renderlo incomprensibile ai più. Forse è per questo che a Francesco piace ironizzare su questo prodotto, accettando di riderci sopra e di farsi prendere anche un po’ in giro. Così ha fatto Giuseppe, un suo amico, il quale, riprendendo il Francesco-pensiero, ha voluto raccontarlo accomunandolo a quel Bonzarone che, fra l’altro, è il vino più rappresentativo dell’azienda. Mi soffermo nella lettura di un foglio appeso al muro in cui Francesco è scherzosamente chiamato con il nome di quel vino, indicato come soprannome derivante dal latino (Bonzaronis) con il quale viene identificato un proprietario di terreno agricolo collinare, più spesso viticoltore, le cui caratteristiche vengono tratteggiate, fin dal De Re Rustica di Lucio Columella, e la cui peculiare “medietas collinare” lo distanzierebbero ugualmente dall’angusto orizzonte e riservatezza del montanaro come dalla facile e ingenua apertura del fittavolo di pianura, ma anche da certa supponenza ed esclusivismo non raro nel cittadino. È proprio da questa “medietas collinare” che proviene anche


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la sua ironia, dimostrandosi cortese e ospitale, pur manifestando queste virtù in modo pudico e non plateale; essendo uno che non ama circondarsi di folle plaudenti, ma di amici fidati come quelli di un’assortita compagnia di comete in rapido volo. È generoso, non calcolatore, ma sapendo far di conto, quantifica il rischio in agguato fra colli e calanchi. Fra gli altri viticoltori spicca per il suo equilibrio a mezzavia tra scienza ed esperienza, tra innovazione e tradizione, tra passione e disincanto. Forli, 22 agosto di qualche anno addietro. Dopo aver letto, non posso fare a meno di ridere e inchinarmi davanti all’arguzia con la quale Giuseppe ha raccontato Francesco. Del resto, parlandogli non potrei far altro che sottoscrivere tutto della goliardica descrizione e non sapendo più cosa aggiungere a quel “Caro Francesco” con il quale inizia quella lettera, decido di iniziare a parlare con lui di quei cento ettari di proprietà, accorpati intorno all’azienda sulle pendici di questo monte, di quei quindici ettari di vigneti esposti nel versante sud della montagna e dei vitigni che identificano la produzione enologica che ho trovato, tutta, di buon livello. Un’azienda avviata confidando sull’aiuto e sull’amicizia di figure professionali fra le quali Mario Carboni, il cantiniere storico che ha affiancato Francesco e, in precedenza, suo padre Angelo sin dai primi anni e che ancora oggi, a 73 anni, resta una colonna portante dell’impresa, curando personalmente, con la vitalità degna di un ragazzino, tutta la parte agricola/viticola. Un percorso di crescita che ha visto il contributo, naturalmente, degli enologi che si sono alternati al suo fianco, scoprendo, piacevolmente, che le capacità professionali e le qualità umane dell’amico comune Vittorio Fiore sono state per lunghi anni a disposizione dell’azienda, contribuendo di fatto, come mi confida lo stesso Francesco, a dare avvio proprio a quell’ammodernamento del comparto vitivinicolo della Tenuta Bonzara avvenuto a partire dalla metà degli anni Novanta, dopo che suo padre Angelo, che aveva acquistato l’azienda nel 1963, e sua madre Aldina lo lasciarono da solo. Sono passati anni durante i quali non solo si sono alternati altri enologi, da Stefano Chioccioli a Lorenzo Landi, con il quale tutt’oggi l’azienda collabora, ma si è anche concretizzata quell’enorme passione dalla quale tutto aveva avuto inizio e non era mai venuta meno, nonostante la grande e infinita pazienza necessaria per rispettare i ritmi che la natura imponeva, nonostante l’ininterrotta sperimentazione affrontata per ottenere i risultati odierni e i continui investimenti che una cantina è costretta a fare per mantenersi al passo con i tempi, non solo in termini tecnici, ma anche strategici e culturali. Nonostante tutto lo vedo felice, perché, in fondo, sa di essere fortunato; sa di essere uno che ha potuto permettersi di vivere la sua avventura, quella che il destino gli aveva riservato. Più lo guardo e più mi rendo conto che ha dentro delle grandi motivazioni che creano progetti e nuove idee da confrontare con le persone che vengono a trovarlo in cantina, alle quali racconta non solo del vino, ma chi è realmente Francesco Lambertini.

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VIGNA ANTICA COLLI BOLOGNESI CLASSICO DOC PIGNOLETTO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dal vigneto Carrate, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Monte San Pietro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 30 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreno misto argilloso, ad un’altitudine compresa tra i 400 e i 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla fine di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve, mantenendo, con l’utilizzo di gas inerte, il mosto ad una temperatura di 3°C per circa 24 ore, prima che lo stesso, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, sia avviato alla fermentazione alcolica che si svolge per 14 giorni a 16°C in vasche di acciaio. Al termine dell’operazione si procede all’abbassamento della temperatura al fine di effettuare una decantazione del vino e l’allontanamento delle fecce grossolane esistenti, lasciando che lo stesso rimanga invece a contatto con quelle “nobili”, che, attraverso dei sur lies effettuati in vasca, garantiscono una maggior struttura. Verso la metà del mese di febbraio dell’anno successivo alla vendemmia avviene l’assemblaggio delle partite; seguono una lieve filtrazione e l’imbottigliamento del vino per una sua quasi immediata commercializzazione.

Quantità prodotta circa 4.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Un grande bianco questo Pignoletto, che propone all’esame visivo un colore giallo paglierino intenso e luminoso; all’olfatto offre note dolci che sorprendono: dai semplici profumi floreali ed erbacei dell’inizio si addentra poi in un percorso sensoriale fatto di nuances di cioccolato bianco, cui seguono percezioni nette di ciclamino e fruttate di ananas, mango, susina, pera e pompelmo rosa, con un finale di alga marina che incanta rimandando la memoria a vini d’oltralpe. In bocca risulta rotondo, ampio, complesso, equilibrato, facendo riemergere le note minerali e marine percepite al naso che danno al vino eleganza, lunghezza e persistenza. Prima annata 2000 Le migliori annate 2005, 2007, 2009 Note Il vino raggiunge la maturità dopo 1-2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Lambertini dal 1963, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, di cui 16 vitati e il resto occupato da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Mario Carboni e gli enologi Lorenzo Landi e Walter Iannini.

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Docus magna us ragna (Dove si mangia, a volte si litiga)

È strano come in questa regione mi sia imbattuto, più che da qualsiasi altra parte d’Italia, in aziende nelle quali ho riscontrato l’esistenza di consolidati e integri rapporti di parentela fra chi le amministra e le conduce e questo a prescindere dal fatto che siano piccole o grandi realtà. Ne ho trovati tanti di questi gruppi, tutti uniti e amorevolmente dediti alla costruzione di qualcosa d’importante, e ognuno dei membri della piccola comunità - posso personalmente assicurare - si sente impegnato per ottenere il massimo risultato possibile, con abnegazione e con il desiderio di

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stare l’uno accanto all’altro. Un quadro generale che non avevo mai riscontrato in nessun’altra zona vitivinicola; in Emilia Romagna, almeno per ciò che mi è stato dato di vedere, qui, in questo settore agricolo con il quale sono venuto a contatto, quell’agenzia di socializzazione che corrisponde alla famiglia, sembra abbia resistito allo sfaldamento avvenuto da molte altre parti. Una sensazione piacevole e rasserenante che si rafforza di più quando, arrivando alla Tenuta Casali a Mercato Saraceno, nell’entroterra di Cesenatico, mi trovo davanti ad un ennesima coppia di fratelli. Anche per loro produrre vino è un fattore familiare, legato alla tradizione nata con nonno Mario, loro mentore e tutor che conduceva la sua azienda agricola - posta fra il Monte Sasso, il fiume Savio e la E45 che da Cesena porta a Perugia - in modo promiscuo, come avveniva una volta un po’ dappertutto, e nella quale trovavano spazio 7 ettari di vigneto, 4 ettari di pescheti e una bella stalla con più di una dozzina di vacche: il tutto con l’intento di dare alternative economiche al reddito aziendale, al quale, come membri della famiglia dovevano contribuire anche gli allora giovani Paolo e Valerio. Fu quell’azienda la loro migliore scuola, non solo per avvicinarsi e appassionarsi al mondo agricolo, ma come vera e propria aula didattica di vita, con la quale imparare il significato del dovere e del rispetto; in età giovanile infatti, pur essendo liberi di andare a ballare, avevano l’obbligo, a prescindere dall’orario in cui decidevano di tornare, di passare sempre a controllare la stalla per vedere se tutto andava bene prima di coricarsi, sapendo che inderogabilmente alle quattro e mezza del mattino dovevano alzarsi per mungere o per raccogliere le pesche nel frutteto. Tanti ricordi con i quali sono cresciuti e che, da quello che mi raccontano, sono ben presenti nelle loro menti, anche se oggi, in azienda, non ci sono più né la stalla, né il pescheto, ma una bella ed efficiente cantina e 17 ettari di vigneti. Anche loro, come tutti gli altri, mi sembrano uniti e ben determinati, anche se sono certo che i loro rapporti non potranno essere solo idilliaci e non saranno sempre e comunque rose e fiori come mi appaiono in questo momento... Ci dovranno pur essere delle piccole e umane incomprensioni! Del resto, non è forse vero che in Romagna esiste il detto che “docus magna us ragna”, cioè dove si mangia, a volte si litiga? Sono sicuro, pur avendoli conosciuti da poco, che per evitare di litigare Paolo e Valerio Casali usano sempre l’intelligenza che hanno dimostrato anche davanti a me fin dalle prime battute: con essa cercano di risolvere i problemi e le divergenze, convinti che tutto


Paolo, Valerio Casali

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deve essere pianificato stando intorno alla tavola dove si mangia e non in piazza. Anche per loro essere fratelli comporta sicuramente una serie di impegni, ma anche la grande consapevolezza che, alla fine, è il sentimento a vincere su tutto e a far sì che ogni malumore si appiani; è senz’altro molto più rassicurante avere accanto una figura con cui poter condividere un rapporto di simbiosi sugli obiettivi imprenditoriali che invecchiare standosene da soli. Credo si possa arrivare a queste considerazioni attingendo quotidianamente a quei valori che provengono dagli insegnamenti del nucleo familiare in cui sono cresciuti e che oggi, più che mai, legano le rispettive famiglie,

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stimolando alla comprensione, alla cooperazione e alla solidarietà comune. Un po’ di merito in questo caso ce l’ha sicuramente Sergio, loro padre, che non solo ha mandato avanti per mezzo secolo la più bella macelleria di Mercato Saraceno, ma che è ancora al loro fianco per aiutarli e far sentire loro di essere ancora lì, dove è sempre stato in tutti i suoi settantacinque anni, con la certezza che con l’impegno e l’esempio si può cementare un’unione che a me sembra ben riuscita. Li guardo con un po’ d’invidia e mi chiedo se vi sia un ulteriore segreto nella loro innata capacità di saper costruire tutto insieme e lavorare entrambi per il bene comune dell’azienda. Cerco di “scalzare”, di scoprire e di conoscere altro, accorgendomi però che non c’è niente oltre a ciò che vedo e mi sento raccontare, tranne forse l’amore incondizionato che unisce questi fratelli romagnoli e che ognuno dei due si guarderà mai dal confessare all’altro.


QUARTOSOLE SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dalla parte alta del vigneto Baruccia, di proprietà dell’azienda, situato in località San Damiano, nel comune di Mercato Saraceno, le cui viti hanno 20 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni caratterizzati da argilla bianca, ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica spontanea. Questa fase si protrae per circa 20-25 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale si effettuano frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo in serbatoi di acciaio inox, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in tonneaux da 5 Hl di 1° e 2° passaggio in cui rimane per 12 mesi; durante questo periodo si eseguono travasi ogni 3 mesi. Terminata la maturazione, e dopo 10-12 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta circa 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi fitti e profondi, con note fruttate di visciole di grande maturità e finezza, percezioni di un pot-pourri di fiori rossi appassiti, rosa e violetta che si mescolano a sensazioni più morbide di spezie come pepe e mostarda, oltre ad un finale sapido di macchia mediterranea e minerale. In bocca è piacevole, armonioso, elegante, fresco, lungo e persistente, sorretto com’è da una fibra tannica ben integrata ad una buona acidità e ad una struttura polifenolica che arrotonda e ammorbidisce la vena alcolica. Prima annata 2003 Le migliori annate 2003, 2006, 2007 Note Il vino prende il nome da un cavallo che ha vissuto in passato in azienda e ha ispirato particolarmente verso il nome di questo vino che viene ottenuto dal vigneto più soleggiato della tenuta; raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà di Valerio, Paolo e Silvia Casali dal 1978, l’azienda agricola si estende su una superficie di 50 Ha, di cui 18 vitati, 1 occupato da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Stefano Biondi e l’enologo Emiliano Falsini.

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Sono sempre stato attratto dalla conoscenza, nel suo concetto più pratico di comprendere il più possibile le questioni che interagivano o potevano addirittura governare la mia vita, convinto che questo potesse aiutarmi a risolvere i dubbi e i problemi che insorgevano nel mio cammino, rendendolo più sicuro. Ciò mi ha spinto a comprendere la relazione esistente fra me e quello che stavo compiendo e quanto il relativismo che ne scaturiva potesse modificare di continuo la conoscenza senza allontanarmi dalla mia coscienza. Un lavoro che si andava ad affiancare agli altri più materiali e pratici che ho alternato nella mia vita e verso i quali mi sono sempre dimostrato pronto ad approfondire ogni aspetto. Approfondimenti e ragguagli ottenuti con un “vero” impegno in iniziative imprenditoriali o in qualsiasi altra situazione. Forse è per questo che ho la necessità di tenere tutto sempre sotto controllo; è una necessità che si manifesta anche nelle piccole cose, in quelle che sembrano le più banali, come potrebbe essere imparare a fare le “tigelle” per i miei figli o arrivare a suonare l’armonica da solo, riuscendo a “legare” una nota all’altra, o imparare invece a fare l’imprenditore, e anche, da neofita, il vignaiolo, ritrovandomi oggi in tale veste e facendole assaggiare questo vino prodotto da una vigna ritrovata di un vitigno chiamato Spergola. Un vino che ho voluto imparare a fare, avendo deciso di dedicarmi a quest’azienda, acquistata negli anni Cinquanta dal padre di mia moglie Giulia Giacobazzi, leggendo libri di botanica, sulle tecniche di vinificazione, etc… Così, per conoscere il mondo del vino, per integrare quei testi, mi sono immerso nella tradizione contadina che ha un alto valore conoscitivo. Una full immersion che mi ha fatto riaffiorare alla memoria proprio l’origine contadina della mia famiglia e, sentendomi investito del “diritto di contadinanza”, mi sono messo a fare vino. Una decisione maturata non da molti anni, ma che occupava già da tempo la mia mente e riaffiorava ogni volta che mi ritrovavo a camminare tra queste morbide colline reggiane, in

Tenuta di Aljano -

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questa Tenuta di Aljano, dove percepivo netta la vivezza della mia storia. Ho fatto altro nella vita prima di approdare ad Aljano. Per quasi venticinque anni sono stato l’importatore e distributore esclusivo per l’Italia dei prodotti per l’edilizia di una multinazionale americana; ho abbinato il mestiere di imprenditore edile ad altre attività, con le quali ancora oggi mi confronto, riuscendo a condividerle con queste vigne e con il desiderio di imparare l’arte di fare il vignaiolo in queste terre. Un territorio dove si estendevano i possedimenti del Duca di Modena e Reggio, e, nei luoghi particolarmente vocati per la viticoltura, i contadini avevano l’obbligo di piantare, come si legge nelle vecchie carte, mezza biolca di vigna ogni anno “ut habeatur maior boni vini


Vittorio, Marco Ferioli

Nome

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copia” (per avere una maggior quantità di buoni vini). Oggi sono io che mi confronto con questi colli, prendo appunti e annoto nel mio quaderno le conoscenze che vado acquisendo, sommandole a quelle instaurate nei tempi passati con la campagna o ricordando l’attività di mio suocero che era arrivato a gestire nel territorio di Modena e Reggio Emilia, molti caseifici dediti alla produzione del Parmigiano Reggiano, o stando a contatto con la vita del Frignano sull’Appennino modenese, dove mia madre possedeva delle proprietà agricole. Ricordo, bambino, che in quel luogo vidi arare per l’ultima volta i campi con i buoi che faticosamente si arrampicavano sui dorsali delle colline. Mio nonno Giuseppe non mi permise di guidare quella quadriglia di buoi, poiché affermava che per farlo bisognava essere grandi, grossi e bravi contadini, capaci di manovrare il vomere per dare ordini precisi a quegli splendidi animali. Credo che la passione che dimostro oggi per la terra mi sia “entrata dentro” fin dall’infanzia ed è da quel tempo che nutro la voglia di approfondire la conoscenza del mondo rurale, tanto da spingermi a visitare, dovunque andassi, ogni tipo di azienda agricola. Ogni volta che entravo in una di esse avevo la sensazione di trovarmi al cospetto di una grande opera. Avendo l’opportunità di viverla direttamente, ammiravo la capacità degli imprenditori agricoli di porre in perfetto equilibrio il loro saper

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fare con la natura. Esperienze fantastiche che ci sono servite molto quando ci siamo trovati a decidere con mia moglie e mio figlio Marco cosa fare ad Aljano. Marco è entrato nel mondo della vite e del vino con lo spirito giovane, pratico e realista. Convinto che si impara oggi per migliorare oggi e domani, ha compreso che non avremmo dovuto distruggere o modificare minimamente la memoria di questo luogo, né cancellare la sua storia, né quella tradizione orale che ci stava giungendo attraverso le parole di Ideo, factotum dell’azienda, un grande uomo, un “vero” vecchio contadino. Non nascondo che la possibilità di poterci riavvicinare al mondo agricolo ci ha fatto sentire molto fortunati, per l’opportunità di rivitalizzare le nostre memorie, costruire una nuova storia, ricevere nuovi stimoli e nuove conoscenze nell’arte di fare il vino. Il grande impegno che fino ad oggi Marco, Giulia ed io abbiamo messo in questo lavoro ha già dato i primi risultati: ottenere buoni vini e soprattutto migliorare noi stessi.


LA VIGNA RITROVATA COLLI DI SCANDIANO E CANOSSA BIANCO CLASSICO DOC Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Spergola provenienti dal vigneto “la vigna del castello”, di proprietà dell’azienda, situato in località Jano, nel comune di Scandiano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 30 e i 40 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni ricchi di marne argilla e gesso, ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Spergola 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 2.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito posticipata, “dimenticandosi” in vigna i grappoli fino alla prima decade di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve. Dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto effettuata alla temperatura controllata di 10°C, lo stesso è messo in acciaio, dove, una volta inseriti i lieviti selezionati, svolge la fermentazione alcolica, che dura circa 15 giorni; in seguito, di solito svolge la fermentazione malolattica e vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 12 mesi prima della commercializzazione.

all’esame visivo un colore paglierino intenso ricco di riflessi dorati; all’esame olfattivo si propone in modo complesso, con bei profumi minerali che si uniscono ad intriganti note di finocchietto selvatico, erbe officinali, per aprirsi poi a più complesse e dolci percezioni floreali di acacia e fruttate di pesche, susine gialle, mango e papaia, con un finale che ricorda molto il timo e la mentuccia e accenni di fieno. In bocca ha un’entratura sapida, minerale, ampia, così come è ampio lo spettro gustativo, anch’esso intrigante che si posa su una ricca acidità che nasconde bene la vena alcolica e rende il vino piacevole, lungo e persistente. Prima annata 2007 Le migliori annate 2007, 2009 Note Il vino, che prende il nome dal ritrovamento del vigneto in una zona del bosco, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà della famiglia Ferioli dal 1955, si estende su una superficie complessiva di 115 Ha, di cui 20 vitati e il resto occupato da colture seminative e bosco. Collabora in azienda come agronomo ed enologo Francesco Saverio Petrilli.

Quantità prodotta 1.500 bottiglie l’anno Note organolettiche Un vino particolare, intrigante, che offre

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Non credo molto ai sondaggi, ma a questo mi piace credere. Una recente ricerca sembra abbia stabilito, incredibilmente, che noi forlivesi abbiamo un livello qualitativo della vita superiore alla maggior parte degli altri italiani. Un risultato non certo dovuto al reddito pro-capite, ma alla possibilità di poter usufruire di più tempo per noi, di migliori servizi e di maggiori opportunità di socializzazione. Sembrerebbe, sempre secondo l’inchiesta, essere questa la vera ricchezza, che è un po’ il fine al quale tutti noi aspiriamo e che anch’io spero un giorno di ottenere; mi rendo conto di essere ancora molto lontano da quell’obiettivo, ma sto iniziando ad assaporarne il gusto, soprattutto quando riesco a starmene quassù, in collina, vicino a Bertinoro, nella mia azienda agricola fra le mie vigne e le mie botti. Quella che provo quassù è una sensazione di grande ricchezza, per il senso degli

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spazi che mi circondano e per la libertà e il piacere nel poter sperimentare concretamente quale sia la reale dimensione del tempo che aspirerei ad avere a disposizione e grazie al quale comprendere meglio i segreti e le magie, il fascino e le tecniche che comandano questo sistema vitivinicolo. È stato questo dolce ticchettìo ad addolcirmi e a stimolarmi, facendomi crescere e maturandomi come il vino, spronandomi ad avere sempre maggiore fiducia in me stesso, stimolando l’ottimismo per le cose che verranno, dandomi la forza di scegliere, con serenità, le priorità delle cose da intraprendere. Oggi divido il mio tempo fra la terra, il vino e l’attività di Product Marketing Manager che svolgo in una technology factory fra le più importanti al mondo per la costruzione non solo di attrezzature e macchine per il fitness, ma anche di sofisticati programmi di allenamento computerizzati abbinati alle stesse. Una spartizione del tempo dovuta, principalmente, sia alla piccola estensione aziendale e alle ancor più piccole dimensioni della cantina dove, fino a pochi anni addietro, producevo non più di 3000 bottiglie - rispetto alle 30000 odierne - sia al fatto che ancora mi gratifica molto il lavoro che svolgo nell’industria; fra le altre cose, questo ha pure una sua logica consequenzialità rispetto alla Laurea in Ingegneria Elettronica che ho conseguito all’Università degli Studi di Bologna nel 1994. Un lavoro molto intrigante e creativo che mi ha consentito, in questi anni, di avere un buon reddito, utile anche per mandare avanti l’azienda agricola, dove ho imparato a fare il vignaiolo, concedendomi il lusso di piantare delle vigne e di aspettare che esse crescessero, pazientando molto prima di raccogliere quei frutti con i quali produrre proprio quel vino che avevo intenzione di fare, avendo il coraggio di attendere che lo stesso maturasse e si affinasse prima che una sola bottiglia della Tenuta La Viola fosse commercializzata. È un tempo diviso in parti eguali quello che scandisce le mie giornate, mentre caldeggio l’idea di riuscire, un giorno, a dedicarmi completamente a quest’azienda vitivinicola, anche se so che, per arrivare a tanto, poter soddisfare il mio bisogno di “prossimità” alla terra, avere l’opportunità di pensare ad una programmazione dei miei futuri progetti vitivinicoli e vivere dignitosamente, ci vorrà ancora tempo. Non è facile far correre la propria vita professionale su un doppio binario; mi rallegro però di aver sempre trovato profonde


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coincidenze fra i miei impegni, poiché, in entrambi i lavori, la mia mission principale è quella di far stare bene la gente: attraverso il benessere fisico e motorio e l’aspetto sensoriale e di salubrità. E cosa c’è di meglio se non un bicchiere di vino consumato a tavola, in compagnia di amici, impegnati in piacevoli conversazioni, aperte, sincere e spontanee? Una filosofia di vita affrontata proprio da quel sondaggio che riguardava i forlivesi e che è parte integrante della mia stessa cultura contadina e di tutta questa campagna, dove vivo fin da quando sono nato, crescendo accanto a mio padre Renato, il quale divideva, come me, il suo tempo tra due lavori, senza però mai rinunciare a dedicare ogni singolo minuto libero alle vigne a alla produzione di quel vino che vendeva sfuso. Ricordo che lo accompagnavo sempre in cantina aiutandolo nei travasi o nella pulizia delle botti, sentendomi partecipe di un mondo al quale non ho mai voluto rinunciare. Non è facile “correre su due binari”, ma sono contento di come, fino ad oggi, ci sono riuscito, cercando, dove è stato possibile, di ragionare con il cuore, raggiungendo un buon equilibrio fra il pragmatismo e la passione che ho sempre messo nelle mie attività e l’amore, al quale non vorrei sottrarre niente, poiché è quello che mi dà forza e mi lega a mia moglie Elisa e ai miei figli Matteo e Francesco, anche se mi rendo conto che non sempre ci riesco. Mi consolo pensando che tutto quello che faccio, lo faccio anche per loro.

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IL COLOMBARONE SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE Zona di produzione Il vino è realizzato dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti Vigna del Re e Vigna del Pozzo, di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Bertinoro, le cui viti hanno un’età media di 11 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare, su terreni prevalentemente franco-argillosi con presenza di calcare, ad un’altitudine di 100 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica con l’utilizzo di lieviti selezionati. Questa fase, svolta in tini di acciaio, si protrae per circa 10-12 giorni ad una temperatura di 26°C; a fine fermentazione, contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 5-7 giorni, durante i quali si effettuano frequenti rimontaggi giornalieri e 1 délestage. Dopo la svinatura, il vino è lasciato in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale un 60% della massa è posto in tonneaux di 2° e 3° passaggio, in cui rimane per 6 mesi; durante questo periodo si eseguono almeno 2 travasi. Terminata la maturazione, si effettua l’assemblaggio delle partite e dopo 1 mese di decantazione in acciaio, il vino è messo

in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Un vino schietto e vero, che appartiene a questa terra; all’esame visivo si propone con un bel rosso rubino lucente dai riflessi purpurei e un’unghia color granato sul bicchiere; al naso si presenta con spiccati e polposi profumi fruttati di lamponi, ribes e ciliegia che si aprono a sensazioni intriganti di liquirizia e polvere di caffè per proseguire con note di nocciola ed altre più dolci di amarena, in un’alternanza che stimola a “tuffare” il naso nel bicchiere. In bocca risulta pulito, netto, quasi croccante, ma soprattutto succoso e fresco, capace di porre in equilibrio la fibra tannica con una brillante acidità che lo rende invitante, piacevole e di buona beva. Prima annata 1998 Le migliori annate 2001, 2004, 2005, 2006, 2007 Note Il vino, che prende il nome dalla via sulla quale si trova l’azienda, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Gabellini dal 1962, l’azienda agricola si estende su una superficie di 5 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Remigio Bordini e l’enologo Franco Calini.

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Cercando di elencare le eccellenze dell’Emilia Romagna, credo che nessuno possa fare a meno di menzionare il movimento delle cooperative che, in questa regione più che in altre, ha saputo creare un filo diretto fra il mercato e l’offerta produttiva, contribuendo, di fatto, allo sviluppo dei territori, distribuendo redditività e costruendo dei presìdi economici. Essendo la cooperazione una realtà importante e abbracciando un’infinità di aree produttive, fra le quali quella vitivinicola, ero certo che, se avessi voluto fare un libro sull’Emilia Romagna, mi sarei dovuto sicuramente confrontare con alcune delle realtà che punteggiano, un po’ ovunque, tutto il territorio regionale, anche perché, a qualsiasi latitudine o longitudine si trovino ad operare, le ho sempre considerate nel tempo non tanto per ciò che costruivano, trasformavano o producevano, ma come vere e proprie “fucine di democrazia” e “palestre di educazione civica”, capaci di far dialogare fra loro variegati gruppi di persone che, spesso, hanno solo gli stessi interessi economici, e non quelli culturali, facendoli positivamente interagire con gli stessi aspetti sociali dell’area in cui esercitano. Cooperazione al fianco della quale, almeno in Romagna e in Emilia, si è confrontata l’imprenditoria, favorendo il formarsi di una qualificata dirigenza, figlia di quella che, negli anni Cinquanta e Sessanta, seppe interpretare, prima fra tutte, le esigenze della società dei consumi. Venendo su queste terre ero sicuro che, prima o poi, mi sarei dovuto incontrare con dei rappresentanti di questo antico movimento, la cui storia qui ebbe inizio nel 1860, prendendo origine da quell’ordinamento con cui i padri fondatori, a Londra, nel 1844, stabilirono le regole con le quali le cooperative e le società di Mutuo Soccorso avrebbero dovuto operare. Per non trovarmi in difficoltà, convinto dell’imminente confronto, ricordo che lessi molte cose sull’argomento, cercando di comprendere come quelle idee di solidarietà, che erano i cardini stessi sui quali si reggeva il sistema cooperativistico, si fossero trasformate e avessero attecchito su queste terre emiliane e romagnole, soprattutto in agricoltura e nel settore ortofrutticolo e vitivinicolo. Non nascondo che rimasi sorpreso quando, stilato l’elenco delle aziende che sarei dovuto andare a visitare nel mio tour regionale, mi accorsi che in esso avevo inserito pochissime cantine sociali. Pensando

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Ruenza Santandrea


di aver commesso un madornale errore, decisi di dare spazio alla cooperazione, dato che sono stato sempre convinto che essa contribuisca al mantenimento e al presidio di interi territori, alla salvaguardia dell’ambiente in cui operano i soci conferitori e alla realizzazione di una produzione enologica che sta crescendo in modo esponenziale e che negli ultimi dieci anni ha raggiunto alti livelli qualitativi. Sono aziende che operano in aree che, sicuramente, subirebbero ben altra sorte senza la loro presenza, come è facile constatare dove queste realtà non sono presenti o dove la filosofia cooperativistica non ha attecchito o vi è stato uno spopolamento delle campagne con conseguente dissoluzione della cultura e delle tradizioni che animavano la ruralità. Una presenza sociale non solo utile, ma indispensabile per tutta la collettività. Una volta avviatomi e messomi in moto nelle aree prettamente vitivinicole di questa regione, ho provato a prendere contatto e ad andare a visitare svariate realtà cooperativistiche per non tralasciare alcun elemento utile alla mia indagine. La mia cocciuta determinazione mi ha

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portato a scoprire grandi e splendide cantine sociali, che solo per colpa del limitato spazio di questo progetto editoriale non mi è stato possibile inserire, facendo un’eccezione per quanto riguarda il gruppo cooperativistico della CEVICO che, più di ogni altro, ha sicuramente avuto il merito di ampliare i propri orizzonti, puntando direttamente su una diversa strategia aziendale capace di concentrare l’attenzione su un progetto vitivinicolo originale e di grande qualità che mi ha condotto sopra Castel Bolognese, sulla “Collina dei Vigneti”, nella Tenuta Masselina. Lì, ad attendermi ho trovato la signora Ruenza Santandrea, presidente del gruppo CEVICO, la quale mi ha spiegato che i vigneti posti su quelle dolci colline romagnole non erano altro che il frutto di un diverso approccio culturale con cui la cooperazione intende accettare il cambiamento e operare per il futuro senza minimamente disconoscere né le azioni fin qui svolte, né i valori storici che hanno condotto l’azienda che lei rappresenta ad essere oggi un importante gruppo cooperativistico regionale con 4500 soci conferitori e un fatturato consolidato con le cantine che supera i 100 milioni di euro. Un futuro tutto da scrivere e da verificare attraverso azioni che conducono ad aziende pilota come questa di Masselina, sulla quale si riuniscono, in chiave moderna, i saperi della storia dei sessant’anni di viticoltura che appartengono alla CEVICO. Un’esperienza che si concentra nei vini che degusto, originali, di buon livello e grande potenzialità in prospettiva futura - ma già degni di menzione - i quali non rappresentano una semplice linea di vini di alta gamma, come potrebbero apparire, ma la punta di un iceberg e l’espressione di ciò che sa offrire il territorio, senza artifizi o compromessi, in questi 12 ettari di vigneti situati tra i colli imolesi e faentini, all’interno di un microcosmo produttivo davvero interessante. Un’azienda che sono sicuro saprà far parlare di sé, diventando il testimone di quei 4500 soci che hanno voluto rappresentare, in questa piccola cantina-laboratorio, il vero significato di cosa è in grado di fare la cooperazione avendo alla guida una classe dirigente senza privilegi, né colori politici.


158 S.L.M. SANGIOVESE CABERNET SAUVIGNON IGT RUBICONE Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Cabernet Sauvignon provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Castel Bolognese, le cui viti hanno un’età compresa tra i 12 e i 15 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terrazzamenti pliocenici con terreni argillosi di medio impasto, ad un’altitudine di 158 metri s.l.m., con un’esposizione a nordest. Uve impiegate Sangiovese 70%, Cabernet Sauvignon 30% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre per il Cabernet Sauvignon e a metà ottobre per il Sangiovese, si procede alla diraspapigiatura delle uve avviando il mosto ottenuto alla fermentazione alcolica dopo averlo inoculato con lieviti selezionati, fase questa che è fatta svolgere parte in tonneaux aperti e parte in tank di acciaio alla temperatura controllata di 24-26°C, e si prolunga per circa 10 giorni, lasciando, contemporaneamente, che venga effettuata anche una macerazione pellicolare di circa 12 giorni. In seguito, parte del Sangiovese va in barriques di rovere francese di Allier di 2° passaggio, a grana fine e media tostatura, mentre il resto della massa è nuovamente messo in acciaio; in entrambi i casi viene svolta la fermentazione malolattica. Al termine di una maturazione di circa 6 mesi, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di

almeno 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore rosso rubino molto vivo, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi freschi e piacevoli, tra i quali si evidenziano note vegetali che vanno ad unirsi a percezioni floreali di mammola, di frutti rossi e neri come marasca e mirtilli, per aprirsi a percezioni speziate e ad un finale ricco di mineralità. In bocca ha un’entratura fruttata, fresca, sapida, suadente, con tannini ben evoluti e vellutati che insieme ad una spiccata mineralità sorreggono il vino lungo tutta la degustazione. Prima annata 2008 Le migliori annate 2008 Note Il vino, che prende il nome dall’esatta altitudine alla quale sono situati i vigneti di Sangiovese, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda Di proprietà del gruppo Cevico dal 2007, l’azienda agricola si estende su una superficie di 22 Ha, di cui 16 vitati e il resto occupato da bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Riccardo Castaldi e l’enologo Enrico Salvatori con la consulenza esterna di Stefano Chioccioli.

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Quanto vorrei avere più affinità con la scrittura, ponendomi in armonia con le parole e non pensando certo di voler per forza arrivare a possedere una varietà nello stile letterario o ad avere la capacità di scegliere le versioni dei tratti del linguaggio più utili al mio scopo. Avrei voluto avere solo la capacità di assumermi la responsabilità storica di collegarmi alla forma per realizzare un mio lavoro letterario nel segno della parola. In testa non ho mai avuto niente di tanto complesso o di articolato, ma solo la voglia di possedere qualcosa di terreno, orientato più verso quel gesto manuale con il quale ordinare e rendere fruibili, su un foglio bianco, tutte quelle parole che, certe volte, mi è difficile sdoganare dal profondo del mio cuore dove, spesso, si nascondono. Forse mi manca l’esercizio o ciò che mi blocca è la preoccupazione di dovermi misurare con il concetto “metaforico” della scrittura, così ampiamente interpretato da tutti coloro che si cimentano in essa, i quali le fanno assumere, certe volte, aspetti strettamente “mercantili”, mentre altre volte forme di puro godimento, legate alla profondità pulsionale dell’animo, riuscendo ad accostarla, di fatto, ad un’arte sublime. Il difficile è sciogliere le parole e far sì che esse non si accavallino nella mente, rendendo di fatto più difficoltoso indirizzarle dove vorrei e non tanto per dare forma e costrutto alla scrittura, ma per esaltarle come meriterebbero, invece di banalizzarle. Quindi, spesso, davanti a quel foglio, mi fermo e tralascio di trascrivere i miei pensieri, pur sapendo che se ci provassi, sono

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sicura che la scrittura mi aiuterebbe a farlo, riuscendo a farmi superare quel pudore che dimostro nel narrare ciò che mi porto dentro come donna, madre e imprenditrice. Una scrittura che comunque, devo dire, qualche volta mi è stata amica e mi ha consentito di cimentarmi, al suo fianco, in un piccolo lavoro nel quale ho raccontato il valore storico della Pandolfa, questa splendida dimora, costruita nel 1700 dal casato dei Marchesi Albicini, in prossimità dell’antico casino di caccia e trasformatasi nei secoli nella più prestigiosa residenza di campagna del territorio, acquistata da mio nonno Giuseppe Ricci nel 1941 e alla quale è collegata un’azienda agricola di 150 ettari estesi su due splendide colline vitate che la sovrastano. Ecco che anche per descrivere il nonno e la sua opera imprenditoriale dovrei chiamare in aiuto le parole e, con esse, un’infinità di aggettivi con i quali arricchire e distribuire su numerosi registri narrativi come egli sia stato un uomo eccezionale e il più importante industriale italiano del Gas, capace di costruire da solo, a partire dagli anni ’30 e nei decenni successivi, una struttura imprenditoriale capillare che, fino a pochi anni or sono, contava 26 stabilimenti di trasformazione in tutta Italia e un gasdotto a Napoli. Un’industriale d’altri tempi, in possesso di una morale e di un’etica che oggi, nel mondo imprenditoriale, sembrano ormai essere scomparse. Per raccontare l’impegno da lui profuso su queste colline - che terrazzò per evitare smottamenti, sulle quali impiantò oltre 80 ettari di vigneto, prodigandosi in un’infinità di investimenti finalizzati alla


Paola Piscopo


ristrutturazione della campagna e di questa villa, dove amava ricevere gli amici e dare fantastiche feste alle quali partecipavano i più importanti industriali italiani - dovrei forse scomodare più la crittografia che la scrittura, con la quale evidenziare ogni singolo suo intervento ancora visibile sulle vigne e nelle strutture murarie dell’azienda. Come è facile comprendere, il mio è ancora un rapporto iniziatico con la scrittura, ma voglio che rimanga così, per rimanere libera e non dover ricercare alchimie o strani artifizi letterari o dover andare a incastonare in quel susseguirsi di segni, con i quali cerco di dar valore al mio lavoro narrativo, incomprensibili a parole; quindi, per raccontare quanto sia fortemente legata a questa villa e a questa campagna, nella quale si racchiudono gran parte delle mie memorie, voglio adoperare le parole che mi sono dettate dal cuore. In me i ricordi stimolano profondi sentimenti che toccano l’anima, arrivando a graffiarla ed è per questo che forse, in definitiva, non so quanto mi possa interessare dar vita a quelle parole utili a farvi comprendere quanto sia profondo il mio coinvolgimento in quest’azienda. Memorie che oggi mi appaiono antiche, lontane quanto la mia fanciullezza felice - quando venivo qui per le vacanze estive accompagnando mia madre Noelia - o quanto i ricordi dei momenti belli che molti anni dopo vivevo alla Pandolfa in compagnia dei miei tre figli Luca, Marco e Paolo, credendo così di donare loro la possibilità di crescere migliori di quanto avrebbero potuto fare se non avessero avuto la fortuna di respirare le atmosfere magiche di questa campagna romagnola. Mi piaceva trasferire loro le mie stesse esperienze, quelle che avevo

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vissuto in questo luogo dove avevo acquisito un senso di appartenenza che mi è servito non solo a riscattare l’azienda dai miei fratelli, poco interessati alla campagna, ma per convincermi quanto fosse necessario avere occhi rivolti al passato con la voglia di costruire il futuro. Un insegnamento che, soprattutto per mio figlio Luca, divenne amore verso queste terre, la cantina e la campagna. Che parole avrei potuto usare per spiegare, a chi non li conosce, quali siano i sottili legami di sangue che si creano fra una madre e un figlio? Non solo con parole e amore, ma prendendo possesso di questo antico luogo della memoria, facendo sì che io potessi dargli un nuovo impulso e consentendomi in questo modo di ricominciare a sentirmi scorrere dentro il desiderio di farlo rifiorire e iniziare una nuova storia...


VILLA DEGLI SPIRITI SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal “vigneto di Pandolfa”, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Predappio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 25 anni.

prolunga per i 12-15 mesi successivi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione.

Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni argillosoalcarei, ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est.

Quantità prodotta circa 15.000 bottiglie l’anno

Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve, alla successiva fermentazione con lieviti selezionati e alla macerazione ad una temperatura controllata di 25-28°C in vinificatore inox utilizzando la tecnica del délestage per l’estrazione del colore e dei tannini nobili della buccia. La macerazione della prima fase fermentativa di 8-10 giorni si prolunga nella seconda fase di estrazione e stabilizzazione dei tannini e del colore per altri 12-15 giorni alla temperatura di 20°C. Completata questa seconda fase, si passa alla sgrondo-pressatura soffice con estrazione manuale delle vinacce e, dopo 48 ore, al primo travaso per la separazione dei solidi grossolani. Segue la prima fase di affinamento con l’avvio e il completamento della fermentazione malolattica e il secondo travaso di pulizia e preparazione all’affinamento in legno. Nei mesi di febbraio-marzo successivi alla vendemmia, il Sangiovese viene travasato in botti di legno di rovere francese da 30, 40 e 55 Hl. L’affinamento in legno si

Note organolettiche Di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino si presenta all’esame olfattivo fresco e ricco, con piacevoli profumi di marasche, lamponi, more e ribes, per passare poi a percezioni di spezie dolci come mandorle, cacao amaro, pellame e tabacco da sigaro, e chiudere con una nota minerale. In bocca risulta elegante, equilibrato, suadente ed in possesso di una fibra tannica ben armonizzata ad una forte mineralità che nel finale ricorda molto le percezioni olfattive fruttate e speziate risultando lungo e persistente. Prima annata 1997 Le migliori annate 1997, 2000, 2004, 2005, 2006, 2007 Note Il vino, che prende il nome dall’imponente villa settecentesca conosciuta e “temuta” come Villa degli Spiriti, raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda Di proprietà di Paola Piscopo dal dicembre 2007, l’azienda agricola si estende su una superficie di 138 Ha, di cui 80 vitati, 5 occupati da oliveto e frutteto e 53 da seminativi e bosco. Collabora in azienda come agronomo ed enologo Cleto Pirazzoli, assistito nella parte enologica da Filippo Gimelli.

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Questa che ti racconto è una storia un po’ particolare e se la vuoi ascoltare devi sederti e avere pazienza, darmi il tempo di affettare un po’ di salame, del prosciutto, spezzettare delle scaglie di Parmigiano e stappare anche una bottiglia del mio Lambrusco Grasparossa prodotto dalle uve di queste vigne alla Pederzana; così, vedrai, parleremo meglio, anche perché è una storia che parte da lontano. Tutto prende origini da mia nonna Margherita, originaria del paese di Castelvetro, che è qui poco distante dall’azienda. Rimasta vedova di mio nonno Renato, con il quale si era sposata trasferendosi in Veneto, a Portogruaro - dove tra l’altro sono nato - volle tornare al paese natìo, dove andò in seconde nozze a Franco Simonini, appassionato viticoltore e proprietario di questa piccola azienda di 14 ettari, di cui poco più di 7 vitati, e che - come ti ho fatto vedere prima - si dispiega quasi interamente su questo versante della collina, esposta a sud-est, i cui confini corrono lungo quella linea boschiva e di macchia che dal fianco del poggio dirimpetto scende fino al quel piccolo lago che è in fondo alla vallata. Se non ci fosse stata quella fortuita unione fra mia nonna e quel suo primo amore, certo io oggi non sarei qui. Devo dire che “Nonno” Franco era un personaggio unico. Lui amava la terra e le viti e pur essendo un benestante della zona, in possesso di cultura e buone maniere, era uno che non disdegnava di adoperarsi manualmente in campagna, senza limitarsi nel compiere anche i lavori più umili con una signorile modestia che gli valse il rispetto di tutti. Era uno che si sapeva anche muovere e non so se per fortuna, lungimiranza o intùito, per decenni, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, trasformò la Pederzana in un’azienda pilota dell’Università di Bologna. Per anni la ricerca, a livello viticolo, fu la promotrice di quasi tutte le attività svolte in azienda, la quale divenne un piccolo laboratorio a cielo aperto in cui venivano verificati e misurati i risultati di alcuni cloni particolari di Lambrusco Grasparossa per i quali erano stati utilizzati svariati portainnesti. Così, negli anni, si è accumulato su queste terre un patrimonio genetico unico che io, come puoi ben immaginare, fin dal mio insediamento, avvenuto nel 1996, ho fatto di tutto per

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mantenere vivo, scoprendo inoltre di avere nei vigneti viti di oltre 40 anni, che erano proprio il risultato di quelle ricerche avviate da nonno Franco con i professori dell’Università. È per questo che ho sempre creduto che l’uva prodotta alla Pederzana fosse diversa da quella di qualsiasi altro produttore di Lambrusco della zona, anche di quello vicino casa che è a soli 200 metri di distanza. Una certezza che ritrovo nei vini, figli della mia volontà di salvaguardare ciò che ho ereditato e del grande lavoro che Franco Simonini ha portato avanti per decenni con amore e dedizione. Tra l’altro ho dei ricordi bellissimi di questa persona fantastica che riusciva a vendere, un anno per l’altro, tutto il vino. Tutto ciò che produceva era prenotato in anticipo e se non eri nella sua lista non ne potevi acquistare neanche un litro, poiché tutti sapevano che il vino di Franco era il più buono della zona. Forse un po’ dell’amore che nutro per la terra me lo ha trasferito lui, così come quello per il vino. Mantengo infatti splendidi ricordi d’infanzia; pensa che quando con i miei genitori venivamo a trovare i nonni, io fin da piccolino, da quando cioè avrò avuto sì e no quattro anni, mentre ogni mattina facevamo tutti insieme colazione mi confondevo con gli altri nipoti; nonna Margherita sfornava quotidianamente il “bensone”, una specie di focaccia da inzuppare nel caffellatte e mentre tutti eseguivano quel rituale mattutino, io ne seguivo un altro, ritrovandomi al fianco di nonno Franco che, stappata una bottiglia di Lambrusco dolce parzialmente fermentato - che sì e no faceva 4-5 gradi d’alcol mi insegnava a “pucciare” la focaccia in quel mosto di vino. Crescendo mi ritrovai a giocare a pallone da professionista, ma non dimenticai mai questo luogo, né nonna Margherita, né Franco. Ma il caso ha voluto che a poco più di vent’anni, dovetti vivere situazioni poco esaltanti per un ragazzo quale ero io a quei tempi. Un paio di mezzi fallimenti societari e altre piccole situazioni mi stavano allontanando dal mondo del pallone che pur amavo tanto e nel quale avevo avuto molte gratificazioni, ritrovandomi giovanissimo a giocare per squadre di serie C. Così, finito il campionato, decisi di venire una settimana a trovare mia nonna a Castelvetro, iniziando a collaborare con Gianni Pedrini, un contadino che era già qui da trent’anni e che, se vuoi, te lo presento, dato che ancora a 70 anni è l’anima della Pederzana. Tutto nacque così, stando accanto


Francesco Gibellini

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a quell’uomo e vedendo l’armonia con la quale si muoveva fra le viti. Da una settimana che dovevo restare divennero due, poi tre e poi un mese, fino al giorno in cui mia nonna, ormai ottantaduenne, mi prese da una parte e mi disse: “ho deciso di affittarti l’azienda”. Non servì a niente che io le manifestassi le mie perplessità. Tre giorni dopo aver firmato quel passaggio, nonna Margherita morì. Non so dirti se aveva capito che per lei era giunto il suo momento o se tutto fu architettato da quel gran maestro di cerimonia che è il destino: so soltanto che amavo tanto mia nonna al punto che, terminato il suo funerale, di colpo sparirono tutti i miei dubbi e mi trasferii definitivamente, a soli 21 anni, su queste colline modenesi per fare il vignaiolo, come avrebbero voluto Margherita e sicuramente anche Franco. Ho buttato via giovanissimo una carriera calcistica, ma, con l’aiuto di quei due grandi personaggi, ho trovato ciò che volevo.

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CANTOLIBERO LAMBRUSCO GRASPAROSSA DI CASTELVETRO DOC SEMISECCO

Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni con forte presenza di argilla e calcare, ad un’altitudine compresa tra i 170 e i 220 metri s.l.m., con un’esposizione a est / sud-est.

Note organolettiche Il vino si presenta all’esame visivo vestendo il bicchiere di una spuma purpurea, ricca e cremosa, di un colore rubino intenso quasi impenetrabile; all’esame olfattivo risulta fresco, vinoso, piacevole, proponendo sentori fruttati di visciole, ribes, mirtilli e percezioni di viole e corteccia di ciliegio. In bocca è amabile, carezzevole, giustamente sapido, mentre una buona acidità, combinata a tannini giovani e croccanti e ad un misurato residuo zuccherino, rende il vino equilibrato ed estremamente godibile.

Uve impiegate Lambrusco Grasparossa 100%

Prima annata 2008

Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Lambrusco Grasparossa provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Solignano Vecchio, nel comune di Castelvetro di Modena, le cui viti hanno un’età media di 14 anni.

Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si esegue la selezione e la diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 7 giorni ad una temperatura compresa tra i 21 e i 26°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce con diversi rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo in acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica e rimane per 10 mesi; durante questo periodo si effettuano bâtonnages ogni 15 giorni. Terminata la maturazione e dopo 10 mesi di decantazione in acciaio, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di 3 mesi prima della sua commercializzazione.

Le migliori annate 2008, 2009 Note Nel nome del vino c’è la voglia di “liberare” il prodotto dalla presenza scomoda dei solfiti per permettergli di esprimere con sincerità, schiettezza, nitidezza e orgoglio, senza alcuna costrizione, la sua naturale fragranza, libero di “gridare al mondo” con la sua vera voce: Cantolibero. Raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 3 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà di Massimo, Mauro e Francesco Gibellini dal 1996, si estende su una superficie di 14 Ha, di cui 7,5 vitati e 6,5 occupati da prato, strutture aziendali, bosco e un piccolo laghetto. L’intera filiera produttiva è seguita sia in campagna che in cantina da Francesco Gibellini.

Quantità prodotta circa 13.000 bottiglie l’anno

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Alla fine l’ e quilibrio interiore non è che da cercare. Forse ce l’ a bbiamo già, e più ci muoviamo o agitiamo o altro, e più ce ne allontaniamo. Enrico Brizzi, Jack Frusciante è uscito dal gruppo Ci sono degli eventi che cambiano la vita e uno di questi, almeno nel mio caso, è stato la perdita di mio padre Edmeo. Mi ha fatto crescere improvvisamente, ponendomi davanti a più complesse e diverse responsabilità, maggiori di quelle che avevo prima di quel drammatico evento, essendo egli stato per me un punto di riferimento importante su cui mi appoggiavo, sentendomi molto sollevato e un po’ più leggero nell’animo. Ero sempre troppo giovane per riuscire a comprendere il significato della figura paterna e di chi lui realmente fosse, soprattutto perché mi rimaneva difficile gestire la sua forte ed esuberante personalità. Ammetto che fra di noi esistevano delle difficoltà generazionali difficili da superare per chi, come me, non riusciva a gestire un personaggio complesso ed ingombrante come era lui, forgiato alla durezza della vita fin da quando, a 17 anni, rimase orfano e si ritrovò a doversi costruire rapidamente, come uomo e come imprenditore, riuscendo a continuare la tradizione di famiglia che aveva visto i Tumidei dei validi commercianti di granaglie. Non so se, caratterialmente, la perdita del padre incise sul suo carattere. Sta di fatto che si dimostrò sempre estremamente esigente, in egual misura, con se stesso e con gli altri, divenendo sempre più assertore dell’idea che le cose era meglio non demandarle se si era capaci a farle da soli. Erano altri tempi, forse più duri di quelli che seguirono quegli anni ’50, quando, ripresa l’attività commerciale, ampliò nei decenni successivi la sua visione delle cose fino a diventare anche presidente di una banca, ma non distogliendo mai l’obiettivo di affrontare qualsiasi cosa la vita gli ponesse davanti, con la stessa determinazione, rigidità morale e forte senso di onestà che gli erano state insegnate in famiglia. Princìpi con i quali sono cresciuto anch’io, pur cercando di prendere le distanze dall’ambiente che lui frequentava, ma anche da quel mio genitore con il quale litigavo spesso, preferendo allontanarmi e dedicarmi alla campagna e alle vigne di nostra proprietà, invece che seguirlo. Del resto mi sono sempre considerato il contadino di famiglia, dato che a me piaceva starmene in mezzo alle vigne e all’aria aperta e, finita la giornata lavorativa, lasciare tutto e andarmene al mare verso Milano Marittima. Ricordo che lui, quando non c’ero, passava a controllare ogni centimetro quadrato di ciò che avevo fatto lungo tutta la giornata e se le cose non erano

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sistemate come aveva deciso, era guerra. Litigavamo di continuo, ma devo ammettere che ora mi manca molto la sua figura e da quando non c’è più, forse parliamo di più di quanto non facevamo prima; ho scoperto che per me lui è ancora un preciso punto di riferimento, e al suo giudizio mi sottopongo ancora volentieri, sicuro che lui, nonostante non mi risponda, mi sta ancora ascoltando e mi dà la forza per decidere al meglio. Rammento che quando si ammalò non riuscivo più ad essere quello di prima, ritrovandomi a non aver più voglia di andare al mare come facevo abitualmente. Beh, come puoi capire, Edmeo era un gran bel personaggio, molto stimato, uno sempre in movimento, con una grande reputazione, tanto grande da indurre molti a scommettere che non sarei mai stato capace non solo di emularlo, ma di mantenere il patrimonio che mi aveva lasciato; oggi, invece, posso affermare che, almeno in termini patrimoniali, ho come minimo raddoppiato la mia eredità, mentre ho ritenuto non necessario di sentirmi in obbligo di seguire le orme di mio padre. Del resto non lo avevo mai fatto, perché avrei dovuto farlo proprio dopo la sua morte? Così continuai ad essere quel vignaiolo che avevo sempre voluto essere; era quella la mia massima aspirazione e posso dire di averla perseguita cocciutamente, andando dritto per la mia strada e spianando come un caterpillar ogni difficoltà che mi si poneva davanti, pur affrontando ogni scelta con il cuore. Del resto non sono mai stato capace di vivere una passione in maniera equilibrata, ho sempre lasciato che la stessa si impadronisse di me spingendomi verso situazioni estreme, come quelle che ho vissuto per anni nei confronti della caccia (arrivai a sparare 1860 cartucce in tre giorni!), oppure quelle che riguardano il vino che mi ha stimolato a rimettermi sui libri per studiare, attizzando il sacro fuoco del sapere che, a volte, non tiene conto della razionalità. Proprio per fomentare quella passione non ho mai rinunciato ad impegnarmi e non mi sono demoralizzato quando magari giungevano pesanti critiche sui vini che producevo o senza esaltarmi quando arrivavano delle soddisfazioni, convinto che in questo settore non ci si deve mai sentire appagati, né convinti di essere nati “imparati”. Ormai sono cresciuto e non mi spaventano più le responsabilità che ho assunto rinnovando la cantina già esistente, impiantando nuovi vigneti, impegnandomi in questo progetto vinicolo con il quale sto


Gianluca Tumidei

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valorizzando i vitigni autoctoni delle colline forlivesi, poste a pochi chilometri dal centro città. Come tutte le passioni, però, spesso succede che si scontrano con la realtà, che in questo caso consiste nel doversi misurare con la commercializzazione dei vini che produco, per i quali ho ampliato gradatamente i miei orizzonti e scelto i mercati, che rimangono, comunque, ancora molto circoscritti ad un’area locale. Molte cose sono cambiate in questi ultimi dieci anni e sono sicuro che molte cose cambieranno nel prossimo decennio, essendo sempre più cosciente che ogni gesto che faccio mi spinge a migliorare il mio saper fare, anche se non nascondo che ogni tanto avrei voglia di andare al mare e di ritornare per qualche ora spensierato e felice come lo ero quando, da giovane, lasciavo tutto e scappavo via. Forse un giorno lo farò di nuovo, convinto come sono che, tornando, troverei tutto come ho lasciato, essendoci mio padre Edmeo al mio fianco che rimarrebbe qui a controllare l’azienda in attesa del mio ritorno.

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TERREDELSOL SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC RISERVA Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Pennita, di proprietà dell’azienda, situato in località Terra del Sole, nel comune di Castrocaro Terme, le cui viti hanno un’età compresa tra gli 8 e i 10 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni di medio impasto argillo-limoso, ad un’altitudine compresa tra i 160 e i 220 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 5.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica che è fatta svolgere in tank di acciaio per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 4-6 giorni, durante i quali vengono eseguite frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è lasciato sempre nei tini di acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in botti da 18 Hl in cui rimane per 18 mesi, periodo durante il quale si effettuano dei travasi ogni 3 mesi. Terminata la maturazione e dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta circa 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei tendenti al granato, il vino si presenta al naso con piacevoli ed eleganti percezioni fruttate di prugne, mirtilli, more e ciliegie mature, a cui seguono note speziate di cacao, pepe nero e di erbe officinali nonché di bacche di ginepro ad ampliarsi verso nuances floreali di rose rosse. Anche in bocca risulta equilibrato ed elegante, con una bella linearità fra le percezioni olfattive e quelle gustative; una fibra tannica ben amalgamata ad una buona acidità contribuisce a rendere il vino lungo e persistente. Prima annata 2003 Le migliori annate 2005, 2007 Note Il vino, che prende il nome dalla località in cui sono collocati i vigneti, raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda Di proprietà di Edmeo Tumidei dal 1980 e gestita dal figlio Gianluca dal 1998, l’azienda agricola si estende su una superficie di 115 Ha, di cui 26 vitati, 16 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collabora in azienda come agronomo ed enologo Franco Calini e come cantiniere-enologo Andrea Peradotto.

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Se vedi un affamato non dargli del riso: insegnagli a coltivarlo. Confucio

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In tutti questi anni non mi era mai successo di incontrare una donna che, spinta dal desiderio di produrre vino, si fosse messa a farlo davvero quel vino, riuscendo, da sola e senza l’aiuto di nessuno, a costruire, dal niente, un’azienda vitivinicola. Più ci penso e più la cosa mi sembra meravigliosamente bella, tanto da farla diventare ai miei occhi un simbolo per questo mondo del vino prettamente maschile. Ma quello che mi è sembrato ancor più originale è il pensare che non avendo nessun “storico” alle sue spalle o una minima tradizione enologica in famiglia, abbia potuto cimentarsi in una cosa così grande... Dal 1990, a quasi sessant’anni, Maria è partita ad impiantare vigne, ha allestito una cantina e ha cominciato a produrre buoni vini, prendendosi la responsabilità di quest’azienda agricola senza esitazioni o tentennamenti, per condurla, con la grinta e la lucidità che ancora oggi la caratterizzano, agli attuali standard produttivi e a ottimi risultati qualitativi, riuscendo a coinvolgere in tutto questo anche sua figlia Chiara. Un piccolo fenomeno, direi. Se poi penso che è una donna cresciuta in quel di Pavia, in mezzo all’acqua di quel fantastico e affascinante mondo delle risaie, intorno alle quali ha vissuto a lungo, e che in famiglia si annoverano più accademici che agricoltori, mi rimane ancor più difficile immaginarla a produrre vino: il fatto che invece abbia realizzato ciò, è un’ulteriore dimostrazione dell’originalità del personaggio. È su queste colline piacentine, che si specchiano sull’infinito della pianura sottostante, nella quale, in certe giornate come quella odierna si intravedono in lontananza le prime avvisaglie dell’enorme periferia di Milano, che Maria, con puntigliosa determinazione, si è lasciata conquistare dalla passione per il vino. Forse era destino che ciò avvenisse e forse era già tutto scritto in quel segno zodiacale - Vergine ascendente Vergine - che la radica o la innesta, come segno di terra, proprio alla terra, verso la quale ha sempre avuto un debole, così come lo ha sempre avuto per la vite e per l’uva; all’inizio, un hobby per appagare il quale invogliava i suoi due figli Chiara e Giammarco a raccogliere l’uva e a pigiarla insieme a lei con i piedi, così per gioco; poi invece, credo che lo stesso gioco deve averle preso un po’ la mano, visto che oggi ha un’azienda con oltre 42 ettari di vigneti, tutti in produzione. Una gran bella persona, al fianco della quale trovo Chiara, che è arrivata qui non so se a causa dell’esternazione con la quale Maria, circa un quindicina di anni fa, ventilò l’ipotesi e il desiderio di un suo ipotetico ritiro dall’attività per sopraggiunti limiti di età (cosa che oggi ad oltre ottant’anni non è ancora avvenuta) o se invece siano state a trattenerla alla Pernice altre e più personali cause: sta di fatto che oggi, dopo tanti anni, scherzando, mi confessa che non sa se le piaccia o no fare la vignaiola e se abbia dell’altro tempo per continuare a sperimentarlo e a provare, in modo da decidere di rimanere... Del resto, come darle torto? È un lavoro complesso e molto vario, che non a tutti piace, ma visto che sono ormai sedici anni che ha lasciato l’insegnamento per dedicarsi all’azienda vitivinicola della madre e che per farlo si è rimessa anche sui libri per diplomarsi come perito agrario, credo che il suo tirocinio possa considerarsi concluso, anche se a lei piace lasciarsi una “via di fuga”, non per percorrerla, ma semplicemente per averla a disposizione. Le osservo e rimango affascinato dall’energia che riescono a trasmettermi, un po’ per quella cultura che si respira nell’aria, un po’ per quel loro desiderio, ancora vivo, di sapersi


Chiara Azzali, Maria Poggi Azzali

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staccare da quel mondo accademico in cui un po’ tutti in famiglia gravitano o hanno gravitato, un po’ per quel volersi costruire e identificare come viticoltrici. Donne estremamente moderne, anche se romantiche e dolci, che sono riuscite a superare gli argini e hanno saputo costruire le loro vite, una accanto all’altra come madre e figlia, decidendo di affrontare insieme questa splendida avventura nel mondo del vino, così lontano dall’acqua delle risaie del Pavese. Chiara mi guarda e sorride, mentre Maria mi saluta, stanca della lunga giornata trascorsa con troppa frenesia e troppe chiacchiere rispetto a quel blando ritmo che è solita dare alle sue giornate. Così, come è apparsa, sparisce dietro una porta, mentre rimango davanti alle loro bottiglie, godendo un po’ dei vini e un po’ di questo ambiente, rimasto intatto grazie a persone come Maria e Chiara che, decidendo di fare le vignaiole, tutelano e salvaguardano queste campagne piacentine, poste come ultimo baluardo all’avanzamento di quella zona della “piana” che si vede in lontananza, considerata la più trafficata, la più urbanizzata, industrializzata e terziarizzata d’Europa, con la quale queste vigne confinano.

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GUTTURNIO COLLI PIACENTINI DOC Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Barbera e Bonarda provenienti dal vigneto Scuole, di proprietà dell’azienda, situato in località Scuole di Castelnovo, nel comune di Borgonovo Val Tidone, le cui viti hanno un’età di 8 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni franco-argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 160 e i 200 metri s.l.m. con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Barbera 60%, Bonarda 40% Sistema di allevamento Guyot Densità di impianto 3.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica in tank di acciaio per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, fase questa che, a seconda dell’annata, dura circa 6-7 giorni, durante i quali si effettuano frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è lasciato ancora nei contenitori di acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato parte in barriques di 3° passaggio e parte in botti di rovere di Slavonia da 20 Hl in cui rimane per 4 mesi; durante questo periodo si eseguono travasi ogni 2 mesi. Terminata la maturazione, dopo l’assemblaggio delle partite e 1 mese di stabilizzazione in contenitori di acciaio, il

vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 30.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore rosso sanguigno quasi impenetrabile, il vino si propone all’esame olfattivo in modo opulento, con note di frutti rossi e neri maturi, riportando alla mente i profumi delle ciliegie, dei mirtilli e delle prugne che si mescolano ad un pot-pourri di fiori appassiti e al succo di arancia rossa “sanguinella”, per un finale che ricorda molto l’humus e la pietra bagnata. In bocca ha un’entratura sapida, piana, ricca, che si adagia su una struttura ampia e una fibra tannica ben evoluta che, insieme ad una buona acidità, conferiscono al vino lunghezza e persistenza. Prima annata 1997 Le migliori annate 1998, 2000, 2004, 2007 Note Il vino raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda L’azienda agricola, di proprietà di Maria Poggi Azzali e Chiara Azzali dal 1980, si estende su una superficie di 55 Ha, di cui 41 vitati, 1 occupato da oliveto e 13 destinati a colture seminative e bosco. Collabora in azienda l’enologo Stefano Testa.

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Mi reco verso Monteveglio, sui Colli Bolognesi, per incontrare i componenti di una famiglia che da oltre centocinquanta anni si occupa di vino. Proprio nella bella Tenuta Santa Croce, ai piedi di un colle sui cui versanti si estendono oltre trenta ettari di vigneti, trovo ad attendermi Mauro Chiarli e i suoi figli Stefano e Giorgio. Essi rappresentano sia la quarta che la quinta generazione di una rinnovata e sempre vitale stirpe che ha costruito il proprio futuro puntando sulla tradizione, avendo l’intelligenza, però, d’innovarla e di mantenerla viva in modo che potesse essere tramandata la conoscenza dell’arte viticolo-enologica con la quale si costruiscono storie così longeve. Credo che il bello di chi svolge un lavoro come quello dei Chiarli, incentrato intorno al mondo del vino, sia proprio di ricercare l’esaltazione del proprio talento inventivo, rivisto e trasformato alla luce di costanti evoluzioni delle capacità espressive e creative, esattamente al pari di ciò che i grandi artisti riescono a fare in pittura, in scultura o in architettura. Come in quelle arti, il difficile è rapportarsi con l’applicazione pratica del proprio saper fare, modulandolo nei suoi più alti livelli e coniugandolo con ciò che lo circonda. Credo che, in definitiva, sia stata questa la chiave del successo dell’azienda

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Chiarli, che ha saputo coniugare il talento imprenditoriale con una concreta e proficua capacità espressiva dell’agire, raffrontandosi continuamente ai bisogni di un mercato vario nel tempo e che ha cambiato più volte la legge della domanda e dell’offerta. Un compito difficile, ma necessario per i Chiarli, che avevano la voglia di far proseguire una storia iniziata nel lontano 1860. Una storia che, pur essendo nata a Modena - da qui distante poco più di dieci minuti di auto - e intorno a quel Lambrusco venduto senza problemi in ogni parte del mondo in milioni di bottiglie, oggi vuole ampliarsi ancora di più e scrivere nuove pagine, trovando la forza di cimentarsi intorno a un vitigno come il Pignoletto che già Plinio il Vecchio annoverava fra quelli presenti nelle zone appenniniche e che su questi meravigliosi Colli Bolognesi sembra aver trovato il giusto habitat per esprimersi. Davanti a me ho due ragazzi che sanno bene di avere davanti a loro non solo la fortuna di potersi misurare all’interno di un’azienda ben consolidata nell’arco del tempo, ma anche la possibilità di potersi esprimere professionalmente in modo autonomo, affrontando un processo di crescita individuale importante proprio in questa Tenuta Santa Croce che offre infinite opportunità finalizzate allo sviluppo del vitigno principe della zona, il Pignoletto appunto, e alla promozione e alla conoscenza dello stesso, essendo questo ancora poco affermato sui mercati, soprattutto nelle tipologie Classico - quello fermo, per intenderci - e in quello, intrigante ed interessantissimo, prodotto con il metodo Champenoise. Essi sanno di avere una forte responsabilità, la quale, per adesso, ha portato con sé più oneri e doveri che grandi onori e soddisfazioni, ma guardandoli e osservando l’entusiasmo con il quale operano, non ho dubbi che questi non tarderanno molto ad arrivare. Le motivazioni non mancano, né la consapevolezza di aver fatto scelte importanti, che devono dare presto dei frutti e condurli, il prima possibile, a rendere autonoma, sotto l’aspetto operativo, amministrativo e comunicazionale, quest’azienda dal gruppo familiare, che mastica e discute di vino da più di centocinquant’anni e che, come una buona “chioccia”, ha la pazienza di attendere che ciò accada. Ora devono pensare a radicarsi in un territorio


Mauro, Giorgio, Stefano Chiarli


quanto mai diverso da quello di Modena, sia per gli aspetti pedoclimatici, sia per la cultura vitivinicola che lo anima: tutti elementi con i quali stanno facendo i conti per identificare quale sia il loro terroir, quello che solo il tempo sa costruire. Sono colli affascinanti, questi in cui operano Giorgio e Stefano, vocati alla viticoltura che qui non ha ancora trovato quella giusta considerazione che, invece, meriterebbe. Colli che si innalzano verso vette sempre più alte, disegnando calanchi, gole e paesaggi fantastici, molto diversi da quelli dolci offerti dalle colline nei dintorni di Modena. Parlando, mi accorgo che hanno creato un buon amalgama fra loro e uno spirito solidale che li aiuta ad entrare in questo lavoro, con il quale si stanno misurando, rodando e vanno verificando, sul campo, quale sia la complessità che regola i meccanismi di tutta la filiera produttiva. Un processo non semplice, forse in parte facilitato dal fatto di essersi sempre trovati a contatto con dei collaboratori qualificati di grande livello professionale: in passato con l’enologo Gianbattista Zanchetta, che per decenni è stato guida e riferimento per il tutto il comprensorio, per arrivare all’enologo di oggi, Giovanni Fraulini, e a Vilmer Pinca che si prende cura della vigna sotto ogni aspetto. Quello in cui vivono è un mix di cultura industriale a tradizione artigianale e imprenditoria agricola a ruralità naturale; un insieme che li ha portati ad acquisire una visione globale dei meccanismi che regolano il mondo del vino che, come essi hanno ben compreso, si imparenta profondamente ora alle trame della terra, ora alla cultura enologica, ora a quella viticola, legandosi strettamente anche a quella della famiglia e non solo a delle cisterne che si riempiono o a delle bottiglie che partono. Sono persone che definirei incisivamente intelligenti; hanno ben compreso che la suprema bellezza risiede nel fatto che il tutto vada a rientrare in un’opera unica, realizzata da chi ha saputo prima disegnare e poi chiudere il cerchio della propria filiera produttiva, come stanno cercando di fare Giorgio e Stefano in questa loro azienda.

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SIT A MONTUÌ COLLI BOLOGNESI DOC PIGNOLETTO SUPERIORE Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dal vigneto Ca’ Santini, di proprietà dell’azienda, situato in località Zappolino, nel comune di Castello di Serravalle, le cui viti hanno un’età di 25 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare, su terreni a media pendenza, calcarei, di età pliocenica, derivati da rocce prevalentemente argillose con intercalazioni sabbiose e tessitura franco-argilloso-limosa, ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Doppia spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 2.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve. Segue il débourbage, una pulizia statica del mosto effettuata alla temperatura controllata di 5°C. Lo stesso è poi inserito in acciaio. Qui, senza l’ausilio di lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura controllata di 16°C per circa 15-20 giorni. Il vino rimane stoccato a temperatura controllata per i successivi 3-4 mesi, durante i quali vengono eseguiti periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione, e dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia e commercializzato.

Note organolettiche Di colore giallo paglierino e brillante con riflessi verdi, il vino offre al naso profumi intensi e varietali, piacevoli sensazioni floreali di sambuco, fruttate di pesca bianca e note minerali molto accattivanti. Al palato risulta fresco, piacevole, importante, con una decisa concordanza fra le percezioni olfattive e quelle gustative, con una chiusura elegante di marzapane. Prima annata 2006 Le migliori annate 2008 Note Il vino, che prende il nome da una frase in dialetto locale indicante un “sito sui monti”, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 4 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Chiarli dal 2004, l’azienda agricola si estende su una superficie di 60 Ha, di cui 30 vitati e 30 occupati da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Vilmer Pinca e gli enologi Giovanni Fraulini e Franco De Biasio.

Quantità prodotta circa 10.000 bottiglie l’anno

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Hai un nome a cui rispondi, il nome con cui ti chiamano gli uomini. Ma qual è il nome del tuo mistero, il nome a cui rispondono i tuoi ricordi, le tue paure, la tua ispirazione? (...) Non ci accorgiamo mai che c' è una pagina nel libro che non riusciamo a capire, la più bianca, la più inutile, e invece è quella per cui tutto è stato scritto. Perché non riusciamo a vederla? Stefano Benni, Achille piè veloce Quale spunto avrei potuto cogliere per raccontarvi due personaggi come Antonietta e Alberto Rusticali? Da dove avrei dovuto iniziare? E quali parole avrei dovuto usare per descrivere quanto mi è piaciuta la loro veracità e schiettezza? Uso le mie parole, invece di scomodare qualche illustre poeta romagnolo. Senza dilungarmi in una goliardica descrizione della splendida e irriverente confusione che ho trovato nella loro cantina al mio arrivo, cercherò di restituire le impressioni, poi confermate, di trovarmi al cospetto di un’apparente anarchia e di una visione molto personale d’interpretare il vino. Nessuna di queste idee, tuttavia, mi sembra bastevole ad esprimere la narrativa della loro storia che, invece potrebbe meglio essere rappresentata da un argomento che sentivo aleggiare un po’ ovunque e che è la passione, insieme anche a tutte quelle sensazioni che ho provato nello stringere loro la mano; magari avrei potuto affidarmi a chi, conoscendoli molto meglio di me, aveva accostato i loro vini al ballo, in un “affratellamento” che, credo di aver capito, è sempre esistito in questa terra di Romagna, trovando fantastico il fatto che Walter Pretolani, un loro amico, avesse accostato la Mazurka all’Albana, la Polka al Trebbiano, il Sangiovese al Valzer e il Pagadebit al ballo del Saltarello, riconoscendo però arduo il collocare, nella scacchiera

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dei passi di danza, quel vino che, per antonomasia, tra i prodotti dalla Tenuta Uccellina è forse il più tipico di tutti: il Bursôn. Da qualche parte avevo letto un racconto che iniziava così: “Sentite un po’ gente, questa è una storia di vino e balli o di ballo e vini che dir si voglia. Quindi...”. Seduto su una sedia di plastica, davanti ad un tavolo del quale non riesco a distinguere il colore, tanto è sommerso da ogni genere di fogli, appunti e oggetti, mi accosto alla storia di Alberto e Antonietta. Vengo così a conoscenza di quanto per loro sia stata dura iniziare, potendo contare solo sulle loro forze e ritrovandosi a partire da zero. Un lungo lavoro, durato anni, durante i quali sono riusciti piano piano a costruire questa piccola azienda che oggi, più di ieri, ha la certezza di avere un futuro, nel quale è prevista, a breve, la realizzazione di una nuova cantina, più funzionale di questa piccola e disagevole rimessa nella quale è difficile operare anche per me, figuriamoci fare del vino. Mi guardo intorno e, sorridendo affettuosamente, scuoto un po’ il capo, perché queste sono le pareti che hanno visto nascere Alberto e fra le quali lui è cresciuto con l’idea di diventare, da grande, un buon produttore di vino. Da come ne parla sembra che, in tutti questi anni, sia stato sempre supportato da un grande entusiasmo che non è mai venuto meno, neanche nei momenti difficili, quando, mi confessa saggiamente, è preferibile operare per contrazione, trattenendo le poche cose buone che abbiamo intorno, scartando insieme a quelle pessime anche quelle inutili, così da ritrovarsi leggeri e pronti per quando arriveranno tempi migliori. Ormai Alberto è inarrestabile, esuberante e sanguigno come i suoi vini. È in piedi davanti a me e si racconta, descrivendomi quali siano stati i suoi natali, elencandomi le difficoltà, i momenti particolari della sua vita, le soddisfazioni e le rivincite, prese in questi ultimi anni nei confronti di chi non credeva in lui. Non si dimentica di nulla, né delle sue origini contadine, né della sua adolescenza, né di quanto sia sempre stata viva, fin dalla sua gioventù, la sua voglia di fare e, più precisamente, di


Antonietta, Alberto Rusticali

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fare vino, una dote che straborda in lui tanto da renderlo vero e da far apparire meno criticabili e più simpatici ai miei occhi gli aspetti che caratterizzano il disordine che mi circonda. Mentre Alberto parla da una parte, Antonietta, silenziosa, l’osserva, attenta e scrupolosa nel suggerirgli eventuali dimenticanze narrative, ritornandosene, subito dopo, nel suo silenzio, come sa fare una buona donna del Sud Italia che vive soltanto per il suo uomo. Li trovo entrambi fantastici in questa loro simbiosi

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dialettica con la quale cercano di aiutarsi per rispondere alle mie domande. Così ogni tanto a lei scappa un “parlagli di...” oppure “raccontagli di nonno Raffaele” e lui, attento a quel suggerimento, chiude frettolosamente la risposta che stava dando alla mia ultima domanda per inserire nella sua storia quell’argomento o per parlare del nonno che per anni ha sostituito la figura del padre, precocemente scomparso quando lui era ancora bambino.

Un uomo che ha segnato fortemente la sua crescita, sia sotto l’aspetto educativo, abituandolo al concetto del lavoro, sia sotto l’aspetto didattico, accostandolo alla conoscenza della terra, della viticoltura e di quel vino che Raffaele produceva e vendeva, negli anni ‘60-‘70, all’ingrosso, in cisterna. Fu così che Alberto incominciò ad apprendere i primi rudimenti che regolavano le singole fasi produttive, comprese quelle, operative, praticate in cantina, appassionandosi al mestiere del vitivinicoltore a cui ha poi dedicato gran parte della sua vita, alternandolo, per sedici anni, dal 1983 al 1999, all’impegno come dipendente in una distilleria a Faenza, cercando di produrre sempre vini che fossero ambasciatori del suo territorio, utilizzando, per questo, anche vitigni autoctoni quasi del tutto scomparsi, come il Longanesi, da cui ricava il Bursôn, senza dimenticarsi di produrre il Sangiovese e l’Albana, il suo Valzer e la sua Mazurka.


BURSÔN ETICHETTA NERA IGT RAVENNA ROSSO Zona di produzione Il vino è ottenuto dalla vinificazione delle migliori selezioni di Uva Longanesi provenienti dai vigneti aziendali, situati in prossimità del fiume Lamone, nel comune di Russi; le viti hanno raggiunto un’età di circa 15 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano ad un’altitudine di 10 metri s.l.m., su terreni di origine alluvionale, caratterizzati dalla presenza di sabbie e argille. Uve impiegate Longanesi 100% Sistema di allevamento Cordone speronato Densità di impianto 2.400 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede all’appassimento delle uve nel fruttaio per 20-25 giorni, fino al raggiungimento di 23-25 gradi Babo. Si passa poi alla diraspapigiatura delle uve e all’inoculo del pigiato con lieviti selezionati, al fine di avviare subito e mantenere una fermentazione alcolica regolare. Questa fase, svolta in tank di acciaio, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 20 e i 23°C e si accompagna a frequenti rimontaggi giornalieri al fine di ottenere una buona estrazione dei componenti della buccia. Dopo la svinatura, il vino rimane all’interno di vasi vinari di acciaio per andare incontro alla fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in tonneaux di rovere di 1° e 2° passaggio, in cui rimane per 24 mesi, periodo durante il quale si esegue almeno 1 travaso. Completato l’affinamento in legno, le varie partite vengono assemblate in un contenitore d’acciaio e solo dopo 3 mesi di decantazione

il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un bel rosso rubino scuro, quasi impenetrabile, con un’unghia color granato, il vino si offre all’esame olfattivo pieno, ricco, quasi opulento, con una consistente carica polifenolica e con sentori di frutti rossi in gelatina e frutti a bacca nera come more e ribes che si inoltrano in percezioni di confettura e note speziate di pepe, liquirizia e carruba, con una leggera nuance finale di peonia. L’entratura in bocca è robusta, di grande spessore; ricco, ma ben equilibrato nella sua tipicità, riesce a contrastare la struttura alcolica con una bella mineralità e con una fibra tannica presente, ma ben integrata ad un finale leggermente balsamico. Prima annata 1998 Le migliori annate 2003, 2004, 2005 Note Il nome del vino deriva dal soprannome attribuito nella zona alla famiglia Longanesi; raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà di Alberto Rusticali dal 1985, l’azienda agricola si estende su una superficie di 7 ettari, tutti vitati. Svolge funzioni agronomiche lo stesso Alberto Rusticali, mentre quelle di enologo sono affidate a Sergio Ragazzini.

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Ma viaza tè, mé a stagh bén do ch ' a so. (Viaggia pure te, che io sto bene dove sono) Raffaello Baldini

Tutto ebbe inizio con un viaggio, come succede spesso, soprattutto a chi ha voglia di muoversi avendo occhi per guardare ciò che lo circonda. Fu una “migrazione” temporale che mi condusse lontano, non tanto in termini di spazio o di tempo, quanto di pensiero. Come ogni volta precedente, anche in quell’occasione avevo il desiderio di partire non pensando alla durata o alla destinazione del mio viaggio: l’importante era andare. Nell’intraprenderlo non pensavo certo che muovermi in quella precisa direzione avrebbe avuto un significato particolare, capace di modificare lo stato delle cose, ampliando la mia mente e i miei orizzonti, facendomi acquisire la capacità di rimodellare i pensieri e le mie vecchie

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esperienze su parametri diversi, in modo da riuscire a costruire nuove idee e nuovi obiettivi che non sarebbero stati mai più uguali a quelli che avevo al momento della mia partenza. È successo così, all’improvviso, d’emblée. Era l’autunno del 1996, quando in quel di Montalcino, in Toscana, scoprii il vino, la sua essenza, la cultura che lo anima e il mondo che gli pulsa intorno, fatto di terra, uomini, scienza, natura e conoscenza. Avevo intrapreso quel viaggio più per distrarmi e staccare dalla routine provocata dagli impegni quotidiani che per altri motivi, non pensando che sarebbe diventato un vero e proprio battesimo enologico: attraverso di esso scoprii le potenzialità di un vitigno come il Sangiovese, la cura che necessitano le vecchie vigne e il profumo antico delle storiche cantine. Un mix fantastico che mi dette la netta percezione di come, intorno a quella Rocca, la volontà dell’uomo fosse stata capace di trasformare e modellare il paesaggio senza smettere di dialogare con la natura, contribuendo ad arricchire la stessa cultura presente su quel territorio. Una forza e una bellezza realizzate per conto e in nome del vino. Ricordo che faceva molto freddo. Mia moglie Cinzia e le mie figlie erano tutte infagottate, così come lo ero io, che rimasi quasi stordito, come colpito dalla sindrome di Stendhal; mi ritrovavo da una parte impacciato e dall’altra incredibilmente entusiasta nell’osservare quella splendida zona vitivinicola e nel degustare incredibili Brunelli. Un incontro fortuito, ma che mi spinse, qualche anno dopo, a trovare il coraggio di cambiare vita. Per anni sono stato impegnato nell’azienda familiare di trasporti, dalla quale mi allontanai nel 2000, dopo alcune vicissitudini societarie, ritrovandomi alla soglia dei miei quarant’anni nell’indecisione di cosa avrei dovuto o potuto fare “da grande”. Prendendo spunto dalla passione che, in quello


Sergio Lucchi


spazio temporale che dal 1996 arrivava all’inizio del nuovo secolo, era andata arricchendosi per il vino, tanto da spingermi a frequentare numerose degustazioni in zona, nonché il corso per diventare Sommelier, pensai che era giunta l’occasione di appagarla, dedicandomi, in prima persona, alla produzione del mio vino. Confrontandomi con mia moglie e con il supporto di tutta la famiglia, compreso quello di mia madre Libera, donna energica di vecchio stampo, che ancora oggi viene chiamata “il maresciallo di casa”, comprai una piccola azienda di 5 ettari sulle colline di Bertinoro. Un passo importante intrapreso anche grazie all’aiuto di amici, che mi lasciò senza una lira in tasca, ma ricco di un nuovo entusiasmo, quello che appartiene a chi, finalmente, è cosciente di essere riuscito a fare ciò che gli piace nella vita. Per i primi tre anni, dal 2000 al 2003, mi sono diviso fra le mie vigne e l’attività professionale di perito agrario che svolgevo in una delle numerose cooperative ortofrutticole della zona, lavoro

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che mi ha dato l’occasione di incontrare grandi personaggi del mondo del vino come Elio Altare, Federico Grasso e Michele Satta, con i quali ho stretto amicizia ricevendo in cambio la possibilità di avere un confronto con il quale capire dove indirizzarmi e cosa fare una volta che le mie vigne fossero andate a frutto. Persone dalle quali ho avuto segni di stima e quell’entusiasmo necessario per trovare le sicurezze per poter partire, nonché quegli stimoli che mi hanno spinto a lavorare con l’anima e con le mie mani nella terra. A distanza di anni non so se tutto questo è successo a causa di quel viaggio o perché il destino aveva già scritto che io finissi in mezzo a questi vigneti, ritrovandomi a diventare quel vigneron - figura di cui sentivo tanto parlare - capace di non risparmiarsi pur di ottenere il massimo da ciò che ha disposizione. Non saprei dire se per partire e avventurarmi nel mondo del vino ci sia voluto più incoscienza o coraggio. Forse entrambi queste doti, e se l’incoscienza ce l’ho messa io, il coraggio me l’hanno certamente trasmesso mia moglie Cinzia, i miei figli Camilla, Elisabetta e Matteo e tutti quelli che hanno creduto in me.


NOBIS SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Bertinoro, le cui viti hanno un’età di 34 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare, su terreni argillosi con vene calcaree e forte presenza di gesso, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto 2.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato naturalmente, con l’utilizzo dei lieviti autoctoni, alla fermentazione alcolica, fatta svolgere in tank di acciaio ad una temperatura controllata compresa fra i 26 e i 28°C per 10-14 giorni; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura per altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi. Dopo la svinatura, il vino è messo in barriques di 1°, 2° e 3° passaggio dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi. Durante la maturazione si eseguono almeno 4 travasi. Segue l’assemblaggio delle partite, poi il vino è sistemato in tank di acciaio per una leggera stabilizzazione ed è imbottigliato per un ulteriore affinamento di 18-24 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 2.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un bel rosso rubino con riflessi color granato, il vino si presenta all’esame olfattivo ricco di sensazioni di frutti rossi e neri maturi che si orientano verso note di confettura, fiori appassiti e spezie dolci e anche di torba, tabacco umido, grafite e caffè in polvere. In bocca ha un’entratura equilibrata, ancora vinosa, con una fibra tannica elegante, pulita, sorretta da una bella acidità che lo rende piacevole al gusto invitando a riempire nuovamente il bicchiere. Lungo e persistente, nel finale ricorda ancora le percezioni fruttate. Prima annata 2003 Le migliori annate 2004 Note Il vino, che prende il nome dal latino nobis, indicante il brindisi “a noi”, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà di Sergio Lucchi dal 2000, l’azienda agricola si estende su una superficie di 10 Ha, di cui 5 vitati e il resto occupato da oliveto e bosco. Collaborano in azienda gli enologi Attilio Pagli ed Emiliano Falsini.

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Lasciato Casalecchio di Reno, che ormai si identifica quasi con la periferia di Bologna, mi inoltro sulle prime colline per recarmi all’azienda agricola Tizzano, di proprietà della famiglia Visconti di Modrone. Bastano pochi chilometri e il paesaggio intorno a me si modifica, diventando un sinuoso e dolce ondeggiar di colline, alcune delle quali vitate, altre adibite a colture cerealicole, mentre, su altre, si intravede il tentativo di ridar vita, eroicamente, ad un’olivicoltura presente in zona fin dal Medioevo e bruscamente interrotta da una storica gelata ai primi del ‘700. Un’azienda storica, estesa su 250 ettari, che i Visconti di Modrone hanno ereditato dalla nobile famiglia bolognese dei Marescalchi, i quali, all’interno del bellissimo parco, eressero una splendida villa dove ebbero modo, tramite Ferdinando Marescalchi, Ministro degli Esteri della Repubblica Cisalpina e poi del Regno d’Italia, non solo di avere, più volte, come ospite Napoleone, ma anche di sperimentare, agli inizi dell’Ottocento, i più prestigiosi vitigni francesi come Cabernet Sauvignon e Pinot Nero. Mi dà sempre una bella emozione trovarmi al cospetto della Storia e quel Biscione rappresentato nello stemma dei Conti Visconti di Modrone e che campeggia sulla cantina, come anche nel gonfalone della città di Milano, contribuisce ad esaltare questa mia sensazione. La storia conferisce un fascino particolare a questi luoghi, che rappresentano perfettamente l’essenza del tempo trascorso e che, grazie all’illuminata coscienza di chi si è assunto la responsabilità di

divenirne custode, sono giunti ai nostri giorni. Non ha importanza se siano cattedrali, castelli medioevali, palazzi rinascimentali, ville settecentesche o cantine: l’importante è che siano ancora qui e che sia possibile, per noi, percepire l’energia che in essi si è accumulata nel tempo, infiltrandosi negli interstizi dei muri, nelle venature del legno, nelle trame degli arazzi e nelle suppellettili che li arredano. Una carica magnetica che qui si intuisce anche negli alberi secolari che “arredano” il giardino e in quelle semplici mura che hanno visto aggirarsi ieri i braccianti agricoli e i mezzadri, oggi pochi addetti agricoli specializzati. Luoghi che solo all’apparenza sembrano immutabili, ma che, invece, avendo attraversato il tempo come osservatori attenti e silenziosi delle virtù e dei difetti degli uomini che qui hanno vissuto, esistono e hanno un’anima, con la quale, da perfetti interpreti, raccontano agli attenti viaggiatori le storie uniche e meravigliose delle vite che vi si sono consumate. Come mi confessa il mio interlocutore, il Conte Luca Visconti di Modrone, non è semplice tramandare la storia nella sua integrità, poiché farlo richiede impegno, obblighi e dedizione e comporta l’osservanza di regole morali che esigono rinunce importanti, oltre alla capacità di non guardare mai al proprio interesse immediato, ma piuttosto a quello delle future generazioni che devono essere messe nelle condizioni di poter mantenere ciò che erediteranno. Un impegno ingente e psicologicamente impegnativo che ai nostri giorni, per la stragrande maggioranza di chi ha sulle spalle questo onere, prevede il vivere al disotto delle possibilità di chiunque lo abbia preceduto e di ciò che potrebbe ottenere se si dedicasse ad altre attività; non certo all’agricoltura e alla tutela paesaggistica che, come si sa, non è stata quasi mai remunerativa per nessuno, in nessuna epoca storica. Anche il Conte Luca mi conferma questo, pur trovando sempre più piacere ad essere molto coinvolto nell’attività di Tizzano, al punto che le sue visite, in questi ultimi quindici anni, da quando cioè ha preso le redini dell’azienda, sono diventate sempre più frequenti fino al punto di trasferirsi da Milano, dove vive, a Casalecchio di Reno anche tre o quattro giorni alla settimana. Un piacere che lo ha spinto ad assumere anche incarichi importanti, fra cui quello di Presidente del Consorzio di Tutela dei Vini dei Colli Bolognesi. Il Conte Luca mi racconta che nei tre anni che seguirono quella nomina cercò, con tutto il suo impegno, di sopperire agli atavici


Luca Visconti di Modrone

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handicap di questo territorio vitivinicolo che non contribuiscono al suo sviluppo; principalmente si tratta di una scarsa massa critica dell’offerta, suddivisa tra numerosi produttori, che non supera complessivamente i 3 milioni di bottiglie commercializzate, di una non omogeneità produttiva - con picchi in positivo e in negativo della qualità dei vini presentati al mercato - e di una ancor minore visibilità dell’intero comparto enologico che non evidenzia aziende leader e che ha sempre subìto il fascino e la gloria della gastronomia bolognese. Un altro elemento che non contribuisce a smuovere le acque è che il mercato enologico di Bologna - ho notato - è molto esterofilo e in città si consumano, principalmente, vini di altre regioni (che non sempre sono migliori di quelli che ho trovato qui a pochi chilometri), vini la cui commercializzazione è agevolata da quello snobismo provinciale che, ormai, ha contagiato un po’ la cultura della città. Quello che ha cercato di fare il Conte Luca è stato inculcare la cultura di legare il vino al territorio e a quella genuina tradizione gastronomica che non deve prevaricare, ma aiutare a far crescere il sistema vitivinicolo dei Colli Bolognesi, stando al fianco di quella produzione alimentare che non si è lasciata condizionare dall’evoluzione dei tempi ed è rimasta fedele alle proprie tradizioni. Condivido anch’io il suo impegno e accetto volentieri di recarmi in sua compagnia da Ennio Pasquini, uno degli ultimi artigiani che producono la “vera” mortadella; infatti, assaggiando questo prodotto mi devo ricredere sul significato stesso della parola mortadella e su cosa io abbia mai mangiato fino ad oggi, dato che con quell’affettato sono stato allevato fin dalla pubertà...

Tizzano -

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COLLI BOLOGNESI DOC VINO SPUMANTE PIGNOLETTO BRUT Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pignoletto provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Tizzano, nel comune di Casalecchio di Reno, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 15 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni di origine pliocenica, calcarei, di medio impasto e molto profondi, ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate Pignoletto 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 3.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 24 ore di una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 12°C, è avviato, una volta inseriti i lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, che si svolge in tini di acciaio inox ad una temperatura di 15-16°C per 15 giorni; si esegue poi il travaso, lasciando che il vino rimanga ancora sui propri lieviti per 3 mesi, al termine dei quali, dopo un breve illimpidimento, è messo in autoclave per 7 mesi, periodo durante il quale si procede alla presa di spuma secondo il metodo italiano. In seguito il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di almeno 2 mesi prima della commercializzazione.

Note organolettiche Il vino si presenta all’esame visivo con una spuma densa e cremosa sorretta da un perlage fine e persistente; all’esame olfattivo si esaltano profumi lievi e delicati di mela renetta e agrumi, a cui si mescolano note di fiori di acacia ed erbe aromatiche con una chiusura minerale. La bocca è pulita, lineare, ben equilibrata, lunga e persistente. Prima annata 1997 Le migliori annate 1997, 2001, 2005, 2006, 2007 Note Il vino raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 4 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Marescalchi dal XVII secolo, poi, per matrimonio, della famiglia Visconti di Modrone dagli inizi del ‘900, l’azienda agricola si estende su una superficie di 230 Ha, di cui 32 vitati e il resto occupato da colture cerealicole e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Gabriele Forni e l’enologo Nicola Grando.

Quantità prodotta 15.000 bottiglie l’anno

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Nel corridoio è uno specchio, che fedelmente duplica le apparenze. Gli uomini sogliono inferire da questo specchio che la Biblioteca non è infinita... Io m ' arrischio a insinuare questa soluzione: la Biblioteca è illimitata e periodica. Jorge Luis Borges, La Biblioteca di Babele

È una giornata uggiosa quella che mi accompagna al confine con la Lombardia, proprio all’estremo lembo dell’Emilia, a Ziano Piacentino, e da lì, poi, verso un piccolo borgo, arroccato sui Colli Piacentini, denominato Torre Fornello, sviluppatosi nel Duecento intorno alla fornace, che ha dato poi il nome all’intera frazione. Da molti decenni alcuni edifici dell’antico centro produttivo fanno parte dell’omonima azienda vitivinicola, compresa la torre quattrocentesca e la chiesa seicentesca. Strutture che si sono mantenute nel tempo e che sono state conservate anche grazie all’impegno della famiglia Sgorbati e soprattutto alla volontà di Enrico che, a partire dal 1998, si gode questo buen retiro che si apre sulla vista dei suoi splendidi vigneti, inerpicati sulle dorsali dei due colli prospicienti ed estesi per circa 60 ettari. Mi accorgo che ogni cosa che osservo meriterebbe molta più attenzione di quanto, invece, io le possa dedicare, perché, ogni qualvolta mi soffermo su un particolare del paesaggio o di uno specifico squarcio o angolo della cantina, è come se osservassi dei quadri, più o meno grandi, al cui interno trovo sempre raffigurati dei vigneti. Dovunque io guardi, scopro che, in mezzo a quelle cornici immaginarie, vedo un rincorrersi di vigne che inseguono altre vigne, come se le stesse si riproducessero nello stesso specchio descritto da Borges, quello di cui egli parla nella sua Biblioteca di Babele, mentre, nella realtà, è Enrico che si arricchisce l’anima di quei riflessi e di quelle decuplicazioni d’immagini in cui la vite è tanto protagonista da far distogliere lo sguardo degli altri dal suo, rendendolo più capace di affrontare la vita con quella serenità e quell’armonia che si raggiungono solo con gli anni e, in genere, molto più tardi rispetto all’età che lui dimostra.

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Enrico Sgorbati

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Fuori piove e l’atmosfera, pur con un cielo plumbeo, non è triste, anzi direi quasi il contrario, poiché la solarità di Enrico rende piacevole la conversazione e il racconto di quegli avvenimenti del passato che lo avevano indotto a cercare di far altro nella vita rispetto all’attività odierna di vignaiolo. Ci fu un tempo in cui il suo sogno era quello di diventare incisore d’oro, ma in tutto questo vitale divenire si ritrovò appassionato a quei quadri che, nello specchio di Borges, riflettono quelle vigne alle quali, seguendo i princìpi che avrebbero regolato l’attività d’incisore, ora dedica interventi cesellatori e una maniacale cura, applicando quell’innato senso del fare che lo caratterizza. Preciso, meticoloso, attento osservatore e, soprattutto, grande esteta, oltre che amante del bello, Enrico si specchia volentieri nella natura che lo circonda e in quelle terre che ha ereditato dai genitori e alle quali si è accostato, lasciandosi svezzare nell’arte della conoscenza della viticoltura da Angelo, il vecchio fattore. Da lui ha appreso i segreti, i metodi e i trucchi con cui avrebbe dovuto affrontare ogni singolo appezzamento di vigneto, mettendo in pratica anche quelle poche e rudimentali nozioni acquisite durante gli studi agronomici fatti in gioventù. Un processo evolutivo non solo tecnico, ma anche culturale e filosofico, che lo ha portato ad acquisire esperienza anche presso altre cantine, al fine di arrivare a trovare, prima possibile, le risposte alle infinite domande che gli sorgevano via via davanti alle difficoltà o alle problematiche in ambito vitivinicolo ed enologico. Un divenire nel

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quale sembra aver compreso, intelligentemente, la necessità di non dare mai niente per scontato, sempre con l’umiltà di non aver mai finito di imparare e non sentirsi mai appagato dei risultati ottenuti. Questi princìpi, ben saldi nella sua mente fin da quel lontano 1992, anno della sua prima vendemmia, non lo hanno mai abbandonato in tutti gli anni successivi durante i quali ha realizzato la cantina, incominciando un’avventura che lo ha portato ad essere uno dei migliori artigiani del vino di questi Colli Piacentini. Parlandoci, incomincio a scoprirlo e, mentre lui mi racconta di sé e di quest’azienda, mi sembra di percepire che il motivo principale che lo ha indotto a prodigarsi in quest’attività sia stato la creatività e quel grande senso di libertà che essa racchiude, che ha stimolato il convincimento di non dover produrre per soddisfare o riuscire a dimostrare qualcosa a qualcun altro, ma solo e soltanto per appagare il suo grande desiderio di voler far sempre bene il proprio lavoro, di modo che anche gli altri possano aver ben chiaro quale sia la caratterialità che lui cerca di dare ai suoi vini, tutti figli di questa territorialità piacentina alla quale lui si ispira. Ragionamenti semplici, di una linearità disarmante, nei quali ancora di più assumono valore quei quadri in cui vedo ancora un rincorrersi di vigne, come se le stesse si riproducessero nello stesso specchio descritto da Borges, quello di cui il grande scrittore racconta nella sua Biblioteca di Babele.


DIACONO GERARDO 1028 COLLI PIACENTINI DOC GUTTURNIO RISERVA Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Barbera e Croatina provenienti dal vigneto “Calcinara e Volto”, di proprietà dell’azienda, situato in località Fornello, nel comune di Ziano Piacentino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 40 e i 45 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare, su terreni argillosi di medio impasto, ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con un’esposizione a est-ovest. Uve impiegate Barbera 55%, Croatina 45% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a guyot basso Densità di impianto 2.000 ceppi per Ha (50%); 5.200 ceppi per Ha (50%) Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a fine settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla macerazione e fermentazione a contatto con le bucce. Questa fase è svolta in vasche di acciaio e si protrae, ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C, per circa 20-30 giorni, durante i quali vengono effettuati délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo parte in barriques di rovere da 225 Hl (20% nuove e 80% di 2° passaggio) e parte in tonneaux, dove rimane per 10-13 mesi, effettuando travasi ogni 3 mesi. Terminata la maturazione, avviene l’assemblaggio delle partite, il successivo imbottigliamento e un ulteriore affinamento di 24 mesi prima della commercializzazione.

Note organolettiche Di un bel rosso rubino con riflessi color granata, il vino si presenta al naso con nette percezioni di frutti rossi maturi, fiori rossi appassiti e spezie, ponendosi all’attenzione olfattiva per il suo equilibrio che si amplia di piacevoli note sapide ed eleganti sentori di tabacco dolce e cannella. In bocca ha un’entratura equilibrata dove si amalgamano una fibra tannica vellutata e una decisa sapidità che conferiscono buona lunghezza e persistenza chiudendo con note leggermente ammandorlate. Prima annata 1998 Le migliori annate 1998, 2003, 2005, 2006 Note Il vino, che prende il nome dal ritrovamento di un antico documento (dell’anno 1028) dove sono indicati gli estremi del lascito testamentale dei terreni posti a Fornello da parte del Diacono Gerardo, raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda Di proprietà di Enrico Sgorbati dal 1992, l’azienda agricola si estende su una superficie di 60 Ha vitati. Collabora in azienda l’enologo Nico Danesi.

Quantità prodotta 5.000 bottiglie circa

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Incontrare di nuovo Sergio Navacchia, dopo tanti anni, è stato come fare un tuffo in quel passato remoto da cui sono sempre pronti a riemergere i ricordi di un tempo ormai andato. Un momento magico, in cui la memoria si è popolata improvvisamente di mille pensieri, che si affacciano alla mia mente leggeri, belli e rapidi e mi spingono ad abbracciarlo spontaneamente, con la naturalezza originata da un immutato sentimento di amicizia che mi stimola a confessargli, senza il minimo pudore, con un sorriso, la mia felicità per averlo ritrovato. Una felicità intrisa di soddisfazione per essere riuscito ad arrivare su queste colline imolesi, su, fino a Bergullo, per condividere con lui il frutto delle nostre personali esperienze nel mondo del vino, che per entrambi, hanno significato processi di crescita e importanti successi professionali. Ci eravamo conosciuti all’inizio degli anni Novanta, in circostanze assai diverse da quelle odierne. Per me erano anni difficili e in occasione di quest’incontro con Sergio mi sono tornati vivi alla mente, portandosi dietro il ricordo delle nostre chiacchierate che avvenivano abitualmente a Grosseto, davanti ad un caffè in Piazza Rosselli. Quelli erano anni in cui cominciavo a masticare di vino e a disquisire su quel prodotto, non certo dall’attuale posizione di narratore, ma come semplice venditore, affiancando chi, come Sergio, era alla ricerca di un agente per aprire dei mercati commerciali alla propria azienda, nella quale lui si era trasferito, nel 1993, dopo aver lasciato la Rai. A quel tempo avevo bisogni più “pratici” di quelli odierni, dovendo riuscire a mettere insieme il pranzo con la cena, cosa non facile per uno che perseguiva il sogno di diventare scrittore ed era ancora in attesa che le parole portassero dei denari. Pertanto, ancora lontano dalla scrittura, cercavo di sopravvivere, cavalcando tutte le opportunità che mi venivano offerte, compresa quella di vendere vino e con la presunzione di farlo proprio in terra di Toscana, patria del Sangiovese, proponendo alla ristorazione il Sangiovese di Romagna, quello di Sergio, che sentivo vivo e schietto come lui. Una scommessa che provai a vincere, riuscendo a raccogliere qualche soddisfazione e anche qualche soldo, utile a soddisfare i bisogni primari, riacquistando quell’autostima che, per svariate vicissitudini, avevo perso.

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Le cose da allora sono cambiate, ma non ho mai voluto dimenticare né quei momenti, né le persone come Sergio che tanto mi hanno aiutato. Per questo non potevo che essere felice nell’incontrarlo, anche se, sorridendogli, non gli ho nascosto l’impressione di ritrovarlo un po’ più vecchio e anche un po’ più curvo su se stesso di quanto non fosse l’ultima volta che ci eravamo visti, ricevendo prontamente, come contropartita, pan per focaccia, perché, ahimé, anche lui mi ha trovato assai diverso da quello di un tempo, quando avevo dieci chili in meno e i capelli ancora grigi, invece che bianchi. Ridendo delle reciproche prese in giro e infischiandocene del nostro nuovo aspetto, abbiamo stappato qualche bottiglia di Albana per celebrare il momento e fatto un brindisi veloce, preludio alle parole di Sergio che, facendosi serio, mi confessa la sua sorpresa nel vedermi nella sua azienda, stavolta nella veste di attento osservatore e viaggiatore di quel mondo del vino dal quale, ancor prima di me, anche lui è rimasto stregato. Senza interrompere l’atmosfera seria e a tratti commossa creatasi intorno a quelle sue poche parole, egli si mostra gratificato anche del fatto che nella mia scrupolosa ricerca avviata per scoprire quali e quante siano le aziende ambasciatrici di questa Romagna enologica che vado conoscendo, non mi sono dimenticato di lui e di Tre Monti. Come avrei potuto farlo? Per capire davvero quale sia lo stato dell’arte della viticoltura di questo territorio non mi sarebbe stato possibile bypassare questo affabile, schietto e sincero romagnolo, conosciuto tanti anni addietro. Come avrei potuto fare a meno di confrontarmi con questo settantasettenne, dal momento che ho voglia di interpretare le sfumature e i tempi che hanno colorato, regolato e ordinato l’evoluzione dell’enologia di qualità di questa regione? È stato lui, infatti, fra i primi, all’inizio degli anni Ottanta, a prodigarsi per veicolare e far conoscere quelle poche eccellenze allora presenti sul territorio. Lo osservo, mentre mi racconta di sé e di come, pur avendo ormai deciso di affidare l’azienda ai figli David e Vittorio, senta dentro il desiderio di essere ancora lì, per seguirla, restando impavido a dar consigli, a stimolare iniziative e a star dietro, con paterno amore, al lavoro dei suoi due ragazzi che, con orgoglio, lo hanno


Vittorio, Sergio, David Navacchia

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contraccambiato e amato così tanto fino al punto di seguirlo, facendosi stregare anch’essi dallo stesso mondo che aveva già affascinato Sergio, sottraendolo ad una brillante carriera di giornalista televisivo. È evidente che ha ancora voglia di fare mille altre cose e per questo mi trasmette la sensazione che, per lui, il tempo non conti affatto e che abbia, riposti nel cassetto, ancora un sacco pieno di chissà quali sogni ai quali vorrebbe tanto dedicare le sue residue energie. La vitalità che ancora sprigiona è figlia di quella stessa intraprendenza che lo ha sempre caratterizzato e spinto al punto non solo di rappresentare, oggi, la storia della sua cantina, ma anche di essere uno dei più autorevoli interpreti della tradizione vitivinicola romagnola: talmente intriso da esserne parte integrante. Un processo evolutivo costruito insieme alla sua amatissima moglie, Thea, la quale, forse più di lui, ha creduto, fino a quando ha vissuto, che, insieme, avrebbero certamente potuto avviare un nuovo percorso enologico di qualità per queste colline che, dopo oltre trent’anni, inizia ora ad essere una realtà anche per tante altre piccole realtà del territorio. Sono stati Thea e Sergio, infatti, a prodigarsi, in tempi non sospetti, per innescare quei meccanismi di confronto con i grandi enologi e altre figure scientifiche di spicco del comparto vitivinicolo nazionale

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ed internazionale, per far germogliare il seme della cultura vitivinicola della zona e tracciare un solco indelebile dal quale le generazioni dei vignaioli moderni avrebbero potuto trarre riferimenti importanti. A guardare i risultati, devo dire che lui, il suo solco l’ha tracciato ed è talmente profondo che è stato impossibile, per i suoi due figli, ignorarlo, non potendo fare a meno di rimanere contagiati anch’essi, come me, dalla passione con la quale egli, ancora oggi, anima questa sua azienda, sempre protesa a trasmettere nel mondo l’immagine positiva dei vini romagnoli che qui si producono. Anche David e Vittorio parlano con noi e, mentre li ascolto narrare di come si siano lasciati sedurre dal vino, offrendomi nozioni tecniche e qualificate sulla loro Albana, sul Sangiovese e su tutti gli altri prodotti aziendali, mi ritrovo ancora una volta a guardare Sergio che li osserva orgoglioso, scoprendo così quanto siano profondi i sentimenti che nutre verso i suoi ragazzi e non posso fare a meno di provare un’enorme gratitudine per questo lavoro che mi consente, ancora una volta, di scoprire l’animo nobile di un vignaiolo come Sergio Navacchia, cofondatore, insieme a Thea, suo grande amore di una vita, dell’azienda Tre Monti.


VIGNA ROCCA ALBANA DI ROMAGNA DOCG SECCO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Albana provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Forlì, le cui viti hanno un’età di 42 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova in una zona collinare su terreni argillosi, sabbiosi e calcarei, ad un’altitudine di 150 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate Albana 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a capovolto Densità di impianto 3.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione pellicolare in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 15°C. Dopo 15 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 14°C, lo stesso va in acciaio e qui, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge ad una temperatura compresa tra i 15 e i 18°C per circa 20 giorni; il vino rimane nelle vasche per i successivi 6 mesi, periodo durante il quale non svolge la fermentazione malolattica e vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione, si esegue l’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 2 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore giallo paglierino con riflessi dorati, al naso il vino offre profumi fruttati di pesca, susina e albicocca, oltre a percezioni di miele e fiori di campo, leggere note di radice di liquirizia e mandorla verde con un finale molto minerale. In bocca è avvolgente, elegante, di buon equilibrio; risulta lungo e persistente chiudendo ancora con piacevolissime note di pesca, susina e mandorla. Prima annata 1978 Le migliori annate 2000, 2004, 2007 Note Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 1-2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 3 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Navacchia dal 1968, l’azienda agricola si estende su una superficie di 50 Ha, tutti vitati. L’azienda non si avvale della collaborazione di consulenti esterni.

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Avrei potuto fare molte altre cose nella vita e intraprendere qualsiasi altro mestiere che non quello di cantiniera, come, invece, ho fatto. Neanche mio padre credeva di vedere, un giorno, l’unica sua figlia avviarsi con decisione in quell’attività vitivinicola che lui stesso aveva iniziato, essendosi convinto di avermi persa nei meandri di un precocissimo matrimonio e di un’ancora più precoce gravidanza che, a soli diciotto anni, mi catapultò dall’adolescenza in quel mondo degli adulti ricco di tutte le responsabilità che accompagnavano quell’incosciente maternità, di cui, però, andavo fiera. Con mio marito che, giovanissimo quanto me, era stato costretto a partire per adempiere al dovere del servizio militare e nell’attesa che nascesse Massimiliano, mio figlio, decisi di rimanere ancora un po’ di tempo in famiglia, inconsapevole che quella decisione mi avrebbe condizionata positivamente per tutto il resto della mia vita. Ripensandoci a distanza di tempo, quella fu una delle poche scelte della mia vita nate dalla casualità e da circostanze fortuite; contribuì, comunque, a cementare non solo un legame fra me e questa terra, ma anche con quel mondo del vino e con tutte quelle pratiche e procedure che incominciai ad acquisire stando al fianco di mio padre, il quale le metteva in atto su quei pochi ettari di vigneti di proprietà situati nelle vicinanze di Faenza. Tecniche produttive la cui conoscenza volli cocciutamente approfondire

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tramite degli studi specifici, con l’intento prima di capire e poi di agire, come è sempre stata mia abitudine. Erano i primi anni Settanta, gli anni in cui vi era una forte e agguerrita discussione su quell’emancipazione femminile che, del resto, è ancora di là dall’essersi del tutto realizzata e non so se furono quei venti di libertà o il desiderio che avevo di sciogliere definitivamente qualsiasi laccio che la nuova e la vecchia famiglia mi tendevano, ricercando, giovanissima, una mia personale indipendenza economica e culturale a spingermi verso quel lavoro di cantiniera tanto appassionante. Sentivo che fra botti e cisterne avrei potuto dar sfogo a quella creatività che mi ha sempre contraddistinto, costruendomi degli obiettivi sui quali mettermi in gioco e trovare, così, la sospirata quadratura del cerchio della mia vita. Quella decisione mi condusse a mettere le mani, la testa, il naso e tutta me stessa in cantina, prendendo man mano visione di cosa significava realmente fare vino, condividendo con mio padre un graduale processo di crescita che determinò le sorti dell’azienda. Momenti irripetibili di un’avventura unica che mi cambiò, concretizzandosi proprio, a partire dal 1974, nell’imbottigliamento del vino che producevamo. Seguirono anni fantastici, in cui non mi sono mai risparmiata, salendo e scendendo, ora dalle scale per visionare, nelle grandi botti di legno, le fermentazioni, ora tirando i tubi o attaccando le pompe per i travasi, quelli per avviare i vini al filtraggio, dalla mattina alla sera e svegliandomi nel pieno della notte per qualche follatura o délestage, senza il timore di avere le mani macchiate di vino, né le unghie rotte. Anni costruttivi, dediti all’acquisizione di una visione enologica sempre più personale e alla comprensione di come sarebbe dovuto essere il mio vino; un percorso che contribuì alla creazione di quella personalità produttiva con la quale mi sono affermata, mettendo insieme tutti quanti i tasselli di quel puzzle che andavo costruendo con tanta più cura quanto più mi accorgevo di ciò che significava essere donna in un mondo vitivinicolo popolato da uomini. Man mano che arrivavano i risultati, cercavo di mettere sempre più in pratica l’esperienza che andavo acquisendo e giocare bene le mie carte, anche se sempre un po’ in modo contratto, rispetto a quello che avrei potuto fare se, forse, fossi stata un figlio maschio. Erano tempi in cui le aziende piccole come la nostra difficilmente si potevano permettere l’aiuto di un enologo esterno con il quale confrontarsi e insieme capire se certe idee, in un settore in


Morena Trere, Massimiliano Fabbri

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continuo cambiamento, fossero perseguibili o scartabili. Per questo capitava che certe mie riflessioni apparissero troppo futuristiche, tanto da scatenare, per ragioni diverse, delle discussioni sia con mio padre, sia con mio marito, poiché per loro avrei dovuto tenere presente di essere, prima di tutto, figlia e moglie e solo dopo, una buona imprenditrice. Qualche volta abbozzavo, qualche altra volta assecondavo le loro esigenze, in altre occasioni, invece, mi impuntavo, andando dritta per la mia strada, sapendo quanto contassero per me l’intuito, l’intraprendenza, la tenacia e la volontà nel lavoro, distante anni luce da quelle donne che amano trascorrere il loro tempo in casa a praticar faccende domestiche solo per soddisfare i mariti. Più passava il tempo e più mi piaceva il mio lavoro; mi adoperavo instancabilmente su ciò in cui credevo, mettendomi sempre in gioco e scommettendo sul futuro di questa cantina e di quest’azienda, ricercando per essa l’innovazione con quel raziocinio che ho sempre posseduto al fine di raggiungere obiettivi concreti. Oggi sorrido al pensiero dell’imbarazzo che avevo quando incominciai a frequentare le prime fiere o alle posizioni che dovevo sostenere con certi fornitori con i quali interloquivo per alcune attrezzature enologiche, riuscendo ad instaurare, via via, con tutti quelli con cui venivo in contatto, rapporti di grande rispetto. Difficoltà iniziali che mi hanno insegnato a trattare con imprese, mercati e collaboratori e mi hanno spinto ad acquisire maggiore convinzione nei miei mezzi, avviando una spirale di crescita, ancora al di là dall’essersi conclusa, nell’intento di produrre dei vini che fossero l’essenza di quel dialogo intimo che, più di trent’anni fa, ho instaurato con questo territorio che andavo sempre più comprendendo. Difficoltà che hanno avuto il grande merito di forgiarmi e di conferirmi un equilibrio con il quale affronto questo lavoro senza più timori o titubanze, convinta come sono che, in tutti questi anni, mi abbia sempre guidato l’istinto naturale che caratterizza il mio modo di essere donna: precisa, decisa, dinamica, risoluta, tenace, forte, semplice, ma, contemporaneamente e giustamente, ambiziosa quanto basta per arrivare oggi a dire che ciò che ho messo in piedi è una bella storia. Sì, bella, perché ogni giorno presenta sorprese, perché non mi stanco mai di viverla e di condividerla oggi, anche con mio figlio Massimiliano, scoprendo come anche lui sia felice di sentirsi dentro quel senso di appartenenza per questa terra che è stato la molla scatenante dei miei inizi, godendo del fatto che l’azienda Trerè, nel prossimo futuro sarà in buone mani, dal momento che anche lui ha la mia stessa passione per il mestiere di cantiniere.

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AMARCORD D’UN ROSS SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC RISERVA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Cabernet Sauvignon provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Montecoralli, nel comune di Faenza, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 15 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni con sedimenti arenari e marini caratterizzati da un impasto misto di calcare, argille e sabbie, ad un’altitudine compresa tra i 70 e i 120 metri s.l.m., con un’esposizione a nord. Uve impiegate Sangiovese 85%, Cabernet Sauvignon 15% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato e a guyot

un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta circa 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Bel rubino intenso con riflessi color granato; il vino ha un impatto olfattivo ampio, con profumi di frutti del sottobosco maturi (more e mirtilli) oltre a percezioni di marasche (anche sotto spirito) che si spalancano dopo un po’ anche a note di spezie dolci e cioccolato bianco, per ampliarsi sul finale a nuances di liquirizia e caffè. In bocca l’entratura è opulenta, ricca, ben armonizzata, con tannini vivi, sorretti da una bella acidità che rendono il vino lungo e persistente; il finale è piacevolmente fruttato e riporta alla mente le note percepite al naso.

Densità di impianto 4.500 ceppi per Ha

Prima annata 1977

Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica con l’utilizzo di lieviti autoctoni. Questa fase, svolta in tini di acciaio, si protrae per circa 14 giorni ad una temperatura compresa tra i 10°C (per 48 ore) e i 28°C (di fine fermentazione); contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 10 giorni, durante i quali si eseguono frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è lasciato nei tini dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di 1°, 2° e 3° passaggio, in cui rimane per 12 mesi, subendo almeno 2 travasi. Terminata la maturazione, si effettua l’assemblaggio delle partite e dopo 4 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per

Le migliori annate 1982, 1988, 1995, 2000, 2001, 2005, 2006, 2007 Note Il vino, il cui nome è un omaggio al film di Federico Fellini, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Trerè dal 1966, l’azienda agricola, oggi di proprietà di Morena Trerè e coadiuvata dal figlio Massimiliano Fabbri, si estende su una superficie di 35 Ha, di cui 32 vitati e il resto occupato da olivi e bosco. Collaborano in azienda gli enologi Attilio Pagli ed Emiliano Falsini.

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Entrando in azienda ho la sensazione di essermi sbagliato e di aver oltrepassato, erroneamente, il cancello di una fattoria toscana. Davanti a me una strada bianca fiancheggiata da cipressi, al fianco dei quali, al di là di alcuni ettari di vigneto, si erge la cantina e il centro amministrativo dell’azienda. Fondata nel 1975, ha un’estensione vitata che occupa oltre un quarto dell’intera superficie aziendale (150 ettari), confinante, senza soluzione di continuità, con il Parco di Roncolo, una verde area protetta che abbraccia alcuni boschi nell’estremità orientale della linea pedecollinare appenninica toccando anche il comune di Quattro Castella. La sorpresa iniziale si accompagna con lo stupore di raggiungere, fiancheggiando quello splendido giardino vitato e scortato sempre da quei cipressi che, silenziosi, segnano maestosi il percorso, una bella villa seicentesca con annessi antichi stabili agricoli nei quali è stata ricavata una bellissima acetaia e un office per gli ospiti. Tutto intorno un giardino, ricco di limoni, abbraccia la casa padronale, affacciandosi sulla “Piana” sottostante che da quassù sembra lontana, molto più di quanto, invece, non sia. La quiete e la bellezza dei vigneti, che contribuiscono a disegnare il paesaggio e a costruire una bella architettura ambientale, mi danno precise indicazioni sul gusto e sulla sensibilità dei miei ospiti, i quali, piantando quel filare di cipressi, hanno arricchito di fascino l’ambiente circostante, costruendo, di fatto, un divisorio netto fra l’azienda e il paesaggio tutto attorno. Non so se sia merito di quei cipressi che svettano alti verso il cielo, ma il passarci in mezzo mi infonde sempre un piacevole senso di pace e di protezione, oltre che di freschezza, soprattutto nelle giornate calde; è la stessa

Venturini Baldini -

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Carlo Alberto, Donata, Gian Emilio Venturini

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sensazione che riscontro parlando, fin dalle prime battute, con Donata, Gian Emilio e Carlo Alberto Venturini, i figli di Carlo Venturini e donna Beatrice Baldini, i proprietari dell’azienda che oggi sto visitando nel reggiano. Essi rappresentano il nuovo che avanza e con il quale non mi è affatto difficile interloquire, anche perché si pongono al mio cospetto in modo genuino, schietto, limpido e trasparente. Parlando con loro, trovo che siano delle persone sensibili, ma anche ricche di una forte personalità, figlia, anch’essa, di quella posseduta, sicuramente, dai loro genitori. Sono ragazzi attenti e in possesso di tutti quei sani princìpi che Carlo e Beatrice devono aver inculcato loro dentro, non avendo timore né di lasciarli liberi di percorrere la loro strada - se ne avessero avuto voglia - né di decidere cosa fare delle loro vite. Così, senza imporre nessun vincolo o limitazione, li hanno visti crescere e diventare grandi, guardandoli da lontano e trovando un’immensa gioia nel vederli tornare, quando ognuno di loro, con motivazioni, modalità e tempi diversi, decise che era arrivata l’ora di lavorare in azienda. Sono giovani con gli occhi buoni, quelli delle persone perbene che hanno avuto la fortuna di crescere circondati da cose belle, acquisendo il senso del bello, un’appartenenza etica e morale nei confronti della famiglia, un amore che li unisce - ma che per pudicizia e timore non esprimono - il rispetto che, giornalmente, si manifestano e la sottile complicità che, esaltandosi nella diversità che li caratterizza, è il collante che li fa stare insieme in quest’azienda vitivinicola. Sentendoli parlare, sembra siano più vecchi della loro età e questo, penso, dipende dal fatto che dentro si portano dei valori che oggi appaiono antichi: gli stessi appartenuti alle vecchie famiglie contadine di queste campagne emiliane, nelle quali ognuno si sentiva partecipe del progetto comune e si adoperava

Azienda -

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affinché lo stesso si realizzasse. La medesima cosa avviene nel loro caso, dove sembra che ognuno si sia ritagliato precise competenze, chi intorno alla terra e alle viti, come nel caso di Gian Emilio, chi nella cantina, come nel caso di Donata e chi nel settore commerciale, come nel caso di Carlo Alberto. La cosa che maggiormente li caratterizza è il fatto di avere le idee chiare sul futuro dell’azienda. Mi rende felice sentire l’ottimismo che li rappresenta, poiché è una positività difficilmente riscontrabile in ragazzi della loro età; ciò avalla ancora di più la mia convinzione che, a monte di tutto, ci sia stata la grande regia e la capacità dei genitori di sforzarsi di non bruciare i sogni dei figli, al fine che possano amare ciò che desiderano fare nella vita: produrre il miglior Lambrusco, parlare con le viti e la natura o riuscire a costruire un’azienda modello.


RONCOLO REGGIANO LAMBRUSCO ROSSO SECCO DOC Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Lambrusco provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Roncolo, nel comune di Quattro Castella, le cui viti hanno un’età compresa tra i 4 e i 6 anni.

Seguono la filtrazione e l’imbottigliamento in condizioni isobariche. Nella bottiglia il vino rimane circa 100 giorni prima di essere commercializzato.

Tipologia dei terreni I vigneti si trovano su terreni di origine miocenica, ad un’altitudine compresa tra i 240 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest.

Note organolettiche Il vino veste il bicchiere di una spuma purpurea, densa, cremosa e prolungata e il colore è un rosso rubino quasi impenetrabile, ma brillante; all’esame olfattivo propone spiccati profumi di frutti freschi del sottobosco neri e rossi (mirtilli, ribes, more e lamponi) oltre a note di prugne rosse e ad altre più floreali di rosa canina che si uniscono a percezioni di pesche al vino, erbe officinali e una buona mineralità. In bocca risulta fresco, asciutto, suadente, in possesso di equilibrio, piacevolezza e linearità.

Uve impiegate Marani, Maestri, Malbo Gentile e Montericco (Lambruschi), circa il 20% cadauno; Salamino e Grasparossa circa il 10% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 3.600 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per circa 20 giorni ad una temperatura compresa tra i 20 e i 23°C; il mosto va poi nel vinificatore per la macerazione delle bucce e qui sosta per 4-5 giorni con rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il mosto, aggiunto di lieviti selezionati, fermenta in serbatoi d’acciaio a 20-22°C. Nei mesi successivi si eseguono i travasi per separare il vino limpido dal torbido. In primavera il vino (con residuo zuccherino) viene messo in autoclave per la rifermentazione e la presa di spuma con il metodo Martinotti in autoclave. Qui, raggiunta la pressione di 2,5 bar, sosta per altri 60-70 giorni.

Quantità prodotta circa 40.000 bottiglie l’anno

Prima annata 2003 Le migliori annate 2007, 2009 Note Il vino, che prende il nome dalla località omonima, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 4 mesi. L’azienda Di proprietà della famiglia Venturini Baldini dal 1976, l’azienda agricola si estende su una superficie di 150 Ha, di cui 39 vitati, 5 occupati da oliveto e 85 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Denny Bini e l’enologo Sirio Baldi.

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Quella che lei chiama Bologna, è un cosa grande, che va da Parma fino a Cattolica ... dove davvero la gente vive a Modena, lavora a Bologna e la sera va a ballare a Rimini ... è una strana met ropoli ... che s’ a llarga a macchia d’ o lio tra il mare e gli Appennini. Carlo Lucarelli, da Almost Blue Viaggiando attraverso questa regione scopro di trovarmi davanti ad una terra unica, ricca di eccellenze e di grandi competenze, dove anche il settore vitivinicolo assume aspetti molto più variegati di quanto immaginassi al momento della mia partenza. Un movimento enologico complesso in cui si contrappongono due mondi antitetici, quello dell’industria e quello dell’artigianato. Osservando quest’ultimo mi sono convinto del fatto che in Italia sono davvero pochi quelli che, realmente, conoscono il valore del sistema vitivinicolo di questa Emilia Romagna che vado visitando e pochissimi quelli che sanno qualcosa della viticoltura nascosta e meno percepibile, in termini numerici, che si inerpica sugli Appennini. Mi accosto a questo microsistema ancora tutto da scoprire con la consapevolezza di trovarmi di fronte a qualcosa che va oltre ciò che vedo, arrivando a pensare, quando incontro su questi colli - che delimitano da ovest e a sud i confini di questa regione - uomini, donne e giovani dediti all’arte della viticoltura, che qui, forse, vive ancora quello spirito pionieristico di un tempo, diverso da quello riscontrato da tanti altre parti o, più semplicemente, da quello con il quale mi sono confrontato nella “Piana” sottostante, solo pochi chilometri più a valle. Non so se siano l’ambiente, il paesaggio o i ritmi meno frenetici, ma ho la sensazione che quassù alberghi un’energia che travalica l’intelligenza che, di solito, contraddistingue un po’ tutti gli imprenditori vitivinicoli, andando oltre anche le loro capacità professionali e quell’insieme di caratteristiche che accomunano un po’ tutti i vignaioli. È una forza che mi coinvolge e va al di là di quella semplice e mai esagerata passione con la quale i vignaioli di collina mi manifestano la loro

Vigneto delle Terre Rosse -

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volontà di essere proprio lì, su queste terre appenniniche, sulle quali non basta fare vino, come non è più sufficiente farlo soltanto buono, ma è necessario, invece, avere un’originale intraprendenza per saperlo comunicare e vendere. Certe volte sono arrivato al punto di convincermi che molti di loro hanno ancora dentro quella genuina filosofia pionieristica che ha caratterizzato un po’ tutta la viticoltura del Bel Paese, soprattutto quando si iniziò a percepire il valore di quel rinascimento enologico che avanzava, sconvolgendo l’intero mondo del vino italiano e costruendo nuove opportunità per migliaia di vignaioli. Una filosofia schietta, sincera, fatta di sperimentazione, ricerca e tanta voglia di fare, intorno alla quale si sono costruite storie e vicende di vite vissute in funzione proprio di quelle idee gravitanti intorno al vino. Chiudendo gli occhi, immaginavo quelle storie, paragonandole ad altre che mi avrebbero potuto raccontare i coloni di quel lontano West di cui ho sentito tanto parlare, che viaggiavano per mesi e mesi verso la “frontiera”, in direzione di quella linea immaginaria dove speravano che l’ipotetico diventasse realtà. Ognuno di questi pionieri portava sul proprio carro tutto ciò che possedeva, le proprie origini e quelle tradizioni che avrebbero potuto contraddistinguerlo e renderlo unico dall’altro che viaggiava sul carro accanto, nella medesima direzione. In questa “carovana” che correva lungo l’asse appenninico, ogni giorno salivo su un nuovo carro per farmi raccontare ciò che è poi alla base del mio lavoro di “cantastorie” e fra quelle che mi hanno particolarmente colpito ce n’è una che mi è piaciuta molto ed è l’azienda Vigneto delle Terre Rosse, della famiglia Vallania. Me l’hanno raccontata, in modi diversi, Giovanni e suo figlio Enrico Vallania e la


Giovanni, Elisabetta Vallania


splendida e intrigante Maria Elisabetta. Persone amabili con le quali ho pranzato e chiacchierato piacevolmente nella splendida casa di campagna attigua alla cantina, così ricca di vita vissuta che sarei stato lì per ore a scoprirla, sbirciando l’infinità di cose collocate in ogni dove. Quadri, grammofoni, radio modernissime, album fotografici, pianoforti, oggetti d’arte e vecchie riviste, mobili d’epoca e moderni: il tutto in un susseguirsi e incastrarsi di immagini perfette, costruite con una capacità artistica non voluta, ma in base a un genio casuale splendido. Persone piacevolissime, complesse e in possesso di un notevole bagaglio culturale, che sono riuscite a donarmi, nelle poche ore che ho trascorso in loro compagnia, emozioni belle e anche qualcosa in più rispetto all’idea - che avevo prima d’incontrarli - di cosa fosse la viticoltura appenninica e, in particolare, quella dei Colli Bolognesi che si identifica un po’ con la loro storia. Così scopro, con il loro permesso, che gran parte dell’evoluzione storica dell’enologia che negli ultimi decenni ha caratterizzato questi colli, è dovuta principalmente ad Enrico Vallania, medico di professione e viticoltore per passione, oltre che enofilo per vocazione, ma, soprattutto, studioso e appassionato ricercatore che, nel 1961, dette di nuovo impulso all’azienda di famiglia, sperimentando, su questi terreni, vitigni e tecnologie tese al miglioramento di quella qualità enologica che caratterizzava, in negativo, la produzione del vino in zona, sviluppando, con

Vigneto delle Terre Rosse -

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creatività e sagacia imprenditoriale, la tenuta che si estende oggi su una superficie vitata di 25 ettari, posta sulle pendici collinari, a occidente di Bologna, nel comune di Zola Predosa. Dopo la scomparsa di Enrico, avvenuta nel maggio 1985, sua moglie Adriana, insieme ai figli Elisabetta, Giovanni e al nipote Enrico Jr., raccolgono l’eredità culturale dell’azienda, fornendo ognuno il proprio contributo affinché la stessa conservi lo status fin qui acquisito. Vi è quindi chi, come Giovanni, si divide fra la cattedra di Odontoiatria alla Facoltà di Medicina dell’Università di Bologna e i filari di viti e chi, come Elisabetta, dopo aver vissuto, con coraggio, una bellissima esperienza didattica durata alcuni anni insegnando Scienze alla Indiana University, si dedica alla cantina e chi, come Enrico Jr., il figlio di Giovanni, alterna l’impegno dello studio legale con i molteplici aspetti promozionali e commerciali dell’azienda. Un fulgido passato che tutti cercano di mantenere vitale con la stessa passione che aveva stimolato il vecchio Vallania, il quale cercava di applicare ai suoi vini rigore e dettami precisi, consapevole del fatto che, prima di tutto, dovevano essere pensati e realizzati nel vigneto e non in cantina, attraverso un certosino e attento lavoro, così da vinificare uve di grandissimo pregio e realizzare, di conseguenza, vini altrettanto grandi e rispettosi della stagionalità che li contraddistingueva. Le cose non sono cambiate e in ogni annata i vini delle Terre Rosse hanno una loro precisa identità, rappresentando la sintesi di tutto ciò è avvenuto nell’arco dell’anno. Un concetto che anch’io potrei applicare a questi miei ospiti che hanno saputo trasformarsi e, pur essendo in possesso di specifiche competenze professionali distanti dal mondo del vino, le hanno sapute plasmare e adattare, con grande capacità e intelligenza, nella tutela e valorizzazione di quella tradizione enologica di famiglia, ritrovandosi praticamente immersi in quella storia, voluta da Enrico, che li vede protagonisti tra viti e filari, acquisendo, ogni giorno che passa, una sensibilità culturale verso tutto ciò che è natura.


ENRICO VALLANIA CUVÉE COLLI BOLOGNESI DOC CABERNET SAUVIGNON Zona di produzione Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon provenienti dal vigneto Enrico Vallania, di proprietà dell’azienda, situato in località Terre Rosse, nel comune di Zola Predosa, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 45 anni. Tipologia dei terreni Il vigneto si trova su terreni di origine argilloso-calcarea, ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 250 metri s.l.m., in una conca con un’esposizione a est-sud / ovest. Uve impiegate Cabernet Sauvignon 100% (dal solo clone autoctono) Sistema di allevamento Spalliera o cordone libero con potatura a cordone speronato e capovolto Densità di impianto 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 6-8 giorni ad una temperatura compresa tra i 20 e i 25°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo in vasche di acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene travasato e rimane sempre in acciaio per 24 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi quando necessario. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta circa 4.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore rosso rubino intenso, quasi impenetrabile il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi maturi, ricchi ed opulenti che spaziano dalle note fruttate di mirtilli, marasche e confettura di prugne a quelle erbacee di erbe officinali, humus e cannella, con un finale che si adagia su percezioni di grafite. In bocca è armonico, piacevole, con una fibra tannica vellutata in via di evoluzione, ma ben equilibrata che conferisce, insieme alla ricca mineralità, eleganza e lunghezza al vino. Prima annata

1961

Le migliori annate 1970, 1978, 1980, 1985, 1987, 1990, 2000, 2004 Note Il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda Di proprietà della famiglia Vallania dal XVIII secolo, l’azienda agricola si estende su una superficie di 25 Ha, di cui 15 vitati e il resto occupato da bosco. Le funzioni agronomiche ed enologiche sono seguite direttamente dalla famiglia Vallania.

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Certe volte mi sorprendo a litigare con quell’infernale congegno, ormai usato da tutti gli automobilisti, che è il “navigatore”. Lì, davanti ai miei occhi, mi indica, con voce garbata e femminile, la strada che, secondo lui, dovrei percorrere; regolarmente, però, seguendo le sue indicazioni, mi perdo e comincio a lanciare invettive contro chi abbia reso questi moderni accessori così stupidamente indispensabili. Certe volte, invece, quando il tempo mi è amico, mi piace abbandonarmi e lasciarmi andare a stravaganti divagazioni, capitando magari su strade sconosciute e inusuali, di cui non avrei neanche immaginato l’esistenza. Così, dopo aver lasciato la via Emilia, mi ritrovo, poco prima di Castrocaro Terme, in un paesaggio unico, completamente sconosciuto. Senza timore, seguo un sentiero asfaltato ricco di saliscendi, dossi e buche, che si incunea delicatamente

Villa Bagnolo -

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fra calanchi, vigneti e campi di grano; bellissime cartoline in sequenza scorrono davanti ai miei occhi come se la natura si volesse divertire a stupirmi. Non ho fretta. Ogni tanto la mia andatura rallenta o si ferma; questo mi consente di fotografare o anche di scambiare quattro chiacchere con qualche buon escursionista con il quale condivido la suggestione dell’ambiente circostante o con qualche coraggioso ciclista che, abbandonata qualsiasi velleità agonistica, cerca di arrampicarsi su per queste ripide salite che dovrebbero condurre anche me verso Villa Bagnolo. Cerco di incoraggiarlo, comprensivo della notevole fatica che sta facendo e il discorso cade sulla bellezza della strada e sull’antichità dei luoghi tutt’intorno, dove - ho letto da qualche parte - sono state rinvenute tracce di insediamenti riconducibili già al IV-III secolo a.C., di molto antecedenti, comunque, alla prima testimonianza scritta del luogo, la “Descriptio Romandiolae”, che risale al 1371 e in cui si fa menzione di Villa Bagnolo come “villa dei sedici focolari” del contado di Castrocaro. Mi rendo conto ancora meglio di questa storia millenaria non appena arrivo in azienda; qui trovo custodita una grande pietra raffigurante una croce di dubbia origine, forse templare o forse celtica, risalente all’anno Mille, situata accanto ad una piccola chiesa, anch’essa molto antica, con campanile a vela, dedicata a San Tommaso. Ad attendermi trovo Vito Ballarati, un vignaiolo che, fino a qualche anno addietro, svolgeva attività industriale nel settore tessile; un ingegnere milanese che, dal 1998, conduce, insieme alla moglie Carla, nativa di queste parti, questa tenuta. Una persona intraprendente, affabile, cordiale, come lo erano i milanesi di una volta, attento e scrupoloso nella descrizione della sua azienda e della sua cantina, che ha studiato nei minimi particolari, a partire dai fermentatori quadrati, originalissimi e funzionali, da lui stesso ideati e fatti costruire appositamente, strumenti che mi danno subito l’idea di chi io abbia di fronte. Mi racconta dei suoi trascorsi di industriale e dei suoi primi contatti con il vino, quando a quindici anni, o poco più, suo padre lo conduceva con sé a Ghemme, a Gattinara, a Sizzano o ad Alba a degustare quei Nebbioli che devono essergli rimasti molto impressi nella memoria, a giudicare da come ne parla. Non so se sia stata la forza di quelle adolescenti emozioni a


Carla Alpi, Vito Ballarati

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lanciarlo, dopo tanti anni, in questa sfida vitivinicola che ha voluto avviare a Villa Bagnolo, o se sia invece quel sentimento - che nasce un po’ in molti uomini che si sono occupati per buona parte della loro vita d’industria - di volersi riaccostare, in età avanzata, alla terra e a suoi ritmi o se invece, ancora, abbia voluto dare dimostrazione a se stesso di essere sempre in grado di affrontare, a settant’anni passati, nuove sfide, decidendo, casualmente, di dedicarsi al vino, del quale era stato sempre e solo un grande estimatore e conoscitore, ma niente più. Sta di fatto che, guardando i risultati che ha ottenuto, gli devo riconoscere di aver recuperato il tempo perso e, come presagio di una seconda o terza giovinezza, di saper affrontare con piglio i problemi che riguardano la produzione e il comparto vitivinicolo di questa Romagna così poco conosciuta. Luoghi fantastici, la cui bellezza aveva già stregato Vito e Carla da molto tempo, tanto da diventare il loro buon ritiro, dove trascorrere piacevoli domeniche fra scampagnate e lunghe chiacchierate con i contadini della zona, godendo della prelibata e genuina gastronomia che, ancora oggi, viene qui proposta al turista. Vito mi racconta, però, che quando assaggiava i vini che gli venivano offerti, si rinchiudeva in un rispettoso silenzio, per non dichiarare che, secondo lui, quei prodotti non rispecchiavano affatto la qualità delle bellissime uve locali, i cui chicchi di Sangiovese schioccavano, dolci e fragranti fra i denti, a dimostrazione delle grandi potenzialità di questo territorio che, per morfologia e aspetti pedoclimatici, sembrava addirittura migliore di quelle aree piemontesi che generavano quei vini a lui tanto cari in gioventù. Guidato dal suo istinto, nel 1998 iniziò a comprare le terre intorno alla villa, ponendo attenzione agli impianti e dando vita a quel progetto che lo avrebbe condotto a realizzare il suo vino. Quando

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si insegue un sogno, non contano i soldi investiti o i sacrifici effettuati: l’importante è provare a realizzarlo, anche senza punti di riferimento in zona, né tracce di una tradizione che possa guidarci o attraverso la quale leggere e scoprire il territorio. Non vi era nessun vecchio contadino che sapesse trasferirgli nozioni tecniche o pratiche di come rispondessero queste terre ad un certo tipo di viticoltura, indicandogli come muoversi su delle colline che, a soli dieci chilometri di distanza, hanno suoli e storie agricole completamente diverse. Difficoltà che dovevano essere affrontate mentre, nel frattempo, Vito provvedeva a impiantare 17 ettari di nuovi vigneti, ad attrezzare la cantina con macchinari moderni e botti di rovere da 30 quintali, avviando collaborazioni professionali con grandi enologi e impostando una propria filosofia produttiva che, forse, potrà essere presa ad esempio da chi, oggi, voglia avviare un’azienda vitivinicola in una zona dove tutto sembra immobile. Una staticità riscontrata sia nella tipologia produttiva di quel Sangiovese, realizzato prima del suo arrivo, sia nel tipo di promozione avviata da enti e aziende per far conoscere e valorizzare il territorio, inserito in un limbo dal quale Vito sentiva la necessità di uscire per mostrarlo al mondo, in modo da creare occasioni positive di crescita e sviluppo. Posso immaginare quante difficoltà abbia incontrato e quale sia stata la sua felicità nel riuscire a dar corpo ad un Consorzio dell’Appennino Romagnolo che si prefigge la rivalutazione e la promozione degli aspetti culturali, storici e paesaggistici di questa Romagna appenninica. Mentre parla, assaggio i suoi vini e riconosco dei buoni Sangiovesi, ricchi di una forte personalità, diversi da quelli che lo hanno entusiasmato in gioventù, ma chissà, il tempo gioca a suo favore e visto che le vigne sono belle, le uve sono bellissime, la cantina è funzionale, non è detto che il suo sogno non si realizzi...


BAGNOLO SANGIOVESE DI ROMAGNA DOC SUPERIORE RISERVA Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Bagnolo, nel comune di Castrocaro Terme, le cui viti hanno un’età compresa tra gli 8 e i 10 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare, su terreni limosoargillosi, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 380 metri s.l.m., con un’esposizione a est. Uve impiegate Sangiovese 100% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto 3.333 ceppi per Ha Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica, fatta svolgere in tank di acciaio per circa 4 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura per altri 3 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo in botti di rovere da 300 lt., dove svolge la fermentazione malolattica e rimane per 12 mesi, periodo durante il quale si eseguono travasi ogni 3 mesi. Terminata la maturazione, e dopo l’assemblaggio delle partite, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 15.000 bottiglie circa Note organolettiche Di un bel rosso rubino con riflessi color granato, il vino si presenta all’esame olfattivo in modo austero, molto complesso, con un mix di percezioni che lievemente si uniscono e si confondono: all’inizio si aprono verso la frutta in confettura, poi si allargano verso un pot-pourri di petali di fiori appassiti, poi proseguono su note speziate dolci e sensuali e si allungano nel finale verso nuances balsamiche. In bocca è pieno, elegante, pulito, di grande armonia; anche se “serioso” ed impegnativo, è equilibrato, lungo e persistente. Prima annata 2000 Le migliori annate 2004, 2006 Note Il vino, che prende il nome dalla località omonima, raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso tra i 4 e gli 8 anni. L’azienda Di proprietà di Giba S.p.A dal 1998, l’azienda agricola si estende su una superficie di 50 Ha, di cui 17 vitati, 2 occupati da oliveto e 31 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda gli enologi Franco Calini e Marco Zanelli.

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Ho sempre avuto un grande desiderio nella vita: poter vivere, un giorno, a contatto con quelle radici contadine che ho sempre sentito forti in me. Un desiderio che ho inseguito per molto tempo, avviandomi lungo percorsi diversi fra loro che, pur portandomi in altre direzioni, non mi hanno mai fatto allontanare dal motivo per il quale mi ero inoltrato in essi. Sentieri lungo i quali ho camminato, attraversando un’infinità di esperienze, accumulando una moltitudine di conoscenze e ritrovandomi costretto, certe volte, a riporre nel cassetto il mio sogno che, invece, altre volte ho potuto vivere pienamente. Un viaggio lungo, che mi ha spinto a migrare da una cultura all’altra con poliedrica capacità, sentendomi, contemporaneamente, italiano da parte di padre, svizzero da parte di madre e cittadino del mondo per scelta. Sensazioni che mi hanno aperto totalmente nei confronti di ciò che mi circondava; mi sono anche meravigliato di come, man mano che l’orizzonte si espandeva, mi sentissi sempre più impegnato nella ricerca di quel luogo in cui avrei potuto, finalmente, sentirmi a casa e vicino a quella terra che ho sempre considerato amica. Andrea, tu mi conosci da molti anni e sai bene quanto abbia faticato per giungere dove sono oggi e quanto ciò che ho fatto qui, a Villa Liverzano, non sia stato un caso, ma la proiezione di un pensiero e il risultato di ciò che avevo costruito nella mente da un’infinità di anni e di cui ti ho parlato tante volte quando ci incontravamo in Toscana, nell’azienda di Livernano, quella che possedevo fino a qualche anno fa in provincia di Siena. Strano no? La coincidenza o la stranezza di queste due aziende vitivinicole, con due nomi simili e situate in due luoghi così diversi fra loro, che si sono manifestate platealmente davanti a me, ponendosi al

Villa Liverzano -

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mio cospetto e di traverso alla mia vita, desiderose di farsi scoprire e che fossi proprio io il loro scopritore, divenendo loro amico, prima che proprietario, e poi guardiano, custode, amante, giullare e loro narratore: proprio quello che, forse, andavano cercando da sempre. Ho sempre creduto che i luoghi possiedono un’energia, una loro anima che si manifesta a chi ha la sensibilità di percepirla. Se mi guardo intorno, queste statue, questi saloni e ogni piccolo angolo di questa villa e di quest’azienda vitivinicola erano sempre stati ben impressi nei miei sogni. Non so dirti quante volte nella mia mente abbia restaurato e tinteggiato queste mura e quante volte io abbia disegnato e piantato i vigneti, unendoli a queste ripide colline, come non ti dico con quanta cura abbia potato, ad uno ad uno, gli alberelli di quelle viti che oggi compongono il patrimonio produttivo di quest’azienda. Tu sai di che cosa sto parlando e mi capisci, perché sai bene che, anche quando stavo da un’altra parte, io ero già qui, in questo luogo che, nei miei sogni, c’è sempre stato, anche quando lavoravo nel mio studio dentistico a Zurigo o quando, stufo di quella routine che, tra l’altro, funzionava benissimo e mi dava molto reddito, progettai di costruirmi una barca a vela per intraprendere una regata in solitario, senza stop, intorno al mondo. Un viaggio rimasto a metà, per preparare il quale vissi per ben tre anni sulla mia vecchia barca, consolandomi girando in lungo e in largo, un po’ il Mediterraneo e un po’ l’Atlantico. Un’esperienza vissuta per andare alla ricerca di me stesso - come usavo dire agli amici - arrivando molto più tardi a scoprire che, purtroppo, per poter soddisfare quel mio recondito desiderio di accostarmi alla terra, avrei dovuto, prima di tutto, smetterla di andare per mare e, come seconda cosa, avrei dovuto non solo smetterla di ricercare me stesso, ma proprio allontanarmi dal mio ego, finendola, una volta per tutte, di dare ascolto all’irrequietezza che, in quegli anni, un po’ mi contraddistingueva. Non nego che mi sia costato tanto abbandonare quella sfida, come del resto mi è sempre costato molto abbandonare qualsiasi altra sfida che la vita, spesso e volentieri, stimolata da me, mi ha posto davanti. Sono sempre stato convinto che se uno gareggia deve farlo per vincere e non solo per il piacere di iscriversi ad una gara. L’ho sempre pensata in questo modo e anche ora che opero nel settore vitivinicolo le cose stanno così: rifiuto l’idea di lavorare solo per fare del buon vino e mi spingo oltre, cercando di produrre il miglior vino al mondo. Non è ambizione, arroganza o presunzione, ma solo la consapevolezza che, se mi impegno con tutte le mie forze e investo tutte le mie energie per l’ottenimento di un


Marco Montanari

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grandissimo risultato, ho maggiori possibilità, forse, di arrivare in alto rispetto a quanto potrei raggiungere se mi accontentassi di obiettivi più modesti. Un’equazione che mi piace seguire in qualsiasi campo mi trovi ad operare: è stato così quando studiavo da ragazzo o quando ho deciso di investire tutti i soldi che avevo - compresi quelli ottenuti dalla vendita di Livernano in Toscana - a Villa Liverzano, lasciando il sicuro per l’insicuro, rischiando di passare agli occhi di tutti come un pazzo che, lasciata Radda in Chianti, si trasferisce in Romagna, sui colli sopra Brisighella, continuando a fare il Sangiovese che faceva

Villa Liverzano -

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nel senese. Ma, come ti ho detto, era qui che dovevo arrivare, in questo luogo che c’è sempre stato e che sembrava aspettasse me per rinascere e rifiorire a nuova vita. Tu non puoi capire l’emozione che ebbi già nel vedere questo luogo dall’alto, mentre lo sorvolavo con il mio ultraleggero e quanto rimasi affascinato dalla magia e dalla sacralità che mi trasferì questa casa. Niente a che vedere con l’energia e con le vibrazioni che attraversavano Livernano, nel Chianti. Qui fu come quando vedi una donna ed esclami: “Eccola, è lei!” e t’innamori... Arrivando mi sembrò che, all’improvviso, tutto diventasse chiaro, le nuvole sparirono dalla mia mente e il sogno divenne realtà. Così è stato e a quel sogno si è aggiunta anche l’opportunità di avere accanto mia sorella e mio cognato e di aver finalmente con me la compagna con la quale condividere il piacere di essere finalmente a casa.


DON IGT RAVENNA ROSSO Zona di produzione Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Cabernet Franc e Carmenère provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda situati nel comune di Brisighella, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 20 anni. Tipologia dei terreni I vigneti si trovano in una zona collinare ripida composta da un masso di gesso, su terreni di epoca pliocenica ricchi di sabbie, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate Cabernet Franc 50%, Carmenère 50% Sistema di allevamento Spalliera con potatura a cordone speronato e alberello Densità di impianto da 3.500 ceppi per Ha nei vecchi impianti, agli 8.500 ceppi per Ha per gli alberelli di nuova generazione Tecniche di produzione Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla diraspatura e alla pigiatura soffice delle uve; una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica, che si svolge a temperatura ambiente per circa 10 giorni in piccoli recipienti di acciaio che non superano i 15 Hl; si procede ad una lunghissima macerazione pellicolare di oltre 20 giorni. Dopo una decantazione statica, il vino fiore così ottenuto è nuovamente messo nei contenitori di acciaio dove svolge la fermentazione malolattica; successivamente è posto in barriques (per il 50% nuove) in cui rimane per 18 mesi; si effettuano periodici bâtonnages sur lies. Segue l’assemblaggio delle partite e, dopo 1 mese di chiarifica in acciaio, il vino è imbottigliato senza filtrazione sterile per un ulteriore affinamento di almeno 12 mesi prima della commercializzazione.

Quantità prodotta 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche Di un colore rosso rubino intenso quasi impenetrabile, il vino si propone all’esame olfattivo con note “rigide”, ma eleganti che all’inizio stentano ad aprirsi, proprio per la complessità che sa offrire, e poi spaziano dalla frutta matura allo speziato di pepe, alla cannella e al peperone giallo, con un finale minerale e di grafite. In bocca ha un’entratura affascinante, potente, calda e altrettanto complessa, sorretta da una bella vena sapida e una fibra tannica vellutata ancora in via di evoluzione che, insieme ad un’importante struttura polifenolica, conferiscono un ampio margine di crescita e longevità; vino decisamente lungo e persistente. Prima annata 2004 Le migliori annate 2004, 2005, 2006, 2007 Note Il vino, che esce con due etichette, una femminile e una maschile, per un identico contenuto, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda Di proprietà di Marco Montanari dal 2002, l’azienda agricola si estende su una superficie di 33 Ha, di cui 3,1 vitati, 5 occupati da oliveto e il resto da bosco. L’agronomo è Francesco Bordini, mentre le funzioni enologo sono svolte dallo stesso Marco Montanari.

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Finito di stampare nel mese di novembre 2010 presso Tap Grafiche, Poggibonsi (SI) - Italia




90,00


L’ Emilia e la Romagna: terre di e Ecco un altro libro su quel fantastico viaggio che sto compiendo, da dieci anni a questa parte, nell’Italia del vino, aggiungendo nuove storie alle centinaia fin qui raccontate nei volumi che compongono la collana editoriale “Le grandi aziende vitivinicole d’Italia”. Quelle che troverete in questo libro sono un limitato, ma rappresentativo numero di aziende che vi voglio far conoscere attraverso delle storie descritte in punta di matita come semplici appunti di viaggio, con cui ho provato a raccontarvi l’impatto con una regione come l’Emilia Romagna. Così, da Piacenza mi sono ritrovato a Rimini e dai Lidi Ferraresi, lungo il Reno, a Sasso Marconi, muovendomi su e giù per fantastiche colline o attraverso l’opulenta Pianura Padana che, amichevolmente, ho ribattezzato “la Piana”, compiendo un viaggio a ritroso nelle mie origini, soprattutto quando mi sono ritrovato ad abbracciare la terra che ha dato i natali a mio padre. Pur conoscendone le strade e avendo visitato molte sue città, tutto mi è sembrato una grande sorpresa. Allo stupore, con il passare delle settimane, si è aggiunta anche la

comprensione delle trame sottili con cui sono delimitati i territori vitivinicoli; trame che non riguardano gli aspetti pedoclimatici che, comunque, esistono, ma altri e più sottili confini, quasi immaginari, che mi hanno dato una più complessa visione d’insieme del mondo del vino di questa regione che va ben oltre quello rappresentato, nell’immaginario collettivo, dell’Emilia come terra di Lambrusco o vini frizzanti e della Romagna come terra di Sangiovese e vini fermi. Una terra unica, per conoscere la quale ho stretto forte la mano a chi la vive, bevendo con loro un bicchiere di vino, standomene quieto ad ascoltare quel loro dialetto musicale. Una terra di confine, posta fra il Nord e il Sud d’Italia, per conoscere la quale invito tutti a dedicarle il tempo necessario, in modo da poter scoprire il fascino di camminare sotto i portici delle sue città ducali, comprendendo, nella bella mostra delle sue vetrine e in quel vivere civile che caratterizza la quotidianità di questi emiliani o romagnoli, quale sia il significato vero di ciò che altri definiscono “qualità della vita”.


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