Lombardia. Il mosaico del vino

Page 1

ANDREA ZANFI

CARLO CAMBI EDITORE





ANDREA ZANFI Fotografie GIO’ MARTORANA

CARLO CAMBI EDITORE


di Andrea Zanfi Fotografie di Giò Martorana Coordinamento editoriale e di redazione: Marco Biotti Progetto grafico: Laura De Biasio Still-life delle bottiglie: Carlo Gianni Traduzione inglese: An.Se sas - Colle Val d’Elsa (SI) Fotolito e stampa: Tap Grafiche S.p.A. Il volume è stampato su carta M-Real EuroArt Pluss Gloss 150 gr. www.m-real.com

Sono stati utilizzati inchiostri HD (High Density)

Carlo Cambi Editore Via San Gimignano snc 53036 Poggibonsi (Siena) Tel. 0577 936580 - Fax 0577 974147 www.carlocambieditore.it info@carlocambieditore.it 2008 © Copyright Carlo Cambi Editore Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy I diritti di riproduzione, di traduzione, di memorizzazione elettronica e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi microfilm, copie fotostatiche e cd), nonché l’inserimento in siti internet, sono riservati per tutti i paesi. Prima edizione: dicembre 2008 Versione italiana: ISBN 978-88-88482-97-2 Versione inglese: ISBN 978-88-88482-98-9

Un sincero ringraziamento al Consorzio Tutela Vini di Valtellina e al Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese per la disponibilità, il sostegno e l’ospitalità concessa allo staff della Carlo Cambi Editore. Si ringrazia il Sig. Marco Bertazzoli per essersi gentilmente prestato allo scatto fotografico sulla sua FIAT 501 Sport Torpedo del 1926 (che appare a pag. 15).


SOMMARIO 9

Lombardia. Il mosaico del vino di Andrea Zanfi

14

L’eredità di Attilio Scienza

15

Il primato che arriva dalla terra di Nicola Dante Basile

19

100 anni di Pinot nero: Oltrepò Pavese di Carlo Alberto Panont

22

Territori da sviluppare di Casimiro Maule

27

La parola ai produttori e agli enologi “Il futuro della viticoltura e del vino in Lombardia. Opportunità e vantaggi, problematiche e incertezze”

RITRATTI DI VIGNAIOLI LOMBARDI 42 46 50 56 60 64 70 74 78 84 88 92 98 102 106 112 116 120 126 130 134 140 144 148 154 158 162 168 172

Alziati Anteo Ar.Pe.Pe. Barone Pizzini Bellaria Bellavista Berlucchi Guido Bersi Serlini Ca' dei Frati Ca' del Bosco Ca' di Frara Cantrina Cascina La Pertica Cascina San Pietro Castello di Cigognola Castello di Grumello Cavalleri Caven Comincioli Contadi Castaldi Conte Vistarino Conti Sertoli Salis Cornaleto Costaripa Dirupi Faccoli Fay Fratelli Berlucchi Frecciarossa

176 182 186 190 196 200 204 210 214 218 224 228 232 238 242 246 252 256 260 266 270 274 280 284 288 294 298 302 306

Gatti Il Calepino Il Mosnel La Costa La Montina La Versa Lantieri de Paratico Le Chiusure Lo Sparviere Mamete Prevostini Monsupello Monte Rossa Montelio Monzio Compagnoni Nino Negri Pasini - San Giovanni Pietrasanta Plozza Rainoldi Aldo Ricchi Ricci Curbastro Spia d'Italia Tenuta Mazzolino Travaglino Triacca Uberti Vanzini Villa Zuliani


6


7


8


ANDREA ZANFI

LOMBARDIA IL

MOSAICO DEL Ogni volta che arrivo alla conclusione di un libro e mi accingo a scrivere la sua introduzione sono assalito da mille dubbi che mi spingono a sfogliare le centinaia e centinaia di pagine già scritte con le quali ho riempito i volumi di questa collana editoriale in cui racconto, ormai da sette anni, regione per regione, le grandi aziende vitivinicole italiane. Pagine nelle quali ho cercato di narrare uno spaccato, il più veritiero possibile, dell’Italia del vino che, tappa per tappa, vado conoscendo. Così, puntualmente, mi ritrovo a dibattermi fra le perplessità, i dubbi e le paure di riuscire a restituire un’immagine fedele del territorio che ho appena visitato, delle aziende che ho conosciuto e del carattere di quei vignaioli che sono in definitiva i protagonisti principali dei miei racconti, essendo i depositari delle tradizioni, le anime autentiche dei luoghi che visito e anche coloro che mi danno l’opportunità di conoscere lo stato dell’arte della loro zona vitivinicola. Puntualmente mi interrogo anche su quali siano le motivazioni e le ragioni che mi spingono ad avventurarmi in un percorso editoriale scandito da un’apparente monotonia metodologica, con la quale intendo cucire, in un’unica visione d’insieme, realtà molto lontane e diverse tra loro, costruendo un itinerario inedito che, quando si sarà concluso, consentirà di conoscere i meccanismi culturali dei territori vitivinicoli italiani. Non nascondo che tra le mie motivazioni più autentiche c’è sicuramente la voglia di tracciare un solco profondo del mio passaggio e anche una certa, seppur moderata, ambizione sollecitata dalle istanze pressanti del mio ego, ma, oltre a queste considerazioni di psicologia spicciola, percepisco che a motivarmi c’è qualcosa di ben più importante. Queste riflessioni mi conducono a pensare che in definitiva il vino è solo un passepartout, una chiave che mi consente di conoscere quest’Italia da bere, composita, variegata, controversa, disordinata, anarchica, fraudolenta, sconclusionata, geniale, autarchica, innovativa, disorganica, vecchia, provinciale, affascinante, ma soprattutto unica, la quale mi sembra che, per il momento, riesca a soddisfare la mia curiosità e il mio bisogno innato di scoprire ciò che c’è al di là di quello che vedo. Forse è proprio l’appagamento della mia grande passione per il viaggio il vero motore che mi spinge a muovermi nel mondo del vino. Ma come raccontarla questa passione? Avrei potuto descriverla in mille modi prendendo spunto dalle baleniere di Melville, dalle navi di Conrad, dalle isole di Stevenson, dalle fantastiche peregrinazioni di Gulliver, di Simbahad o di Alice fino a perdermi nelle strade che conducono a Lilliput o ai fiumi della fantasia di Verne, avendo però, al posto degli abissi marini, dei mari esotici solcati da balene bianche o delle isole del tesoro, le vigne, talora più misteriose del più profondo oceano, le quali sono abitate da personaggi particolari come i vignaioli, i cantinieri e gli enologi che, posso assicurare, sono molto più strani di Long John - l’eroe de L’Isola

VINO

del tesoro - o di Phileas Phogg - il protagonista de Il Giro del mondo in 80 giorni - ma ugualmente misteriosi e affascinanti a tal punto che certe volte assomigliano più a pirati e avventurieri che a contadini. Uomini che hanno il merito di spalancarmi le loro cantine come se fossero le stive di misteriosi galeoni dove fanno bella mostra i loro tesori, navi futuristiche pronte a solcare lo spazio di un futuro immaginario o talvolta più antiche e rustiche simili a vecchie case che insicure rimangono ormeggiate in porto; navi tutte ricche di sogni e fantasie, come le mie. Avrei potuto raccontarla così questa mia passione per il viaggio? Ma come integrarla con questo mondo del vino che mi ha così appassionato? Avrei potuto arricchire quelle storie prendendo spunti e incrociando quel mondo fantasioso con il mio mondo del vino, mischiando la passione dell’uno con quella dell’altro e “avvitandomi” in un viaggio antico quanto la letteratura. Non era proprio il caso. Del resto il vino, pur degno di considerazione, rimaneva sempre vino e non si era mai visto nessuno scrittore narrarlo come se fosse un viaggio se non prettamente storico. Quindi, perché avrei dovuto farlo io? Sicuramente, invece, avrei potuto prendere spunto da chi si era avventurato, prima di me, per le strade a raccontare il Grand Tour dell’Italia del vino, accondiscendendo al semplice piacere che ogni viaggiatore ha di poter accrescere il proprio spirito nel viaggio, appagando il desiderio, recondito, ma artistico, di dare alla propria esperienza una forma compiuta attraverso un racconto, una foto, un messaggio, un libro. Così, come un narratore che si guarda bene dall’elaborare griglie letterarie troppo strette che potrebbero castrare le proprie fantasie, mi sono messo in viaggio alla scoperta della mia Italia da bere senza mai sapere o conoscere in anticipo il porto del mio approdo, lasciando che fossero i vignaioli incontrati a dirottarmi verso nuove e impensate mete. Viaggio così libero, leggero e ogni anno vivo questo mio peregrinare rubando ai miei interlocutori dei frammenti di vita che mi permettono, come delle piccole trame, di imbastire brevi racconti, i quali, se letti attentamente, danno l’esatto spaccato di quel vino, di quel vignaiolo, ma soprattutto di quale sia l’anima che sorregge la viticoltura che incontro. Frammenti di vita che per me sono come viaggi fulminei e brevissimi che la mia mente compie al cospetto di chi ha voglia di raccontarsi. E così anche

9


quest’anno mi sono lasciato trasportare dal vento e mi sono ritrovato in Lombardia, fra i vigneti della Franciacorta, in mezzo alle sparute vigne del Garda, tra le viti legate al cielo della Valtellina o in quelle dolci e verdi dell’Oltrepò pavese. Un viaggio complesso, difficile, talvolta controverso e alquanto strano variegato direi - che mi ha condotto alla scoperta di ciò che ho definito un “mosaico” non solo viticolo, ma anche antropologico; ho incontrato donne e uomini assai diversi, molto spesso legati fra loro soltanto dall’orgoglio, anche un po’ infondato, di sentirsi lombardi. Industriali, commercianti e “vignaioli” in possesso di culture e di esperienze molto diverse, che parlano dialetti diversi, hanno basi culturali diverse e un diverso rapporto con la terra e con la vite. Differenze che mi è stato difficile trovare in altre parti d’Italia, a tal punto che caratterizzano e incidono in modo forte sui territori vitivinicoli di questa regione. Personaggi che ho trovato interessanti, che mi hanno consentito di crescere ulteriormente e che ho voluto conoscere per capirne i pregi, i tic, i vezzi e le paure e con i quali non ho parlato solo di vino, ma di come il produrlo li abbia aiutati a costruirsi o a cambiare e come il vino li renda “connessi” alla terra in cui operano. Come al solito ho proceduto con slancio ed entusiasmo per scoprire i segreti racchiusi da questi vigneti lombardi, inoltrandomi per prima cosa in Franciacorta, pensando di trovarvi quel vigneron come esiste in Piemonte, in Toscana o in Friuli, quello che, con le mani sporche di terra, è stato capace di qualificare con il proprio lavoro in vigna non solo la sua filiera produttiva, ma anche lo stesso territorio in cui si trova ad operare; invece, dopo giorni e giorni, ho scoperto che qui queste sono figure ormai rare, anche se non corrono pericolo di estinzione. Sono stati comunque gli stessi che non mi hanno fatto aprire la porta di casa dai rappresentanti di un’agenzia di PR, né da “sconsolate” segretarie preoccupate del posto auto del “presidente” o da giovani e rampanti enologi, ma da bravi contadini sono venuti a darmi un semplice e gradito buongiorno stringendomi la mano e, sedendosi accanto a me davanti a un bicchiere di vino, mi hanno confessato con molta onestà che il loro è un territorio cresciuto velocemente, diventato importante più per merito degli industriali che per le loro umili passioni di vignaioli. Girando per queste “Terre Franche” ho percepito, infatti, un’aria particolare, alla quale non ero abituato e che mi ha spinto a constatare come questo territorio avesse avuto il merito di saper coniugare, più di ogni altro in Italia, il settore primario, quello dell’agricoltura, con il secondario, quello dell’industria che qui vede la presenza di imprese manifatturiere di livello mondiale, le quali rendono il bacino a sud del lago d’Iseo e del Garda, tra i più ricchi d’Italia; un bacino in cui l’agricoltura, purtroppo, raggiunge non più del 2-3% del prodotto interno lordo. Una coesistenza che, osservando lo sviluppo della viticoltura, appare riuscita, ma che non ha originato una seria e programmatica condivisione dell’utilizzo del territorio da parte delle forze che interagiscono sul territorio stesso, fattore questo che, abbinato ad altri di carattere socio-politico che disconosco, ma che si percepiscono, ha provocato un ritardo nella costruzione di un sistema-territorio adeguato da cui non solo il settore vitivinicolo trarrebbe giovamento. C’è anche un altro aspetto che ho

10

percepito, girando fra i ristoranti, i bar o nelle strutture pubbliche che utilizzavo nell’area, e che riguarda il fatto di come la viticoltura non sia un’esperienza condivisa dalla stragrande maggioranza della popolazione che abita i 18 comuni che delimitano la Franciacorta, cosa questa che non contribuisce a far crescere un’adeguata cultura in grado di creare un movimento che valorizzi l’insieme del territorio. Una carenza alla cui origine è forse la gestione manageriale/industriale con cui viene guidata la quasi totalità delle aziende presenti in Franciacorta, che solo in alcuni casi sono condotte da chi svolge a tempo pieno la professione di imprenditore agricolo. Questo provoca discrepanze ed eccessi che sono alla base di alcune anomalie sporadiche e di alcuni atteggiamenti di “snobismo” da parte di certi industriali-vitivinicoli che, nascondendosi dietro al pragmatismo imprenditoriale bresciano, mi hanno riservato un’accoglienza alquanto strana, presentandosi in alcuni casi, con il cronografo in mano, contando i “minuti produttivi” che sottraevo alla loro giornata; altri si sono dimostrati invece poco predisposti a quella sincera e schietta ospitalità che, di solito, accompagna lo spirito di chi opera nel mondo del vino ed è propenso per natura alla convivialità e all’amicizia; altri ancora non hanno neanche aperto la porta, dando la disdicevole sensazione di aver smarrito l’antico concetto dell’hostipotis, di quella manifestazione cioè di generosità, cortesia e benevola tolleranza che gli uomini di cultura dovrebbero sempre avere per un viaggiatore. Dopo aver visitato oltre quaranta aziende mi sono fatto un’idea ben chiara e, a prescindere da alcune personali incomprensioni, devo dire che ho un giudizio molto positivo su questa Franciacorta che mi ha sorpreso in tutti i sensi e alla quale mi inchino e dico “chapeau” e riconosco il grande merito di essere riuscita ad imporsi, con prodotti enologici di grande, anzi di grandissima qualità, sul mercato nazionale con un marchio unico oggi leader negli spumanti in Italia che è diventato “marca” al pari anche se non per i numeri delle bottiglie prodotte - dello Champagne. Poco distante dalla Franciacorta, nella parte est della stessa provincia di Brescia, dove si trova il Lago di Garda, ho trovato un altro pezzo di quel vigneto lombardo che andavo cercando e che dovevo raccontare. È lì che sono andato a ricercare chi si danna e si dispera intorno ad una vite e ad una viticoltura che avrebbe potuto avere ben altre fortune se non fosse stata prima aggredita e poi quasi cancellata da una speculazione edilizia che, negli ultimi vent’anni, ha modificato la predisposizione agricola della zona per riqualificarla in quella turistica, contribuendo a rimodellare il paesaggio. Ma nonostante i residence, i villaggi turistici, i campeggi, i capannoni e i centri commerciali, ho vissuto giorni splenditi e intensi sul Garda, avendo la conferma di come l’ambiente nella sua complessità rappresenti l’habitat ideale per la coltivazione della vite, dell’olivo e degli agrumi. Una viticoltura che vanta oggi poche ma interessanti testimonianze e si basa principalmente su un rapporto più viscerale dei vignaioli con il territorio e su un sistema pedoclimatico unico che riesce a mettere in equilibrio il gusto con la sapidità, ponendo i vini qui prodotti più vicini a quelli francesi di Bordeaux che non a quelli delle zone circostanti; un sistema che si giova anche di curiosi e benevoli venti che giornalmente spirano con regolarità come il Pelèr, il vento freddo del


mattino, cha spira da nord a sud e che, a sua volta, lascia spazio a l’Ora del Garda, il vento caldo delle 13-13.30, che viene da sud, il quale soffia per due ore asciugando le eventuali piogge, l’umidità e le brine dannose per le viti e i grappoli. È qui che ho conosciuto i gardesani, che ho trovato somiglianti più ai veronesi che agli altri bresciani, poiché è gente sapida, simile al vino e all’olio di oliva che producono; pur avendo alcune asperità e alcuni limiti, essi sono aperti come il paesaggio del loro lago, disponibili, ospitali, veri e schietti come un bicchiere di Chiaretto e lisci, semplici e fini come l’olio. Mentre ancora tratteggio i profili delle sparute vigne del Garda, ecco che mi ritrovo, passando dal lago d’Iseo per la Valle di Corteno, in mezzo a quelle della Valtellina attraversata dall’Adda che, scendendo dalla Valle di Cancano, dopo aver toccato Bormio, Tirano, Teglio e Sondrio, si perde nel Lago di Como. Vigne che mi sembrano legate alle nuvole, che meritano solo ammirazione e mi hanno indotto a gratificare, per quanto mi è stato possibile, il lavoro svolto dai nuovi e vecchi vignaioli valtellinesi che hanno modellato e tramandato un paesaggio che mi auguro possa essere posto, il prima possibile, sotto la protezione dell’UNESCO come patrimonio dell’umanità. Guardando la Valtellina mi rendo conto che sono davvero sottili gli equilibri che regolano l’ecosistema di questa vallata che, per decenni, si è retta su un’eroica viticoltura di montagna, contraddistinta da tanti piccoli vigneti e tappezzata da un’infinità di muri a secco che recintano piccoli vigneti raggiungibili da una moltitudine di scalini di pietre messe una dietro l’altra che salgono fino in cielo. Vigneti che nell’arco dei secoli si sono frantumati in ulteriori e minimi appezzamenti di terra che hanno avuto però il merito, in certi periodi storici, di costituire per molte famiglie valtellinesi l’unica risorsa economica che permetteva loro di vivere. Vigne magiche, sospese fra cielo e terra, dove il Nebbiolo si chiama Chiavennasca, e caratterizza tutta l’interessante produzione vitivinicola del territorio, dal quale, partendo, mi sono portato via - oltre ad una bottiglia di vino che ho messo in cantina così da decidere con calma quando poterla bere - un pezzo di Bitto, una bresaola di cavallo e di cervo e dei “pizzoccheri” e, dopo aver fatto la spesa, mi sono preoccupato di “mettere nella borsa” il ricordo di questa bella gente e la grande “voglia di riscatto” di questa Valtellina, desiderosa di aprirsi al mondo e far sapere quanto valga realmente il suo territorio. Sotto la pioggia di una primavera che stenta a decollare, lascio la Valtellina e passando per il Lago di Como scendo in Brianza, dove scopro che c’è il fiorire di qualche vigna, e arrivo a San Colombano, dove si produce il vino di Milano. Mi fa sorridere però il pensiero del vino di Milano, che conoscevo solo tramite sagaci e attenti scrittori come Mario Soldati o Gianni Brera che si sono prodigati per far sapere cosa sia la provincia di Milano. Il motivo credo debba essere ricercato nel fatto che Milano è grande, immensa e ha due forze che la comandano: una forza centripeta che, come un magnete, assorbe tutto e una centrifuga che rigetta tutto, specialmente quello che non è puro e semplice business. È

una città dove ogni prodotto sembra nascere in fabbrica e dove nessuno si domanda da dove arrivino le cose che, per molti, sono prodotte o coltivate addirittura nei sotterranei di qualche ipermercato - come quello in cui si serve Giò Martorana, il fotografo che mi accompagna - uno di quei posti dove si allunga una mano e si colgono i frutti, si fruga nell’orto, si pigia l’uva o si pesca. L’unico contatto con la campagna, a Milano, è quello che si ha passando nelle strade di periferia, sempre diverse e ogni anno più lontane dalle alte guglie del Duomo o dalle volte di Galleria Vittorio Emanuele, in funzione, proprio, dell’insediamento di nuove zone industriali, nuovi centri commerciali e quartieri dormitorio, mentre poco più in là, alle porte di questa città che mi fa paura, a un’ora nemmeno dal centro, c’è chi produce proprio il vino di Milano, quello di cui parlava Mario Soldati. Sono passati ormai più di due mesi da quando ho iniziato questo viaggio in Lombardia ed eccomi finalmente in Oltrepò pavese, un luogo che mi ha dato sempre l’impressione di essere lontano, sconosciuto, misterioso e me ne domando il perché... Come è possibile che in tempi come i nostri, dove ci spostiamo da un continente all’altro con estrema facilità e il mondo si è fatto piccolo, ci siano ancora luoghi lontani? Pur conoscendo tanti paesi del mondo nessuno mi ha dato mai l’impressione di essere così lontano come invece alcune zone, paesi e borghi d’Italia; per incontrarli, ho dovuto allontanarmi dalla frenesia e dai ritmi che le città mi impongono e, magari, lasciarmi alle spalle qualche autostrada per inoltrarmi, iniziando un vero e proprio viaggio, nella campagna, seguendo strade secondarie e piccoli sentieri che mi conducono in un mondo che è davvero molto più lontano di quanto possa indicarmi il contachilometri dell’auto. Questa sensazione me la trasmette l’Oltrepò pavese che, per quanto assai prossimo alla caotica e produttiva Milano e alla più tranquilla, ma intraprendente, Pavia, mantiene ancora intatta una sua aristocratica lontananza, serrato com’è nei ritmi che somigliano più a quelli di un’isola, circondata dal mare, e che regala agli ospiti una distaccata e piacevole sensazione di quiete e serenità, che non a quelli di un’area rurale posta a nemmeno un’ora di macchina da due dei più importanti capoluoghi lombardi. Un territorio di dolci colline e verdi filari di viti che si rincorrono spezzati da campi dorati di grano maturo e da altri fioriti, in un susseguirsi cromatico che assomiglia a una trapunta che copre i colli in cima ai quali castelli e piccoli borghi dai nomi leggeri controllano, come vedette, le vallette sottostanti. Un territorio vitato che ho trovato bellissimo, forse fra i più belli d’Italia, ma che mi è apparso, sotto l’aspetto vitivinicolo, come una bella autovettura che viaggia sempre con il freno a mano tirato, pregiudicando così gravemente anche il funzionamento delle altre parti meccaniche. L’obiettivo del mio viaggio non era quello di conoscere quale fosse “il” vino dell’Oltrepò pavese, ma scoprire il battito che anima il cuore del movimento vitivinicolo di questo territorio, che mi è sembrato ancora alla ricerca di una sua identità precisa, di difficile interpretazione e di scarsa riconoscibilità. Un problema che, in parte, speravo di superare spostando l’attenzione sui pochi marchi aziendali che caratterizzano quest’immenso bacino produttivo, i quali però producendo vini bianchi, rossi, spumanti, vini

11


mossi e passiti, contribuiscono soltanto ad innalzare una torre di Babele enologica incomprensibile anche per chi ha voglia di capire. Un bel viaggio, piacevole, completo e difficile allo stesso tempo, che mi ha condotto alla scoperta di un mosaico del vino e di una Lombardia che non è solo una terra industriale, ma anche contadina, a tratti arcaica, di un’arcaicità che non esiste più nemmeno in regioni “antiche” come la Toscana. Una Lombardia fatta di borghi, castelli, piccole pievi e aziende che sono, esse stesse, paesi e comuni; una regione ricca di bellissimi paesaggi che, a me, abituato alla morbidezza delle colline basse ed erbose che costeggiano la Cassia o ai paesaggi più aspri, ma poetici, della Maremma, hanno fatto grande impressione per quella loro bellezza quasi distaccata, nordica - algida direi - che preannuncia il grande Nord, quello delle montagne, e il respiro dell’Europa che si stende oltre l’arco alpino. Piccoli tasselli di un mosaico composito, alcuni dei quali ho dovuto ricercare meticolosamente, scoprendoli in spazi angusti, situati, ovunque mi girassi, sempre troppo vicini a grandi aree urbane, a industrie e a ciminiere che mi sono sempre state sempre troppo vicine, tanto da sentirle alitare sulle viti. Un viaggio che mi ha portato a contatto con un settore della matrice nordica della cultura italiana, animato da un’antica ruralità, forse più severa, pragmatica e sofferta di quella a cui sono abituato, ma con cui ho dialogato con quel linguaggio universale che parla il vino.

12


I SEGRETI RACCHIUSI DA QUESTI VIGNETI

LOMBARDI

IL VINO COME

PASSEPARTOUT

UN BEL VIAGGIO, PIACEVOLE, COMPLETO E DIFFICILE

13


ATTILIO SCIENZA Università degli Studi di Milano

L’EREDITA’

I teorici dello sviluppo insistono nell’importanza della cosiddetta “accumulazione primitiva”: ogni processo di produzione di beni, siano essi agricoli o industriali, ha bisogno di una fase di risparmio da cui far partire i primi investimenti. Nella viticoltura lombarda la formazione di questo risparmio primigenio ha radici molto lontane che, a differenza di altre regioni italiane, per le sue origini socio-economiche peculiari, affondano non nella nobiltà, ma nella borghesia. Quando un industriale acquista in Franciacorta o in Oltrepò un’azienda viticola, non compra in realtà terra, ma ritorna a comperare, dopo i suoi antenati degli anni Mille, la propria persona, l’identità sociale identificata ora nella proprietà, allo stesso modo che nella libertà all’epoca dei Comuni. Questo inserimento di imprenditori nella viticoltura lombarda e i rapporti che essa ha con le grandi città come Milano, Brescia o Pavia, hanno introdotto nella “staticità” che caratterizza la forte simbolicità degli atti di vita quotidiana del singolo e delle comunità rurali, un’idea di socialità delle cose che le protegge dall’arbitrio della manomissione e dello spreco. I luoghi della vite sono diventati così una sorta di fisiognomica delle comunità urbane, di quelle loro parti più armoniose, dove la modernità, pur estraendo l’uomo sempre più dalla natura, non ha operato quella “devastazione dei paesaggi viticoli” alla quale si assiste in tante zone italiane. Ne sono testimonianza i paesaggi della Franciacorta, della Riviera del Garda bresciano o delle alte colline dell’Oltrepò pavese. Anche se in questi anni la tecnica ha unificato il linguaggio estetico della viticoltura lombarda, che dopo la “grande trasformazione” degli anni ’60 ha perso gli ultimi iconemi che testimoniavano le sue diverse origini etniche, le identità locali hanno trovato, grazie all’alleanza tra i viticoltori - della prima e dell’ultima ora - e la loro terra, come dice il Berque (1995), “quella giusta misura che permette, sia nello spazio che nel tempo, di preservare senza smarrirsi, la complessità del mondo”. Questo perché i nuclei archetipici del paesaggio viticolo lombardo hanno garantito condizioni di continuità, una sorta di “basso continuo” di temi, immagini, strutture, una sorta di mimesi che viene percepita come un’adesione emotiva dell’osservatore, al di là delle rappresentazioni reali del paesaggio stesso. Ma la società dei viticoltori lombardi presenta altri attori ignoti ai quali è demandata, attraverso la nostalgia del passato e l’invenzione della tradizione, la valorizzazione del vino lombardo come marcatore di identità territoriali. Essi esprimono il nostro “bisogno di comunità” come riparo di fronte al minaccioso orizzonte globale. La viticoltura lombarda è quindi alla ricerca di un doppio paradigma di sapere agronomico e di umanesimo, nella salvaguardia delle pratiche tradizionali e nella restituzione di dignità al lavoro manuale in vigna che nessuna macchina potrà mai sostituire. Vista nel suo insieme e nella proiezione temporale di un paio di millenni, la storia della viticoltura lombarda è il risultato della progressiva occupazione dei suoi territori da parte di popoli dalle origini molto diverse e della intensificazione degli scambi delle risorse possedute da una parte e dall’altra delle Alpi, dal mare Ligure verso le città della pianura padana, dalla Francia verso Venezia.

14

All’epoca in cui compare la prima attestazione paleobotanica della vite coltivata in Lombardia, la regione padana era abitata ad oriente dai paleoveneti, al centro e ad occidente dagli Insubri e altre popolazioni celtiche, a nord-est dai Reti. A segnare il paesaggio viticolo la piantata portata dagli Insubri che l’avevano appresa dagli Etruschi. Questo continuo movimento di popoli e di merci ha portato con sé non solo specializzazioni manifatturiere, tessuti, vasi, anfore, cristalli e vini, ma soprattutto uomini, culture e vitigni che hanno espresso i connotati di una viticoltura alpina in Valtellina, collinare in Oltrepò, mediterranea sul lago di Garda ed in Franciacorta, di pianura a Mantova. In questo mosaico di culture è un po’ rischioso dire “cosa è” la viticoltura lombarda. Certamente non è un’unità, ma piuttosto “un incontro”, non una viticoltura, ma tante, con i complementi di pluralità ed eterogeneità da una parte e di scambio e collegamento dall’altra. Ancora una volta il commercio appare la vocazione prima di questa viticoltura, considerando quasi paradossale il fatto che non ha sbocchi al mare, che una volta almeno rappresentavano il veicolo più efficace per sfuggire dall’isolamento. Per dare una dimensione quantitativa dell’importanza della viticoltura nell’economia lombarda nel passato, un riferimento di Bonvesin da la Riva alla metà del Duecento, il quale riportava per il Contado di Milano una produzione di più di 60.000 carri di vino! Le numerose vigne di Milano producevano vini di svariati generi, sia dolci che aspri, vini salubri, saporiti, chiari di colore bianco, giallo, rosso e dorato... Poco nota e curiosa è l’annotazione delle “vigne scomparse” in Lombardia. Le vicende socio-economiche, ma soprattutto quelle climatiche, hanno profondamente modificato la localizzazione dei vigneti del passato rispetto alla situazione attuale. Basti pensare al cambiamento climatico che nel 1200 aveva spinto la viticoltura a quote oggi impensabili in Valtellina e che tra il 1400 ed il 1700, per contro, aveva consentito la coltivazione della vite solo nelle zone più favorevoli. Ma la fine della viticoltura suburbana delle grandi città è stata segnata dalla quasi contemporanea inaugurazione della ferrovia che collegava Milano al centro-sud d’Italia - che rendeva più convenienti i vini delle regioni meridionali - e l’arrivo della fillossera nella seconda metà dell’Ottocento. In poco tempo le viticolture attorno al lago di Lecco, quella di Varese, di Como e soprattutto quella della Lomellina scomparvero, portandosi via per sempre vitigni antichi, vini contadini, consuetudini di consumo, luoghi di incontro, arnesi e modi di dire, feste e forse tanta fatica. Nella ricostruzione dei paesaggi mentali dei nostri avi remoti, partendo dalle scelte di vita materiale quotidiana, ora scomparse, emerge per la Lombardia un tratto costante: l’origine di una regione senza confini rigidi, che è sempre stata luogo di migrazioni, interazioni, ibridazioni, di contrasti e di conflitti tra i popoli e che nella diversità delle radici ha fatto un elemento essenziale, anche se spesso problematico per i suoi risvolti culturali e politici. La cultura viticola lombarda ha acquisito coscienza di sé solo quando ha affrontato quella delle altre zone a lei concorrenti, spesso senza saperle accettare.


NICOLA DANTE BASILE Scrittore e giornalista de Il Sole 24 Ore

IL PRIMATO CHE ARRIVA

DALLA Milano è un porto di mare, prima o poi ci arrivano tutti. Studenti e muratori, ragionieri e imprenditori, ricchi e poveracci, galantuomini, puttane e spacciatori. Milano ti dà la vita e te la toglie. Milano “è un cuore aperto”, recita una bella canzone di Lucio Dalla. C’è da credergli. A Milano puoi fare di tutto. Dall’operaio all’industriale, dall’impiegato all’artigiano, dal finanziere all’agricoltore. E perché no, anche il vignaiolo. Sì, il produttore di vino con tanto di vigne che germogliano con le nebbie di primavera, sebbene non tutti i meneghini, per lo più d’importazione, ne siano al corrente. Anzi, qualcuno ci ride pure sopra quando glielo fai notare. “L’uva prodotta a Milano? Ma va là, a chi vuoi darla a bere...”. Non hanno tutti i torti, visto che il rosso doc San Colombano e suo fratello bianco “verdea” sono una rarità. In tutto se ne fanno poco più di 10.000 ettolitri e nelle annate più generose si arriva a 15.000. Nemmeno mezza bottiglia per locale pubblico. Sicché per degustarlo tanto vale andare sul posto, nelle trattorie abbarbicate tutt’intorno la collina di San Colombano: l’unica della provincia, il cui nome risale al vescovo irlandese che nel VI secolo, molto prima di Ambrogio, scacciò i barbari dalla zona per portare agli indigeni la parola di Dio e insegnare loro a coltivare la vite. San Colombano è un’enclave di qualche centinaio d’ettari tra il Lodigiano e il Pavese, lungo il corso del Lambro, a qualche decina di chilometri dalla madunina tutta d’ora e piccinina, musicava il mitico maestro Giovanni D’Anzi. Ma è sufficiente inoltrasi nell’adiacente Oltrepo (c’è chi vuole l’accento sulla ò) per trovarsi immersi in un incredibile saliscendi di vigne che si estendono per 16.000 ettari, toccando 42 comuni e coinvolgendo 8.500 aziende. Con un tesoretto di Pinot nero presente su una superficie di 2.500 ettari, seconda per importanza solo alla Borgogna. Dunque un serbatoio incredibile di mosti e vini base spumante per tutto il “Vecchio Piemonte”, nome che prima dell’Unità dello Stivale indicava l’attuale Piemonte e buona parte dell’Oltrepo di oggi. Una terra che è campione di spumante, ma anche di Bonarda, Barbera, Riesling, Chardonnay, Pinot grigio e molte altre varietà ancora. E tutto questo a meno di un’ora di macchina da Milano. L’industriosa Milano. Industriosa? Certo, ma con sempre meno tute blu e sempre più colletti bianchi sotto l’incalzare del terziario e il ritorno del primario: quell’agricoltura che forse non può ambire allo scettro che le apparteneva al tempo di Manzoni, ma di sicuro voce importante del reddito regionale con il 20 per cento circa del Pil. Abbastanza per farne la seconda regione agricola d’Italia, dopo l’Emilia Romagna. Oltre 1,2 milioni di ettari coltivati (il 7 per cento dell’Italia), 57.500 imprese (3 per cento), 116.000 occupati diretti (9 per cento), il primario lombardo sviluppa una produzione agricola che si aggira sugli 11 miliardi di euro su un totale nazionale di 70. Un rapporto di 1 a 7. Che è tanto, ma non quanto quello dei consumi domestici che sfiora i 27 miliardi rispetto ai 155 dell’intero Belpaese, e quello dei consumi extradomestici pari a 11 miliardi su un totale di 65 dell’intera Penisola.

TERRA

Insomma una regione, la Lombardia, che produce e che consuma buona parte del latte e della carne made in Italy, ma anche cereali (il 20 per cento sul totale nazionale), foraggi (18 per cento), e poi a scendere ortaggi, frutta, olio d’oliva. E naturalmente coltiva la vite da vino. Lo fa su un’estensione di quasi 25.000 ettari, con la variopinta capacità dell’Oltrepo, la briosità del Lambrusco mantovano, la signorilità delle bolle eteree della Franciacorta affacciata sull’Iseo, piuttosto che con il setoso Lugana del Garda, l’intrigante moscato passito della Valcalepio o il potente Sfursat di Valtellina, con le sue intrepide terrazze affacciate sulla Valchiavenna. In tutto 1,6 milioni di ettolitri di vino, poco più di 200 milioni di bottiglie. Tutte vendute per il 60 per cento fuori dai confini regionali. Chi fa di più?

15


16


17


18


CARLO ALBERTO PANONT Direttore del Consorzio Tutela Vini Oltrepò Pavese

100 ANNI

DI

PINOT NERO:

Per presentare l’Oltrepò traggo alcuni spunti dal libro I vini dell’Oltrepò Pavese di Adriano Ravegnani il quale, nel 1974, scriveva: “A memoria d’uomo la coltivazione della vite è stata caratteristica e ragione vitale di questa dolce e generosa plaga italiana [...]. Chi all’inizio sia stato il primo a portare la coltivazione e la vinificazione in Oltrepò non è dato sapersi con precisione, se non da alcuni reperti risalenti dal sesto al quarto millennio avanti Cristo (un tralcio di vite fossile di almeno tremila anni, è stato infatti ritrovato a Casteggio). Certamente possiamo affermare a pieno titolo il detto popolare che ‘Bacco ama il bel colle’ che più di ogni altra orografia permette alla vite di godere di tutti i benefici del sole e della terra”. L’Oltrepò è caratterizzato da un’orografia preappenninica con formazioni costituite da marne, calcari arenacei, galestri e gessi. Dal punto di vista geologico, le unità di coltivazione della vite tra i 90 e i 550 metri s.l.m. sono sostanzialmente 6: depositi alluvionali terrazzati, le argille siltosomarnose, le alternanze eterogenee di conglomerati, arenarie, siliti e argille, le alternanze a dominante arenacea, le alternanze a dominante marnosa-calcareo-argillosa e i gessi. Il mesoclima appenninico distribuisce le precipitazioni più intense, da 600 a 380 mm di pioggia/anno, da est a ovest, da Rovescala a Godiasco per intenderci. Come i terreni, anche le zone di coltivazione della vite possono essere divise in 6 macro-unità: Valli orientali di Rovescala, Valle Versa, Valle Scuropasso, Valli centrali di Montalto Pavese, Valle Coppa e Valle Staffora. Lungo queste pendici percorse da strade che collegano oltre 60 comuni sono coltivati 13.400 ettari di vigneti allevati esclusivamente a spalliera con una disposizione dei filari a ritocchino che contraddistingue una peculiarità della zona fin dal rinnovo della viticoltura collinare nei primi anni ’60, al fine di adattare i vigneti alla meccanizzazione con trattori a cingoli. Il vitigno più coltivato con oltre 4.000 ettari è la Croatina, dalla quale si produce il vino tradizionalmente più prodotto e bevuto: il Bonarda, anche se già dalla fine dell’Ottocento si diffonde la coltivazione di Pinot nero che oggi conta 2.500 ettari vitati in produzione, con progetti di impianto nuovi che faranno salire la produttività a 3.000 ettari. Il vitigno è destinato principalmente alla produzione di spumanti e in minima parte a vini rossi che hanno scritto la storia di questo splendido territorio già all’inizio del secolo scorso. Risale infatti al 1912 la prima fattura di export di quantità significative di bottiglie di Pinot nero Metodo Champenois (allora si poteva usare), verso New York da parte della SVIC, Società viticoltori e imbottigliatori di Casteggio. Poi, nel 1930, in quel di La Versa viene introdotta la moderna tecnologia di spumantizzazione, dalla pressatura soffice a nastro delle uve fino all’uso dei moderni fermentini. La storia arriva fino a noi attraversando gli ultimi 100 anni fra vigneto e cantina, costruendo una cultura vitivinicola che si basa su una tradizione di spumantizzazione del Pinot nero. Si è dovuto attendere però fino alla vendemmia 2007 per ottenere la prima DOCG riconosciuta per

OLTREPÒ PAVESE queste preziose bollicine. In tutto questo percorso, anche il Consorzio di Tutela ha ricoperto un ruolo significativo. La storia ricorda che con la fattiva collaborazione della Camera di Commercio di Pavia, ci fu un signore che riuscì a far coincidere gli interessi dei singoli produttori, dei commercianti e delle Cantine Sociali unendoli nel “Consorzio Volontario Tutela Vini Tipici e Pregiati Oltrepò Pavese”. Quel signore si chiamava Giovanni Ballabio, uno dei grandi nomi della vitivinicoltura oltrepadana. Era l’anno 1961 e lo slogan del Consorzio fu “Qui il vino è vino”. L’obiettivo che si prefiggeva il neo-nato Consorzio era, da una parte, qualificare e valorizzare un territorio e i suoi produttori, dall’altra tutelare i consumatori. Questi sono gli stessi obiettivi del Consorzio Vini Oltrepò Pavese, riconosciuto secondo le attuali leggi nel 1977, che ha raccolto il testimone lasciato da Giovanni Ballabio con il presidente Duca Denari, un altro nome importante e padre, con La Versa, della moderna storia spumantistica del Metodo Classico italiano. Da allora il Consorzio ha allargato le sue aree di intervento raccogliendo i dettami del Mipaf che ha previsto la nomina di un organismo di tutela, di controllo e di valorizzazione dell’intera produzione D.O., funzioni che il Consorzio ha già iniziato a svolgere con l’obiettivo di sempre: qualificare il territorio, la produzione e tutelare il nome della denominazione. L’azione di controllo prevede controlli in vigna e in cantina e dal 1 maggio 2005 è diventata obbligatoria l’apposizione di una fascetta alfanumerica all’origine su ogni bottiglia di vino D.O.C. Vien l’ora, per parlare dei progetti del territorio, di citare la nobile penna di Giovanni Brera che, nella prefazione del già citato libro del 1974 sull’Oltrepò scriveva: “I vini sono tanti da sgomentare chiunque si proponga questa fatica senza il deliberato proposito di imboccare comode scorciatoie”. Non so se sono vere scorciatoie quelle che abbiamo imboccato noi con il Pinot nero; certo abbiamo fatto una scelta molto forte, difficile e

19


molto dispendiosa, ma guardando un po’ più in là del presente e avendo compreso come questo vitigno abbia qui trovato il suo habitat ideale, non ci potevamo esimere dal considerare i nostri 100 anni di storia come l’elemento base su cui far crescere ulteriormente questo territorio e vincere la sfida con i mercati utilizzando il Pinot nero come immagine e prodotto leader di questo Oltrepò. Con la scelta del Pinot nero, quale riferimento sono nati il “Cruasè” marchio collettivo di identificazione di un vino speciale DOCG ottenuto esclusivamente da uve Pinot nero vinificate con il metodo classico - il cui significato si ispira al crudo, al naturale, al Pinot nero e al Rosè, ma anche al Cru e alla Selezione Rosè - e l’Oltrepò pavese Pinot nero (rosso di vitigno in purezza), affiancando alle tipologie un manuale di coltivazione con oltre trenta scelte clonali di cui ben 4 selezionate in Oltrepò negli anni ‘80 (Mivar) e la spinta alla scelta delle aree per le diverse vocazioni tipologiche (spumantistica, rosso, ma ancora più in dettaglio, acidità, profumi, colore), fino ad impianti a 600 metri di altitudine s.l.m. Nel 2010 si festeggeranno i 50 anni dalla fondazione del Consorzio, che sono passati tra alti e bassi nella speranza di riuscire a costruire un futuro migliore. Lo stesso augurio lo facciamo a questo libro scritto da Andrea Zanfi: che possa essere, tra 50 anni, parte importante del racconto della viticoltura lombarda e di questa “plaga generosa” chiamata Oltrepò.

20


UN

HABITAT IDEALE

PER IL PINOT NERO OLTREPÃ’: UNA PLAGA

GENEROSA

21


CASIMIRO MAULE Presidente del Consorzio Tutela Vini di Valtellina

TERRITORI DA La Valtellina è una delle poche vallate alpine con andamento est-ovest ed è caratterizzata, oltre che da rilevanti peculiarità naturalistiche, dalla presenza della più estesa zona viticola terrazzata d’Italia. Questo comprensorio viticolo, di grande impatto scenografico e di maestosa bellezza, non è tuttavia immune dalle problematiche che hanno interessato il comparto agricolo negli ultimi anni. Si può dire, anzi, che tali criticità siano state amplificate dalle oggettive difficoltà di lavorazione degli appezzamenti vitati – la cui conformazione pure contribuisce in maniera determinante all’innegabile fascino paesaggistico della Valle – e dalla conseguente riduzione del margine di reddito per gli attori della filiera vitivinicola. A questi fattori vanno poi sommati l’elevata età media dei conduttori, la polverizzazione della proprietà fondiaria, il calo della manodopera disponibile per l’incalzare del processo di “terziarizzazione” ben noto anche per la Provincia di Sondrio. La grande contrazione della superficie vitata verificatasi in particolare nella seconda metà del secolo scorso, se da un lato ha coinvolto in assoluta prevalenza le aree di minor vocazione situate sul fondovalle e alle quote più elevate, dall’altro ha certamente costituito una perdita probabilmente non recuperabile di un patrimonio costruito e mantenuto con tenacia nel corso di secoli. L’entità del danno aumenta poi qualora si considerino i particolari valori ambientali e paesaggistici che la viticoltura valtellinese incarna, come confermato dai problemi di stabilità dei versanti che puntualmente si verificano negli anni immediatamente successivi all’abbandono. Nel quadro complessivo non mancano tuttavia segnali confortanti: il rallentamento del processo di abbandono nell’ultimo decennio evidenziato dall’assestamento delle superfici iscritte agli Albi dei vigneti; il rinnovato interesse manifestato da alcune aziende condotte da giovani imprenditori; infine la fama ed il prestigio guadagnati – o per meglio dire recuperati, come attestato da numerose fonti storiche – dall’enologia valtellinese. Di particolare rilievo è la nascita di una nuova generazione di vignerons, giovani viticoltori che si sono immessi sul mercato puntando all’eccellenza qualitativa e al segmento medio-alto della gamma; è auspicabile che l’attaccamento alla terra tipico della popolazione valtellinese, come di altre residenti in zone difficili di montagna, possa portare il proprio contributo nel contrastare definitivamente la tendenza all’abbandono. La somma di questi indicatori positivi potrà mantenere vitale un settore essenziale per la nostra Provincia, non tanto per il fatturato che genera (la media annua di bottiglie prodotte si aggira sulle 3.500.000), quanto per gli aspetti ambientali già citati e per quelli sociali – si calcola che tuttora circa 5000 persone siano coinvolte a vario titolo nelle attività afferenti al comparto. Una delle chiavi per il futuro sarà certamente la valorizzazione della figura del viticoltore, non più solo operatore economico, ma “sentinella” del territorio, sul quale effettua una vera e propria attività di manutenzione; solo ricordando la dignità di coloro che lavorano nei vigneti, e la possibilità di ricavarne un reddito, potrà infatti proseguire l’azione positiva di attrazione dei giovani sopra accennata. Nel contempo occorrerà puntare al coinvolgimento di un turismo

22

SVILUPPARE di qualità, sensibile agli aspetti ambientali, interessato all’enogastronomia e ai legami – fortissimi in Valtellina – fra il territorio e le produzioni tipiche, superando in tal modo la vecchia equazione che identifica il turismo in Valtellina con le sole presenze invernali per la stagione sciistica. Si tratta di un tipo di turismo in continua ascesa, che va intercettato puntando sulla varietà e sulla qualità dell’offerta. A queste tematiche dovrebbe ispirarsi l’attività del Consorzio di Tutela dei Vini di Valtellina, senza dimenticare – ed anzi considerandoli un fondamentale punto di partenza – gli importanti risultati raggiunti nel corso di un impegno più che trentennale. Fra questi è opportuno citare perlomeno l’ottenimento delle due Denominazioni di Origine Controllata e Garantita per lo Sforzato di Valtellina e per il Valtellina Superiore e le relative sottozone Maroggia, Sassella, Grumello, Inferno e Valgella (a tutt’oggi è l’unico Consorzio in Italia che vanta due DOCG coincidenti per vitigno e territorio); il conferimento da parte del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali dell’incarico per il Piano dei Controlli, che certifica l’intera filiera produttiva dalla vigna alla bottiglia in un’ottica di tutela tanto dei consumatori quanto delle aziende utilizzatrici delle Denominazioni di Origine; l’organizzazione nel 2004 della prima edizione di Nebbiolo Grapes, un Convegno monografico sul vitigno Nebbiolo che ha visto la partecipazione di studiosi di fama mondiale e l’allestimento di un banco d’assaggio con produttori provenienti da 4 continenti e che ritornerà in Valtellina per la terza edizione, dopo la parentesi piemontese del 2006, nel marzo 2009. Infine è indispensabile ricordare un progetto di ampio respiro, tuttora in fase di realizzazione: nel 2003 il Consorzio ha costituito la Fondazione Provinea – Vita alla Vite di Valtellina, con l’obiettivo di presentare e sostenere la candidatura del territorio vitato terrazzato valtellinese all’iscrizione nell’elenco dei beni patrimonio dell’umanità curato dall’Unesco, quale “paesaggio culturale evolutivo e vivo”. Quelli elencati sono solo alcuni spunti, ma per un Consorzio di Tutela rappresentano altrettante sfide ed incentivi ad uno sforzo sempre più mirato, insieme naturalmente alla promozione “istituzionale” di prodotti di qualità ormai consolidata e riconosciuta e alla collaborazione con gli altri Enti ed Associazioni che operano nel settore, con l’obiettivo di presentare la Valtellina nei suoi aspetti più genuini ed attraenti: un affascinante microcosmo alpino, modificato armoniosamente dalle attività umane, che, grazie anche al recupero e alla valorizzazione di tradizioni e conoscenze secolari, può entrare, con ritrovato orgoglio, nella modernità.


PAESAGGIO CULTURALE EVOLUTIVO E VIVO

TRADIZIONI SECOLARI

UN AFFASCINANTE MICROCOSMO

ALPINO

23


24


25


26


LA PAROLA AI PRODUTTORI E AGLI

ENOLOGI IL FUTURO DELLA VITICOLTURA E DEL VINO IN LOMBARDIA. OPPORTUNITA’ E VANTAGGI, PROBLEMATICHE E INCERTEZZE GIACOMO BARBERO Nell’immaginario collettivo, la Lombardia vitivinicola ha sempre avuto un’identità confusa a causa dell’elevata diversificazione delle aree vocate. Dai corposi vini rossi da uve Nebbiolo delle montagne valtellinesi, si passa alle bollicine base Chardonnay della Franciacorta per poi spostarsi al Pinot nero, rosè o rosso, dell’Oltrepò pavese, senza dimenticare la Valcalepio e i colli mantovani con i loro vini fermi e frizzanti provenienti da altre uve, ancora diverse. Anche se la notorietà commerciale non è stata forte nell’ultimo ventennio, non bisogna dimenticare che il primo spumante secco italiano è nato proprio da uve lombarde, provenienti dall’Oltrepò pavese: un bacino di acquisto importantissimo per il Pinot nero. Questo denota che la qualità delle nostre uve è indiscussa; oggi, infatti, la Lombardia si è affermata per i suoi vini e le sue bollicine di altissimo livello, a conferma della vocazione che la contraddistingue. È per questo che ritengo che la viticoltura debba essere gestita con una duplice mentalità, quella contadina ricca di esperienza tecnica e quella manageriale per affrontare un mondo commercialmente sempre più difficile. Con la globalizzazione avviata, le parole chiave da utilizzare sono: qualità, massa critica, unione, comunicazione semplice ed immediata. Occorre quindi che il vantaggio della diversificazione delle aree diventi un’opportunità commerciale per l’intera regione che, però, deve muoversi unita. L’individualismo non ha mai premiato nessuno nel lungo periodo, soprattutto in momenti così incerti come questi ultimi anni, in cui il gioco di squadra porterebbe solo dei vantaggi. In futuro la Lombardia potrà essere forte con un unico prodotto bandiera a cui potranno far sèguito tutti gli altri; sarebbe sciocco gettare al vento una tale opportunità, ma la maggiore incertezza deriva proprio dalla mancanza di quella grande forza che è il gioco di squadra.

GIUSEPPE BASSI La Franciacorta come zona vitivinicola nasce alla fine degli anni ’60. L’allora modesta realtà produttiva ebbe infatti un grande sviluppo grazie alla lungimiranza di alcuni produttori e alla congiunzione favorevole di alcuni elementi che in poco più di trent’anni hanno costruito un movimento vitivinicolo che vanta la sua notorietà odierna su 2.500 ettari di superficie vitata, di cui 2.100 destinati alla produzione di uve per il Franciacorta Spumante e 400 per il Curtefranca Bianco e Rosso. La DOCG Franciacorta Spumante, entrata in vigore nel 2005, ha perfezionato e affinato i parametri produttivi spingendo le aziende a migliorare costantemente il loro Franciacorta, partendo proprio dagli impianti vitati che negli ultimi anni si sono assestati sui 5.000-6.000 ceppi per ettaro con delle eccezioni che raggiungono anche i 10.000 ceppi per Ha. Questa qualità, abbinata a una comunicazione intelligente, ha consentito la nascita di un’immagine vincente della Franciacorta che ha premiato tutto il comparto produttivo dell’area. In questa fase sarebbe necessario ora valorizzare anche le peculiarità delle varie sottozone che compongono il sistema, zone che sino ad oggi non hanno suscitato nel consumatore quell’interesse e quella curiosità che sicuramente meritano. Bisognerebbe far capire, per esempio, che le uve coltivate sui collivi gradonati danno vini strutturati, mentre quelle su terreni con depositi fini danno vini eleganti e profumati, oppure che nelle annate calde vengono privilegiate le zone più fresche della parte settentrionale della Franciacorta, poste nei comuni intorno a Monticelli Brusati. L’attuale volontà di creare la riserva vendemmiale, come avviene in Francia, pari al 20% della produzione per 5 anni, porterebbe ad un aumento esponenziale delle bollicine Franciacorta, la cui produzione già in questi ultimi anni è passata dai 6 agli oltre 10 milioni di bottiglie dell’annata 2007. Questo eccesso di offerta porterà seri problemi di tenuta del prezzo e di consumo se non si apriranno altri mercati, soprattutto esteri; ritengo sia questa la prossima scommessa da vincere per la Franciacorta.

27


La vasta area della Denominazione d’Origine Controllata Oltrepò Pavese è stata oggetto negli anni ’80 di un’accurata zonazione. Considerando l’estrema varietà delle zone pedoclimatiche, si è evidenziato che alcune aree si sono mostrate più adatte a certi vitigni piuttosto che ad altri. Inoltre, in questi ultimi anni, fortunatamente, si sta assistendo ad un lento ma continuo rinnovamento dei vigneti. La necessità di contenere i costi, mantenendo alta la qualità, sposta i reimpianti in zone sempre vocate, ma meccanizzabili e con sesti d’impianto che oscillano generalmente tra le quattro e le cinquemila viti per ettaro. La riduzione delle microaziende - la cui superficie media condotta dal singolo viticultore è di circa 0,3 ettari - a fronte di un consolidamento delle medie e grandi aziende - che oscillano fra i 28 e i 30 ettari - sta portando un po’ di ordine nella zona. Chi conferisce uva tende a concentrarsi sulle tre o quattro varietà più richieste, ad esempio Pinot Grigio e Nero, Bonarda e Barbera, chi invece trasforma e commercializza inserisce alcune varietà internazionali come il Cabernet Sauvignon, il Merlot e lo Chardonnay. Indipendentemente dai disciplinari, i produttori stanno sempre più sfoltendo quella eccessiva quantità di tipologie di vino che genera grande confusione. Ancora attualmente fra DOC, DOCG, IGT e vini da tavola, frizzanti, spumanti, amabili, secchi, ecc, ecc, si possono contare circa 45 tipi diversi di vino in commercio. Va pertanto perseguita con tenacia la strada di puntare su poche e ben definite tipologie di vini che creino un’immagine del territorio forte e facilmente identificabile. Per quello che riguarda la realtà della Valtellina, si è assistito negli ultimi anni ad una lenta ed inevitabile riduzione della superficie vitata, passando dai mille ettari agli attuali ottocento. Le ragioni di questa contrazione sono molteplici. Sicuramente al primo posto va considerata la difficoltà oggettiva ad avere un adeguato ricambio generazionale: sono pochi infatti i giovani che subentrano nell’attività agricola di famiglia; al secondo posto ci sono senza dubbio gli alti costi di produzione, dal momento che spesso si superano le mille ore di lavoro per ettaro di vigneto, quando la media nelle altre regioni oscilla fra le duecentocinquanta e le quattrocento ore. Infine c’è da rilevare che il prezzo delle uve nelle ultime annate è risultato essere sempre poco remunerativo. Per far fronte a questa situazione, negli ultimi anni la Fondazione Fojanini e la Regione hanno messo in cantiere un’iniziativa di sostegno tecnico viticolo ed enologico rivolta in particolare ai piccoli produttori. Si è cercato di sensibilizzare ed avviare i produttori a vinificare le uve in proprio arrivando sino all’imbottigliamento del prodotto e alla commercializzazione delle loro bottiglie suscitando interesse e curiosità da parte dei consumatori che ha portato ad un riscontro economico soddisfacente. Purtroppo, a partire dalla vendemmia 2007, è venuto a mancare il sostegno economico da parte della Regione e l’assistenza viticola ed enologica, prima di competenza di due enologi e di due agronomi esterni, è condotta faticosamente dalla sola Fondazione Fojanini. Nasce quindi la necessità che le case vinicole ed i singoli viticoltori stringano un forte “patto di filiera” dove, a fronte di un costante e qualificato impegno del viticoltore nel produrre qualità e nell’assicurare una corretta manutenzione dell’area vitata, esista come controparte, insieme alla tranquillità nella collocazione dell’uva prodotta, anche un impegno delle aziende vinicole affinché il miglioramento economico, derivante da una corale valorizzazione commerciale, sia anche riconosciuto al singolo viticoltore, ad esempio in forma di premio posticipato alla vendita del vino. C’è però anche la necessità, ormai percepita e condivisa dall’intero settore, di

28

giungere alla separazione di quelli che sono i costi specifici per la coltivazione della vigna da quelli derivanti dalla manutenzione dell’area terrazzata (quali la regimazione delle acque, l’estirpo dei rovi e degli infestanti dei muri, il ripristino degli smottamenti, la riparazione e il rifacimento dei muri). Nel merito la Fondazione Fojanini e ProVinea hanno già avviato un’attenta analisi dove appare un primo risultato che evidenzia un onere manutentivo di approssimativi 50 cent./mq.

L’INDIVIDUALISMO NON HA MAI PREMIATO NESSUNO

IL GIOCO DI SQUADRA

OCCORRE


SILVANO BRESCIANINI In Lombardia, ed in particolare in provincia di Brescia, nascono quasi 2/3 delle bollicine italiane rifermentate in bottiglia. Franciacorta è territorio che sta conquistando autorevolezza grazie alla naturale vocazionalità ed al “savoir faire” dei produttori. Etichette di Franciacorta sono presenti nelle migliori carte dei vini; le opportunità sono davvero importanti e la partita è aperta, i vantaggi per l’economia e la salvaguardia del terroir sono evidenti, ogni vigna è sempre più preziosa, quindi custodita con cura e grande passione.

CORRADO CUGNASCO

Prevedere un futuro della viticoltura e dell’enologia in Lombardia comprendendo almeno 4 zone (Franciacorta, Garda, Oltrepò e Valtellina) con notevoli differenze strutturali e di mercato, non è facile, soprattutto in un momento non troppo favorevole come questo. Ma restringendo l’analisi alla sola Franciacorta, il discorso è sicuramente diverso, poiché i produttori di questo territorio si stanno orientando quasi esclusivamente sulle “bollicine” che incontrano il favore dei consumatori e il numero di bottiglie prodotte e vendute è in continua crescita. Se a questo favore del consumatore si aggiunge la parte enografica della Franciacorta, ricca di paesaggi suggestivi e la cura con la quale sono state costruite o ristrutturate le cantine, si può dire che la zona avrà sicuramente un ottimo futuro. Un esempio di questo tipo di impegno che conforta il mio ottimismo è quello dell’azienda Bersi Serlini. Ristrutturata con l’intento di farne uno splendido complesso ricettivo, la cantina produce dei grandi Franciacorta, poiché nulla è lasciato al caso: dal meticoloso lavoro nei vigneti, alla vendemmia, ai processi di vinificazione, all’evoluzione del vino in bottiglia; ogni fase della filiera produttiva è seguita con criteri tecnici rivolti solo alla qualità assoluta con la ricerca dell’eccellenza. I tempi di raccolta delle uve, la spremitura delle stesse, il controllo termico delle fermentazioni, la scelta dei lieviti, i tempi di permanenza del vino sui medesimi, sono le regole che ci proponiamo per esaltare e migliorare la finezza dei nostri prodotti. L’attenzione nei prossimi anni sarà rivolta ancora di più verso il vigneto, al fine di ottimizzare le rese, incrementando la produzione di certe uve, come il Pinot Nero - da sempre un componente eccellente per le cuvée dei Brut, Pas Dosé e Millesimati - che in alcuni vigneti aziendali trova eccellenti condizioni ambientali che ben si addicono a questa tipologia di vitigno (buona ventilazione, escursioni termiche, ecc.). Questo è il futuro che si può prevedere per questa azienda, ma anche per le altre aziende della Franciacorta che, per quello che vedo, sono tutte orientate verso l’innalzamento qualitativo dei vini prodotti.

29


MARCO FAY In un certo senso il futuro della viticoltura e del vino in Valtellina rappresenta il mio futuro. Sono giovane e ho iniziato questo lavoro solamente da sei anni, anche se è da quando sono nato che respiro i profumi della cantina. L’osservazione, la passione, la dedizione, la testardaggine che entrano in gioco nel produrre vino si sono legate in modo indissolubile al lavoro della vigna, al capire che tutte le conoscenze tecniche acquisite sono importanti per produrre un vino “buono”, ma non sono sufficienti per produrre un vino “emozionante”. Comunicare con il vino è una grande opportunità, soprattutto se la zona in cui si lavora può aiutarti solamente se assecondata e conosciuta, terrazzo per terrazzo. Non penso che un giovane enologo che si avvicini al Nebbiolo valtellinese debba avere incertezze, piuttosto consapevolezza di quanto grande ed inimitabile possa essere il risultato di un anno di duro e accurato lavoro. È difficile lavorare in una zona così piccola e particolare e poter analizzare nel dettaglio un ambito regionale come quello lombardo. Sono però sicuro che il futuro non potrà essere né incerto, né problematico se chi produce vino avrà la voglia e la determinazione di mettere nella bottiglia anche i propri pensieri, il proprio stile e la propria personalità, indipendentemente dalla zona in cui vive. Probabilmente ciò che per me è iniziato come un lavoro, oggi è semplicemente diventato “mestiere”.

CESARE FERRARI

PICCOLA “GRANDE” FRANCIACORTA

Sono sentimenti di amore e odio quelli che mi legano alla Franciacorta, sin dai lontani anni Cinquanta, quando, ancora giovanissimo, mi vedevo sottrarre al divertimento alcune domeniche passate alla ricerca di partite di uve rosse al seguito di mio padre, commerciante di vino in quel di Soresina. Paesi franciacortini come Provaglio, Iseo, Corte Franca costituivano il mio “incubo” settembrino. Ricordo che erano domeniche lunghe con ore e ore spese in noiose trattative con i mediatori d’uva con i quali alla fine mio padre si accordava sul prezzo, sulle modalità e sui tempi di raccolta, durante un pranzo consumato in qualche osteria del posto tra molto fumo e bottiglie di vino. Ricordo che il rientro a casa avveniva solo nel tardo pomeriggio e la domenica, quell’unico vero giorno di festa che avevo, era irrimediabilmente perso, poiché gli amici erano ormai introvabili. Un andamento non molto diverso ebbero anche le domeniche che seguirono negli anni, trascorse al Collegio Convitto Civico, dove i miei genitori mi

30

avevano “parcheggiato” per frequentare la gloriosa e Regia Scuola Enologica della graziosa città piemontese di Alba. Le distanze dal paese natìo non mi consentivano di ritornare a casa e le domeniche in quel paesone cuneese di allora potevano essere dedicate solo allo studio più che allo svago. La scuola era stata scelta da una mia zia, vera antesignana delle donne del vino, proprietaria di un’azienda specializzata nella produzione di vini rossi, a quei tempi molto apprezzati e consumati, scelta che era stata effettuata basandosi sull’unica alternativa che avevo allora e che era rappresentata dalla scuola di Conegliano Veneto, ubicata però in una zona più vocata alla produzione di vini bianchi. Poi, come nella vita spesso accade, mi ritrovai enologo proprio in Franciacorta, dove i vini bianchi stavano avendo il sopravvento sui vini rossi. Erano infatti gli anni Settanta, il periodo in cui diversi produttori, con l’ausilio di pochi enologi e di un numero ancora più esiguo di agronomi, iniziarono a produrre vini completamente diversi abbandonando quella tradizione enologica che, pur avendoli caratterizzati per molto tempo, ormai


li stava limitando. In pochi anni il territorio franciacortino cambiò radicalmente e il successo fu immediato. Ancora oggi non è facile trovare altrove una concentrazione di mirabili cantine e di razionali vigneti come in questo piccolo comprensorio. Alcune delle maison franciacortine sono antiche dimore di nobili famiglie lombarde, che tuttora vi risiedono e che hanno saputo opportunamente coniugare gli aspetti architettonici alle moderne esigenze della tecnologia enologica. Ad esse, ogni anno, si affiancano nuove cantine, dove arcate, volte e pietre a vista sono la fedele testimonianza di un uno stile tutto franciacortino. Razionalità, innovazione, bellezza paesaggistica, unite ad una ormai più che ventennale tendenza positiva del mercato, fanno della zona un valido esempio per tutto il settore vitivinicolo italiano. Oggi del mio “odio” giovanile per questa terra non è rimasto che il ricordo, poiché l’avversione iniziale si è trasformata negli anni in un legame d’amore sempre più grande e pressoché inesauribile, come le bollicine contenute in un bicchiere di Franciacorta.

VITTORIO FIORE & BARBARA TAMBURINI

La nostra esperienza professionale nel settore vitivinicolo della Lombardia rimane per ora circoscritta alla Valtellina, con una impegnativa – ma entusiasmante – collaborazione con l’azienda Sertoli Salis di Tirano. La vitivinicoltura valtellinese presenta una situazione che non ha certamente uguali al mondo, in particolare per la condizione orografica, che impone la collocazione dei vigneti sui ripidi e rocciosi pendii del versante est delle montagne che connotano la valle da Sondrio a Tirano in particolare, ma poi ancora più su fino quasi a Sondalo. La maggior parte dei vigneti è caratterizzata da un microfrazionamento che ha dell’incredibile; si va da poche centinaia di metri quadri, fino al massimo di qualche migliaio di metri quadri, che vengono coltivati dai singoli proprietari, in genere persone anziane, ma molto appassionate e competenti, mentre le aziende di più grandi dimensioni hanno vigneti di proprietà la cui estensione maggiore non supera qualche decina di ettari. I piccoli proprietari, perciò, conferiscono le uve da loro raccolte alle aziende più grandi con le quali hanno stipulato dei contratti di fornitura, assicurando – per il momento – la coltivazione nella valle in modo abbastanza gratificante sul piano remunerativo, anche se in condizioni di grande fatica e disagio. Il Nebbiolo che qui viene coltivato e denominato “Chiavennasca”, assicura la produzione di vini di ottimo livello qualitativo, seppure contrassegnati da una forte personalità “montanina”, assolutamente non comparabili con i fratelli prodotti nelle varie aree del Piemonte. Tutti i vini a DOC e a DOCG prodotti in Valtellina, vengono ottenuti dalla vinificazione del vitigno Chiavennasca e si distinguono vuoi per origine geografica, vuoi per tecnologia di produzione (lo Sforzato, ottenuto da uve appassite). I vini prodotti in Valtellina hanno da sempre trovato il massimo sbocco commerciale nella zona di produzione e nella vicina Svizzera, mentre un grande sforzo di promozione è in atto per consolidare e sviluppare la loro presenza sia nel resto del mercato italiano, sia sui principali mercati esteri.

31


32


33


MARIO MAFFI La viticoltura lombarda può certamente affrontare il futuro con una certa serenità. Ogni area vitata rappresenta un simbolo indiscusso di una realtà territoriale unica dove il paesaggio del vino è frutto dell’evoluzione, favorita nel tempo dalla natura e dalla cultura materiale dell’uomo. Storia, tradizione, turismo, terroir: tutto depone a favore di una positiva viticoltura del futuro. In tale contesto l’incognita, per l’Oltrepò pavese, rimane l’uomo che deve in tempi rapidi favorire, con l’accorpamento, entità aziendali dimensionate alle realtà imprenditoriali futuribili; puntare sui vini simbolo della zona viticola proponendosi con altri prodotti alimentari di nicchia. Determinare anche il recupero della cultura materiale contadina, saper “trasmettere” il paesaggio viticolo e, soprattutto, capire l’importanza del gioco di squadra.

FABRIZIO MARIA MARZI Dopo almeno un ventennio, dove si è creduto e riposto, giustamente, tutte le speranze economiche in una Lombardia legata al settore industriale, finalmente dagli anni Novanta si è ricominciato a pensare ad una regione diversa che può dire la sua non solo nel “tondino”, ma anche nel settore agroalimentare e in special modo in quello vitivinicolo, con aree altamente vocate ricche di una viticoltura di qualità e di paesaggi molto suggestivi. E per comprendere questo basti pensare alla Valtellina. Non dimenticandosi poi del bellissimo Oltrepò pavese, che è la terza area DOC più importante d’Italia, dopo Chianti e Asti, con ben 13.500 Ha di vigneti su un totale regionale di 24.000, ossia il 55% della superficie vitata lombarda, superficie sulla quale si contano 2.500 Ha di Pinot Nero che rappresentano la quarta zona al mondo per estensione del vitigno. Tanto è che Oltrepò pavese e Franciacorta da sole, peraltro uniche due D.O.C.G. nazionali per quanto riguarda lo Spumante Metodo Classico, rappresentano con ben 11.000.000 di bottiglie prodotte, il 60% della produzione nazionale. Se tutto questo fa ben sperare in un futuro vitivinicolo promettente, soprattutto sul fronte spumantistico, è necessario prevedere e, se possibile, giocare d’anticipo su quelle che saranno le aspettative dei mercati vitivinicoli dei prossimi vent’anni. La nuova Organizzazione Comune di Mercato (OCM) ha portato radicali cambiamenti a livello comunitario, per cui occorrerà essere preparati ad affrontare un’agguerrita concorrenza da parte di quegli stati che non hanno la nostra storia, ma che, invece, possono contare su una maggiore competitività economica. Oggi più che mai vige la regola del “produrre bene a basso costo”; ebbene, in un sistema superfrazionato come il nostro, diventa estremamente necessario “fare massa”. Ciò significa spingere l’acceleratore sulle forme cooperativistiche, affinché si possa entrare sul “Mercato” facendo attenzione a non dimenticare le nostre origini, la nostra storia, il nostro territorio, la gastronomia e le nostre tradizioni, così da dare spazio e forza anche alla miriade di piccole imprese che, avendo una storia ed un particolare legame con la terra, possono egregiamente seguire “a ruota” le altre e “offrire” anche loro quei prodotti inimitabili ed irripetibili che solo il nostro paese sa dare.

34


PAOLO MASSONE Premetto che io non ho il titolo di Enologo e neanche di Enotecnico: ho solo una buona esperienza costruita in ambito familiare con la quale ho acquisito le tecniche di procedura della vinificazione, affinamento e imbottigliamento dei vini, nonché quelle che riguardano la conduzione, da contadino, dei vigneti. Detto ciò non penso di poter disquisire sulle problematiche che interagiscono e interessano la vitivinicoltura in Lombardia, poiché la cosa richiederebbe una conoscenza approfondita delle zone di produzione. In questo tempo, però, mi sono fatto delle mie idee per cui ritengo che la Valtellina sia una zona “edonistica”, ben chiara nei suoi prodotti che legano il vino al territorio e non al vitigno. Immaginate quanto sarebbe “poca” cosa questa zona se, anziché parlare di Sassella, Inferno o Sforzato, si ragionasse di Nebbiolo e si ponessero a confronto i vini lì prodotti con questo vitigno con quelli Piemontesi. La Franciacorta sta invece, secondo me, tutto nel suo nome. Non esiste un’altra Franciacorta e questa è la dimostrazione che anche senza tradizioni secolari, ma con un po’ di “sale in zucca” e un progetto chiaro e unico legato ad un territorio si possono fare grandi i vini. Quella che invece conosco e che mi interessa direttamente è la zona dell’Oltrepò pavese che, per contro, pur avendo una vera tradizione riguardo al territorio e all’espressione che lo stesso dava ai vini qui prodotti, si è persa. Ricordo che negli anni Sessanta non si parlava di vitigni; i vini più importanti erano indicati con il nome di alcuni comuni come “Casteggio”, “Canneto Amaro”, “Oliva Gessi”, quelli meno importanti erano denominati “Vini da Pasto” e “Vini da Bottiglia”. Solo molti anni più tardi si adattò il vitigno all’etichetta, arrivando così a contemplare nel disciplinare della DOC ben 72 tipologie di vini. Situazione che ha creato e crea non solo confusione sui mercati, ma anche nelle aziende che in larga misura hanno un rapporto ettaro-etichette di uno a uno; scelte effettuate con l’idea di procurarci quanto più lavoro-vendite possibile, senza pensare che senza chiarezza e specificità non risultiamo appetibili a nessuno. Elemento questo che oggi più che mai crea incertezze, poiché non esiste un progetto chiaro e ben definito che possa diventare la bandiera verso cui guardare per orientarsi: qui dieci produttori hanno undici idee. In questo bailamme operativo si stanno intravedendo però delle opportunità che scaturiscono, più che altro, da alcuni progetti territoriali, partoriti da pochissimi, che sembrano estremamente interessanti, come ad esempio quello riguardante il Cruasé, il metodo classico Rosè prodotto su tutto il territorio. A questa ipotesi si è aggiunto il progetto riguardante il vitigno Riesling, con il quale si è identificato un “parco” collocato nella seconda fascia collinare del territorio, quella più adatta, e quello riferito al “Casteggio”, un rosso della vecchia tradizione del paese omonimo e di quelli limitrofi, prodotto con Barbera, Croatina e Uva Rara in percentuali variabili. Vino fermo e da invecchiamento. Come si può dedurre, anche qui la storia esiste; va solo ampliata seguendo una logica chiara, precisa e uguale per tutti, in modo tale che il consumatore, professionista o bevitore che sia, e il ristoratore abbiano un’idea chiara di cosa sono i vini dell’Oltrepò pavese.

IL VINO FA BENE, BEVILO CON

INTELLIGENZA

STEFANO NERA Egregio sig. Zanfi, la domanda che Lei pone è un po’ complicata, in quanto per dare una risposta esauriente e completa bisognerebbe conoscere bene tutte le zone viticole della Lombardia, significherebbe averle visitate e frequentate da attento osservatore in modo da comprendere quali possano essere le varie problematiche, a livello strettamente agronomico o enologico o quelle riferite al funzionamento del sistema vitivinicolo e del supporto che esiste fra le aziende e i vari Enti che fanno riferimento a questo settore. È per questo che parlerò della Valtellina, la nostra zona di produzione, la quale si distingue nettamente da altre zone vitivinicole non solo lombarde, ma, ampliando il discorso, anche italiane, in quanto presenta un territorio estremamente difficile e complesso da coltivare. Si tenga in considerazione infatti che, partendo dalle caratteristiche geomorfologiche del terreno, si hanno naturalmente delle rese molto basse, inoltre il lavoro svolto in vigna comporta un impegno per le aziende di quasi 1500 ore annue per la lavorazione ordinaria di un ettaro di terreno; lavorazione che viene fatta completamente a mano, senza la possibilità di utilizzare mezzi meccanici, con conseguente innalzamento dei costi delle uve (probabilmente le più care d Italia) e, in generale, di produzione. Per quanto riguarda invece le “opportunità” alle quali lei fa riferimento nella sua domanda, penso che l’obiettivo più importante che dovremmo raggiungere è quello di riuscire a portare sul territorio il consumatore, l’appassionato di vino, il ristoratore o l’importatore, dando loro l’opportunità di toccare con mano quale sia la realtà di quest’area vitivinicola. Sono convinto che basterebbe accompagnarli a visitare i vigneti perché possano rendersi conto di come e dove nascono le uve e a quali difficoltà, sacrifici e rischi andiamo incontro quotidianamente, svolgendo questa professione. Sono convinto che capirebbero immediatamente quanta passione e attaccamento alla terra d’origine e quanto rispetto delle tradizioni ci sia in ciò che facciamo. Parlando dei “vantaggi”, mi sento di accennare alla laboriosità, alla cultura del lavoro e all’imprenditorialità del popolo lombardo, oltre all’esistenza di luoghi affascinanti e caratteristici come la Valtellina, dove si possono ammirare gli impervi vigneti terrazzati, un patrimonio unico nel suo genere che deve sicuramente rappresentare un vantaggio, un “plus” per il territorio che lo ospita. In futuro, a mio parere, bisognerà insistere oltre che sulla qualità, che è un punto cardine, sull’educazione delle nuove generazioni, insegnando loro a “bere bene”, rendendo consapevoli i giovani di avere a portata di mano una cultura vitivinicola straordinaria della quale devono e dovranno andare fieri. L’approccio con il vino non deve essere inteso semplicemente come bere, ma bensì come degustazionae, analisi e apprezzamento di un prodotto che nasce grazie ad immensi sacrifici e al duro lavoro che si “ritrovano” nel bicchiere che abbiamo la fortuna e il privilegio di tenere tra le nostre mani. Infine sarebbe utile che i rappresentanti politici del settore, le categorie dei medici, i ricercatori e tutti coloro che potrebbero essere divulgatori del “bere bene”, si rendessero conto che questo straordinario prodotto, bevuto con moderazione ed intelligenza, fa bene alla salute e allunga la vita. Uno slogan appropriato potrebbe essere: “Il vino fa bene, bevilo con intelligenza”.

35


ISABELLA E EMANUELE PELIZZATTI PEREGO Crediamo nel futuro della viticoltura in Valtellina e nelle grandi potenzialità del nostro vitigno principe, il Nebbiolo, che si esprime al meglio sui ripidi terrazzamenti di montagna in un clima più fresco rispetto alle altre zone in cui è coltivato. Un vitigno molto poco diffuso nel resto del mondo, la cui presenza in Valtellina deve essere interpretata, tutelata e valorizzata ed è per questo che ci auguriamo che i nostri vigneti terrazzati possano essere presto inseriti nel patrimonio dell’UNESCO; questo contribuirebbe a fornire al nostro territorio gli strumenti più idonei per avere una maggior visibilità e anche una maggiore considerazione sia a livello nazionale che internazionale. Da sempre la Valtellina ha un buon potenziale turistico, legato principalmente alla montagna e che potrebbe essere sicuramente ampliato nel settore enogastronomico, magari migliorando il dialogo e la collaborazione di tutti i soggetti coinvolti nella filiera economica di questa vallata. Si pensi ad esempio al fatto che in Valtellina si consuma in un anno un quantitativo di vino che è oltre il doppio di quello prodotto attualmente; tuttavia, ai valtellinesi manca la consapevolezza di difendere, consumare e promuovere, con orgoglio, i prodotti tipici del territorio. Sicuramente vi sono alcune problematiche legate alla viticoltura in Valtellina che riguardano, innanzitutto, i terrazzamenti dei vigneti, che esigono lavorazioni manuali durante tutte le fasi vegetative della pianta, cosa questa che rende la conduzione degli stessi molto onerosa posizionando l’impegno profuso da ogni vignaiolo intorno alle 1000/1200 ore lavorative per ettaro

all’anno, contro le 400 ore ad ettaro medie di una zona collinare come l’Oltrepò pavese. Per tale motivo i nostri vini non possono competere in fasce di prezzo medio/basse, ma devono essere posizionati e valorizzati in una fascia medio/alta; perciò non li dobbiamo banalizzare, ma al contrario renderli inimitabili, cercando di esaltarne al massimo le migliori caratteristiche che il nostro territorio gli trasmette. Purtroppo, la difficoltà di coltivazione ed i costi di produzione elevati non sono a volte compresi e condivisi dalla popolazione locale che presenta una scarsa cultura del vino autoctono riscontrabile anche nella mancanza di un’adeguata valorizzazione della tradizione rurale del nostro territorio.

RICCARDO RICCI CURBASTRO

Alcune denominazioni lombarde, come la Franciacorta, stanno facendo segnare indici di sviluppo importanti, ma nonostante questo e andando più che bene le cose, credo ci sia ancora qualcosa da migliorare, soprattutto per quello che concerne il lavoro che accomuna le imprese poste all’interno della Denominazione, le quali devono essere in grado di costruire uno spirito di squadra capace di affrontare il futuro con un linguaggio nuovo, comune, condiviso da tutti, anche da quei nuovi attori che sono comparsi sulla scena solo negli ultimi anni. Questa crescita è stata possibile grazie all’applicazione rigida del disciplinare e al rigore, nella produzione e nella comunicazione, di cui si sono fatte interpreti le aziende in quest’ultimo decennio; ma questo non è più sufficiente per affrontare le sfide che il futuro ci riserva. Con la revisione di un nuovo Disciplinare, che presenta note più restrittive, nell’ambito della produzione e della qualità, e altre invece molto innovative, abbiamo inteso investire con più forza, nel prossimo decennio, su quelle linee guida che avevano segnato il successo precedente, cercando possibilmente di ampliarlo. In tutto questo il Consorzio Tutela del Franciacorta ha svolto un grande ruolo, soprattutto per quanto riguarda l’aspetto unitario del progetto, aiutando noi produttori ad imparare a comunicare con una sola voce il Franciacorta. Con piacere noto che questo stesso lavoro è stato avviato anche da altre denominazioni lombarde che esprimono i maggiori volumi, mentre vedo con qualche preoccupazione che le realtà minori necessiterebbero di maggiori

36

investimenti finalizzati ad un’ulteriore crescita qualitativa dei prodotti e, soprattutto, della comunicazione. I piccoli volumi e la mancanza di massa critica, però, mal si conciliano con queste esigenze e con la necessità di trovare spazi sul mercato. Sul piano tecnico non ci sono grandi problemi, se si eccettua quel cambiamento climatico in atto a cui tutti si dovranno assoggettare, modificando sia le tecniche viticole che quelle enologiche. Una sfida cominciata comunque già a partire dalla vendemmia del 2000 e che coinvolge sempre più le nostre capacità imprenditoriali: adattarsi ai cambiamenti sfruttandone le opportunità.


GIOVANNI TRIACCA Non è facile produrre vino in Valtellina. Sicuramente maggiori sono le problematiche e le incertezze rispetto alle opportunità e ai vantaggi. Da una parte abbiamo costi di produzione molto elevati (costo medio dell’uva 1,802,00/kg) e dall’altra un valore della bottiglia sul mercato medio-basso. Prezzi importanti li raggiungono solamente gli Sforzati e alcune specialità, che riguardano però solamente il 10-15% della produzione. La maggior parte dei vini realizza sul mercato un prezzo medio di 8-10 euro. Con questi prezzi si coprono sì i costi di produzione, ma rimane ben poco per investimenti sia nella produzione che sul mercato. Opportunità e vantaggi li possiamo riscontrare nell’unicità e nell’autenticità dei nostri Nebbioli di montagna. Vini di carattere, non facili da comprendere per chi non li conosce, ma appunto autentici e marcatamente legati al territorio. Vini con spigolature, non confondibili con i rotondi, morbidi e anonimi vini internazionalizzati (vini Coca-Cola); vini che hanno qualcosa da dire e raccontano della fatica dei viticoltori, delle viti inerpicate sui ripidi pendii sostenuti da innumerevoli muri a secco. Il nostro obiettivo è di produrre sempre meglio, di estrarre dal nobile vitigno Nebbiolo tutto quello che egli possa dare in questo territorio e con questo clima. Un altro obiettivo molto importante concerne la sensibilizzazione della gente di Valtellina riguardo al consumo del vino indigeno. Nelle case, nei bar, nella ristorazione, nei negozi della nostra valle non dovrebbe esistere posto per vini che non provengono dal nostro territorio. Tutta la gente di Valtellina, ma anche gli enti pubblici devono contribuire al mantenimento dei nostri terrazzamenti, tanto belli da ammirare quanto dispendiosi da mantenere. I contadini e i produttori da soli non potranno farcela.

GIAMPAOLO TURRA Le differenti aree vitivinicole lombarde si sono sviluppate puntando, ciascuna, su una specifica tipologia di prodotto che, scaturita dalle tradizioni e dalle potenzialità territoriali, è stata sviluppata e valorizzata con risultati spesso notevoli. Ma queste realtà, seppur di livello elevato, non sono che frammenti nel panorama italiano e mondiale. Sarebbe perciò importante che il concetto di identità territoriale venisse ampliato, integrando non solo tutte le produzioni viticole, ma l’intero panorama agricolo lombardo. È dalla combinazione delle diverse eccellenze produttive che può scaturire un concetto di tipicità lombarda irripetibile, vera opportunità per il futuro. Accanto a ciò risulta fondamentale che sempre più risorse economiche e umane siano rivolte alla ricerca e alla sperimentazione di tecniche agronomiche ed enologiche nuove, in grado di fronteggiare le urgenti problematiche, indotte dai tangibili cambiamenti climatici.

AMPLIARE IL CONCETTO DI

IDENTITA’ TERRITORIALE

37


MATTIA VEZZOLA

LA LOMBARDIA:

SCOMMETTERE SULL’UNICITÀ

PARTENDO DALLA

TRADIZIONE L’impegno è quello di valorizzare il patrimonio genetico del territorio, puntando sulla vocazionalità. Per essere competitivi nei mercati internazionali, noi produttori dovremmo poter offrire nel bicchiere non del vino, ma un intero territorio, composto dal patrimonio genetico dei vitigni, dalle ricchezze endogene, dal clima, dal paesaggio, dalle testimonianze artistiche e naturali. Abbiamo territori ricchi di sapere, di creatività, di comunità che conservano qualità della vita e forte coesione sociale. Paesaggi, cultura, arte e un saper fare che il mondo ci invidia. Dovremmo scommettere su questi talenti con un lavoro di ricerca e una sinergia tra produttori e vivaisti per consentire, in un prossimo futuro, la Certificazione di Identità genetica della viticoltura, assicurando così anche ai consumatori l’autenticità e l’unicità del vino. Per riuscire a fronteggiare la globalizzazione dei mercati e l’emergere di consumatori sempre più esigenti, con un gusto orientato alla morbidezza, all’aromatico, al fruttato, ma attenti anche alla ricerca della qualità quale mosaico di tipicità e tradizione, la Lombardia dovrebbe sfruttare meglio l’invidiabile, in quanto unico, patrimonio genetico-ambientale di cui dispone. Penso alla Franciacorta come esempio di eccellenza che grazie all’intuizione di imprenditori illuminati, agli studi di zonazione del territorio e alla salvaguardia della qualità del vino, è conosciuta a livello internazionale proprio per quell’accurato e preciso controllo del Franciacorta, dal vigneto al bicchiere. Questo ha garantito al territorio l’opportunità di essere apprezzato e scelto da un consumatore che ricerca l’eccellenza delle bollicine, un’eccellenza che oggi è garantita da un metodo riconosciuto dalla Comunità Europea nel 2003: il Franciacorta è quindi un metodo, ma anche un territorio e un vino.

IMPORTANTE PUNTARE SULLA CULTURA

DELLA DIFFERENZA

Ecco perché la Biodiversità è un valore di fondamentale importanza nello sviluppo di sistemi ecocompatibili e sostenibili, ma questo non è sufficiente, poiché deve essere associata alla valorizzazione del territorio e ad una programmazione territoriale che si ponga in simbiosi con tutti i soggetti che vi operano. La Biodiversità è l’unica arma per combattere la globalizzazione e l’unico antidoto alla banalità del gusto. Conoscere le proprie radici, la storia dei fatti e le storie degli uomini, le vocazioni e i caratteri pedoclimatici, che presiedono l’economia, è la nuova piattaforma su cui costruire le strategie del futuro delle aziende vitivinicole lombarde.

38

PAOLO ZADRA La Lombardia contribuisce per circa il 2% della produzione enologica nazionale, in particolare, le zone viticole a maggiore produzione sono: Oltrepò 68%, Franciacorta 14%, Terre di Franciacorta 5%, Valtellina Superiore 4%. I vini a DOCG e DOC coprono una superficie totale di 18.500 ettari, con una produzione che rappresenta il 60% della totalità dei vini prodotti in Lombardia, ponendo la regione al primo posto in Italia per la più alta percentuale di produzioni qualificate da marchi di garanzia in rapporto alla superficie vitata totale. Nonostante quest’ottimo risultato, la viticoltura lombarda presenta dei limiti legati alle particolari condizioni territoriali e sociali quali la notevole frammentarietà territoriale delle aziende e la eccessiva “tentazione di edificazione” a cui sono sottoposti i territori vitati. Tendenzialmente la viticoltura lombarda è caratterizzata da imprenditori che svolgono in prima battuta un altro mestiere, ma che negli ultimi 20 anni hanno investito molto nel settore costruendo delle bellissime cantine, le quali, grazie anche all’abilità degli enologi, hanno raggiunto obiettivi importanti. La qualità, però, non sempre è sorretta da una buona conduzione agronomica dei vigneti e spesso le nostre vigne sono troppo giovani, cosa che condiziona molto una produzione di qualità. Un altro problema, fonte anche di enormi incertezze, è l’aspetto commerciale e con esso l’applicazione di adeguate strategie di marketing che aiuterebbero a meglio interpretare le dinamiche dei mercati, le caratteristiche dei vini da produrre, il loro posizionamento, il miglior rapporto qualità-prezzo da utilizzare e un’adeguata comunicazione. Purtroppo soltanto pochissime aziende hanno avuto la possibilità di essere “market oriented” rispetto alla moltitudine di piccole o medie imprese che costituiscono la realtà del panorama vitivinicolo lombardo. Nonostante tutto i risultati arrivano e guardando in giro noto che ci sono spazi per un’ulteriore crescita, poiché i problemi potrebbero essere affrontati con la nostra ricchezza ampelografica - che è nota e invidiata da tutto il mondo arricchita dai nostri numerosi vitigni “tradizionali”, dei quali sappiamo ancora pochissimo dal punto di vista storico, botanico e, soprattutto, agronomico. La parola d’ordine deve essere quella di credere nel territorio come bene comune, investendo nei marchi collettivi, non dimenticando mai che la forza della nostra vitivinicoltura è rappresentata dal suo forte legame con il territorio e con le tradizioni locali, i punti di forza da esportare sui mercati internazionali.


39


40


RITRATTI DI VIGNAIOLI LOMBARDI


ANNIBALE ALZIATI

ALZIATI


43

Semplice, privo di complessità, facile, immediato, elementare, essenziale, naturale, sobrio, modesto, ingenuo: sono solo alcuni degli aggettivi con i quali potrei descriverti il mio modo di essere e la filosofia con la quale oggi vivo, la stessa che pratico con l’uva che raccolgo, spremo e, in compagnia del tempo, attendo che si trasformi in vino. “Semplice” non vuol dire “facile”, perché, se si vuole che una cosa sia semplice, bisogna averla non solo ben chiara nella propria mente, ma anche necessariamente compresa nel suo insieme, analizzata, sgrossata di tutto il superfluo, il futile e l’inutile che la circonda, così da riuscire, dopo, ad assaporarne il gusto senza finzioni. Tutto questo, ti posso assicurare, non è facile. Ho impiegato anni per riuscire a godermi il momento di semplice e genuina libertà che oggi vivo a contatto con la terra; anni per tirarmi via di dosso tutte le incrostazioni che si erano accumulate attraverso i luoghi comuni e le banalità. Le ho gettate via, insieme a mille altre cose che, frettolosamente, avevo pensato di custodire come reliquie inutili nel mio animo che si era appesantito rischiando di modificare le idee, gli scopi e le priorità che dovevo dare alla mia vita. È stato un viaggio lungo e ci sono arrivato solo dopo aver scoperto la voglia di riassaporare il genuino senso di libertà e spontaneità che mio padre Eugenio mi aveva insegnato ad apprezzare fin dalla mia tenera età, quando, salendo sul camion cisterna con lui, lo seguivo in quel suo girovagare per l’Italia, di cantina

in cantina, a comprare il vino per l’enoteca che aveva aperto a Milano. Erano i primi anni Sessanta del secolo passato. Io, pur essendo molto piccolo, ero diventato l’imbottigliatore “ufficiale” dei fiaschi di paglia da due litri di vino rosso e anche delle bottiglie da un litro di Moscato - dal sapore straordinario che non ho più ritrovato - che papà vendeva a peso e non al litro, tanto il contenuto era simile ad un mosto. Non mi è stata sufficiente, però, quell’indelebile esperienza passata con lui nel mondo del vino per arrivare a questo punto. Sono servite altre prove che hanno caratterizzato varie fasi della mia vita e che mi hanno visto dapprima laurearmi, poi divenire dottore commercialista, in seguito costruttore di biciclette al carbonio, passando da aziende multinazionali alla finanza. Ero tuttavia sempre irrequieto, poiché sentivo dentro di me qualcosa che mi centrifugava al di fuori del posto in cui ero, percependo, inconsciamente, che quello non era il luogo in cui avrei dovuto stare. Mi sembrava che tutto ciò che facevo non fosse semplice: tutto era troppo complesso, articolato e tortuoso e richiedeva molti più compromessi di quanto il mio spirito libero potesse accettare. Così, un bel giorno, mollate le scartoffie e la burocrazia, mi sono avviato alla ricerca di ciò che mi era stato insegnato da mio padre e ho ripercorso un viaggio a ritroso verso la terra e verso il vino che, per anni, aveva riempito il mio mondo. Io, però, mi ricordavo il sapore del vino di una volta, di quello che si faceva in modo naturale, direi in modo semplice. Ora, come potrai constatare, quello che

ti propongo è un vino nudo, semplice, in cui forma e sostanza coincidono, che non vuole arrogarsi niente più di ciò che è, né permette ad alcuno di definirlo meno di quanto in realtà valga: è morbido, senza spigoli, rotondo, asciutto e sapido, piacevole quanto l’intimità di una donna. Un vino d’altri tempi, adatto a chi se ne intende e ricerca attraverso esso un’esperienza intellettuale, quasi “antropologica”, fatta di un ipotetico viaggio nell’humus più segreto del terroir che lo ha generato, rivelandone le zolle e gli umori. Questo, caro mio, è un vino che dà emozioni. È venendo qua, nell’Oltrepò Pavese, a Scazzolino di Rovescala, a due passi da Milano, dove vivo, che ho ritrovato non solo qualcosa di familiare, ma anche quell’antica cultura contadina lombarda, così unica e distante da quella che sopravvive in altre regioni d’Italia. È qui che ho ritrovato delle vecchissime vigne di Croatina di oltre sessant’anni inserite, da sempre, nella natura, ed è qui che ho riscoperto i sapori del pane e quelli delle verdure dell’orto che la stagione ti consente di mettere sulla tavola, ed è sempre qui che ho avuto l’opportunità di rendermi interprete dei caratteri più veri di questo territorio, la cui dolcezza è da ricercare nelle sfumature e nei dettagli offerti da queste bellissime colline. Devo dire la verità, venendo in questo posto ho capito che avrei potuto iniziare finalmente un nuovo percorso di vita ancora più semplice di quanto avessi fino ad allora cercato di fare nella mia vita. Sentivo che quest’ambiente avrebbe contribuito a semplificarmi, scoprendo presto che, in questo


ALZIATI

NOTES

compito, mi stavano aiutando tutti i no che, via via, ero riuscito a dire al lavoro di commercialista o a quel mondo imprenditoriale che, a più riprese e per svariate ragioni, aveva cercato di intrappolarmi. Oggi sono contento e lo sono per tanti motivi, anche per merito della tua visita, ma lo sono soprattutto per essere riuscito a parlare così liberamente e semplicemente a te, toscanaccio viziato dalla storia e da un territorio senza uguali, e so che non ho sfigurato nel mostrarti le mie vigne, nel farti visitare questo meraviglioso Oltrepò pavese e nel farti assaggiare il mio vino. Come vedi, mi riesce bene essere immediato, ma ciò è possibile, soprattutto, perché ormai sono un uomo semplice, qui, nella mia mente, e qui, nel mio cuore, e non ho remore nell’esprimere ciò che penso senza i lacci e i lacciuoli di chissà quali obblighi o convenienze. Noterai che sono felice quando parlo di questo vino, poiché lo sento molto vicino al mio pensiero ed è la stessa emozione che provo quando vado in giro per l’Italia per farlo assaggiare, incontrando, in quelle occasioni, tanta gente e, soprattutto, tanti giovani con i quali instauro un dialogo, cercando di trasformare quel bicchiere nel miglior ambasciatore dei sentimenti che sperimento in questo quotidiano contatto con la natura. Ora basta, non ho altro da aggiungere, ma se vuoi ci beviamo ancora un altro po’ di vino, mentre rimaniamo in silenzio, semplicemente seduti, lasciando che a parlare, ora, siano le cose che ci circondano.


Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni argillosi con forte presenza di gesso e tufo, è situato ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud/ovest. Uve impiegate: Croatina 90%, altre uve a bacca rossa 10% Sistema di allevamento: Guyot alto Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla fine di settembre alla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto è posto in tini di cemento e avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase della vinificazione si protrae per circa 12 giorni ed è svolta ad una temperatura libera, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura il vino è riposizionato nelle vasche di cemento dove staziona per 36 mesi e in cui svolge la fermentazione malolattica subendo almeno due travasi. Terminato questo periodo di maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, quasi impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di prugne, more, lamponi maturi e melagrana, con importanti note di viola appassita che si aprono a intense percezioni carnose. In bocca è polposo, ricco, opulento, caldo, avvolgente; la fibra tannica, evoluta e ben presente, è accompagnata da una ricca sapidità che lo rende fresco e ingannevole, coprendone la gradazione alcolica, ma anche lungo e persistente. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2000, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, che a sua volta lo deriva da un termine gotico usato per indicare cose di grande bellezza, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni.

Gaggiarone Bonarda di Rovescala Vino da Tavola Rosso

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Croatina e di una piccola percentuale di altre uve a bacca rossa provenienti dal vigneto omonimo di 2 Ha, di proprietà dell’azienda, posto in località Gaggiarone, nel comune di Rovescala, le cui viti hanno un’età di oltre 50 anni.

L’azienda: Di proprietà di Annibale Alziati dal 1995, l’azienda agricola si estende su una superficie di 20 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Annibale Alziati.

45


ANTONELLA, ETTORE CRIBELLATI

Alato siluro argento/turchino perfora la massa di nuvole chiare lentamente planando alla corsia… L’erba dei prati esulta di vento. È una poesia di nostro padre e oggi, nel rileggerla, non ti nascondo che mi commuovo, anche se rammento che con mia sorella Maria Antonella sorridevamo un po’ quando papà si chiudeva nella sua stanza a scrivere poesie, stimolato da quegli impulsi che, talvolta, sembrandogli troppo fugaci, si appuntava solo velocemente, mentre, altre volte, manifestandosi rigogliosi ed incontenibili, erano degni, secondo lui, di esser fissati su più fogli. Quel suo estraniarsi assomigliava molto a un fugace allontanamento da quel mondo del vino che io avevo deciso di condividere con lui. Aveva sempre desiderato una sua azienda vitivinicola e aveva rincorso questo suo sogno per tutta la vita attraverso un viaggio, lungo e tortuoso, che lo aveva condotto, più volte, ad accostarsi, e poi ad allontanarsi, da questa opportunità, che si concretizzò quando ormai era piuttosto in là con gli anni, materializzandosi in quest’azienda che tu stai visitando oggi. Ricordo che decise di chiamarla Anteo, come il dio greco che trae energia dalla terra, forse nella speranza che, anche lui, come quella figura mitologica, potesse trarre da questa terra dell’Oltrepò pavese l’energia giusta per lasciare un definitivo e indelebile segno del suo passaggio. Quando è venuto a mancare abbiamo scoperto che anche

dentro di noi era germogliata la sua stessa passione per questo mestiere di vignaioli. Ci siamo interrogati, però, sul se, sul quando e sul come noi avremmo mai potuto fare poesia. Sono passati anni e né mia sorella né io abbiamo mai scritto un solo rigo di poesia, ma l’educazione poetica che ci ha dato nostro padre ci ha insegnato ad apprezzare molto di più le sfumature di cui si veste ogni giorno questa terra e il cambiamento che il paesaggio subisce per la cadenza regolare delle stagioni. Proprio seguendo le stagioni e certe volte anche l’istinto, abbiamo dato peso e corpo a questa azienda con la certezza di avere Anteo al nostro fianco, sicuri che il dio contribuisce a farla crescere insieme a noi. Così, fra queste mura e in mezzo a queste vigne, ognuno di noi due ha messo quello che si sentiva di poter dare: chi il raziocinio dei numeri, chi la propria vena artistica, chi il pragmatismo lombardo, chi la voglia di poter trasformare i sogni in realtà. Un mix non facile da far coesistere e di questo siamo entrambi consapevoli, poiché siamo persone molto diverse, diametralmente opposte, con due caratteri forti che spesso si scontrano, dando origine, talvolta, a forti diatribe che, fino ad oggi, tuttavia, si sono sempre concluse con risultati positivi e propositivi per l’azienda. Ciò che ci lega non è, comunque, solo l’impegno operativo che deve esistere fra due persone che mandano avanti un’impresa, ma un grande e profondo affetto e anche se, per pudore, non le ho mai detto “ti voglio bene”, cosa che del resto non dico quasi mai neanche a mia moglie, lei sa che, come sorella, è una parte importante della mia vita e questo,

per me, è più che sufficiente per farmi superare e scordare tutte le incomprensioni che possono sorgere fra noi. Del resto, non è facile mettere insieme la mia visione del sistema operativo di quest’azienda con il suo sfrenato attivismo, che attinge energia dal fatto di essere libera come l’aria e di aver vissuto una vita “romanzata” come avrebbe potuto fare un qualsiasi “ragazzaccio” amico mio. Due forze, in ogni modo, sinergiche, ma che potrebbero fare molto di più per la loro azienda e per questo territorio che ha bisogno di una maggiore visibilità, poiché nel suo DNA ha un potenziale ancora inespresso e ampi margini di sviluppo. Un territorio che paragono ad una macchina che viaggia con il freno a mano tirato, pregiudicando gravemente anche il funzionamento delle altre parti meccaniche. Se questo oggi accade è senz’altro colpa di noi vignaioli, che ancora non sappiamo decidere il futuro strategico dell’Oltrepò pavese che, come avrai potuto constatare, è una delle aree vitivinicole più belle d’Italia. Per farti comprendere cosa io intenda, ti racconto di quando andai in vacanza in Borgogna con la mia famiglia. Lì incontrai un vigneron, un certo Carillon, che, non solo mi dette l’opportunità di visitare e degustare i prodotti della sua azienda, ma arrivò a scuotere la mia coscienza di produttore lasciandomi allibito con la sua risposta davanti alla mia richiesta di voler acquistare delle bottiglie del suo eccellente vino, come segno di gratitudine per quell’ospitalità così genuina e vera. Ricordo che, senza indugio, mi indirizzò all’enoteca comunale del paese vicino a Beaune, all’ingresso dell’autostrada, dove non

ANTEO


47


ANTEO solo avrei trovato i suoi vini, ma anche quelli di tutte le aziende della zona, sottolineandomi pure che, se avessi voluto comprare dei vini invece più longevi, avrei dovuto rivolgermi ad un’azienda a lui confinante che faceva dei bianchi estremamente interessanti, migliori dei suoi. Fu un grande insegnamento quello che mi fornì monsieur Carillon! Quanta “civiltà” enologica c’era in quelle sue parole! Quanta cultura e amore per il territorio percepii in quel suo gesto! Non credo che si arriverà mai a sentire discorsi del genere in Oltrepò, poiché, se ciò accadesse, significherebbe che è avvenuto un cambio radicale di cultura e mentalità nella zona e sarebbe il segno tangibile di un nuovo modo di interpretare, rappresentare e vivere il territorio. Io per primo riconosco che troverei molte difficoltà a dare delle indicazioni simili ad un mio ospite, come del resto sono sicuro che nessuno dei miei colleghi ci riuscirebbe. Il problema è che qui non ci siamo messi d’accordo neanche su un cartello che dall’autostrada possa fornire il benvenuto a quanti entrano nell’Oltrepò pavese, come non ci siamo messi d’accordo sulla necessità di aprire un’enoteca comune, né sull’utilizzo di un linguaggio e di un’azione collettiva finalizzata a una maggiore visibilità di quest’area, né tanto meno su una cooperazione fra produttori. Il sistema-territorio è ancora di là dall’essere concepito, figuriamoci se e quando potrà essere organizzato e fruibile. È triste constatare tutto ciò, ma qui dobbiamo ancora decidere cosa vogliamo fare da grandi: se vogliamo vendere vino sfuso o in bottiglia, puntare sulle bollicine o sull’effervescente Bonarda, diventare vignaioli o vinattieri. Il problema reale è che tutte le aziende sono “polivocate”, fanno cioè di tutto e molto di più di quanto sia nelle loro possibilità, arrivando a produrre una quantità illimitata di etichette, e quindi di vini, così da soddisfare il proprio cliente con un’offerta amplissima, composta per lo più da uno, due o, massimo, tre vini buoni e da una marea di prodotti mediocri, alcuni veramente pessimi, non conformi né alla qualità che oggi i mercati richiedono, né all’immagine di questo territorio. L’importante è non lasciar spazio a qualche altro produttore, al vignaiolo confinante di monsieur Carillon, perché ciò potrebbe significare perdere tutto. Ignoranza? Paura? Non so spiegarti. So solo che abbiamo perso non uno, ma 100 treni sui quali saremmo potuti salire e che, per anni, sono transitati anche dalla nostra stazione, diretti da una parte all’altra degli emisferi terrestri, senza che nessuno di noi ne prendesse almeno uno. Certo, riconosco che sarebbe bello sentir dire da qualcuno, per esempio, che “a Rocca de’ Giorgi si producono degli ottimi spumanti, mentre se cercate il Pinot nero rivolgetevi alla Tenuta Mazzolino di Corvino San Quirico”. Sarebbe bello, anche se so che difficilmente si potrà sentire un discorso simile. Il fatto è che, probabilmente, noi italiani siamo troppo individualisti e il senso spiccato del lavoro individuale che possediamo ci contrappone l’uno all’altro, impedendoci di fare “sistema”, pronti a criticare gli altri, dai quali ci si aspetta sempre che si muovano e vengano incontro alle nostre esigenze. Una prassi difficile da sradicare, almeno su questo territorio, ed è un peccato, perché su fondamenta così solide potremmo costruire una casa comune in grado di accoglierci tutti e nella quale, magari, ci sia anche una stanza in cui qualcuno, forse, si possa appartare a scrivere poesie.e


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione solo delle migliori uve Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Chiesa nel comune di Rocca de’ Giorgi, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni marnosi calcarei, poveri di scheletro, sono situati ad un’altitudine media di 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Pinot Nero 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot e/o cordone speronato a seconda dell’età dei vigneti Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha nei vecchi impianti; 5.000 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 36 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 8°C, è avviato alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase è svolta in tini di acciaio inox e si protrae per 10-12 giorni alla temperatura di 18°C. In questi contenitori il vino rimane fino al mese di maggio dell’anno successivo alla vendemmia; durante questi mesi vengono effettuati frequenti sur lies dei lieviti e delle fecce nobili così da arricchire la struttura del vino. Alla fine della primavera si procede quindi all’assemblaggio delle partite e al conseguente imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Per la maturazione, il vino rimane sui lieviti in cantina per almeno 40 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 40 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del vino della stessa annata, conservato e utilizzato come liqueur d’éxpedition. Lo spumante affina ora per altri 3 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Lo spumante veste il bicchiere di un colore paglierino dai riflessi dorati che arricchiscono un perlage fine e persistente; si presenta all’esame olfattivo con toni sapidi e minerali oltre ad un variegato spettro olfattivo che spazia dai profumi intensi di panificazione a quelli fruttati di agrumi, anguria, melone bianco, frutti di bosco, pesca, ananas e pinoli, a quelli di burro e lievi note di felce con un finale che ricorda il pan brioche. In bocca è amabile, sensuale, elegante e capace di porre in equilibrio perfetto la sapidità e una forte acidità: elementi che lo rendono beverino, lungo e persistente. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999, 2000, 2001, 2003, 2004 Note: Il vino, il cui aggettivo “écru” ne vuole sottolineare la purezza e l’integrità, raggiunge la maturità dopo circa 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. Diventerà Oltrepò Pavese DOCG a partire dall’annata 2007. L’azienda: Di proprietà della famiglia Cribellati dal 1983, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 26 vitati e 4 occupati da prati e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Letizia Rocco e gli enologi Jean Pierre Valade e Camillo Cortemiglia.

NOTES

Oltrepò Pavese Pinot Nero DOC Nature Ecrù Metodo Classico Extra Brut Millesimato

49


ISABELLA, EMANUELE PELIZZATTI PEREGO

Ricordo che poco tempo fa lessi il libro Frammenti di una vita dello scrittore turco Orhan Pamuk, un libro del quale mi colpì particolarmente un capitolo in cui, raccontando alcune sue riflessioni autobiografiche, egli descriveva la morte del padre affermando che “la morte di un uomo inizia con quella del proprio padre”. Rimasi per giorni a riflettere su quella frase che, del resto, non era altro che la sintesi del racconto di quella “nobile penna” che scriveva anche: “a vent’anni mi capitò di esclamare: per carità, non voglio essere come lui! Ma provavo inquietudine perché nella vita non ero felice, tranquillo, spensierato e bello come lui. Poi…”. Sfogliai avidamente quel testo, ma non ebbi bisogno di concludere la sua lettura per ripensare a mio padre Arturo che era morto da qualche anno. A dire il vero avevo la sensazione che ogni rigo di quel racconto lo avessi scritto io e non Pamuk, arrivando alla conclusione che, forse, era proprio questa la genialità e la grandezza di questo scrittore. Era il racconto perfetto nel quale si narrava il rapporto che avevo con mio padre, ma il bello era che anche le stesse similitudini che arricchivano il racconto e incalzavano la mia lettura sembravano essere le stesse che avrei potuto usare io, come quando mi ritrovavo nella necessità di avere un vero confronto con un padre che invece “ci lasciava e se ne andava lontano, in altri

luoghi, in altri posti, in altri angoli a noi sconosciuti”. Arturo se ne andava dietro casa, in mezzo alle sue vigne che per me e a mia sorella Isabella erano davvero lontane e sconosciute. Rimaneva lì, passando intere giornate a nascondersi in mezzo a questi vigneti, “appiccicati con lo sputo” su queste montagne, a costruire il suo vino e definendo, con i muri a secco, le cornici dei suoi sogni. All’inizio eravamo piccoli per seguirlo, poi, quando crescemmo, eravamo troppo grandi per giocare a fare il vino. Dapprima impegnati nello studio, poi in professioni che poco avevano a che fare con questa cantina. Personalmente, non lo avrei seguito neanche se fossi stato disoccupato, perché non comprendevo come, in un’epoca in cui è possibile fare mille altre cose, si potesse ancora fare il vigneron in Valtellina. Dentro di me sapevo che non era quello il motivo. Il problema era il mio rapporto con Arturo. Discussioni, piccole incomprensioni, mugugni che mi portavano a constatare che, certe volte, eravamo, secondo i punti di vista, o troppo lontani o troppo vicini per comprenderci e andare d’accordo. Ero giovane e mi riusciva difficile accettare compromessi, ma era anche vero che d’altra parte, non è che avessi accanto un personaggio facile, poiché, esigente con se stesso quanto con gli altri, aveva sempre la convinzione che nessuno, tranne lui, fosse in grado di fare ciò che in

quel preciso istante doveva essere fatto e, vivendo in questa convinzione, si prodigava in prima persona rifiutando qualsiasi aiuto. Lo vedevo silenziosamente uscire di casa, al mattino, e tornarsene solo a sera. Quante volte si sarà sentito solo? Non gliel’ho mai domandato, pur sapendo che era rammaricato dal fatto che nessuno dei suoi figli lo seguisse in quel suo sogno. Anche il padre di Pamuk, nel romanzo, diceva di sé: “Mi sento come una pallottola sparata inutilmente”. Era forse questa la sensazione di Arturo? Per chi faceva tutto questo? Non certo per me, dato che facevo il geometra, e neanche per Isabella, che si occupava di ricerca e sviluppo alla Cinzano, in Piemonte. Arturo, però, continuava a lavorare salendo e scendendo i gradoni dei suoi vigneti nella speranza che, prima e poi, le cose potessero cambiare. E le cose cambiarono. Non so cosa accadde. Non sono in grado di dire se il seme di questa mia nuova fioritura fu piantato al ritorno a casa di Isabella che, silenziosa e taciturna, si mise al fianco di papà condividendo quel suo stesso entusiasmo, o se, invece, fu il caldo abbraccio di queste vigne a me sconosciute che la malattia di Arturo mi costrinse a frequentare. Non lo so, ma se sono qui... vuol dire che le cose cambiarono e,

AR.PE.PE.


51


AR.PE.PE.

NOTES

senza sapere, forse, di esserlo sempre stato, mi ritrovai anch’io innamorato della stessa viticoltura valtellinese così tanto amata da Arturo. Questi luoghi iniziarono ad essermi familiari e la cantina, le viti e quei meccanismi sottili che regolano la coltura della vite in questo territorio, cominciarono a diventarmi ben chiari; così arrivai in poco tempo a conoscere ogni vite, quanti gradini dovevo salire per andare a raccogliere l’ultimo grappolo d’uva o quanti sassi delimitavano uno dei tanti fazzoletti di vigneto che avevano incorniciato i sogni di Arturo. Come assicurava lo stesso Pamuk “...col tempo tutto questo riuscii a superarlo e la gelosia, la rabbia che provavo verso quel papà che si librava leggero, che non mi aveva mai né oppresso né umiliato, volsero piano piano nel rassegnato riconoscimento della somiglianza che correva fra di noi. E già così mi sorprendo ad imitarlo...”. E aggiungo che io mi diverto a farlo perché lo faccio stando accanto a mia sorella e perché è bello cercare di assomigliare al vigneron che era lui. D’altra parte so che anche lui sperava che lo diventassi anch’io... Mi diverto a uscire di casa al mattino e fare ritorno a sera, standomene in silenzio per giornate intere, in mezzo alle mie viti, arrampicato come uno stambecco su pezzi di vigneti in precario equilibrio su questa montagna, accorgendomi di essere felice, appagato di vivere la stessa vita che viveva Arturo. La cosa mi rende ottimista e gioioso e sono contento di fare ciò che faccio in un territorio magico ed unico nel panorama vitivinicolo mondiale che si è tramandato grazie a gente come mio padre e spero che un giorno si possa dire... anche grazie al contributo che riuscirò a dare anch’io. Se è vero che “la morte di un uomo inizia con quella del proprio padre”, nel mio caso invece il tutto è coinciso con l’inizio di una nuova vita, la quale sicuramente un giorno si concluderà, ma che per adesso trovo straordinaria ed è per questo che dico grazie ad Arturo per avermi dato l’opportunità


Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova sul versante retico terrazzato, su terreni di origine morenica, bassi, molto sabbiosi e ricchi di silicio e di scheletro, è situato ad un’altitudine compresa tra i 450 e 500 metri s.l.m., con un’esposizione a sud /sud-est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5.500-6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini troncoconici di rovere e castagno, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae, a seconda dell’annata, per altri 25-35 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, che consiste in una sfecciatura grossolana, il vino è riposto sempre nei tini troncoconici, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in botti di rovere da 55 Hl in cui rimane per 48 mesi; in questo lungo periodo si effettuano travasi annuali. Terminata la maturazione e dopo 6 mesi di decantazione in tank di acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 24 mesi prima di essere commercializzato.

Valtellina Superiore DOCG Sassella Riserva Vigna Regina

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto Vigna Regina, di proprietà dell’azienda, posto in località Sassella, nel comune di Sondrio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 70 anni, rinnovate a seconda delle fallanze.

Quantità prodotta: 7.000 bottiglie circa Note organolettiche: Un Nebbiolo importante che veste il bicchiere di un bel colore rosso rubino intenso e che propone all’esame olfattivo profumi dolci di nocciole, tabacco da pipa, mon chéri e cognac invecchiato che si mischiano a un pot-pourri di note fruttate di ciliegie sotto spirito, confettura di lamponi, cuoio e agrumi. In bocca è potente, austero, con una fibra tannica elegante, la quale, abbinata a una ricca vena sapida, lo rende fresco, lungo e persistente, riportandoci alla mente le note agrumate percepite al naso. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1988, 1989, 1991, 1995, 1999, 2001, 2005, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dall’omonima vigna, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Pelizzatti Perego dal 1860, l’azienda agricola si estende su una superficie di 10 Ha, tutti vitati. Svolgono funzione di agronomo e di enologo i fratelli Emanuele ed Isabella Pelizzatti Perego.

53




GIOVANNI PAGNONI

BARONE PIZZINI


57

Vorrei che non mi ponesse troppe domande, ma si lasciasse guidare da me alla scoperta di questa azienda e di questo territorio e poi, se abbiamo tempo e vorrà, potremo scambiarci delle idee. Personalmente me ne sono fatte alcune sulla Franciacorta e sul mondo del vino, nel quale opero ormai da diversi anni. Ho fatto diverse esperienze nella vita, molte delle quali legate alla mia professione di commercialista-aziendalista, unita a quella di imprenditore in vari settori produttivi: produzione di capi d’abbigliamento, fusioni di alluminio e produzione di ruote in lega, imbarcazioni in vetroresina, attrezzature agricole e macchinari per l’ecologia; sono stato amministratore in società municipalizzate e in aziende ospedaliere. Per quindici anni sono stato Sindaco del mio comune e dal 1990, dedico buona parte del mio tempo alla Barone Pizzini S.p.A, nata dall’incontro tra alcuni amici di un importante gruppo imprenditoriale bresciano. Un’azienda storica - essendo stata costituita dal Barone Giulio Pizzini nel 1870 - che è sempre stata importante per il territorio della Franciacorta, nella gestione della quale abbiamo cercato di coniugare la tradizione e la storia - che del resto già le appartenevano - con altri concetti, più moderni, di un’impresa che fosse proiettata sul mercato. Per questo, fin da subito, abbiamo condiviso l’idea di puntare prima di tutto su una gestione manageriale, plurale, che sapesse guardare al futuro e garantire la governance, capace di motivare e stimolare le giovani professionalità interne. Stabilite queste regole, sulle quali ancora oggi facciamo affidamento, ci siamo posti il problema di riuscire ad essere apprezzati per quello che facevamo e per ottenere un simile risultato dovevamo fare un grande prodotto enologico che, nei nostri intenti, doveva essere salubre, buono, rispettoso dell’ambiente: biologico, dicevano fin dalla metà degli anni ‘90. Sono passati diversi anni da quelle intuizioni e oggi tutti i prodotti che commercializziamo sono biologici, sapendo di aver

utilizzato quella scienza non solo per produrre vini salubri o come semplice esaltatrice delle biodiversità del territorio, ma come opportunità di acquisire gli strumenti più idonei per anticipare le sfide del prossimo futuro che potranno essere perse o vinte giocando proprio sulla diversità e sulla grande qualità dei prodotti. È questo lo spirito che abbiamo messo nell’azienda, inserita in un territorio bellissimo, ma anche un po’ particolare, al quale va riconosciuto il merito di aver saputo coniugare il settore primario, quello dell’agricoltura, con il secondario e terziario, servizi ed industria, che qui in Franciacorta vedono una presenza importante, con industrie manifatturiere che hanno mercati mondiali, le quali rendono questa terra fra i bacini economici più ricchi d’Italia in quanto l’enologia raggiunge, a mala pena, il 3% del prodotto interno lordo. Una coesistenza, fra industria ed agricoltura, che sembrerebbe aver avuto successo, nel constatare come si è sviluppata la viticoltura, seppur ancora manchi una seria e programmata azione sull’utilizzo del territorio, sul suo consumo. C’è anche un altro aspetto importante di cui si deve tener conto: la Franciacorta vitivinicola non è un “distretto elettorale”, non è un unico collegio e, fino ad oggi, non è stata neppure un’esperienza condivisa e sentita dalla maggioranza della popolazione che vive nei 18 comuni che la compongono. Sono quindi mancate politiche comuni sul territorio ed è mancata una visione sovracomunale dei problemi locali. La Franciacorta non è né un sistema, né un distretto, ma forse, con l’impegno di tutti, in questa direzione ci si può incamminare. Quello che manca ancora, fra le aziende enologiche, ma anche nelle amministrazioni locali, è un’adeguata mentalità convinta della necessità di fare sistema, di agire come se questa Terra fosse un'unica entità amministrativa. È un ritardo forse dovuto al fatto che una buona parte delle aziende enologiche presenti in Franciacorta ha un’impronta “padronale”, molto

individualistica, in cui spesso l’attività enologica rappresenta una diversificazione piuttosto che una scelta primaria. Dov’è in Franciacorta quel vigneron come se ne trovano in Piemonte, in Toscana o in Friuli - che ha saputo, con il proprio lavoro nella vigna, qualificare tutta la sua filiera produttiva e lo stesso territorio nel quale lavora? Per ora non c’è o comunque la presenza non è così marcata ed evidente. Non c’è ancora ben strutturato né un supporto politicoamministrativo, né culturale al territorio e l’unico soggetto attivo e ben visibile che cerca di portare avanti il marchio della Franciacorta è il Consorzio di Tutela, anch’esso, purtroppo, a volte impacciato ed impossibilitato ad aggiungere ad una originaria azione di tutela della qualità - sulla quale è necessario migliorare - una costante e convinta azione per costruire un territorio, un distretto, aggregando intorno ad un unitario progetto l’edicolante, che sta qui a cento metri di distanza, e il ristoratore, che sta invece a trecento metri, il Sindaco del comune e il benzinaio che fornisce le informazioni ai suoi clienti su dove si trova una cantina. C’è bisogno - e qui ancora manca - di cultura dell’ospitalità e di appartenenza a questa Franciacorta. Io non credo che sia stato solo il connubio con “l’industriale”, come molti ritengono, a rendere diversa e unica la Franciacorta. Certo, l’industriale ha portato una cultura d’impresa che non apparteneva al contadino! Gli ingenti capitali, le ricchezze accumulate nell’industria e poi riversate in enologia, hanno determinato una crescita più veloce e hanno creato “disuguaglianze” fra questa zona e le altre, a favore della Franciacorta. Del resto, se vengono meno le ragioni di natura economica è difficile fare impresa e crescere. Solo con le passioni non si va lontano e non si vince, particolarmente per chi produce vino di alta qualità, perché servono grandi risorse economiche e grande managerialità. Se questa è una regola vera per tutto il vino di qualità - come lo è - vale


BARONE PIZZINI

ancora di più in Franciacorta, dove per fare delle buone bollicine Metodo Classico ci vogliono enormi capitali e tempi di rientro dagli investimenti che sono molto lunghi. Bisogna acquistare il terreno, i diritti di reimpianto, il terreno deve diventare vigneto; aspettare anni per avere uva ottima, trasformarla in mosto ed in vino, lavorarlo ed invecchiarlo e poi, finalmente, vendere la prima bottiglia. Ci vogliono non meno di sette anni prima di introitare i frutti di un lavoro immane ed estremamente professionalizzato. Ecco perché in questa zona le aziende di più grande dimensione sono possedute o da famiglie “storiche”, proprietarie di terreni da molti anni, o da imprenditori che hanno avuto successo in altri settori e che hanno poi investito sulla terra e sul vino. Io mi riferisco alle aziende che stanno in Franciacorta e che fanno vino proveniente da uve del territorio. Credo che facendo un buon prodotto, che producendo Franciacorta, non ci si debba aspettare margini elevatissimi e ritorni in tempi brevi. Bisogna guardare al medio-lungo periodo ed avere pazienza lavorando sulla qualità. Bisogna poi tener conto che in Italia il mercato del vino è frammentato e “segmentato”, e la Franciacorta non fa eccezione. Le statistiche parlano in genere di vino, ma raramente si soffermano ad analizzare i singoli comparti: un vino docg prodotto in un’azienda che lavora sul territorio e con uve del territorio non ha gli stessi costi di produzione di un vino destinato a grandi mercati e a consumi di massa, di un vino industrializzato. Nel mondo del vino c’è bisogno certo di poesia e di amore. C’è più bisogno di professionalità e di rispetto per l’ambiente e per la salute dei consumatori. Come uomo che sa guardare i numeri affermo che c’è bisogno di grandi investimenti e quindi di una gestione remunerativa, che guardi non solo agli incrementi patrimoniali, ma soprattutto al ritorno economico sugli investimenti. So che senza passione non si va da nessuna parte ed è per passione che io ho fatto tutte le scelte importanti di vita, che mi hanno portato ad essere sempre più legato al territorio in cui vivo e a rispettarlo.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay e Pinot Nero provenienti dal vigneto Roccolo in località Fantecolo, nel comune di Provaglio d’Iseo, le cui viti hanno un’età di 15 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbiosi, calcarei e moderatamente profondi, è situato ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 350 metri s.l.m. con un’esposizione da nord a sud. Uve impiegate: Chardonnay 50%, Pinot Nero 50% Sistema di allevamento: Cordone speronato e guyot Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e i mosti fiore ottenuti, dopo aver subìto 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 16°C, e dopo essere stati inoculati con lieviti selezionati, si avviano alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per 10-12 giorni alla temperatura di 18°C ed è svolta per il 50% in tini di acciaio inox e per il 50% in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura. In questi contenitori il vino rimane fino al mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia; durante i mesi invernali vengono effettuati frequenti bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili con l’intento di arricchire la struttura del vino. In primavera si procede all’assemblaggio delle partite, cui segue l’imbottigliamento e la conseguente aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 48 mesi, al termine dei quali si procede al remuage meccanico delle bottiglie per 7 giorni e al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura. Questo Franciacorta affina ora per altri 6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore paglierino dai riflessi dorati che arricchiscono un perlage fine e persistente; si presenta all’esame olfattivo in modo complesso, con percezioni di crosta di pane tostato, mele cotte al forno e arance candite, per lasciare poi spazio a note mielose, di gelato malaga, fiori di acacia e sambuco, con una chiusura vegetale di muschio e timo. In bocca è suadente, vellutato, equilibrato, con una vena sapida che lo sorregge e lo accompagna riportandoci alla mente le note fruttate percepite al naso. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1993, 1995, 1999, 2001, 2003, 2004 Note: Il Bagnadore è un torrente che dà il nome ad un località del comune di Marone sul lago d’Iseo e il socio fondatore di Barone Pizzini, Pierjacomo Ghitti, apparteneva alla famiglia dei Ghitti di Bagnadore. Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della Barone Pizzini S.p.A. dal 1991, l’azienda agricola si estende su una superficie di 50 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Pier Luigi Donna e l’enologo Paolo Caciorgna.

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Nature Millesimato Bagnadore

59


PAOLO MASSONE


61

Senti come friniscono le cicale, laggiù, tra le vigne... Che baraonda fanno nella quiete di queste ore pomeridiane! Sentirle, comunque, è una gioia, perché vuol dire che la bella stagione sta per arrivare e questa lunga, noiosa e piovosa primavera, che mi ha accompagnato in questo viaggio in Lombardia, volge alla fine. Il loro canto mi ricorda l’estate, il sole, il caldo e le ombrose pinete della mia Maremma e sentirle così lontano dal mare, in questo luogo, mi rende un po’ spaesato. Non ti nascondo che mi piace questo Oltrepò, come mi piace il paesaggio che nell’insieme lo caratterizza e nel quale mi tuffo ormai ogni mattina da settimane, lasciandomi cullare dal susseguirsi di dolci crinali, in cima ai quali trovo piccoli paesi che sembrano quasi di cartone; crinali che piegano poi verso le mezze tinte più scure di silenziosi e lontani fondovalle dove incomincia un ricamo minuzioso di vigneti che ora circondano le macchie gialle dei campi di grano, ora bordano di un tenero verde i cupi boschi oppure sfilano, allineati come soldatini, al fianco dei campi fioriti o di quelli uniformi d’erba medica in un susseguirsi cromatico che li riporta in cima ai colli e invita al viaggio e alla scoperta di cosa vi sia oltre quella stretta curva o di là da quell’altro colle. Ogni giorno un incontro nuovo con paesi nuovi, con gente sconosciuta e con le osterie dove ho il piacere di scoprire la tradizione di questa terra. Vedi come ci hanno portato lontano, queste sonnacchiose cicale? A parlare di paesaggi, di declivi, di fondovalle e di vigne, di borghi e osterie, ma se smetto di fare il poeta e penso alla loro confusione che sovrasta la bellezza del silenzio, trovo anche in ciò molti parallelismi con questo territorio e con voi vignaioli, ascoltando i quali ho sentito solo belle cicale cantare, ognuna delle quali friniva per conto suo senza che nessuno riuscisse a farmi comprendere

quale fosse il “vero” vino dell’Oltrepò pavese. Dimmelo tu quale è il “vero” vino... È la Bonarda? È il Pinot Nero? È lo Chardonnay, il Riesling Renano oppure quello Italico? È la Barbera oppure questo tuo splendido Merlot? Un vino che ho stentato a riconoscere tanto era perfetto il connubio che lo lega a questa terra, fino al punto di farmi supporre che anche il tuo Merlot potesse essere il vino rappresentativo di questo territorio... Raccontami se il presente enologico dell’Oltrepò pavese prevede un’esaltazione dei vini mossi o di quelli fermi... Oppure se il futuro vedrà una crescita esponenziale degli spumanti prodotti con Metodo Classico o di quelli prodotti con il metodo Martinotti... E secondo te, il vitigno di riferimento di questa terra sarà ancora la Croatina o diventerà il Pinot Nero? Sono domande alle quali non sono riuscito a dare ancora una risposta. Del resto, come avrei potuto? Ancora non ho una conoscenza approfondita di cosa sia il sistema vitivinicolo dell’Oltrepò Pavese... Tu hai delle risposte? Se ne avessi una sarei contento, perché potrei tornare a fare il “poeta” e descrivere questo territorio attraverso il suo vino e magari percepirne l’essenza inconfondibile. Diversamente non saprei cosa dire. Non mi rappresentano niente le dotte divagazioni degli esperti, né le puntuali e informate relazioni degli studi di settore che stabiliscono con esattezza se è più opportuno per i produttori italiani impiantare vitigni autoctoni o alloctoni. Le trovo sterili e improduttive; queste discussioni le lascio agli altri, agli esperti che sanno sempre con esattezza dove si posizioneranno le future richieste del mercato e dove quindi dovrebbe collocarsi l’offerta produttiva. Sono venuto qui per capire quale fosse il battito che

anima il cuore del movimento vitivinicolo dell’Oltrepò pavese, un territorio che mi sembra - e questa non è che un’opinione personale - ancora alla ricerca di una sua identità precisa, risultandomi di difficile interpretazione e di scarsa riconoscibilità. Un problema che, almeno in parte, speravo di risolvere spostando l’attenzione sui pochi marchi aziendali che caratterizzano quest’immenso bacino produttivo, molti dei quali, però, fanno dai vini bianchi ai vini rossi, dagli spumanti ai vini mossi, dal Sangue di Giuda ai Passiti, contribuendo ad innalzare così una incomprensibile torre di Babele enologica. Mi piace, comunque, la lingua parlata da questi tuoi vini; risulta estremamente comprensibile per il mio palato. In essi non trovo solo il vitigno, ma anche l’argilla, il gesso, la terra di cui sono composte queste colline e anche la schiettezza e l’audacia di un vignaiolo come te che ha “inciso” profondamente su questo Merlot. Continua così e lascia perdere la sciocca competizione originata dal globalismo dei mercati, dalle mode e dalle indicazioni di chi pensa di saperne più di te e cerca in ogni modo di crearsi una storia, una cultura, una tradizione che, al pari tuo, non ha. Siamo tutti contadini, o figli o nipoti di contadini, quindi continua a fare quello che ti riesce meglio, poiché l’Italia, questo paese stretto, magro, lungo e affusolato, ha una grande ricchezza vitivinicola che non è da ricercare nel germoplasma delle migliaia di vitigni che sono o che potrebbero essere vinificati, ma nella capacità e nel contributo fornito dalle migliaia di vignaioli al comparto viticolo nazionale. Forse anche per l’Oltrepò ci vorranno decenni prima che abbia inizio un cambiamento radicale della cultura vitivinicola, ma nel frattempo tu continua così, vai per la tua strada e lascia perdere le cicale.


NOTES

BELLARIA


Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni argillosi, sabbiosi e limosi, è situato ad un’altitudine di 130 metri s.l.m., con un’esposizione a est / sud-est. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 80%, Barbera 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica spontanea. Questa fase è svolta in vasche di cemento vetrificato da 50 hl e si protrae per circa 10 giorni senza controllo della temperatura; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, che prosegue per ulteriori 6-7 giorni, durante i quali vengono effettuati, in alternanza, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura e una prima pulizia statica, il vino viene assemblato e riposto nuovamente nelle vasche di cemento, dove svolge la fermentazione mailolattica prima di essere messo in barriques di rovere francese di Allier, nuove per un 30%, a grana fine e di media tostatura, in cui rimane per 2428 mesi. Dopo questo periodo di maturazione, si procede all’assemblaggio delle partite e, passati 6 mesi in vasca per una naturale decantazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione.

Bricco Sturnel IGT Provincia di Pavia Rosso

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon e Barbera provenienti dal vigneto Sturnel, di proprietà dell’azienda, posto nella località omonima, nel comune di Casteggio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 25 anni.

Quantità prodotta: 7.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un vino intrigante, da conservare e lasciar maturare, che veste il bicchiere di un bel colore rosso rubino cupo, impenetrabile e propone sensazioni olfattive complesse che spaziano dai profumi di ribes nero e prugne, alle more e ai mirtilli maturi, dall’eucalipto alle bacche di ginepro e pepe nero, fino ad importanti note di fiori appassiti che si aprono a percezioni di liquirizia e cioccolato fondente e a nuances balsamiche. In bocca è caldo, austero, potente, avvolgente ed elegante, lasciando immediatamente un deciso impatto balsamico. Una fibra tannica ben evoluta e una buona acidità sorreggono tutta la degustazione e il vino ripropone in bocca le percezioni fruttate avute al naso, mentre una bella freschezza lo rende piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1993, 1997, 1998, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso, a seconda delle annate, fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Massone dal 1840, l’azienda agricola si estende su una superficie di 15 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo e di

63


VITTORIO MORETTI

BELLAVISTA


65

Ci sono due entità che più delle altre mi hanno aiutato nella vita: la memoria e la speranza. È stata la memoria, infatti, la mia musa ispiratrice, la fonte dalla quale ho attinto per dare corpo, senso, peso e forma al mio “saper fare” e alla vita, progettandola da quel poco o nulla che avevo, quando, nel lontano 1949, a otto anni, partendo da Erbusco, seguii mio padre Antonio e mia madre Caterina a Milano. Sono quei ricordi che mi fanno essere ciò che sono, perché come uso ripetere spesso - ci hanno costruito così i nostri genitori, la nostra storia, il nostro passato e, pur essendo cambiate molte cose nell’arco di questo mezzo secolo, non ho mai dimenticato quali siano le mie origini. Non dimentico il contributo che davo, già da bambino all’attività edile di mio padre, nella quale mi prodigavo facendo dei piccoli servizi, tra i quali il raccogliere i chiodi storti che, a sera, venivano raddrizzati e riutilizzati una seconda volta il giorno dopo, con quel sano concetto economico d’impresa in cui si sosteneva - come sostengo ancora oggi che “il miglior soldo guadagnato è quello risparmiato”. Ricordi che mi riportano alla mente la bicicletta sulla quale, per anni, d’estate e d’inverno, pedalavo per andare a lavorare e sulla quale, diverse volte, con l’andar del tempo, ho pensato che sarei potuto risalire se fossero andate male le attività. Sono cresciuto così, fra impalcature e tubi innocenti, imparando un mestiere con gli occhi, ma anche sui libri di quella scuola serale grazie alla quale divenni perito edile. E a Milano, alla fine degli anni Cinquanta, quello non era un titolo di studio qualunque. Un perito edile della scuola Carlo Bazzi di Milano era un signor capomastro, il capocantiere che conosceva il mestiere e quel titolo di studio mi permise di fare straordinarie esperienze che hanno arricchito la mia memoria e mi hanno permesso di lavorare in

tranquillità, acquisendo una facoltà decisionale unica che, abbinata alla sicurezza di chi sa fare, ha reso più semplice decidere le priorità necessarie a raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissato. Sono passati gli anni, ma, oggi come ieri, riconosco di essere sempre un capocantiere, che ora comanda non solo muratori o carpentieri, ma anche altri uomini che ricoprono ruoli diversi, in una holding alla quale applico, nei vari settori produttivi in cui ho diversificato l’attività, ognuno dei quali considero importante, la stessa filosofia che usava papà Antonio con la sua piccola azienda, alla quale ha dedicato la sua vita, dividendosi fra il lavoro e la famiglia. Ho sempre ritenuto fondamentale guardare avanti, sperimentarmi e misurare le mie capacità e in questo gioco, coinvolgente ed estremamente affascinante, mi sono costruito l’idea che, per essere il migliore ed essere vincente era importante non solo scegliere cosa fare, ma anche con chi farlo. Scelte che mi hanno indotto a circondarmi di collaboratori validi da collocare ai posti giusti, a prescindere se avessi necessità, in quell’occasione, di bravi muratori o di un maestro d’ascia per costruire le barche a vela. Uomini che, dovendo ricoprire posizioni importanti nelle mie imprese, dovevo scegliere fra molti altri e il mio carattere, diretto, incisivo, vero e sincero mi ha sempre aiutato molto in questo compito; un carattere che, pur limitandomi qualche volta, mi ha fatto valutare le persone sempre in modo corretto, soprattutto dando ascolto all’impressione del primo impatto oltre a quelle sensazioni percepite con il contatto epidermico allorquando stringo la mano alle persone. Idee, percezioni, istinto: non saprei spiegare cosa sia, ma difficilmente ho sbagliato il mio giudizio. Credo invece che tutto si ricolleghi all’esperienza e quindi alla memoria, quella Mnemosyne greca che dà coralità ai presenti e corpo agli assenti, che ci dà

spessore e ci costruisce da dentro, collegandoci al passato e alla tradizione; quella stessa che mi ha consentito di riappropriarmi dell’identità sociale che mi era appartenuta e che mi ha permesso di compiere l’atto d’amore di ritornare qui, sulla mia terra, a Erbusco, e di costruire Bellavista. Quanta memoria c’era nel ricordo di nonno Francesco, chiamato da tutti Cichì Fatur, il piccolo fattore, e quanta nel piacere di sentire l’abbraccio di questo territorio dal quale ero partito vent’anni prima. Compresi che era questo il posto dove dovevo stare. La voglia di fare e il desiderio di capire cosa vi sia al di là dell’angolo che mi preclude la visuale è sempre stato il fondamento della mia stessa identità di imprenditore e così, stimolato da questa mia terra, mi ritrovai a progettare una cantina nella quale poter riuscire a fare il mio vino che doveva essere importante, per me e per questa Franciacorta. Eravamo alla metà degli anni Settanta e a lavorare nel mondo del vino su questo territorio erano dei commercianti o dei vignaioli che giocavano a fare i commercianti. Personalmente non conoscevo la viticoltura, né l’enologia, ma sapevo che, se avessi deciso di fare davvero del vino, bisognava che lo stesso rispondesse a quei canoni di qualità con i quali mi ero costruito la professionalità di imprenditore di successo. Ricordo che, senza esitazioni, mi recai in Francia, nella regione dello Champagne, dove incontrai una realtà diversa, vera, che mi fece comprendere cosa fosse realmente il vino e quanto impegno richiedesse il produrlo. Fra me e me pensai che se le difficoltà erano l’impegno e le professionalità giuste da trovare, allora, per me, non sarebbe stato un problema fare il vino. Ancora una volta tutto dipendeva dalla scelta degli uomini che avrei dovuto utilizzare in quel progetto e così, con l’aiuto di monsieur Petitjean, uno dei più grandi esperti di Champagne e, allora, capo dell’Istituto


BELLAVISTA

Enologico di Épernay, trovai la collaborazione di un grande enologo francese Louis Chaumont, al quale affiancai subito dopo Mattia Vezzola, e via via gli altri, fino completare lo staff della cantina, a cui seguirono i progetti ricettivi de L’Albereta e L’Andana, dove trovarono spazio le professionalità di Gualtiero Marchesi e di Alain Ducasse e di tanti altri collaboratori. Stimolai, nel frattempo, il graduale ingresso nelle aziende di famiglia di mia moglie e delle mie figlie, Carmen, Francesca e Valentina. È andata così e qui, in questo mosaico che si è andato componendo, entra in gioco la speranza che, per me, non è una rassicurante fiducia nella bontà delle cose o la sentimentale convinzione che le stesse, alla fine, andranno comunque bene oppure una coraggiosa sfida a tutto ciò che sembra negarla. Per me speranza vuol dire guardare oltre, vedendo, con uno sguardo che sa andare lontano, che dietro ad essa vi sono sempre delle potenzialità che premono perché si realizzi ciò che poi diviene concreto. È quella speranza un po’ rivoluzionaria che mi ha fatto accettare le sfide che il presente mi proponeva e mi ha consentito di andare oltre e costruire un altro mondo, nuovo, quello di Vittorio Moretti, aperto alle opportunità e alle idee, un mondo fatto di cose semplici e belle, diverso da quello - che non ho dimenticato - del 1949 quando andai a Milano. Ho sempre pensato che sarebbe stato sufficiente amministrare bene tutto ciò che avevo appena costruito o realizzato per vederlo crescere: un concetto che mi ha consentito di avere del tempo da dedicare alla mia famiglia e ad altre esperienze imprenditoriali rivolte a cose da costruire, che potevano essere cambiate o migliorate, senza essere stravolte, avviando così un continuo processo di crescita che ancora non si è concluso. No, non mi sono mai sentito un vincente, come non ho mai pensato che altri riconoscessero il valore di ciò che ho fatto, ma, del resto, se mi sentissi arrivato e pensassi di aver ottenuto ciò che volevo dalla vita non sarei più capace di sperare, cosa che voglio ancora fare fino all’ultimo, quando ancora dirò come ultima parola “spero”...


Zona di produzione: Il vino è il prodotto dell’unione di uve Chardonnay e Pinot Nero provenienti dai migliori crus di Franciacorta come Erbusco, Nigoline, Torbiato e Colombaro. Tipologia dei terreni: I vigneti, di età superiore ai 20 anni, che si trovano in una zona collinare dai suoli morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), a scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbiosocalcareo moderatamente profondi, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 380 metri s.l.m, con esposizioni a sudsud/est. Uve impiegate: Chardonnay 59%, Pinot Nero 41% Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte; le variabili di mosto fiore ottenuto, dopo 2436 ore di decantazione naturale, si avviano alla prima fermentazione; il 65% delle selezioni in tank di acciaio inox e il 35% in piccole botti da 228 lt. di rovere bianco. In questi contenitori il vino rimane fino all’inizio della primavera successiva alla vendemmia; ad aprile si procede all’assemblaggio delle selezioni scelte tra più di 80 variabili ottenute dalla vendemmia, dando così vita al Franciacorta Vittorio Moretti. La filiera di produzione è la più tradizionale del metodo Franciacorta; vendemmia a mano, pigiatura con presse Marmonnier e Coquard, presa di spuma con tappo in sughero, affinamento sui lieviti, dopo la seconda fermentazione in bottiglia, per almeno 6 anni; remuage manuale per 4 settimane, ed infine dégorgement manuale, fase conosciuta come sboccatura. Quantità prodotta: 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore paglierino luminoso dai riflessi verde oro che arricchiscono un perlage sottilissimo e persistente; si presenta al naso equilibrato, fine, fresco, posando su un mosaico olfattivo che spazia dalle note tostate a quelle fruttate, dove si percepiscono sentori di mandorla, nocciole tostate, Pan dei Santi, caramello, croccante, mela, agrumi, pesca sciroppata e ananas, con un finale che ricorda il cacao. In bocca è fresco, cremoso, largo, sensuale e capace di coniugare perfettamente sapidità e acidità; lungo e persistente, chiude con nuances di pasticceria e agrumi freschi. Prima annata: 1984 Le annate prodotte: 1984, 1988, 1991, 1995, 2001 Note: Il vino, che prende il nome dal fondatore e proprietario dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 12 anni. L’azienda: L’azienda, che nasce nel 1977 ed è di proprietà della famiglia Moretti, ha in produzione 190 ettari di vigneti, tutti a conduzione diretta. Collaborano in azienda l’agronomo Fabio Sorgiacomo e l’enologo Mattia Vezzola.

NOTES

Franciacorta DOCG Extra Brut Millesimato Riserva Vittorio Moretti

67




FRANCO ZILIANI

Ho sempre considerato un brindisi un gesto spontaneo, l’espressione più naturale che sancisce i momenti euforici, tradizionali o molto speciali. Con il tempo ho imparato a conoscere meglio le sfumature che si nascondono dentro a quel sottile perlage e quanti aromi e preziose percezioni olfattive lo caratterizzino, scoprendomi più volte a fantasticare intorno a quel vino così effervescente, complesso e affascinante. Nel tempo si sono uniti ad esso dei ricordi legati ora ad una cena importante, ora alla festa di laurea, ora ai sorrisi intriganti di qualche amica speciale, magari davanti ad una pizza. Con il tempo i ricordi si sono sommati ai ricordi, tutti ricollegabili a quelle bollicine che per me avevano un solo nome: Guido Berlucchi. Non so se ciò fosse dovuto ad un vezzo o a qualche particolare sfizioso o se, invece, vi fossero altre motivazioni che il tempo ha cancellato dalla mia memoria. Sta di fatto che, per molti anni, ogni volta che pensavo alle bollicine, interpretando qualche amabile ritualità che ad esse si accompagnava, immancabile si formava nella mia mente l’immagine di una raffinata bottiglia di Berlucchi. Non era la qualità a farmi pensare a quella bottiglia, né la diffusa presenza di quel marchio sul mercato, ma, piuttosto, il fatto che era uno spumante italiano e io, già da allora, amavo tutto ciò che era made in Italy e mi faceva un preciso vanto bere solo prodotti nazionali anche se si trattava di bere bollicine. Ero giovane e conoscevo quel marchio come consumatore; non avrei saputo dire chi fosse il proprietario, né la zona di produzione, né, tantomeno,

le modalità produttive. Per me Berlucchi era solo un’etichetta e quelle meravigliose bollicine erano buone e utili per riempire le mie serate di festa. Mai avrei pensato di ritrovarmi, quarant’anni dopo, a scrivere di vino e di bollicine e scoprire non solo che ci sono sempre più persone che le amano, ma che ce ne sono molte che le producono con standard qualitativi da far invidia a quelle, più blasonate, transalpine. Così, accingendomi ad organizzare questo viaggio in Lombardia, che mi avrebbe condotto a scoprire i vini della regione e uno dei territori più vocati per le bollicine, la Franciacorta appunto, non esitai neanche un momento nell’aggiungere alla lista delle aziende da visitare il nome della Berlucchi. Come avrei potuto perdermi un incontro con la storia? Seguirono giorni frenetici e, senza accorgermene, mi ritrovai al momento in cui avevamo fissato l’appuntamento e non so dire l’emozione che ebbi nel visitare le cantine dell’azienda, quelle stesse che, oltre mezzo secolo prima, videro l’inizio della leggenda della Guido Berlucchi. Ancora più forte fu l’emozione nel trovarmi al cospetto del genio creativo della Berlucchi, colui che aveva non solo costruito la storia dell’azienda, ma aveva contribuito, in modo determinante, a fondare il mito delle bollicine italiane: Franco Ziliani. Una stretta di mano energica, lo sguardo vivo come quello di un giovane, un sorriso accattivante, schietto e sincero e il modo di parlare tipico di chi ha visto tante cose e tante altre ne ha da raccontare.

Mi accomodai sulla sedia e gli lasciai la scena come se già immaginassi quale e quanta energia sarebbe stato capace di trasmettermi quel simpatico settantasettenne. Alcune battute iniziali furono solo il preludio di uno spettacolo, il cui copione Franco conosceva bene e, da attore smaliziato quale era, iniziò senza indugi a calcare quel palcoscenico che gli avevo servito su un piatto d’argento, mettendo in scena la sua vita. Con voce ferma e risoluta e occhi ancor più vivi di quanto avessi notato all’inizio e senza lasciarsi distrarre dalle mie ingerenze e interruzioni, iniziò a raccontarsi. Mi parlò di Arturo, suo padre, un uomo duro, a dispetto di quanto desse a vedere, il quale davanti alla sua negligenza scolastica, non ci pensò due volte a fargli sentire il morso del duro lavoro, obbligandolo a salire su un camion e a trasportare bestiame fra la campagna e il mercato di Rovato. Rammentava che era appena finita la guerra - forse era il 1946 o il 1947 - e che doveva alzarsi alle tre del mattino e svolgere, per tutta la giornata, quel lavoraccio terribile che durò, tuttavia, solo qualche mese prima che egli stesso ammettesse che era molto meglio ricominciare a studiare. Le sue parole mi investirono come un torrente in piena, mentre ricordava quegli anni trascorsi all’Istituto Enotecnico di Alba e il flusso non si arrestò nemmeno quando mi parlò dei primi insuccessi e delle iniziali vicissitudini dell’avventura nella Berlucchi. Mentre parlava lo osservavo e notavo che la sua voce aveva sempre un tono costante e vivo, ogni tanto con toni più bassi che si alzavano soprattutto quando nel

BERLUCCHI GUIDO


71


BERLUCCHI GUIDO discorso inseriva dei ricordi a lui molto cari, come quello che mi raccontò, con dovizia di particolari, e che qui in parte riporto, dell’incontro di lui, giovane ed inesperto enologo, con Guido Berlucchi, conosciuto come il Conte Berlucchi, spiegandomi anche il motivo di quell’appellativo nobiliare… …Mi mandò a chiamare e, per la prima volta, ci incontrammo, in una gelida mattina di gennaio, al mercato di Rovato, che, allora, era molto pittoresco, un grande e bellissimo mercato, dove, tutti i lunedì, una gran folla di persone accorreva per la compravendita del bestiame, delle granaglie, dei formaggi e degli strepitosi stracchini locali. Arrivavano da tutta la provincia, e anche da Bergamo, ma, soprattutto, arrivavano i contadini per vendere i loro vecchi buoi e cercare di comprarne altri, più giovani, così come si potrebbe fare oggi in una concessionaria di trattori. Tra tutti quei contadini non mi fu difficile riconoscerlo: era l’unico “signore” del mercato. D’impatto, ciò che colpiva di lui non era solo l’eleganza, ma il portamento e mi bastò notare alcuni particolari, come le scarpe fatte dal calzolaio, forse addirittura a Londra, il loden verde di taglio sartoriale, la bellissima pipa che teneva in bocca o nella mano e che muoveva con una gestualità lenta e studiata, e i guanti in pelle, uno dei quali calzato alla mano sinistra che stringeva l’altro, per capire che erano elementi sintomatici di una gran classe. Ci accordammo per un secondo incontro che questa volta si svolse nell’elegante salottino di casa sua, mentre le note della canzone Georgia on my mind vibravano nell’aria.. Le ricordo ancora indelebili “Georgia... oh... Georgia...”, rimaste per sempre nella mia mente. Ricordo anche che il Conte aveva al suo servizio un maggiordomo che era un personaggio sul quale si potrebbe scrivere un libro, poiché se Guido Berlucchi aveva bisogno di un bicchiere d’acqua non è che lo portasse come potremmo fare noi, comuni mortali. Lui no! Il maggiordomo interrompeva qualsiasi attività stesse facendo, si cambiava, indossando la livrea da cameriere, giacca e guanti bianchi, dopo di che prendeva un vassoio e vi appoggiava sopra il bicchiere e la brocca dell’acqua e lo serviva rimanendo rispettosamente in attesa che il Conte avesse finito di bere. Era bellissimo quel suo modo di fare e, anche se ci voleva un quarto d’ora per avere il bicchiere d’acqua, rimasi estasiato da quella forma seria e compita, che il maggiordomo aveva, di accudire e servire Berlucchi. L’eleganza dell’ambiente, la raffinatezza del Conte, l’aria che respiravo in quella stanza, fecero da contorno alla degustazione e alle parole sul vino che io e il Conte ci scambiammo... Da lì parti tutto e il resto è attualità... ...Credo, comunque, in questo poco tempo che siamo stati insieme, di averti dato un quadro generale di come sia nata quest’azienda e di come io, usando la testa e avendo una visione più ampia delle potenzialità delle bollicine italiane, sia divenuto un piccolo imprenditore del vino… Pensa che, nel 2011, fra tre, brevi anni, ricorreranno i cinquant’anni dall’uscita della mia prima bottiglia di spumante! Mezzo secolo di storia durante il quale sono successe molte cose e l’Italia del vino è molto cambiata. In tutti questi anni non ho avuto mai rimpianti per ciò che ho fatto o per ciò che avrei voluto fare ed ho ancora dei sogni nel cassetto, fra i quali ce n’è uno in particolare che ho cercato di realizzare ed è quello di riuscire, prima o poi, a produrre uno spumante italiano migliore dello Champagne. Siamo arrivati alla fine del nostro incontro. Con piacere noto che i discorsi hanno seguito una cronistoria precisa. Ogni cosa è andata ad incastrarsi al suo posto, come una tessera di puzzle, senza che io abbia dovuto fare niente affinché ciò avvenisse. La lunga chiacchierata è terminata e il signor Franco si alza, mi saluta e, con il passo veloce, lo stesso con cui è arrivato, esce dalla stanza rincorrendo forse altre mille cose che, nonostante i suoi settantasette anni, lo attendono, poiché c’è ancora tanto da fare e


Zona di produzione: Lo spumante è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay e Pinot Nero provenienti dai vigneti scelti dall’azienda nelle zone vocate DOC della Franciacorta, del Trentino e dell’Oltrepò Pavese. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano per la maggior parte in zone collinari su terreni di vario impasto, da quelli di origine morenica a quelli argillosi mediamente profondi, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 600 metri s.l.m. con diverse esposizioni che toccano tutti i punti cardinali. Uve impiegate: Pinot Nero 55%, Chardonnay 45% Sistema di allevamento: Cordone speronato Densità di impianto: dai 3.500 ai 10.000 ceppi per Ha, a seconda della collocazione e dell’età dei vigneti Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima decade di agosto, per una piccola quantità di Pinot Nero si procede ad una criomacerazione pellicolare di poche ore a bassa temperatura, mentre il resto delle uve Pinot Nero e Chardonnay è destinato alla pressatura soffice e il mosto fiore ottenuto, suddiviso in 4 frazioni estrattive, di cui solo la prima è impiegata per Cellarius, dopo 12-20 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 15°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni alla temperatura di 16°C ed è svolta in tini di acciaio inox, dove il vino rimane fino al mese di marzo dell’anno successivo alla vendemmia. Nel periodo invernale vengono effettuati frequenti bâtonnages, utili per arricchire la struttura del vino. Alla primavera successiva si procede quindi all’assemblaggio delle partite e alla composizione della cuvée, nella quale entra una quota del vin de réserve (il 10% della riserva delle annate precedenti); segue l’imbottigliamento e la conseguente aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane a maturare in cantina sui lieviti per almeno altri 30 mesi, al termine dei quali si procede al remuage, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Lo spumante poi affina per altri 2-3 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 150.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Lo spumante veste il bicchiere di un bel color rosa confetto e il perlage è sottile e di grande persistenza; all’esame olfattivo risulta intrigante, ponendosi in evidenza e in armonia su un fondo minerale che esalta le note dolci di pasticceria, di cipria e di crosta di pane e le sensazioni fruttate di mela, marasca, albicocca e pompelmo rosa. In bocca colpiscono la sua bella armonia gustativa, il suo corpo morbido e fresco e un finale che ricorda la melagrana, la ciliegia e la rosa. Una grande sapidità sorregge la degustazione e rende lo spumante lungo e persistente. Prima annata: 2001 La migliore annata: 2004 Note: Il vino (dal sostantivo latino Cellarius = cantiniere) raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e si evolve positivamente fino a 6 anni. L’azienda: Fondata nel 1961, l’azienda possiede 80 Ha vitati in Franciacorta. Il team tecnico è composto dall’agronomo Diego Cortinovis e dagli enologi Arturo Ziliani, Vicepresidente della società, e Ferdinando Dell’Aquila.

NOTES

Cellarius VSQ Metodo Classico Brut Rosé

73


MADDALENA BERSI SERLINI

Non sono in grado di farti un elenco dettagliato o una minuziosa cronistoria di quali o quante siano le cose importanti che potrebbe osservare chi abbia voglia e tempo di scoprire questa Franciacorta. Come non saprei dirti, con serena oggettività, quale siano le sfumature e i sottili legami che connettono le bollicine con questo territorio. Se ci provassi, otterrei sicuramente il risultato di parlarti prima di tutto di ciò che vorrei per quest’azienda e per questo terroir, convincendomi che i miei desideri sono più o meno uguali, se non addirittura gli stessi, degli altri vignaioli della Franciacorta e accorgendomi, alla fine della nostra chiacchierata, di averti parlato soltanto bene di quest’azienda e di tutto ciò che sta facendo il Consorzio di Tutela dei vini della Franciacorta. Potrei raccontarti, con dovizia di particolari, di quali e quanti siano i mutamenti che l’imprenditoria vitivinicola della zona è stata in grado di avviare negli ultimi dieci anni, come potrei parlarti per ore di quanti e quali sono i cambiamenti cui puntiamo nell’immediato futuro, ognuno dei quali, ti posso assicurare, contribuirà a consolidare ciò che di buono è stato realizzato fin qui. Qualunque cosa io dicessi sarebbe in ogni caso un monologo e l’opinione di chi ha un punto di vista passionale,

amorevole e forse anche troppo coinvolgente, ma scarsamente obiettivo della Franciacorta. Sarebbe bello scoprire, invece, come tu hai visto questa terra e magari sentirti raccontare le percezioni, gli stati d’animo e gli umori che hai saputo interpretare nel degustare le nostre bollicine o quali e quante siano le passioni che i vignaioli franciacortini sono stati capaci di trasferirti. Tu sì che potresti farmi un elenco delle cose giuste e di quelle negative del nostro sistema vitivinicolo, descrivendomi quali siano le discrepanze che esistono fra il dire e il fare che, di solito, caratterizzano qualsiasi territorio in Italia. Ti posso assicurare che il mio interessamento non è una banale o semplice curiosità, ma il desiderio di conoscere un altro punto di vista, diverso dalla mia visione abituale. Quindi, parla senza timore, dal momento che ciò che mi dirai non mi spaventa: sono convinta che accresce più una sana e costruttiva critica che una bellissima bugia e che il comprendere come gli altri ci vedono aiuta a migliorarsi e non è mai troppo, perché è risaputo che questo non è più il tempo delle aziende vitivinicole, ma quello delle donne e degli uomini che le dirigono. È il tempo degli imprenditori capaci di guardare al futuro e capire velocemente dove

collocare il loro vino e la loro azienda nel mercato globale, definendo contemporaneamente con quali strumenti costruire una sinergia con il territorio nel quale operano, unico elemento in grado di dare un valore aggiunto alla loro produzione. Lo so che usare il termine “velocità” in viticoltura può sembrare quasi un paradosso, ma sono convinta che sia l’unico strumento che abbiamo noi piccole aziende per contrastare una sempre maggiore concorrenza; e non parlo di quella dell’azienda confinante, piuttosto di quei competitors con potenzialità enormi e che sono rappresentati da “stati” come il Cile, l’Australia e il Sudafrica che sono riusciti a creare un sistema-prodotto intorno al loro vino molto più performante di quanto abbia fatto l’Italia. Ecco perché sostengo che bisogna essere veloci nell’affrontare le scelte giuste, così da orientare gli sforzi economici e intellettivi sia sullo sviluppo di nuove strategie commerciali, sia su una produzione d’eccellenza per la quale è richiesta tanta pazienza. Come vedi, parlo di questo mondo del vino con una visione complessa, articolata e poliedrica che non immaginavo di acquisire in così pochi anni. Mi sembra ancora ieri che mio padre Arturo chiese a me e a mia sorella Chiara cosa

BERSI SERLINI


75


BERSI SERLINI

NOTES

ne pensavamo del futuro di quest’azienda di famiglia. Ricordo ancora il grande rispetto nei nostri confronti quando ci domandò come pensavamo di trasformarla e di condurla se avessimo deciso di affiancarlo in questa sua avventura. Entrambe avevamo preso strade diverse, laureandosi una in Scienze internazionali e l’altra in Architettura a Londra, diventando, subito dopo, responsabile di una delle più importanti gallerie di arte contemporanea della città inglese. Esperienze diverse e modi diversi di affrontare i problemi che hanno trovato nel vino, e in quest’azienda, non un’alternativa alle nostre aspettative, ma l’appagamento delle stesse. Sono passati appena otto anni e con Chiara, che ci ha raggiunto da due, abbiamo stravolto questa azienda, cambiando molte delle strategie commerciali che mi spinsero a porre la Bersi Serlini sul mercato nazionale soltanto come azienda di bollicine della Franciacorta, togliendo dal listino quei vini fermi, bianchi e rossi, che ancora oggi rappresentano più del 60% dell’intera produzione enologica del territorio. In contemporanea abbiamo dato avvio alla ristrutturazione della cantina costruita da mio nonno Piero e in questa opera devo dire che Chiara, grazie alla scelta di affidare la nostra architettura a Flavio Albanese, ha dato prova della sua grande creatività, consegnando al territorio uno dei migliori esempi di recupero architettonico, in chiave moderna, della più vecchia cantina di tutta la Franciacorta: spazi aperti e un concetto nuovo ed estremamente interessante per un contenitore espositivo del vino, all’interno del quale si prevedono diverse tipologie di manifestazioni multimediali e che già nel primo anno di apertura al pubblico ha ospitato più di 5.000 visitatori. Sono stati anni di impegno e totale dedizione in questo lavoro. Anni durante i quali, devo dire la verità, ho rimpianto un po’ il fatto di non aver compiuto degli studi specifici come, per esempio, quelli riferiti all’agronomia, che mi avrebbero aiutato ad accelerare il mio ingresso nel settore vitivinicolo. Anni in cui, spesso, mi sono ritrovata a lavorare dietro le quinte, in silenzio, cosa, questa, che non mi ha limitato e che, comunque, non è passata inosservata, ma ha contribuito a far sì che ricevessi da alcuni produttori locali attestati di stima e di grande considerazione, trovandomi anche spesso in difficoltà per il fatto di essere chiamata a dare suggerimenti e consigli a persone con molti più anni dei miei. Con il tempo, questo mi ha portato a sentirmi ricca interiormente. Prima mettevo sempre qualcuno prima di me a cui dare considerazione, ora, invece, sento che le cose stanno cambiando e ho deciso di intraprendere una nuova strada che mi mette al centro e mi pone in armonia con ciò che mi circonda. Sono indubbiamente delle sensazioni molto diverse da quelle che avevo quando entrai in quest’azienda. Che siano state queste bollicine a cambiarmi? Non lo so, ma di certo a me piace stapparle sempre e in ogni caso con un gran bel botto, a prescindere se abbia avuto una giornata splendida o, al contrario, oscura, poiché è terapeutico stappare una bottiglia di Franciacorta: ti aiuta a sorridere alla vita e godere dei mille colori che essa sa offrirti.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo moderatamente profondo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 200 metri s.l.m. con un’esposizione a nord / nord-est. Uve impiegate: Chardonnay 100% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.300 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura di 16°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, alla temperatura di 18°C, ed è svolta in tank di acciaio dove il vino rimane fino alla primavera successiva alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, al successivo imbottigliamento e alla conseguente aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 70 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 35 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e al contemporaneo rabbocco con vino della stessa annata che è stato conservato e che viene utilizzato come liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 6 mesi in cantina prima di essere commercializzato.

Franciacorta DOCG Extra Brut Millesimato

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Cereto nel comune di Provaglio d’Iseo, le cui viti hanno un’età compresa tra i 35 e i 38 anni.

Quantità prodotta: 8.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Franciacorta, che veste il bicchiere di un colore paglierino con riflessi dorati che arricchiscono un perlage fine e persistente, si presenta al naso con toni dolci, freschi, piacevolissimi. La sua ricca struttura olfattiva spazia dalle note biscottate a quelle floreali di acacia e gelsomino e si inoltra in quelle intriganti di frutta a pasta gialla, come mango, melone, pesca e ananas, fino a giungere a percezioni sapide e speziate di coriandolo e crema alla cannella. In bocca è ampio, piacevole, ricco, sorretto da una sapidità che lo rende equilibrato, aiutandoci a riportare alla mente le note dolci e speziate percepite al naso. Prima annata: 1971 Le migliori annate: 1981, 1987, 1989, 1992, 1999, 2000, 2002, 2003 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Bersi Serlini dal 1896, l’azienda agricola si estende su una superficie di 35 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Piero Villa e gli enologi Corrado Cugnasco e Nicolas Follet.

77


IGINO, PIETRO, ANNAMARIA, SANTA ROSA, GIAN FRANCO DAL CERO

È venuto tutto da sé, così come doveva accadere e a noi oggi sembra normale essere qui e continuare la tradizione di famiglia che vede i Dal Cero, da tre generazioni, presenti su questo territorio di Lugana di Sirmione a lavorare la terra. Tutto è consueto, forse secondo una logica ben stabilita che ha coinvolto i ruoli, le competenze che abbiamo in azienda e che ha fatto crescere e consolidare la stima, il rispetto e l’armonia che ci lega e che nessuno di noi tre fratelli ha messo mai in discussione, dato che sono cresciute dentro naturalmente, man mano che passavano gli anni e i pantaloni da corti diventavano lunghi. Stiamo insieme da sempre, dividendo ogni giorno il gioco comune che ci appassiona più di tutti, che era ed è quello di fare i contadini e imitare Pietro, nostro padre, intorno a queste uve. Un gioco che ognuno ha iniziato a praticare a modo suo, fin dall’infanzia, magari montando sul trattore ancor prima di essere capace a camminare, compilando fatture ancor prima di iniziare ad andare alle medie inferiori o raccogliendo l’uva ancor prima di arrivare ai grappoli più alti della vite. Per noi stare uniti è naturale, quindi ci scuserai se non comprendiamo quale sia lo scopo di alcune tue domande, soprattutto quelle che concernono la condivisione dei risultati e delle sorti della nostra azienda: Ca’ dei Frati. Per noi questa non è un azienda, è molto di più, poiché è stata, fino a poco tempo fa, la casa di tutti noi ed è ancora quella dei nostri genitori; è stata il nostro parco giochi, l’unità di misura con la quale ci siamo confrontati per crescere e diventare chi

enotecnico, chi agronomo e chi ragioniera. È così; tutto è venuto da sé. Forse ti apparirà sciocco, ma per noi tutto questo è spontaneo, privo di quei perché che tu gli attribuisci. Per noi è logico essere riusciti a canalizzare le nostre forze su un unico obiettivo e perseguirlo fino ad accorgerci che eravamo andati oltre le più rosee aspettative, arrivando a centuplicare non solo quell’ettaro e mezzo di vigna che, nel 1939, nostro padre aveva ereditato, ma anche quei cinque ettolitri di vino che lui imbottigliò, per la prima volta, nel 1969, quando fu assegnata la DOC al vitigno Lugana. Si tratta di risultati importanti, di cui andiamo orgogliosissimi, ma, sembra paradossale, non sono stati determinati attraverso una strategia o un piano aziendale, a medio o lungo termine, ma sono arrivati dalla semplice applicazione giornaliera dell’unica regola sulla quale nostro padre non transigeva, quella del lavoro, del lavoro e del lavoro: l’unico strumento attraverso il quale è stato possibile costruire tutto ciò che vedi. Seguendo questa regola abbiamo lavorato veramente tanto, comprendendo solo dopo molti anni cosa avevamo fatto e quanto fosse diventata importante questa azienda vitivinicola per il territorio. Un’azienda per la quale nessuna blasonata agenzia di marketing, milanese, londinese o newyorkese, sarebbe mai stata in grado di comporre una strategia tanto azzeccata quanto lo è stata quella che, inconsciamente, abbiamo adottato noi. Nessuna di esse avrebbe avuto la costanza o il coraggio di puntare, come abbiamo fatto noi, su un mix di elementi tanto semplici e naturali che,

posizionati nella giusta combinazione tra loro, si sono dimostrati nel tempo vincenti. La nostra forza, quindi, si è basata sulla cultura del lavoro che si è decuplicata in modo esponenziale man mano che ottenevamo risultati e piccole gratificazioni da quel mercato internazionale che ruota intorno al nostro Lago di Garda. Per quello che siamo diventati, come uomini e come azienda, dobbiamo avere solo un grande senso di riconoscenza nei confronti dei nostri genitori e in particolare di nostro padre, il quale ha sempre creduto nel nostro vitigno e in questo territorio, così come aveva già fatto suo padre, nostro nonno Felice, impiantando quell’ettaro e mezzo di vigneto. Quindi tutto è partito da Pietro e dalla sua grande passione per il vigneto, nel quale ha investito tutta la sua vita, sostenendo, ancor prima che molti tecnici moderni se ne rendessero conto, che il vino è il risultato delle conoscenze e dell’amore che viene dedicato alla terra e alle vigne. Princìpi ai quali ci siamo attenuti e che ci hanno spinto ad ampliare poco alla volta la superficie vitata e a fare graduali ma costanti investimenti, non dimenticandoci mai quel sano motto che vige nelle nostre campagne: fare i passi secondo la lunghezza della propria gamba e affrontare le spese solo quando si ha la certezza di poter assolvere gli impegni sottoscritti o la parola data. Niente sarebbe esistito, in ogni caso, senza la passione che Pietro ci ha trasferito, come non avremmo potuto ottenere i risultati che abbiamo ottenuto senza la volontà di migliorarci continuamente e la determinazione di non arrenderci, pensando ormai di essere arrivati. Una forza caratteriale

CA’ DEI FRATI


79


CA’ DEI FRATI

che contraddistingue un po’ tutta la nostra famiglia e che è frutto, forse, di quella mentalità contadina in cui siamo cresciuti, che ha, però, saputo evolversi, modernizzarsi, accogliendo le proposte e gli input che arrivavano dall’esterno. Input che, in alcuni casi, ci sembravano naturali e integrati perfettamente nel nostro modo di concepire il lavoro, come, per esempio, la necessità di offrire, oggi, una maggiore qualità nei vini o di avere più attenzione alla tutela dell’ambiente e alla protezione del territorio. Altri stimoli invece li affrontavamo come una semplice e naturale conquista di chi guarda avanti senza timore: da quei miglioramenti dei sesti d’impianto dei vigneti che oggi devono essere fatti secondo le più moderne indicazioni dell’agricoltura, all’arrivo delle ultime tecnologie in cantina, fino a giungere all’informatizzazione dell’ufficio. Stimoli che abbiamo recepito quando eravamo mentalmente pronti e non quando gli altri ci assicuravano che avremmo dovuto averne bisogno; un distinguo che ci ha consentito di apprezzare molto di più tutto ciò che stavamo facendo. Un altro ulteriore merito, in ogni modo, va riconosciuto anche a questo nostro vitigno: il Lugana. Sicuramente è la nostra principale ricchezza, quell’elemento che contribuisce più delle nostre stesse professionalità a creare un distinguo netto con altri vitigni italiani a bacca bianca. Ci sono voluti anni per arrivare a certi risultati e tre generazioni che si sono tramandate l’esperienza acquisita nella coltura di queste uve e nella loro vinificazione, poiché siamo stati sempre tutti convinti che il Lugana potesse diventare il nostro migliore strumento di comunicazione. E così è stato, anche perché per noi fare vino ha sempre significato presentare questo territorio e far conoscere le nostre personalità, la nostra famiglia e il nostro modo di rispettare questo vitigno. Ca’ dei Frati, quindi, come ti dicevamo prima, è molto di più di un’azienda: è la nostra vita, la nostra idea di famiglia; riempie le nostre giornate e ci fa pensare che il resto poi viene da sé, in modo semplice e naturale.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona leggermente collinare su terreni calcareo-argillosi, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 70 e i 150 metri s.l.m., con un’esposizione a nord / sud. Uve impiegate: Trebbiano di Lugana 100% Sistema di allevamento: Guyot semplice e doppio Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, dopo aver fatto effettuare una surmaturazione alle uve, si procede alla pressatura soffice delle stesse con conseguente macerazione pellicolare in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 6-8°C. Dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 14°C, lo stesso è inserito in botti di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura da 225 lt.; qui, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge a temperatura ambiente per circa 25 giorni e il vino rimane nelle botti per i successivi 12 mesi, durante i quali di solito svolge la fermentazione malolattica e vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 4 mesi prima della commercializzazione.

Lugana DOC Brolettino

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Trebbiano di Lugana provenienti da due vigneti dell’azienda, Brolettino, nel comune di Sirmione e Ronchedone, nel comune di Desenzano del Garda, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 40 anni.

Quantità prodotta: 150.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati; all’esame olfattivo sprigiona profumi complessi, mielosi, dolci, floreali di acacia che si aprono a note di frutti maturi quali ananas, banana, mango, pesca e susina a pasta gialla, mela e agrumi; a loro volta, in un crescendo, essi lasciano spazio ad un fondo minerale che sorregge tutta la degustazione. In bocca conferma la piacevolezza olfattiva con un’entratura elegante, tonda ed equilibrata che armonizza la vena alcolica e la sapidità rendendo il vino fresco, lungo e persistente. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1990, 1997, 1999, 2001, 2004, 2007 Note: Il vino, che prende il nome da una vecchia vigna dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Dal Cero dal 1939, l’azienda agricola si estende su una superficie di 110 Ha, tutti vitati. La funzione di agronomo è svolta da Franco Dal Cero, quella di enologo dal fratello Igino.

NOTES

81




MAURIZIO ZANELLA

CA’ DEL BOSCO


85

Potrei parlarvi di quest’azienda per ore, menzionando frasi di circostanza o, magari, prendendo spunto dalle decine di pagine che sono state già scritte da altri autorevoli rappresentanti della carta stampata, racconti che, ripetuti da me, potrebbero risultarvi retorici e stucchevoli. Potrei invece, lasciandomi trasportare dall’emozione, raccontarvi la soggezione che ho provato nell’attraversare l’imponente cancello d’ingresso della tenuta - realizzato da Arnaldo Pomodoro - o la meraviglia che mi ha suscitato il vedere l’opera artistica più importante dell’azienda, che è rappresentata dai suoi vigneti, i quali, oltre ad essere l’immagine rinascimentale di uno di quei paesaggi dipinti dal Bellini a me tanto cari, hanno una cornice perfetta che, dal cancello, si sposta verso le altre decine di sculture e di opere artistiche sparse un po’ ovunque. Non nascondo che davanti a vigneti così ben tenuti riesco ancora ad emozionarmi, poiché in essi percepisco l’ingegno dell’uomo ed è la stessa emozione che ho provato nel pormi al cospetto di Maurizio Zanella, il quale mi ha dato immediatamente la sensazione di essere una persona schietta, senza troppi fronzoli, diretta e vera. Mi trovavo al cospetto dell’anima di questa Franciacorta, una persona di libera intelligenza che ha contribuito a fare la storia del vino italiano quando non c’erano ancora le ricette prestampate degli enologi e nessuno aveva le idee chiare o era in grado di indicare come migliorare la produzione enologica del nostro paese o quali fossero le priorità su cui intervenire per caratterizzare e tipicizzare la filiera produttiva vitivinicola. Osservo il suo sguardo pungente, preciso e nervoso che si illumina appena comincia a parlare. È come se avesse vivo, dentro di sé, il fervore che caratterizza chi non è mai stato

un ragazzo e non sarà mai un vecchio. Lo ascolto... Da 40 anni sono qui. Avevo appena 15 anni ed ero uno studente sfortunato che frequentava a Milano scuole “sfigate” in un periodo anch’esso disgraziato e molto particolare che mi influenzò molto. Alla fine di quegli anni Sessanta per me era molto più divertente fare il rivoluzionario che andare a scuola. Se ti ricordi - e dovresti perché tu hai qualche anno più di me - quelli erano gli anni del movimento studentesco e in giro si respiravano nuove idee, ma era tutta una scusa, anche se in quel momento pensavo che tutto fosse vero. Dopo aver avuto dei problemi piuttosto “pesanti” con la questura di Milano, mio padre, stufo della situazione, mi spedì in “esilio” in questa azienda agricola che mia madre aveva comprato qualche anno prima con l’idea di farsi una piccola fattoria; un’azienda dove non c’erano né acqua, né luce, ma un bel frutteto, i maiali, le galline e mezzo ettaro di vigneto. Ti immagini io, in esilio a studiare? All’inizio mi sembrò un domicilio coatto, non un semplice castigo. Per fortuna mi innamorai della campagna e della viticoltura e devo dare atto che di questo ha un grande merito mio padre, il quale, non solo si accorse subito della mia passione, ma non perse l’occasione di stimolarla, facendo di tutto perché avessi i mezzi economici per svilupparla, arrivando fino al punto di mandarmi in banca, a 16 anni, minorenne, a stipulare i mutui con mia madre, che avvalorava, di nascosto, con delle fideiussioni, quei pacchi di cambiali alti così, che io andavo firmando. La prima cantina l’ho costruita che avevo poco più di 16 anni, dopo essere stato illuminato da un viaggio in Francia organizzato dall’Assessorato all’Agricoltura della Regione Lombardia. Ricordo che arrivò a casa un invito per un viaggio-studio

in Francia e come puoi capire, prima di andare a scuola, avrei fatto qualsiasi cosa, anche iscrivermi a quel viaggio-studio di cui non me ne fregava niente, ma che proponeva due giorni di soggiorno a Parigi. Era il 1971. Partimmo ancor prima dell’alba da Piazza Castello a Milano in autobus. Era pieno di produttori lombardi che avevano un’età media vicina ai sessant’anni. Tornammo dopo una settimana senza che nessuno avesse ben capito dove fossimo realmente andati e forse neanche io, ma, da neofita quale ero, ebbi la netta sensazione che ciò che avevo visto era la strada giusta da seguire e non quella di quei vecchi vignaioli che mi avevano accompagnato nel viaggio. Tornato a casa si accese la mia voglia di fare - che ancora non si è spenta - e progettai un vigneto di 10.000 ceppi per ettaro. Fu una cosa rivoluzionaria per la zona. Quel progetto, che riuscii a realizzare solo dopo tre anni, si scontrò con un’infinità di problemi burocratici di ogni genere, a partire dal fatto che non poteva essere ammesso come DOC poiché non rientrava nei parametri in uso nella tradizione della zona. La tradizione? Ma che tradizione - mi domandavo - quella che conduce per caso a fare dei vini imbevibili? Era questa la tradizione? Tutto è partito da li... Inconsapevolmente sono divenuto un artefice, insieme con altri 4 o 5 “bischeri”, di quel rinascimento enologico italiano di cui tanto si parla (all’inizio “saggiamente dopati” da quel Maestro di Luigi Veronelli); andavamo in giro per il mondo, negli anni ’70, cercando di dare dignità al sistema vitivinicolo di questo paese. Rammento che ero molto svantaggiato anche in questo compito, perché se qualche collega parlava di Toscana e Piemonte tutto andava bene, ma quando sentivano parlare di Lombardia la gente trasaliva incredula; mi


CA’ DEL BOSCO sentivo strano come se fossi stato un eschimese che vendeva ananas...! Ciò che mi ha dato la forza di insistere è stata la convinzione di considerare il vino un prodotto “nobile”, poiché nella sua realizzazione confluiscono un’infinità di fattori che non sono prevedibili e che interagiscono con la vena artistica della natura. Disconoscendo questo elementare parametro di raffronto ci siamo scoperti presuntuosi nell’interpretare l’opportunità che annualmente ci viene offerta e abbiamo improntato una sfida alla natura, che dovevamo vincere a tutti i costi, decidendo di combatterla costruendo cantine pazzesche, utilizzando tecnologie spaziali, inventandoci “cose da andare fuori di testa”, scoprendo dopo che erano tutte cazzate, perché - anche se ciò che dico ti sembrerà assai banale - il vino si fa in vigna. È la storia della padella e della cucina, la conosci? Devi sapere che dovrai avere sempre un grande chef se hai un pesce che puzza, ma se invece hai un bel pesce fresco lo puoi fare buono anche sulla brace in spiaggia, oppure mangiarlo semplicemente crudo, quindi... La realtà è che anche questa nostra cantina serve solo come stoccaggio, poiché sono vent’anni che cerchiamo di fare un’agricoltura intelligente... In vigna e in cantina niente è lasciato al caso, tutto è stato studiato per assecondare la natura ed è per questo che... non sopporto quanti si “improvvisano” in questo mondo del vino. Non ha importanza chi sia, da quello che ha fatto il primo corso di sommelier, al ristoratore che, per caso, ha preso una stella Michelin, al giornalista che, dopo aver letto tre libri e aver fatto un corso in Borgogna, si crede uno scrittore di vino. Li osservo, arrivano e danno dei giudizi, spesso affrettati, sempre inopportuni e mai richiesti, ma il peggio non è che si esprimano sul vino o su di me - che peraltro non me ne importerebbe un fico secco - ma sulla filosofia dell’azienda nella quale ho messo in gioco la mia stessa esistenza, distruggendola, ricostruendola, componendola e valorizzandola senza chiedere niente a nessuno. Per questo e per le mille altre cose che ho fatto, non voglio una statua in piazza a Milano: vorrei solo del semplice rispetto. Chiedo troppo? Sai cosa mi rattrista in questo mondo del vino? L’approssimazione. Ormai è come una malattia infettiva che si è diffusa e spinge tutti a fare di tutto. Il problema non sono né io, né te, né loro, ma è che siamo cresciuti troppo in fretta e abbiamo bruciato le tappe; ora, dopo 35 anni e solo dopo 35 vendemmie, ci siamo accorti che il mondo del vino ha generato dei mostri, dei “coglioni” allo stato puro e un’infinità di incompetenti. Mi scuserai, ma come avrai capito non mi piacciono le mezze misure, come non mi sono mai piaciuti gli schemi precostituiti, né chi crede di essere arrivato, né il furbetto del quartiere. Questo mio modo di fare mi ha portato a scelte impopolari e, probabilmente, a rendermi antipatico a molte persone di questo settore, soprattutto in zona, ma francamente non me ne importa niente: tanto so di aver fatto il mio e il loro bene. Forse mi apprezzeranno quando scopriranno che, se non si fossero fatte certe scelte, non si fossero rotti certi schemi e non si fosse mandato a quel paese qualche politico insieme a quelle lobbies che comandano sempre e dovunque i territori, eravamo ancora come l’Oltrepò e invece... Mi appassiono di questa sua partecipazione. Lo ascolto e scuoto la testa con un cenno di assenso e rimango lì seduto ad ascoltare il rumore di quel


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay, Pinot Bianco e Pinot Nero provenienti da 10 vigneti, posti nei comuni di Erbusco, Cortefranca e Passirano, le cui viti hanno un’età media di 37 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati, a matrice sabbioso-limosa e moderatamente profondi con scheletro abbondante, ciottoloso, sono situati ad un’altitudine compresa fra i 150 e i 500 metri s.l.m. con un’esposizione principalmente a sud-est e nord-est. Uve impiegate: Chardonnay 55%, Pinot Bianco 25%, Pinot Nero 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e a guyot Densità di impianto: dai 6.000 ai 10.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla terza decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 16°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni ad una temperatura di 18°C, ed è svolta in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura. In questi contenitori il vino rimane per 7 mesi durante i quali vengono effettuati frequenti bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili così da arricchire la struttura del vino. Nella primavera successiva si procede quindi all’assemblaggio delle partite e alla composizione della cuvée, alla quale segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina per la maturazione sui lieviti almeno 78 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie per 7 giorni, a cui segue il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e la contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 3-6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: circa 40.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Franciacorta, che veste il bicchiere di un colore paglierino luminoso dai riflessi dorati, arricchendo un perlage fitto, importante, fine e persistente, si presenta al naso con una trama olfattiva intensa e propone, in aggiunta ad una buona freschezza, note di pasticceria che ricordano la crostata e il cono gelato, il tutto accompagnato da leggere percezioni fumé che si spalancano a note floreali di sambuco, acacia e lavanda seguite da spiccati profumi fruttati di ananas, agrumi, pesca, albicocca e nuances erbacee di felce e mandorla verde. In bocca è fresco, morbido, di grande bevibilità, sorretto da una vena acida che non disturba, pur facendosi sentire, con un finale in linea con le note olfattive vegetali e di mandorla. Prima annata: 1979 Le migliori annate: 1987, 1989, 1996 Note: Il vino, che prende il nome da Annamaria Clementi, fondatrice dell’azienda e madre di Maurizio Zanella, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 14 anni. L’azienda: L’azienda, fondata da Maurizio Zanella nel 1968, è di proprietà della Ca’ del Bosco S.p.A. dal 1994, e si estende su una superficie di 154 Ha vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Luigi Reghenzi e l’enologo

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Cuvée Annamaria Clementi

87


LUCA BELLANI, DANIELA BECCARIA, MATTEO BELLANI

CA’ DI FRARA


89

Tu non sai quanto io sia felice di vedere entrambi i miei figli seduti qui, davanti a te, e sentirli raccontare del loro rapporto fraterno, dei nostri vini, di come li produciamo e di quanta passione mettiamo in questa attività, ma la cosa che mi inorgoglisce ancor di più è sentirli descrivere quale sia il significato e l’importanza che, per loro, assume questa azienda di famiglia. Se non fossi la loro madre e li sentissi parlare per la prima volta, penserei che sono stati svezzati a pane, uva e vino! E d’altra parte avrei ragione a pensarla così, perché è proprio in questo modo che li ho cresciuti ed è qui, in mezzo a queste vigne e a queste botti, che sono diventati il mio orgoglio. Sono contenta di loro e sono oltremodo felice che questa giornata piovosa, uggiosa e cupa, che non lasciava presagire niente di buono, si sia trasformata in una giornata migliore. Appena alzata, questa mattina avevo l’impressione che fosse una giornata storta, iniziata male, una di quelle in cui non solo sei scesa dal letto con il piede sinistro, cosa che, di per sé, come si sa, non è di buon auspicio, ma che si trascina avanti anche in modo stanco, quasi strascicato; uno di quei momenti in cui devi far conto più sull’impegno e il dovere che non sull’entusiasmo che a me, difficilmente, viene meno. Oggi, pensavo fosse uno di quei giorni in cui - come dice la canzone - “ti viene la malinconia e fino a sera non ti lascia più”; invece, guarda come si è trasformata inaspettatamente! Questa pioggia disturba un po’ tutti, non solo le persone metereopatiche come me, ma anche questo Oltrepò

pavese che sembra risentire molto di queste nuvole basse che ne incupiscono i colori, con i quali questa primavera sembrava volesse vestirlo; come avrai potuto notare nelle poche giornate di sole appena passate, qui i colori sono belli, splendidi e rendono questa terra unica. Purtroppo non piove soltanto, ma fa anche freddo e non vorrei che i vini che stai degustando avessero risentito di questo improvviso calo della temperatura e che ciò pregiudicasse il tuo giudizio, perché mi piacerebbe molto che tu potessi raccontarli positivamente e, con essi, magari, scrivere anche un po’ della nostra storia e di questa nostra azienda. Una storia iniziata in compagnia di Tullio, mio marito, con il quale spesso ragionavo, camminando in mezzo alle nostre vigne, mentre ero in stato interessante di Luca, di come sarebbe stato nostro figlio, di quale futuro avrebbe potuto avere e di quale sorte sarebbe toccata a questo nostro piccolo vigneto se il nascituro avesse avuto voglia di fare l’astronauta o il chirurgo... Credo che quei nostri discorsi non fossero molto diversi da quelli che fanno altre coppie in simili circostanze; argomentazioni che Tullio, in ogni modo, approfondiva molto, prendendo, come suo solito, tutto assai seriamente. Del resto era un idealista, una persona capace di grandi slanci passionali verso il prossimo e verso tutto ciò che richiedeva un sostegno materiale o morale, un supporto dal quale si potesse evincere l’importanza delle idee e dell’etica su cui si reggevano la sua vita e le sue idee politiche. Ormai sono passati quasi quarant’anni, ma

rammento ancora come entrambi eravamo convinti che, se i nostri figli non avessero avuto voglia di proseguire sulla nostra stessa strada e ne avessero intrapreso altre, distanti dalla vigna, dalla terra e da questa azienda, avremmo fatto una donazione di tutto questo, magari ad una fondazione, affinché dei giovani, potendo cimentarsi in questa attività, avessero avuto l’occasione, autofinanziandosi, di imparare un mestiere e quei princìpi che regolano il rapporto fra l’uomo e la natura e, soprattutto, i modi per tutelare e salvaguardare l’ambiente. Avevamo il desiderio di dare un futuro a questa terra e a questo pezzetto di Oltrepò che ci apparteneva e non solo per lasciare un segno del nostro passaggio, ma, soprattutto, per non venire meno a quelle idee che, da sempre, hanno regolamentato il nostro rapporto con questa attività; ideali che sono stati alla base di un più ampio e costruttivo colloquio e confronto fra le forze sociali, politiche e imprenditoriali che, insieme a noi, interagiscono su quest’area e determinano il suo divenire. Sono felice che i miei figli abbiano intrapreso la strada che io e Tullio abbiamo loro tracciato, ma, nonostante ciò, non è venuta meno la mia voglia di voler contribuire alla crescita culturale di questo territorio, che per me non ha mai significato rendermi partecipe della realizzazione di meccanismi che potessero in qualche modo trasformarlo, ma contribuire, invece, ad innescarne altri, capaci di attivare forze giovani che, una volta formate, sapessero costruire un futuro per questa viticoltura. Le aziende vitivinicole non hanno solo bisogno


CA’ DI FRARA

NOTES

di validi imprenditori, che sappiano interpretare e, magari, prevedere gli umori dei mercati, ma anche di validi collaboratori, capaci di stare nelle vigne, esprimendo nel migliore dei modi il ruolo e l’importanza strategica di quello specifico comparto produttivo che è stato loro affidato. Ecco perché mi sto adoperando affinché si costruisca una scuola per il comparto vitivinicolo nella quale si sviluppino corsi professionali aperti a tutti, anche agli extracomunitari, capaci di formare figure professionali adeguate e utili per assistere le aziende. Facendo così si avrebbero forze nuove e, con esse, nuove idee e nuova linfa vitale che aiuterebbero a far crescere questo Oltrepò. Sono la passione e la forza delle idee che fanno crescere e trasformano i sogni in realtà. Guardando e osservando ciò che mi circonda, mi accorgo che non è così, che non ci sono molte idee in giro e vedo che anche la nuova generazione di giovani vignaioli, che avrebbe dovuto portarle, è tutta concentrata nell’emulazione di qualcuno o di qualcosa, soprattutto di chi ha dato l’immagine di essere un vignaiolo arrivato. Non so se fanno bene o male: so solo che, come ripeto sempre ai miei figli fin quasi alla nausea, in questo mestiere non ci si può mai sentire arrivati e non si fa per voler assomigliare a qualcuno, né per motivi materiali, per arricchirsi o acquisire potere e prestigio, perché con il lavoro della terra, non si fanno i soldi. Questo è un mestiere che, affrontato con modestia e semplicità, è il più bello del mondo, perché ti pone in armonia con la natura e con gli altri uomini e con entrambi è possibile condividere un progetto che si sviluppa solo attraverso un rispetto reciproco: soltanto così è possibile fare questo lavoro e creare vini che uniscano personalità e carattere, vini unici, prodotti per amore, per passione e per gioia.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argillosi e marnosi, sono situati ad un’altitudine media di 180 metri s.l.m. con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Croatina 95%, Pinot Nero 5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspatura delle uve raccolte e i chicchi interi dell’uva sono introdotti in tini di acciaio troncoconici dove si avvia una pre-macerazione a freddo che si protrae per circa 60 ore alla temperatura di 5°C, al termine della quale, con il successivo innalzamento della temperatura e l’inserimento di lieviti selezionati, si avvia la fermentazione alcolica. Questa fase dura circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 18 e i 27°C; contemporaneamente, continua anche la macerazione sulle bucce e vengono effettuati frequenti délestages giornalieri durante i quali si provvede, via via, a togliere i vinaccioli. Dopo la svinatura, il vino viene assemblato e posto in barriques di rovere francese di Allier, per un 70% nuove a grana fine e media tostatura, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane 18 mesi. Al termine di questo periodo di maturazione si provvede all’assemblaggio delle partite e ad un successivo periodo di decantazione di 6 mesi in acciaio prima dell’imbottigliamento del vino e ad un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione.

Oltrepò Pavese DOC Riserva Il Frater

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Croatina e Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nei comuni di Casteggio, Santa Giuletta e Mornico Losana, le cui viti hanno un’età di 17 anni.

Quantità prodotta: 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Una Croatina atipica, intrigante, di grande personalità, che veste il bicchiere di un colore rosso rubino intenso, impenetrabile; si presenta all’esame olfattivo con profumi complessi, quasi sanguigni: in età giovane spuntano note fruttate di marasche e frutti di bosco in confettura, mentre in età più matura si esaltano le note di liquirizia, cioccolato fondente e spezie dolci e cardamomo che si mescolano a confettura di prugne e more e ad importanti percezioni di fiori appassiti. In bocca è opulento, strutturato, ma anche molto elegante, se degustato in età giusta, con una fibra tannica vellutata e ben evoluta accompagnata da una bella freschezza che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1946 Le migliori annate: 1964, 1968, 1971, 1975, 1990, 1997, 2000, 2003, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal latino Frater, a significare un vino fratello, che rallegra la vita, raggiunge la maturità non prima dei 7 anni dalla vendemmia e anche oltre, in certe annate, mentre il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 18 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Bellani dal 1905, l’azienda agricola si estende su una superficie di 44 Ha, tutti vitati. Collabora in azienda l’agronomo Gianluigi Bellani, mentre le funzioni di enologo sono svolte da Luca Bellani.

91


CRISTINA INGANNI

Se mi chiedessi di parlarti di vino, delle caratteristiche dei miei vigneti o di quali tecniche uso nella vinificazione delle uve che raccolgo, sono sicura che ti stupirei con grandi effetti per la loquacità con cui argomenterei le mie specifiche cognizioni. Sono sicura che arriverei a raccontarti, con dovizia di particolari, le fasi, gli aneddoti o le curiosità sorte nelle ultime vendemmie, tanto da farti pensare che io non possa essere una persona priva di studi specifici nel settore vitivinicolo. Dall’altro lato, invece, se ti devo raccontare come io sia arrivata a fare il mestiere di vignaiolo o quali vicissitudini abbia incontrato per diventare ciò che sono, come persona e come imprenditrice, sicuramente avrei molte più difficoltà, perché non mi è mai stato facile trovare le parole giuste. Raccontare la mia storia - sicuramente strana, forse anche un po’ triste, ma vera - tocca sempre il profondo del mio cuore. Non è facile, perché un conto è parlare di vino e un conto è aprirsi e narrare le mille difficoltà che ho dovuto affrontare, le silenziose lacrime che di nascosto ho versato davanti a ciò che mi ha riservato il fato. Del resto pensavo che oggi dovessimo parlare di vino e già avevo preparato la mia bella lezione su cosa è oggi

la Cantrina; invece, per parlarti di me c’è bisogno di più calma e occorre fare un passo indietro e ritornare al tempo in cui conobbi Dario, un noto ristoratore proprietario di due bellissimi locali del centro di Brescia - che aveva una grande passione per i vini francesi e in particolari per quelli della Borgogna - il quale, per rincorrere il suo sogno di produrre un grandissimo Pinot nero che potesse competere con i francesi, nel 1990 si comprò quest’azienda agricola. Non era uno sciocco. Lo sapeva anche lui che quell’obiettivo era un’utopia, ma il fatto che quella sua idea fosse perseguita con testardaggine e supportata da una grande e carismatica personalità e da un particolare modo di fare, la rendeva quasi credibile. Una persona che ho amato tantissimo, una delle più importanti della mia vita, non solo perché nel 1997 diventò mio marito, ma per la quantità di cose che ho imparato standogli accanto e per l’arguzia con la quale mi ha insegnato a stare al mondo. Un uomo eccezionale che nel 1998, a poco più di un anno dal nostro matrimonio, in seguito a un incidente avvenuto in vigna, morì lasciandomi vedova a trentadue anni, in compagnia di un’azienda agricola, di cui conoscevo poco o nulla, ma avendomi trasmesso

un’immensa passione per il vino e per la terra che si trasformò in una fonte d’energia con la quale provai a superare lo choc. Prima di sposarlo facevo la decoratrice e i miei studi artistici mi avevano portata ad occuparmi di fotografia, di decorazioni di interni e di tante altre cose che avevano poco a che fare con la ristorazione e il vino; attività che abbandonai volentieri per costruire una famiglia e provare, cambiando radicalmente vita, a vivere quella viticoltura che Dario amava, la quale, dopo, divenne la mia più grande sfida. Feci tesoro di quell’energia che lui mi aveva trasmesso e quando arrivò il momento di decidere cosa fare, non ebbi nessun dubbio: far diventare quel suo sogno anche il mio, continuando a produrre vino. È nel suo ricordo e per quello che avevamo condiviso per anni che oggi mi trovo qui, a percorrere la strada che lui aveva tracciato con concretezza, caparbietà e lungimiranza, ma anche grazie alla serenità e alla tranquillità che eravamo riusciti a costruire all’interno del nostro rapporto nel quale condividevamo il grande sogno di dare un futuro ai nostri figli. Non so quante donne si sarebbero avventurate dopo una simile disgrazia in un esercizio di equilibrismo così arduo,

CANTRINA


93


CANTRINA barcamenandosi fra il volere e il sapere, fra il sogno e la possibilità. Personalmente, come ho detto, non ci ho pensato molto e, dando retta al cuore, sono rimasta, decidendo, come al solito, di vivere le mie cose con molta convinzione, donando tutta me stessa. Io sono così: se ho degli stimoli forti a cui aggrapparmi e con i quali raggiungere dei traguardi, bene, altrimenti ne faccio anche a meno e vado avanti con quello che ho a disposizione. Tutto quello che mi sembra impossibile mi affascina e tutte le sfide che riesco a stringere con me stessa mi danno energia. Non so se questa cocciuta determinazione sia dovuta ad un’innata ribellione verso la vita che non sempre è stata benevola con me o se invece sia un modo di affrontare le difficoltà con le quali ho dovuto pagare il conto: soltanto io so cosa mi è costato mandare avanti questa azienda... È oramai passato un decennio e la mia vita è completamente cambiata, ma non ti nascondo che, ancora oggi, ogni tanto mi affido a quella scuola di vita che mi ha insegnato Dario attraverso la quale ho imparato l’umiltà, la nobiltà d’animo e la risolutezza. Oggi ho accanto un’altra persona, mio marito Diego Lavo con il quale ho avuto i nostri due figli, Lorenzo e Tommaso. Un uomo splendido, di un’intelligenza estrema e di grandi capacità professionali in questo settore; li ha messi a disposizione di questa nostra azienda, facendola crescere e innalzando i livelli qualitativi dei nostri vini con risultati che fino a pochi anni addietro sembravano irraggiungibili. Un lavoratore umile, determinato, che è stato al mio fianco nei momenti difficili e mi ha fatto ulteriormente crescere con grandi insegnamenti. Abbiamo iniziato insieme, unendo le forze e con il tempo è nato un intenso sentimento d’amore ed è venuta su questa famiglia, attraverso la quale è stato più facile dare corpo ad un’azienda che era partita così, con questo strano destino, senza un reddito su cui contare, senza una base commerciale alla quale appoggiarsi, senza nessuna idea di cosa si dovesse fare e di cosa si dovesse vivere. Un percorso tutto da costruire e quindi difficilissimo, che ha attraversato questi ultimi dieci anni lungo i quali abbiamo fatto vini che non dovevano avere solo grande qualità, ma anche una personalità propria e una filosofia produttiva, che tenessero conto dell’interazione tra vitigno-suolo e della creatività del produttore, cosa questa che ho sempre avuto in abbondanza con un approccio un po’ incosciente e artistico alle rigide regole che regolano il mondo del vino.


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Merlot provenienti da un vigneto dell’azienda di circa 1,5 Ha, posto in località Cantrina, nel comune di Bedizzole, le cui viti hanno un’età di 10 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni di medio impasto, sub-alcalini con prevalenza di argilla rossa, è situato ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud e a est. Uve impiegate: Merlot 100% Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 6.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene tra la seconda decade di settembre e la metà di ottobre, si procede ad un breve appassimento, in cassette di legno, del 60% delle uve raccolte, le quali, dopo circa 25 giorni, seguono l’iter delle altre che, dopo essere state selezionate, hanno subìto una soffice diraspapigiatura. Il pigiato ottenuto, posto in tank di acciaio e inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica che si protrae per circa 12-15 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 25°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuate alcune follature e frequenti délestages giornalieri. Dopo la svinatura, il vino viene assemblato e posto parte in barriques e parte in tonneaux di rovere francese di Allier, nuovi e a grana fine di media tostatura, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 24 mesi. Terminato questo periodo di maturazione, il vino subisce un periodo di decantazione in acciaio prima di essere messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino, che veste il bicchiere di un bel colore rosso rubino intenso, profondo, scuro, con riflessi violacei, si presenta all’esame olfattivo in modo complesso, opulento, con profumi di piccoli frutti selvatici neri, come ribes, more e fragoline, che si mischiano a note di peperoni gialli e spezie quali pepe, caffè, cacao, cannella e ad una sottile vena minerale. In bocca è avvolgente, elegante, sapido, con una fibra tannica ben presente che non disturba, ma che anzi arricchisce e contribuisce a rendere il vino intrigante, lungo e persistente. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome da San Giovanni Nepomuceno, raffigurato sull’altare nella piccola chiesa di Cantrina, interpretato come protettore dell’agricoltura e dalle inondazioni, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Cristina Inganni e Diego Lavo dal 1998, l’azienda agricola si estende su una superficie di 6 Ha, tutti vitati. Collabora in azienda l’enologo Celestino Gaspari.

NOTES

Nepomuceno IGT Benaco Bresciano Merlot

95




ANDREA SALVETTI

CASCINA LA PERTICA


99

Appartengo anch’io a quella esigua schiera di persone che, per passione, hanno cambiato il corso della loro vita. Nel mio caso sono proprio riuscito a stravolgerla. Davanti a me avevo un futuro da veterinario e il solo pensiero che oggi avrei potuto essere lì, ad alzare la coda a qualche cane o gatto per misurare loro la febbre, mi terrorizza. Ringrazio la sorte di avermi evitato un simile futuro e ringrazio anche la famiglia Brunori per avermi dato l’opportunità di realizzare ciò che desideravo maggiormente nella vita: vivere a contatto con la natura. Quando mi fu proposto di seguire quest’azienda vitivinicola che aveva ormai raggiunto un tale livello da non poter più essere più gestita in modo hobbystico, non mi lasciai scappare l’occasione. In quei primi anni Novanta non avevo nessuna conoscenza del settore vitivinicolo, così, con l’entusiasmo di un neofita, sgombro da qualsiasi concetto precostituito, iniziai un percorso formativo che mi condusse nelle più importanti aree vitivinicole italiane e francesi, dove mi ritrovai a contatto con vignaioli toscani, piemontesi e transalpini della zona della Champagne, della Borgogna e del Bordeaux. Ero affascinato da quel loro “saper fare” misto di cultura, tradizione e creatività e non nascondo che cercai di carpire, rubandoli letteralmente con gli occhi, un po’ dei segreti che permettevano a queste persone di realizzare grandi vini. Quando ritornavo da quei viaggi, ero ricco di entusiasmo e cercavo immediatamente di trasferire nell’azienda quelle

incredibili esperienze, adattandole alle condizioni pedoclimatiche che avevo a disposizione, cioè quelle del Lago di Garda o, meglio ancora, di questa specifica zona della Valtenesi. Piano piano, cominciai a ristrutturare i vecchi vigneti e, con essi, i sistemi di allevamento fin lì utilizzati; mi adoperai inoltre per modificare la produzione viticola, legata in maniera troppo vincolante ad una tradizione in cui contava più la quantità che la qualità. Furono anni di costante e profondo apprendimento, individuale e professionale, che non avrei mai pensato di ottenere nel momento in cui iniziai a praticare questo mestiere; una crescita fatta di esperienze che contribuirono in maniera fondamentale ad ampliare i miei orizzonti vitivinicoli. Successe però che, con la nuova consapevolezza nei confronti del mio lavoro, maturarono anche le mie idee e cominciai così a vedere le cose sotto prospettive diverse, rendendomi conto che certi lacci e lacciuoli che mi avevano limitato sino ad allora, risultavano improvvisamente meno stretti, mentre, proprio grazie ai miei nuovi e più maturi punti di vista, alcune remore e paure svanivano. Con il tempo mi fu chiaro che questa azienda avrebbe rischiato di “perdersi” nel complesso mondo del vino se non avessi provato a tener viva la sua identità, caratterizzando la produzione con la specificità che sa offrire questo territorio del Garda, unico ed inimitabile. Per fare ciò ho dovuto, prima di tutto, non aver paura di cercare quella biodiversità a cui aspiravo e questo ha significato

mettere in dubbio tutto quello che, con il tempo, avevo appreso. Mi rendevo conto, infatti, che ero molto vicino al punto di essere anch’io etichettabile e uguale ai tanti produttori che si alternano sul palcoscenico del mondo del vino, tutti proiettati a interpretare la solita, identica parte dei buoni contadini, dei vignerons o dei winemakers che altri hanno loro insegnato. Senza accorgemene stavo rischiando di essere un altro elemento “della tribù dei neo-artigiani del vino”, uomini e donne sempre alla ricerca del business ad ogni costo, che si spostano a ondate dietro al mercato, scambiandosi il copione e le parti e cercando di legittimare le proprie quotazioni professionali tra passioni fredde e opinioni standard, perfette nella loro ovvietà, ritrovandosi però incapaci di “raccontarsi”. Non volevo che ciò accadesse, ma, per quanto mi sforzassi e pur avendo ben chiaro quale fosse il vino che avrei voluto fare e il terroir di cui disponevo, avevo la sensazione che alcune pratiche, che interagivano nella filiera produttiva, si intromettessero in maniera troppo violenta nella stessa, modificando il risultato finale. In uno dei miei viaggi in Francia, nel 1997, trovai le risposte ai miei dubbi. Fu lì che alcuni produttori mi raccontarono quale fosse il significato dell’armonia, della complessità e della semplicità della natura e di come la terra, la luna e il sole fossero un “tutt’uno” che avrei dovuto imparare a conoscere per capire meglio il vero valore delle cose che mi circondavano, così da determinare i tempi giusti


CASCINA LA PERTICA per agire. Quei vignerons mi fecero comprendere che in tutto ciò che vedevo vi era un ordine a cui avrei dovuto far capo. Senza esitare, cominciai a cercare quell’ordine di cui mi parlavano ed iniziai a trasformare Cascina La Pertica in un’azienda biodinamica. La cosa affascinante è che, da quando ho iniziato questa trasformazione, ogni giorno che passo in questa azienda agricola non è mai uguale all’altro e ogni mattina e ogni singolo gesto, come ad esempio aprire il cancello, è sempre diverso e non ha il solito sapore. Ciò che faccio non è mai routine, ma un altro pezzo di strada di quel lungo viaggio che mi accingo a compiere: ho sempre cose nuove da scoprire, da sperimentare e altre di cui verificare i risultati, così da intrecciarli fra loro, in una serie di variabili la cui verifica richiederà almeno altri... cento anni! Quel percorso che avevo iniziato qualche anno addietro e che mi aveva aperto nuovi orizzonti, si è arricchito così di nuove emozioni, trasformandosi in un viaggio magico e coinvolgente fino al punto di modificare radicalmente anche il mio approccio alla vita, anche in quelle semplici e quotidiane abitudini che coinvolgono una sana e genuina alimentazione, l’utilizzo di prodotti naturali o della medicina omeopatica. Mi rendo conto che sono soltanto all’inizio di una lunga storia che non so come si concluderà, ma so per certo che non finirò mai di pormi l’obiettivo di riuscire ad essere in equilibrio con quell’ordine che vado cercando.


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Picedo, nel comune di Polpenazze del Garda, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 45 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, ghiaiosi e ciottolosi, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a nordsud. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 60%, Cabernet Franc 20%, Merlot 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 6.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si effettuano la selezione e la diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica spontanea. Questa fase si svolge in recipienti di acciaio inox e si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono svolti frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, che avviene quando il vino non ha ancora terminato la fermentazione alcolica, si assemblano le partite che vengono poste in barriques di rovere francese di Allier nuove, a grana fine a media e bassa tostatura; qui si svolge la fermentazione malolattica e il vino rimane per 12-14 mesi. Terminata la maturazione e dopo un breve periodo di decantazione, si esegue l’imbottigliamento e si compie un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione del vino. Quantità prodotta: 7.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino quasi impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo ampio, con profumi intensi di more e lamponi maturi, oltre a piacevoli percezioni di confettura di marasca e importanti note di fiori appassiti, quasi di pot-pourri, che si confondono piacevolmente ad altre nuances speziate. In bocca è morbido, elegante, piacevole alla beva, con una fibra tannica dolce, vellutata e ben evoluta che gli conferisce lunghezza e persistenza. Prima annata: 1987 Le migliori annate: 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2005, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 17 anni. L’azienda: Di proprietà della Brunori S.p.A dal 1978, l’azienda agricola si estende su una superficie di 35 Ha, di cui 16 vitati, 5 ad oliveto e gli altri 14 occupati da prati e seminativi. Svolge la funzione di agronomo Andrea Salvetti; l’enologo è Franco Bernabei.

NOTES

Garda Cabernet DOC Le Zalte

101


GIUSEPPE PECIS

Mi allontano dalla provinciale che da Rovato conduce a Corte Franca e mi addentro in direzione di Calino di Cazzago San Martino, ma, dopo aver percorso solo pochi chilometri, proprio a ridosso di un gruppo di case, trovo ad accogliermi lungo la strada due vessilli carichi di medaglie che avanzano nella mia direzione, seguiti da una corona di alloro fasciata con una striscia tricolore uguale a quella che pende, a mo’ di fusciacca, anche dalla pancia di un signore che dovrebbe essere il Sindaco di questo paese le cui forme e dimensioni non mi sono ancora chiare. Dietro i vessilli, la banda musicale composta da una decina di elementi che suonano ritornelli di vecchie canzoni della Resistenza che avevo dimenticato e dietro ancora tanta altra gente. Sorrido pensando che non avrebbero dovuto organizzarsi così per ricevermi! In definitiva non sono così importante da dover scomodare il primo cittadino del paese e l’intera banda! Mi sarei accontentato, più semplicemente, di uno striscione con scritto “benvenuto” e tutto sarebbe stato molto più adeguato all’occasione... Un vigile, che con la divisa da cerimonia, con solerzia e precisione, ha fermato con un cenno della mano il flusso delle macchine che in qualche modo avrebbero potuto intralciare quella laica processione, mi ricorda con voce seria, direi quasi didattica, che oggi è il 25 aprile, la Festa della Liberazione. Per un attimo rimango in silenzio come uno scolaretto che, interrogato in storia dal maestro, tace e fa scena muta, poi, nell’ascoltare quelle note musicali, all’improvviso, mi agito non solo per la mia grave dimenticanza storica, ma per il fatto

che avrei dovuto rispettare anch’io quel giorno di festa, invece di andarmene di cantina in cantina in questa Franciacorta alla scoperta delle sue bollicine! Un impegno piacevole, ma molto faticoso, che avrebbe meritato almeno una giornata di riposo. Mi domando: ma quale fervore mi anima? Quale lucida pazzia mi spinge a viaggiare per l’Italia del vino anche nei giorni di festa? Mentre scuoto la testa e mi rimprovero, sento che le note musicali si fanno sempre più vicine e mi accorgo di essermi bloccato a pochi metri dal monumento ai caduti che si erge, alto, al centro di una piazzetta, proprio davanti a me; qui, sicuramente, si svolgerà l’imminente cerimonia. Se non trovo una valida e immediata alternativa al mio itinerario, presto sarò avvolto non solo dalla musica, ma anche da tutta quella gente che mi costringerà ad assistere alla cerimonia e al discorso di quella fusciacca tricolore. Non è per mancanza di un sano patriottismo, ma il pensiero di rimanere lì magari per un’ora mi terrorizza, così sono assalito da un irrefrenabile desiderio di fuggire. Scusandomi con i presenti, che già affollano i bordi della strada, e con il vigile, al quale racconto imbarazzanti e confuse motivazioni, decido di fare manovra invertendo il senso di marcia, cercando di ritornare sui miei passi senza però avere un’idea di dove andare, cosa che mi mette in un’ulteriore folgorante confusione. Mentre cerco di girare la macchina districandomi fra le altre in sosta e la gente che, nel frattempo, si è accalcata nelle vicinanze della piazza, chiedo ai presenti, con tono squillante, dove sia la Cascina San Pietro, l’azienda che

ho in programma di visitare. Pazientemente e con molta educazione, il vigile, che penso abbia anch’esso voglia di allontanarsi da quel suo noioso incarico istituzionale, mi indica un percorso alternativo e lo fa proprio mentre un giovane, dal buon sorriso, si avvicina presentandosi come Giuseppe Pecis, titolare e factotum della Cascina San Pietro. Sollevato da questa conoscenza, che mi ha tolto anche un po’ d’imbarazzo, lo seguo per strade di campagna arrivando ad un vecchio casolare posto alla periferia del paese, dove sono vinificati, in una piccola cantina, alcuni interessanti spumanti. L’architettura della casa è molto antica e il cortile interno assomiglia a un vecchio podere d’altri tempi, con l’aia sulla quale si affacciano tutte le costruzioni che ne delimitano i confini. L’insieme della struttura, una volta di proprietà di una famiglia nobiliare franciacortina, mi ricorda molto le vecchie cascine di fine Ottocento, un po’ decadenti. Noto che Giuseppe non è per niente in imbarazzo, anzi, con passo spedito mi accompagna nella visita dell’azienda che, dopo appena cinque minuti o poco più, è già terminata. Mi piace quel suo modo schietto di presentarmi ciò che ha ed è bello perché è tutto senza fronzoli, né mistificazioni. Cascina San Pietro è questa. E questo è ciò che Giuseppe possiede. Nel suo modo di fare percepisco quel sano e genuino principio che ha mosso e muove nel mondo migliaia di vignaioli, i quali, attraverso il vino, hanno ricercato più l’affermazione del loro saper fare che la gratificazione economica dei loro sacrifici. Durante i miei viaggi ho notato che in molti casi le origini, le radici e la famiglia in

CASCINA SAN PIETRO


103


CASCINA SAN PIETRO

NOTES

cui sono cresciuti hanno marchiato fortemente questi vignaioli sia nella volontà, sia nell’istinto, inducendo alcuni a voler perseguire il modello già consolidato che è stato messo loro a disposizione, mentre altri si sono orientati verso un percorso ben distinto e molto personale che, nella massima libertà, li ha condotti a costruire le loro storie con il vino. Del resto, il vino ha queste grandi capacità e di questo mi convinco ancora di più guardando la faccia pulita e gli occhi entusiasti, sinceri e buoni di questo vignaiolo. Sento che in lui coesistono l’istinto di voler emergere e affermarsi nel mondo del vino e la volontà di proseguire la tradizione di famiglia del padre Francesco, che lavora ancora nella rivendita di vino a Paratico, nella quale operano anche la madre Mariarosa, la sorella Vittoria e il nipote Andrea. Non si dimentica di nessuno e il suo elenco è dettagliato, consapevole che ognuna di queste persone ha importanza nella sua storia. Mentre degusto il suo Satèn, il suo Brut e un cru chiamato Terè dei Trici, mi chiedo quanti sacrifici e rinunce è stato costretto a fare questo ragazzo per avventurarsi in un simile progetto che lo ha allontanato da un vino sfuso per pizzerie fino a farlo approdare alle blasonate bollicine adatte ai ristoranti più in voga. Vedo e sento che in lui c’è tanta passione e ce ne deve essere più di quanta me ne dà a vedere, poiché, dopo essersi diplomato come disegnatore meccanico e non avendo uno straccio di informazione tecnica nel settore vitivinicolo, non si è sottratto alla sfida che gli proponeva questa Cascina con i suoi 4,30 ettari di vigneto. Con voce ferma e risoluta mi racconta la sua vita, i primi successi, le sue aspettative e i sogni che, gelosamente, conserva nel suo cuore. Lo ascolto felice di constatare, ancora una volta, quanto siano importanti i sogni. Dopo qualche ora passata in sua compagnia, saluto Giuseppe portandomi via la convinzione che questa cantina non è altro che il suo passepartout per la vita. Giuseppe, auguri di cuore!


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati, di medio impasto, con abbondante scheletro ghiaioso, ciottoloso, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 220 metri s.l.m., con un’esposizione a sudnord. Uve impiegate: Chardonnay 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 14°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase, che si protrae per 10-12 giorni alla temperatura di 16°C, è svolta in tini di acciaio inox dove il vino, dopo un’ulteriore pulizia, rimane fino al termine della primavera dell’anno successivo alla vendemmia; in questi mesi vengono effettuati frequenti sur lies dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura del vino. Verso il mese di giugno si procede quindi all’assemblaggio delle partite; segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina per la maturazione sui lieviti almeno 32 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 20 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 3 mesi in cantina prima di essere commercializzato.

Franciacorta DOCG Extra Brut Millesimato Terè dei Trici

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Calino, nel comune di Cazzago San Martino, le cui viti hanno un’età di 12 anni.

Quantità prodotta: 1.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Franciacorta veste il bicchiere di un colore paglierino dai riflessi dorati e arricchisce un perlage sottile e persistente; si presenta all’esame olfattivo in modo intenso, dolce, invitante, in armonia con le note fruttate di pesca, agrumi, albicocca, melone e pompelmo rosa che salgono piacevoli nel naso, sposandosi a toni di pasticceria, di biscotti alla vaniglia e di pandoro: tutti aromi sorretti da una sottile vena minerale. In bocca è leggero, morbido, cremoso, delicato; un buon corpo ne accompagna la grande bevibilità, sorretta da un finale che evidenzia la vena acida e lo arricchisce rendendolo lungo e persistente. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dalle terre che i mezzadri lavoravano per un’antica famiglia di nobili franciacortini, un tempo proprietari di gran parte dei terreni della zona, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione dovrebbe essere raggiunto fra i 4 e i 7 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Pecis dal 1994, l’azienda agricola si estende su una superficie di 5 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Roberto Messegaglia e l’enologo Alessandro Santini.

105


GIANMARCO MORATTI

Vi sono incontri che indubbiamente ci arricchiscono e sono capaci di ampliare la stessa visione che abbiamo della vita. Sono incontri straordinari che avvengono con uomini speciali, i quali hanno il grande merito di arrivare, attraverso la parola e l’azione, all’anima. Nel mio girovagare, in questa splendida e anarchica Italia del vino, ho avuto la fortuna di incontrarne alcuni che, pur appartenendo a ceti sociali differenti e pur avendo livelli formativi e culturali molto diversi fra loro, hanno sempre avuto il merito di trasmettermi delle emozioni. Ho fermato il tempo per ascoltarli e per poterne condividere i sogni, fino a spingermi non solo a riconsiderare certi miei giudizi, ma anche ad attingere a insospettabili risorse interiori per seguire l’evolversi del loro pensiero. Menti eccelse e anime nobili che non hanno mai filosofeggiato sulle condizioni estreme dell’essere umano o sulla spiritualità del cosmo argomentazioni del resto lontane dalla mia capacità di discernimento - ma sul valore più immanente delle tradizioni, sul loro rapporto con le stagioni, sul fascino che nutrono per la natura e sull’equilibrio che in essa ricercano. Uomini che fantasticano sulla comunione che si crea intorno a un bicchiere di vino e su come la loro visione etica della vita li ponga in armonia con tutto ciò che li circonda. Uomini che, come direbbe Mullah Nassr Eddin, leggendario saggio di terre lontane, sanno contare su ciò che da Dio è stato preparato loro, imparando, nel corso della loro breve o lunga esistenza, l’arte di conservare indenni sia il lupo sia l’agnello che

sono stati affidati loro in custodia. Immagine di una saggezza popolare d’altri tempi che a me piace ricordare soprattutto quando mi metto al cospetto di un nuovo interlocutore, poiché mi aiuta a capire come lui si ponga in equilibrio con il lupo e le funzioni fondamentali dell’istinto umano che esso rappresenta, e con l’agnello e i movimenti dell’animo che da esso scaturiscono. Ci sono uomini che mi hanno sempre affascinato e sono stati quelli che, nel corso della loro vita, responsabile e ricca di sforzi coscienti e di sofferenze volontarie, hanno acquisito gli elementi capaci di creare le condizioni ideali per rendere possibile l’esistenza fra queste due entità. Lo straordinario è stato che, certe volte, mi sono trovato al cospetto di persone che sono state capaci addirittura di costruirsi una quieta condivisione dei due ruoli, il lupo e l’agnello, di controllarli e tenerli in custodia costruttivamente, come suggerisce il saggio. In questi casi ho sempre trovato uomini che hanno messo a frutto delle grandi prove d’ingegnosità anche grazie a un forte istinto che ha saputo far coniugare il pensiero all’azione, non solo nel superamento di quella pigrizia culturale che li avrebbe omologati a tutti gli altri, ma anche nell’inventarsi i compromessi, le strategie e le opportunità per arrivare allo scopo che si erano prefissati e che, quasi sempre, anche se definito solo inconsciamente, era ed è quello di conservare, indenni e in armonia, i due animali “affidati loro in custodia” dalla vita. In questo ristretto elenco di uomini speciali trova

spazio sicuramente anche Gianmarco, che incontrai nel suo Castello di Cigognola, in una mattinata di pioggia, uggiosa, ventosa e fredda, come non se ne aveva memoria da tempo nel mese di giugno. “Un altro industriale che si è messo a fare il vino”, pensai. “Sarà lontano anni luce dal mondo del vino che intendo io, e ancor più lontano da quell’affascinante mondo rurale e agricolo che io amo e che ancora oggi caratterizza l’Oltrepò pavese; un mondo al quale si sarà accostato più per sfizio e snobismo che per vera vocazione...”. Mi sbagliavo. Dopo poche battute compresi che quell’incontro mi aveva portato al cospetto proprio di uno di quegli uomini di cui parlavo poc’anzi, che nella loro vita avevano dato prova non solo di grande ingegnosità, ma anche di aver saputo coniugare il pensiero all’azione. D’un tratto pensai che stavo vivendo un giorno fortunato. Non è facile, infatti, incontrare persone che sanno mettersi in discussione e che si adoperano per costruire dei sogni, anche per gli altri, spaziando dal mondo del vino al restauro di un castello, dall’impegno in un progetto di valorizzazione del territorio al solidale sostegno fornito, incondizionatamente, alla comunità di San Patrignano, a Rimini, per il recupero dei giovani tossicodipendenti, svolgendo, nel frattempo, fin dal lontano 1955, l’attività di petroliere sul mercato nazionale e internazionale. Ne avevo trovati di miliardari che si erano messi a fare il vino negli ultimi vent’anni, ma nessuno di questi “ingressi”

CASTELLO DI CIGOGNOLA


107


CASTELLO DI CIGOGNOLA

nel comparto vitivinicolo nazionale era stato un evento tale da fornire un contributo importante e inedito per il mondo del vino. Nel caso di Gianmarco ritengo invece che il suo ingresso potrebbe portare delle novità nella sua area di riferimento, poiché sembra che il vignaiolo lo abbia sempre fatto e conosca i meandri che regolano la qualità della Barbera. Mentre degustavo il suo vino, facevo le mie riflessioni e mi piaceva quel suo modo di concepire l’italianità e quello spirito italiano che si nasconde nel vino, nel territorio e nelle tradizioni che lo caratterizzano. Mi piaceva quel suo modo naturale di confrontarsi con il prossimo meno fortunato di lui. Passarono le ore in sua compagnia, mentre mi raccontava della comunità di San Patrignano, di Muccioli e dell’arricchimento interiore che aveva ricavato dalla sua frequentazione. Mi raccontò dei figli e della visione “femminile” che aveva del sistema economico occidentale e di come, convinto delle grandi potenzialità delle donne, avesse spinto sua moglie Letizia ad intraprendere la carriera politica. Mi raccontò di quale valore desse alle amicizie e di come, intorno a queste, avessero ruotato tante cose della sua vita. Compresi con piacere che anche per lui certi incontri erano stati importanti, perché l’avevano aiutato a crescere molto di più di quanto avrebbero potuto fare i soldi, che sicuramente non erano la chiave per incontrare Dio, che lui, invece, trovava ogni mattina nell’umanità che lo circondava. Lo lasciai parlare perché sentivo che ne aveva voglia e, nell’osservarlo, mi ritornò in mente Mullah Nassr Eddin e le sue tante storie di saggezza popolare e l’ingegno di quell’uomo che deve porre in equilibrio il lupo e l’agnello che gli sono stati affidati. Sorrisi, convinto che da tanto tempo Gianmarco vi era riuscito, e sorrisi anche quando lo


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Barbera provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Talanca, Vigna della Maga e Vigna la Preghiera a Pizzarello, nel comune di Cigognola, le cui viti hanno un’età di 10 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argillosocalcarei, poveri di scheletro con sottofondo marnoso, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a est / nord-est / ovest. Uve impiegate: Barbera 85%, Croatina 15% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte; il pigiato ottenuto viene mantenuto per 48 ore a 10°C prima di procedere all’innalzamento della temperatura e, utilizzando i lieviti autoctoni, al conseguente avvio della fermentazione alcolica. Questa fase è svolta in recipienti di acciaio inox e si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 27°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che prosegue per ulteriori 7-10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e pochissimi rimontaggi. Dopo la svinatura, il vino è assemblato e posto in tonneaux da 600 lt di rovere francese di Tronçais nuovi, a grana fine e media tostatura, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi. Al termine di questo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi compositi, spessi ed intriganti, ricchi di note fruttate fra le quali si riconoscono le prugne, cotte al vino con la cannella, le more, in confettura, e i lamponi maturi che si vanno a mescolare con il cardamomo, il pepe bianco, il cioccolato bianco e un pot-pourri di fiori appassiti con un finale che ricorda molto la stecca di liquirizia. In bocca è avvolgente, immediatamente accattivante ed elegante, sorretto da una vena sapida che lo rende piacevolmente bevibile, lungo e persistente. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2004, 2005, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione, a seconda delle annate, è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: Storicamente di proprietà della famiglia della signora Letizia Brichetto Arnaboldi in Moratti e rilevata poi dai coniugi Gian Marco e Letizia Moratti agli inizi degli anni ‘80, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 23 vitati e 7 occupati da prati e boschi. Per la parte agronomica ed enologica collaborano in azienda gli enologi Riccardo Cotarella ed Emilio Defilippi.

NOTES

Oltrepò Pavese DOC Barbera Poggio della Maga

109




CRISTINA KETTLITZ

CASTELLO DI GRUMELLO


113

Quando fuori piove e le giornate sono uggiose non ho voglia di rincorrere il da farsi e allora mi fermo, ritrovandomi, certe volte, a sfogliare l’album delle foto di famiglia. Pagina dopo pagina, mi scorrono davanti agli occhi le foto degli anni dell’infanzia, della gioventù e dell’amore... questi ultimi trascorsi al fianco di Bruno con il quale ho vissuto momenti stupendi, controversi e difficili, che, come il lampo di un flash di una macchina fotografica, mi si ripropongono alla memoria, all’improvviso, tutti insieme, in un istante. Una sferzata di ricordi mi attraversa la mente, gli occhi diventano lucidi, il cuore si stringe e così, istintivamente, mi ritrovo a voltare velocemente pagina, ritrovando il sorriso davanti a quelle immagini che mi spingono a ricordare l’anno e il luogo in cui furono scattate, ma, in particolare, mi fermo su quelle in cui sono costretta ad indicare con l’indice: “Questa sono io! Com’ero diversa! Com’ero giovane e bella...”. Sospiro e, senza accorgermene, sento che il senso del tempo si fa incalzante e mi pone al cospetto di ciò che è stato e di quando queste grandi stanze mi sembravano ancora più grandi di adesso, più luminose, attraversate da tante persone, soprattutto in occasione delle feste, nei momenti i cui, nella grande cucina, si preparavano i pranzi che avrebbero riunito allo stesso tavolo tutta la famiglia. Continuo a sfogliare il mio album ed ecco un’altra foto, quella di mio nonno materno, Giovanni Reschigna, che dopo la guerra, nei primi anni Cinquanta, non si lasciò sfuggire l’occasione di comprare questa proprietà, attratto più dalla presenza delle viti nelle terre circostanti che dalle dimensioni del castello, riuscendo ad appagare

così, dopo aver vissuto un’importante esperienza nell’industria chimica, la sua grande passione per la terra e per la vite, a testimonianza della quale, alla fine dell’Ottocento, in epoca non sospetta e ancora giovanissimo, aveva frequentato la scuola di enologia ad Alba. Che personaggio meraviglioso era mio nonno... A lui, tra l’altro, devo la mia presenza in questo luogo. Ero appena una bambina all’epoca, ma ricordo bene che si dava un gran da fare, soprattutto nei vigneti, che erano disastrati, vetusti e bisognosi di un completo rifacimento. Lui vi mise mano reimpostando tutta la viticoltura con criteri più moderni, facendosi consigliare, in questo compito, da Carlo Zadra, un giovane enologo di origine trentina con il quale, inoltre, scelse anche di assecondare ciò che indicavano le DOC che, nel frattempo, in quegli anni, cominciavano a nascere un po’ ovunque anche in questa zona. Una terra da rossi, la Valcalepio - sosteneva il nonno. Alla sua morte, avvenuta nel 1970, venne meno quella forza, quell’entusiasmo e quell’impulso che lui aveva sempre profuso verso quest’azienda, la quale passò in eredità a mia madre Matilde e, di conseguenza, a mio padre Enrico, al quale va dato il merito della vera costruzione dell’azienda in termini imprenditoriali. Mio padre, sempre affiancato da Carlo Zadra, ebbe la forza di impostare la cantina in un’ottica produttiva moderna e funzionale, riuscendo anche ad innalzare la qualità di tutte le filiere produttive, introducendo le barriques e cominciando, in certe particolari annate, ad imbottigliare le prime riserve e provando, contemporaneamente, la vinificazione di un vitigno autoctono antichissimo che si trova

solo qui nella bergamasca, il Moscato di Scanzo, da cui si produce un vino molto particolare. Fu nel 1993 che subentrai a mio padre che, nel frattempo, aveva cominciato ad accusare qualche problema di salute. Affiancato da Paolo Zadra, figlio di Carlo, cercai di dare un nuovo e ulteriore impulso alla produzione vitivinicola e alla struttura del Castello, un’attività che, in ogni modo, fino a quel momento, avevo seguito in maniera molto marginale, poiché, collaborando a tempo pieno come giornalista nel campo medico con testate editoriali come il Corriere della Sera, ero impegnata un po’ ovunque in convegni nazionali ed internazionali. Un’attività che svolgevo al fianco di Bruno, che è stato uno dei padri fondatori della divulgazione medica in Italia, fino al punto di credere così tanto nella necessità di una qualificata comunicazione delle ricerche scientifiche nel settore medico che si era anche laureato in medicina per svolgere meglio la sua professione di giornalista. Con lui condividevo non solo il lavoro, ma soprattutto la voglia comune che avevamo di conoscere, di sapere e di approfondire i vari aspetti offerti dalla medicina. Ricordo che, in quegli anni, sembrava che il settore della ricerca medica fosse avvolto da una grande effervescenza e, ogni giorno, vi erano innumerevoli annunci di nuove scoperte scientifiche che, come fuochi d’artificio, repentini e assordanti andavano a riempire le cronache dei quotidiani di tutto il mondo, notizie che Bruno e io dovevamo andare a verificare, ovunque fosse necessario, facendo visita agli stessi ricercatori, da quelli più conosciuti a quelli più giovani e meno noti, dovunque essi si trovassero. Un’esperienza unica e


CASTELLO DI GRUMELLO

meravigliosa che arricchì la nostra conoscenza in questo settore che, personalmente, considero, al pari delle scienze della comunicazione, la mia più grande passione. Mi sono sempre piaciuti questi due indirizzi scientifici ai quali ho dedicato molto del mio tempo, riuscendo, talvolta, ad integrarli con la storia, l’arte e con tutto quello che poteva arricchire il mio spirito, in modo da consentirmi di trasmettere agli altri, con un linguaggio semplice, le cose che volevo comunicare. Ricordo che quando decisi di iniziare a costruire questa nuova pagina di storia del castello di Grumello, anche Bruno vi si appassionò e stette al mio fianco, aiutandomi molto. Lo fece seguendo l’aspetto comunicativo dell’immagine dell’azienda e contribuendo all’idea di aprire il castello a eventi culturali che, in qualche modo, potessero portare notorietà ad una struttura che aveva storia “da vendere”. Quanti ricordi si susseguono sfogliando questo album di famiglia! Memorie che sono diventate l’arma migliore con le quali cerco di combattere la solitudine che, certe volte, sembra essere sul punto di circondarmi, volendo per forza farmi sentire più pesante la follia di questa vita. Non do comunque troppo peso alla malinconia che, talora, mi assale: ho troppe cose a cui pensare, anche se ormai la conosco e percepisco come si faccia largo in me subdolamente mischiandosi ad altre dolorose sensazioni, ma ormai non mi abbatte più, anzi, stimola il mio pensiero, la mia coscienza e sviluppa in me ancor di più la forza di vivere questa vita fino in fondo.


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Colle Calvario, nel comune di Grumello del Monte, le cui viti hanno un’età di 15 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni marnosocalcarei, sono situati ad un’altitudine di 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 60%, Merlot 40% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato basso Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla raccolta e alla selezione separata delle uve di Merlot e Cabernet Sauvignon; il 10% del Cabernet è posto nel fruttaio dove, per 30 giorni, rimane in appassimento seguendo una distinta vinificazione, mentre la quasi totalità delle uve viene mandata alla diraspapigiatura. I pigiati ottenuti, messi in tank di acciaio e inoculati con lieviti selezionati, sono avviati alla fermentazione alcolica che dura circa 10-12 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 25°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae, a temperatura controllata, per altri 10-15 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi e follature giornaliere. Dopo la svinatura, il vino viene assemblato e messo nuovamente nei tank di acciaio dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane di solito fino alla primavera dell’anno successivo alla vendemmia; poi viene messo in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimane per 18 mesi. Al termine di questo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite con l’aggiunta nel vino di quello appassito, costituendo così una cuvée che, dopo un periodo di decantazione in acciaio, è messa in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 7 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, quasi impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con sentori netti, precisi e ben armonizzati che variano da quelli fruttati intensi di prugne, more e lamponi a quelli vegetali, di foglie di pomodoro e muschio che si vanno ad aggiungere a un pot-pourri di fiori appassiti. In bocca è ben strutturato, caldo, ricco, con bella sapidità e struttura e un finale lungo e persistente. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dalla località di produzione delle uve, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Reschigna Kettlitz dal 1953, l’azienda agricola si estende su una superficie di 37 Ha, di cui 20 vitati e 17 occupati da boschi, prati e seminativi. Collabora in azienda come agronomo ed enologo Paolo Zadra.

NOTES

Valcalepio Rosso DOC Riserva Colle Calvario

115


MARIA, GIULIA CAVALLERI

Non so da dove incominciare a raccontarti di quest’azienda. Potrei parlarti di quando la cantina era ubicata al centro del paese di Erbusco nel palazzo di famiglia o di come era la situazione della Franciacorta nel 1967, al momento del riconoscimento della DOC, oppure potrei raccontarti di quando nonno Gian Paolo con suo figlio, mio padre Giovanni, nel 1980 costruì questa cantina dove oggi ci troviamo. Ti potrei parlare di quando entrai a lavorare in azienda, nel 1981, o delle difficoltà che incontrai nel promuovere e nel commercializzare le nostre bollicine che in pochi, a quei tempi, conoscevano. Ma non ti preoccupare: non farò niente di tutto questo, perché, a prescindere dalle argomentazioni, che non mancherebbero se volessi parlarti della cantina o di queste bottiglie che sono qui sul tavolo, ho ben compreso che non è questo che ti aspetti da me. Forse è meglio così, perché quando mi coinvolgono a parlare di vino, della cantina o della nostra impostazione tecnica, certe volte stento a comprendere se quello che dico è realmente farina del mio sacco o se invece, avendo lavorato così tanti anni a stretto contatto con mio padre, non faccio altro che ripetere il pensiero che lui esprimeva a

chiunque capitava in azienda. Fino a pochi anni fa è stato mio padre il creatore, non che il motore di tutto ciò che vedi, anche se non voglio commettere l’errore di sminuirmi, poiché ho messo molto del mio in quest’azienda, visto che qui lavoro da ventisette anni... Con mia sorella Maria, che mi è sempre stata accanto, abbiamo dato tanto, tutto quello che ognuna di noi due si è sentita di dare e non ha importanza se è stato maggiore o minore il contributo fornito dall’una o dall’altra; non ha importanza se è stato poco o tanto; certo è che quello che abbiamo dato e fatto qui, in questa nostra azienda, lo abbiamo fatto da sorelle, unite come sanno fare forse solo due sorelle che si vogliono bene. Ognuna nel suo ruolo, divenendo nel tempo sempre più un punto di riferimento importante l’una per l’altra, anche quando ci accorgevamo che lavorare al fianco di una personalità forte come quella di nostro padre non era facile. Non lo è stato soprattutto per me che ero obbligata a confrontarmi quotidianamente in azienda con lui, attraverso un dialogo che non sempre è stato idilliaco. Quegli scontri mi rattristavano, ma nello stesso tempo mi rafforzavano e mi facevano crescere. Quando trovavo la voglia di sfogarmi con Maria,

spesso venivo rimproverata anche da lei, poiché sosteneva che ciò che accadeva fra me e mio padre era a causa del mio modo di rapportarmi a lui. Ero io che sbagliavo; lo assecondavo troppo nei suoi obiettivi e nei suoi progetti fino al punto di diventare una spalla importante, anzi troppo importante, alla quale era lecito chiedere sempre di più: ai suoi occhi quasi rappresentavo quel figlio maschio che lui avrebbe tanto voluto avere. Sorridevo alle sue affermazioni e la cosa contribuiva a sdrammatizzare l’accaduto e a distanza di anni posso dire soltanto che mio padre era esigente, soprattutto con se stesso, ed era un vecchio imprenditore bresciano il cui motto era “lavorare, lavorare, lavorare, sempre lavorare”. Uno slogan che gli calzava a pennello e che lo ha portato per tutta la vita a pensare solo al lavoro, cosa questa che anch’io, purtroppo, in qualche modo e per troppo tempo, ho cercato di fare nella sciocca speranza di assomigliargli un po’. Devo ammettere che ci manca molto, come ci manca quel suo modo burbero e duro di affrontare le cose e, anche se non è più al nostro fianco, sento ancora forte intorno a me la sua energia e, pur riconoscendo che con quel suo pretendere sempre qualcosa in più, qualche volta era irritante, so bene che è stato lui a plasmarmi, dandomi la forza di

CAVALLERI


117


CAVALLERI

NOTES

costruire, con Maria, un’azienda a dimensione familiare, dove si respira un’atmosfera serena e dove tutti quanti ci sentiamo un po’ a casa. Personalmente trovo fantastica questa cosa, anzi la trovo magica, così come trovo unica la passione che Maria ed io abbiamo messo in questo lavoro; una passione che in questi anni non è mai venuta meno e che ci spinge ancora oggi a migliorare i nostri vini senza curarci troppo del profitto. Scelte importanti, non trovi? Se non fosse così, tutto sarebbe banale. Immagina se dovessi parlarti dei libri contabili, delle statistiche, delle percentuali, delle quote di mercato e degli obiettivi. Sono numeri, solo e soltanto numeri che si ripetono e che rincorrono altri numeri, come quei discorsi che avrei potuto farti all’inizio della nostra chiacchierata - ma che non ti ho fatto - di quanto siamo grandi, di come funzioniamo bene come azienda e riempirti di parole, soltanto parole che non ti mancherà l’occasione di sentirti ripetere molte volte, girando fra queste “terre franche” di Franciacorta. Noi lasciamo che parlino queste bollicine che stai degustando, perché esse ti descriveranno meglio di tante parole quale ruolo vogliamo avere come produttrici di vino. Come avrai ben intuito non amiamo i trucchi, né l’arroganza o il profitto fine a se stesso, ma amiamo, altresì, l’eleganza nel vino e l’imprevedibilità che si nasconde dietro a questo meraviglioso lavoro. Nel mondo del vino, all’interno del quale tutti sono, incondizionatamente, alla ricerca della notorietà, forse questa è una visione più semplicistica, ma reale e meno snobistica. Ci piace distaccarci e pensare solo al ruolo che abbiamo entrambe in questa azienda di famiglia, che è molto più di una semplice azienda vitivinicola: è la nostra casa.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), mediamente sottili e fluvio-glaciali, debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso, calcareo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 280 metri s.l.m. con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Chardonnay 100% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 16°C, si avvia alla fermentazione alcolica con l’aggiunta di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, alla temperatura di 18°C, ed è svolta per l’80% in tini di acciaio inox e per il 20% in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura. In questi contenitori il vino svolge in parte la fermentazione malolattica e rimane fino al mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia. Nei mesi invernali vengono effettuati frequenti sur lies e bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura e dare longevità al vino. In primavera si procede all’assemblaggio delle partite, quindi all’imbottigliamento con l’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane a maturare in cantina sui lieviti per almeno 48 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 40 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 13.000 bottiglie l’anno

Franciacorta DOCG Blanc de Blancs Collezione Millesimato

Zona di produzione: Il vino è una cuvée prodotta dalla vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda posti in località Chiosino e Seradina nel comune di Erbusco, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 25 anni.

Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore giallo paglierino con riflessi dorati che fanno compagnia ad una schiuma ricca, cremosa e arricchiscono un perlage fine e insistente; si presenta all’esame olfattivo con profumi complessi che spaziano dalle note fruttate di nespola, ananas e susina matura a quelle di miele di sambuco, nocciola e cioccolato bianco, per concludere con lievi percezioni di fiori secchi e di erbe aromatiche come l’origano. In bocca è una sorpresa e stupisce per la sua entratura pulita, asciutta, sapida, un po’ in contrasto con le dolci percezioni olfattive; risulta per questo ancor più intrigante, ricco di personalità e al contempo piacevole, fresco, elegante, lungo e persistente. Prima annata: 1983 Le migliori annate: 1983, 1985, 1986, 1990, 1993, 1994, 1995, 1999, 2001 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Cavalleri dal 1495, l’azienda agricola si estende su una superficie di 47 Ha, di cui 42 vitati e 5 occupati da prati e boschi. Svolge funzione di agronomo e di enologo Giampaolo Turra.

119


STEFANO, SIMONE NERA

CAVEN


121

Non è uguale la vendemmia che pende dai nostri alberi a quella che Lesbo coglie dal tralcio di Metimna; ci sono le vigne di Taso, ci sono le uve di Marèa, bianche, queste convenienti a terreni più grassi, quelle a terra più fine; e la Psitia migliore per il passito e il Lagèo leggero, che però alla fine fa barcollare e impaccia la lingua, le uve purpuree e quelle precoci e... poi come ti potrò cantare della Retica...? Virgilio, Georgiche, Libro II Già Virgilio conosceva la Retica, un’uva della Valtellina che menziona nelle lettere in cui racconta, ad amici lontani, le prelibate sorprese che gli riservavano i vini dei territori da lui conosciuti. Noi invece ci limitiamo a parlare solo delle nostre uve, dei nostri vini e dei nostri vigneti e di queste montagne che, nette, si stagliano maestose fuori della finestra della nostra cantina. Parliamo di questo perché riteniamo che il modo migliore per rompere il ghiaccio con qualcuno appena arrivato sia quello di raccontargli ciò che conosciamo meglio, del lavoro svolto dalle tre generazioni di vignaioli della nostra famiglia che ci hanno preceduto, ed è quindi della Valtellina che ti narriamo. Se è vero che le persone sono impastate della terra su cui vivono e la loro indole è influenzata dalla morfologia dei territori fino al punto che i caratteri, le abitudini e i costumi vengono modificati, non ti rimarrà difficile conoscerci. Guardati intorno e comprenderai immediatamente come sia chiusa questa valle e quanto essa ci abbia indotto alla riservatezza e alla discrezione, che sono le nostre più evidenti e peculiari caratteristiche, con le quali ci confrontiamo non solo con chi arriva da fuori,

ma anche tra di noi, scoprendo, però, che, pur evitando comuni manifestazioni di cooperativismo, ci ritroviamo spesso piacevolmente uniti nel profondo sentimento che ci lega alla nostra terra. Un amore che risulta evidente dalle nostre parole, dal nostro modo di fare e da ciò che cerchiamo di comunicare a chiunque viene a trovarci. In fondo, perché cambiare? Si possono cambiare le montagne e farle diventare mare, città, pianura? Sono altre le cose che dovremmo cambiare, noi valtellinesi, non certo l’amore per la nostra terra, né la passione che mettiamo in questo difficile mestiere di vignaiolo o l’attenzione che poniamo nel mantenimento di questa viticoltura che qui, in Valtellina, come in poche altre parti d’Italia, può appropriarsi dell’appellativo di “eroica”. Per la posizione dei vigneti e per le difficoltà che sorgono nella lavorazione degli stessi, le uve valtellinesi sono le più costose d’Italia e, di conseguenza, i vini prodotti dovrebbero spuntare ottimi prezzi, ma questo avviene solo in parte. Le cause sono varie e crediamo che vadano ricercate nella scarsa duttilità di noi viticoltori a confrontarci con le vere necessità della viticoltura valtellinese, addossando, invece, le colpe ai più svariati motivi e trovando, in essi, la giustificazione a certe nostre incompetenze. Se hai ascoltato attentamente avrai sentito una sana e costruttiva vena di autocritica, poiché, se è vero che la nostra famiglia, da tre generazioni, produce vino, è anche vero che non potevamo esimerci dall’assumere delle responsabilità su ciò che è stato fatto in passato. Un’autocritica che rivendichiamo con orgoglio, poiché ci ha consentito

di capire i nostri errori e modificare l’atteggiamento nei confronti del nostro sistema produttivo, stimolandoci a migliorare in questa nuova azienda ciò che avevamo. Così abbiamo da tempo avviato una politica di riconversione dei nostri 28 ettari di vigneti, impiantando nuovi cloni di Nebbiolo, selezionati collaborando con la Fondazione Fojanini, sistemando, man mano che andavamo avanti, i “gradoni” e i terrazzamenti presenti, costruendone di nuovi e dando vita ad un’azione di valorizzazione e di salvaguardia del territorio di grande importanza sociale. Azione che ormai da diversi anni è diventata un punto fermo della nostra filosofia aziendale con l’obiettivo di sviluppare, tramite sistematici e importanti modi di operare messi in atto dalla nostra azienda, l’impiego di concimi naturali nel vigneto, nonché l’adesione al “Piano F” della Regione Lombardia volto a garantire un impatto ambientale minimo, attraverso l’impiego ridotto e mirato di sostanze di sintesi per i trattamenti. Se alzi gli occhi e guardi quei pendii, puoi capire di cosa stiamo parlando e di quanto sia importante, per le abitazioni di fondo valle e per i loro abitanti, che i muri e i vigneti restino ben saldi al loro posto e che l’ambiente che li circonda sia integro e salutare. Un lavoro di sviluppo che è ancora in corso d’opera, ma che, ahimè, ci pone quotidianamente in contrasto fra “il vorrei ma non posso” e “il potrei ma non voglio” e con quel millenario dilemma che divide la passione dalla ragione. L’amore per questo territorio, per i paesaggi che sa offrire, per i suoi silenzi rumorosi, per il chiarore delle sue albe, per la bellezza delle nuvole che volano al di sotto dei vigneti, per la trasparenza e la


CAVEN

genuinità della gente e la bontà e la longevità dei nostri vini, ci spingerebbe a coltivare la speranza che prima o poi fiorisca, in chi è capace di guardare queste cose, una nuova cultura del territorio, capace di ramificarsi e di coinvolgere sia chi è chiamato ad amministrarlo, sia chi si propone nella sua gestione, ognuno cointeressato al suo sviluppo. Secondo te, potremmo attendere che tutto ciò accada? Noi crediamo di no, perché i tempi sono enormemente dilatati e, nell’attesa che quell’utopistica speranza diventi realtà, abbiamo la necessità meno “prosaica” di dover vendere il vino e di creare economia intorno ad esso, senza, però, incorrere negli errori del passato. Sono scelte difficili quelle che attendono noi produttori valtellinesi e che non possono più essere rimandate, per evitare di non ritrovarci presto a dover approntare soluzioni capaci solo di risolvere l’emergenza e non di costruire un futuro diverso dalla staticità odierna. Basta guardarsi intorno per capire che ci sono tantissime cose da fare per promuovere e far conoscere i vini e il territorio della Valtellina. Noi ci siamo già avviati verso il futuro e abbiamo già incominciato a fare cose importanti come, ad esempio, la sala di degustazione della nostra nuova cantina, alla quale presto sarà aggiunta un’enoteca dove, molto probabilmente, metteremo oltre ai nostri, anche i vini delle più importanti aziende della Valtellina, al fine di costruire un esempio, che speriamo venga seguìto anche da altri, e dar voce al linguaggio trasversale e universale del vino, il quale ha ormai dimostrato di essere l’unico e il miglior promotore


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Sassella, nei comuni di Castione Andevenno e Sondrio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 45 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di origine morenica, bassi, molto sabbiosi e ricchi di silicio e di scheletro, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 350 e 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura dei grappoli selezionati e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti autoctoni, si avvia alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per circa 10-12 giorni in recipienti di acciaio inox ad una temperatura compresa fra i 25 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino viene assemblato e riposizionato in tank di acciaio o in vasche di cemento dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale, e dopo un’ulteriore pulizia statica, viene immesso per il 30% in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura e il restante 70% in tonneaux, sempre di rovere, in cui rimane 15 mesi. Trascorso questo periodo di maturazione si assemblano le partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 5 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino con riflessi granati, il vino si presenta all’esame olfattivo con percezioni eteree che si sviluppano su ricordi di marmellata di ciliegie che si vanno via via mescolando a profumi di prugne secche e lamponi maturi, a note speziate di liquirizia e di eucalipto con un finale che riporta alla mente nuances di viola appassita. In bocca è elegante, con una fibra tannica ben evoluta e una bella freschezza; assai piacevole, risulta inoltre lungo e persistente. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1999, 2000, 2002, 2004, 2007 Note: Il vino, che con il suo nome, “La Priora”, identifica la donna più importante e anziana della famiglia valtellinese e anche “ciò che precede per eccellenza, dignità e merita di essere sempre il primo”, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Stefano e Simone Nera dal 1982, l’azienda agricola si estende su una superficie di 28 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Stefano Nera.

NOTES

Valtellina Superiore DOCG Sassella La Priora

123




ROBERTO, ELISABETTA, GIANFRANCO, ANDREA COMINCIOLI

“El lac l’è ena bela piasa, coio che se nen pasa” (Il lago è una bella piazza, sciocco chi lo sottovaluta) Mi diceva sempre così mia nonna Agnese, anche se io non ho mai pensato che il lago fosse un luogo pericoloso. Per me è sempre stato molto più di ciò che tu vedi. È stato il luogo dove ho trovato prima il coraggio e poi il piacere di far perdere la strada ai miei pensieri, dove si sono alimentati i miei sogni, dove spesso si è rifugiato il mio animo e soprattutto dove ho imparato ad alzare gli occhi al cielo e non solo per controllare da dove provenissero le nuvole, oracoli di funesti presagi meteorologici, ma per parlare con Lui, che è molto più in alto di questa “piazza” di cui parlava mia nonna. Questo non è solo un lago. Questo è il Lago di Garda, che va ben oltre ciò che puoi pensare, ed è molto più di questa cartolina che ora osservi, rigirandola fra le tue mani. È un luogo che va oltre qualsiasi altra cartolina, la più bella cui puoi pensare, quella che ancora non è stata stampata e che forse, se esistesse, raffigurerebbe un grande specchio dove l’azzurro del cielo si lascia incorniciare dalle verdi montagne che baciano l’acqua. Se non lo hai ancora capito, questo è un posto magico. Un luogo dove si sono radicate le vicissitudini che hanno contraddistinto i cinquecento anni di storia della mia famiglia e che, in qualche modo, continua a condizionare il mio pensiero, il mio modo di interpretare la vita e di confrontarmi con il prossimo, arrivando a plasmare il mio essere gardesano. Qui

la gente è sapida, è simile al vino e all’olio che oggi hai assaggiato, è simile a questo lago. Se arriverai a conoscerla, ti accorgerai che il gardesano porta con sé alcune asperità e alcuni limiti culturali e caratteriali, ma è aperto, è come il Garda, disponibile, ospitale, vero, schietto, limpido come un chiaretto, liscio e fine come l’olio di oliva. Sai perché i gardesani sono così? Credo che tutto dipenda dal lago, che ci ha abituato alla condivisione dei vari elementi che lo caratterizzano: l’acqua, il cielo e il sole. Ora ti è chiaro come mai il Garda è un luogo unico? Per comprendere il significato di cosa io stia dicendo basta che ti affacci dal terrazzo di questa cantina e che tu guardi laggiù verso il lago. Sono sicuro che con un colpo d’occhio capirai tutto e avrai ben chiaro il motivo per il quale, ogni tanto, io ho il bisogno di trovare rifugio in questo paesaggio, ricercando in esso la serenità, la forza e la determinazione che mi spingono ancora a fare ciò che faccio e a difendere questo territorio. Una difesa che oggi, forse, è più semplice rispetto a qualche anno fa, poiché un po’ ovunque si è radicata la coscienza di una maggiore sensibilità verso l’ambiente e quegli elementi ad esso collegati che contraddistinguono gran parte dei valori della qualità della vita che tutti vogliamo recuperare. Ti posso assicurare, però, che, negli anni passati, difendere questa agricoltura e il territorio dalla speculazione edilizia e dalla conseguente commercializzazione turistica degli immobili, non è stata una cosa semplice. È stato più complicato di quanto possa apparire.

Le cose cambiarono a partire dal 1963, l’annata della catastrofica grandinata, e cominciò proprio in quell’anno l’irreversibile migrazione della popolazione dalle campagne con il conseguente abbandono delle terre coltivate. Negli anni successivi avvenne una riconversione del sistema economico che vide la trasformazione dell’intera area da agricola a turistica. Il cambiamento che coinvolse l’ambiente provocò molti traumi e stravolse il paesaggio. La campagna si riempì di capannoni commerciali, di residence, hotel, campeggi e di decine di quelle ambite villettine a schiera che ogni bresciano, milanese o bergamasco voleva acquistare come segno evidente del suo raggiunto benessere economico. I terreni vicini al lago, dediti in origine all’agricoltura, subirono la sorte che puoi immaginare, ma al dramma del cemento che avanzava si aggiunse la perdita di quella cultura contadina che, per secoli, aveva caratterizzato queste terre. Fu un’emorragia inarrestabile: olivi e viti furono estirpati, mentre molti agricoltori si improvvisarono albergatori, ristoratori o, peggio ancora, imprenditori edili. Le terre meno aggredite da questa speculazione sono rimaste per un po’ di tempo quelle più alte, quelle di collina, giusto il tempo, fortunatamente, perché si venisse a costituire una nuova e maggiore coscienza ambientale. Così queste colline, e in particolare queste del comune di Puegnago, che sono coltivate per il 95%, sono state difese da “matti” come me che hanno ritenuto più importante soddisfare il proprio amore per la terra che avere un cospicuo conto in banca. Uomini

COMINCIOLI


127


COMINCIOLI

NOTES

che, a prescindere dai ritorni economici delle loro attività agricole, hanno investito denari, impegno e tempo nella conservazione e nella tutela del territorio, cercando di mantenerne gli aspetti più peculiari e caratteristici come l’olivo e la vite. Per fare questo è stato necessario essere dei “fantasisti”, dei sognatori, persone desiderose di vivere del frutto del lavoro della terra. Questa fantasia, questo sogno, questo desiderio, credo di averli ereditati da mio padre ed è la stessa eredità che vorrei lasciare ai miei figli. Sì, è certamente a mio padre che devo molto, al suo “integralismo agricolo” per questa terra, al suo rigore per il lavoro, al suo approccio etico e onesto verso il mondo del vino e la viticoltura, ed è a queste cose che spesso io faccio riferimento. Per questo non ho avuto nessuna incertezza nel decidere di continuare a fare l’agricoltore, cercando di proseguire come aveva fatto prima di me Giovanni Battista, andando spesso contro corrente, abbandonando le strade facili, quelle più scontate e ovvie, per perseguirne altre, ricche solo di dubbi e incertezze, ma, proprio per questo, molto più affascinanti e con le quali guardare con un’ottica di speranza al futuro, coniugando allo stesso tempo ciò che mi è stato insegnato. In questi anni ho lavorato molto, cercando di eliminare molte delle certezze che mi ero costruito, rivedendo ogni mio singolo pensiero e ripensando l’approccio ai vari problemi, mettendo in discussione le codificazioni che mi portavano ad avere risposte automatiche rispetto ai problemi stessi. Il vino e l’olio che producevo fino a qualche anno fa mi sono serviti molto in questo processo; sebbene mi siano così profondamente familiari, ho visto questo territorio e questo lago con occhi diversi e ho scoperto che, in fondo, c’è bisogno solo di interpretare tutto in chiave moderna, senza falsificare quelle peculiari caratteristiche che, nei secoli, ci hanno consentito di essere gardesani.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, calcarei, ricchi di ciottoli, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 260 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Groppello 85%, Sangiovese 5%, Barbera 5%, Marzemino 5% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 4.700 ai 7.100 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione dei grappoli che hanno una conformazione più diradata, i quali sono posti nel fruttaio per un periodo di appassimento di 40 giorni. Raggiunto il grado zuccherino voluto, si procede ad una diraspapigiatura delle uve e il pigiato, posto in tank di acciaio con griglie sospese che mantengono sollevate le bucce dal fondo botte, è inoculato con lieviti selezionati e avviato alla fermentazione alcolica. Durante questa fase, che si protrae per circa 14 giorni ad una temperatura compresa tra i 7°C di partenza e un massimo di 28°C, vengono effettuati frequenti délestages, mentre, contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che invece si protrae per altri 20 giorni, durante i quali viene effettuato almeno un rimontaggio giornaliero. Dopo la svinatura e una pulizia statica, il vino è rimesso in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, dopo la quale è posto in barriques e tonneaux di rovere francese a grana fine e media tostatura, di secondo e terzo passaggio, in cui rimane per 15 mesi. Dopo la maturazione e un ulteriore breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un affinamento di altri 10 mesi prima di essere commercializzato.

Riviera del Garda Bresciano Groppello DOC Suler

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Groppello, Sangiovese, Barbera e Marzemino provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nelle località Carrera, Roccolo Pedemonte e Semonte nel comune di Puegnago del Garda, le cui viti hanno un’età compresa tra i 40 e i 60 anni.

Quantità prodotta: 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un sorprendente Groppello che veste il bicchiere di un bel colore rosso rubino intenso; si presenta all’esame olfattivo con profumi vegetali di peperoni arrostiti, percezioni speziate di cannella, cardamomo, pepe, caffè, peperoncino e note di cioccolato al latte che si mischiano ad un fruttato di prugne, more e lamponi maturi e a un pot-pourri di fiori appassiti. In bocca è elegante, caldo, pieno, con una fibra tannica ben evoluta sorretta da una bella freschezza che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997, 1999, 2001, 2003, 2004, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dalla parola con cui in dialetto si indica il fruttaio dove vengono riposte le uve ad asciugare, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Comincioli dal 1552, l’azienda agricola si estende su una superficie di 23 Ha, di cui 11 vitati, 10 occupati da oliveto e 2 da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Massimiliano Perazzoli e l’enologo Giuseppe Piotti.

129


MARIELLA MORETTI

Guardo mio marito e le mie figlie e, in cuor mio, spero sempre di essere capace di raccontare loro la storia più bella della giornata. È un impegno preso con me stessa tantissimi anni fa e non per sentirmi al centro delle loro attenzioni o la prima della classe, ma solo per trovare il mezzo più semplice - per una moglie e una mamma - di far ascoltare quanto grande sia il sentimento d’amore che mi lega a loro. Ho sempre voluto che fuori della nostra casa ci fosse un immaginario e profondo pozzo dentro il quale, prima di entrare, potessero gettare tutte le brutte storie che succedono fuori da queste mura domestiche: dagli insuccessi ai rimpianti, dalle diatribe alle amicizie tradite, dalle malvagità alle cattiverie subite. Se compissero sempre quel gesto, sono sicura, si rasserenerebbero e avrebbero il cuore libero e la mente sgombra per ascoltare le piccole e silenziose storie che, ogni giorno, racconto loro ormai da moltissimi anni. Storie fatte anche di gesti quasi insignificanti, di parole semplici “impastate” con la pazienza, di ricordi, di foto sparse un po’ ovunque nella casa, di sculture di cui mi piace circondarmi e di piccoli souvenir presi in giro per il mondo che mi ricordano non solo dove sono stata in viaggio, ma che, soprattutto, sono a

casa. In ogni caso, belle storie, che fanno bene al cuore, che fanno sorridere, danno gioia e iniziano sempre con “C’era una volta”, ma non proseguono mai con “ed ora non c’è più”, poiché, con gli anni, ho scoperto che c’è sempre qualcosa di bello che ci attende. Storie che racconto a protezione della memoria e che si basano sulla speranza, sulla solidarietà, sul legame stretto che mi lega a questo territorio, alle sorelle e ai fratelli, ai cugini e ai nipoti che in questa casa hanno sempre trovato un punto di riferimento, magari solo per un consiglio o per un aiuto - se richiesto - che è stato sempre dato disinteressatamente, con il cuore. Sono legami importanti, sui quali mi piace spesso ritornare, magari ricamandoci un po’ sopra, per innescare così altre storie che parlino di come eravamo o di cosa siamo diventati oggi, ognuna delle quali potrebbe iniziare con quel “c’era una volta una famiglia con tredici figli” o con quella che riguarda nonno Lorenzo, il papà di mia mamma Miriam che, ancora oggi, considero il mio angelo custode, perché è stato quello che mi ha fatto conoscere quanto la vita possa essere bella e, ancor di più, mi ha fatto apprezzare le cose magnifiche che in essa si rivelano, come l’arte, la storia, la filosofia,

la poesia, innescando in me quella grande voglia che ancora mi caratterizza - di viverla pienamente. Nonno Lorenzo, al quale ho dedicato una vecchia chiesetta di campagna a Suvereto (nell’azienda Petra che abbiamo in Toscana), era un friulano, adottato e cresciuto in una famiglia nobile dalla quale aveva ricevuto una buona educazione. Ricordo che parlava benissimo l’italiano, lingua poco in uso nel bresciano a quei tempi, e i suoi 10 figli dovevano fare la stessa cosa: sedersi a tavola tutti insieme, studiare, rispettare le feste e recitare, prima di mangiare, l’Angelus Domini di ringraziamento al Signore. Storie come queste assomigliano a certe favole e, come tali, non lasciano mai l’amaro in bocca, poiché hanno sempre un lieto fine. In nessuna mi sentirai menzionare, infatti, persone cattive o malvagie, né quel “tanto ormai...” a cui ci si abbandona spesso quando sembra che la vita non ci dia un’altra opportunità; una frase che non ho mai pronunciato neanche quando ero in un letto di ospedale, a Houston, negli Stati Uniti, e, per mesi, ho combattuto contro una malattia che ha rischiato di interrompere quel “C’era una volta” con il quale iniziava la favola del meraviglioso viaggio che sto facendo ormai da cinquant’anni al fianco

CONTADI CASTALDI


131


CONTADI CASTALDI di mio marito Vittorio. Un viaggio sul quale potrei scrivere un libro, per quanto è stato bello ed entusiasmante, per come si è sviluppato nel tempo e per come e per cosa siamo stati capaci di realizzare: stare insieme per tutto questo tempo senza mai litigare un solo giorno, costruire una solida famiglia che si è arricchita, negli anni, di tre splendide figlie e portare avanti, attraverso l’esperienza, la voglia e la determinazione di Vittorio, diverse attività imprenditoriali fra cui alcune aziende vitivinicole, a capo di una delle quali, la Contadi Castaldi, mio marito ha voluto che ci fossi io. Sì, il nostro è stato proprio un viaggio nel quale, come succede spesso, si intrecciano altre storie, che meriterebbero anch’esse di essere raccontate, magari intorno a un tavolo, non per sentir parlare di paesi lontani, di animali esotici o di tramonti inverosimili su isole sperdute, né di bilanci, di strategie di mercato o di marketing, ma, semplicemente, per ascoltare le parole del cuore che abbiamo da narrare Vittorio ed io. So già che lui si sentirebbe in imbarazzo e si metterebbe in disparte, come un “orso buono”, seduto in silenzio ad ascoltare, lasciando che a parlare di quelle cose fossi io; cose semplici che hanno scandito la nostra esistenza nella quale abbiamo saputo costruire un grande rispetto reciproco, suddividendoci i ruoli e le competenze, così da comprendere quanto fosse importante l’impegno dell’uno e dell’altro all’interno del nucleo familiare. Certe storie abbiamo imparato a costruirle stando vicini, mentre altre ce le siamo portate dietro dalle nostre esperienze passate, come quelle che riguardano le mie specifiche competenze di donna cresciuta in una famiglia patriarcale, dove la più anziana aveva le chiavi di casa. Storie che mi fanno ricordare quando ero piccola e osservavo nonna Lucia che, con l’autorità e il rispetto che si era conquistata in novant’anni di vita, richiamava l’attenzione di tutte le altre donne di casa, grandi e piccole che fossero, alle quali diceva “ria iom” (“arrivano gli uomini”), e dettava gli ordini e i tempi affinché tutto fosse a posto per quando gli uomini ritornavano dal lavoro. Credo che fosse quello il concetto arcaico che i latini identificavano con il focus, a protezione del quale dovevano esserci le donne che avevano l’importante ruolo di guardiane e custodi del fuoco sacro intorno a cui si riuniva la famiglia con le sue tradizioni e la sua storia. Un viaggio che mi ha portato da Adro a Erbusco, in una Franciacorta che si è trasformata con me e nella quale, oggi, mi sento un po’ più sola di una volta, quando uscendo di casa conoscevo e salutavo tutti. Era un mondo diverso che è andato trasformandosi ed ecco che entrano in gioco, in questo caso, quelle mie semplici e banali storie che iniziano con “c’era una volta”. Anche sulla sede attuale della cantina della Contadi Castaldi, che prima era una vecchia fornace di proprietà di Biasca e Pellizzari, c’è una storia che si intreccia con i miei ricordi di fanciulla, quelli che mi legano alla famiglia Biasca e in special modo alle figlie della signora Emilietta Biasca - che è stata anche mia madrina - e le mie reminiscenze di zio Leone che frequentava un “Licenzino”, uno di quei luoghi dove si usava vendere il vino, situato proprio vicino a quella fornace, dove andavo a prenderlo tutte le volte che beveva qualche bicchiere di troppo e non faceva più ritorno a casa... Quando la fornace fu messa in vendita, convinsi Vittorio ad acquistarla e, forse, è per questa mia insistenza che mi ha voluto responsabilizzare affidandomi le sorti stesse della cantina. Insomma, a queste favole attingo per ricordare e molte volte mi scaldano come una bella coperta di lana, mi tranquillizzano e mi pongono in armonia con me stessa, e io, guardando mio marito e le mie figlie, sono sempre capace di raccontar loro la storia più bella della giornata.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay e Pinot Bianco provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nei comuni di Erbusco, Nigoline, Torbiato e Colombaro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 12 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici in parte profondi, ma mediamente sottili e fluvioglaciali, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso e calcareo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 380 metri s.l.m. con un’esposizione a est, sud, sud-ovest, ovest. Uve impiegate: Chardonnay 87%, Pinot Bianco 13% Sistema di allevamento: Guyot e sylvoz Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 24-36 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 8-10°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase, che si protrae per 14-16 giorni, è svolta alla temperatura di 17°C, per il 70% in tini di acciaio inox e per il 30% in barriques di rovere bianco a grana fine e media tostatura; in questi contenitori il vino rimane fino al mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia, svolgendo in parte la fermentazione malolattica, a seconda delle annate; periodicamente vengono effettuati frequenti sur lies e bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura del vino. In primavera avviene quindi l’assemblaggio delle partite e la realizzazione della cuvée, con l’inserimento di un 10% di vini delle annate precedenti; segue l’imbottigliamento e la conseguente aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 30 mesi, al termine dei quali si procede al remuage meccanico delle bottiglie per 7 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 4 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 140.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore giallo paglierino con riflessi verdognoli che arricchiscono un perlage fine e persistente; al naso si presenta esuberante, intenso e ricco di note floreali che si ricompongono in un bouquet goloso di miele, vaniglia e frutti come pesca, ananas e cedro. In bocca è suadente, vellutato, equilibrato, con una vena sapida che lo sorregge; ci ripropone le note fruttate percepite al naso e ci fa intravedere grandi potenzialità evolutive. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1995, 1997, 1999, 2000, 2001, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà del Gruppo Terra Moretti dal 1987, l’azienda si avvale di circa 40 conferitori che forniscono uve selezionate. Collaborano in azienda l’agronomo Fabio Sorgiacomo e

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Satèn Millesimato

133


OTTAVIA GIORGI DI VISTARINO

CONTE VISTARINO


135

Non lo so immaginare, ma sono convinta che dover affrontare tre matrimoni sarebbe stato meno gravoso del mio inserimento in quest’azienda, anche se mio padre, da bravo contadino, voleva che, subito dopo essermi diplomata, iniziassi a lavorare qui insieme a lui. Preferii, invece, una volta tornata a Milano da Lugano, dove mi ero diplomata, laurearmi in Economia e Commercio all’Università Cattolica, orientando, successivamente, ulteriori approfondimenti didattici sul vino con un master a Brescia organizzato dalla Facoltà di Agraria di Milano. Una volta entrata in azienda, però, fu solo attraverso tenacia e risolutezza insospettate che riuscii a costruirmi una mia personale strada e una precisa identità lavorativa. La cosa non fu facile e gli ostacoli che dovetti superare mi portarono, più volte, sulla soglia di abbandonare la partita che avevo iniziato a giocare al fianco di mio padre. Anni difficili, ma, al contempo, utili per acquisire maggiore autostima e sicurezza nei confronti di questa storica azienda di famiglia e di un lavoro che non conoscevo. È stato proprio attraverso il lavoro e grazie a qualche risultato, ottenuto nel frattempo, che sono riuscita a modificare la mia situazione, ritagliandomi un mio spazio e imponendo che, in azienda, si cominciasse ad imbottigliare vino di qualità superiore. Lo scoglio maggiore incontrato sulla mia rotta era costituito dal contrasto che scaturisce dal confronto generazionale. Questo è successo tra me e mio padre. Tutto ruota intorno a mentalità diverse che basano le proprie convinzioni su esperienze le quali, a loro volta, danno origine a una diversa visione delle cose e, di conseguenza, a una diversa interpretazione di ciò che le circonda; una visione che, con il tempo, modifica il personale approccio alla vita e anche l’idea che ognuno ha di cosa dovrebbe essere fatto o di cosa si potrebbe fare per la propria azienda. Per chi, come mio padre, è nato e vissuto sempre in questa villa, ha dedicato tutto se stesso a questa azienda e non ha

mai viaggiato, né sentito la necessità di misurarsi con l’evoluzione in atto nel mercato del vino, non è stato facile confrontarsi con chi, invece, viaggiando e accrescendo la propria esperienza attraverso svariati campi formativi, riteneva che vi fossero ancora grandi opportunità da sperimentare per l’azienda Vistarino, tutte utili per aprire un nuovo ciclo nella sua secolare storia; magari, in questa storia sarei potuta entrare anch’io, cercando di modificare, almeno in parte, l’approccio al mercato che l’azienda aveva nei confronti del vino, venduto sfuso all’ingrosso. “Tu sei stata troppo all’estero, tu devi fare quello che si fa qui e non se ne parla”. Ricordo che una volta mio padre mi disse proprio così... Contrasti che, comunque, non mi hanno mai fatto dubitare, un solo istante, di quanto fossi fortunata ad avere un padre che mi ha dato l’opportunità di crescere e di costruirmi delle esperienze, lontano da questa casa, con la possibilità di formarmi delle idee e una personale visione della vita. Un padre ricco interiormente di un’infinità di caratteristiche speciali come l’umiltà, la correttezza, il senso dell’onore e del dovere; un uomo che ha fatto della terra la sua ragione di vita, che ha sempre interpretato l’agricoltura come fonte di sussistenza per la sua famiglia e, con il suo innato e tangibile senso di responsabilità, come strumento per trasferire alle generazioni future ciò che gli è stato lasciato in custodia da quelle passate, che oggi consiste in una proprietà di 826 ettari, posti in larga parte nel comune di Rocca de’ Giorgi, di cui 188 vitati e tutti iscritti all’albo della DOC Oltrepò pavese. Un padre al contempo chiuso nella sua radicata convinzione che ciò che aveva dato dei risultati doveva rimanere immutabile e che, se le linee economiche sulle quali si era basata quest’azienda per mantenere le sue dimensioni e le sue forze lavoro occupate, non presentavano eccessive crepe, perché cambiarle? Forse è per questo che a

papà non è mai interessata la mondanità del vino e ha dato poca importanza alle guide e alle degustazioni. Da buon lombardo, pragmatico e concreto, ha sempre preferito basarsi solo sul risultato del proprio lavoro che doveva essere, in ogni modo, qualitativamente conforme a quei criteri che, nel tempo, hanno consentito all’azienda di essere un punto di riferimento importante per i vini prodotti per basi spumanti in Italia, fino al punto che, per molti anni, era proprio l’azienda Vistarino che batteva il prezzo base di quei vini sul mercato italiano. Vini sfusi, quelli che vendevamo in azienda, la cui domanda superava l’offerta, poiché sono sempre stati di alta qualità quelli prodotti qui, a Rocca de’ Giorgi, dove, in molti, sostenevano si vinificasse il miglior Pinot Nero d’Italia. Era un lavoro abbastanza semplice, ma remunerativo, il quale, abbinato alle colture cerealicole, all’allevamento bovino e al taglio dei boschi, ha consentito a quest’azienda di essere un punto di riferimento importante per tutto l’Oltrepò pavese. In questo processo economico si intrecciano anche le storie di alcuni personaggi di famiglia come il mio bisnonno Carlo Giorgi di Vistarino che, con Carlo Gancia, fu il primo, in Italia, a produrre, in grandi quantità, spumanti con metodo Champenois, fornendo a quella storica casa vinicola piemontese le basi per il Pinot della Rocca de’ Giorgi o il Pinot di Pinot che, qualche decina di anni fa, ebbero un grandissimo successo. Davanti ad un quadro così complesso si può immaginare che per me non è stato facile modificare l’opinione di chi, supportato dalla tradizione di famiglia e dai discreti risultati, sosteneva che il vino sfuso doveva essere l’unico pilastro del comparto vitivinicolo, sul quale l’azienda fondava la sua sicurezza economica. Ampliare quei punti di vista ha richiesto una lotta terribile, un impegno quotidiano che trovava spunto sia dal legittimo confronto sulle strategie aziendali, sia dagli oltre 40 anni di differenza che mi separano da mio


CONTE VISTARINO

padre. Riuscire a costruirmi uno spazio ha significato lottare contro il passato, contro i pregiudizi e anche contro gli interessi di chi, al di fuori di mio padre, vedeva le cose diversamente e posso assicurare che non mi ha agevolato essere la figlia del proprietario. Anzi, per dirla tutta, avevo la sensazione di contare meno di tutti gli altri, meno dell’ultima impiegata, poiché, almeno lei, aveva una scrivania, un computer e una postazione dove poter appoggiare le sue cose! Momenti non facili, nei quali ho attinto a piene mani al mio grande senso del dovere - che ho probabilmente appreso in adolescenza durante la mia educazione - attraverso il quale ho cercato sempre di dimostrare agli altri di poter essere all’altezza della situazione. Lo stesso senso del dovere che mi ha fatto lasciare Milano, dove avevo tutte le mie amicizie e i miei affetti, per essere quotidianamente operativa in azienda e lo stesso per il quale ho messo da parte cose importanti come l’amore e forse, tragicamente, anche me stessa. Sapevo che, se volevo ottenere delle cose, dovevo contare solo sulle mie forze. Nessuno mi avrebbe regalato niente e quello che a me sembrava di essermi meritata, in realtà era dovuto e naturale per gli altri, i quali si aspettavano niente di più e niente di meno di ciò che avevo ottenuto: quindi cosa avrei dovuto attendermi? Che si stendessero tappeti rossi al mio passaggio? Anche i miei personali successi passavano per cose normali, come il laurearmi a pieni voti o aver portato su tavole importanti i vini imbottigliati dall’azienda Vistarino, in passato bistrattati. Tutto normale, anzi, qualcuno pensa che sarebbe stato strano il contrario! Ma non importa. Del resto credo sia un percorso dovuto e un prezzo che dovevo pagare per poter acquisire l’esperienza e le capacità per mandare avanti un’azienda come questa, che necessita di uno sviluppo adeguato e di un impegno continuo; se ciò significa dedicarle tutta me stessa lo farò, perché mi piace enormemente, supportata da quel senso del dovere che non riuscirò mai a buttare via, il quale, a poco a poco, si è trasformato in una grande passione.


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla selezione delle migliori uve Pinot Nero provenienti dal vigneto Cascina Pernice, di proprietà dell’azienda, posto nella località omonima nel comune di Rocca de’ Giorgi, le cui viti hanno un’età di 10 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni limosi, argillosi con presenza di sabbia e poco scheletro, è situato ad un’altitudine compresa tra i 250 e 300 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Pinot Nero 100% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a 6/8 gemme Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è sottoposto per 48-72 ore ad una prefermentazione a freddo a 10°C in tank di acciaio dove, a seguito del lento innalzamento della temperatura e della inoculazione di lieviti selezionati, si avvia la fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 30°C, con macerazione a cappello sommerso, durante la quale si effettuano sia uno svuotamento parziale che follature giornaliere. Dopo la svinatura e una breve decantazione statica, il vino è posto in tonneaux e barriques di rovere francese di secondo passaggio a grana fine e media tostatura, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 8 mesi. Trascorso questo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e il vino ottenuto è lasciato per 12 mesi a decantare in acciaio; in seguito viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 7 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: da 6.000 a 30.000 bottiglie a seconda dell’annata Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino luminoso che evolve in riflessi aranciati con l’invecchiamento, il vino si presenta al naso in modo complesso, con profumi di frutti di bosco neri come ribes, mirtilli e more, oltre a piacevoli percezioni di prugne, le quali si intrecciano a note di cassis, viola appassita e muschio e a note speziate di stringa di liquirizia, foglia di tabacco e cacao. In bocca è fine, elegante, con una fibra tannica setosa e una bella freschezza che sostiene e invita alla sua beva lasciando in bocca note fruttate. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2003 Note: Il vino, che prende il nome dalla Cascina intorno alla quale si estende la vigna omonima, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Giorgi di Vistarino dal 1674, l’azienda agricola si estende su una superficie di 826 Ha, di cui 180 vitati, 220 occupati da boschi, 120 a seminativo, 100 a forestazione, 30 collegati alle cascine e il resto adibito a riserva di caccia. Collaborano in azienda l’agronomo Paolo Fiocchi e l’enologo Giacomo Barbero.

NOTES

Oltrepò Pavese DOC Pinot Nero Pernice

137




ROBERTA DOTTI

CONTI SERTOLI SALIS


141

Non so come e neanche cosa sia successo. Sta di fatto che, solo qualche anno fa, non avrei mai pensato di ritrovarmi, insieme a mio marito Giancarlo, alla guida di un’azienda vitivinicola importante e storica come questa dei Conti Sertoli Salis, qui in Valtellina. Invece eccomi qua. Io, che avevo disegnato già i contorni della mia vita di moglie, di madre e di impiegata, ed ero in attesa che gli anni passassero lisci come l’olio, così come pensa di fare la quasi totalità delle famiglie italiane, soddisfatte e felici della loro tranquilla esistenza, mi sono invece ritrovata di botto a quarant’anni imprenditrice vitivinicola. Del resto, cosa ci sarebbe stato di male se avessi seguìto passo passo la crescita dei miei figli Alessandro e Beatrice? Chiedevo troppo se auspicavo di godere del semplice piacere di trascorrere le vacanze con loro? O era irragionevole pensare di andare a letto la sera e dormire in maniera tranquilla senza doversi impegnare a fermare la mente che, invece, adesso, anche in piena notte si arrovella pensando al vino da dover spedire, alle riunioni con la rete commerciale da organizzare, agli obiettivi da definire, ai dipendenti con i quali l’indomani parlare, ai programmi aziendali da predisporre o al bonifico o all’ordine che devono arrivare? Nel mio idilliaco programma non avevo tenuto conto dell’imprevedibilità che sa offrire la vita, né della mia incapacità di prevedere il verificarsi di eventuali e inaspettati fenomeni casuali. Ma se è vero che vi è una logica matematica che calcola meccanicamente, attraverso la conoscenza degli elementi scatenanti, la casualità, io, conoscendo mio padre e il suo desiderio innato di guardare

sempre con curiosità al futuro e di coinvolgere in esso la famiglia, avrei dovuto capire che per me era più facile finire a fare l’amministratrice di una cantina o di un’azienda che sperare di fare la moglie, la mamma o l’impiegata. Così ora eccomi qui, immersa nel mondo del vino che fino a poco tempo fa per me era solo un argomento conviviale e non pensavo certo al suo aspetto produttivo o commerciale. Non conoscendolo, mi limitavo a distinguere il bianco dal rosso ed essendo un prodotto molto lontano dalle mie precedenti esperienze lavorative, lo ritenevo anche un po’ misterioso e certe volte incomprensibile. Quante incognite e quanti notti insonni si sono accumulate e quanti giorni sono stati animati da mille domande e punti interrogativi scaturiti da questa mia ignoranza tecnica! Dopo un breve tirocinio, compresi che, non conoscendo i margini e i sottili giochi che regolano la domanda e l’offerta del mercato del vino, mi dovevo limitare solo a far quadrare i conti nel miglior modo possibile. Un principio basilare che sembra ovvio e scontato, ma che, in una fase di start up come stiamo vivendo noi, è invece determinante per limitare l’entusiasmo e regolare il pessimismo e bisogna avere ben chiaro tutto per riuscire a comprendere le infinite sfaccettature e le molteplici sfumature che determinano i margini di manovra. In questo empirico esercizio devo dire che mi sono trovata un po’ avvantaggiata dal fatto di aver lavorato, per anni, nel settore amministrativo di alcune multinazionali e l’esperienza, non lo nascondo, mi ha aiutato a comprendere, prima e meglio, una serie di problematiche che mi sono state trasmesse dalla

vecchia gestione e che riguardano un po’ tutto il sistema produttivo e commerciale della Sertoli Salis. Magari, forse, si tratta di sciocchezze per tante altre aziende del settore che sono amministrate da esperti e navigati winemakers; per noi, invece, le insidie sono molte, anche se sono sicura che la cosa riguarda solo un momentaneo assestamento aziendale di ruoli e competenze; però, se tutto ciò lo sommiamo alle difficoltà contingenti di recessione che coinvolgono il mondo del vino in generale, e quello della Valtellina in particolare, è logico che la guardia non vada abbassata. Così mi muovo rapidamente, cercando di dare in tempi brevi delle risposte agli interrogativi e agli input che mi arrivano dal mercato, risposte che non consentono nessun margine di errore. Forse quando ogni cosa andrà al suo posto, allora sì che ricomincerò a dormire serenamente e profondamente per una notte intera, ma per ora devo lavorare e cominciare a trovare ad ogni cosa il suo posto, cercando di mettere insieme e in tempi ristretti ogni tassello del puzzle che compone la Sertoli Salis. Tutto questo richiede una dedizione totale che comporta rinunce, la “scomparsa” della vita privata e del tempo da dedicare ai figli e al marito, il quale, amorevolmente e con grande comprensione, mi sta al fianco aiutandomi in questo viaggio che condivido anche con un ristretto numero di collaboratori, i quali, dal nostro arrivo in azienda, si sono dimostrati disponibilissimi ad accettare tutto ciò che di nuovo abbiamo portato, compresa la nostra grande inesperienza. Venire in Valtellina per me ha voluto dire un ritorno alle origini della famiglia, alla provincia, abbandonare la nevrosi di Milano, ricominciare ad assaporare il gusto delle cose


CONTI SERTOLI SALIS

NOTES

semplici e di una quotidianità che si basa sui rapporti umani, anche quelli fatti di incontri veloci: un saluto, un buon giorno, una sincera stretta di mano. Sono affascinata dalla realtà valtellinese, con i pregi e i difetti che in essa si nascondono, così come trovo meravigliosa l’atmosfera di Tirano e il valore del tempo che si è di nuovo dilatato, dove gli inverni sono ancora inverni e le primavere, profumate e colorate come da nessuna altra parte, sono ancora primavere. Eravamo arrivati soltanto da poco, ma notavo che le persone non ci guardavano con sospetto, ma bensì come avrebbero potuto guardare la loro vicina di casa, quella che vive dall’altra parte della strada. Il loro era uno sguardo curioso, privo di cattiveria, comunque interrogativo, come quello che accompagna sempre il passaggio di un forestiero appena arrivato in paese. Erano lì in attesa che noi facessimo la prima mossa e che rivolgessimo loro un saluto che, del resto, era immediatamente contraccambiato da una sincera risposta. È passato poco tempo, ma con Giancarlo ci siamo resi conto che, sebbene con grandi sacrifici, stiamo vivendo la nostra più bella esperienza di vita e che, forse, abbiamo fatto una buona scelta a venire a Tirano. Senza quasi che ce ne accorgessimo, man mano che trascorrevano i mesi, ci siamo rasserenati e sentiti sempre più a casa e questo nostro stato d’animo deve essere trapelato, perché in molti hanno incominciato a capire che eravamo venuti qui perché credevamo sì nella Sertoli Salis, ma soprattutto perché credevamo ancor di più in questa splendida Valtellina. Nel tempo, inoltre, i rapporti sono migliorati, sono nate nuove amicizie e ci siamo ritrovati circondati da persone sempre più disposte ad aiutarci. Di questo siamo felici.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare terrazzata su terreni sabbiosi, limosi, acidi e ricchi di scheletro fine, sono situati ad un’altitudine di 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si rimettono il 30% delle uve nel fruttaio dove rimangono per circa un mese, quindi si procede alla loro pigiadiraspatura, seguendo la stessa procedura delle altre uve che erano già state lavorate in precedenza subito dopo la vendemmia. Il pigiato ottenuto segue sempre lo stesso percorso in cantina e, inoculato con lieviti selezionati, viene avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase è svolta in recipienti di acciaio inox e si protrae per circa 14 giorni ad una temperatura di 28-30°C; in questa fase si ha contemporaneamente la macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuate meccanicamente frequenti follature giornaliere. Dopo la svinatura, il vino svolge la fermentazione malolattica, terminata la quale è posto parte in tonneaux e parte in botti di rovere di Slavonia da 30-50 hl, in cui rimane per 12-15 mesi. Terminato questo periodo di maturazione, dopo l’assemblaggio delle partite, avute sia dalla vinificazione delle uve fresche che da quella delle uve leggermente appassite, la massa così ottenuta rimane per 4-5 mesi a riposo, dopodiché il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 10 mesi prima di essere commercializzato.

Valtellina Superiore DOCG Riserva Corte della Meridiana

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Nebbiolo (varietà Chiavennasca) provenienti da vigneti, alcuni posti in località Sotto Teglio, San Gervaso, Tresenda e Valgeglio nel comune di Teglio, nella zona “Valtellina Superiore”, altri nelle due sottozone “Grumello” e “Sassella”, le cui viti hanno un’età di 40 anni.

Quantità prodotta: 21.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi intriganti di nocciole, confetture di more e lamponi maturi che si aprono a note di garofano, cioccolato, pepe nero e pelliccia. In bocca è caldo, sensuale, intrigante e delicatamente tannico, risultando piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1996, 1999, 2002, 2004, 2005, 2007 Note: Il vino, che prende il nome da una corte interna di palazzo Salis a Tirano, dove è posta una meridiana e dove il vino stesso affina nelle storiche cantine cinquecentesche, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: L’azienda agricola coltiva una superficie di 7 Ha, tutti vitati, e ritira, seguendola direttamente, la produzione di circa 40 Ha. In azienda l’agronomo è Fabio Romegialli, mentre gli enologi sono Vittorio Fiore e Barbara Tamburini.

143


VITTORIO LANCINI

CORNALETO


145

Non so da dove cominciare per raccontarti il motivo per cui io faccia, oggi, il vignaiolo e in questo compito non mi agevola certo l’indole tipica di noi franciacortini di misurare le parole. Del resto non potrebbe essere diversamente, dato che sono lo “stereotipo” del bresciano che dedica la sua vita al lavoro, sia che si tratti di un impiego, di un’attività umile o di una più importante, nella quale ricerca, sempre, con innata capacità, non solo l’appagamento delle sue primarie necessità, ma anche di quelle passioni che lo aiutano a non farsi venir meno l’impegno, elemento indispensabile per raggiungere gli obiettivi che si è prefissato. Un impegno che non lascia spazio a troppe parole o a divagazioni linguistiche e, per comprendere il significato di cosa io ti stia dicendo, basta che tu osservi attentamente cosa ci circonda per capire come, senza troppe chiacchiere o giri di parole, sia sbocciata questa Franciacorta enologica che 40 anni fa non esisteva. Sappi che questo territorio viticolo è l’esempio evidente della cultura bresciana, poiché esiste per l’impegno e la passione di noi franciacortini e per merito di quell’innato senso del dovere che tu definisci il nostro “voler bene al lavoro”. Hai notato quante aziende vitivinicole sono presenti sul territorio? Saranno un centinaio, o forse anche più, e molte di loro, solo fino a qualche anno addietro, non esistevano. Sono nate come funghi grazie allo sforzo economico di operatori da annoverare nell’intelligentia generata da questa provincia; imprenditori che, pur avendo

un background diverso, seguono il comune intento di far conoscere i vini della Franciacorta nel mondo. Sono uomini che, affermatisi con le loro imprese nelle più molteplici attività economiche, da quelle che interessano il settore metalmeccanico a quelle che operano nel settore delle costruzioni, da quelle della plastica a quelle tessili e manifatturiere - dove anche noi operiamo - hanno ritenuto utile ampliare i loro interessi mettendosi a fare i vignaioli e cercando di modificare, con le loro esperienze, il mondo vitivinicolo della Franciacorta. Visti i risultati credo che dovremmo essere tutti contenti di ciò che fin qui è stato fatto e non ha importanza se qualcuno storce la bocca davanti a questa managerialità che è entrata così prepotentemente nelle vigne della zona; poco importa se non è poetica o se non ha un’immagine “bucolica”: l’importante è che - ed ecco che qui viene fuori il carattere del bresciano - arrivino dei vantaggi concreti per il territorio, cosa che, fino a questo momento, è avvenuta. Quest’area vitivinicola è nata così, velocemente, anche se esisteva già una tradizione a testimonianza della quale vi sono memorie storiche che risalgono a vecchie date. Anche in famiglia avevamo avuto qualche esperienza. Ricordo, infatti, che anche i miei nonni avevano delle vigne in affitto, ma producevano vini per il solo consumo familiare, con i quali difficilmente riuscivano a superare l’anno successivo alla vendemmia. Storia e tradizione a testimonianza delle quali c’è anche lo stemma del comune di Adro che riporta da sempre una

“A” contornata da grappoli d’uva: sicuramente l’indicazione di un’importante attività vinicola che, anche nel passato, doveva essere radicata in questo paese. A ulteriore supporto di ciò, vi sono anche alcuni vecchi detti che appartengono alla tradizione popolare e che ricordano la qualità dei vini prodotti in zona, come Ader l’è ‘l pader, Cavriöl al fiöl, cioè Adro è il padre - avendo il territorio delle peculiari caratteristiche che vedevano la produzione di vini più robusti e longevi - Capriolo, il paese confinante, il figlio - essendo quella zona predisposta alla produzione di vini giovani e di pronta beva. In queste menzioni paesane non si nominava il paese di Erbusco, che oggi è invece considerato la capitale della Franciacorta, vuoi perché c’è la sede del Consorzio, vuoi perché ci sono alcune fra le cantine più grandi e conosciute della zona. Fu mio padre Luigi a dar vita a questa avventura enologica nel 1968. Dopo l’arrivo di qualche “acciacco” provocato da stress da lavoro, egli pensò di diversificare la propria attività che consisteva principalmente in una piccola fabbrica nel ramo tessile e abbigliamento - da lui creata subito dopo la guerra, partendo con una piccola attività commerciale di merceria - per arrivare ad un’industria dove produceva camicie e telerie con un centinaio di persone occupate. Ricordo che comprò questi terreni, allora incolti, all’asta, facendo la felicità di nonno Alessandro, il quale, da buon agricoltore, sapeva bene quanto


CORNALETO

NOTES

valessero, avendoli a lungo e inutilmente sognati. Senza esitare, mio padre cominciò subito i lavori di ristrutturazione della campagna e della casa colonica; quello che era un casolare isolato, sperduto, invisibile dalla strada e coperto dal bosco che aveva ormai nascosto tutto, divenne, in breve, una bella azienda vitivinicola, ottimamente strutturata che, da una posizione elevata, domina praticamente tutta la vallata occidentale della Franciacorta, con lo sguardo che spazia dalla pianura alle colline bergamasche fino al Monte Rosa. Quelli erano gli anni in cui studiavo, ma, pur non avendo un indirizzo scolastico specifico, mi ritrovai a vivere la campagna e le attività ad essa collegate con sempre maggiore coinvolgimento, anche se, a dire il vero, non ebbi una vera e propria folgorazione per il mestiere di vignaiolo. Abitando in cascina, crescendo insieme all’azienda e seguendone la sua graduale metamorfosi, mi ritrovai, involontariamente, coinvolto nel seguire le vigne, la vendemmia e le lavorazioni dei vini che andavamo producendo e partecipare a queste operazioni mi aiutò a comprendere quale fascino suscitasse in me il vino. È successo così e non è vero che tutto arriva per caso. Giorno dopo giorno scoprii dì avere dentro una forte passione per quel lavoro di vignaiolo che mi ha fatto crescere e acquisire quel minimo di esperienza che mi ha consentito - quando è venuto a mancare mio padre - di superare la sua perdita, essendo preparato a continuare ciò che, insieme, avevamo avviato. Oggi Cornaleto è una piccola realtà, come avrai ben capito, che si pone come obiettivo quello di vendere bene le sue centocinquantamila bottiglie, cercando di realizzare ad ogni vendemmia dei vini che sappiano parlare e far parlare di noi, perché, come ti dicevo, la concorrenza, qui in Franciacorta, è


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di origine morenica, mediamente sottili, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso sabbioso-calcareo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 500 metri s.l.m. con un’esposizione a sud / sudovest. Uve impiegate: Chardonnay 70%, Pinot Nero 20-25%, Pinot Bianco 5-10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 5.000 ceppi per Ha

3.000

ai

Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura di 16°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 8-10 giorni, alla temperatura di 18°C, ed è svolta in tank di acciaio, dove il vino rimane fino al giugno dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite, al successivo imbottigliamento previa aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti da un minimo di 5 fino ad oltre 15 anni, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 35 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e al contemporaneo rabbocco con vino della stessa annata, che è stato conservato e ora utilizzato come liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina poi per altri 6 mesi in cantina prima di essere commercializzato.

Franciacorta DOCG Pas Dosé Millesimato

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay, Pinot Nero e Pinot Bianco provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Saline, Corno Nero e Cornaleto nel comune di Adro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 25 anni.

Quantità prodotta: 1.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un buon perlage, fitto e numeroso, è il preludio visivo di questo vino che si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati; all’esame olfattivo sprigiona profumi di cedro e frutti tropicali come mango e ananas, a cui si aggiungono poi vaniglia, lievito biscottato e mentuccia selvatica, con un finale che ricorda anche note di cipria. In bocca ha un’entratura asciutta, sapida, rotonda, armonica e molto piacevole. Bella struttura e ottima persistenza. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1992, 1997, 1998, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Lancini dal 1968, l’azienda agricola si estende su una superficie di 35 Ha, di cui 18 vitati e 17 occupati da prati e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Pier Luigi Donna e l’enologo Cesare Ferrari.

147


MATTIA, IMER VEZZOLA

Sono tante le cose che dovremmo approfondire e ci rimane difficile concentrarle tutte in un unico ragionamento; francamente non sappiamo da dove iniziare per descriverti l’importanza che entrambi diamo alla nostra viticoltura gardesana. Potremmo iniziare a raccontarti che siamo sempre stati legati a questa cantina e che per costruire intorno a lei un vestito degno di una bella e vera azienda vitivinicola non ci siamo risparmiati in niente, intraprendendo un bellissimo viaggio iniziato nel 1978 e che ancora oggi è di là dal concludersi. Un viaggio durante il quale c’è stato bisogno del contributo di ognuno di noi due; e questo contributo, senza esitare, non lo abbiamo elemosinato, anzi, lo abbiamo fornito in abbondanza, basandoci su ciò che era nelle nostre possibilità e su ciò che avevamo dentro, scoprendo, molto più tardi, che da quest’azienda ricevevamo in cambio anche molto di più dell’impegno profuso, non solo in termini economici, ma nell’appagamento di quelle gratificazioni personali, morali e spirituali, che ognuno di noi due stava cercando, sentendosi più realizzato, protetto, libero, creativo o imprenditore di se stesso. È così che questa azienda è

cresciuta e per noi va ben oltre il percettibile e non tocca solo le cose materiali che tu vedi, ma vola in alto sospinta dalla passione, dalla voglia e dalla determinazione ed è guidata con un unico principio: quello della lealtà, che ci ha permesso di superare sempre le incomprensioni che nascono dai nostri caratteri più o meno simili e ci ha fatto sempre apprezzare le peculiari caratteristiche che ognuno di noi ha messo in gioco nell’azienda. Per noi la cosa importante è sempre stata che ci incontrassimo su quel principio, sapendo che se lo avessimo rispettato ci saremmo trovati ogni volta davanti ai risultati che ci eravamo ripromessi di raggiungere e questo è un ragionamento che esula dal fatto che siamo due fratelli, perché sarebbe valido anche se fossimo due soci: ciò che conta è avere gli stessi obiettivi e rispettarsi. Un viaggio che ci ha portato a far crescere questa cantina portandola agli standard qualitativi a cui miravamo, partendo da una situazione che era ancora peggiore di quella che vedeva, agli inizi degli anni Sessanta, la ditta Vezzola Mattia e Figli - alla cui guida c’erano nonno Mattia, papà Bruno e lo zio Franco - commercializzare circa

4.000 quintali di vino venduto sfuso, in damigiane o in botti. Del resto quella cantina era lo specchio fedele della situazione che viveva la viticoltura del Garda in quegli anni, in cui, nel versante bresciano, c’erano una decina di grandi commercianti di prodotti enologici che facevano il bello e il cattivo tempo nel settore e che giornalmente distribuivano centinaia di ettolitri di vino sfuso di qualità mediobassa a tutto l’interland che va da Brescia a Milano. C’erano grandi cantine che non avevano un metro quadrato di vigna, ma movimentavano tanto prodotto; scomparvero fra la metà degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, soccombendo non solo per l’abbandono dei terreni agricoli da parte di chi aveva preferito occuparsi nell’industria siderurgica, manifatturiera e turistica, ma anche per l’incapacità di leggere l’evoluzione che stava avvenendo nel mondo del vino. Anche nostro padre, pur essendo uno capace di interpretare la vigna come nessun altro, non seppe cogliere quel cambiamento; non capì che dopo aver tagliato quel grappolo d’uva a cui dedicava tutto se stesso c’era bisogno di un nuovo imprenditore vitivinicolo che sapesse interpretare non solo

COSTARIPA


149


COSTARIPA l’intera filiera produttiva, innalzandone la qualità, ma che sapesse leggere i segnali che arrivavano dai mercati. Era questo lo stato dell’arte dell’agricoltura gardesana quando decidemmo di dare continuità alla storia della cantina di famiglia ed è facile comprendere quanta passione ci sia voluta per dare nuova identità alla struttura e vita a quei terreni ormai abbandonati per arrivare a questi livelli qualitativi. Non è stato facile ricostruire, proteggere e mantenere attiva questa viticoltura, soprattutto quando si hanno vigneti che si specchiano nelle acque del lago. Erano gli anni in cui a nessuno sembrava interessare più la vigna, schiacciata com’era nella morsa di una scarsa redditività e di una speculazione edilizia che, come ti sarai accorto, ha stravolto, più di ogni altra cosa, quest’ambiente che, in ogni modo, pur avendo irreparabilmente orientato la sua originale predisposizione agricola verso una prettamente turistica, rimane l’ideale per la coltivazione della vite, dell’olivo e degli agrumi. Ciò che rende unica questa nostra viticoltura è proprio il sistema pedoclimatico che la caratterizza, che si basa su un clima tipicamente mediterraneo e su un suolo morenico. Sono proprio questi elementi che, interagendo fra loro, riescono a porre in un equilibrio quasi perfetto quei punti che di solito creano il distinguo fra vino e vino e che sono alla base della struttura di ogni prodotto enologico, quale la parte alcolica per intenderci, la dolcezza e l’acidità, intesa quest’ultima come freschezza. Punti che qui riescono ad essere equidistanti fra loro e consentono a noi vignaioli gardesani di far nascere, in maniera naturale, vini che hanno alla loro base un buon bilanciamento e un buon equilibrio fra gusto e sapidità. È proprio la sapidità l’elemento caratterizzante. Potendo già contare su vini che di per sé hanno una gradazione alcolica moderata e sono naturalmente più eleganti, sottili, meno muscolosi e strutturati di altri, essa crea un distinguo importante e fornisce ai nostri vini una connotazione unica, che è più vicina ai francesi di Bordeaux che a quelli delle zone circostanti. Ora capisci perché crediamo in questo territorio e abbiamo puntato su di esso? Allo stesso tempo da queste poche parole dovresti anche aver compreso come intendiamo proseguire in questo nostro viaggio, pur se gli argomenti da affrontare sarebbero molti di più e toccherebbero l’aspetto qualitativo della vita e della professione, le amicizie che si intrecciano in questo mestiere e tante altre cose ancora...


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Groppello, Sangiovese, Barbera e Marzemino provenienti dal vigneto in affitto posto in località Brede, nel comune di Moniga del Garda, le cui viti hanno un’età di 40 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni morenici, calcarei, ricchi di ciottoli, nelle vicinanze delle acque del Lago di Garda, è situato ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 260 metri s.l.m. con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 30%, Marzemino 10%

Groppello Barbera

50%, 10%,

Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 4.500-5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura di tutte le uve raccolte e il mosto ottenuto è sottoposto ad una macerazione a freddo che si svolge alla temperatura di 10°C per 10 ore. Una volta ottenuto il colore desiderato, il mosto, inoculato con lieviti selezionati, è posto in tonneaux da 400 lt, dove prosegue la fermentazione alcolica, che nel frattempo è iniziata, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui matura per 12 mesi; in seguito, dopo un periodo di affinamento, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bellissimo colore che ricorda i petali della rosa, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi fruttati di giuggiole, nespole, fragoline di bosco selvatiche, lamponi e mirtilli che si mischiano a note leggere di cioccolato bianco, cipria e pietra focaia per sommarsi poi ad affascinanti percezioni ossidative, minerali e saline con un finale di macchia mediterranea e nuances floreali di ginestra. In bocca è sorprendente, originale, ricco di personalità, ma soprattutto piacevole, fresco e di bella beva; risulta anche lungo e persistente. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2003, 2005, 2007

2001,

Note: Il vino che prende il nome da Pompeo Gherardo Molmenti, ideatore nel 1896 del Chiaretto di Moniga del Garda, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Vezzola dal 1936, l’azienda agricola si estende su una superficie di 35 Ha, tutti vitati. Svolgono funzioni di agronomo e di enologo Imer e Mattia Vezzola.

NOTES

Garda Classico Chiaretto DOC Molmenti

151




DAVIDE FASOLINI, PIERPAOLO DI FRANCO

Ponte in Valtellina, mercoledì 4 giugno 2008

Caro amico, ti scrivo perché è tanto che non lo faccio e ne ho sentito forte il bisogno. Ma perché proprio oggi, mi dirai? Del resto come darti torto? Dopo tutto questo tempo... Ripensandoci bene, oggi, in definitiva, non è che sia un giorno speciale, né uno di quei giorni nei quali succedono chissà quali cose, quindi perché scriverti? Beh..., anche se è un giorno qualunque, come tanti altri, e anche se non c’è un motivo ben preciso, ti scrivo per raccontarti che la mia quotidianità, da un po’ di tempo, si è riempita di belle e splendide sensazioni che ho il bisogno di esprimere e, per farlo, ho scelto te, uno che mi è lontano nello spazio, ma, al contempo, vicino nello spirito, così da renderti partecipe di questo momento ricco di emozioni. Volevo uno che, pur raccontandogli delle cose mie, intime e personali, non avrei dovuto guardare negli occhi e arrossire. Lo so che sei impegnato e che non potrai rispondermi, ma non ti preoccupare: stai pure lì nel tuo limbo, nel tuo paradiso o nel posto dove hai scelto di stare. La cosa non mi riguarda. Non voglio parlare di te, ma del mio bisogno di comunicare e di scrivere su questo foglio di carta ciò che sto vivendo. Non so neanche se domani spedirò questa lettera o se la straccerò come ho fatto con tante altre, poiché ho paura di andare oltre e di non essere capace di raccontare, con le parole giuste, ciò che provo.

Del resto, non è facile parlarti di un sogno che è iniziato soltanto qualche anno fa. Non so da dove partire, ma ti assicuro che è di un sogno che ti voglio parlare, uno di quelli che non fai di notte quando dormi, ma di giorno, ad occhi aperti. Il bello è che è speciale e si modifica, trasformandosi di continuo e colorandosi con tinte forti come il giallo del sole, che brucia il viso e le braccia, oppure si veste di un elegante verde o di arancione, come il colore delle arance, altre volte ancora di un marrone scuro come questa terra, oppure di rosso. La stranezza, e al contempo la bellezza, è che in questo sogno ho un socio. So che ora sorriderai. Sì, ho un socio: Pierpaolo, te lo ricordi? Soci in un sogno; trovo la cosa splendida e unica. Pierpaolo, lo hai conosciuto, forse, in una di quelle occasioni in cui organizzavamo con Gando, Dario, Cri, Michi, Max, Anna, Dindo, Paolo, Andre, Leo... quelle nostre zingarate notturne in mezzo ai terrazzamenti delle vigne, dove andavamo a stappare qualche bottiglia di vino, in modo da rubare un po’ di ore alla notte e riempirla di chiacchiere, di canzoni e poesie, contando, negli attimi di silenzio, le stelle in cielo o le luci che, in basso, illuminavano il fondo valle. Il sogno che condivido con Pierpaolo è qualcosa di magico. Pensa: facciamo vino. Sì, siamo diventati vignerons. Veri vignerons, mica per scherzo! Così il nostro sogno, quello di cui ti parlavo, quello di tantissimi anni fa, si è avverato. È fantastico avere un sogno e realizzarlo, non trovi?

Sono emozionato a parlartene, perché so che non a tutti la cosa riesce. Pensa che quest’anno siamo andati per la prima volta al Vinitaly e non ci siamo presentati solo con il nostro vino, che ti piacerà sicuramente, ma anche con il nostro entusiasmo e con molte idee su come vorremmo far diventare questo territorio e su come vorremmo farlo crescere, raccontando a tutti la Valtellina e le grandi opportunità che può offrire. È stato emozionante, credimi, e, pur non conoscendo nessuno, ci sentivamo a casa e ogni persona che veniva al nostro tavolo, sul quale avevamo disposto le nostre bottiglie di vino, ci sembrava un amico di vecchia data, conosciuto e frequentato da un sacco di tempo. La cosa ancor più fantastica è che, questo sogno lo abbiamo iniziato ad occhi aperti, senza una lira in tasca, ricchi solo delle nostre idee e dell’energia che in esse trovavamo. Forse è per questo che non ci siamo arresi davanti a niente e, per poterle realizzare, abbiamo acquisito, per fortuna, dopo la laurea in enologia e in agraria, un po’ di esperienza con stages in cantine un po’ ovunque in giro per il mondo. Quelle esperienze, ti devo dire, ci sono servite per ampliare i nostri orizzonti, che sono cambiati; si sono aperte le porte di un universo di cui non riusciamo neanche a percepire i confini. Sto lavorando come non avrei mai pensato di riuscire a fare, ma i sacrifici sono ben ripagati dai risultati che otteniamo. Le tasche, invece, sono sempre vuote, anche perché il vino che produciamo non è sufficiente neanche per mantenerci e così alla sera, nei fine settimana, dopo aver lavorato

DIRUPI


155


DIRUPI

NOTES

tutto il giorno in cantina o in vigna, Pierpaolo ed io andiamo a fare chi il cameriere chi il pizzaiolo in certi locali della zona dove incontriamo tanti giovani di Sondrio o della Valtellina che, come noi, hanno il desiderio di cambiare le cose e aprire al mondo questa valle. Il nostro sogno è iniziato così, in una di quelle zingarate di cui ti dicevo prima, anche se la cosa doveva covare dentro di noi già da molto tempo, fin da quando andavamo a scuola in bicicletta e avevamo sulla testa, come cappello, il cielo e queste vigne, sospese come trapezisti nel vuoto. Vigne che, a guardarle, rendono unico questo territorio e gratificano il lavoro dei vecchi vignaioli valtellinesi che, nei secoli, hanno modellato un paesaggio che dovrebbe essere posto sotto la protezione dell’UNESCO come patrimonio dell’umanità. Vigne magiche, sospese fra cielo e terra, dove mi rifugiavo quando avevo qualche morosa che mi faceva brutti scherzi o quando volevo isolarmi e starmene, per lunghe ore, solo con i miei pensieri. Sono state proprio queste vigne le muse ispiratrici delle nostre idee. Sono sempre le stesse vigne che ci hanno fatto prendere coscienza di cosa volevamo fare da grandi, spingendoci a pensare che quel lavoro, svolto in passato dai vecchi vignaioli, potesse essere ripreso dai giovani che credono che la Valtellina sia ancora una terra dove poter realizzare i propri sogni. Starei ore a raccontarti cosa abbiamo in testa io e Pierpaolo, cosa ci attende nell’immediato, ma ti devo salutare, nella speranza che tu, leggendo queste righe, non mi dia del pazzo; se anche così fosse, però, non ci sarebbe niente di strano. In fondo serve sempre una sana e genuina follia per affrontare la vita e ce ne vuole ancora di più per rincorrere i propri sogni. Il vino, del resto, deve ricominciare a circondarsi di gente pazza che abbia voglia di divertirsi e sorridere come noi due. Un abbraccio fraterno e, se vieni in Valtellina, chiamami. Il tempo per bere un bicchiere di vino buono con un amico lo trovo sempre. Il tuo Davide


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni terrazzati di origine morenica, bassi, molto sabbiosi e ricchi di silicio e di scheletro, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 400 e 650 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: dai 4.000 ai 6.000 ceppi per Ha

Valtellina Superiore DOC

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Grumello (Dossi Salati), Inferno e Conca di San Fedele nei comuni di Sondrio, Montagna in Valtellina e Poggiridenti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 3 e gli 80 anni.

Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica con l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per circa 14 giorni, ad una temperatura compresa tra i 18 e i 24°C, ed è svolta in recipienti di acciaio inox, dove, contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, che dura 30 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi. Trascorso questo mese si effettuano la svinatura e la pulizia del vino, che viene assemblato e posto sia in barriques di rovere francese di Allier, a grana fine e media tostatura di terzo passaggio, sia in botti di rovere francese di Allier da 20 hl, in cui, oltre a svolgere la fermentazione malolattica, rimane per 18 mesi, durante i quali viene effettuato almeno un travaso. Terminato il periodo di maturazione, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino, luminoso, il vino si presenta all’esame olfattivo schietto, sincero, ricco di personalità e incuriosiscono le sue sensazioni complesse e i suoi profumi speziati di pepe nero, tabacco dolce, cardamomo e vaniglia che si mischiano in un gioco che riconduce al territorio, alle note fruttate di mirtilli, ribes nero e ciliegie. In bocca è sapido, ricco, pieno, avvolgente, sorretto da una bella freschezza che invita alla beva risultando lungo e persistente. Prima annata: 2004 Le migliori annate: 2005, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione dovrebbe essere compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Pierpaolo Di Franco e Davide Fasolini dal 2004, l’azienda agricola si estende su una superficie di 4 Ha, tutti vitati. Svolgono funzione di agronomo e di enologo gli stessi Pierpaolo Di Franco e Davide Fasolini.

157


FRANCESCA, CLAUDIO, GIORGIO FACCOLI

FACCOLI


159

Ognuno di noi si interroga spesso su quali siano i valori e le priorità della vita. Domande che solo all’apparenza sembrano spirituali, filosofiche, astratte, ma che invece generano inconsciamente l’esigenza profonda di mettere ordine nel caos della nostra esistenza. Così ci ritroviamo, talora inconsapevolmente, ad analizzare con severità lo stato dell’arte del nostro divenire, vedendoci costretti, in alcuni casi a rivedere gli obiettivi, in altri addirittura a formulare una dolorosa autocritica sulla realtà dell’esistenza che stiamo vivendo, quasi sempre diversa da come, ciascuno di noi, l’aveva immaginata e voluta. Anch’io in passato sono arrivato ad interrogarmi, ma, ogni qual volta affrontavo l’argomento, mi sentivo soddisfatto di ciò che avevo e di ciò che ero diventato, poiché da sempre ho desiderato essere quel vignaiolo che sono e non ho mai voluto avere niente di più di quanto fosse nelle mie possibilità, né, adesso, vorrei essere un passo avanti o uno indietro rispetto a dove sono arrivato con le mie forze. Questo è ciò che mi ha insegnato mio padre Lorenzo e questo è ciò che io e mio fratello Gian Mario abbiamo messo in pratica. Nessuno ci ha regalato niente e anche se a molti questa azienda, di soli cinque ettari, potrà apparire poca cosa, è questo che noi abbiamo ed è questo che siamo riusciti a costruire con le nostre mani e con la nostra volontà. Non possiamo lamentarci, dato che sappiamo benissimo cosa valeva e cosa voleva dire fare i contadini o i vignaioli in Franciacorta fino a trent’anni fa, quando c’erano sì e no una quindicina di aziende vitivinicole. Tra queste, quelle che riuscivano a sopravvivere producendo e vendendo il loro vino erano non più di quattro o cinque, mentre le altre appartenevano a nobili o a industriali. Pochissimi, allora, potevano fregiarsi dell’appellativo di vignaiolo “alla francese”, per intenderci quello che dedica

ogni giornata della sua vita al vigneto. Inoltre era lontano il momento in cui la Franciacorta avrebbe fatto intravedere le sue grandi potenzialità, cosa che accadde a partire dal 1983, anno in cui qualcosa cominciò a muoversi in coincidenza dei cambiamenti che in quel periodo investirono l’intera società e si riverberarono subito anche sul mondo del vino. In ogni modo, le cose allora erano molto diverse e se mio padre Lorenzo non avesse osato immaginare cosa sarebbe potuta diventare un giorno quest’area vitivinicola e non avesse fantasticato sul suo futuro ruolo nel contesto di quell’ipotetico cambiamento, forse oggi non saremmo qui. Quel suo sforzo immaginativo aveva origine comunque dalla lucida constatazione che quei tre ettari di terreno che avevamo non sarebbero stati sufficienti per costruire una prospettiva futura per entrambi i suoi figli. Così, Lorenzo, che aveva altre idee per i suoi ragazzi, a partire degli anni Settanta del secolo passato, dette a questa azienda un indirizzo vitivinicolo sempre più specializzato; e questo ancora non sarebbe bastato se non si fosse messo anche ad imbottigliare, nel 1979, le prime bollicine. Forse i miei studi di ragioneria mi avrebbero dovuto aiutare a trovare un posto lontano da queste vigne e sarebbe toccato a mio fratello il compito di mandare avanti l’azienda di famiglia, lui che già viveva a stretto contatto con mio padre, su questa stessa proprietà. È stato all’indomani del mio ritorno dal servizio militare, infatti, che decisi di fermarmi qui, dopo che Lorenzo aveva già iniziato la costruzione della cantina di spumantizzazione, nel luogo dove prima c’era la vinificazione, proprio con l’idea di creare i presupposti affinché anch’io mi fermassi. Ricordo che quella cantina di allora, finalizzata allo stoccaggio e all’invecchiamento, ci sembrò enorme per le nostre

minuscole dimensioni, ma, già a partire dal 1989, si rivelò piccola a tal punto da vederci costretti ad intervenire, ampliandola di 400 mq. e oggi è divenuta ormai insufficiente per i nostri bisogni. Il grande merito di papà Lorenzo non è stato solo quello di riuscire a interpretare gli eventi che andavano evolvendosi o costruire una moderna azienda vitivinicola, ma è stato anche quello di averci lasciato il tempo di crescere e di sbagliare. Ricordo che, all’inizio, giovane, pieno di passione, entusiasmo e buona volontà, come tutti i neòfiti, pensavo di conoscere tutto, pur essendo, in realtà, assolutamente ignaro di quante e quali insidie si nascondessero soprattutto nella parte commerciale di un’azienda vitivinicola. È stato quindi a mie spese che ho compreso quanto la politica di mio padre, consistente nel costruire personalmente una clientela fedele, fosse molto più lungimirante e positiva di quella che cercai di organizzare io, dando vita a una rete di “commerciali”, gestita da una terza persona, che si dimostrò più adatta a “spersonalizzare” il rapporto di vendita che a costruirlo, con risultati del tutto negativi. A questo errore posi subito rimedio convincendomi che la politica che Lorenzo aveva perseguito per tutta la sua vita, quella cioè dei piccoli passi, conduce a graduali e quotidiane conquiste che, nel tempo, si rivelano le sole durature e si trasformano in grandi risultati. Non è sempre vero, infatti, che essere dei piccoli produttori sia uno svantaggio. Almeno qui in Franciacorta non lo è, anche se, nel nostro contesto, dobbiamo ringraziare, a dire il vero, le grandi aziende, a capo delle quali c’è il fior fiore dell’imprenditoria bresciana che ha saputo non solo creare un’immagine del territorio, ma anche costruire grandi aspettative sui prodotti. Noi, come piccoli e moderni vignaioli, ci


FACCOLI

siamo limitati a costruirci delle nicchie produttive di alta qualità, creando prodotti particolari, unici, ricchi di un valore aggiunto importante che si basa sulla ricerca della vera essenza del territorio che abbiamo a disposizione. Il nostro segreto è stato quello di investire su prodotti con personalità, ricchi di sostanza, naturali, poiché sono quelli che, alla fine, conquistano gli esigenti palati dei consumatori e contribuiscono a rendere il Franciacorta un vino unico, trasversale, gradito e apprezzato ovunque nel mondo. Guardandoci indietro dobbiamo dire che quei tre ettari di vigneto, su cui puntammo tutto, sono stati la nostra più grande scommessa. A distanza di tanti anni possiamo quasi dire di averla vinta, anche se non è stata una cosa semplice e per riuscirci, in tutto questo tempo abbiamo dovuto lavorare con tanta passione, senza mai demordere o abbassare la guardia. Ci sono stati momenti difficili e momenti più facili, il cui andamento ha, in genere, seguìto gli andamenti ciclici di questo lavoro, che è mutevole e non può essere incasellato in rigidi diagrammi, né schematizzato con tabelle e previsioni, poiché in esso, almeno per come lo viviamo noi, entrano un’infinità di elementi come l’imponderabilità delle stagioni, il cambiamento del gusto e delle abitudini del mercato, la sua globalizzazione, e altri fattori, meno evidenti e più difficili da calcolare, che si riferiscono a quell’impalpabile valore aggiunto rappresentato dall’amore, dal rispetto e dalla stima che si costruiscono nel tempo fra i componenti di un piccolo microcosmo lavorativo come quello di questa azienda che si basa sulla forza morale del proprio nucleo familiare, unico combustibile veramente


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay, Pinot Bianco e Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Montorfàno nel comune di Coccaglio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), terrazzati, debolmente ondulati, ricchi di scheletro calcareo-argilloso, sono situati ad un’altitudine di 150 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Chardonnay 65%, Pinot Bianco 27%, Pinot Nero 8% Sistema di allevamento: Guyot, cordone speronato e sylvoz Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 24 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 20°C, si avvia alla fermentazione alcolica, che si protrae per 10-12 giorni, alla temperatura di 18°C ed è svolta in tini di acciaio inox; qui il vino rimane fino al mese di marzo dell’anno successivo alla vendemmia, periodo durante il quale si effettuano tre travasi. Giunti a primavera si procede quindi all’assemblaggio delle partite, a cui segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane a maturare sui lieviti per almeno 4 anni (48 mesi), al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 30 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del vino della stessa annata conservato e utilizzato come liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 2-4 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3.600 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Franciacorta, che veste il bicchiere di un colore giallo ambrato dai riflessi oro, arricchendo così un perlage fine e persistente, si presenta all’esame olfattivo aprendosi in modo complesso e danzando su una piacevole armonia di note di lieviti, fiori bianchi e percezioni di frutto della passione maturo che si mischiano a nuances di arance candite e timo. In bocca è strutturato, molto evoluto, suadente e vellutato, ampio e persistente, con un elegante finale che ricorda sentori di mela cotogna. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1998, 1999, 2001, 2002 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Faccoli dal 1964 e condotta dai fratelli Claudio e Giammario, l’azienda agricola si estende su una superficie di 10 Ha, di cui 5 vitati e 5 occupati da boschi. Svolgono le funzioni di agronomo e di enologo gli stessi fratelli Faccoli con la collaborazione di Cesare Ferrari.

NOTES

Franciacorta DOCG Dosage Zero Millesimato

161


ELENA, MARCO FAY

Nel percorrere questa valle, ti sarai accorto che in Valtellina pratichiamo una viticoltura di montagna; anzi la definirei “alpina”. Vedi le vigne sopra la nostra testa? Sono così erte e difficili da raggiungere che dobbiamo arrampicarci come stambecchi. Avanti e indietro, per sentieri ripidi che mettono le vertigini a chi non è abituato. Su e giù, facendo attenzione, passo dopo passo, a mettere i piedi uno ben davanti all’altro, sugli scalini di pietra che si trovano fra un terrazzamento e l’altro, ognuno dei quali potrebbe raccontarti le storie di chi l’ha messo lassù e narrarti la biografia di ogni vignaiolo valtellinese che lo ha calpestato. Scalini che richiedono non solo gambe solide e fiato lungo, ma anche il forte convincimento che, in luoghi così impervi e difficili da raggiungere, tutto deve essere mirato ad ottenere un vino di grande qualità, capace di ripagare gli enormi sacrifici richiesti per la sua produzione. Purtroppo, in questi ultimi decenni non sempre è stato così e questa modalità che, per secoli, ha scandito e stimolato il lavoro dei vignerons valtellinesi, è venuta meno. Andando in giro non ti sarà difficile vedere che in alcuni casi questo principio è addirittura scomparso, provocando

un graduale abbandono della viticoltura e un’impressionante diminuzione della superficie vitata nella zona, mentre, assaggiando i vini, noterai che, in molti casi, quel principio è andato affievolendosi, lasciando spazio a un mediocre e semplice spirito di mantenimento degli standard produttivi, orientati alla quantità più che alla qualità. Non ne conosco il motivo. Non so come mai si sia arrivati a questo punto, se per le difficoltà oggettive e per la morfologia del territorio o se, invece, il declino che ha subito l’enoviticoltura della zona sia da ricercare in un’oggettiva chiusura culturale verso “il nuovo” che caratterizza gli abitanti delle valli o sia, invece, più un problema che riguarda le nuove generazioni, sempre meno inclini a mettersi in gioco e ad accettare il sacrificio. Sta di fatto che, in Valtellina, si pratica ancora una viticoltura arcaica che si basa sulla trasmissione orale delle esperienze passate che non contribuiscono a stimolare il cambiamento, la sperimentazione, l’innovazione e la ricerca. È per questo che siamo indietro di trent’anni rispetto ad altre aree geografiche dove si utilizza un vitigno come il Nebbiolo, che ci dà un’identificazione varietale unica e che caratterizza, in modo fortissimo, il territorio. Pur avendo esempi

FAY

concreti, non siamo stati capaci di sfruttare questa unicità e di seguire la strada che era stata tracciata dalle aree piemontesi del Barolo e del Barbaresco. La Valtellina è una delle poche zone al mondo dove si può coltivare il Nebbiolo, che qui è capace di creare un distinguo netto con i prestigiosi vini piemontesi proprio per le caratteristiche peculiari dei terreni, che qui sono acidi invece che calcarei, sottili invece che profondi e sabbioso-limosi invece che argillosi. Su queste differenze e su una scrupolosa lettura altimetrica delle colture viticole, abbiamo impostato la nostra produzione aziendale, cercando di comprendere dove fosse realmente la biodiversità che caratterizza un territorio come il nostro e quali gli elementi che influenzano un vitigno come il Nebbiolo. Osservando, mi sono accorto che non potevo basarmi sulle mappature che erano state fatte dei vari terroirs della zona, come ad esempio il Sassella, l’Inferno, il Grumello o la Valgella, poiché le stesse non determinavano delle sostanziali differenze, visto che i terreni sono uguali in tutta la Valtellina. Compresi che se non erano i terreni a fare la differenza, poteva esserlo solo lo sviluppo verticale delle colture e quindi il posizionamento


163


FAY altimetrico dei vigneti, i quali, a 600 metri s.l.m. devono per forza produrre uve diverse da altri posizionati a 300 metri. È chiaro che i vini prodotti sarebbero stati diversi, quindi, per ottenere dei risultati, avrei dovuto necessariamente giocare sulle quote altimetriche e provare a ipotizzare delle condizioni idilliache per la maturazione fisiologica dell’uva, condizioni che ho creduto di identificare tra i 400 e i 550 metri. Al di sopra di questa altitudine, fra i 600 e gli 800 metri, fascia quindi individuabile per lo Sforzato, sarebbe preferibile intervenire con l’appassimento delle uve lì raccolte, mentre al di sopra degli 800 metri si potrebbe auspicare, per chi ha fantasia e voglia di provare altre cose, un’area adatta al Riesling Renano o alla coltura di importanti vitigni a bacca bianca. Idee che, in parte, ho applicato o che applicherò nel prossimo futuro nella conduzione dell’azienda di famiglia e che condivido con mio padre Sandro e con mia sorella Elena, con la quale sono cresciuto e con la quale ho giocato a fare “il nostro vino”, a disegnare la nostra etichetta e a costruire, dentro di noi, il futuro dell’azienda. Così, senza accorgercene, si è venuta a creare una passione che ci unisce e che coinvolge la stessa idea e visione che abbiamo entrambi del mondo del vino, facendola diventare, ai miei occhi, la migliore socia che avrei mai potuto avere. Una passione che coinvolge gli aspetti umani, facendomi sentire forte il legame della famiglia e gli aspetti imprenditoriali, che me la fanno apparire come il mio più grande investimento. Idee che, ancor prima che mi diplomassi in enologia, mi hanno spinto ad insistere con mio padre perché non accettasse dei compromessi che, in qualche modo, avrebbero potuto svilire ciò che di buono producevamo. Sono sempre stato un fautore della qualità assoluta, ricercata prima di tutto in vigna, dove ho rifatto gli impianti in chiave moderna, meccanizzandoli dove mi è stato possibile e cambiando i sesti d’impianto, ricercando i cloni più adatti ai terreni che avevo a disposizione e in funzione dei vini che avevo in mente di produrre. Un lavoro lungo, iniziato ormai sei anni fa e che ho svolto in solitudine, spesso subendo anche le critiche di chi non credeva che tutto questo mio impegno conducesse ad un innalzamento qualitativo della produzione. Critiche che mi hanno ferito, ma che non mi hanno distolto dai miei obiettivi. È passato del tempo e ora comincio a vedere che c’è un ristretto gruppo di giovani produttori che, ponendosi alla ribalta del panorama viticolo territoriale, si sta orientando verso una visione produttiva più moderna e di qualità, ma la cosa fantastica è che ha voglia, contemporaneamente, di scambiare le esperienze e di provare a costruire insieme un futuro diverso per questo territorio. E questo mi rende felice, soprattutto perché noto che incominciano ad arrivare dei piccoli segnali dal territorio che si aggiungono alla volontà dei giovani vignerons valtellinesi di voler costruire un dialogo più proficuo fra le diverse realtà produttive della valle e provare a costruire un futuro diverso per il nostro Nebbiolo. Del resto, per chi nasce in una valle come questa esistono solo due scelte: andarsene o rimanere al proprio posto nella convinzione che anche qui sia possibile fare cose importanti. Mia sorella ed io abbiamo deciso di rimanere al nostro posto, fra queste montagne, godendoci il loro protettivo abbraccio. Un abbraccio familiare, rasserenante, che sa di casa. Montagne con cime alte che molti non amano perché precludono la visuale di grandi e più importanti orizzonti, ma noi di questo siamo stati sempre consapevoli e non ne abbiamo fatto un dramma. Anzi, la loro vista ci permette di avere un nostro immaginario orizzonte che va ben oltre queste cime; questo ci consente di sognare uno, cento, mille paesaggi, sempre l’uno diverso dall’altro che io ed Elena ci divertiamo a


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto della vinificazione dell’uva Nebbiolo proveniente dal vigneto Carterìa, di proprietà dell’azienda, posto in località Valgella, nel comune di Teglio, le cui viti hanno un’età di 10 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni terrazzati sabbiosi, limosi, acidi, ricchi di PH e scheletro prevalente, è situato ad un’altitudine di 450 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Guyot semplice Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto, posto in rotomaceratore si avvia alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta ad una temperatura controllata, si protrae per circa 14 giorni; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che invece dura soltanto 7 giorni. Dopo la svinatura il vino viene assemblato e posto in barriques di rovere francese per il 50% nuove e per il 50% di secondo passaggio, a grana fine e media tostatura, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi. Finito questo periodo di maturazione e dopo 6 mesi di decantazione in tank di acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 7 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5.200 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di prugne, more e lamponi maturi e con importanti note di viola appassita che si aprono a percezioni di liquirizia nera e cioccolato fondente. In bocca è elegante, caldo, intenso, con una fibra tannica ben evoluta e una bella freschezza; assai piacevole, risulta inoltre lungo e persistente. Prima annata: 2002 Le migliori annate: 2002, 2004, 2005, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Fay dal 1970, l’azienda agricola si estende su una superficie di 13 Ha, tutti vitati. In azienda svolgono funzione di agronomo e di enologo Sandro e Marco Fay.

NOTES

Valtellina Superiore Valgella DOCG Carterìa

165




PIA DONATA BERLUCCHI

FRATELLI BERLUCCHI


169

Non so da dove provenga il grande amore che nutro per la letteratura e, soprattutto, quello che mi lega a certi autori che, più di altri, riescono a toccare le corde sensibili delle mie più recondite emozioni. Succede sempre così e non ha importanza se ho letto più volte i loro libri, perché ogni volta provo l’emozione di compiere un viaggio in compagnia di uomini straordinari che sanno parlarmi al cuore e incidere profondamente nella mia anima irrequieta. Sono uomini che hanno saputo servirsi della letteratura come uno strumento di sviluppo dell’intelligenza, utilizzando la parola come mezzo ideale per ampliare la qualità del loro pensiero, determinando, con acutezza e precisione, quale fosse l’opera o lo scritto che potesse trasmetterlo. I loro libri sono scrigni nei quali trovo “…una risposta al tormento interno…” e che “depredo” con un sistematico saccheggio, per innalzare quel mio ambìto concetto di individualità a cui aspiro, ritrovandomi, dopo una sana e bella lettura, appagata e vogliosa di guardare in faccia la vita e viverla entusiasticamente. Devo dire che con molti poeti e scrittori ho un’ulteriore unione spirituale che mi lega, come loro, alla cultura della terra e a quei semplici e profondi princìpi che, nel tempo, ne hanno trasmesso la conoscenza. Il mondo dei contadini, quello del “Sabato del villaggio” di leopardiana memoria, delle “donnicciuole” e delle comari con gli scialli sulle spalle che ciarlano gioviali, allegre come bambine, mentre si avviano alla messa, è un mondo fatto di poche cose, eppure ricco, un mondo perduto che, al solo pensarci, mi si stringe il cuore... Sono sicura che fu mia madre a porre il seme di

questo grande amore. Donna meravigliosa mamma Antonia, grande appassionata di musica, pianista lei stessa, la quale, dopo essersi sposata con mio padre, non rinunciò mai a quel suo rapporto, idilliaco e spirituale, che la legava alla letteratura e all’arte, trasferendo, in modo lineare, naturale, e con grande versatilità e intelligenza, quella grande cultura ai suoi figli, Francesco, Gabriella, Marcello, Roberto e a me, Pia Donata. Donata: fu così che mi chiamò mio padre Antonio. Perché non pensassi, come quinta figlia, che loro non mi avessero voluta. Con il tempo, ho gradito molto la straordinaria delicatezza e l’attenzione che i miei genitori posero nella scelta di quel nome, così come sono andata sempre maggiormente apprezzando la fortuna che ho avuto di nascere in questa famiglia e di poter crescere in un ambiente dove, da un lato c’era il pragmatismo bresciano di mio padre, ingegnere idraulico che mamma chiamava “il Re delle Acque”, e dall’altro lo spirito libero di mia madre, che solo dopo essere rimasta vedova si vide costretta a “maneggiare” i soldi e a comprendere cosa significasse rendere produttive le terre che mio padre le aveva lasciato. Con la sua intelligenza però, imparò presto a far di conto, mentre nel difficile compito della nostra educazione fu coadiuvata non solo da un’approfondita conoscenza dei classici della letteratura che, come usava dire lei, aveva adattato ad ognuno dei suoi figli, poiché tutti diversi e tutti bisognosi di un’amorevole e attenta lettura, ma anche da alcune meravigliose “tate”, una delle quali

è rimasta tutta la sua vita al mio fianco. Come le babuske di Tolstoj, quelle che, nubili e senza figli, riversavano sui bambini che avevano a balia tutto il loro istinto materno, amorevoli quanto una madre. Una tata come lo era Mafalda, di cui allora nessuno conosceva il nome, poiché tutti la chiamavano solo e semplicemente Tata. Lei era la tata di noi cinque figli e di tutti quelli che gravitavano in casa Berlucchi. Ricordo con affetto quella mantovana, dolce, premurosa che, di notte, dopo la morte di mio padre e per diverso tempo, sentivo precipitarsi nella camera attigua alla mia a tamponare i singhiozzi di mia madre che, disperata, piangeva il suo sposo. Erano corse silenziose le sue, accompagnate da rumori leggeri di porte che si aprivano e si richiudevano, di mani che stringevano altre mani, di parole sussurrate all’orecchio e di leggere e amorevoli carezze date nella speranza di portare almeno un po’ di sollievo a chi soffriva. Ricordo che la mamma dopo un po’ si acquietava e solo allora, quando aveva ripreso il sonno, la tata la lasciava per tornarsene nella sua camera... Il giorno dopo tutto era passato e mamma, come per incanto, riportava magicamente in casa quel suo innato sense of humour. Allora era facile sentirla cantare qualche pezzo d’opera o impartire, sempre con allegria, ordini alla servitù, recitando, magari, il pezzo di una poesia, oppure rispondere ad una nostra battuta con una frase di Manzoni piuttosto che con quella di un comico o con il ritornello di una canzone. Non l’ho mai vista dare uno schiaffo a nessuno di noi, né tanto meno rimproverarci.


FRATELLI BERLUCCHI

Credo che questo si debba solo al senso etico, del dovere, dell’impegno e della serietà che tutti noi sentivamo dentro, princìpi da sempre radicati nella nostra famiglia, rispettando i quali nessuno ha dovuto imporre mai niente a nessuno. È in questa cultura che sono cresciuta e mi sono “costruita” come donna. Una cultura che mi ha dato la forza di arricchire le mie idee, ricercando le risposte alle contrastanti opinioni che, via via, sorgevano dentro di me, scoprendo, attraverso la letteratura, di condividere con quei poeti, scrittori e magnifici compagni di viaggio, le solite insicurezze che, scaturendo dalla lettura della vita, ampliano il pensiero e diventano il carburante che consente di viverla. Credo che sia per questo motivo che in me c’è ancora la forza di affrontare le sfide, di non tremare e andare oltre l’ostacolo, guardando curiosamente cosa vi sia al di là dell’abituale angolo di vista. Mi piacciono le difficoltà ed è forse per questo che mi trovo a far coesistere il pensiero pragmatico con quello poetico, quello manzoniano con quello mazziniano, razionalità e idealismo, sforzandomi di coniugare il dovere con l’amore, il bisogno di Dio con la logica del pensiero laico e l’etica con l’estetica, poiché ritengo che sia doveroso coltivare il dono che Dio mi ha fatto: nascere donna. Pensieri forti nei quali talvolta non nascondo di vacillare, ma mi solleva il ricordo di mia madre, alla quale credo un po’ di assomigliare, poiché, nonostante tutto, come lei mi sento molto amata e non solo da quelli che mi stanno vicino o collaborano con me, ma da tutti quelli che hanno voglia di conoscere chi sia realmente Pia Donata Berlucchi.


Zona di produzione: Il vino è una cuvée prodotta dalla vinificazione delle migliori uve Chardonnay e Pinot Nero provenienti dai vigneti Mandola e Tre Camini di proprietà dell’azienda, posti nei comuni di Borgonato e Torbiato, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, in parte profondi, ma mediamente sottili e fluvio-glaciali, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 230 metri s.l.m. con un’esposizione a ovest / sud-ovest. Uve impiegate: Chardonnay 80%, Pinot Nero 20% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 14°C, si inocula con lieviti selezionati e si avvia alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, alla temperatura di 16°C, ed è svolta per l’80% in tini di acciaio inox e per il 20% in tonneaux di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura da 12,5 Hl; qui il vino rimane fino al mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia e in questo periodo vengono effettuati frequenti bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili, utili per arricchire la struttura e dare longevità al vino. Si procede quindi all’assemblaggio delle partite e alla costituzione della cuvée; segue l’imbottigliamento e l’aggiunta nel vino di nuovi lieviti selezionati che consentiranno la partenza di una seconda fermentazione, terminata la quale il vino rimane a riposare per almeno 48 mesi o più, durante i quali, però, la bottiglia viene rimossa più volte variandone l’accatastamento per rimuoverne continuamente il sedimento. Al termine di questo lungo periodo di maturazione si procede al remuage manuale, attraverso il coup de poignet, per 45 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per oltre 6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: circa 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un bel colore giallo dai riflessi dorati che arricchiscono un perlage finissimo, fitto, vivace e persistente; si presenta al naso sprigionando sensazioni piene, ricche, quasi opulenti, che vanno dai fiori di ginestra al profumo del fieno appena tagliato, dalle note di tabacco biondo a quelle di pane grigliato, dalle leggere percezioni di pasticceria ad un piacevole humus di anice, lieviti evoluti, mandorle tostate e frutta matura. In bocca ha un impatto robusto, avvolgente, fresco e ricco di una leggera vena sapidominerale che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1993, 1995, 1997, 2000, 2001 Note: Il vino, che prende il nome dall’antica villa di famiglia a Borgonato, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 12 anni. L’azienda: Di proprietà dei Fratelli Berlucchi dal 1967, l’azienda agricola si estende su una superficie di 70 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Renzo D’Attoma e l’enologo Cesare

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Millesimato Casa delle Colonne

171


MARGHERITA RADICI ODERO

Devi sapere che quando mi domandavano cosa avrei voluto fare da grande, rispondevo sempre nel solito modo: “Da grande voglio fare il dottore delle piante”. Era questo che ripetevo ogni volta a mio padre Giorgio. Non so come fosse cresciuta in me quell’idea, ma sta di fatto che ho sempre avuto uno sviscerato amore per la terra e credo che questo sia dipeso principalmente dall’essere nata e cresciuta qui a Frecciarossa, nell’Oltrepò pavese, in quest’azienda conosciuta anticamente come Freccia Rossa, da freccia che, in dialetto, significa frana, e rossa come il colore di questa terra. Con gli anni quel mio sogno si è avverato e sono riuscita a diventare un tutt’uno con questa campagna che mi ha preso per mano guidandomi verso una maggiore conoscenza delle sue potenzialità, ma, nonostante questo e nonostante essere stata aiutata, in questo difficile compito, dall’aver ottenuto una laurea in Agronomia all’Università di Milano, ancora in me non si è placato l’irrefrenabile bisogno di un quotidiano contatto epidermico con la natura e con la terra. Dopo tanti anni, mi emoziono ancora davanti al divenire delle stagioni, poiché, per me, la terra, non è solo tecnica, scienza, sperimentazione, comunicazione, mercato globale, vite o vino, ma è molto di più: è una filosofia di vita, una parabola divina, un pensiero profondo che mi prende nell’anima e nel cuore. Per me la terra è passione, coinvolgimento, tradizione, abnegazione,

piacere e dovere, che è anche più forte dell’amore e della gioia, come diceva Mazzini, è il grande rispetto che nutro per tutto ciò che mi circonda, è armonia e soprattutto è lo scrigno che racchiude in sé le mie memorie di quando da fanciulla giocavo in questi campi, come fanno oggi i miei nipoti Thomas, Pietro, George, Gregorio e Guido. Sono le stesse memorie che mi riportano alla mente mio nonno Mario che comprò questa azienda ancor prima che io nascessi, non avendo voglia di ritornare a vivere a Genova dopo tanti anni trascorsi a Londra, dove aveva un fiorente commercio di carbone fra l’Inghilterra e la sua città natìa; ma il ricordo va anche a mia madre, che diceva a me e a mia sorella che non dovevamo mai essere di cattivo umore, poiché era un lusso che non potevamo permetterci e quindi avevamo il dovere di stare allegre. Forse è per tutte queste ragioni che ho voluto fare il dottore delle piante. Devi sapere che la cosa bella di tutto ciò è che ho avuto la grande fortuna di poter assecondare questa passione, vivendola accanto ad un uomo meraviglioso come mio marito Carillo Radici, il quale, pur avendo una scarsa cognizione di cosa significasse stare in campagna, ha imparato a conoscerla e, con dolcezza, ha fatto sì che questo mio inscindibile rapporto con la terra non venisse mai meno. Il suo più grande merito, comunque, è stato quello di amare non solo me, ma anche ciò che io amavo e lo ha fatto standomi vicino con

enorme tenerezza, aiutandomi nei momenti difficili, dividendosi fra Bergamo e Casteggio, ma avendo sempre la voglia di diventare vecchio insieme a me, qui, a Frecciarossa. Ricordo che, appena fidanzati, raccontò di me e della mia grande passione a suo nonno Luigi Radici, il quale, saggiamente, lo avvertì del rischio a cui andava incontro: “Se l’ami e vuoi che lei sia felice e tu con lei, non allontanarla dalla campagna, lasciala libera di ritornare quando vuole alla sua terra, perché altrimenti per te saranno guai!”. Quelle parole aiutarono mio marito a capire cosa significasse per me Frecciarossa e quanto fosse grande il mio legame con questo luogo; con piacere, noto che successivamente sono stati coinvolti un po’ tutti i componenti della nostra famiglia, dalle nostre figlie fino ai nostri nipotini che, pur essendo ancora piccoli, hanno già identificato qui un punto di riferimento importante intorno al quale sentirsi tutti a casa. Il bello è che questa è una campagna vissuta. Tanto per fare un esempio, qui dove stiamo parlando una volta c’era il fienile e sotto le botti, in mezzo alle quali ho giocato da bambina; anche se ora ruota tutto intorno al vino, le posso assicurare che non è stato sempre così e perciò ho cercato di far rivivere in questo luogo un po’ di quelle vecchie e sane abitudini con le quali sono cresciuta. Ho desiderato che Frecciarossa fosse un luogo in cui potessero trovare spazio un cane, dei polli e altri animali, come

FRECCIAROSSA


173


FRECCIAROSSA

NOTES

le mucche, che si trovavano sempre nelle vecchie aziende, un luogo dove si potessero ancora percepire le dinamiche, i tempi e gli strumenti che interagiscono con la terra, annusando, magari, i profumi della campagna, capaci di creare delle emozioni che, personalmente, spero possano sopravvivere il più a lungo possibile. Per ciò che riguarda le cose che ormai si sono perse, io mi affido ai ricordi che, vivaci e pronti, ritornano alla mente quando parlo della mia terra e rammento sempre, con piacere, le vendemmie di una volta, che erano una festa, così come rammento i carri trainati dai buoi e poi... Come si sarà accorto sono solo reminescenze che, però, hanno il merito di addolcire la mia voce e riempire di gioia i miei occhi. Sono le memorie di una persona anziana che assomigliano più a certe favole da raccontare ai nipotini che a discorsi “seri” con cui intrattenere persone come lei che mi vengono a trovare. Lo so bene che comprende benissimo di cosa io stia parlando, dal momento che vedo che anche lei ha i capelli bianchi. In ciò che dico, in ogni caso, non vi è nostalgia, né un triste rammarico di ciò che è stato, poiché, nonostante pensi con piacere ai trascorsi della mia vita su questa terra, credo che, con il progresso, abbiamo guadagnato molto in termini di tecnologia, sicurezze, scienza, conoscenza, tutela e protezione dell’ambiente: strumenti che ci hanno permesso, pur perdendo un po’ di quella cultura contadina e di quell’attaccamento alla terra che caratterizzava la gente di campagna, di dare al territorio il suo giusto valore. Con piacere vedo che oggi è iniziato un graduale e lento ritorno verso la terra e anche i giovani cominciano a riassaporare il gusto di lavorare al suo contatto. Di questo sono felice e intanto continuo a rimanere a Frecciarossa a godermi lo splendido contrasto che qui c’è nelle giornate limpide di tramontana fra questa terra rossa e il cielo blu.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argillosi calcarei mediamente profondi con una presenza di sabbia nella parte bassa, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 200 e 220 metri s.l.m., con un’esposizione a nord / nordovest. Uve impiegate: Pinot Nero 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: dai 5.000 ai 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e con il pigiato ottenuto si procede per 6 giorni, con l’utilizzo di ghiaccio secco, ad una prefermentazione a freddo svolta a 8°C, al termine della quale si innalza la temperatura e si avvia la fermentazione alcolica con l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase dura circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 22 e i 28°C, in recipienti di acciaio inox, in cui, contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati periodici délestages e rimontaggi. Si provvede poi alla svinatura e alla pulizia del vino che viene posto in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura per un terzo nuove, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi. Al termine di questo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e a una decantazione di 6 mesi; in seguito il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 18 mesi prima di essere commercializzato.

Oltrepò Pavese DOC Pinot Nero Giorgio Odero

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Frecciarossa, nel comune di Casteggio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 20 anni.

Quantità prodotta: 8.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino, il vino si presenta all’esame olfattivo con sensazioni di eucalipto, menta, foglie di tabacco verde e di sottobosco che si mischiano a profumi fini ed eleganti di frutti rossi e lamponi maturi, rose, cuoio e sottobosco. In bocca risulta elegante, avendo una fibra tannica setosa, ben evoluta e sorretta da bella freschezza; piacevole, si dimostra inoltre lungo e persistente. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999, 2000, 2005 Note: Il vino, che prende il nome dal fondatore dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Odero dai primi del ‘900, l’azienda agricola si estende su una superficie di 32 Ha, di cui 24 vitati e 8 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Claudio Giorgi e l’enologo Gian Luca Scaglione.

175


LORENZO GATTI, ENZO BALZARINI, PAOLA GATTI

Dobbiamo riconoscere che un po’ di rammarico c’è. Non è un fardello pesante da portare e, a dire il vero, è contenuto e non grava sullo stato attuale delle cose, ma c’è e anche se è sopportabile, ogni tanto risale e si ravviva, ad esempio, come un vecchio dolore a un ginocchio, che, ciclicamente, fa sentire la sua fastidiosa presenza. Così come succede all’insorgere del fastidio fisico, quando inizia una ricerca spasmodica delle cause che hanno determinato il suo acuirsi, ogni qual volta si palesa il rammarico nascono degli interrogativi su come sarebbe cambiato il corso delle nostre vite se, a tempo debito e quando avevamo l’età e le possibilità, ci fossimo diplomati entrambi in enologia o avessimo frequentato qualche corso specifico di viticoltura. Scelte che avrebbero non solo ampliato la nostra cultura, ma anche accelerato il nostro ingresso nel mondo del vino, che è avvenuto molto gradualmente, attraverso esperienze, sacrifici e difficoltà enormi. Domande che, sicuramente, non avranno risposte, dato che di se, di ma e di buone intenzioni sono lastricate le tante strade che ognuno di noi ha cercato di percorrere, anche in modo originale: chi provando a fare il cameriere e chi il metalmeccanico in un’officina, ma che, alla fine, ci hanno condotto qui, fra queste vigne, in questa piccola cantina, dove oggi sei venuto a trovarci e dove facciamo quello che entrambi, forse, desideravamo fare più di ogni altra cosa al mondo: i vignaioli. Da ragazzi succede spesso di non avere ben chiaro

come sarà il futuro e, nell’incertezza, tutte le strade sembrano buone, ma, soprattutto, sembrano ideali per arrivare all’obiettivo principale che è quello di riuscire ad essere, il prima possibile, indipendenti economicamente dalle proprie famiglie. Strade che, nel nostro caso, non conducendo dove noi eravamo destinati ad arrivare, inconsciamente, abbiamo abbandonato per seguirne altre che, a loro volta, sono state cambiate per provare a percorrerne altre ancora, che, al momento, ci sembravano migliori. Dopo qualche anno, e un po’ di esperienza in più, ci siamo accorti che nessuna era quella giusta, poiché nemmeno una riusciva a gratificarci e a stimolarci, consentendoci di essere liberi di costruire un futuro più confacente alle nostre aspettative. Dopo qualche tempo, abbiamo iniziato a percorrere la strada giusta ed oggi eccoci qui. Si ripete spesso: “Se lo avessimo saputo prima, avremmo risparmiato un sacco di tempo...”, ma si sa che le cose succedono quando devono succedere e non prima e da qualche parte era scritto che un giorno ci saremmo trovati tutti e tre intorno ad un tavolo a parlare del vino e di come esso ci abbia unito, trasformato e migliorato. Un vino che sembra essere un prodotto magico, unico e sempre diverso secondo le terre e le stagioni dove si maturano le uve che lo producono e le mani che lo vinificano. Tutti e tre impegnati in prima persona, tutto l’anno, un anno dopo l’altro, ormai da vent’anni intorno al vino. Il

nostro è un impegno totale, come quello che svolgono tutti i piccoli vignaioli desiderosi di confrontarsi con il mondo esterno, di ampliare i loro orizzonti, e sempre desiderosi di conoscere e acculturarsi per modificare il loro approccio alle infinite sfaccettature che caratterizzano questo lavoro. Siamo piccoli, ma costantemente proiettati a disegnare un futuro per le nostre aziende vitivinicole, andando, minuziosamente e capillarmente, a ricercare un dialogo costruttivo e fidelizzante con chi ha voglia, nella standardizzazione produttiva che ormai globalizza tutto, di ricercare un distinguo di originalità e artigianalità nel vino. Come tutte le aziende delle nostre dimensioni, viviamo la nostra condizione di piccoli vignaioli come un onere in più da pagare rispetto a chi dispone di ingenti risorse economiche e forse è per questo che siamo costretti a vestirci un giorno da contadini, uno da agronomi, un altro da cantinieri o da enologi e un altro ancora da product manager o da responsabili commerciali, oppure da esperti di marketing oppure, come oggi qui con te, da promotori per difendere la nostra piccola rappresentatività in questa grande industria del vino che è diventata la Franciacorta. Siamo piccoli con un gran bel guardaroba, anche molto assortito, ma, pur essendo avvezzi al suo utilizzo, come i grandi trasformisti, siamo coscienti dei nostri limiti e delle nostre scarse risorse, poiché, a prescindere dal vestito che indossiamo per l’occasione, qui siamo in tre, solo in tre: mia sorella Paola, che controlla e tiene

GATTI


177


GATTI in ordine i conti, mio cognato Enzo, che si occupa principalmente della cantina ed io, Lorenzo Gatti, che mi occupo delle vigne. Ognuno è responsabile delle attività che ha scelto di seguire all’interno dell’azienda, ma, contemporaneamente, ed ecco che qui entra in gioco la forza della nostra magia, ognuno capace di correlare e di interscambiare il proprio ruolo con quello degli altri, indossando, all’occorrenza, vestiti diversi dai propri. Sappiamo che non è solo bravura, ma necessità..., ma cosa dovremmo fare? Noi non abbiamo nessuno cui affidare le nostre responsabilità. Sono nostre e nessuno ce le toglie: ce le godiamo quando ci danno delle soddisfazioni, le malediciamo quando le cose non vanno secondo le nostre previsioni, ma ce le teniamo così strette che, certe volte, diamo anche l’idea di aver paura di perderle. È una sfida giornaliera che ci entusiasma perché ci consente il confronto ad armi pari con il mercato e con le grandi cantine, quelle dai nomi altisonanti, sempre sulla bocca di tutti e che tu conosci bene. Una sfida che noi piccoli vignaioli dobbiamo affrontare con determinazione, seguendo la strada che ognuno si è prefissato di percorrere, lasciando che, in questo viaggio, a parlare siano i vini che, nel nostro caso, sono presenti nelle carte dei migliori ristoranti d’Italia. Una gara che si concentra tutta in un momento emozionante: quello della vendemmia, che non è altro che il riassunto del nostro trasformismo e delle magie che riusciamo a fare durante tutto l‘anno; è l’attimo da saper interpretare, quello che ci toglie il sonno e in cui tutte le nostre percezioni sensoriali si esaltano. Sono anni che la notte prima della vendemmia nessuno di noi dorme e siamo sicuri che se dovesse succedere, forse smetteremmo di fare questo lavoro, perché avremmo perso la cosa più importante che ci contraddistingue: la capacità dì emozionarci.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in alta collina, nel comune di Erbusco, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati e moderatamente profondi, con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 300 metri s.l.m. con un’esposizione che tocca tutti i punti cardinali: est, ovest, nord e sud. Uve impiegate: Chardonnay 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 16°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per circa 8 giorni alla temperatura di 18°C ed è svolta per il 90% in tini di acciaio inox, mentre il restante 10% è posto in barriques di rovere francese esauste dove il vino rimane fino al marzo dell’anno successivo alla vendemmia. Durante questi mesi vengono effettuati frequenti sur lies e bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura del vino. All’inizio della primavera si procede all’assemblaggio delle partite; segue l’imbottigliamento, con l’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane poi a maturare sui lieviti per almeno 24 mesi, al termine dei quali si procede al remuage meccanico delle bottiglie per 7 giorni, segue il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e la contemporanea aggiunta del vino della stessa annata conservato e utilizzato come liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 3 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Franciacorta, che veste il bicchiere di un colore paglierino scarico e un perlage fine, copioso e persistente, si propone all’esame olfattivo in modo delicato, dolce e con intensi profumi agrumati di cedro e arancia che si fondono a note di pasticceria al limone e di biscotti al burro adatti per il tè, percezioni olfattive alle quali si aggiungono ancora altri aromi fruttati di pesca e ananas con un finale che riporta alla mente le note di ginestra e mimosa con una vena minerale non troppo invasiva, ma presente. In bocca è sincero, affascinante ed ha un rapporto con il palato schietto, pur avendo una bella cremosità acidula, ma equilibrata, con un finale nel quale si ripropongono le note agrumate percepite a naso. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001, 2004, 2005, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e gli 8 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Gatti dal 1970, l’azienda agricola si estende su una superficie di 17 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Roberto Messegaglia e l’enologo Alberto Musatti, coadiuvati da Domenico Danesi e Andrea Rudelli.

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Nature

179




FRANCO, MARCO PLEBANI

IL CALEPINO


183

Noi siamo [...] fratelli. Quando c’incontriamo possiamo essere l’uno contro l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola [...] per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti e la nostra infanzia e giovinezza [...]. Una di quelle frasi, o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio d’una grotta, fra milioni di persone. Natalia Ginzburg, Lessico famigliare Siamo fratelli e di questo te ne sarai già accorto e non c’è bisogno che ti descriva quale sia il nostro rapporto. Per raccontarci brevemente, inizierò rinfrescandoti la memoria e facendoti ripensare a una bellissima e famosa foto che sicuramente avrai visto decine di volte nella tua vita e nella quale si ritrae il grande Coppi che, allungando il braccio, tende la mano a Bartali. Credo, per quello che mi ricordo, che entrambi stessero salendo in bicicletta sulle Dolomiti. Come sai, sono state date molte interpretazioni a quel gesto e anch’io non potevo esimermi, così, guardando quella foto, senza argomentare o ricamarci sopra storie fantasiose; anche senza conoscere quale in definitiva fosse la verità, mi sono fatto l’idea che quel braccio teso fosse un legame di complicità che travalicava sicuramente la ben nota rivalità tra quei due campioni che le cronache di quel tempo esaltavano. Il Duca bianco e il Toscanaccio, li ricordi? Forse sono stati fra gli ultimi uomini usciti dalla vecchia scuola “d’italiani antichi” che, solo casualmente, hanno utilizzato la bicicletta per esaltarsi e dimostrare la loro grandezza. In quella foto ci sono il duello, l’ardore, il sacrificio, la passione e il desiderio di ottenere il risultato giungendo al traguardo e, possibilmente, avendo in tasca anche la vittoria. Beh, non ti dico questo perché ho la presunzione che mio fratello ed io somigliamo a quei

due campioni, ma perché mi piace pensare che anche noi abbiamo l’ardore, lo spirito di sacrificio, la passione e la complicità che spinsero quei due a contendersi la vittoria in tante gare e che a noi invece sono serviti per costruire questa nostra azienda, perseguendo, da bergamaschi testardi quali siamo, quei risultati che ci sembravano irraggiungibili. Pronti? Via! Così, siamo partiti dal niente, senza nessuna esperienza, ritrovandoci a pedalare, avvolti e confusi in mezzo a quel mondo del vino che, ieri come oggi, ci appare sempre più grande di noi. Forse è per questo che ci siamo sempre prefissati l’obiettivo di mantenere il nostro passo in un settore che, invece, certe volte ci dava l’impressione di essere dopato per quanto correva veloce. Siamo rimasti sempre tranquilli, sia quando ci vedevamo sorpassare da chi era appena arrivato, sia quando potevamo gongolarci avendo ottenuto ottimi risultati: ogni volta abbiamo pensato che la migliore cosa che potessimo fare era quella di muoverci cautamente nella costruzione dei nostri sogni cercando di far sì che i risultati, seppur piccoli, fossero costanti e corrispondessero ad una nostra contemporanea crescita professionale e umana. Fin dall’inizio, avevamo in mente di fare qualità e questo andava di pari passo al sogno di riuscire, un giorno, a posizionare i nostri vini in una fascia medioalta del mercato, così da avere l’apprezzamento del consumatore, il rispetto degli opinion leaders e l’accreditamento da parte della stampa specializzata, dei media e degli stessi operatori del settore: sogni che poi si sono realizzati facendoci sentire molto orgogliosi di ciò che avevamo fatto. In questi vent’anni ci siamo sempre mossi con un atteggiamento costruttivo e pacato che ci ha fatto sentire in equilibrio, con i piedi ben piantati per terra, avendo sempre la consapevolezza di decidere gli obiettivi in anticipo, sapendo che se nelle gambe avevamo la forza sufficiente per percorrere

solo dieci chilometri in bicicletta era doveroso e necessario che noi ci limitassimo a quelli, invece di farci prendere dalla frenesia, provando, magari, a farne trenta con la paura di ritrovarci poi senza risorse e con la preoccupazione di dover scendere e rimanere fermi, a piedi. Forse questa nostra cautela è dovuta all’educazione che abbiamo ricevuto e al fatto che non siamo cresciuti nelle vigne o in una cantina, come è successo a tanti altri produttori, ma in mezzo alle pentole e ai profumi della cucina del vecchio ristorante di famiglia che è aperto dal 1951 a Sarnico, sul Lago d’Iseo. In tasca avevamo solo le ricette del ristorante, ma nessuna che contenesse gli ingredienti o un vademecum capace di insegnarci a fare i vignaioli. Per questo ci affidammo ai consigli di nostro padre Angelo che, nel 1972, comprò questa azienda, più con l’intento di vivere la campagna e di fare del vino ad uso e consumo del ristorante di famiglia che come vera attività imprenditoriale. Poi nel 1984: “Pronti? Via!”. Ci ritrovammo in sella, alla guida dell’azienda, ad affrontare quell’enorme salita con l’ardore, la passione e la complicità. Abbiamo allungato il braccio e ci siamo tesi una mano, così da costruire qualcosa insieme, come fratelli, ma anche con la consapevolezza che dovevamo commettere meno errori possibile e lasciare che la natura facesse ciò che aveva sempre fatto su queste colline orobiche. Natura benevola in questa Valcalepio - dai termini greci Kalòs (“buono”) e Pino (“bevo”) - dove sono secoli che esiste un’importante cultura enologica, conosciuta e menzionata già nel 1500 dal letterato Girolamo Muzio che scriveva: “la bontà e l’abbondanza del vino hanno dato il nome a Calepio, terra più fertile di quella di Alcinoo...”. In questi anni ti confesso che abbiamo pedalato molto, cercando di modificare tutto ciò che era modificabile, dall’aspetto architettonico della cantina alla stesura di un prontuario di vinificazione che, dopo prove e


IL CALEPINO

tentativi più o meno riusciti di interpretare questo territorio, dettasse le regole per una perfetta vinificazione delle uve che produciamo e che si ponesse come obiettivi - anche attraverso procedimenti complessi - l’eleganza, la pulizia e la finezza dei vini prodotti. Personalmente, penso molto a quella foto di Coppi e Bartali, perché per me rappresenta una buona metafora di cosa sia la vita, che lì è rappresentata da una sfida che è possibile superare attraverso la passione e anche grazie all’aiuto di qualcuno con il quale scambiarsi i ruoli e le esperienze, le opinioni e anche qualcosa di più profondo.


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon provenienti dal vigneto Calepino di proprietà dell’azienda, posto in località Surìe, nel comune di Castelli Calepio, le cui viti hanno un’età di 18 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana) e denominati “Surìe”, ghiaiosi, ciottolosi, sabbiosi, calcarei e moderatamente profondi, è situato ad un’altitudine di 220 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 100% Sistema di allevamento: Cordone speronato Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione delle uve e al loro appassimento nel fruttaio, dove rimangono per 35 giorni o comunque fino al raggiungimento del grado zuccherino voluto. A questo punto si procede alla loro diraspapigiatura e il pigiato ottenuto, posto in tank di acciaio, inoculato con i lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per circa 12 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 25°C, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che prosegue per altri 7 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino continua a rimanere nei contenitori d’acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene posto in barriques di rovere francese di Allier nuove, a grana fine e media tostatura, in cui rimane a maturare per 18 mesi. Dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 8.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi netti di prugne, more, mirtilli maturi e marasca sotto spirito, che affiancano eleganti note vegetali di peperone verde, un pot-pourri di fiori appassiti e nuances di liquirizia nera e cioccolato fondente. In bocca è elegante, con una fibra tannica ben evoluta, equilibrato, sapido e ricco di una bella freschezza che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1999, 2001, 2003, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dall’etimologia della Valcalepio che fa risalire la sua origine al greco Kalos epias (terra buona), raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Plebani dal 1972, l’azienda agricola si estende su una superficie di 18 Ha, di cui 15 vitati e 3 occupati da prati e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Alberto Maraschini e gli enologi Cesare Ferrari e Alessandro Santini.

NOTES

Kalòs Cabernet Sauvignon della Bergamasca IGT

185


LUCIA, GIULIO BARZANO’

Ho sempre sostenuto che in cielo non c’è una lavagna sulla quale Dio ha scritto lo scopo o la missione della nostra vita, come non c’è indicato cosa dovremmo fare. C’è invece solo un grande ed enorme spazio che ci appartiene e che deve essere riempito con tutto ciò che ci dà gioia. Credo sia questo in definitiva il semplice segreto della vita. Fare le cose che ci procurano gioia: da quelle che ci mettono in armonia con le persone e con tutto quello che ci circonda, a quelle che ci arricchiscono e stimolano le nostre passioni, ampliano il nostro desiderio di amare e la nostra forza interiore che così diventa energia utile per vivere la nostra vita. Non so se mia madre Emanuela abbia interpretato la sua quotidianità, seguendo, anche lei, questo pensiero o se, invece, sia stato io, vedendo la passione che metteva in tutto ciò che faceva e quanto il suo amore per la terra la rendesse gioiosa, ad innamorarmi del suo approccio semplice alla vita. Lei non aveva una passione, ma un concerto di passioni: ne aveva una per la terra, una per le vigne, una per la stalla, un’altra per la caccia, un’altra ancora per la vita in campagna, all’aria aperta, e per questo mondo agricolo che amava profondamente e dal quale difficilmente si staccava, sostenendo che non aveva tempo, poiché c’era sempre qualcosa da fare: la vendemmia, la svinatura, la sboccatura e le attività del periodo di Natale, quando si vendeva più del settanta per cento di tutte le bollicine commercializzate dalla nostra azienda in un anno. Era un moto perpetuo, ma ci rassicurava il fatto che lei fosse legata a determinate cose che la spingevano a quella iper-attività, frutto

di un insieme di fattori, non ultimo quello che in lei coesistessero, in parti uguali, il sangue di una madre piemontese e di una nonna napoletana. Due modi contrastanti di vedere le cose, ma che in lei avevano sprigionato una grande gioia di vivere, oltre a un grande senso del bello e del gusto per le cose buone della cucina, a testimonianza della quale conserviamo ancora un ricco archivio di ricette piemontesi e napoletane. Mamma era così: esuberante e, al contempo, pragmatica; per questo la sua figura è stata spesso accostata ad aneddoti curiosi e divertenti come quando i nostri nonni, forse per farle comprendere che, oltre alle sue passioni esistevano ben altre cose, le vollero regalare un anello “importante”. Recatasi in gioielleria, alla domanda dell’orefice su che tipo di anello volesse, rispose: “Un anello da caccia, uno che non mi dia fastidio quando sparo”. Si racconta anche che quando scoprì quanto sarebbe venuto a costare l’abito che le stavano regalando per la festa del suo diciottesimo compleanno, esclamò: “Ma io con questa cifra mi compro almeno due vitelli!”. Lei era così: schietta, diretta, una donna di campagna che amava il suo mondo e lo viveva con gioia e grande intensità, sempre pronta a parlare dei lavori e delle innumerevoli problematiche che, giornalmente, sorgevano in azienda. Me la ricordo ancora alzarsi precipitosamente da tavola, scusandosi con degli ospiti importanti e con noi, per andare ad accogliere i vicini di casa che erano arrivati a portarle il letame. Aveva un grande senso del dovere - al quale non è mai venuta meno - che si univa ad una grande educazione, da

lei intesa e vissuta non come un privilegio o uno sfizio di chi fosse economicamente più agiato, ma con un grande senso di responsabilità e come segno di rispetto nei confronti di ogni cosa, dalle persone agli oggetti, ai luoghi in cui si trovava a vivere. Grande donna, ricca di una forte personalità. A noi due mancava un po’, dal momento che la vedevamo poco, poiché era sempre occupatissima e impegnata in mille cose in azienda alle quali si aggiungevano anche gli incarichi sindacali all’Unione Agricoltori. Perciò mi sembrò quasi logico che in mia sorella Lucia, che è un po’ più piccola di me, nascesse il rifiuto per il vino e per questa terra, la quale aveva la colpa, secondo lei, di aver allontanato da noi nostra madre. Rammento che mi diceva: “Io farò tutt’altro nella vita”; invece, fortunatamente non è andata così e oggi è qui, accanto a me, e insieme conduciamo questa azienda alla quale entrambi dedichiamo, come faceva Emanuela, tutto il tempo a nostra disposizione. Tutto è iniziato così, vendemmia dopo vendemmia, e ci siamo accorti che, man mano che passavano gli anni, nasceva in noi una grande passione che ci faceva stare bene. Del resto, non credo che vi sia un lavoro più bello di quello che facciamo noi. Stiamo in mezzo al verde, su un territorio bellissimo, in un posto meraviglioso, affrontando la quotidianità con dei ritmi che, rispetto a quelli che vivono certi industriali bresciani a noi confinanti, sono relativamente tranquilli, avendo, nel contempo, una qualità della vita che è sicuramente il massimo cui potremmo aspirare. Il nostro è un lavoro splendido che ci porta a contatto con la natura, con la

IL MOSNEL


187


IL MOSNEL vite, con l’alchimia del vino e con il fascino che esso suscita per un numero sempre maggiore di persone con le quali veniamo in contatto e che si dimostrano interessate verso ciò che facciamo, come, del resto, lo siamo noi nei confronti delle loro attività, siano essi ristoratori, enotecari, altri produttori o semplici clienti. Io, che sono decisamente un “verde dipendente” e sto male se non vivo un contatto diretto con la campagna, insieme a ciò che la anima e la rende così unica, non saprei stare in nessun altro posto al mondo se non qui. E poi, dove dovrei andare? C’è chi, per sentirsi appagato, ha necessità di oltrepassare dei confini, di viaggiare per terre lontane, verso altri lidi, nei deserti, sulle montagne oppure ha bisogno di tuffarsi nei fiumi sacri o di parlare con i santoni o i fachiri. C’è invece chi, come me, trova stimoli e insegnamenti nel desiderio e nella forza di proteggere, vivere e “disegnare” la propria terra. È qui che coltivo le mie passioni, quelle cose semplici che mi danno gioia, alle quali non saprei rinunciare, perché sono quelle che mi vedono occupato ora in mezzo alle vigne o con i miei cani, ora nella caccia o nella pesca, ora in tutta quella miriade di attività che si svolgono in campagna e di cui necessita un’azienda agricola: tutte svolte rigorosamente all’aria aperta, con la quale riempio i miei polmoni. Qualche tempo fa, ho passato un mese a Londra e, in quel periodo, mi sono reso conto di questa mia dipendenza dal verde, in quanto era più il tempo che trascorrevo nei parchi cittadini che in qualsiasi altro posto della città e in particolare, ce n’era uno, Hyde Park, dove, con un appuntamento fisso, mi recavo tutte le sere per vedere i cigni alzarsi in volo. Sicuramente entrambi avremmo potuto fare nella vita cose diverse e forse potevamo diventare altri da ciò che siamo; invece eccoci qui, in questa Franciacorta, a fare i vignaioli, perché, senza accorgercene, abbiamo dato retta al cuore, ritrovandoci così a riempire quello spazio con ciò che volevamo e con tutto ciò che ci dà gioia.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti Larga Cani, Mosnel e Camilì, di proprietà dell’azienda, posti nei comuni di Passirano, Monterotondo e Fantecolo, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati, con scheletro ghiaiosociottoloso, sono situati ad un’altitudine di 250 metri s.l.m. con un’esposizione a est / sud-est. Uve impiegate: Chardonnay 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e guyot Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di decantazione, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 16°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, ad una temperatura di 18°C, ed è svolta per il 60% in tini di acciaio inox, mentre il restante 40% in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di secondo e terzo passaggio. In questi contenitori il vino rimane fino al mese di marzo dell’anno successivo alla vendemmia; in questi mesi invernali vengono effettuati frequenti bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili, utili per arricchire la struttura del vino. In primavera si procede quindi all’assemblaggio delle partite; segue l’imbottigliamento e l’aggiunta dello sciroppo di tiraggio per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane poi a maturare sui lieviti per almeno 36 mesi, al termine dei quali si procede nell’ordine, al remuage manuale delle bottiglie per 25 giorni, alla sboccatura, e alla contemporanea aggiunta dello sciroppo di dosaggio. Questo Franciacorta affina ora per altri 4-6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 35.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Franciacorta, che veste il bicchiere di un colore paglierino intenso dai riflessi dorati che arricchisce un perlage fine e persistente, si presenta all’esame olfattivo in modo equilibrato, proponendo una fusione perfetta delle note floreali con quelle fruttate, nelle quali si possono riconoscere percezioni nette di frutti tropicali come ananas, banana, papaia, pesca gialla che si fondono a un delicato bouquet di fiori di ginestra, lavanda e acacia, con un finale che ricorda le mandorle tostate. In bocca è fresco, morbido, equilibrato, piacevole, sapido, lungo e persistente con un finale che riporta alla mente le note di mandorle tostate percepite al naso. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1997, 1999, 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Barboglio, ora Barzanò, dal 1836, l’azienda Il Mosnel (antico toponimo dialettale di origine celtica che significa pietraia, cumulo di sassi), si estende su una superficie di 66 Ha, di cui 40 vitati e 26 occupati da prati e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Roberto Messegaglia e gli enologi Flavio Polenghi e Alberto Musatti.

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Satèn Millesimato

189


CLARA, GIORDANO, CLAUDIA CRIPPA

LA COSTA


191

Tutto è iniziato nel 1990, quando fui incaricato da un mio amico, come suo geometra di fiducia, di progettare la cantina per la sua azienda agricola. Non sapendo quali fossero le priorità e le caratteristiche alle quali avrebbe dovuto rispondere quel contenitore architettonico, adatto alla lavorazione e allo stoccaggio dei vini, cominciai a studiare l’argomento e organizzai una serie di viaggi che mi condussero in numerose cantine del Piemonte e della Toscana, poste in alcune delle più belle aree vitivinicole italiane. Rimasi folgorato dal fascino di quei paesaggi vitati e mi innamorai della bellezza di alcune cromìe autunnali e del misticismo di certe atmosfere che in essi respiravo. Non avevo mai conosciuto prima e così a fondo un “territorio da vino”, né mi ero mai immerso nei vigneti, osservandoli così da vicino e con tanta attenzione come richiedeva il mio compito. Dopo ogni viaggio qualcosa in me cambiava; scoprivo di essere sempre più affascinato dalla vite e da quel gioco di sovrapposizioni che esiste tra i filari, i quali contribuiscono a delineare la morfologia dei terreni; mi sembravano opere d’arte straordinarie utili per appagare il senso estetico del bello che appartiene a noi esseri umani. Come colpito dalla sindrome di Stendhal, mi convinsi non solo che quello era l’ambiente nel quale avrei voluto veramente vivere il resto dei miei giorni, ma che avevo consumato quarant’anni della mia vita in tutt’altre faccende affacendato, rincorrendo il quotidiano soddisfacimento dei miei bisogni più elementari e materiali attraverso un lavoro che, improvvisamente, mi sembrava lontano anni luce dal modo in cui avevo

deciso di voler vivere. La decisione fu improvvisa, repentina, insindacabile. “Voglio fare il viticoltore”, dissi. In me si risvegliarono i lontani e ormai sbiaditi ricordi di quella sana e genuina cultura contadina che i miei genitori mi avevano trasmesso nel podere dove sono cresciuto e dove avevo imparato le prime rudimentali nozioni di agricoltura, poche, a dire il vero, e insufficienti a farmi decidere, allora, di diventare viticoltore. Non mi lasciai scappare l’occasione di comprare quest’azienda in Brianza, a due passi da Milano, composta da un casolare e da otto ettari di vigneto sommerso interamente da rovi ed erbacce. Quella fu una scelta importante che mi cambiò la vita. Le mie giornate incominciarono improvvisamente a trasformarsi, andando a riempirsi di impegni, di sfide e di gioia, cosa questa che mi faceva sentire irrefrenabilmente vivo. È facile comprendere come, in conseguenza di questa felicità, la mia vita sia stata, sino ad oggi, un incedere sulle ali di una passione che mi ha spinto a immergermi completamente in quest’attività fino al punto di non riuscire più ad accontentarmi di ciò che avevo ottenuto e di ciò che avevo realizzato. Una passione che ha generato dei sogni, i quali, a loro volta, hanno dato vita ad altri sogni, spingendomi ad acquistare altre terre confinanti, ad aumentare la superficie dell’azienda e a ristrutturare gli immobili situati dentro i nuovi confini, riconvertendoli da strutture abitative in agrituristiche, in modo da creare un ulteriore valore aggiunto. Musa ispiratrice di tutto questo è stata sempre la vite, pianta per la quale nutro una vera e propria

ammirazione. Mi faccio vanto di conoscere personalmente, una per una, tutte quelle che compongono i miei vigneti e che ho personalmente piantato. Sì, le conosco tutte, da quelle messe a dimora sulla roccia a quelle poste sull’argilla, da quelle appositamente selezionate per il versante nord a quelle invece scelte e poste sull’altro lato, quello a sud. Le conosco perché le frequento tutti i giorni, sono le mie migliori amiche; a loro dedico ogni momento libero della giornata e anche tutti quelli che riesco a strappare alla libera professione di geometra che purtroppo, ancora, non posso abbandonare. Girando in mezzo a questi filari, ancora oggi, a distanza di anni, ho quella prima impressione di contatto idilliaco con la natura che mi avvicina a Dio, con cui parlo e a cui racconto i dubbi e le perplessità che in me nascono guardando ciò che ho realizzato in questi anni e ciò che ho in mente di realizzare nel prossimo futuro. Qualche volta gli confido anche i miei più reconditi sensi di colpa, quelli che provo per aver coinvolto in questa sfida del tutto personale che giornalmente combatto con il mio ego, anche le mie due figlie Claudia e Clara. È in situazioni come queste che mi torna alla mente quella decisione improvvisa, repentina e insindacabile di voler fare il viticoltore e mi domando il perché o quali siano stati i motivi che mi hanno spinto a compiere un simile investimento in un’impresa agricola. Sono sincero: non so trovare una risposta. Quale è il senso logico di tutto questo? Dove voglio arrivare? Che cosa spero di ottenere? Non lo so e non voglio neanche scoprirlo. Non ho


LA COSTA

NOTES

tempo per simili interrogativi. So solo che ogni mattino mi alzo con la convinzione di voler affrontare una nuova giornata da “riempire” di vita, come lo è stata quella che si è appena conclusa e come lo sarà quella che dovrà ancora arrivare domani: una giornata sicuramente che non passerà invano. È appassionante ogni cosa che faccio; questi terrazzamenti, queste tre colline che assomigliano a tre piramidi sono il mio personale parco giochi. Non è stata certamente una questione di puro e semplice profitto; credo, invece, che a spronarmi sia stato quel moto interiore che anima alcuni uomini, i quali, giunti ad una certa età, si spingono oltre e incominciano a misurarsi con se stessi, senza ricercare il potere o il prestigio mondano o una personale e migliore collocazione nel mondo che li circonda e da cui, con gli anni, hanno preso sempre più le distanze. Ricercano invece l’armonia, l’equilibrio interiore e, per l’ottenimento di un simile traguardo, non disdegnano, se necessario, le sfide, né le provocazioni che la vita può porre loro davanti. Sono sensazioni che provo giornalmente e che posso riscontrare negli occhi di mia moglie Mina che, con intelligenza, intuito e lungimiranza, sta effettuando una ricerca sulle tradizioni gastronomiche della zona, impiantando, con alcune strutture agricole, una filiera produttiva che le dia l’opportunità di offrire prodotti unici nel ristorante del nostro agriturismo. Sono sensazioni che ritrovo negli occhi felici delle mie figlie che vivono in un ambiente naturale e libero e sono le stesse percezioni che posso ritrovare anche negli sguardi di tutti quelli che operano al mio fianco in quest’azienda e hanno percepito che il mio non è un esercizio economico, ma l’esperimento di un uomo innamorato delle proprie viti.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni terrazzati calcarei ricchi di minerali, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 200 e 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Riesling 70%, Chardonnay 30%

Renano

Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: La vendemmia avviene, di solito, a partire dalla prima decade di settembre per lo Chardonnay e alla fine dello stesso mese per il Riesling Renano; si procede quindi alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione pellicolare, in pressa, per 12 ore ad una temperatura di circa 6-8°C. Dopo la pulizia statica del mosto, alla temperatura controllata di 14°C per 12 ore, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che, per lo Chardonnay, è fatta svolgere per l’80% in tini di acciaio inox e per il 20% in botte grande di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura, mentre il Riesling Renano la svolge in acciaio. In primavera si procede all’assemblaggio delle partite in vasca di cemento e, dopo una breve decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 12 mesi prima della commercializzazione.

Solesta Vino Bianco da Tavola

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Riesling Renano e Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località La Costa, nel comune di Perego, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 15 anni.

Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore oro con riflessi giallo paglierino; all’esame olfattivo sprigiona sentori floreali di acacia, ginestra e gelsomino che si mischiano a note di frutta a pasta gialla come pesca, susina, ananas e mango, con un finale minerale che ricorda un po’ la pietra focaia. In bocca ha un’entratura piacevole, elegante, tonda, sorretta da buona freschezza e sapidità che rendono il vino lungo e persistente. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001, 2004, 2006 Note: Il nome del vino è ispirato dal carattere “solare” della bevanda stessa e un “omaggio” ai riti propiziatori del solstizio d’estate, celebrati dai Celti, antichi abitanti della zona. Raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Crippa dal 1992, l’azienda agricola si estende su una superficie di 62 Ha, di cui 12 vitati e 48 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Giuseppe Berto e l’enologo Vincenzo Bàmbina.

193




MICHELE BOZZA

La mia fortuna credo sia stata quella di essere cresciuto con il concetto di “voler bene” al lavoro, ma non come concetto filosofico utile per arricchire la vita, ma come motore della stessa, senza il quale non saprei vivere, poiché mi consente di avere dignità, autostima e acquisire il rispetto degli altri. È stato l’esempio di mio padre Giancarlo e anche quello dei miei zii Vittorio e Alberto ad insegnarmi, fin da piccolo, quanto fosse importante e necessario apprezzare il lavoro, invece che ritenerlo solo dovuto o addirittura avvilente. Giudicandomi, anche con un po’ di autocritica, credo che quei signori abbiano ottenuto ciò che volevano e sono riusciti soprattutto a farmi comprendere come i risultati si ottengano solo con l’impegno. L’esempio dell’impegno, e di cosa abbia significato per loro, ce l’ho di fronte tutte le mattine, quando vengo qui alla Montina che, pur essendo stata aperta da mio padre, è stata costruita, ampliata e pagata grazie anche al sostegno totale e incondizionato dei suoi fratelli, gli zii, che, nel frattempo, lavoravano all’altra vecchia azienda di famiglia, le Cantine Bozza, che erano state aperte da nonno Antonio nel 1958. Crescendo al loro fianco, senza accorgermene, il lavoro mi è entrato dentro e quel concetto di “voler bene” al lavoro mi ha spinto ad impegnarmi sempre in ciò che facevo, sia quando sono uscito di casa dopo il diploma di ragioneria, cercando di diventare uomo e intraprendere una mia autonoma carriera imprenditoriale come immobiliarista, sia

quando, richiamato da mio padre, sono rientrato in azienda, adoperandomi affinché a questa struttura non venissero mai meno il lavoro, l’impegno e la concretezza. Credo che questa sia un po’ l’indole e anche il segreto di noi bresciani. Gente che parla poco, ma lavora tanto, senza guardare al sacrificio e, con responsabilità e abnegazione, cerca di ottenere sempre il massimo risultato. “Lavorare fa bene”, mi dicevano. “Il lavoro serve”, altra frase che ricordo bene. Serve per ottenere delle soddisfazioni ed evolversi socialmente o, come dice mio zio Vittorio, “serve per far bella figura” in ogni campo, ripagare la fiducia che ti hanno concesso e appagare l’orgoglio che ti ha spinto ad andare oltre le possibilità economiche di cui disponi e, magari, costruire anche una cantina. Terra di grandi famiglie, questa bresciana, e di gente che, con il lavoro, ha costruito quelle grandi imprese che sono riuscite a portare il nome di questo territorio alla ribalta nazionale ed internazionale. Ci sono famiglie coese da un grande interesse economico e altre, come nel nostro caso, unite da un grande senso di responsabilità, di fiducia e stima reciproca, che ha spinto tutti i membri alla condivisione di un progetto comune come quello della Montina. In tutto questo sembra strano che trovino poco spazio i sentimenti; eppure esistono, e sono radicati dentro di noi più di quanto diamo a vedere, soprattutto quelli che riguardano la famiglia e, anche se non li esterniamo

come dovremmo, ci sono, sentiti in silenzio dentro di noi. Siamo fatti così noi bresciani. Siamo un po’ come le vecchie sughere, avvezzi a qualsiasi stagione e a qualsiasi terreno, avvolti da cortecce dure, ma al contempo morbide, che una volta scalzate, però, ci rivelano diversi da come appariamo. Bisogna avere la pazienza e la voglia di scoprire quali siano i lati del nostro carattere, così come è necessario fermarsi per comprendere come la famiglia sia, per noi, un’unità di misura semplice, se la si affronta con il cuore, e, al contempo, complessa, se la analizziamo con la mente. In essa vivono ruoli e gerarchie da rispettare e ci sono diversi caratteri e complesse personalità da unire. Ci sono poi le aspettative, i sogni e la sensibilità da gratificare e gli impegni che ognuno è in grado di assumersi rispetto alle proprie capacità e qualità. Credo sia evidente quanto complesso è il lavoro da compiere per riuscire a mettere in equilibrio il cuore con la mente, ma se ciò riesce, allora sì che si tiene unita una famiglia che è in grado di raggiungere qualsiasi obiettivo, anche quello più ambizioso. I tre fratelli Bozza, Alberto, Vittorio e Giancarlo, mio padre, in questo ci sono riusciti e hanno avuto anche il merito di credere che non sarebbe stato loro precluso niente se fossero rimasti uniti e che, tenendosi stretti, qualsiasi cosa fosse successa, sarebbero stati capaci di superarla e, per quanto si fosse fatta ripida e difficile la salita, stando insieme avrebbero potuto raggiungere qualsiasi vetta. In questo collage ognuno

LA MONTINA


197


LA MONTINA ha dato il meglio, contribuendo ad ottenere l’obiettivo comune: uno con l’irruenza e la “vulcanicità” di chi guarda sempre oltre la linea dell’orizzonte, un altro con la calma e l’esperienza di chi preferisce conservare, invece di rinnovare ad ogni costo, e un altro ancora con il taciturno e silenzioso lavoro di chi sa porsi a contatto con la terra e le vigne. Basta guardare la Montina per capire che è un’azienda costruita con amore da chi è stato sempre attento all’evoluzione dei tempi. Tecnologie avanzate in cantina, spazi operativi sufficienti per soddisfare un fabbisogno crescente in termini produttivi e ricettivi, sono solo alcuni elementi che contraddistinguono questa struttura che si è orientata sempre più verso l’accoglienza che è e sarà, nel futuro, un elemento di distinguo e di visibilità per il territorio, al quale noi Bozza siamo legati, essendo ormai qui a Monticelli Brusati da oltre duecento anni. Credo che la visione della vita e delle cose che siamo riusciti a realizzare venga da molto lontano e precisamente da nonna Vittoria, chissà perché soprannominata da tutti Gina. I racconti che si fanno di lei in famiglia mi descrivono una donna allegra, festosa, capace di accudire sette figli, mandare avanti una bella locanda, che aveva aperto in piazza, e organizzare a maggio una festa per tutto il paese. È stata lei che ha educato la famiglia al rispetto reciproco e al piacere di stare insieme. Lei, pur essendo una semplice contadina, umile e laboriosa, aveva il palato da grande chef e un naso da sommelier talmente fine che nonno Antonio non avrebbe mai acquistato una partita di vino senza prima chiedere il suo parere. Riconosco che devo dire grazie a tutte queste persone e soprattutto a mio padre Giancarlo: mi hanno fatto capire non solo come “voler bene” al lavoro, ma anche il valore dei soldi e l’importanza di questo territorio. Altre cose, però, né mio padre, né i miei zii hanno potuto insegnarmele, poiché nemmeno loro le sapevano, giacché la loro cultura del vino è sempre stata costruita sull’esperienza. Mi sono ritrovato a fare questo lavoro in tempi diversi dai loro, avendo l’impossibilità, quindi, di attingere a quella tradizione alla quale loro avevano attinto, e non avevo nessuno che fosse in grado di formarmi sulle migliori azioni di marketing da intraprendere per far crescere l’azienda o sui principi elementari di comunicazione ai quali attenermi per promuovere ciò che stavamo facendo, su quali fossero le strategie di comportamento che regolano i rapporti con la clientela o dove io potessi trovare un’informazione costante e completa sul settore vitivinicolo. A tutto questo sono dovuto arrivare da solo ed è stato, forse, il patrimonio più importante che ho recato all’azienda. In questa mia fase di formazione ho scoperto che la maniera migliore di affrontare le cose erano la naturalezza e la spontaneità che caratterizzano ogni membro della mia famiglia, presente e passato. I successi e le soddisfazioni sono la dimostrazione che niente è più moderno del passato e, soprattutto, che l’intelligenza non ha età.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay e Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nei comuni di Cazzago San Martino, Erbusco, Provaglio d’Iseo, Monterotondo di Passirano, Rodengo Saiano e Monticelli Brusati, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 22 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, calcarei con presenza di argilla, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a est, nord e ovest. Uve impiegate: Chardonnay 70%, Pinot Nero 30% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte mediante il torchio verticale Marmonier ed il mosto ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 12°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 14 giorni ad una temperatura di 16°C ed è svolta per l’80% in tini di acciaio inox, e per il 20% in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di primo, secondo e terzo passaggio, in cui il vino rimane fino al mese di febbraio dell’anno successivo alla vendemmia. In questo periodo vengono effettuati frequenti sur lies e bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili, utili per arricchire la struttura del vino. All’inizio della primavera si procede ad un collage delle partite; segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 30 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 50.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore giallo paglierino dai riflessi dorati che arricchiscono un perlage fine, fitto e persistente. Propone all’analisi olfattiva percezioni di crosta di pane che si mischiano a quelle floreali di acacia, lavanda e mughetto, seguite da note fruttate di ananas, banana, pera, mela, gelso e mandorla con un agrumato di cedro e arancia che arricchisce un finale in cui ritornano alla mente sensazioni di crema pasticcera e tabacco dolce. In bocca risulta fine, elegante, suadente, fresco, con un armonico equilibrio fra le percezioni olfattive e quelle gustative che, unite ad una bella sapidità, lo rendono piacevolmente bevibile, lungo e persistente. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 1993, 1997, 1999, 2001, 2002, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Bozza dal 1987, l’azienda agricola estende la propria capacità vitata su una superficie di 62 Ha, dislocati in 7 comuni della Franciacorta. Collaborano in azienda gli agronomi Totò Alceo e Rocco Marino e l’enologo Cesare Ferrari, coadiuvato da Nicolas Secondé.

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Millesimato

199


FRANCESCO CERVETTI

LA VERSA


201

Il cuore della produzione del Pinot Nero è in questa zona e, scusandomi con te per il mio campanilismo che sicuramente comprenderai, precisamente qui, a Santa Maria La Versa, proprio dove si trova la nostra cantina. Questo vitigno, coltivato da decenni sui fianchi e nella zona centrale di questa valle, è forse l’unica differenza che l’Oltrepò pavese è in grado oggi di offrire rispetto alle altre zone del comparto vitivinicolo italiano. Tutto nacque quando gli storici “spumantisti” piemontesi, i proprietari dei marchi Gancia, Riccadonna, Martini ed altri, con grande acume e intelligenza, compresero il valore di questo territorio e regalarono le barbatelle di Pinot Nero ai contadini e agli agricoltori della zona incentivandoli alla coltivazione di questo vitigno. Come vedi, nasce in modo un po’ occasionale il connubio fra Pinot Nero e Oltrepò, un connubio che avrebbe potuto e dovuto, essendo avvenuto tantissimi anni fa, produrre ben altri risultati rispetto a quanto ha poi generato. Invece, forse, la necessità o la sicurezza di vendere le uve a terzi, la vastità dell’area produttiva, non tutta adatta al vitigno in questione, e la morfologia del territorio con svariate altimetrie e tipologie di terreni, non hanno facilitato il settore vitivinicolo di questa zona di Lombardia a costruirsi una propria e omogenea immagine produttiva, come è successo, per esempio, per il Sangiovese nel Chianti, per il Nebbiolo ad Alba oppure per lo Chardonnay in Franciacorta. Queste problematiche hanno determinato e supportato le scelte delle aziende imbottigliatrici della zona che hanno deciso di affrontare il mercato con una strategia produttiva autonoma, la quale ha provocato, come risultato, una proliferazione dei prodotti enologici. Pur essendo tutti validi, solo pochi di essi sono stati performanti, mentre nessuno si è dimostrato

aggregante al punto da risultare identificativo del territorio, costruendo intorno a sé un’immagine ben riconoscibile dal mercato. Inoltre, quando sarebbe stato necessario effettuare scelte e indirizzare l’area verso una linea produttiva comune, il frazionamento della produzione ha indotto ogni cantina ad adoperarsi per far sì che le proprie scelte aziendali diventassero le linee guida sulle quali tutti gli altri avrebbero dovuto muoversi, riuscendo a confondere i propri interessi con quelli della collettività vitivinicola della zona, ma anche rendendo più difficile trovare una via comune che potesse far conoscere “il vino” dell’Oltrepò pavese. Ci sono stati anni in cui il territorio ha pagato duramente il fatto di non aver effettuato scelte strategiche in una direzione o nell’altra e l’ha pagato non solo attraverso una scarsa visibilità sul mercato, ma anche con una mancata crescita, in termini imprenditoriali e manageriali, di molte aziende, le quali si sono accontentate di rimanere ai margini del cambiamento che ha stravolto il mercato del vino, riservandosi il ruolo di comprimari, di spettatori o, tutt’al più, di semplici fornitori di quel bacino commerciale locale composto principalmente dall’area milanese e da quella delle altre grandi città lombarde. Altre aziende, invece, hanno focalizzato l’attenzione sugli spumanti vinificati con il metodo Martinotti, che consente volumi produttivi elevati, cospicui fatturati e dividendi più alti. Con il senno di poi, riconosco che è stato un grande errore aver proseguito su quella strada per così tanti anni e l’accontentarsi è stato deleterio, poiché, nel frattempo, altre aree vitivinicole hanno preso campo, dandomi personalmente l’impressione che ognuna avesse una marcia in più rispetto all’arcaico e rurale Oltrepò pavese.

Ma ora qualcosa sta cambiando anche qui. Sento, intorno a me, un piacevole risveglio del settore vitivinicolo e, al suo interno, avverto una grande voglia di rincorrere il tempo perduto, di collaborare, di crescere e di ottenere i grandi risultati che questo territorio consente. Il mio è un ottimismo fondato proprio sulle potenzialità e sulle specificità di questa terra e dei vitigni come il Pinot Nero o il Riesling, di cui siamo i maggiori produttori italiani. Un ottimismo che si basa anche sul fervore e sul dinamismo che ha contagiato un po’ tutte le aziende che oggi guardano a questo loro Oltrepò pavese con un’altra ottica e forse anche con un rinnovato legame, scevro di antichi limiti e ottuse diatribe paesane. In effetti, non ci manca niente per diventare grandi. Guardalo... vedi come abbiamo ben conservato questo territorio. Osservalo bene e ti renderai conto che c’è ancora una grande variabilità produttiva introvabile in molte altre zone vitivinicole d’Italia. Tu, qui, non vedrai mai una distesa ininterrotta di vigneti, ma un intercalare di filari che s’intrecciano ai boschi, ai campi di grano e alle colture di mandorli e noci, elementi che, tutti insieme, originano un sistema agricolo ricco di grande biodiversità. Per alcuni, forse, questo è un modo un po’ antico di concepire l’agricoltura, ma non lo è per chi si alimenta di quella sana tradizione contadina che, a dispetto dei tempi, ha sempre consentito il mantenimento di un tenore di vita più che dignitoso per tante famiglie. Qui, come vedi, il paesaggio è quello di una volta, quello di tanti anni fa e se, guardandolo, riesci ad escludere certi particolari, ti accorgerai che è simile a quello raffigurato nelle fotografie “ingiallite” che puoi vedere talora appese in qualche vecchia casa. Personalmente ho incominciato ad apprezzare queste


LA VERSA

NOTES

cose molto di più da quando sono alla guida di questa atipica cantina sociale che, pur avendo come forma giuridica quella di una public company, cioè una vera e propria società per azioni, ha una base associativa eterogenea, composta principalmente da produttori che difendono, con orgoglio, il territorio. Cosa che ho imparato a fare anch’io, come enologo e responsabile di produzione della cantina, migliorando ciò che era migliorabile nei vigneti, valorizzando e incentivando, innanzitutto, la produzione viticola, cercando, nel contempo, di trovare delle soluzioni che aiutassero i produttori in questo loro compito. Soluzioni come quelle messe in pratica contro l’erosione piovana che nell’Oltrepò pavese, per via delle pendenze e della lavorazione meccanica, causa lo sgretolamento superficiale del terreno creando molte problematiche ai vigneti. Stando in contatto con i miei conferitori, ho incominciato ad acquisire la mentalità tipica dell’agricoltore di questa zona e, con essa, quell’innato senso dell’osservazione, ma credo anche di aver contribuito a comunicare loro alcune delle mie cognizioni tecniche, come quella di averli convinti a non tagliare il bosco per impiantare altre vigne, cosa che avrebbe potuto dare un immediato risultato economico, ma che, alla lunga, avrebbe modificato l’ambiente nel quale erano abituati ad operare. Ci sarebbero tante cose da dire e molti argomenti su cui discutere, ma devo ritornare alla realtà e, pur sapendo di aver fatto passi da gigante in questi ultimi anni e pur percependo che, anche intorno a questa cantina le cose si stanno evolvendo, devo tener sempre presente che, dal 1 settembre al 20 ottobre di ogni anno, arrivano in cantina, conferiti da 500 soci, 100.000 quintali di uva, tutti da vinificare, da cui si ottengono 70.000 quintali di vino che bisogna pur vendere e, credimi, questo non è un problema da poco...


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni mediamente argillosi, calcarei con poco scheletro e molto profondi, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 400 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Pinot Nero 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 10°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per circa 10-12 giorni, alla temperatura di 18°C, ed è svolta in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura in cui il vino rimane fino al mese di gennaio dell’anno successivo alla vendemmia; durante questo periodo vengono effettuati frequenti bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura del vino. Si procede quindi all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la successiva presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 84 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 30 giorni, all dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Lo spumante affina per altri 3 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino veste il bicchiere con schiuma cremosa e un colore paglierino dai riflessi dorati che arricchisce un perlage fine e persistente; si presenta all’esame olfattivo proponendo una buona freschezza giocata su note tostate di panificazione e lievito che si mischiano a quelle floreali di glicine e acacia e ad altre vegetali. Un crescendo di aromi inebria l’olfatto che si percepisce aromi di nocciola tostata che precedono sentori fruttati di uva spina, pera e agrumi, con un finale di mentuccia e di biscotto allo yogurt. In bocca è articolato e ha capacità di affascinare, risultando elegante, armonioso, equilibrato, fresco e persistente. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2000, 2001, 2004, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal colore della capsula e vuole festeggiare il “principio” di una nuova era, di un nuovo secolo varcato dalla cantina (nel 2005 La Versa ha compiuto i suoi primi 100 anni), raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 12 anni. L’azienda: La Versa S.p.A vinifica le uve raccolte da oltre 450 viticoltori della zona dell’Oltrepò della Valle Versa su una superficie vitata complessiva di 1.300 Ha. Collaborano in azienda l’agronomo Sara Monaco e l’enologo Roberto Lazzaro coadiuvato dallo stesso direttore generale Francesco Cervetti.

Oltrepò Pavese DOC VSQ Metodo Classico Brut Testarossa Principio Millesimato

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot Nero provenienti dai vigneti dei soci conferitori, posti nel comune di Montecalvo, le cui viti hanno un’età media di 35 anni.

203


PATRIZIA, FABIO LANTIERI DE PARATICO

Ci sono giornate in cui la vita ti riserva i suoi messaggi, talvolta importanti e ricchi della verità che essi rivelano, altre volte solo limpidi, netti e decisi come lame affilate di un coltello che incidono il tuo presente, cambiano il tuo futuro e illuminano la strada della buona sorte che ti è stata riservata. Fu in una di quelle giornate che lessi, aprendo un libro di scuola di mio padre, una frase che si stagliava come un’epigrafe al centro del frontespizio di un volume di cui non ricordo più il titolo. Qualcosa da fare Qualcosa da sperare Qualcosa da amare Recitava così e la ricordo talmente bene da averla ancora chiara nella mia mente. Rimasi colpito non tanto dallo scoprire come mio padre avesse potuto scrivere un concetto così profondo, quanto per il fatto di non averglielo mai sentito pronunciare in tutta la sua vita. Anche lui forse aveva sentito o letto questa frase da qualche parte e, come me, ne era rimasto affascinato fino al punto di copiarla su quel libro dal titolo sconosciuto per poterla rileggere ogni volta che ne avesse avuto voglia, così da rammentarsi quali fossero i princìpi ispiratori che

regolano la vita di un uomo. Sono gli stessi princìpi che hanno guidato da sempre anche la mia vita, poiché quel Qualcosa da fare è sempre stato il motore ispiratore della mia quotidianità fin da quando aiutavo mio padre Giancarlo, medico di professione, nel suo hobby preferito che consisteva nell’accudire questo pezzo di vigna di proprietà dei miei nonni paterni, qui a Capriolo, in Franciacorta. Ero giovane, ma stando accanto a lui acquisii presto le necessarie attenzioni richieste per produrre bollicine, partendo proprio dalla scelta dei terreni, dal sistema utilizzato per mettere a dimora le barbatelle, dalle cure dedicate a quelle viti fino ad arrivare all’ottenimento dell’uva migliore e alla sua lavorazione, il tutto arricchito da quell’enorme pazienza che occorre per far maturare questi vini di Franciacorta. Quel suo hobby, con gli anni, divenne anche il mio; così, senza sentire nessun sacrificio, continuai a coltivarlo anche dopo essermi laureato in Economia e Commercio ed essere diventato dottore commercialista e anche durante tutti gli anni trascorsi a fornire consulenza amministrativa ad alcune importanti aziende bresciane. Quel Qualcosa da fare mi è sempre appartenuto, soprattutto quando fui spinto ad assecondare la passione del vino che da mio padre si era trasferita a me, accorgendomi di

mettere in essa il solito trasporto e la stessa intensità che può scaturire solo da una tradizione di famiglia e che nessuno, pur facendo altri lavori, ha mai voluto perdere: passione che mi ha spinto, da oltre tre anni, ad abbandonare la libera professione e a dedicarmi integralmente al mondo del vino. Qualcosa da sperare: credo che questo principio sia stato invece il combustibile del motore della mia vita con il quale ho trovato la forza di dare seguito alle mie speranze, a partire da quelle di un giovane commercialista a quelle più concrete di un libero professionista e a quelle che oggi accompagnano un imprenditore del vino che ama la vigna più di ogni altra cosa e, ironia della sorte, meno tutto ciò che è burocrazia, contabilità e amministrazione, materie che difficilmente si combinano con i miei sogni. Speranze che oggi sono canalizzate nello sviluppo di quest’azienda e nell’ottenimento di una produzione limitata di vini di alta qualità sempre più ricchi di un forte appeal, di personalità e capaci di distinguersi dalle mode. Speranze che sono legate anche alle sorti di questo territorio e al desiderio di riuscire a far comprendere quanto sia necessario preservarlo e valorizzarlo, non solo per noi, ma, soprattutto, per le generazioni future, per coloro che, nel tempo,

LANTIERI DE PARATICO


205


LANTIERI DE PARATICO potranno continuare a godere di un’area unica, salvata da quell’architettura industriale che in provincia di Brescia sembra voler divorare ogni cosa. Così come è ovvio che vi sia ancora Qualcosa da sperare nell’amicizia, in cui continuo a credere, certo come sono che non sia solo il sogno utopistico di poeti e scrittori che in ogni tempo hanno provato a descriverla. Sogni e speranze che si rincorrono, mi danno energia e accendono il motore della mia esistenza con nuovi stimoli e nuove emozioni. E cosa dire di quel Qualcosa da amare? È l’olio del motore della mia vita senza il quale fonderei o stenterei a muovermi, rimanendo rigido e incollato al mio egoismo. Ah... l’amore! Con lui il vuoto si riempie dei sorrisi di mia moglie e di quelli delle mie figlie, come si riempie dei profumi della vendemmia, delle serate passate fra amici godendo del semplice piacere di stare insieme. Qualcosa da amare l’ho trovato in ciò che faccio e per fartelo comprendere ti organizzerei un corso, aprirei una scuola, così da liberarti dalla schiavitù del “non amore”, convincendoti magari a sperimentare cosa esso significhi e quanto tutto sia possibile in sua compagnia, arrivando anche ad essere se stessi, liberi e realizzati. Amo e amo anche il mio vino perché mi fa capire l’amore, perché mi spiega più cose di quante non potrebbe mai spiegarmi qualsiasi psicologo e perché non mi fa allontanare da quella disciplina, da quell’ordine che devo seguire per fare le cose di qualità e che non vanno in contrasto con lo sviluppo di quelle regole che, culturalmente, ho necessità di avere e che sono ferree, come i princìpi di quella frase che trovai sul libro di mio padre, tanti anni fa, dai quali ho tratto spunto per realizzare i miei progetti.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay e Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda posti in località Colzano, nel comune di Capriolo, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici in parte profondi, ma mediamente sottili e fluvio-glaciali, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 380 metri s.l.m. con un’esposizione a est/sud/sud-ovest/ ovest. Uve impiegate: Chardonnay 70%, Pinot Nero 30% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte con una vinificazione in bianco del Pinot Nero e i mosti ottenuti, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 14°C, l’innalzamento della temperatura e la relativa inoculazione dei lieviti selezionati, si avviano alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per 14-16 giorni, alla temperatura di 16°C, ed è svolta in acciaio dal Pinot Nero, mentre lo Chardonnay la svolge per l’80% in tini di acciaio inox, e per il 20% in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura. In questi contenitori il vino svolge in parte la fermentazione malolattica e rimane fino al mese di marzo dell’anno successivo alla vendemmia, periodo durante il quale vengono effettuati frequenti sur lies e bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili al fine di arricchire la struttura del vino. In primavera si procede all’assemblaggio delle partite, ad una breve decantazione e alla costituzione della cuvée, cui fa sèguito l’imbottigliamento e la conseguente aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane a maturare sui lieviti per almeno 36 mesi, periodo durante il quale viene dato manualmente il coup de poignet (colpo di polso) alle bottiglie, per poi procedere al loro remuage manuale per 30 giorni. Segue il dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e la contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un bel colore giallo paglierino luminoso che arricchisce un perlage fine, numeroso e prolungato; si presenta al naso ben articolato, ampio, basandosi su una buona tostatura olfattiva, dove in primo piano affiorano sensazioni di miele, marron glacé, nocciola e caffè che si spalancano, dopo un po’ a note floreali e fruttate, fuse a nuances speziate. In bocca ha un ingresso elegante, rotondo, fresco, equilibrato, disponendosi su toni sapidi e freschi in una struttura di grande impatto ed equilibrio che non nasconde un retrogusto di pane all’uva. Prima annata: 1987 Le migliori annate: 1995, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dalla mitica regione della Grecia, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Lantieri fin dal 1400, l’azienda agricola si estende su una superficie di 25 Ha, di cui 18 vitati e 7 occupati da boschi e prati. Collaborano in azienda l’agronomo Pier Luigi Donna e gli enologi

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Millesimato Arcadia

207




ALESSANDRO LUZZAGO

LE CHIUSURE


211

Sono arrivato a cinquant’anni e mi stupisco di come continuo ancora a chiedermi: “Perché?”. Forse lo faccio per non dover vivere confusamente, per spiegarmi il senso della vita o per avere, da ciò che mi circonda, quelle risposte che mi attendo, in modo da percepire la solidità e la concretezza di cui il mio spirito libero ha bisogno per restare ancorato a terra. Non smetto mai e continuo a chiedermi il perché delle cose. Con scientifica metodologia e sistematica riflessione mi pongo domande, ritrovandomi a ragionare sui sentimenti e sull’amore, sull’etica, sulla costanza, sulla fortuna che la vita, benevolmente, mi ha elargito, sulla gioia di avere mia moglie e i miei figli al mio fianco, sulla chitarra appesa al muro e sulle note di una musica che adoro suonare, sull’infinità di quei titoli che mi sintetizzano i contenuti delle centinaia di libri che ricoprono le pareti di casa mia. Domande che mi inducono a riflettere sulla scrittura che, pur essendo uno dei miei amori, ho ultimamente trascurato con rimpianto, perché con essa avrei potuto raccontarti di me, del mio vino e del mio olio del Garda, trovando piacere a misurarmi con i nodi che legano le parole, i quali, una volta dipanati, sono capaci di costruire i sottili e delicati fili di un ragionamento con cui avrei potuto descriverti me e questo luogo. È qui che ho le mie certezze, quelle che mi sono costruito in compagnia della coerenza con la quale ho fatto amicizia tanto tempo fa, quando ero giovane, e uscivo insieme all’irruenza che ora, pur rimanendo

sempre al mio fianco, cerco di controllare e con la passione che lascio, invece, libera di aiutarmi a costruire i sogni che, talvolta, però si scontrano con la logica, spingendomi, in una spirale virtuosa, a domandarmi un’infinità di perché. Come se girassi nella mano una moneta sulla quale, in uno dei due lati è raffigurata Atena - l’immagine della concretezza di cui voglio circondarmi e che mi dà la percezione della solidità delle mie azioni e delle mie idee - e nell’altra Mercurio - che raffigura l’anima, i miei pensieri e il rapporto con l’immateriale. Eppure, a cinquant’anni, dovrei vedere la vita per ciò che è, magari smettere di pormi troppe domande, dimenticare qualche illusione, individuando quali siano le cose inconsistenti e impermanenti e quelle, invece, concrete e inamovibili. È forse il bisogno di porsi delle domande il vero senso della vita? O è l’inconsistenza delle risposte a farci apparire reale anche ciò che non è? Quello che è certo è che il mio rifugio è in questo luogo dello spirito, fra le mie viti e gli olivi che, oltre che legno e foglia, percepisco come elementi vitali di un paesaggio che diventa giardino, che ho cercato di proteggere, costruendo intorno ad esso, dove mi è stato possibile, alte e spesse mura. Un castello, con una barriera invalicabile posta a difesa della urbanizzazione selvaggia, diffusasi come una malattia infettiva, e da quella rumorosa e fastidiosa megalopoli di dieci milioni di abitanti che è posizionata qui intorno, proprio nel raggio di un’ora di macchina da questo posto ameno. Tutte

le mattine, quando mi alzo e mi guardo intorno, penso di essere fortunato, perché, anche se ci ho messo un po’ per capirlo, questo era ciò che desideravo ed era proprio qui che volevo stare. Questa era la casa dei nonni, quella delle mie vacanze estive quando lasciavo Brescia, dopo le scuole, e dalla quale mi dovetti un po’ allontanare per frequentare prima l’università a Firenze, dove mi sono laureato in Scienze Agrarie, e poi per lavorare nella redazione di un’azienda editoriale bresciana, dove curavo una rivista trimestrale di cultura, arte e cronaca. Pur piacendomi il lato intellettuale di ciò che facevo, sentivo che mi mancava qualcosa. Sentivo il bisogno di muovermi e quando si presentò l’occasione di riprendere possesso della vecchia casa dei nonni e di questo giardino vitato, non mi lasciai scappare l’occasione per ritornare a sognare all’aria aperta, libero e felice come quando giocavo qui da ragazzino. Fu in quel momento che cominciarono a tornarmi utili i miei studi di Agraria con i quali, presto, passai dalla teoria alla pratica, provando la gioia di sporcarmi le mani con la terra. A distanza di anni devo dire che la profonda relazione che ho avuto con questo luogo è stata uno dei tasselli che mi ha permesso di definirmi come uomo e come persona, rendendomi capace di avviare delle riflessioni personali non solo sulle priorità e sulla qualità della vita che volevo vivere, ma anche sul ruolo strategico che potevo avere nel tessuto sociale in cui opero e sul contributo che potevo fornire


LE CHIUSURE

alla salvaguardia e alla valorizzazione del territorio. Un tempo, il verde intenso dei vigneti e degli oliveti si rispecchiava nell’acqua del lago. Ovunque c’erano viti e olivi, mentre ora sopravvive qualche uliveto e le viti, che richiedono un impegno altamente professionale, tendono a scomparire. Molti gardesani hanno preferito impegnarsi in attività turistiche, più redditizie e meno faticose e oggi nel comune di San Felice del Benaco le aziende che hanno vigne e producono vino sono soltanto due. Allora mi interrogo se abbia senso che la storia, la cultura e la tradizione contadina, vissute da tutti gli abitanti del comune in modo propositivo fino a pochi anni addietro, debbano essere gettate al vento solo per mere ragioni economiche e scelte miopi di chi non vede un centimetro al di là del proprio naso e non si pone il problema di quale potrà essere l’ambiente in cui vivranno i propri figli. È per queste domande, alle quali ho dato le mie risposte, che conduco, insieme a tanti altri, una battaglia culturale con la quale spero di riuscire a far cessare lo scriteriato scempio paesaggistico che si è andato concretizzando, avviando una seria revisione delle strategie amministrative del territorio e orientandole, per quanto è possibile, verso una maggiore tutela dello stesso. Così facendo, si eviterebbe di snaturarlo e lasciarlo senza un’identità precisa; se costruiamo solo delle belle cartoline per i turisti, alla fine essi, non trovando più uno straccio d’identità, di cultura e di tradizione da apprezzare, ci abbandoneranno lasciando questo territorio più desolato, nudo e povero che mai. Non voglio che ciò accada e anche questo, oltre al desiderio di produrre il miglior vino possibile, dà senso al mio lavoro.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Rebo, Merlot e Barbera provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Brolo, nel comune di San Felice del Benaco, le cui viti hanno un’età di 15 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, di medio impasto, sono situati ad un’altitudine di 150 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Rebo 50%, Merlot 40%, Barbera 10% Sistema di allevamento: Guyot classico Densità di impianto: 6.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre e separatamente per le diverse varietà di uve, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte; i mosti ottenuti e posti separatamente in tank di acciaio, si avviano alla fermentazione alcolica. Questa fase dura circa 10 giorni ed è svolta alla temperatura di 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae per altri 20 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, i vini vengono riposizionati nei tank di acciaio e svolgono subito la fermentazione malolattica, al termine della quale si procede ad un primo assemblaggio delle partite e all’introduzione del vino in barriques di rovere francese a grana e tostatura media, per metà nuove, in cui rimane per 12 mesi. Al termine della maturazione, dopo l’assemblaggio definitivo delle partite e un periodo di decantazione di 6 mesi in tini di acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: circa 4.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di prugne, more e lamponi maturi che si vanno a sommare ad importanti note di viola appassita per poi aprirsi a percezioni di liquirizia nera e cioccolato fondente. In bocca il vino è elegante, ricco di una fibra tannica ben evoluta e di una bella freschezza che lo rendono piacevole, risultando inoltre lungo e persistente. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1998, 2000, 2003, 2004, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dalle mappe del catasto napoleonico in cui si identificava con il nome di Malborghetto una contrada del vecchio borgo di Portese, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia materna dal 1940, l’azienda agricola si estende su una superficie di 7 Ha, di cui 4 vitati e 3 occupati da oliveto. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Alessandro Luzzago.

NOTES

Malborghetto Benaco Bresciano IGT Rosso

213


MONIQUE PONCELET IN GUSSALLI BERETTA

LO SPARVIERE


215

Non ho percepito mai la lontananza, né il rammarico di essere partita o di aver affrontato un esilio non voluto. Infatti, anche se piccola, ero troppo contenta di sfuggire alle bombe della seconda Guerra Mondiale per soffrire di aver lasciato il Belgio, dove sono nata; così come, qualche anno dopo, ero, invece, troppo innamorata per provare rimpianti nel distaccarmi da Nizza, in Francia, dove mi ero trasferita con la famiglia durante il periodo bellico. No, non sono queste le sensazioni che ho provato lasciando la Costa Azzurra per venire a vivere a Gardone Val Trompia, nel bresciano, anche se è comprensibile immaginare che non è stato un cambio di poco conto, e che ho potuto affrontare grazie alla famiglia di mio marito Ugo, ma soprattutto a mia suocera Giuseppina Beretta in Gussalli, che è stata straordinaria, perché mi ha fatto amare Brescia, i bresciani e la loro mentalità. Oggi, dopo quasi mezzo secolo, ho la netta percezione di non essermi mai allontanata da qui e per questo di non essere distante da niente e da nessuno, perché quello di cui avevo bisogno, per sentirmi a casa, l’avevo qui, era intorno a me. Questo sereno pensiero non è sorto in conseguenza del fatto di aver vissuto tra le comodità o con una solidità economica che non mi ha fatto mancare niente; non sono state certo queste cose materiali a farmi essere ciò che sono, ma è stato l’amore, quel profondo sentimento di cui mi sono nutrita in tutti questi anni passati accanto a Ugo, assieme alla famiglia e a tutti quelli con cui ho condiviso i momenti belli della mia vita. Un’esistenza trascorsa in modo equilibrato, direi, cercando di essere prima di tutto una buona moglie e una brava madre e poi, quando mi è stato possibile, di vivere in armonia con tutto quello che mi circondava. Sono state proprio queste sensazioni a farmi sentire a casa, “parte integrante” di questo luogo come avrebbe fatto un grande albero che una volta arrivato dal vivaio è

stato tolto dal vaso e piantato per terra, dove ha messo profonde radici nel terreno e, negli anni, si è costruito un fitto fogliame che dà ombra e sollievo a chiunque si pone sotto la sua chioma. Un albero posto in uno splendido luogo condiviso con altri alberi, con quello che Ugo ha piantato vicino a me e con cui ho intrecciato le radici e le stesse fronde dei rami o con quelli, ancora giovani, dei miei figli Pietro e Franco, o con il piccolo albero di nostro nipote Carlo, che grazie a Dio sta crescendo bene insieme agli altri, tanti e tutti belli. Non so se queste sono percezioni comuni a tutti quelli che come me amano la campagna o sono cresciuti in mezzo alla natura. A me piace immaginare di essere all’interno di un fantastico giardino, colorato e abitato dalle persone a cui voglio bene, le quali hanno piantato lì il loro albero. Un giardino nel quale si rilassano e si aprono per dare la possibilità, a chi ne ha voglia, di conoscerli meglio, come ho fatto io, e comprendere quali splendide persone siano; allo stesso tempo so che esse sono tutte doverosamente impegnate a non intralciare gli altri, ma proiettate a rendere felici e aiutare il prossimo secondo le sue necessità. Una visione personale, cristiana, che tocca la mia coscienza e che non mi ha mai precluso di aprirmi anche nei confronti di chi difficilmente ha voglia di scalzare la corteccia che lo protegge; in un ambiente come questo bresciano non è facile esternare le proprie sensazioni... Qui la gente è chiusa, ma al contempo, posso assicurare, ha un cuore straordinario ed è capace di profondi sentimenti e slanci di grande solidarietà che però ha paura a mostrare, come se fosse un difetto da nascondere o una debolezza di cui altri potrebbero approfittare. Provate a parlare ai bresciani di sentimenti, di amore, di poesia, di passioni e li vedrete titubanti, vacillare davanti a parole che difficilmente sanno coniugare, mentre chi li conosce sa che dentro sono ricchi di affetti sinceri per la famiglia e

per le persone a loro care. Sono cose che ho imparato sulla mia pelle, facendo attenzione a non urtare la suscettibilità o ad intralciare il lavoro degli altri, così come ho imparato a seguire quest’azienda di famiglia che era stata ereditata da mio suocero Franco Gussalli che, fin che ha potuto, l’ha seguita con l’ottica della casa di campagna dalla quale ricavare una produzione vitivinicola strettamente riservata a soddisfare il fabbisogno familiare. Ricordo ancora che si meravigliava, quando alla metà degli anni Settanta in Franciacorta si cominciò a creare un buon mercato del vino: “Ma perché vogliono vendere il vino? Perché non fanno come noi che lo facciamo solo per casa? Che cosa vogliono fare? Dove vogliono arrivare...?”. In quest’avventura vitivinicola mi sono lasciata guidare da chi conosceva il settore in maniera più approfondita, ma nella conduzione dello Sparviere mi sono voluta circondare sempre da persone di cui mi fido ciecamente - che in alcuni casi ho visto nascere - e che rappresentano la quinta generazione della famiglia Manessi che ha sempre lavorato in questa proprietà. In questa mia ferrea decisione ho tenuto conto dell’insegnamento che mi ha dato Ugo, il quale sostiene che è sì necessario lavorare bene, ma allo stesso tempo non bisogna dimenticare che, prima di tutto, un’azienda, a prescindere da quale sia il suo mercato di riferimento, è composta da uomini, ognuno dei quali deve dare il massimo contributo e per questo deve essere tenuto nella massima considerazione possibile. È stato questo che mi ha aiutato maggiormente in questi anni, anche perché non ho mai guardato l’azienda solo attraverso i numeri o un semplice bilancio, ma attraverso l’insieme di persone che la rappresentano e che hanno contribuito a fare tutto quello che oggi mi circonda, persone alle quali, come imprenditrice, dovevo dare sicurezza e


LO SPARVIERE


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Brolo e Bobani nei comuni di Monticelli Brusati e Provaglio d’Iseo, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 27 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni marnosi ricchi di argille rosse e limo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 350 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Chardonnay 100% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 3.500 ai 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 18°C, si avvia alla fermentazione alcolica con l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni e si svolge alla temperatura di 18-20°C, per il 90% in tini di acciaio inox e per il 10% in barriques di rovere francese di Allier di secondo passaggio, a grana fine e media tostatura; in questi contenitori il vino rimane fino ai primi di marzo dell’anno successivo alla vendemmia, mesi invernali durante i quali svolge la fermentazione malolattica e in cui vengono effettuati frequenti sur lies e bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura del vino. In primavera si procede quindi all’assemblaggio delle partite, cui fa sèguito la composizione della cuvée, con un 10% del vino delle annate precedenti e successivamente l’imbottigliamento e la conseguente aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane a maturare sui lieviti in cantina per almeno 60 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 45 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 6 mesi in bottiglia prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore oro luminoso che arricchisce un perlage molto fitto, fine e persistente; all’esame olfattivo si presenta elegante e con bella personalità e freschezza; si riconoscono note speziate di foglia di tabacco verde, floreali di mughetto, biancospino e foglia di limone e fruttate di agrumi, pesca, pompelmo rosa, con un finale che ricorda una torta pasticcera con crema al limone. In bocca risulta morbido, armonioso e ricco, capace di mettere in equilibrio la vena acida, la dolcezza e la sapidità: tutti elementi che sorreggono l’intera degustazione rendendo il vino lungo e con un persistente finale agrumato. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1998, 2001, 2004, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà di Monique Poncelet in Beretta dal 1974, l’azienda agricola si estende su una superficie di 150 Ha, di cui 30 vitati e 120 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Pier Giuseppe Manessi e l’enologo Giuseppe Bassi.

NOTES

Franciacorta DOCG Extra Brut Millesimato

217


MAMETE PREVOSTINI

MAMETE PREVOSTINI


219

È dal Crotasc di Mese che è partita la storia. Proprio da questo paese della Valchiavenna stretto fra le montagne che oggi, in questa giornata di pioggia, nebbiosa e uggiosa, danno ancor più l’idea di essere grigie; ma pur nel grigiore che caratterizza la giornata, queste montagne sono sempre un po’ più chiare delle acque del lago di Como che hai incontrato, venendo qui, poco prima che la vallata si chiuda e diventi un affascinante e sinuoso imbuto che conduce al confine con la Svizzera, che dista appena qualche chilometro. Crotasc ha dato il nome anche a questo ristorante, l’unico in tutta la vallata, e forse anche in tutta la Valtellina, ad essere gestito dalla stessa famiglia ormai da tre generazioni. È partendo da questo “Crotto” che potrei iniziare a descriverti quanto sia stato naturale il mio coinvolgimento nel mondo del vino, essendo cresciuto proprio in questa cantina che fu acquistata da mio nonno Mamete nel 1925 e che egli utilizzava per conservare il vino, i salumi e i formaggi che produceva. “Crotto” sopra il quale nonna Maria aprì, successivamente, il ristorante che, un tempo, subito dopo la guerra, era solo una piccola trattoria, aperta soltanto d’estate quando gli avventori potevano mangiare sotto i castagni che la circondavano e dove si servivano dei piatti freddi realizzati con i prodotti di casa, quelli preparati dal nonno. Quell’attività, grazie ad un entusiastico passaparola, cominciò a funzionare sempre meglio e costrinse mio nonno ad aumentare quella minima quantità di vino, appena sufficiente a soddisfare l’autoconsumo del ristorante, comprando le uve dai piccoli produttori sparsi un po’ ovunque in tutta la zona. Anche mio padre Ivo fu coinvolto, giovanissimo, sia nell’attività enologica che in quella di ristorazione, coinvolgimento che, più tardi, si estese anche a noi fino al punto che oggi identifichiamo questo ristorante come luogo dove ritrovarsi per sentirci a casa. Crescendo e annusando il profumo del

vino fin da piccolo, mi è sembrato naturale, dovendo scegliere cosa avrei dovuto fare da grande, diventare enologo. Mi sono ritrovato così a frequentare l’Istituto Enologico di Conegliano Veneto e, casualmente, a fare il tirocinio, dopo essermi diplomato, in una grande azienda valtellinese, forse la più rappresentativa della Valtellina, dove sarei dovuto rimanere solo per qualche mese e dove invece sono rimasto per quattro anni. Un’esperienza che mi ha segnato, in termini professionali e umani e che mi ha fatto prendere coscienza di quali e quante fossero le reali potenzialità di un territorio come questo della provincia di Sondrio. Molto probabilmente se, dopo la scuola, invece di andare in Valtellina fossi andato in Oltrepò o in Toscana, avrei preso tutta un’altra strada e difficilmente sarei ritornato a lavorare in mezzo a queste montagne. Fatto sta che quell’esperienza, che mi vide impegnato nelle vigne e in cantina con la passione e la concentrazione di chi ha tutto da imparare, mi fece scoprire la realtà della viticoltura valtellinese, l’unica in grado di mettere a dura prova quanti desiderino fare i vignaioli. Assaggiando quei Nebbioli che producevamo avevo la sensazione esaltante di trovarmi davanti a dei prodotti che conservavano, al loro interno, un mondo che per me era tutto da scoprire e che era lì, a mia disposizione, pronto e disponibile ad essere esplorato. Non so se alla crescita della mia passione per questi vini contribuì l’esperienza precedente maturata a Conegliano, nella quale non ero andato oltre l’incontro con qualche Prosecco e qualche “Merlottino” realizzato in maniera empirica. Qui, invece, mi trovavo di fronte a vini veri, unici, tipici che secondo me dovevano solo essere riscoperti. Ciò che principalmente mi stimolava era il territorio e, nonostante percepissi quanto fosse difficile lavorarlo, mi entusiasmava l’idea che quel piccolo “Crotto” di famiglia avrebbe potuto offrirmi l’opportunità che andavo cercando, vale a dire mettere

in pratica le mie idee, costituendo un perfetto banco di prova per tutto ciò che, in quel periodo, andavo imparando. Tornai a casa solo quando con mio padre fu possibile acquistare qualche vigna in Valtellina; spento però l’iniziale entusiasmo che contraddistingue qualsiasi avventura, mi resi conto di quanto fosse dura la strada che avevo scelto di percorrere e che forse, fra tutte le zone del mondo in cui sarei potuto andare a fare il vignaiolo, avevo scelto proprio la più difficile. Devi sapere che in questa zona ogni vigna deve essere accudita e lavorata a mano e solo ora, e solo in alcuni terrazzamenti, in modo molto marginale, si cominciano ad utilizzare quei piccoli trattori che avrai sicuramente visto, ma che, in ogni modo, non alleviano più di tanto la fatica necessaria per arrivare a cogliere un buon grappolo d’uva. Nonostante queste difficoltà, che già di per sé avrebbero scoraggiato anche il più temerario e appassionato dei vignaioli, vi era anche il fatto che quando andavo a presentare i miei vini e descrivevo la Valtellina fuori dell’ambito locale, la gente si ricordava solo di quei vini duri, spigolosi e mai pronti che avevano imperversato sul mercato nei decenni precedenti. Incontravo difficoltà ovunque: in vigna, in cantina, sul mercato e non ti nego che mi domandavo spesso chi me lo avesse fatto fare di imbattermi in questa avventura. Non nascondo che gli inizi furono duri, poiché da una parte non ero più così contento della scelta fatta e dall’altra non riuscivo a capire quale fosse il reale problema che affliggeva questa viticoltura che, per decenni, era stata celebrata e considerata fra le più interessanti d’Italia e, a testimonianza di ciò, vi era, negli anni Sessanta e Settanta, una produzione enologica ai vertici italiani, apprezzata dal mercato internazionale e che ora languiva in uno stato d’inerzia. Che cosa era successo? Se qualcosa di buono c’era stato, significava che questa terra era in grado di darlo: forse


MAMETE PREVOSTINI

NOTES

era necessario solo riscoprirlo. Ma come? Per comprendere quali fossero i problemi, decisi di guardare cosa facevano gli altri e per questo mi recai in Piemonte e iniziai a frequentare produttori come Conterno Fantino e Clerico, con i quali nacque un’amicizia che dura tuttora e compresi che dietro ai grandi vini che producevano non vi erano alchimie o strategie particolarmente complesse, ma solo un’attenzione, quasi maniacale, alla conduzione della vigna. Era lì il segreto; mi sembrò banale e semplice scoprirlo e mi stupii di non averci pensato prima. Ecco perché era decaduta la viticoltura qui in Valtellina! Da lunghi anni avevamo smesso di prenderci cura dei vigneti! Seguii il loro esempio e mi bastarono poche vendemmie per cominciare a vedere i primi risultati e avvertire come i miei vini si stessero trasformando da vini “buoni” a vini “del territorio”. Scoprire queste cose fu per me un grande risultato e quelle piccole e iniziali soddisfazioni mi dettero la forza di riassaporare il gusto della sfida e riacquisire il mio entusiasmo iniziale, facendomi comprendere di essere nuovamente appassionato e felice di quella scelta che avevo fatto tanto tempo prima. Un posto che per me, anche in questa fredda giornata di pioggia, rimane magico: un posto che non lascerei più e di cui sono divenuto parte integrante, così come sono parte di questa piccola viticoltura che io stesso ho contribuito a creare, in questa valle in cui abito e dove ho trascorso questi ultimi vent’anni da viticoltore. Sono un vignaiolo coraggioso, un “orso buono”, silenzioso, che vive fra le sue vigne e crede che vi sia un grande futuro per questo territorio dove altri giovani si stanno affacciando all’orizzonte, vogliosi come me di dare un senso alla propria esistenza di vignaioli, sperimentando quelle stesse emozioni che mi hanno sempre fatto credere che in Valtellina si potesse ricominciare a fare dei grandi vini, in grado, come i sogni, di emozionare.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni terrazzati di origine morenica, bassi, molto sabbiosi e ricchi di silicio e di scheletro, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 300 e 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si mettono le uve nel fruttaio dove rimangono fino al mese di gennaio dell’anno successivo alla vendemmia o fino al momento in cui si raggiunge il grado zuccherino di 25° Babo, quando si procede alla diraspapigiatura e il pigiato ottenuto, inoculato con i lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase è svolta in recipienti di acciaio inox e si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura di 26°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale sono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura e una pulizia statica, il vino è posto in barriques di rovere francese di Allier nuove a grana fine e media tostatura, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12-15 mesi. Terminato questo periodo di maturazione, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo 4-5 mesi di decantazione in tank di acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 10 mesi prima di essere commercializzato.

Sforzato di Valtellina DOCG Albareda

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Sassella e Grumello, nei comuni di Castione, Sondrio e Montagna in Valtellina, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 20 anni.

Quantità prodotta: 12.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Uno Sforzato che veste il bicchiere di un bel colore rosso rubino intenso tendente al granato; si presenta all’esame olfattivo con profumi equilibrati di confettura di ciliegie e lamponi maturi, oltre a note di tabacco verde, cannella e cuoio che si intrecciano a un pot-pourri di fiori appassiti, con un finale che ricorda la mentuccia. In bocca è avvolgente, elegante e tutta la degustazione è sorretta da una bella vena sapida che, abbinata ad una trama tannica fitta e ben armoniosa, lo rendono piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 2002, 2007 Note: Il vino, che prende il nome da una località posta nelle vicinanze di Mese, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Paolo, Mamete e Michela Prevostini dal 1996, l’azienda agricola si estende su una superficie vitata di 5 Ha, a cui si aggiungono 15 Ha di vigne di conferitori. La funzione di agronomo è svolta da Paolo Prevostini, quella di enologo da Mamete Prevostini.

221




CARLA DELLERA BOATTI, CARLO BOATTI

Mi piace quest’idea di mettermi seduto in veranda e di raccontarvi un po’ della mia vita, nella speranza che i capelli bianchi e qualche ruga che segna il mio viso non vi traggano in inganno, perché, pur avendo settantacinque anni, sono molto più giovane di quanto appaia! Certo non sono più scattante come una volta e non ballo ormai da tanti anni e nessuno mi chiama più con quel simpatico soprannome che mi avevano attribuito gli amici dopo che avevo scritto “Tango” sulla mia Lambretta con la quale scorrazzavo, da ragazzo, un po’ in tutto l’Oltrepò. “Tango”: è così che mi chiamavano non solo per la scritta che spiccava su quel parabrezza, ma anche perché quando andavo nelle balere ero uno dei pochi che ci sapeva veramente fare, dato che ballavo benissimo il tango, così come, ironia della sorte, oggi sa fare mia figlia Laura che ne ha fatto la sua più grande passione. Mi dispiace che oggi non ci sia, mi sarebbe piaciuto molto presentarvela, come avrei avuto piacere di farvi conoscere Pierangelo, mio figlio, che è ormai il factotum e il deus ex machina dell’azienda. È lui che comanda i giochi, mentre io potrei, tutt’al più, raccontarvi delle mie ultime cinquanta vendemmie... anche se credo che non abbiate voglia di sentire le storie che a loro si accompagnano... Beh... alcune sarebbero veramente interessanti! Sono quelle che, in definitiva, accompagnano i cinquant’anni di storia delle bollicine italiane, che coinvolgono tanta gente e tante imprese e la stessa nascita del Consorzio di Tutela dei Vini

dell’Oltrepò, di cui sono stato fondatore. Storie che si intrecciano alle miriadi di riunioni che si sono tenute negli anni e all’interno delle quali si è combattuto per trovare un nome italiano con il quale contrastare quello francese di Champagne. Dibattiti infiniti che videro la bocciatura del nome “Classese” per gli spumanti italiani, nome che aveva come unica colpa quella di essere stato coniato nell’Oltrepò e quindi vivacemente contrastato da altri territori, fra cui la Franciacorta e il Trentino, che non avevano interesse a far sì che l’Italia spumantistica fosse rappresentata nel mondo con un nome già in uso in questa zona, con il risultato che, a vent’anni da quelle stupide diatribe, non c’è nessun marchio a contrastare quello francese. Vi potrei narrare del Duca Denari che, di fatto, in un’assemblea, decretò, con la sua astensione, la fine di questo lungo dibattito nazionale sugli eventuali nomi da attribuire alle bollicine italiane oppure di come, più tardi, morì sul nascere il tentativo della Valdobbiadene e del Trentino di puntare prima su un nome come “Ritmo” e poi, se non ricordo male, sul “Talento”: in entrambi i casi i nomi assomigliavano più allo spot per certi veicoli Fiat che a quelli per un vino. Potrei raccontarvi ancora del grande e mitico Veronelli che conobbi nel 1966 ad una mostra a Pavia, dopo la quale, ricordo, fece due righe sui miei vini sulle pagine del Corriere della Sera che mi dettero una notorietà inaspettata e mi consentirono di effettuare un salto qualitativo importante non solo nella produzione, ma,

soprattutto, nei miei pensieri, poiché ritenni che la fiducia che lui mi aveva dimostrato non poteva essere tradita. L’occasione mi spinse a crescere come azienda, migliorando di continuo ciò che avevo appena fatto. Poi vennero gli anni di Piero Bolfo e della V.I.D.E. (viticoltori italiani di eccellenza), quelli di Giacomo Bologna, ecc, ecc..., fino ad arrivare ad oggi, sotto questa veranda, dove mi trovo a parlare con chi mi sta dando una fiducia che non vorrei tradire ed è per questo che, spudoratamente, vi confesso che... non volevo fare il vignaiolo! Volevo guadagnare dei soldi. Volevo avere una grande casa in città, una bella macchina e permettermi di viaggiare per il mondo. Ero poco più che adolescente e, se ritornate con la mente a quegli anni, vi ricorderete che quello era un periodo splendido. Erano gli anni del dopoguerra che sembravano preludere ad un futuro diverso, foriero solo di cose belle. Ricordo che c’erano momenti in cui sembrava che la guerra, appena terminata, avesse ripulito l’aria, così come fa una tempesta, risvegliando dentro di noi l’ottimismo e il desiderio di una vita migliore che andava oltre quel semplice, banale e popolare desiderio di normalità cui, giustamente, aspiravamo. Sembrava che ogni giorno dovesse accadere chissà cosa e un’infinità di cromìe rendevano ancor più sfavillante la speranza. Erano gli anni in cui gli amici mi chiamavano Tango. Avevo voglia di vivere la mia vita e di realizzare i miei sogni che contrastavano con la realtà di dover

MONSUPELLO


225


MONSUPELLO

lavorare nella piccola azienda del papà e dello zio che, a malapena, soddisfaceva i bisogni primari della famiglia. Senza esitazioni e con la speranza nel cuore, appena diventato maggiorenne, lasciai tutto e provai a camminare per la mia strada, tentando di fare l’assicuratore, il commerciale, per diventare poi socio di una fabbrica produttrice di lucidatrici. Vi sarà facile immaginare che la cosa non andò molto bene e non per mia incapacità, ma perché, forse, avevo precorso i tempi e nel 1954 non c’erano ancora tante famiglie disposte ad investire dei soldi per lucidare i loro pavimenti. Mesto, me ne ritornai a casa a fare il mestiere di papà e, come succede spesso quando si viene a contatto con la natura e con la vite, mi innamorai del mestiere di vignaiolo. Come vi dicevo, sono ormai cinquant’anni che sono su questa terra e in mezzo a questi vigneti che ho ripiantato, modificato, potato, zappato e vendemmiato per ben cinquanta vendemmie, che non sono poche. Me le sento tutte addosso queste vendemmie, poiché in esse ho investito tutto ciò che avevo, anche se, per correttezza e amor di cronaca, il più bell’investimento è stato quello che ho fatto su Carla Dellera, mia moglie. Non mi costringete, però, a parlare d’amore, perché in questo campo sono rimasto sempre un fanciullo e né davanti a voi, né soli nella nostra intimità, ho mai trovato le parole per raccontarle i miei sentimenti, la riconoscenza e la gratitudine che nutro per lei che, in silenzio per tutti questi anni, mi è rimasta a fianco. Parole che, dovete sapere, pur non riuscendo a pronunciare, ho scritto in un articolo che feci uscire su un giornale locale, qualche tempo fa. È lei la mia più grande fortuna, poiché senza di lei non sarei stato capace di fare ciò che ho fatto e di avventurarmi in questo viaggio nel mondo del vino durato molti anni, durante i quali ci siamo amati, abbiamo avuto dei figli e, qualche volta, ballato anche il tango.


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Pinot Nero e Chardonnay provenienti dal vigneto Ca’ del Tava di proprietà dell’azienda, posto nella località omonima nel comune di Oliva Gessi, le cui viti hanno un’età di 30 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni tufacei, calcarei di medio impasto, con poco scheletro e profondi, è situato ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Pinot Nero 60%, Chardonnay 10%, Chardonnay affinato in legno di annate precedenti alla vendemmia 30% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 12°C, e dopo essere stato inoculato con lieviti selezionati, si avvia alla fermentazione alcolica. Questa fase è svolta in tank di acciaio e si protrae per circa 10-12 giorni, alla temperatura di 18°C; in questi contenitori il vino rimane fino al mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia e durante questo periodo vengono effettuati frequenti sur lies dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura del vino. In primavera si procede quindi all’assemblaggio delle partite e alla realizzazione della cuvée, alla quale partecipa il 30% del miglior Chardonnay delle annate precedenti e più del 50% del Pinot Nero dell’annata corrente di produzione; segue l’imbottigliamento e l’aggiunta nel vino del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 60 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 40 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Lo spumante affina ora per altri 3 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 12.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Spumante veste il bicchiere di un colore giallo paglierino dai riflessi dorati con un perlage fine e persistente; si presenta all’esame olfattivo, evoluto, con note dolciastre di vaniglia che si mischiano ad altre fresche floreali di mughetto, acacia e lavanda, con leggere sensazioni che vanno dalla mentuccia al sottobosco per aprirsi subito dopo agli aromi fruttati di pesca, mela e agrumi. In bocca risulta morbido, fresco, equilibrato, con una buona persistenza che riporta alla mente le note agrumate percepite al naso. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2005, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 12 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Boatti dal 1893, l’azienda agricola si estende su una superficie di 48 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di enologo e agronomo Pierangelo Boatti con la collaborazione di Marco Bertelegni.

NOTES

Oltrepò Pavese DOC Metodo Classico Cuvée Ca’ del Tava

227


EMANUELE RABOTTI

MONTE ROSSA


229

Non vorrei parlarti di me, né di quest’azienda, ma di questa Franciacorta, se fosse possibile. Cosa vuoi che interessi alla gente il fatto che abbia frequentato Giurisprudenza e che volessi diventare notaio o, peggio ancora, che nel mio futuro vedrei con piacere un trasferimento in Australia, dove andrei volentieri a lavorare e a vivere, facendo magari il gelataio, per far crescere i miei figli in un ambiente un po’ più sereno? Cosa vuoi che importi ai lettori del tuo libro chi abbia contribuito alla costruzione di quest’impresa - che oggi è fra le più rappresentative della Franciacorta - se io, mio padre o mia madre. Queste sono cose marginali... Ti basti sapere che Monte Rossa è un’azienda “storica” e come tale ha dato molto a questo territorio. Ecco, è proprio del territorio che voglio parlarti e mostrarti il palcoscenico di questo teatro naturale dove oggi si “recita a soggetto”. Se vuoi comprenderlo devi visitare qualche azienda vitivinicola in più e spendere qualche altra mezza giornata per parlare con i produttori, ascoltando cosa hanno da dirti. Non aver timore di buttare via il tuo tempo, poiché solo in questo modo potrai trarre le oggettive conclusioni che stai cercando su cosa sia realmente la Franciacorta. Guardati intorno. Da questa collina sulla quale si trova Monte Rossa puoi osservare tutto il fondovalle. Ciò che vedi è merito dell’impegno profuso da chi ha creduto in questa terra che, da semplice area agricola, è stata trasformata in un’area vitivinicola. Avrai bisogno di un grande impegno per scoprire cosa c’è alla base del movimento enologico, così come avrai bisogno di molta serenità e obiettività, oltre ad un distaccato senso critico, per girare intorno a queste “Terre Franche”, soprattutto se deciderai di dialogare con noi bresciani. Ti do un consiglio: non abbatterti davanti a certe presuntuose esibizioni.

Lascia perdere, guardati intorno e vai oltre; ti dico questo affinché non ti debba rammaricare poi di esserti soffermato troppo su insignificanti “pagliuzze” invece di ammirare l’insieme che offre questa viticoltura: da una parte coloro che hanno costruito un grande progetto, spendibile nell’arco di un ventennio, come nel mio caso, dall’altra chi, invece, si è limitato, come artigiano del vino, ad affiancare le grandi aziende con una produzione enologica qualificante. Tutte realtà importanti e paritetiche, divise in due anime ben distinte, ma unite nel comune obiettivo di rendere grande la Franciacorta. Personalmente vorrei, invece, cogliere l’occasione di questa tua visita affinché tu possa avere, quando ripartirai per tornartene in Toscana, le idee più chiare non solo su cosa sia questo territorio, ma anche su cosa sta accadendo in Franciacorta e magari “portarti via” molto di più di quanto ti eri immaginato all’inizio del tuo viaggio. Ti anticipo che, nel girovagare, troverai alcuni elementi che non sono ancora in equilibrio con il movimento vitivinicolo di quest’area, ma sicuramente, ti posso assicurare che nel prossimo futuro saranno rimossi, mentre altri aspetti sono già estremamente positivi come forse non immagini neanche. Alla fine del nostro incontro, se mi avrai ascoltato con attenzione, sono sicuro che alcune delle tue perplessità spariranno insieme al tuo sguardo dubbioso. Per fare questo devi avere il coraggio di modificare il tuo punto di osservazione che non può avere come riferimento la cultura vitivinicola della terra dalla quale provieni, troppo distante dalla nostra, né quell’elemento poetico che ha sempre caratterizzato chi scrive di vino come te. Se riesci in questo, scoprirai che anche qui c’è qualcosa di estremamente passionale che affonda la sua origine nella filosofia produttiva

di noi bresciani, che possiamo sì apparire dei “capocchi” - cocciuti, per intenderci, e anche un po’ scontrosi, come dici tu - ma in fondo siamo gente seria: gente che si applica con caparbietà e tenacia e senza timori percorre la propria strada andando avanti con la velocità che i mezzi finanziari e le capacità consentono. Nel caso della Franciacorta, ti accorgerai di quanto sia comune, per questi imprenditori, l’obiettivo di valorizzare il territorio, il quale, nel tempo - cosa più unica che rara per la provincia di Brescia - è diventato un grande strumento di aggregazione: da qui è iniziata una crescita del sistema vitivinicolo, non solo in termini economici, ma, principalmente, in termini culturali. Una crescita scaturita da una sorta di corto circuito intellettivo che ha coinvolto molti imprenditori, i quali hanno saputo leggere nell’esempio di altri viticoltori i tratti cognitivi e comportamentali utili per crescere, allinearsi e, in alcuni casi, superare chi aveva mostrato l’esempio. Questo fenomeno, come è facile intuire, ha dato origine prima di tutto a dei risultati, quindi alla crescita e al feedback aggregante che ha riunito tutti gli imprenditori intorno al territorio franciacortino: fenomeno questo che convalida la teoria filosofica di Aristotele che sosteneva che l’uomo in quanto “animale politico” ha bisogno di aggregarsi e socializzare per esaltare la propria natura. Già questo fermento ti dovrebbe far riflettere anche sul fatto che, in tempi di forte crisi come quelli che stiamo vivendo, non è facile riscontrare in giro tanto entusiasmo imprenditoriale, specialmente nel settore vitivinicolo che, nel nostro caso, ha innescato un ulteriore processo evolutivo di cui a malapena riusciamo ad identificare i confini. Tutti siamo convinti, infatti, di giocarci una partita epocale per questa zona, la quale, grazie al marchio


MONTE ROSSA Franciacorta, è riuscita ad imporsi, a livello nazionale con dei numeri che potrebbero sembrare interessanti, ma che, invece, sono ancora complessivamente irrisori rispetto ai trecentocinquanta milioni di bottiglie di Champagne vendute nel mondo. Numeri che, comunque, hanno fatto registrare nel 2007 otto milioni e mezzo di bottiglie vendute, confermando, negli ultimi sei anni, una crescita media annuale del 20%, a fronte della quale ci siamo posti l’obiettivo, come territorio, di raggiungere nel mercato italiano il risultato minimo di venti milioni di bottiglie vendute nei prossimi cinque anni. Numeri importanti, non ancora sufficienti ad affrontare i mercati esteri, ma che stimolano questo gruppo di produttori a fare sempre meglio per consolidare ancora di più la leadership già conquistata. Lo so che ci sono in giro molti produttori di bollicine Metodo Classico, così come ci sono molti territori che le producono, ma nessuno ha un’identità specifica e riconoscibile dal mercato come la Franciacorta e solo noi abbiamo delle potenzialità tali da consentirci di ampliare la nostra presenza sui mercati con un marchio unico che ormai è diventato una marca. Sappiamo che alcune cose devono essere rifinite, soprattutto all’interno della nostra area, dove ancora sono in molti a dover prendere coscienza del fatto che, per crescere e diventare importanti, è necessario che tutti facciano sistema. Non so se sono riuscito a sgombrare qualche nuvola che ti affollava la mente o se questa mia “recita a soggetto” ti abbia entusiasmato. Spero di averti trasmesso quell’entusiasmo comune a tanti produttori di questa Franciacorta che stai visitando, la quale è una realtà importante nel mondo del vino italiano e ciò mi è sufficiente per sentirmi gratificato e proseguire ad investire


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay e Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Bornato nel comune di Cazzago San Martino, le cui viti hanno un’età media di 12 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso, calcareo moderatamente profondo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Chardonnay 70%, Pinot Nero 30% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 16°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, ad una temperatura di 18°C ed è svolta per più del 50% in carati di rovere, almeno di terzo passaggio, e il resto in tini di acciaio inox. In questi contenitori il vino rimane fino al mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia e durante questi mesi vengono effettuati frequenti sur lies e bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura del vino. In primavera si procede quindi all’assemblaggio delle partite, a cui segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 40 mesi, al termine dei quali si procede al remuage meccanico delle bottiglie, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 4-6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: circa 50.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore paglierino dai riflessi dorati che vanno ad arricchire un perlage fine e persistente; si presenta all’esame olfattivo con estrema eleganza e piacevoli percezioni di caffè alla nocciola che sono solo il preludio ad un bouquet composito di note floreali di acacia, mimosa, ginestra e note fruttate di melone, pesca, susina, papaia e gelso bianco a cui si aggiungono aromi agrumati di cedro in un crescendo che si conclude su una vena sapida, minerale e vegetale. In bocca è ampio, suadente, di grande equilibrio e finezza; buona la freschezza giocata sulle note olfattive sia floreali che fruttate. Prima annata: 1987 Le migliori annate: 1993, 1997, 1999, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dalla parola che indica il taglio privo di sfaccettature delle pietre preziose, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Rabotti dal 1972, l’azienda agricola governa una superficie di oltre 70 Ha di vigneti con una netta predominanza di Chardonnay. L’enologo è Cesare Ferrari.

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Millesimato Cabochon

231


GIOVANNA, CATERINA BRAZZOLA

Nessuna di noi due, né Caterina, né io, Giovanna, avevamo ambizioni da donne manager, né tanto meno volevamo diventare grandi imprenditrici e, contrariamente alla scrittrice Lara Cardella, non volevamo mettere per forza i pantaloni. Quest’azienda che conduciamo ormai da anni per noi era la casa di campagna, quella delle vacanze, dove venivamo da Milano non appena si concludeva l’anno scolastico a trovare nonna Anna Maria. Era lei che ci rimproverava quando, ancora bambine, andavamo a curiosare in mezzo ai “grandi”, intrufolandoci nella trebbiatura del grano, nella vendemmia, in cantina durante la svinatura, oppure nella stalla durante la mungitura delle vacche. Severa, redarguiva anche i nostri genitori, affermando che non era dignitoso che due fanciulle di buona famiglia si sporcassero giocando in quel modo: quelli erano lavori che dovevano essere lasciati a chi ne capiva l’importanza. Anche la divisa e l’educazione che ricevemmo dalle suore Marcelline dove frequentammo le scuole non contemplavano i pantaloni e ancor meno li contemplava la morale del liceo classico che, pur fornendoci una magnifica cultura umanistica, dava per scontato che una signorina dovesse indossare la gonna, più rivelatrice della sua natura e più in sintonia con un modo, sobrio, di dimostrare la bellezza. Altri tempi, altra cultura, una diversa visione delle cose che sembrava non aver subìto nessuna particolare influenza dalla rivoluzione culturale femminista che si era appena conclusa. Quando decidemmo

di entrare nella conduzione di quest’azienda dell’Oltrepò - e dell’altra che abbiamo nel vercellese, dove produciamo riso - per le donne in agricoltura si erano aperte nuove opportunità, sicuramente più di quante ne avesse trovate nostra madre Mirosa, la quale, molto prima di noi, si era dovuta mettere alla guida delle imprese di famiglia e alla quale abbiamo dedicato, dopo la sua scomparsa, un nostro vino. Seguendo il suo esempio, capimmo che nella vita non contano i pantaloni o le gonne, ma solo l’intelligenza che, unita alla volontà e alla passione, rappresenta l’unico elemento di valutazione vero da applicare a chi affronta un lavoro autonomo, indipendente e che risponde, giornalmente e in prima persona, dei risultati ottenuti. Le donne hanno sempre lavorato in agricoltura, ma lo hanno fatto in modo defilato e il loro impegno non è mai stato considerato al pari di quello degli uomini, anzi, è stato un contributo “dovuto”, da fornire, sempre e in ogni modo, in aggiunta agli impegni già pressanti della conduzione quotidiana della famiglia. Nessuna di noi due fu costretta, in ogni caso, a seguire questa strada e per entrambe fu una libera scelta che avvenne alla fine del liceo classico. Doveva essere un periodo di prova, un anno sabbatico per capire cosa avremmo voluto fare da grandi, un divertente gioco di emulazione di quello che facevamo quando eravamo bambine; invece si dimostrò subito un’avventura avvincente e una sfida entusiasmante che accettammo volentieri e che fu subito condivisa,

entusiasticamente, da nostra madre, che non vedeva l’ora di essere affiancata, nel suo lavoro di imprenditrice agricola, da qualcuno che la sgravasse dei molti impegni che queste aziende comportano. Fu Caterina a fare il primo passo, poi, dopo pochi anni, anch’io entrai in azienda; molto più tardi ci siamo confidate che entrambe avevamo effettuato il classico ragionamento di chi, a vent’anni, trovandosi davanti alla scelta di dover decidere cosa fare, alza un po’ le spalle e si pone la fatidica domanda: “Perché no?”. In fondo, avevamo il supporto di nostra madre, oltre ad un’azienda che apparteneva alla famiglia da secoli, quindi, non solo ben consolidata economicamente, ma, essendo storicamente operativa dal 1802, anche un importante punto di riferimento per il territorio. In più avevamo un profondo legame con questa casa e con questo paesaggio. Che cosa avremmo rischiato? Al massimo saremmo state costrette a mettere i pantaloni, scoprendo presto che quello non era il peggiore dei mali, poiché la cosa più difficile era imparare a portarli bene, quei pantaloni, sia con i dipendenti, sia con i fornitori, con i commercianti o con chiunque sottovalutasse, consciamente o inconsciamente, la capacità di due donne di essere brave imprenditrici. Dobbiamo riconoscere che il nostro ingresso in azienda ha coinciso con un momento di grande interesse per il movimento delle “donne del vino” che, in quegli anni, incominciava ad acquisire non solo grande visibilità, ma anche molta considerazione nel settore vitivinicolo, interessando

MONTELIO


233


MONTELIO

NOTES

le associazioni di categoria, quelle sindacali e le forze politiche, territoriali e nazionali. Ma questa piccola fortuna, da sola, non bastava per ottenere dei risultati. Capimmo che era necessario, prima di tutto, avere la stima e il rispetto di chi lavora al nostro fianco. Per riuscire in questo difficilissimo compito abbiamo dovuto imparare a fare di tutto: dall’imbottigliamento del vino allo stringere il bullone di un trattore, dal saper leggere un bilancio, alla stipula di un contratto. In questa quotidiana gara ad ostacoli siamo state chiamate ad affrontare un’infinità di problemi, da quelli relativi alla semina e alla raccolta dei cereali a quelli relativi ai tempi della vendemmia e, giù giù, fino a quelli che ci sollevano i meccanici, i muratori o gli altri uomini sempre convinti che, non comprendendo la meccanica, la chimica o la biologia, non siamo in grado di interloquire con loro; alla fine, però, restano sempre tutti sorpresi di come, con l’impegno, la disponibilità e l’intelligenza, si riesca anche a superare ogni gap tecnico, arrivando quasi sempre a capo dei problemi. È per questo che crediamo di aver dato all’azienda un’impronta al “femminile”, che non prevede solo un approccio “con i pantaloni” alla sua gestione, ma uno, anche un po’ più delicato, più conforme alla “gonna” e più vicino alla tradizione di famiglia. Siamo convinte che in Oltrepò la scarsa, anche se molto qualificata, presenza di donne imprenditrici nel settore vitivinicolo non abbia giovato ai nostri vini e, soprattutto, a questo territorio che, amministrato da uomini, non ha mai veicolato un proprio stile, non ha mai evocato suggestioni o richiamato particolare attenzione. La nostra non è una critica, ma solo una provocazione, perché chi è chiamato ad amministrare o a decidere su questo territorio – purtroppo ancora ignoto a molti - e sulla sorte dei suoi vini, tenga conto degli svariati punti di vista dei soggetti in esso presenti, anche di quelli femminili, così da cogliere nuove sfumature e opportunità per l’Oltrepò pavese.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argilloso-limosi ricchi di sabbie, sono situati ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con un’esposizione a ovest. Uve impiegate: Merlot 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.300 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica con l’aggiunta di lieviti selezionati. Questa fase si svolge in recipienti di acciaio inox e si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati alternativamente délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura e un breve periodo di decantazione, il vino viene assemblato e posto in barriques di rovere francese di Allier nuove a grana fine e media tostatura dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 14-18 mesi. Al termine di questo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e ad un successivo periodo di decantazione di 8 mesi in tini di acciaio inox; segue l’imbottigliamento per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6.000 l’anno

Comprino Mirosa IGT Provincia di Pavia Rosso

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Solarolo e Vigna di David, nel comune di Codevilla, le cui viti hanno un’età di 16 e 55 anni.

bottiglie

Note organolettiche: Un Merlot che veste il bicchiere di un bel colore rosso rubino intenso; si presenta all’esame olfattivo con profumi eleganti, complessi, arricchiti da note fruttate di mirtilli e ribes neri, prugne e more in confettura che si aprono a importanti percezioni di liquirizia in bastoncino, cacao in polvere e pepe bianco. La bocca conferma le sensazioni olfattive che avevano esaltato l’eleganza di questo vino, mentre la fibra tannica, ben evoluta e armoniosa, è sorretta da bella freschezza e acidità, elementi che rendono il vino equilibrato, lungo e persistente. Prima annata: 1955 Le migliori annate: 1982, 1986, 1988, 1990, 1998, 1999, 2001, 2004, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dalla madre delle due sorelle proprietarie dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: Di proprietà delle sorelle Caterina e Giovanna Brazzola dal 1999, l’azienda agricola Montelio (da Mons Helios, Monte del Sole), si estende su una superficie di 80 Ha, di cui 29 vitati e 51 dedicati a seminativi e cereali. Svolge funzioni di agronomo e di enologo Mario Maffi.

235




MARCELLO MONZIO COMPAGNONI

MONZIO COMPAGNONI


239

Quarantacinque giorni per riuscire a prendere un appuntamento. Si era arrivati al paradosso di chiamare quasi ogni giorno la cantina cercando di prendere contatto con il produttore, ma ogni nostro tentativo non aveva dato risultati fruttuosi. Ormai stava finendo il tempo che avevo deciso di dedicare alla Franciacorta e mi domandavo che cosa mi trattenesse dall’eliminare quell’azienda dal mio carnet. Del resto, dopo oltre quaranta cantine visitate, avevo già un’idea di cosa fosse il territorio e non avevo certo bisogno di insistere e di incontrare altri vignaioli, poiché non avrebbero aggiunto nient’altro a ciò che già sapevo. Non nascondo però che mi incuriosivano le bollicine che produceva Monzio Compagnoni, le trovavo interessanti, fuori del coro, ricche di personalità, ed era forse per questo che non abbandonavo l’idea di incontrarlo. Man mano che passavano i giorni mi convincevo non solo che avrei impiegato meno tempo a prendere un appuntamento con un luminare della medicina, per una visita specialistica, che fissarne uno con questo vignaiolo, ma anche che, in quel suo atteggiamento, vi era un po’ di arroganza e una certa mancanza di rispetto. La cosa non mi innervosiva più di tanto, del resto non era la prima volta che ricevevo un atteggiamento superficiale e snobistico da qualche altro produttore della zona, ma, nonostante tutto, cercavo di dare alla cosa, com’è mia abitudine, delle spiegazioni che mi consentissero da una parte di giustificarmi con gli altri e dall’altra di avere una visione più ampia della mentalità che imperava in questa Franciacorta. Facendo così sarei riuscito, magari, ad avere un contatto più epidermico con questi vignaioli che mi stavano dimostrando di avere un’altra cultura vitivinicola, differente rispetto a qualsiasi altra zona d’Italia che avevo già visitato. Man mano che passavano le settimane ragionavo sull’argomento, intravedendo in ciò che mi veniva

riservato un concetto molto particolare, cioè che quello non fosse un atteggiamento di contrapposizione o di superficialità, ma solo la punta visibile di quella mentalità imprenditoriale del tutto lombarda che, con raziocinio, definisce le necessità e le priorità delle aziende; evidentemente, a loro giudizio, non rientravo in questo elenco. Per questi vignaioli, quello che ritenevo snobismo era quindi solo un modo un po’ rude di comunicarmi che non ero nelle loro priorità. Per chiunque poteva essere una cosa assai difficile da digerire, ma la comprendevo benissimo, dato che ne avevo avuto conferma osservandoli nel loro essere indaffaratissimi e concentrati sul proprio lavoro fino al punto di non aver tempo per ascoltare nessuno. Andavano tutti di corsa, rincorrendo non so bene cosa, ma erano tutti concentrati su degli obiettivi che andavano ben oltre quelle bollicine che io vedevo e di cui mi ero impegnato a ricercare le origini. Ce n’erano stati alcuni, addirittura, che mi avevano incontrato tenendo il cronografo in mano e contando i minuti “produttivi” che sottraevo alla loro giornata, mentre altri ancora si erano dimostrati poco predisposti a quella sincera e schietta ospitalità che, di solito, accompagna lo spirito di chi opera nel mondo del vino, incline alla convivialità e all’amicizia. Non nascondo di aver avuto la sensazione che alcuni di loro avessero smarrito anche l’antico concetto dell’hostipotis, di quella manifestazione cioè di generosità, cortesia e benevola tolleranza che tutti dovrebbero avere per il viaggiatore. Anche Monzio Compagnoni, pensai, doveva essersi perso in quel pragmatismo tutto lombardo di voler “bene” solo al lavoro, cosa che conduce spesso a perdere di vista, in nome di quel sentimento, anche le buone maniere. Chissà se avevo ragione... Del resto poteva essere anche un altro di quelli che credono di poter salvare il mondo con un bicchiere di vino, come se avessero inventato la panacea di tutte le carestie,

malattie e guerre che affliggono la nostra umanità e, per questo, quasi in odore di santità... Ormai avevo perso le speranze arrivando al punto di minacciare Marco, il segretario di redazione, di non chiamare più e lasciar perdere, poiché non avevo più voglia di aspettare. Il vaso era colmo anche per uno come me che, da anni, è abituato a combattere con queste “prime donne” del vino che, certe volte, non sono facili da comprendere. Dopo un mese di permanenza in Franciacorta sapevo benissimo dove fosse l’azienda di Monzio Compagnoni e tutte le volte che passavo di lì sentivo irrefrenabile il desiderio di andare da lui a dirgliene quattro. Passavo spesso lì davanti e avevo avuto anche il modo di osservare bene la cantina proprio da una collina che gli stava di fronte. Mi colpì, perché c’era un cantiere edile adiacente alla struttura che consisteva in una buca enorme, grande come un paio di villette a schiera di due piani, dalla quale uscivano camion carichi di terra e ne entravano altri carichi di ghiaia. Pensai sovente che fosse stata quella la causa di quei silenzi. Alla fine fu concordato l’appuntamento e quando entrai in azienda tutto mi fu chiaro e, dopo pochi minuti che parlavo con lui, capii i motivi che lo avevano spinto a rimandare gli appuntamenti. Guardando quel ragazzone alto, grosso e dal viso buono che avevo di fronte mi fu chiaro il fatto che il cantiere a cielo aperto che era la cantina non fosse la principale causa di quel suo atteggiamento, ma che invece, se avessi voluto delle spiegazioni, avrei dovuto cercarle non solo in quell’elenco delle priorità di cui parlavo, di cui non facevo parte, ma anche nel desiderio di perfezionismo con il quale Marcello Monzio Compagnoni affronta il proprio lavoro. Era chiaro che da un “quasi” architetto, che aveva trovato nell’agricoltura la valvola di sfogo alla sua creatività e che, finalmente,


MONZIO COMPAGNONI stava costruendo la sua piramide, la cantina appunto, non potessi pretendere di avere molta attenzione. Lui doveva stare lì, non solo fisicamente, ma anche mentalmente, per evitare che le imprese ingaggiate per erigere quell’importante “mausoleo” facessero degli errori che avrebbero potuto stravolgere le gerarchie delle varie fasi di costruzione, ritardando la conclusione dei lavori, previsti per la vendemmia. Gli spazi ormai erano compressi e i magazzini stracolmi, ma ogni cosa era veramente funzionale e predisposta con gusto ed estrema cura. Un tavolo lunghissimo, sul quale erano disposti non a caso oggetti di design, arredava la stanza delle degustazioni e le poche cose visibili e i vini che stavo assaggiando mi davano l’idea di chi avessi di fronte. Quel suo modo introverso di presentarsi mi piaceva e, da subito, ebbi l’impressione di averlo sempre conosciuto e forse fu per questo che non mi venne l’ardire di “percuoterlo” verbalmente, così da fargli sentire quale fosse il lato peggiore di questo toscanaccio che aveva davanti. Così, con qualche battuta e qualche presa in giro, smorzai la tensione e mi lasciai trasportare dal suo racconto che mi portò dalla Valcalepio alla Franciacorta e dalla facoltà di Architettura alla cantina, che era finalmente riuscito a costruirsi, con la soddisfazione di chi aveva fatto tutto con le proprie mani e che, con le stesse, stava cercando di far “quadrare il cerchio”, come sosteneva lui, per consentire a questa sua azienda di poter camminare con le proprie gambe e magari permettergli un giorno di poter essere un po’ più sereno e dedicare più tempo ai suoi ospiti.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nei comuni di Corte Franca e Adro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcareo moderatamente profondo, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 250 metri s.l.m con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Chardonnay 100% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 16°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, alla temperatura di 18°C, ed è svolta per l’85% in tank di acciaio inox e per il 15% in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura; in questi contenitori il vino rimane fino al mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia, mesi durante i quali vengono effettuati frequenti sur lies e bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura del vino. Si procede quindi all’assemblaggio delle partite, all’imbottigliamento e all’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 37 mesi, al termine dei quali si procede al remuage delle bottiglie per 30 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 35.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore paglierino carico e luminoso arricchito da un perlage fine e persistente; si presenta fresco e dolce all’esame olfattivo, riuscendo a fondere piacevole armonia ed equilibrato bouquet ricco di componenti fruttate di nespola, mela, ananas, banana, melone, gelso, cedro e arancio, e floreali di glicine e mughetto. Queste note si armonizzano con nuances dolciastre di plum-cake, torta cotta al forno e pasticceria alla mandorla. In bocca è morbido, equilibrato e fresco, poggiando su una buona struttura che sorregge anche una buona sapidità e una percepibile acidità, caratteristiche che si amalgamano fra loro rendendo il vino lungo e persistente. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1996, 1998, 2000, 2003, 2004, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà di Marcello Monzio Compagnoni dal 1989, l’azienda agricola si estende su una superficie di 25 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Giacomo Groppetti e l’enologo

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Millesimato

241


CASIMIRO MAULE

Bella domanda! Cosa dovresti portar via da questo territorio? Dipende... Che consiglio vuoi che ti dia? Dipende dallo stato d’animo che ora stai vivendo, da quanto amore hai dentro e da quanto forte ti batte il cuore. Dipende da quanto tu sia curioso e introspettivo, dal tuo spirito d’osservazione, dalla tua capacità di fotografare il mondo circostante, dal tuo vissuto, da quali sono i tuoi desideri, da cosa stai cercando e da quali e quante sono le tue esperienze di viaggiatore. Che ne so io?! Come vedi dipende da un’infinità di cose. Anche dal tuo senso estetico, dal valore che dai al “bello” assoluto e a quello filosofico e dalla tua capacità di confrontarti con le persone e con l’ambiente che ti ospita. Se fossi in te, e avessi davvero voglia di portarmi via qualcosa da questa Valtellina, farei una cosa semplice, per non aver paura di dimenticare niente. Sai cosa farei? Una fotografia. Dopo aver sviluppato quell’immagine, mi fermerei ad osservarla attentamente e solo allora mi domanderei con che cosa riempire il sacco dei ricordi che mi farà compagnia nel mio viaggio di ritorno. Sono sicuro che, davanti a quella foto, la tua mente ripercorrerà a ritroso questo tuo soggiorno e si soffermerà su particolari ai quali ora non pensi più; ti accorgerai, però, che sono stati proprio quelli che ti hanno emozionato di più, e non avrà più importanza se

positivamente o negativamente. Che cosa dovrei dirti? Che cosa dovrebbe raccontarti un trentino che vive ormai da trentacinque anni in questo posto e che è stato talmente coinvolto nelle sorti di questo territorio a tal punto da sentirlo suo? Sappi che non potrei mai essere obiettivo, ma tutt’al più rischierei solo di essere banale, di ripetermi e di menzionare le solite quattro cose che caratterizzano la Valtellina, ma che, bada bene, a me e ai Valtellinesi, inorgogliscono. Se è questo che vuoi e se proprio insisti... Potrei dirti che, in quel tuo sacco, dovresti mettere ciò che di più importante abbiamo ereditato: questo patrimonio viticolo arrivato fino a noi attraverso il lavoro disumano di decine e decine di generazioni di vignaioli che ci hanno preceduto, ognuna delle quali ha contribuito a costruire questa viticoltura terrazzata che, come avrai potuto notare, è una cosa incredibile. Questa, secondo me, è l’immagine più bella della Valtellina che potresti portar via, quella che racchiude in sé lo spirito di questa gente e, soprattutto, quello che anima i viticoltori che hanno sempre profuso, per secoli, più di cinque, sei, sette volte il lavoro svolto da qualsiasi altro vignaiolo del mondo. Purtroppo, oggi, per poter mantenere questa agricoltura, non basta solo la volontà di chi produce, ma c'è bisogno anche di una maggiore attenzione da parte delle Istituzioni, con le quali, ultimamente, si è aperto un dialogo da cui è scaturita, nel 2004, la nascita di Provinea - Vita alla vite di Valtellina - un progetto

per riuscire a inserire questa viticoltura nell’elenco del patrimonio mondiale dell’UNESCO. Non so se ce la faremo, ma di sicuro ci stiamo provando, così come proveremo a fare un documentario e un libro dedicati al territorio, così da avere una memoria storica importante, da tramandare, perché, francamente, ho qualche piccolo dubbio che questa viticoltura possa sopravvivere, nei tempi a venire. Fra le cose che non puoi dimenticare, ma a cui, conoscendoti, sono sicuro avrai già pensato, ci sono le immagini dei volti di questi nostri giovani viticoltori che hai incontrato. Hai visto i loro sguardi come sono vivi? Sono dei giovani che, con coraggio, stanno subentrando nell’organizzazione produttiva di molte aziende della vallata, avviando, di fatto, un cambiamento generazionale che fa ben sperare per il futuro. Metti nel sacco le loro storie, le loro speranze, i loro sogni e ricordati di incartarli con un po’ dell’aria di Valtellina, quella che si respira nelle giornate terse di primavera e vedrai come si manterranno quei ricordi. Una bottiglia di Nebbiolo me la porterei via sicuramente, magari per lasciarla, una volta giunto a casa, in cantina, così da avere il tempo di decidere quando berla; una bottiglia alla quale abbinerei un pezzo di Bitto, il nostro formaggio più importante, stagionato almeno tre o quattro anni, che accoppierei ad un pezzo di Casera anch’esso stagionato, ma solo due anni. Se fossi in te non mi dimenticherei neanche di prendere un plateau di

NINO NEGRI


243


NINO NEGRI mele, una bresaola e dei “pizzoccheri”, piatto tipico che, personalmente, imporrei di preparare obbligatoriamente, con cura e secondo tradizione, a tutti i ristoranti della vallata. Dopo aver fatto la spesa ed essermi accertato di aver preso tutti i profumi e i gusti che questa vallata sa regalare, mi preoccuperei di portar via anche il ricordo della grande voglia di riscatto della Valtellina, desiderosa di aprirsi al mondo e di far sapere quanto valga realmente il suo territorio. Poi mi porterei via... Scusami, ma potrei continuare per ore, anche se so che sono soltanto dei suggerimenti, dai quali comunque avrai potuto evincere che in me non è ancora venuta meno la voglia di promuovere questo territorio e ancor di più ciò sarebbe possibile se tutti i giorni decine di persone mi ponessero la tua stessa domanda, poiché significherebbe che c’è interesse e voglia di scoprire questa terra alla quale ho dedicato gran parte della mia vita. In questi anni mi sono diviso fra la cantina e il Consorzio, contribuendo non solo all’ottenimento, per quest’area vitivinicola, di una DOC e di due DOCG, ma anche al funzionamento di un Consorzio di Tutela e all’attivazione di un piano di controlli, regolare e ferreo; cose dichiarate da molti irraggiungibili in Valtellina - dove ognuno pensa di non aver mai bisogno di niente e di nessuno - e che, invece, sono i risultati più evidenti e soddisfacenti di un lavoro durato oltre dieci anni e promosso da chi, come me, non ha mai posseduto qui un solo metro quadrato di vigna, imputando all’entusiasmo e alla passione, l’ottenimento di questi grandi risultati. Ci sono voluti anni per avviare una proficua collaborazione fra i produttori, poiché, ieri come oggi, c’è sempre qualcuno che semina zizzania nel gruppo e invece di litigare per costruire, litiga per distruggere. Problemi inutili e un protagonismo diffuso che non hanno portato a niente e che, nel tempo, hanno creato dei problemi che, in parte, si sono risolti, ma che hanno anche frenato lo sviluppo e provocato la mia più grande delusione; il mio rammarico è dovuto all’amarezza che mi stringe il cuore per non essere riuscito a dare unità culturale al movimento vitivinicolo della Valtellina, cosa che avrebbe costruito, intorno al mondo del vino valtellinese, più chances non solo nei confronti del mercato, ma anche dei sistemi economici e sociali presenti sul territorio. È chiaro che, se ci sono delle cose che non sono andate come avrei voluto, è bene fare autocritica, ammettere i propri errori e porsi da parte, lasciando crescere la nuova generazione che sta arrivando e che, sicuramente, sarà più decisionista di me e avrà più coraggio di imporre ciò che deve essere fatto, senza troppi se o troppi ma, rinunciando ai compromessi che non conducono mai a nulla. Personalmente credo, come Presidente del Consorzio, di aver lavorato per la collettività, dando tutto quello che dovevo e potevo dare e, senza rammarico, mi accingerò presto a riempire anch’io il mio sacco con molte delle stesse cose che ho suggerito a te e sicuramente con altre, molte altre, poiché il mio sacco non deve essere leggero e maneggevole come il tuo, che deve affrontare un viaggio di ritorno. Il mio rimane qui a farmi compagnia e avrò il piacere di frugarci dentro tutte le volte che cercherò un ricordo oppure quando, stanco di muovermi fra queste vigne, mi siederò per raccontare, a chi mi verrà a trovare, cosa è necessario e importante che si porti via da questa mia Valtellina.


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo, chiamate in zona (Chiavennasca), provenienti dal vigneto di 7 Ha denominato Fracia (nella sottozona Valgella), di proprietà dell’azienda, posto nella località omonima, nel comune di Teglio, le cui viti hanno un’età di 40 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona di alta collina su terreni di origine morenica franco-sabbiosi, ricchi di silicio, a tessitura sciolta, bassi e ricchi di scheletro, è situato ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 500 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica con l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per circa 6 giorni, ad una temperatura di 23-24°C, ed è svolta in recipienti di acciaio inox, dove, contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Si provvede poi alla svinatura e alla pulizia del vino, che viene assemblato e posto in barriques di rovere francese di Allier, nuove a grana fine e media tostatura, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 16 mesi. Terminato questo periodo di maturazione, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso granato luminoso, questo Nebbiolo si presenta all’esame olfattivo con sensazioni complesse e profumi di legno di cedro, tabacco, cuoio, liquirizia e cacao che si vanno a sommare a note fruttate di ciliegia e lamponi maturi, oltre ad importanti percezioni di viola appassita. In bocca è pieno, caldo, sapido, avvolgente, arricchito da una piacevole ed elegante freschezza, con una fibra tannica ben evoluta che lo rende lungo e persistente con un fondo di prugna matura e mandorla amara. Prima annata: 1967 Le migliori annate: 1969, 1975, 1985, 1989, 1995, 1999, 2001, 2002, 2005 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della GIV (Gruppo Italiano Vini) dal 1986, l’azienda agricola si estende su una superficie di 38 Ha, di cui 34,5 vitati e il resto occupato da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Emanuele Urbani e l’enologo Casimiro Maule.

NOTES

Valtellina Superiore DOCG Vigneto Fracia

245


Quando uno parte, deve gettare in mare il cappello di conchiglie raccolto durante l’estate e andarsene coi capelli al vento. Deve scagliare in mare la tavola apparecchiata per l’amata. Deve versare in mare il vino avanzato nel bicchiere. Dare ai pesci il suo pane e mescolare al mare una goccia di sangue.

LUCA, DIEGO, PAOLO PASINI

Ingeborg Bachmann, Canti di un’isola Quanti viaggi ho fatto e quanti ancora mi attendono! Viaggi splendidi, unici come quello che mi portò fin sopra i Pirenei e poi, lasciandomi guidare dalla mia moto, fino all’Oceano Atlantico, davanti al quale rimasi senza parole, oppure come quelli che faccio quando, con la mente, mi allontano verso i bianchi paesi del Nord o verso i caldi paesi del Sud. Ogni volta è un viaggio diverso, ma tutti sono bellissimi e in grado di stimolare l’irrefrenabile desiderio di scoprire ciò che mi può offrire la vita - con la quale ho un rapporto aperto, talvolta confuso, ma sempre splendido - e ciò che la stessa sarebbe in grado di darmi se avessi il coraggio di lasciarmi andare e partire davvero. Quelle che vivo sono sempre grandi partenze a cui seguono sempre dei ritorni, altrettanto belli, che mi fanno pensare che forse questo luogo, questa cantina e questo lavoro, sono

il mio ombelico del mondo e il posto più sicuro dove poter stare. Non so come io possa essere arrivato a questa conclusione. So solo che, a fronte di qualsiasi mezzo che utilizzi e di qualsivoglia viaggio io faccia, torno sempre qui, fra queste vigne, fra queste botti, in mezzo a questo vino. Fra queste cose sono nato e non so dirti se qualche volta abbia davvero pensato, con convinzione, di voler fare il produttore di vino. Se lo dicessi sarebbe una bugia, così come lo sarebbe se affermassi che avrei voluto fare qualcos’altro! La cosa mi è sembrata terribilmente naturale. Cresci e ti ritrovi a produrre vino, come prima di me avevano fatto nonno Andrea e, dopo di lui, gli zii Bruno e Giuseppe e papà Diego e come faccio oggi io, con mio cugino Luca. Credo che in fondo dipenda dall’imprinting di casa Pasini che è veramente forte, non trovi? Nasci nel vigneto e ti ritrovi a lavorarlo, giochi in cantina e ti ritrovi a lavare e a travasare botti; da ragazzino annusi il profumo del vino e da grande ti ritrovi con il naso dentro ad un bicchiere a degustare i vini presi dalle botti e, anche se sei come tanti altri giovani che hanno mille dubbi e sognano, magari, di fare il campione di motocross o chissà quale altra cosa, ti accorgi che non è così, che anche quello è solo un altro viaggio meraviglioso che avrà un suo ritorno e ti ricondurrà dove tu devi stare, proprio qui, nel tuo ombelico del mondo. Anch’io ritorno, pur avendo ogni volta un irrefrenabile desiderio di ripartire,

come se in me convivessero due anime, ognuna delle quali mi aiuta a costruire l’alibi con il quale giustifico quella piacevole sensazione di confusione che mi fa sentire irrequieto e mai appagato di ciò che ho ottenuto, sempre desideroso di ampliare le mie esperienze cercando di risolvere i dubbi naturali che, intelligentemente, nascono nei confronti della professione che sto svolgendo e della vita che sto vivendo. Forse solo quando avrò settant’anni e non avrò la possibilità di fare altro nella vita, allora potrò dirti, con sicurezza, che ho sempre desiderato fare il vignaiolo e che, nella mia vita, ho voluto davvero produrre solo vini, ma, fino a quel momento, mi crogiolerò nell’incertezza che avvolge ogni domani, uguale o forse diverso rispetto a quello che sto vivendo. Ti posso solo dire che il mestiere che svolgo oggi è splendido, bellissimo e mi appassiona; forse per questo sono propenso a proseguire su questa strada, la quale passa attraverso la voglia di fare un vino che mi sforzo di tenere in simbiosi con il territorio nel quale vivo, in modo che le peculiari caratteristiche che lo differenziano da altri, abbinate alle mie, siano poi riscontrabili nella bottiglia che tu, oggi, stai degustando. Sembra facile a dirsi, ma non lo è, anzi, è molto più difficile di quanto tu pensi, poiché riuscire a far collimare la variabilità della vigna, tentando di fotografarne l’evoluzione, l’interazione degli aspetti pedoclimatici, e abbinarla all’evoluzione culturale del sistema vino, in cui agiscono i gusti del mercato, le

PASINI - SAN GIOVANNI


247


PASINI - SAN GIOVANNI tecniche vitivinicole e le stesse capacità che ha un vignaiolo di misurarsi con tutto questo, corrisponde al difficile esercizio che compie un funambolo che si avvia sopra una lunghissima corda tesa nel vuoto nella speranza di giungere dall’altra parte. Sono ormai tre generazioni che noi, come funamboli, affrontiamo, con successo, il vuoto, coscienti che ogni volta è una traversata del tutto nuova che ha più di cinquant’anni di storia; durante questo periodo di tempo abbiamo incontrato persone, fatto affari, migliorato la cantina, messo a punto la rete di vendita e ottimizzato la filiera produttiva, trasformando quella iniziale rivendita di vini, che aveva nonno Andrea, in un’azienda vitivinicola condotta da imprenditori stimati e rispettati. Vi è, inoltre, un altro aspetto che, secondo me, non deve essere sottovalutato e che gioca un ruolo determinante nel complesso mosaico produttivo: provare la grande soddisfazione di produrre il proprio vino ideale, ma non quello che gratifica economicamente, ma quello, invece, che piace tremendamente. In questo io sono stato fortunato, perché adoro tantissimo i vini prodotti sulle colline che guardano questo Lago di Garda, che sono sapidi, minerali, equilibrati, non grossi o muscolosi. Nonostante tutto, comunque, continuo ad avere il desiderio di partire e di pensare che altrove vi sia un tramonto forse anche più bello di quello cui stiamo assistendo oggi. Con questo pensiero mi rendo conto che non mi serve spostare in alto l’asticella e pormi come obiettivo l’innalzamento della qualità dei vini per sentirmi appagato, poiché, da persona “scissa” quale sono, ho due anime, una delle quali utilizza quest’azienda come un contenitore e l’altra come un faro al quale fare ritorno quando si allontana. Invidio un po’ quanti, invece, riescono a trovare dentro un bicchiere di vino l’appagamento di tutti i loro desideri e raccontano le loro struggenti emozioni legate al mondo del vino, mentre non sopporto il “presenzialismo” ormai stucchevole che costringe tutti ad essere dappertutto per vendere una bottiglia di vino. Lascio volentieri ad altri quel palcoscenico rumoroso. Io preferisco viaggiare, pensando che ogni mattina è diversa da quella che l’ha preceduta e anche se, nel prosieguo della giornata dovessi fare pochi passi, so che saranno stati sufficienti per arrivare fino a sera e, pochi o tanti, lenti o spediti, mi avranno consentito di viaggiare ancora verso una nuova meta. Non m’importa quanto rilevante possa essere la meta, come non m’importa andare lontano per partire: mi basta rimanere tra le solite e consuete cose per scoprire che ogni stagione è un viaggio, come lo è ogni vendemmia che mi costringe a ritornare per vederne i risultati e capire cosa è stato fatto di buono e cosa di sbagliato, accorgendomi di come ogni vino sia diverso, da annata ad annata, come lo sono anch’io rispetto all’uomo dell’anno precedente.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Groppello, Marzemino, Barbera e Sangiovese provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Raffa e Picedo, nei comuni di Puegnago e Polpenazze del Garda, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcareo-argillosi di origine morenica con discreta dotazione di scheletro, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 250 metri s.l.m. con un’esposizione a est / sud-est. Uve impiegate: Marzemino 30%, Sangiovese 15%

Groppello Barbera

40%, 15%,

Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a silvoz e guyot sdoppiato con i tralci leggermente ricurvi Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha di media Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura soffice delle uve raccolte e il pigiato ottenuto subisce per 12 ore una macerazione pellicolare a 10°C, al termine della quale si procede alla svinatura e il mosto, inoculato con lieviti selezionati, si avvia alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in recipienti di acciaio inox, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 18 e i 20°C. A seconda delle annate, si provvede, mantenendo basse le temperature, a inibire la fermentazione malolattica. Fino alla primavera successiva alla vendemmia il vino rimane sempre in tank di acciaio che lascia per subire un breve affinamento di 1 mese in bottiglia prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 30.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel color rosa corallo, il vino si presenta all’esame olfattivo con note floreali di primula e viola, profumi tenui di frutti di bosco rossi, come lamponi e fragoline selvatiche, e un finale fumé. In bocca è piacevole, succoso, gradevolissimo, armonioso, ricco di una bella sapidità che lo rende fresco e di piacevole compagnia. Prima annata: 1969 Le migliori annate: 1997, 2003, 2005, 2007 Note: Il vino, raggiunge la maturità dopo 7 mesi dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 2 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Pasini dal 1958, l’azienda agricola si estende su una superficie di 40 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Pierluigi Donna e l’enologo Alberto Musatti.

NOTES

Garda Classico DOC Chiaretto Il Chiaretto

249




CARLO GIOVANNI PIETRASANTA

PIETRASANTA


253

Milano, metropoli industriale, ignora di avere alle proprie porte questa miracolosa possibilità. Cerca, paga ed esalta i vini più lontani ed esotici. Non si rende conto che, senza dover superare eccessive difficoltà e ricavandone uno straordinario profitto, anche finanziario, potrebbe reinventare, o inventare, il suo vino: il “vino di Milano”… Mario Soldati, Vino al vino Di Milano, la maggior parte della gente conosce solo la città, di cui ormai si è detto tutto, ma nessuno ha scritto, ad eccezione di persone attente e sagaci come Mario Soldati o Gianni Brera, che cosa può offrire la sua provincia. E sai perché? Perché Milano è grande, immensa e ha due forze che la comandano: una forza centripeta che assorbe tutto e una centrifuga che rigetta tutto, specialmente quello che non è puro e semplice business. È una città dove ogni prodotto sembra nascere in fabbrica e dove nessuno si domanda da dove arrivino le cose. Per molti, sono prodotte o coltivate addirittura nei sotterranei di qualche ipermercato - come quello di cui parlava prima il fotografo che ti accompagna - uno di quei posti dove si allunga una mano e si colgono i frutti, si fruga nell’orto, si pigia l’uva o addirittura si pesca. L’unico contatto con la campagna, a Milano, è quello che si ha passando nelle strade di periferia che sono sempre diverse e, ogni anno, più lontane dalle alte guglie del Duomo o dalle volte di Galleria Vittorio Emanuele, in funzione, proprio, dell’insediamento di nuove zone industriali, centri commerciali e quartieri dormitorio. Da milanese quale sono, ti posso assicurare che la provincia di Milano non è solo Milano; è grande e ha più anime, alcune delle quali

segrete, sconosciute persino ai milanesi che vivono questa città diventata multietnica, multiculturale, “multi tutto”: troppo, tanto, al punto di essere quasi priva di un’identità e di una connotazione precisa. Prendi l’esempio di quest’azienda in cui ci troviamo oggi. Devi sapere che si trova alle porte di Milano, “fuori porta”, come si direbbe a Bologna, a Firenze o a Roma, a nemmeno un’ora dal centro della città e il vino che produco è il vino di Milano, quello di cui parlava Mario Soldati. Pensa a quanta ironia e assurdità si racchiude in una frase del genere e quanto invece incuriosisca l’affermare che San Colombano è il vino di Milano. Il vino. Ma cosa c’entra con le acciaierie, con le prestigiosissime agenzie pubblicitarie, con quelle di pubbliche relazioni e marketing, con il software, con l’ultratecnologia, con la moda o con il design, attività, queste, che davvero costituiscono l’immagine della città? Niente, non c’entra niente, eppure questo è il vino di Milano e a me, devo dirti la verità, affascina questa idea. Mi è sempre piaciuto pensare che produco il vino di Milano e non solo perché faccio il vignaiolo di mestiere o perché la mia famiglia ha vissuto fra Milano e questa campagna, ma perché mi sento parte integrante di questa terra milanese come potrebbe esserlo un pezzo di pianura, un albero centenario o la sponda di un fiume. Non ti lasciare ingannare dal mio cognome. Sono molti, infatti, quelli che pensano che io sia di origini toscane. Devi sapere che appartengo a una famiglia storica di Milano, il cui cognome è menzionato nella descrizione della vita di Sant’Ambrogio, scritta intorno al Mille, nella quale si racconta che il Santo usava sedersi a leggere a Milano su un masso posto in un’azienda di proprietà dei Pietrasanta, in quella che oggi è l’attuale

piazza Firenze. La famiglia ha sempre avuto uomini importanti nel suo albero genealogico e sembra - te la vendo come me l’hanno venduta - che un mio antenato, un certo Guiscardo da Pietrasanta, sia stato Podestà della Repubblica di Lucca, e come tale abbia riconquistato la Maremma e fondato anche due città: Camaiore, sul mare, e Pietrasanta, appunto, nell’entroterra. Sappi comunque che io sono lombardo nel profondo, con un cognome che sembra prestato alla Toscana per altre e controverse ragioni; ma, a prescindere da questo distinguo accademico su chi io sia, è su questo territorio che vorrei che tu ponessi l’attenzione e non su di me. È questo territorio che vorrei tu descrivessi dettagliatamente, perché è bello, interessante e, inoltre, è il mio territorio, che amo profondamente e dal quale non me ne andrò mai. Qui c’è tutta la mia vita, il mio ventennale impegno profuso per la valorizzazione della piccola DOC di San Colombano, di quest’azienda di famiglia e del vino che produco: tutti elementi che, spero, possano servirti per comunicare e far conoscere cosa facciamo alla periferia di Milano. Sappi che ho molti progetti nel cassetto che riguardano la mia azienda che, so bene, necessita di una graduale, ma profonda trasformazione che deve interessare soprattutto l’aspetto tecnico-produttivo - con la costruzione di una piccola cantina vicino alle vigne e l’innalzamento qualitativo dei vini prodotti - ma anche l’aspetto ricettivo, poiché vorrei trasformare questa struttura, dove ci troviamo oggi, in un punto di accoglienza per gli appassionati del vino. Ci sono anche molte idee che interessano il territorio, il quale meriterebbe sicuramente una maggiore promozione e anche una maggiore cultura vitivinicola da parte di tutti noi operatori del settore, in modo da farlo


PIETRASANTA

NOTES

conoscere e far diventare i nostri vini davvero i vini di Milano. Come ti sarai accorto, parlo al plurale, perché è giusto che sia così. In definitiva, io, da solo, non rappresento la DOC di San Colombano. Sono soltanto un interprete di questo territorio, il quale ha capito però che, da solo, non va da nessuna parte. Purtroppo qui l’individualismo ha sempre la meglio e ognuno corre sul proprio binario. Ricordo sempre quando in un mio viaggio in Francia ero diretto ad una degustazione da Romanée Conti e mi vidi costretto, essendomi perso, a chiedere aiuto ad un produttore che stava lavorando nelle sue vigne con un trattore. Con mio stupore e senza esitare, questi interruppe il suo lavoro e mi accompagnò all’appuntamento giustificandomi quel suo gentilissimo gesto con una frase che ricorderò sempre: “Se esiste Romanée Conti, e continua ad essere conosciuto, a vendere il suo vino e a far conoscere al mondo questo territorio, vendo anch’io il mio vino. Quindi...”. Quell’episodio mi aprì la mente e mi fece comprendere che certe stupide rivalse fra produttori erano in netto contrasto con i reciproci interessi economici e che solo puntando ad una politica di valorizzazione del “sistema-vino” e creando intorno ad esso un “movimento” culturale si sarebbe potuto sviluppare un interesse nei confronti dei vini e del territorio che essi rappresentano. Incomincio oggi a vedere i primi risultati dell’impegno profuso in questi anni nella speranza che un giorno quella “Milano da bere”, come si diceva negli anni ‘80, berrà davvero il suo vino. Il vino di Milano è questo e, in fondo, è il sogno di una campagna che spera di avere un giorno una piccola rivalsa sulla città, sperando che i vini di questa DOC diventino i vini ufficiali dell’Esposizione universale del 2015 che si ripromette di portare tutta Italia, e Milano in particolare, all’attenzione mondiale.


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con vaste zone sabbiose, profondi e con poco scheletro, sono situati ad un’altitudine compresa tra gli 80 e i 120 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Barbera Croatina 45%, Merlot 10%

45%,

Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 3.330 ceppi per Ha per gli impianti più vecchi ai 5.500 per quelli più giovani Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte; il mosto ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, si avvia alla fermentazione alcolica. Questa fase è svolta in vasche di cemento vetrificato e si protrae per circa 10-12 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae per altri 17 giorni circa, durante i quali vengono effettuati, a giorni alterni, o délestages o rimontaggi. Dopo la svinatura, il vino viene assemblato e posto in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura, di secondo e terzo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 24 mesi. Trascorso questo periodo di maturazione si effettua l’assemblaggio delle partite e, dopo un lungo periodo di decantazione di circa 12 mesi, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato.

San Colombano DOC Riserva Podere Costa Regina

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Barbera, Croatina e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Costa Regina, nel comune di San Colombano al Lambro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 4 e i 55 anni.

Quantità prodotta: 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di fiori appassiti e sensazioni nette di confettura di prugne, more e lamponi, le quali si vanno ad intrecciare a percezioni di pellame, tabacco, pepe bianco e pepe del paradiso. In bocca risulta ricco, opulento, polposo, ma al contempo elegante; la stessa fibra tannica è ben evoluta e armoniosa, facendo risultare il vino piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1987, 1990, 1997, 2000, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dalla DOC e dai vigneti di riferimento, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 12 anni. L’azienda: Di proprietà di Carlo Giovanni Pietrasanta dal 1983, l’azienda agricola si estende su una superficie di 6 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Leonardo Valenti, mentre svolge le funzioni di enologo lo stesso Carlo Giovanni Pietrasanta.

255


Voltolina, com’è detto, valle circundata d’alti e terribili monti, fa vini potenti ed assai, e fa tanto bestiame, che da paesani è concluso nascervi più latte che vino.

ANDREA ZANOLARI

Leonardo da Vinci, Codice Atlantico, Foglio 214 Ti racconterò di me e della mia vita sperando di riuscire a spiegarti il mio rapporto con questo territorio valtellinese e, forse, ma solo se sarò bravo a trovare le parole, riuscirò a renderti partecipe dell’entusiasmo che metto in questo lavoro di vignaiolo, anche se, ad onor di cronaca, non è stato sempre così. Si capisce che studiando ragioneria e diventando, poi, Dottore in Economia e Commercio avevo altre idee per il mio futuro e non so dirti cosa sia successo di preciso, né il motivo o l’evento che mi spinsero in questa direzione facendomi ritrovare fra le vigne e la cantina. Forse fu mio padre Marco il quale, desiderando che proseguissi la tradizione di famiglia - iniziata nel lontano 19 marzo 1919 da Pietro Plozza, impiegato ventinovenne delle Ferrovie Retiche - prima mi incuriosì e poi mi stimolò, affinché frequentassi qualche corso di enologia in Svizzera, dove noi abitiamo. Nonostante questo non riuscivo ad appassionarmi più di tanto e il mio coinvolgimento in azienda non era supportato da una vera vocazione per il mondo del vino, ma più dal dovere

nei confronti di ciò che mio padre si attendeva da me. Anche nella frequentazione di questo territorio non ero sospinto da nessun entusiasmo e tutto mi appariva come un ripetitivo susseguirsi di vendemmie che inseguivano altre vendemmie, tutte uguali. A distanza di anni, ancora, non so se quel mio atteggiamento dipendesse dalla giovane età, ma sta di fatto che la cosa proseguì fino a quando non mi convinsi che era necessario, se dovevo continuare a lavorare in questo settore, approfondire seriamente l’argomento vino più di quanto avessi fatto fino a quel momento, cercando di comprendere quali fossero le sfumature, le opportunità, i vantaggi e gli svantaggi di un vitigno come il Nebbiolo coltivato in un territorio come la Valtellina. Quel tran tran fu interrotto da un fantastico viaggio in Piemonte dove ebbi la fortuna di incontrare persone eccezionali come Aldo Conterno, Mauro Parusso, Valentino Migliorini dell’azienda Rocche dei Manzoni e tanti altri produttori della zona del Barolo, i quali mi chiarirono quelli che allora erano, per me, i misteri che avvolgevano il mondo del vino, dandomi, per ognuno di essi, una spiegazione logica e plausibile. Con quel viaggio allontanai la linea che delimitava il mio orizzonte, riuscendo così ad osservare le cose da un’altra posizione; mi accorsi che sia quest’azienda, sia questo territorio erano composti dai mille e più pezzi di un puzzle

che non ero mai stato in grado di osservare e di comprendere nella sua totalità. Seguendo delle semplici regole, le cose iniziarono a definirsi, una alla volta, e il mondo del vino, che mi era sembrato sempre troppo nebuloso, divenne comprensibile, consentendomi una visione generale, e più personale, di cose che, allora, davvero cominciarono ad entusiasmarmi. L’entusiasmo, come si sa, è contagioso e, senza volerlo, mi ritrovai desideroso di guardarmi intorno, iniziando, senza fare troppe rivoluzioni, a modificare alcuni aspetti del sistema produttivo viticolo dell’azienda, concentrando l’attenzione solo sul Nebbiolo e lasciando stare gli altri vitigni o le “divagazioni sul tema” e apportando, inoltre, piccole modifiche all’azione commerciale e alle strategie di marketing dell’azienda. Ricordo che, in poco tempo, il mio sguardo divenne vigile, attento, scrupoloso anche nei confronti di questo territorio che cominciò a sembrarmi ogni giorno più bello, unico e impareggiabile. Sono anni ormai che abbiamo intrapreso una continua e costante fase migliorativa dell’azienda e con soddisfazione abbiamo ottenuto buoni risultati e il fatto che tu oggi sia qui ne è la testimonianza. Pur essendo abbastanza soddisfatto, credo che ora sia giunto il momento di fare un ulteriore passo in avanti. Questo, però, non dipende solo dalla nostra volontà, ma da un insieme di fattori che in Valtellina noi produttori non siamo mai riusciti a mettere

PLOZZA


257


PLOZZA insieme: riguarda la necessità impellente e vitale di creare un sistema-territorio credibile, riconoscibile e spendibile nel mondo del vino. Un sistema-territorio che non viva più sulle memorie di uno sbiadito e logoro passato che non c’è più, ma che sia in grado di contrastare la scarsa vena comunicativa della nostra produzione enologica e di questo territorio, conosciuto più come via di transito per raggiungere le piste da sci svizzere che come una delle zone vitivinicole di montagna più vaste al mondo. Abbiamo bisogno di far conoscere dove e come nascono questi nostri meravigliosi vini e quali e quante sono le difficoltà che, annualmente, dobbiamo affrontare per produrre le nostre uve. Quando penso a queste cose mi ritorna in mente quello splendido viaggio in Piemonte dove toccai con mano la solidale unione che legava quei produttori cuneesi, i quali con semplicità, passione e senza nessuna rivalità, riuscivano a comunicare il loro territorio e i loro vini. Quel loro modo di fare era, ed è ancora, purtroppo, distante anni luce dall’individualismo presente in Valtellina, dove non più di 30 aziende hanno il grande “merito” non solo di non riuscire a comunicare fra loro, ma anche di essersi poste, per troppo tempo, l’una contro l’altra. Non ti nascondo che ho sempre sperato che le cose cambiassero e, in coscienza, credo di aver agito affinché ciò accadesse, anche se, per molti anni, questo non è stato possibile. Oggi qualcosa sta succedendo. Per anni ognuno non ha fatto altro che pensare a se stesso; invece adesso sembra che le cose si stiano modificando e un gruppo di giovani vignaioli, al quale anch’io appartengo, senza nessun timore, provano a comunicare fra di loro affrontando la realtà, consapevoli che il futuro delle loro aziende passa anche attraverso la valorizzazione di questo territorio che può essere trainato verso un futuro diverso dallo stesso movimento del vino che rappresentiamo, com’è accaduto, del resto, in tante altre zone vitivinicole del mondo. Questo processo evolutivo passa imprescindibilmente attraverso la qualità dei vini prodotti, un elemento di giudizio che è divenuto fondamentale e senza il quale è impensabile affrontare qualsiasi sfida. La qualità, si sa, richiede investimenti e negli ultimi dieci anni, almeno per quanto riguarda la nostra piccola realtà aziendale, quelli fatti sono stati assai importanti e ci fanno ben sperare per il futuro. Ma la qualità passa anche attraverso lo stato di salute dell’ambiente in cui un’azienda opera. La Valtellina si dimostra però ancora poco consapevole delle grandi potenzialità che il settore vitivinicolo è in grado di offrire, poiché ad esso sono collegati, direttamente o indirettamente, il territorio, al cui mantenimento noi viticoltori contribuiamo, la gastronomia, che aiutiamo a promuovere, e la qualità della vita che qui, in questa area, diventa elemento spendibile e alla quale, come stereotipo, il vino è legato. Se tutti comprendessero questo, si costruirebbero obiettivi comuni fra chi opera nell’agricoltura, producendo bresaola, vino e Bitto - un formaggio unico - e chi opera nel turismo: tutti uniti a sciogliere i nodi di un sistema composto da un’infinità di variabili che, come i pezzi di quel puzzle di cui non riuscivo a vedere l’insieme, compongono questa splendida Valtellina.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Gassa, Porta, Traverse, Valgella, nei comuni di Tirano, Bianzone e Teglio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 45 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano lungo le pendici del versante retico su terreni terrazzati, limosi, ricchi di silicio e pietrisco, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 350 e 600 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si pongono le uve sui graticci nel fruttaio dove rimangono fino al mese di gennaio dell’anno successivo alla vendemmia o fino al momento in cui si raggiunge il grado zuccherino di 23° Babo: a quel punto si procede alla loro diraspapigiatura. Il pigiato ottenuto è posto in rotomaceratori automatici di acciaio inox dove viene lasciato criomacerare per 10 giorni ad una temperatura di 10°C, quindi si provvede a far risalire la temperatura, dando avvio, con l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura di 32°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce. Dopo la svinatura, il vino è posto per il 50% in botti di castagno valtellinese da 80 Hl e per il 50% in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura, di secondo e terzo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane 1012 mesi prima di essere messo anch’esso nelle botti di castagno valtellinese a maturare altri 12 mesi. Trascorso lungo questo periodo, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una decantazione di 3 mesi in tank di acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 45.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi dolci e fruttati nei quali si riconoscono le note di prugne cotte, marmellata di lamponi maturi, more fresche, oltre a sensazioni speziate di cannella, tabacco da pipa e cioccolato: il tutto arricchito da una vena sapida che sorregge e invita alla degustazione. La bocca è avvolgente, elegante e fresca, con una fibra tannica evoluta che rende il vino assai piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1946 Le migliori annate: 1990, 1997, 2001, 2002, 2004, 2007 Note: Il nome Sforzato o “Sfursat” deriva dal particolare procedimento di appassimento dell’uva, mentre Vin da Ca’ in dialetto valtellinese significa “vino della casa”. Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Fondata nel 1919 da Pietro Plozza, dal 1972 è di proprietà della Plozza S.A. Brusio (Svizzera); l’azienda si estende su una superficie di 15 Ha, tutti vitati, a cui se ne aggiungono altri 15 in conduzione. La funzione di agronomo e di enologo è svolta da Andrea Zanolari.

NOTES

Sforzato di Valtellina DOCG Sfursat Vin da Ca’

259


ALDO RAINOLDI

RAINOLDI ALDO


261

I sogni sono splendidi palloncini colorati che ci sollevano da terra e rendono meno pesante la nostra quotidianità. Sono fiori che profumano di buono le delusioni e balsami per curare le ferite che ci infligge la vita; sono meravigliosi tappeti volanti per andare dove tutto è possibile, sono il motore dell’entusiasmo e l’humus delle passioni, enormi aquiloni che si innalzano fin lassù, in cielo, dove si sente il battito del nostro cuore. Sono unici, magici, poiché, talvolta, succede che prendano forma, si modifichino da fantasia in realtà, come nel mio caso, in cui questi sogni sono divenuti terra, vigne, uva e vino. Non bisogna aver paura di sognare e io non ne ho mai avuta, anche se, per esperienza, so che conviene fare attenzione, poiché nei sogni ci sono particolari veritieri che è bene tener di conto se non si vuole volare troppo in alto. È preferibile disegnarli piccoli, probabili, quasi realizzabili, perché se sono troppo grandi possono mettere a dura prova il carattere e la tempra del sognatore. Personalmente ho cercato di seguire queste regole elementari e ho sempre pensato a sogni piccoli, probabili, realizzabili, capaci di affiancare il mio percorso formativo di enologo e di agronomo. Li ho pensati capaci di innalzarsi, ma non troppo, fino all’altezza di una vite e non di più. D’estate, quando tutti i miei amici se ne andavano al mare e facevano le loro vacanze, io seguivo i miei sogni e andavo a vendemmiare, ora in qualche azienda friulana, ora in una siciliana, ora in una di Pantelleria, a seconda dell’opportunità che mi veniva offerta, acquisendo quell’esperienza utile per disegnare sempre meglio i contorni veritieri delle mie fantasie. Forse disegnavo

troppi sogni, a quei tempi, e per questo quando mio zio Giuseppe mi propose di entrare a far parte della sua cantina, non colsi subito il suo invito, convinto com’ero che quei sogni mi avrebbero condotto in un altro luogo, lontano, lassù dove tutto è possibile. Compresi presto, però, l’importanza di quel suo invito e di come lo stesso potesse essere la prima buona occasione per dare corpo e vita ad un sogno. Così accettai proprio poco prima che decidesse di cedere a terzi la sua azienda, dato che, non avendo figli e nessun altro con cui condividere il suo impegno, si era ormai disamorato di questa attività. Ero giovane e avevo una grande energia - forse troppo grande - che non mi poneva in equilibrio con ciò che mi circondava, poiché avevo da una parte l’entusiasmo, la voglia e il desiderio di voler realizzare il mio vino e dall’altra lo stupido orgoglio giovanile di voler dimostrare tutto e subito non condividendo il mio pensiero con nessuno. Un’energia che contrastava con il pragmatismo di mio zio e con il suo carattere risoluto, fermo e deciso, il quale, inoltre, ricco di molti più anni di esperienza nel settore, sapeva bene cosa fosse o non fosse utile per l’azienda. Non nascondo che i primi tempi non furono facili, ma, al contempo, devo dire che furono molto formativi, quasi didattici direi, poiché mi servirono per crescere e provare a costruirmi credibilità, fiducia e rispetto da parte di chi era, ed è ancora oggi, in azienda. Queste sono cose che, giustamente, nessuno è disposto a regalarti solo per il semplice fatto che sei il nipote del proprietario o uno di famiglia. In questa storia l’affetto e il bene non c’entrano, devi aver voglia di tirare fuori le tue potenzialità e dimostrare agli altri le tue doti e il valore delle idee in cui credi. Ci volle un po’ di

tempo, ma alla fine compresi che quel tirocinio era il prezzo minimo che avrei dovuto pagare. Tuttavia, a differenza di molti miei colleghi coetanei che hanno dovuto fare vere e proprie lotte per imporre delle innovazioni, o anche semplici modifiche agli abituali standard operativi delle cantine di famiglia, io non ho avuto grandi problemi, perché mio zio, uomo di grande intelligenza, è sempre stato molto attento a tutto ciò che poteva migliorare il lavoro e la qualità del vino prodotto. Certo, l’entusiasmo di un tempo si è un po’ placato, anche se non è venuta meno quell’energia iniziale che oggi tengo meglio sotto controllo, mentre, ahimè, alcuni sogni che avevo disegnato un po’ più alti di quelle viti si sono scontrati con i problemi che vive la viticoltura della Valtellina dove, a fronte di un habitat meraviglioso ed unico, si nota un graduale disamoramento dello stesso comparto. Il graduale abbandono dei vigneti, la difficoltà di collocare le uve per certi produttori e una scellerata politica dei prezzi con cui certe cantine vendono il nostro grande Nebbiolo, sono solo alcune delle cause che hanno contribuito a sfaldare il sistema vitivinicolo della zona creando incertezza anche nelle nuove generazioni che si stanno affacciando al mondo del vino valtellinese. Mondo piccolo, composto da soli mille ettari e da poche aziende che, se avessero la forza e l’intelligenza di collaborare fra loro, avrebbero risolto già così molti dei loro problemi, invece... Ma anche le incertezze fanno parte dei sogni ed è bene cercare i balsami con cui curare le difficoltà e le delusioni, così da dare nuova vitalità ai buoni propositi con i quali mi riprometto, giornalmente, di costruire un futuro diverso per i miei figli, che vorrei


RAINOLDI ALDO

NOTES

rimanessero qui, in Valtellina, e vivessero di questo mio stesso lavoro, magari provando anche molte più emozioni nel farlo di quante ne abbia provate io stesso. Se non si è capito, sono un sognatore che, come si può notare, disegna sogni semplici, piccoli, probabili, quasi realizzabili, nei quali oggi ha posto accanto al suo vino anche la Valtellina, poiché ha compreso che senza un territorio alle spalle ciò che produce non avrebbe né anima, né cultura, né tradizione, ma sarebbe solo il grande vino di Aldo Rainoldi e nulla più. È insieme a questa terra, in cui credo profondamente, che voglio crescere e diventare importante; una terra nella quale, dopo essermi allontanato per un lungo periodo, viaggiando in nuove e diverse zone vitivinicole che hanno allargato le mie conoscenze, ho scoperto che esiste un elemento di distinguo e di qualità unico, che non ho trovato, così forte e marcato, in nessuna altra zona: il carattere della gente. Basterebbe questo per far amare questa vallata e far apprezzare tutto quello che qui si produce. Qui la gente è pura, sincera, forse all’inizio un po’ chiusa, come i nostri vini, ma capace di aprirsi e svelarsi inaspettatamente con un grande cuore e grandi passioni. Credo che i limiti dei miei compaesani nascano dal fatto che non hanno imparato a sognare e non sanno salire su quei magici tappeti volanti che conducono dove tutto è possibile, come ho fatto io, che ho provato a sciogliere il nodo rigido di questa realtà, rappresentata da una valle chiusa su se stessa e, portandomi dentro l’immagine di questi vigneti proiettati verso il cielo, sono andato oltre il Monte Aprica avendo voglia non solo di guardare cosa vi fosse al di là della sua cima, ma anche di aprire il mio cuore al mondo e alle cose.


Tipologia dei terreni: I vigneti sono terrazzati, caratterizzati da terreni sciolti ricchi di sabbia e silicio, subacidi, non troppo stratificati, e situati ad un’altitudine compresa tra i 400 e 600 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot nei nuovi impianti, ad archetto valtellinese nei vecchi impianti Densità di impianto: 3.500 ceppi per Ha nei vecchi impianti, 5.000 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si pongono le uve sui graticci nel fruttaio dove rimangono fino a dicembre/gennaio o fino a quando non si raggiunge il grado zuccherino di 23-24° Babo, momento in cui si procede alla loro diraspapigiatura. Il pigiato ottenuto, posto in fermentini di acciaio inox a base molto larga, svolge per 2 giorni una criomacerazione, dopo di che si provvede prima a far risalire la temperatura e successivamente a dare avvio alla fermentazione alcolica con l’innesto di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura che non supera mai i 32°C. Contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce. Dopo la svinatura, il vino inizia la fermentazione malolattica in vasche di cemento e la completa in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura, per l’80% di primo passaggio, in cui rimane per 16-18 mesi. Al termine di questo periodo di maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e ad una decantazione di circa 3 mesi prima che il vino sia messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12-24 mesi.

Sfursat di Valtellina DOCG Fruttaio Ca’ Rizzieri

Zona di produzione: Il vino è prodotto con le migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti posti in località Grumello e Valgella nei comuni di Sondrio, Montagna in Valtellina e Teglio, le cui viti hanno un’età compresa tra i 50 e i 60 anni.

Quantità prodotta: 10-15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino tendente al granato intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo in modo complesso, intrigante, con una piacevolissima vena minerale che si mischia a profumi di cacao, caffè, nocciola e uva sultanina e a frutti come prugne, more, lamponi maturi e ciliegie sotto spirito. In bocca è elegante, pieno, ricco, piacevole e in possesso di una fibra tannica vellutata che si sposa ad una bella freschezza: elementi che lo rendono piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1995, 1997, 1998, 2001, 2002, 2004, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal fruttaio Ca’ Rizzieri, posto a 500 metri s.l.m. dove sono messe ad appassire le uve, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso tra i 7 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Rainoldi dal 1925, l’azienda agricola si estende su una superficie di 9,6 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Aldo Rainoldi.

263




GIANCARLO, CLAUDIO STEFANONI

Mi allontano dalla caotica Milano-Venezia uscendo a Peschiera e mi inoltro nel mantovano, in direzione Monzambano, seguendo la provinciale per Volta Mantovana, che corre proprio al confine fra la Lombardia e il Veneto, fra Castiglione delle Stiviere e Valeggio sul Mincio. Dopo pochi chilometri, la tensione accumulata nel percorrere quell’infernale lembo autostradale mi abbandona e, con piacere, godo del rilassante paesaggio che mi circonda, fatto di campi di grano che si alternano a vigneti e a campi di fieno appena raccolto, ognuno dei quali contribuisce a disegnare la trapunta colorata che copre queste colline. Una piccola deviazione ed eccomi all’azienda Ricchi dei fratelli Stefanoni, una struttura nuova, tenuta in ordine non certo per l’occasione, ma più per quel senso pratico che hanno molti produttori di collocare ogni cosa al loro posto, così da trovarla quando ne hanno bisogno. Attendo un po’ prima di essere ricevuto, ma la cosa non mi dispiace, dal momento che il sole di questa bellissima giornata di giugno riscalda l’aria ed è piacevole starsene un po’ fuori e guardare in giro, constatando che in cantina c’è un via vai di persone, per lo più clienti, che vengono a comprare il vino; chi riempie le proprie “dame” da cinque litri al distributore automatico e chi, invece, si porta via qualche cartone di bottiglie. In poco meno di mezz’ora conto almeno una decina di macchine che si fermano davanti alla porta d’ingresso della

cantina e poi ripartono, dopo pochi minuti, cariche di vino. Buon segno, penso; vuol dire che ho fatto bene a venire a scoprire questa realtà che mi ha incuriosito, sia per un buon Metodo Classico, sia per un Merlot che ho trovato intrigante. Giovani, dinamici, schietti: è questa l’idea che ho nel conoscere i fratelli Stefanoni. L’impressione è che siano dei vignaioli veri, razza ormai rara da queste parti e che, almeno a me, è parso difficile incontrare in questo viaggio in Lombardia. Vignaioli, ma, forse, ancor prima, contadini. Spero non me ne vogliano per questa definizione, ma per me non è un declassamento delle loro splendide figure di imprenditori, anzi, è una esaltazione di quella sana e genuina cultura che ancora oggi - ringraziando Dio - distingue gli uomini di campagna da quelli freddi e cinici di città. Una cultura fatta di rispetto, di quel sano e genuino senso della famiglia, di concretezza, di ingegno, di precisa determinazione delle priorità; una cultura senza troppi fronzoli, che esalta l’essere più che l’apparire, dedita al lavoro, al quale Claudio e Giancarlo hanno indirizzato la loro vita, riuscendo ad arricchirla e a condirla con il sapore della passione per il mondo del vino. Man mano che parliamo mi accorgo che l’iniziale titubanza - che è necessaria a chiunque per comprendere chi si ha di fronte - e la riservatezza - propria di chi non è abituato ad esternare i propri sentimenti

- spariscono e i loro sguardi, così come le loro voci, acquisiscono la sicurezza che suppongo abbiano quando si trovano in famiglia e fra loro dialogano, litigano o programmano il da farsi. Mi piace l’atmosfera che si è creata e il sentirli parlare a ruota libera della gioia che provano nello svolgere questa attività e delle paure che hanno di poter, un giorno, perdere tutto quello per il quale hanno lavorato, mi inorgoglisce, perché sento che hanno incominciato a percepirmi come uno di loro, uno che non è venuto qui per “prendere”, ma solo per “conoscere” e poter dialogare in modo paritetico, senza secondi fini. Stappiamo qualche bottiglia di vino e, dopo un po’, ci ritroviamo a parlare dei sentimenti e dei rimpianti, di ciò che c’è e di quello che ora non c’è più in questa campagna e dei motivi che hanno dato origine alla silenziosa e sconosciuta viticoltura del mantovano che si è sviluppata, pur essendo a ridosso di aree viticole molto rilevanti, di cui ora è divenuta un serbatoio importante. Ascolto... mentre le parole scorrono sul significato della speranza, sull’interpretazione dei sogni e sulla bontà o meno delle ultime vendemmie che, secondo loro, pur essendo la terza generazione di vignaioli della famiglia, sono ancora troppo poche per avere l’esperienza utile a definire quale sia realmente l’impronta di questo territorio. Senza accorgersene si ritrovano a parlare delle caratteristiche pedoclimatiche di questo

RICCHI


267


RICCHI

lembo di pianura padana, delle etichette dei vini - in grado di raccontare molto di più di quanto diano a vedere - nonché degli aspetti tecnici della cantina, tutti elementi che fanno da cornice ad un’infinità di piccole migliorìe, alcune delle quali minime e quasi impercettibili, ma che, come uno sciame di farfalle che sbatte le ali a Singapore e provoca un terremoto in Alaska, nel tempo hanno contribuito a migliorare l’insieme complessivo del sistema produttivo e commerciale dell’azienda Ricchi. Sento che sono orgogliosi di quanto mi stanno raccontando, così come percepisco che apprezzano molto il gradimento che dimostro per i loro vini, poiché non sono altro che il terminale, l’elemento visibile e concreto del loro quotidiano impegno in azienda. Sono seduti uno accanto all’altro, entrambi concentrati su ciò che hanno di importante da raccontarmi, poiché mi accorgo di averli stimolati molto a farlo. Ognuno con il suo modo di fare, con la propria personalità e la propria personale interpretazione della vita e del ruolo che si è ritagliato in azienda, con l’intento democratico che si creino occasioni di dialogo e che ognuno si possa sentire partecipe in ugual misura dei risultati di questa cantina. Li osservo e, con piacere, mi accorgo che, da fratelli, hanno compiuto un’opera ciclopica, non perché sono riusciti a rendere importante la loro azienda, ma perché, attraverso l’amore che li unisce e che forse non saranno mai in grado di esternare totalmente, sono stati capaci di mettere a disposizione l’uno


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Ricchi e Casina, nei comuni di Monzambano e Cavriana, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso, calcareo e moderatamente profondo, sono situati ad un’altitudine di 120 metri s.l.m. con un’esposizione a nord-est. Uve impiegate: Merlot 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot e casarsa speronato doppio Densità di impianto: dai 3.000 ceppi per Ha nei vecchi impianti ai 5.500 ceppi per Ha in quelli più recenti Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede per 20-30 giorni ad un appassimento in fruttaio delle uve raccolte a temperatura controllata aero-ventilata. Al termine di questa fase si procede alla diraspapigiatura delle uve e il pigiato, inoculato con lieviti selezionati, si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 25°C; contemporaneamente, si effettua anche la macerazione sulle bucce, durante la quale vengono eseguiti frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino viene assemblato e posto in tonneaux di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo, secondo e terzo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane 12 mesi per la maturazione. Si procede poi all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 24 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 9.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi fruttati di prugne, more e lamponi maturi che si mischiano a quelli speziati di chiodi di garofano, terra bagnata e mentolo. In bocca è caldo, sanguigno, arricchito da una fibra tannica ben presente e da una bella freschezza; risulta piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001, 2003, 2004, 2005 Note: Il vino, che prende il nome dall’appezzamento di terra denominato Carpani, il cui vigneto contribuisce per 80% alla sua realizzazione, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 12 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Stefanoni dal 1930, l’azienda agricola si estende su una superficie di 45 Ha, di cui 38 vitati e 7 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Guido Brunelli e l’enologo Alberto Musatti.

NOTES

Garda Merlot DOC Carpino

269


RICCARDO RICCI CURBASTRO

RICCI CURBASTRO


A vent’anni, fra le mille cose che avrei voluto fare nella vita e le altre mille che mi frullavano per la testa, ce n’era una, in particolare, che mi appassionava ed era quella di riuscire a diventare ingegnere. Non so il motivo, o cosa accadde, ma invece, finito il Liceo Classico, invece di iscrivermi alla facoltà di Ingegneria, lasciai Roma, dove vivevo, per venire in Franciacorta, dove cominciai ad occuparmi di questa azienda agricola di famiglia nella quale avevo trascorso, abitualmente e fino a quel momento, le mie vacanze scolastiche. Non so dirti quali siano state le cause o le motivazioni di quella scelta: sta di fatto che lasciai le mie amicizie romane, alle quali sono tutt’ora legato, ma soprattutto lasciai Roma, che trent’anni fa era ben altra cosa rispetto alla caotica città che ritrovo oggi, quando mi ci reco per lavoro. Il mio tempo si divideva fra gli studi di Agraria ed Enologia, all’Università di Padova, e questa azienda che, negli anni, ho convertito da promiscua, come era, a vitivinicola, com’è oggi. Ormai è passato molto tempo e, come gli indiani che contano le lune, anch’io mi trovo, ahimé!, a contare le vendemmie che, essendo diventate trenta, scandiscono le fasi della mia vita, dandomi la netta sensazione di quanto scorra velocemente il tempo. Quando arrivai, questo territorio era molto diverso da quello che tu hai attraversato. C’era molto più verde di quanto tu non veda oggi, ma, com’è successo anche in altri territori, il prezzo più alto, per il progresso, l’ha pagato l’agricoltura e molte terre coltivate, piano piano, sono state occupate da aree artigianali, industriali o da nuovi insediamenti abitativi. D’altra parte, come tu ben sai, Brescia è, pur sempre, il quarto distretto più industrializzato d’Italia e qui, forse più che in altre zone, poteva esserci un’aggressione al territorio anche maggiore rispetto a quanto poi si è verificato e di questo, credimi, bisogna dar merito alla nostra viticoltura, che ha difeso, e difende tutt’oggi,

gran parte di quest’area da ulteriori speculazioni. Anzi, ha contribuito ad una riconversione di alcune scelte strategiche e alla crescita di una maggiore sensibilità ambientale che sicuramente porterà, nel prossimo futuro, ad una visione più ambientalista da parte di tutte le forze economiche e politiche che qui agiscono. I primi risultati di queste scelte cominciano già a farsi sentire: basta contare il numero crescente di presenze di enoturisti che gravitano annualmente in zona, l’apertura di un sempre maggior numero di ristoranti che promuovono una ristorazione di alto livello e di hotel a quattro o cinque stelle, per comprendere come il vino, qui, abbia innescato un meccanismo economico importante almeno quanto l’industria. Anch’io sono cresciuto con questo territorio e l’ho visto modificarsi e plasmarsi, ma ho avuto la fortuna di poter vivere questi importanti cambiamenti stando accanto a due persone magnifiche come mio padre Gualberto, che mi è ancora vicino, e mio nonno materno Aurelio che, ormai, da anni è scomparso, ma di cui ho un ricordo bellissimo, poiché mi ha insegnato molto. A lui spesso faccio riferimento nei miei pensieri. La cosa che mi piaceva di lui era la sua indiscussa signorilità, pregio che si riscontrava anche nei tratti somatici del suo volto. Ricordo che, da bambino, pur non conoscendo il significato della parola “signorilità” o cosa volesse dire avere “stile”, ero affascinato dal suo modo di fare, dalla sua eleganza e dalla sua grande capacità di essere amato da tutti. Da gran signore, non faceva alcuna distinzione tra le persone se non sulla base della loro intelligenza e ricordo, anzi, che si intratteneva molto di più a parlare con la gente semplice che non con gli aristocratici della zona. Lo rivedo ancora discorrere con il falegname, davanti ad un vecchio comò da riparare, o con i pescatori delle valli di Goro e Gorino, dove, come ingegnere idraulico,

aveva lavorato a lungo per la bonifica di quelle terre. Devi sapere che dopo la sua morte, per oltre vent’anni ho frequentato alcuni di quei pescatori. Persone umili, ma straordinarie e, come tutti quelli del Polesine, scolpiti dalle difficoltà e dalle miserie; persone come se ne trovano in tante altre parti d’Italia. Del resto, tu che sei maremmano sai bene di che cosa sto parlando. Come la gente della tua terra, anche quella del Polesine è schietta, modesta, ma sincera ed era un piacere starli a sentire parlare, poiché avevano sempre qualcosa da raccontarti. Anche i miei tre figli hanno avuto la fortuna di conoscere quei pescatori e ancora oggi ne parlano, giacché il loro ricordo è sempre vivo in noi, qui, dentro ai nostri cuori. È comunque mia moglie Lucia, bresciana doc, il mio legame più forte con questa terra. In fondo, confesso che, pur avendo amato e masticato questa terra come se fosse la mia, ogni tanto mi ritrovo a pensare agli anni della gioventù e a quelle amicizie con le quali sono cresciuto e, con nostalgia, penso a Roma, sentendomi, dopo tanti anni che sono qui, ancora un po’ fuori casa. Ma sono pensieri fugaci, nuvole passeggere che passano velocemente nella mia mente e così, per non lasciarmi rattristare da languidi ricordi, mi lascio prendere da sentimenti più vicini, più presenti, che inevitabilmente mi riportano in famiglia. Il loro richiamo è così forte che, come vedi, non ho vergogna ad esternarli, anzi mi rattristo del fatto che, certe volte, non riesca a farlo più spesso di quanto invece desidererei. Sì, dovrei farlo più spesso e forse la cosa mi aiuterebbe a parlare dei miei sogni e far scoprire, a chi mi sta intorno, il fanciullo che è in me, che da troppo tempo ho messo in disparte, “coprendolo” con le responsabilità che, via via, ho assunto in questi anni. Responsabilità che ho voluto e che fanno parte del mio modo di interpretare la vita, proiettata sempre alla ricerca di nuove opportunità, di una crescita interiore

271


RICCI CURBASTRO

e dell’appagamento di una perenne irrequietezza e insoddisfazione che mi spinge a non fermarmi mai e ad agire. Così, quando mi trovo ingabbiato e non posso agire, sogno e lo faccio ad occhi aperti e, mentre la mente viaggia, penso alle cose che potrei fare domani, al vino che farò fra dieci anni o al posto bellissimo dove andrò a fare bird watching dopodomani. C’era una bella canzone di Vecchioni di cui ora non ricordo il titolo, che mi piaceva molto, che sentivo particolarmente vicina a me e che diceva: “Quando starai per morire, pianterai un ulivo, convinto di vederlo ancora fiorire”. Ecco, in me c’è sempre stata questa voglia di pensare a qualcosa che vada oltre il presente e che sia capace di rappresentare il nuovo, il futuro. Mi diverte avere dei progetti nel cassetto da realizzare e dei sogni a cui pensare. Con gli anni, una parte dei sogni ho dovuto lasciarli passare, ma altri, ti posso assicurare, li tengo tenacemente stretti, perché li sento vivi e ancora penso di poterli realizzare. Sono quelli che racchiudo gelosamente dentro di me e che alimento trascrivendoli ogni giorno nel libro della mia vita che, pur contenendo tantissime pagine già scritte, ne ha altrettante ancora da scrivere, nell’assoluta certezza che avrò tutto il tempo che mi occorrerà per riempirle tutte. Come avrai capito, sono una di quelle persone che, sicuramente, morirà con il dispiacere di non aver potuto fare tutto ciò che avrebbe voluto e non credo che morirò contento per le tante cose che, invece, ho fatto. Sono così e così voglio rimanere. Dato che non mi hanno mutato gli anni passati da presidente del Consorzio dei vini di Franciacorta, né quelli, sette per l’esattezza, passati come consigliere della Strada del Franciacorta, né il fatto di essere ancora presidente della Federdoc italiana, forse dovrò arrendermi all’evidenza che non esiste alcuna cosa al mondo in grado di farmi cambiare davvero. Del resto, sono solo cariche che ho voluto ricoprire cercando di cambiare le cose che non funzionavano, costruendo, per quanto mi era possibile, dei progetti che assomigliassero a piccoli sogni che ho provato a concretizzare.


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Chardonnay e Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Bosco e Villa Evelina nel comune di Capriolo, in località Santella del Gröm nel comune di Adro, in località Clusane e Beloardo nel comune di Iseo, oltre ad altri appezzamenti posti nel comune di Paderno Franciacorta, le cui viti hanno un’età compresa tra i 3 e i 15 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, formatisi durante l’ultima glaciazione (wurmiana), debolmente ondulati con scheletro ghiaioso, ciottoloso, sabbioso-calcarei e moderatamente profondi, sono situati ad un’altitudine di 200 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Chardonnay 50%, Pinot Nero 50% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 16°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per 10-12 giorni, ad una temperatura di 18°C ed è svolta per l’80% del vino in tini di acciaio inox, mentre il restante 20% è posto in barriques di rovere francese di Allier, Nevers e Tronçais a grana fine e media tostatura. In questi contenitori il vino rimane fino al mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia; in questi mesi vengono effettuati frequenti sur lies e bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura del vino. In primavera si procede quindi all’assemblaggio delle partite, a cui segue l’imbottigliamento e l’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 36 mesi, al termine dei quali si procede al remuage meccanico delle bottiglie per 7 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 4-6 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Franciacorta veste il bicchiere con un colore giallo paglierino ricco di riflessi dorati che vanno ad arricchire un perlage finissimo e persistente; si presenta all’esame olfattivo piacevolmente intenso e caratterizzato da profumi dolci e tostati, di nocciole, mandorle e vaniglia che si fondono ad un frutto che riporta alla mente note di pesca a pasta gialla, pera, nespola, mela, cedro e arancio, a cui fanno seguito nuances di fieno e timo. In bocca risulta avvolgente, armonioso, equilibrato, fresco, con una vena sapida che conferisce buona persistenza. Prima annata: 1982 Le migliori annate: 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2002, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Ricci Curbastro da molti secoli (l’etichetta più antica conservata è del 1882), l’azienda agricola si estende su una superficie di 34 Ha, di cui 29 vitati e il resto occupato da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Marco Francolini e l’enologo Alberto Musatti.

NOTES

Franciacorta DOCG Extra Brut

273


MICHELA, SOFIA, ANDREA GUETTA

SPIA D’ITALIA


275

Non so spiegarti questo pacato senso di distacco che oggi ho da quelle stesse cose che fino a un po’ di tempo fa attiravano la mia attenzione. Devo ammettere che prima le cose stesse erano diverse e, pur facendone mille, avevo ancora la forza e la voglia di pensarne altre mille ancora, mentre oggi, pur ragionando su un’infinità di esse, mi ritrovo a scartarne molte e a farne ancora meno, concentrando la mia energia solo su alcune. Dicono che questo dipende dal fatto che gli anni passano - ringraziando Dio, aggiungo io - e si vede che con il tempo mi sono trasformato in un’altra persona, ma questa evoluzione non ha coinvolto solo il mio aspetto fisico o il mio pensiero, ma, purtroppo, anche il mondo circostante e il mio modo di raffrontarmi con la società, che è molto dissimile da quella in cui vivevo quando mi laureai in Scienze Agrarie all’Università di Milano. A quei tempi, avevo la sensazione di vivere in un’epoca di straordinario progresso e di straordinarie possibilità, ricca di un sistema culturale che offriva prospettive in grado di illuminare il mio futuro. Un periodo storico forse simile a tanti altri che si sono ripetuti ciclicamente, ai quali seguono sempre periodi irrazionali e carichi di insicurezze come quello odierno, dove ogni elemento della nostra società ci appare liquido, quindi instabile, mobile e precario: probabilmente non è solo la realtà che cambia, ma è il punto di vista da cui la si osserva che è mutato nel tempo e, quindi, varia la prospettiva. Quegli anni non erano così e, per ricordarli, mi basta pensare a quando uscii dall’Università. Mi sembrava di avere il mondo nelle mani e per potermi esprimere e dar senso alle straordinarie opportunità che quel titolo di studio mi offriva, decisi che la strada migliore da percorrere sarebbe stata quella di mettere in piedi

un grande e qualificato allevamento di vacche da latte. Ho dato trent’anni della mia vita per selezionare e qualificare una stalla di duecento capi di bestiame che erano l’orgoglio mio e di tutta la zona. Ad un certo punto qualcuno, del quale non ho compreso le ragioni, decise che i tempi erano ormai cambiati e che ciò che era andato bene fino al giorno prima, l’indomani non sarebbe andato più bene, fissando, lui per me, che il latte che producevo non era più congruo alla ripartizione percentuale che doveva esistere fra gli stati comunitari europei. In breve, questa mia attività ebbe termine. Storie strane, di “quote latte” per intenderci, simili a quelle del grano, dell’olio e della normativa OGM sul vino che ora produco. In silenzio e con profonda amarezza dismisi la stalla e da quel momento mi dedicai con più attenzione alla viticoltura, che comunque era già presente in azienda. Non sono mai riuscito a comprendere il motivo per cui gli stati occidentali investano denaro per combattere la fame nel mondo e contemporaneamente - direi anche oltraggiosamente - paghino un agricoltore affinché smetta di produrre quegli stessi prodotti che aiuterebbero migliaia di persone a sopravvivere. Potrà sembrare incredibile, ma è andata proprio così e quando ci ripenso mi vengono ancora i brividi. Il fatto poi, che mi dessero i soldi per non produrre, mi fece riflettere molto sui sottili meccanismi che regolano i giochi fra politica e finanza, le quali, entrambe, hanno l’interesse a rendere la nostra vita il più possibile instabile, mobile e precaria, una per gestire, nell’insicurezza, il potere e l’altra, non avendo regole ferree da rispettare, per fare i propri interessi. Compresi che erano molti gli aspetti incomprensibili di questo sistema economico e molti di più quelli

che si susseguono nella vita, alcuni dei quali sembrano appartenere a logiche contrarie anche alla stessa ragione. Logiche forse che trascendono da noi, come era quella legge sulle “quote latte” che faceva a pugni con la mia passione e la mia solerzia di allevatore. Ma ancora mi sentivo giovane e mi sembrò naturale rimboccarmi le maniche: mi buttai dietro le spalle i problemi e cercai di guardare avanti con il solito entusiasmo e ottimismo. Fu nel 1997 che vendetti l’allevamento e trasformai quasi tutta l’impresa in azienda vitivinicola, considerando proprio la predisposizione del territorio che è composto, perlopiù, da terreni collinari, sassosi e morenici adatti a produrre vino. Usai una parte delle stalle per costruire dei box da utilizzare per avviare un allevamento di cavalli che sarebbe stato anche di supporto al Circolo Ippico aperto in seguito da mia figlia Michela, laureata in lettere con specializzazione in giornalismo, ma Istruttrice Federale di equitazione, mentre il resto lo dedicai all’ampliamento della cantina, trasformandone la parte più antica nel ristorante agrituristico attualmente presente in azienda. Un’antica cascina poco distante, salvata dalla rovina, la trasformai in un gradevole locale perfettamente inserito nella natura e nel bosco circostante ed ora la “Tana del Gufo”, questo il nome, seguita da mio figlio Matteo - anche esso Istruttore Sportivo, ma di tennis - è diventato un luogo piacevolissimo ove passare ore spensierate. Si trattò naturalmente di un grosso cambiamento, non soltanto produttivo, ma anche e soprattutto mentale, che modificò il mio approccio alle problematiche aziendali - più complesse di quelle precedenti - che richiedevano capacità culturali e imprenditoriali molto ampie e in grado di chiudere il cerchio che dalla filiera produttiva


SPIA D’ITALIA conduceva al mercato. Non era latte, ma vino che, una volta messo in bottiglia, doveva essere venduto e, per farlo, dovevo incominciare a familiarizzare con termini come immagine, comunicazione, computer, marketing, conoscenza dei mercati: parole che richiesero un po’ di tempo prima che potessi comprendere le sottili sfumature che le legavano alla realtà, arrivando, senza accorgermene, a vedere che la mia vita si era modificata e quella ruralità che percepivo stando nella stalla con le mie mucche si era trasformata in una managerialità che, a dire la verità, non mi stimolava molto, in quanto mi sentivo allora e mi sento ancora adesso più produttore che commerciante: e questo è probabilmente un grande limite. In questi anni ho sempre cercato un filo rosso che legasse quei due mondi e le idee di una volta con quelle di oggi e la pacata e serena quotidianità di quegli anni con la dinamica quotidianità di adesso. Ogni tanto mi sembra di averlo trovato, ma poi desisto, poiché sono convinto del fatto che non avrebbe più alcuna utilità che legassi quel filo. Non ho insistito molto, forse perché è un’altra delle idee che ogni tanto mi ronzano in testa, ma che scarto per concentrarmi su quelle più importanti, perché oggi giorno è dura, non è come prima e fare qualsiasi cosa è diventato impegnativo, costoso e difficoltoso. Tuttavia, c’è ancora dell’entusiasmo, perché credo che le mie vigne possano riservarmi delle belle sorprese, come penso sia in grado di riservarmele anche questo Tocai - o quale altro nome, altro mistero di chi continua a decidere e a pensare per e contro di noi - vendemmia tardiva liquoroso (burocraticamente e misteriosamente, per quasi tutti, definito in sigla - obbligatoria in etichetta - VLQPRD) che sono l’unico in Italia a produrre con una particolarissima tecnologia. In ogni caso l’esperienza passata mi ha toccato e mi ha insegnato a non dare mai niente per definitivo, né a pensare che ciò che ho acquisito o assimilato nella vita rimanga tale in eterno. Purtroppo molte volte le cose hanno preso direzioni diverse da quelle che mi aspettavo; molte altre, invece, hanno ribaltato la mia vita e altre ancora, che pure mi piacevano da impazzire, le ho abbandonate in un angolo. Sono cambiato, come ti dicevo prima, e oggi guardo tutto non solo con distacco, ma anche con aria molto critica e devo dire che ciò mi giova, perché quando riesco in questo esercizio mi sembra di riallacciare quel filo rosso fra il passato e il presente. Pensa che quando ero giovane i miei figli e mia moglie Lena erano la cosa più importante della mia vita - anche se me ne sono reso conto solo in seguito - eppure passavo la maggior parte del mio tempo nella costruzione del mio lavoro. Oggi, invece, se venisse qua la mia nipotina Sofia, sospenderei questo colloquio per ascoltarla, perché ciò che lei ha da dirmi mi sembra tutto importante. Come vedi, ogni cosa con il tempo diventa relativa e non è questione solo di amore o di lavoro, ma è che sono cambiate le priorità nella mia vita e ciò che prima mi sembrava estremamente importante oggi non è altro che un semplice dettaglio e nulla più... O no?


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Tocai provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Spia d’Italia, nel comune di Lonato del Garda, le cui viti hanno un’età di 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, ciottolosi e molto ricchi di scheletro, sono situati ad un’altitudine di 220 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Tocai 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Prima della vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione dei grappoli che sono lasciati a sovramaturare in pianta dove rimangono per circa 60 giorni oltre la maturazione fisiologica, fino ad ottenere una concentrazione di zuccheri di circa il 26%. Raggiunto l’appassimento voluto, si procede alla raccolta e alla pigiadiraspatura delle uve, dopo di che il 50% del mosto subisce per 24 ore una criomacerazione a 3°C, mentre il restante 50% va direttamente nei contenitori di acciaio inox termocondizionati. Riunite le masse e inoculate con lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 4-5 mesi alla temperatura di 2-4°C. Terminata questa prima fase operativa che ha trasformato circa il 50% degli zuccheri in alcool, si effettua l’aggiunta di alcool uvico per portare la gradazione a circa 16°. In seguito, il 50% del vino è posto in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura, di secondo e terzo passaggio, dove rimane per 60 mesi alla conclusione dei quali è travasato nei tini di acciaio, ricomponendo così la massa iniziale alla quale viene aggiunto un 10-15% del vino prodotto nelle annate precedenti. Il vino viene fatto decantare ancora per qualche mese, poi è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 8.000 bottiglie da 500 cl. l’anno Note organolettiche: Di un bel colore giallo oro brillante, all’esame olfattivo il vino si presenta complesso, ricco di personalità, suadente ed elegante, sprigionando sensazioni floreali di acacia e tiglio che si mischiano a note di tamarindo, di frutti maturi a pasta gialla e a nuances mielose, di caramella d’orzo e di Moscato. In bocca conferma le percezioni olfattive, dimostrandosi intrigante, morbido, con una vena fresca assai piacevole che ci riporta alla mente le note di tamarindo percepite al naso. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990, 1991, 1993, 1994, 1996, 1997, 1998, 1999, 2000 Note: Rielaborazione di un dimenticato vino famoso ai primi dell’Ottocento. Gli fu attribuito da Veronelli un nome di fantasia prendendo spunto dalla classificazione della colorazione dei diamanti (Gefide - la tipologia che riflette meglio la luce, bugizio - l’estrema tonalità del giallo). Raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Guetta dal 1960, l’azienda agricola si estende su una superficie di 55 Ha, di cui 17 vitati e 38 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Marco Tonni e l’enologo Fulvio Santini.

NOTES

San Martino della Battaglia DOC Gefide

277




SANDRA BRAGGIOTTI

Mi piace pensare che c’è sempre un buon motivo per venire al borgo di Mazzolino, sulla collina di Corvino San Quirico. Personalmente ne ho sempre pronto uno che pesco fra le decine di motivi che tengo di scorta e se mai mi capitasse, un giorno, di averli smarriti tutti, sono sicura che non avrei remore ad inventarmene uno pur di essere qui. Li contemplo tutti, da quelli reali, concreti, materiali, legati all’azienda agricola e alla stagionalità che regola la vendemmia, a quelli legati al calendario di Padre Indovino, con il quale mi oriento per piantare le mie rose, a quelli rituali, collegati alle feste, ai compleanni e alle ricorrenze o a quelli che riesco a creare ad arte solo per riuscire a riunire qui la mia famiglia che, sparsa per il mondo, almeno un paio di volte l’anno, ha voglia di sentirsi a casa. È per questo che ogni cosa, qui, ha il sapore di casa. Mi piace pensare che questa è la casa delle rose, ma anche quella delle farfalle o dei maggiolini, degli uccelli che mi raccontano le storie di altri uccelli, dei miei cani o della vite che nasconde sotto le sue foglie il frutto buono. Mi piace pensare che quando le rose avvizziscono ci saranno le more mature e quando in cantina si svina il giovane vino presto sarà Natale. Mi piace pensare che qui tutto si sovrappone e ogni cosa dà l’idea di esserci sempre e di non esserci mai, scompare e riappare seguendo tempi precisi senza tempo, a partire dalla bella stagione che rincorre i

freddi invernali e che ogni anno si ritrovano qui, a Mazzolino, dove li attendo per farmi raccontare da ognuno di loro una storia, un canto, una poesia che riferisco poi ai miei cari, quando li incontro. Mi piace pensare che Mazzolino abbia visto crescere i miei figli che qui hanno giocato, lontano da Milano dove viviamo abitualmente, scambiandosi i sassi colorati o correndo fra queste aiuole che, con il tempo, sono diventate per loro sempre più noiose, mentre con i loro sguardi sempre più arditi e curiosi hanno attraversato di gran carriera la loro adolescenza, per diventare grandi. Mi piace pensare che Mazzolino sia un faro tanto luminoso da essere avvistato da lontano, come un simbolo intorno al quale, ogni volta che c’è un buon motivo, ci si riunisce con i miei genitori, Enrico e Magda, che vivono nel Principato di Monaco, con mio marito Enrico, che è sempre in giro per il mondo, con i miei figli, che si spostano di continuo e si dividono fra Londra, America e Australia, nonché con i miei tre fratelli e con i loro nove figli, i miei nipoti. Mi piace pensare che sia importante per noi tutti, che ci sentiamo un po’ cittadini del mondo e senza un forte radicamento territoriale, avere una casa in cui ritrovarci. È una sensazione splendida, che mi fa star bene e mi fa sentire fortunata, non solo perché Mazzolino esiste e rende possibile una simile comunione d’intenti, ma perché ho compreso che qualunque

cosa potessi chiamare felicità è composta solo da sensazioni che arricchiscono i miei sentimenti. Così mi sono prodigata ogni giorno della mia vita per non scacciarli, per non far loro violenza, anzi li ho coltivati, come le mie rose, racchiudendoli nell’amore, scoprendomi così felice di essere capace d’amare. Amo i miei figli, amo mio marito, amo la gente e tutto ciò che mi circonda, che non solo è gioia, ma profuma di buono e di fresco. Sensazioni semplici, ma vere, come quelle che provo intorno a questa casa, nel preparare un caffè a mio marito, quando si alza alle cinque del mattino per prendere un aereo, oppure guardando gli occhi dei miei figli o sentendomi ripagata dei sacrifici fatti e gratificata per l’accoglienza che questo nostro Pinot Nero incontra sul mercato. Sentimenti intorno ai quali ruotano le mie passioni, ognuna delle quali ha la sua importanza e un preciso ruolo come lo ha Mazzolino, punto fermo della mia vita, come lo ha l’essere moglie, madre, zia, amica o il sentirsi nonna, o come lo ha la piacevole sensazione di sentirsi una semplice signora milanese che ha la passione del golf, del bridge, degli animali e della campagna. Contrariamente a molte altre donne, molto più avventurose di me, non ho una biografia particolarmente varia e movimentata, né la mia vita è costellata da chissà quali importanti avvenimenti. Sarà perché l’avventuroso e il romanzesco li ho vissuti sempre in famiglia ed è per me una specie

TENUTA MAZZOLINO


281


TENUTA MAZZOLINO


Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argillosi, calcarei, mediamente profondi con una presenza di sabbia nella parte bassa, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 200 e 220 metri s.l.m., con un’esposizione a nord / nord-ovest. Uve impiegate: Pinot Nero 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e con il pigiato ottenuto si procede per 6 giorni, con l’utilizzo di ghiaccio secco, ad una prefermentazione a freddo svolta a 8°C, al termine della quale si innalza la temperatura e, inoculando i lieviti selezionati, si avvia la fermentazione alcolica. Questa fase è svolta in recipienti di acciaio inox e si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 22 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi. Dopo la svinatura, il vino viene assemblato e posto in barriques di rovere francese di Allier, a grana fine e media tostatura per un terzo nuove, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi. Trascorso questo periodo di maturazione, si procede all’assemblaggio delle partite e a 6 mesi di decantazione, quindi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 18 mesi prima di essere commercializzato.

Oltrepò Pavese DOC Pinot Nero Noir

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Mazzolino, nel comune di Corvino San Quirico, le cui viti hanno un’età compresa tra gli 8 e i 22 anni.

Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso carico con riflessi granati, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi fini e suadenti di frutti rossi e lamponi maturi, rose, cuoio e sottobosco. In bocca risulta elegante, piacevole, con una fibra tannica setosa e ben evoluta che, abbinata a una bella freschezza, rendono questo vino piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1984 Le migliori annate: 1990, 1995, 2000, 2004, 2005, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Braggiotti dal 1980, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 22 vitati e 8 occupati da prati e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Gian Luigi Bellandi e gli enologi Kyriakos Kynigopoulos e Jean François Coquard.

NOTES

283


LORELLA COMI

TRAVAGLINO


285

Ci sono ancora luoghi in Italia che mi appaiono lontani, sconosciuti, misteriosi e mi domando il perché. Come è possibile che in tempi come i nostri - dove ci spostiamo da un continente all’altro con estrema facilità e il mondo si è fatto così piccolo - ci siano ancora luoghi lontani? Nella mia vita ho conosciuto tanti paesi del mondo, ma nessuno mi ha dato l’impressione di essere così lontano come alcune zone, paesi e borghi d’Italia. Li sento così. Che strano! Ma poi... lontano da che cosa? Lontani perché sono luoghi distanti e irraggiungibili o perché vicini, ma ancora avvolti nel mistero? Lontani non per lo spazio, ma per il tempo che lì sembra essersi fermato? O sono solo luoghi lontani dalla globalizzazione che stravolge e confonde tutti? È certo che, per incontrarli, è necessario allontanarsi dalla frenesia e dai ritmi imposti dalla città e magari lasciare qualche autostrada per inoltrarvisi, iniziando un vero e proprio viaggio, nella campagna, seguendo strade secondarie e piccoli sentieri che ci conducono in un mondo che è davvero molto più lontano di quanto possa indicarci il nostro contachilometri. Un esempio evidente di ciò che dico è l’Oltrepò pavese che, per quanto assai prossimo alla caotica e produttiva Milano e alla più tranquilla, ma intraprendente Pavia, mantiene ancora intatta una sua aristocratica lontananza, serrato com’è nei ritmi che somigliano più a quelli di un’isola, circondata dal mare - e che regala agli ospiti una distaccata e piacevole sensazione di quiete e serenità - che non a quelli di un’area rurale posta a nemmeno un’ora di macchina da due tra i più importanti capoluoghi italiani. Senza sapere cosa mi attendesse, anch’io sono “sbarcato” in questo territorio che, in maniera inaspettata, mi è apparso veramente bello. È una terra che attrae, che offre l’opportunità di godere di paesaggi vitati aperti, ampi, dolci, fra i più spettacolari d’Italia, facendo rammaricare, chiunque arrivi, di non esserci stato prima. Un territorio che, personalmente, mi ha affascinato proprio perché

l’ho sentito lontano, sconosciuto e misterioso, inconsueto rispetto a quelli che avevo appena visitato, e che mi ha dato l’impressione, forse sbagliata, di essere fermo nelle sue “storiche” posizioni. È una sensazione che ho avvertito soprattutto negli sguardi di chi non comprendeva cosa io andassi cercando, quando le persone mi confidavano che nessuno si era mai interessato così tanto al loro territorio e trovavano quindi strano che ci fosse qualcuno che lo scoprisse addirittura bello. Fra me e me pensai che il mio entusiasmo forse non appariva quale invece era, vale a dire del tutto disinteressato, poiché a nessuno di loro quel territorio aveva mai regalato qualcosa che non fosse lavoro, sacrifici e sudore. Figuriamoci se era capace di offrire delle emozioni, quelle che, invece, trasmetteva a me ogni qualvolta scavalcavo un colle o svoltavo in una nuova direzione. Fu la stessa emozione che provai valicando il portone d’ingresso di una delle più importanti aziende della zona che, forse, è anche una fra le più antiche d’Italia, la Travaglino, la cui data di fondazione sembra risalga all’epoca delle crociate: 1111. Ad attendermi trovai Fabrizio Maria Marzi, l’anima enologica dell’azienda, e la proprietaria, la signora Lorella Comi, che rappresenta la quarta generazione di una famiglia insediata su queste terre fin dal lontano 1850, la quale ha coniato uno slogan scritto sulla porta d’ingresso che dice: “Dal 1868 un grande vigneto in Oltrepò pavese”. Sapevo di quella frase, come di tante altre cose, poiché avevo già letto, prima di arrivare in azienda, una vasta rassegna documentale sulle caratteristiche di quella tenuta nella quale, però, mi aveva stupito una cosa in particolare: non tanto il fatto che l’azienda si estendesse su una superficie di 470 ettari, di cui 234 destinati ad una riserva di caccia, 160 a pascoli e seminativi e 76 coltivati a vigneto, posti su terreni sciolti, calcarei, argillosi, molto fertili, dove si producono soprattutto Pinot Nero e Riesling, ma che, da sola, coprisse il 90%

del territorio del comune di Calvignano. Dopo le prime formali strette di mano mi accorsi che la signora Lorella si portava dietro un’aria “cittadina” un po’ diversa rispetto a quella di chi vive qui; un’aria che avevo comunque già incontrato in questo mio viaggio in Oltrepò, in altre aziende, ugualmente condotte da molta gente di Milano. Simpatica, brillante, frenetica e veloce nei modi, mi condusse per mano alla scoperta della proprietà di famiglia, come potrebbe fare una buona guida che sa già cosa dire e cosa dovrà fare vedere. Con il solito metodo, mi fu proposta velocemente la storia, lo stato dell’arte e i progetti futuri della Travaglino, che scorsero veloci davanti ai miei occhi come le slide che si susseguono, una dopo l’altra, su uno schermo. Osservai quella vivace dimostrazione di efficienza e mi sorse il dubbio che la mia idea iniziale, che mi aveva spinto a pensare che qui il tempo si fosse fermato, poteva anche essere sbagliata. Così mi venne spontaneo chiederle se, come io immaginavo, questa fosse ancora un’isola lontana, misteriosa e sconosciuta o se, invece, vi erano altri presupposti che, a prima vista possono sfuggire a chi, come me, non è addentro alle faccende e non essendo del posto non può certo conoscere i fatti e le storie, la conoscenza dei quali potrebbe anche mutare radicalmente il suo giudizio. Con qualche lieve ombra di rammarico, Lorella mi confermò che, a fronte di quel paesaggio, bellissimo e incantato, ancora preservato dalle speculazioni edilizie, che mi aveva suggerito immagini bucoliche e pastorali di una terra ancora tutta da scoprire, vi era un realtà vitivinicola che trovava proprio in quel mio “tutto da scoprire” le sue contraddizioni. Era vero, infatti, che quel territorio vitivinicolo era, indubbiamente, lontano dai fasti del jet set mondano e dalla notorietà che i grandi palcoscenici internazionali regalano ad altre aree enologiche italiane, come era vero che quella terra era ancora misteriosa perché impegnata nella costruzione


TRAVAGLINO

di una propria identità produttiva, cosa che portava, come conseguenza, il fatto di essere ancora poco conosciuta dal mercato. Mi raccontò che, per anni, quella cultura contadina, radicata come le viti nel territorio, si era preoccupata di vendere il vino a Milano, più che negli Stati Uniti, e che, forse, era stata proprio quella città, concedendo un’importante opportunità economica, a viziare i produttori che partivano al mattino e tornavano a casa la sera, dopo aver svuotato il camioncino dell’azienda carico di vino a casa di qualche famiglia o in qualche rivendita milanese, con il portafoglio gonfio di banconote che andavano a depositare nelle banche di Casteggio, Broni e Stradella. Per loro l’estero era lì, fuori della porta di casa, e quel mercato milanese era, ed è ancora, per molti, sufficiente, vicino e soddisfacente, anche per aziende delle dimensioni della Travaglino che produce non più di 200.000 bottiglie di vino l’anno. Mi assicurò che, in ogni modo, le cose, ultimamente, stavano cambiando, perché le sembrava di percepire un maggiore coinvolgimento delle aziende nella definizione delle strategie di sviluppo del territorio, cosa che le faceva presagire dei mutamenti radicali, nell’immediato futuro. Confidai nell’entusiasmo della mia interlocutrice, pur sapendo quanto sia difficile cambiare le cose e, per riuscirci, è quasi sempre necessario un radicale mutamento della cultura propria di un territorio, delle aziende che vi operano e, naturalmente, degli imprenditori che le dirigono. Ero certo, ad ogni modo, che l’azienda Travaglino, la più antica del territorio e una delle più antiche d’Italia, stava lavorando per il futuro e di questo ne avevo avuto testimonianza osservando ciò che era già stato fatto nelle vigne e in cantina, da Fabrizio, l’enologo, il quale stava sviluppando, insieme ad altri produttori, un grande progetto sul vitigno Pinot Nero per dar vita a grandi spumanti Metodo Classico e prestigiosi rossi, e ultimamente anche un interessantissimo progetto “Valle del Riesling”. Ma il tempo era volato e, salutando i miei ospiti, mentre me ne andavo mi sono accorto che questo Oltrepò mi appariva meno lontano e un po’ più conosciuto rispetto alla mattina


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Riesling Renano e Italico provenienti dal vigneto Campo della Fojada di proprietà dell’azienda, posto nel comune di Calvignano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 35 e i 55 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni argillosi, calcarei, mediamente profondi con una presenza di sabbia nella parte bassa, è situato ad un’altitudine di 220 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Riesling Renano 70%, Riesling Italico 30% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: una media di 4.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene intorno alla prima metà di settembre, dopo aver fatto effettuare una leggera surmaturazione alle uve, si procede ad una pigiadiraspatura delle stesse e il pigiato ottenuto è sottoposto per 12 ore ad una criomacerazione a 10°C, con conseguente macerazione pellicolare, terminata la quale si estrae, senza pressatura, il mosto fiore che, posto in tank di acciaio e inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta alla temperatura controllata di 18°C, si protrae per 15 giorni, durante i quali vengono effettuati periodici sur lies al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Il vino, che non sempre svolge la fermentazione malolattica, rimane nei contenitori di acciaio fino al mese di marzo successivo alla vendemmia; quindi si procede all’assemblaggio delle partite e ad un breve periodo di decantazione, prima dell’imbottigliamento che consente un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 23-25.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta nel bicchiere con un bel colore giallo paglierino dai riflessi dorati; all’esame olfattivo sprigiona, a seconda dell’invecchiamento e dell’annata, profumi che spaziano dalle note fruttate di pesca a pasta gialla, mango e susina matura, su una base minerale ricca e affascinante di conchiglie di mare che si evidenzia con l’invecchiamento, mentre l’acacia e il gelsomino si trasformano in sambuco e le percezioni fruttate lasciano spazio a sensazioni di idrocarburi. La complessità olfattiva è in equilibrio con le percezioni gustative dove il vino si presenta con un’entratura complessa, elegante, tonda ed equilibrata che armonizza la vena alcolica con una buona sapidità, risultando fresco, lungo e persistente. Prima annata: 1960 Le migliori annate: 1970, 1971, 1978, 1981, 1984, 1991, 1993, 1996, 1999, 2000, 2001, 2003, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto di produzione, raggiunge la maturità dopo 2-3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Comi dal 1965, l’azienda agricola si estende su una superficie di 400 Ha, di cui 80 vitati e 320 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Giuliano Callegari e l’enologo Fabrizio Maria Marzi.

NOTES

Oltrepò Pavese DOC Riesling Campo della Fojada

287


LUCA TRIACCA

Vorrei che tu soffermassi l’attenzione su questo vigneto che si trova alle spalle della Tenuta La Gatta, un ex convento costruito più di cinquecento anni fa, dal quale è possibile osservare la valle sottostante che, verde come mai altrove in Valtellina, si chiude e svolta verso Tirano. Se guardi bene ti accorgerai quanto essa sia particolare: racchiude in sé un modello di continuità e anche di innovazione nel paesaggio vitivinicolo del territorio, perché i suoi muretti a secco sono leggermente più distanziati e un po’ più bassi rispetto a quelli delle altre aziende confinanti, mentre il vigneto, con i filari che corrono parallelamente alla montagna, è tutto meccanizzato ed estremamente semplice da lavorare. È un vigneto che segue la morfologia del terreno e disegna su di esso un soprabito verde che ne esalta le forme e ne addolcisce le asperità. Sono 13 ettari arroccati sulla montagna e che, da soli, rappresentano il corpo maggiore della nostra proprietà, la quale comprende altri 8 ettari nella zona della Sassella, 9 in quella della Valgella e 10 tra Tirano e Villa di Tirano. È anche il vigneto che, più di ogni altro, ha richiesto il maggiore impegno - quasi ventennale - per la sua definizione attuale e che dà la misura del lavoro da noi profuso e ci fa sentire orgogliosi dell’immagine che contribuisce

a veicolare, non solo dell’azienda Triacca, ma anche di questa laboriosa Valtellina che, come ti sarai accorto, è in grande fermento, desiderosa di cambiare e aprirsi al mondo per farsi conoscere. Questa è una terra difficile, per quanto unica, alla quale noi Triacca siamo legati a doppio filo, poiché è quella che ci vede impegnati ormai dal 1897, e che, a confronto della terra toscana - dove abbiamo altre tre aziende, una a Greve in Chianti, una a Montepulciano e un’altra nella Maremma, acquistate rispettivamente nel 1969, nel 1990 e nel 1999 - ci ha sempre richiesto più impegno e maggiori attenzioni, poiché è una terra fragile, che si regge su sottili equilibri, i quali, a loro volta, sono regolati dal coraggio e dall’impegno dei viticoltori valtellinesi. Questo è un territorio che necessita di cure come quelle fornite al figlio più cagionevole della famiglia, quello più mingherlino, più indifeso, che richiede più amore e che non può mai essere lasciato solo. Una terra che ci ha visto, negli ultimi trent’anni, migliorare qualitativamente la produzione con una selezione clonale del Nebbiolo, che ha interessato, ormai, tutti i nostri vigneti, ci ha visto ridurre i costi di produzione e sperimentare una maggiore insolazione delle coltivazioni. Questo impegno incessante, alcune volte si è

trasformato in una lotta difficile, combattuta contro le mille difficoltà sollevate ora dalla morfologia del territorio, ora dalla volontà che abbiamo di incidere sull’indifferenza che dimostrano le amministrazioni e i politici, quando restano sordi alla richiesta di contribuire, in qualche modo, alle spese che sosteniamo per salvaguardare questa viticoltura, come se non comprendessero la fondamentale importanza del lavoro che noi viticoltori svolgiamo per l’assetto idrogeologico di questo territorio. Ad essere sincero, potrei dirti che in realtà non ci sono soldi che possono ripagare le premure e le attenzioni che devolviamo tutti i giorni alle nostre terre, verso le quali assumiamo anche l’onere di trasformarci in protezione civile o pronto intervento - com’è successo in questi giorni addietro, quando, nel cuore della notte, a fronte del perseverare di incessanti piogge, si sono verificate frane e smottamenti. Sono sottili equilibri quelli che regolano l’ecosistema della vallata che, per decenni, si è retto solo su questa viticoltura di montagna, definita eroica, contraddistinta da tanti piccoli vigneti che, nell’arco dei secoli, si sono sempre più frantumati in ulteriori, minimi appezzamenti di terra che hanno avuto il merito, in certi periodi storici, di costituire per le famiglie l’unica risorsa economica

TRIACCA


289


TRIACCA

NOTES

che permetteva loro di vivere. Uomini che, per decenni, come alternativa alla coltivazione della vigna, avevano solo l’emigrazione verso l’America o l’Australia, verso Buenos Aires o la vicina Svizzera, nel tentativo di trovare opportunità migliori di quelle offerte da queste pietre e da queste vigne. Guarda. Alza gli occhi e pensa a questo mosaico orizzontale, composto da più di 2000 km di muri a secco, costruiti, secondo me, da un “popolo di sognatori”, che amavano “legare la terra al cielo”. Questi muri sono unici e compongono la fitta trina di un bellissimo merletto realizzato dalle mani esperte di chi ha voluto domare questa natura forte e impervia. Spesso ho pensato che quegli uomini, abili costruttori di questi muri, non avessero ben chiaro il quadro d’insieme che andavano disegnando e nemmeno si rendessero conto di quanto fosse spettacolare l’opera architettonica che stavano innalzando e che, oggi, ci appare in tutta la sua bellezza. In definitiva, qualcuno potrebbe pensare che sono solo pietre sedute su altre pietre, ma, devi sapere, che ognuna di esse è in grado di raccontarti, se hai tempo per fermarti un po’ ad ascoltarle, di antiche storie di vecchi vignaioli, uomini scolpiti dalla fatica, incisi dal vento e che appartengono al meraviglioso e silenzioso popolo che ha realizzato quest’enorme vigneto di Valtellina. Certe volte non ci penso e corro veloce lungo la provinciale che da Sondrio porta a Tirano senza mai distogliere lo sguardo che rimane fisso su quel nastro grigio d’asfalto, mentre il pensiero è distratto dai mille problemi che un’azienda vitivinicola solleva quotidianamente, pur accorgendomi ogni tanto che questo territorio mi parla e la sua voce è più forte dei miei pensieri. Così quando arrivo qui mi basta sentire l’odore della terra e guardare il mio vigneto e ritrovare la tranquillità e la serenità di


Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare terrazzata su terreni limo-sabbiosi di medio impasto, magri e ricchi di silicio e scheletro fine, è situato ad un’altitudine di 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 7.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo un’accurata selezione delle uve ben mature provenienti dai vigneti meglio esposti, si procede alla vinificazione tradizionale. Il pigiato viene conservato in recipienti di acciaio inox per circa 60 ore alla temperatura di 5°C e successivamente portato per 18 ore a 43°C, per poi procedere, subito dopo, ad un nuovo abbassamento della temperatura che viene stabilizzata a 24°C. La fermentazione alcolica, che nel frattempo si è avviata con l’inoculazione dei lieviti selezionati, prosegue per altri 5 giorni circa; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuate frequenti follature meccaniche. Dopo la svinatura e una decantazione statica di qualche settimana, sempre in tank di acciaio il vino svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale, una parte è posta in barriques di rovere francese di Allier, a grana fine e media tostatura per un 35% nuove, in cui rimane per 18-24 mesi, l’altra parte in botti di rovere da 60 hl per 1824 mesi. Trascorso questo periodo di maturazione e dopo una decantazione di 4-5 mesi, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato.

Valtellina Superiore DOCG Riserva La Gatta

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal Vigneto La Gatta, di proprietà dell’azienda, posto in località La Gatta, nel comune di Bianzone, le cui viti hanno un’età di circa 20 anni.

Quantità prodotta: 70.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Dal colore rosso ciliegia che col tempo tende al granato, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di frutti di bosco maturi, che si mischiano con importanti note di cuoio, caffè tostato e pot-pourri di fiori appassiti per chiudere con percezioni di bastoncino di liquirizia e nuances di cioccolato fondente. In bocca è elegante, sensuale, con una fibra tannica setosa e ben evoluta, fusa ad una bella sapidità; vino lungo e persistente che soddisfa il palato. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1998, 1999, 2001, 2002, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della F.lli Triacca dal 1897, l’azienda agricola si estende su una superficie di 47 Ha, tutti vitati. In azienda la funzione di tecnico agrario è svolta dal Giuliano Molinari, quella di enologo da Luca Triacca e quella di cantiniere da Mario Tognini.

291




AGOSTINO, SILVIA, ELEONORA, FRANCESCA UBERTI

Non so se questo mio essere taciturno sia dovuto al lavoro di contadino, che mi spinge un po’ ad isolarmi o se, invece, sia un difetto caratteriale che non sono mai riuscito a correggere. Sta di fatto che a parlare preferisco siano i miei vini, i quali, oltre ad essere i migliori ambasciatori di quest’azienda, hanno sicuramente molte più cose da dire di quante ne abbia io. Sono un tipo tranquillo, un “buono”, uno che rispetta tutti e soprattutto le idee di tutti, uno a cui piace ascoltare chi ha cose da dire, che “vive e lascia vivere” e che alle chiacchiere, alle discussioni e ai tanti discorsi inutili, preferisce i silenzi, una sincera stretta di mano e il piacere di stappare una delle sue migliori bottiglie di vino, perché oggi è venuto a trovarlo un amico che gli deve raccontare di sé e di ciò che ha fatto in tutto questo tempo, uno che conosce e comprende il carattere di un uomo di campagna e che sa bene come non metterlo in difficoltà. Sicuramente ci saranno altri che si “apriranno” e altri franciacortini che non perderanno l’occasione di raccontarsi, sia come imprenditori, sia come vignerons. Hanno charme e capacità oratorie migliori delle mie e indubbiamente sapranno menzionare tutti i minimi particolari delle loro aziende vitivinicole e il grande attaccamento che nutrono per la vigna o quanto ora sia grande l’amore che sentono per il loro nuovo lavoro di vignaioli. Già, per molti di loro questo è un lavoro

nuovo, anzi, in alcuni casi, è solo un hobby a cui, però, bisogna riconoscere, dedicano tempo, magari dopo la chiusura della “fabbrichetta” o dell’ufficio, in centro, a Brescia. Ti accorgerai, in ogni caso, che ciò che fanno è fatto con diligenza, professionalità e senso imprenditoriale, come solo i bresciani sanno realizzare. Hanno al loro fianco rinomati studi di pubbliche relazioni e agenzie pubblicitarie di primo piano e sono attenti a tutti i particolari. È un lavoro al quale credono e che li ha condotti, in questi anni, a farsi conoscere e a portare il nome di queste terre di Franciacorta in ogni parte d’Italia. Senz’altro ti parleranno di come, ultimamente, siano cambiate le cose e di quanto il marketing e le strategie comunicative abbiano contribuito a creare intorno alle bollicine che producono un forte e inconfondibile appeal. Riconosco che è tutto vero e che sono stati bravi, per cui lascio a loro il compito di raccontarti la Franciacorta. Io vengo da storie diverse e la mia esperienza di vita è molto distante dalla loro. Sono un uomo di campagna che conosce la sua terra, le sue vigne e il suo lavoro ed è solo di questo che ti potrei parlare. Concetti semplici che non nascondono nulla e che non hanno bisogno di poesie per essere raccontati. Sono parole belle, chiare e comprensibilissime a tutti: terra, vigne e lavoro. Del resto, se ti guardi intorno è facile comprendere chi sono e quale è la filosofia della mia azienda, che è la stessa che

contraddistingue il mio modo di essere e anche quello di proporsi della mia famiglia che, come vedi, forse con troppa semplicità, ha pensato che il miglior sistema per accoglierti e chiacchierare fosse quello di arrostire due salsicce, affettare del salame e riempirti il bicchiere di vino. Non c’è nient’altro oltre quello che vedi e questo sorriso che illumina il mio volto è sincero. Io sono così: pochi fronzoli, poche parole, e chi mi conosce sa che in tutto quello che faccio metto tanta passione, soprattutto per ciò che riguarda questa azienda. Sono nato qui ed è a queste quattro mura che sono molto attaccato, forse perché, quando ero ancora piccolo, dovetti lasciarle per seguire i miei genitori a Erbusco, dove avevano acquistato una trattoria. Anche allora non perdevo occasione per ritornare qui dai nonni a giocare in mezzo alle vigne o nella stalla. Sono cresciuto in questa casa, dove la mia famiglia vive fin dalla metà del ‘700, epoca a cui risale anche la data di nascita dell’azienda. Certo, non è più la casa di una volta, perché, nei secoli, come potrai immaginare, la costruzione si è modificata rispetto all’originale. A questa trasformazione ho contribuito molto anch’io ed è per questo che mia moglie Eleonora sostiene che io abbia una seconda passione ancora più sfrenata di quella che ho per il vino: quella per il “mattone”. Infatti sono più di vent’anni che, bene o male e per

UBERTI


295


UBERTI

svariati motivi, qui c’è sempre un cantiere edile aperto. All’apparenza potrebbe apparire un lento, scrupoloso, maniacale lavoro di restauro di una vecchia e preziosa cascina di campagna, invece sono semplici manutenzioni o, al più, opere di ampliamento che inizio piano piano. Stai sicuro che, in qualsiasi giorno dell’anno vorrai tornare qui, troverai sempre lavori per allargare la cantina, mai sufficientemente larga, per realizzare una nuova sala di degustazione, oppure dei nuovi uffici, perché quelli vecchi sono sempre insufficienti, oppure un piccolo appartamento per gli ospiti o magari per rivedere ciò che era stato rivisto, ritoccato e modificato solo qualche anno prima. Nel piazzale troverai sempre una gru, una betoniera, della sabbia e dei mattoni. Oggetti che sono diventati parte dell’arredo del nostro cortile e della nostra azienda, ai quali non faccio più caso e devo dire neanche gli ospiti, credendo che il tutto sia solo una momentanea coincidenza, anziché una mia cronica abitudine. Non so se questo dipende dal fatto che, tanti anni fa, mi diplomai come geometra e, non essendomi realizzato professionalmente come tale, abbia un inconscio desiderio di appagare quel mio sogno o se, invece, la cosa dipenda dal fatto che ho sempre bisogno di migliorare sia le cose che mi appartengono, sia quelle che produco. La nostra è una piccola azienda, che si evolve e, negli anni, è cresciuta, coinvolgendo ormai un numero sempre maggiore di persone che devono essere seguite e addestrate e con le quali, per ritornare sempre a quel concetto iniziale di chi sono e di quanto io pesi le parole, ho instaurato un rapporto familiare di grande responsabilità che mi soddisfa e mi consente di vivere in un clima lavorativo disteso e sereno come era nelle mie ambizioni. Non mi è mai interessato, infatti, produrre più vino di quanto potessi riuscire a fare con l’uva delle mie vigne, né mi ha mai appassionato mettermi in competizione con altri produttori, cercando di diventare ciò che io non sono e rincorrere solo il profitto. No, ho sempre voluto vivere tranquillo come sa fare un


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dal vigneto di proprietà dell’azienda, posto nella località Calino nel comune di Cazzago San Martino, le cui viti hanno un’età di 15 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare di origine morenica su terreni argilloso-calcarei ricchi di scheletro, è situato ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 220 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Chardonnay 100% Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda metà di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto fiore ottenuto, dopo 24 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura di 16°C, si avvia, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati e in alcune partite anche di lieviti autoctoni, alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per 12-14 giorni, alla temperatura di 18°C ed è svolta in tini di rovere di 33 Hl. cad., dove il vino rimane fino al mese di marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede all’assemblaggio delle partite e al successivo imbottigliamento con conseguente aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane a maturare in cantina sui lieviti per almeno 60 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 40 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e al contemporaneo rabbocco con del vino della stessa annata che è stato conservato e ora utilizzato come liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina poi per altri 6 mesi in bottiglia prima di essere commercializzato. Bottiglie prodotte: 4.500 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Franciacorta che veste il bicchiere di un colore giallo paglierino carico, luminoso, dai riflessi dorati che arricchiscono un perlage sottile, numeroso e persistente; si presenta al naso in modo dolce su un mosaico olfattivo che spazia da certe curiose note marine ad altre tostate di pane e fieno fino alla frutta matura, tra cui si riconoscono papaia, banana, pesca a pasta gialla e agrumi, il tutto arricchito da un finale che ricorda la mandorla, il caffè e il cacao in polvere. In bocca è fresco, cremoso, equilibrato, capace di coniugare perfettamente la sua sapidità a belle note fruttate e di pasticceria. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001, 2002, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal latino sublimis (eccelso, che supera di molto i valori normali), raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Uberti dal 1793, l’azienda si estende su una superficie di 24 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di enologo Silvia Uberti con la consulenza di Cesare Ferrari.

NOTES

Franciacorta DOCG Non Dosato Sublimis Millesimato

297


MICHELA, PIER PAOLO, ANTONIO VANZINI

VANZINI


299

Da par viatar farì mai gnent in tri pudì tra su una montagna (Da soli non farete mai nulla in tre assieme potete distruggere una montagna) Questo è ciò che ci diceva sempre nostro padre Carlo ed è quello che noi abbiamo cercato di fare. In questi quindici anni che sono trascorsi dalla sua scomparsa, siamo stati sempre insieme, uniti da un profondo amore fraterno. Tre fratelli e tre modi diversi di interpretare e di contribuire alle sorti di quella che noi Vanzini chiamiamo la nostra “dinastia enoica” che si tramanda, di padre in figlio, ormai dal 1890. Abbiamo scoperto presto che, se ci fossimo lasciati scorrere dentro la forza delle nostre origini, ci saremmo ritrovati in modo naturale, senza né lacci né lacciuoli, a perpetrare ciò che Carlo aveva iniziato. Così abbiamo fatto e, senza accorgercene, siamo finiti di nuovo in mezzo alle vigne, alle botti e a quelle bottiglie di vino che già da fanciulli ci avevano visto giocare allegramente in mezzo a loro, ritrovandoci ad essere vignaioli. Ora sembra facile a dirsi, ma, quando si cresce velocemente come è successo a noi, capita che alcune difficoltà sembrino insormontabili, mentre altre, forse per inesperienza, vengano affrontate con troppa superficialità. Ti ritrovi così ad acuire i sensi, l’ingegno, l’istinto e a raccogliere per strada dei suggerimenti e degli insegnamenti che, in alcuni casi, scopri che non servono a niente, mentre in altri ti accorgi di averli pagati a caro prezzo, arrivando alla conclusione che i più validi sono quelli che ti riconducono a Carlo, il quale, senza troppi fronzoli o smancerie, ti ha svezzato in tempo per la vita. Insieme alle sue

parole, spesso, ci ritornano in mente anche quei princìpi cardine di quella saggezza popolare alla quale, sovente, lui attingeva per ricordarci le cose e indicarci i punti fermi intorno ai quali, secondo lui, dovevamo muoverci, come, ad esempio, il fatto che, stando uniti, avremmo potuto smontare le montagne oppure che era sempre meglio fare le cose un giorno prima che un giorno dopo, oppure... Parole alle quali facciamo sempre riferimento e che ci piace ricordare spesso, così come ci piace ricordare lo sguardo di Carlo, nel quale trovavamo le risposte a tutte le domande che, durante la giornata, le cose ci costringevano a chiederci. Domande che non diminuiscono con l’esperienza, anzi, aumentano, soprattutto se si lavora nel mondo del vino, sempre più globalizzato, e su un territorio difficile come questo dell’Oltrepò pavese che, possiamo assicurare, è più complesso di qualsiasi altro territorio vitivinicolo italiano. È un’area controversa, strana, dove si producono circa un milione e trecentomila ettolitri di vino e se ne commercializzano tre milioni, ma, al contempo, sembra che non esista, quasi ignorata dalle riviste, dagli opinion leaders e da gran parte del mercato. In pochi la conoscono, pochissimi ne parlano e nessuno si prodiga per valorizzarla. Sono diverse le cause che interagiscono e contribuiscono a questo pessimo risultato. Una delle principali è, sicuramente, quella per la quale i produttori pavesi hanno sempre identificato il mercato nazionale con il bacino di utenza di Milano, limitando ad esso gli scambi commerciali, escludendo per decenni ogni altra area e precludendo così importanti sbocchi di sviluppo commerciale a livello italiano. Sul mercato internazionale le difficoltà sono ancora maggiori,

poiché all’estero l’Oltrepò non sanno neppure dove sia, come del resto non conoscono Pavia e non sanno che è una fra le più belle città d’Italia, che nel 572 è stata anche la capitale del regno longobardo. Una situazione complicata e difficile, ma che è necessario risolvere; dipende solo da noi provare ad avere un futuro diverso, magari assumendo un altro ruolo nel contesto del sistema vitivinicolo italiano. Per raggiungere questo bisognerebbe incominciare a fare tutti dei piccoli passi in avanti, fornendo, ognuno, un piccolo contributo per lo sviluppo di questo territorio a cui non manca niente; per averne una conferma, basta affacciarsi dal balcone di questa cantina per capire quanto sia bello e non solo in primavera o in estate, ma anche in inverno, quando qui c’è il sole, mentre altrove, come a Milano o a Pavia, le nebbie soffocano la città. Ma cosa manca allora? Manca la testa, manca la cultura, manca la volontà di fare un percorso di crescita insieme. Siamo gente brava, onesta, alla buona come si usa dire: gente semplice, seria e impegnata, grandi lavoratori insomma, ma che non sono capaci di fare sistema, né di aiutarsi l’uno con l’altro ed è forse questo il vero problema dell’Oltrepò pavese, dove non sentirai mai uno che parla bene del suo vicino. Noi abbiamo avuto invece la fortuna di prenderci per mano, di aiutarci e di stare vicini, ognuno con il suo carattere, ben distinto ma complementare, dove l’impulsività dell’uno contrasta con la calma dell’altro e il raziocinio e il pragmatismo dell’uno con l’entusiasmo dell’altro, ritagliandoci, all’interno dell’azienda, ognuno la propria mansione commerciale, produttiva e amministrativa.


VANZINI


Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Cassino nel comune di San Damiano al Colle, le cui viti hanno un’età di 6 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano su terreni di disgregazione di arenarie e marne calcaree con componente argillosa, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Pinot Nero 100% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 10°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase è svolta in tini di acciaio inox e si protrae per 10-15 giorni, ad una temperatura compresa tra i 14 e i 20°C. Si procede poi a 2 travasi, quindi il vino rimane sui propri lieviti in tank di acciaio per i successivi 3 mesi, al termine dei quali, dopo un illimpidimento, è messo in autoclave per 3-4 mesi, durante i quali si procede alla spumantizzazione (rifermentazione) secondo il metodo Charmat (o Martinotti). Trascorso questo periodo, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 30.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Spumante, che veste il bicchiere con un colore rosa tenue e un perlage fine e persistente, si presenta all’esame olfattivo giocando su toni freschi fruttati di uva spina, mela, pera, banana e ciliegia, su note floreali e di biscotti, oltre a percezioni di nocciola tostata, erba medica e salvia. In bocca è semplice, equilibrato, fresco con buona persistenza. Prima annata: 2005 Le migliori annate: 2005, 2006, 2007 Note: Il vino, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 2 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Vanzini dal 1890, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 22 vitati e 8 in fase di reimpianto. La funzione di agronomo è svolta da Giuseppe Zatti e Pier Paolo Vanzini, quella di enologo da Cesare Ferrari e Pier Paolo Vanzini.

NOTES

Pinot Nero VSQ Extra Dry Rosato

301


ALESSANDRO BIANCHI

Lieta a quegli Che oprò nel giorno Viene la sera Questi versi sono un po’ il sunto della mia vita, durante la quale ho lavorato tanto affinché fosse più dolce possibile l’arrivo di questa mia naturale vecchiaia che oggi sto vivendo. Ormai mi sono un po’ ritirato dall’attività produttiva di famiglia, ma, pur essendo vicino ai settantacinque anni, ho ancora il desiderio di godermi questo mio crepuscolo. Non nascondo che ho ancora voglia di mantenermi attivo e di non lasciar andar via il bambino che, da sempre, porto dentro di me, come diceva Antoine de Saint-Exupéry nel suo bellissimo Il piccolo principe. Facendo così riesco a mantenere vivi i miei sentimenti e fresche le passioni che mi danno ancora la forza di alzarmi al mattino con la felicità nel cuore, certo di poter ancora spendere delle energie in ciò che oggi mi piace più di ogni altra cosa: questa azienda agricola. È dalla terra che sono partito: figlio di una guardia forestale, già a 10 anni, con la tessera, venivo mandato al forno a prendere un pane nero, duro e immangiabile. Ricordo che, mentre mordevo quel

pane che sapeva di guerra, pensavo ai contadini, che all’epoca, erano fortunati, perché fra noi poveri erano quelli che almeno avevano in tavola sempre qualcosa da mangiare, ma soprattutto avevano il pane migliore, che qualche volta era fatto addirittura con la farina bianca. Pensavo a quelle morbide fette di pane bianco e nella mia mente fantasticavo su quanto doveva essere bello fare il contadino e che, da grande, avrei preso della terra e l’avrei coltivata per non dover sottostare ai languori del mio stomaco. Non è andata così e nella vita ho fatto ben altro, aprendo, con i miei due fratelli più grandi, una piccola officina meccanica a Provaglio di Iseo, la OMFB, che oggi è condotta da mio figlio e da due miei nipoti e occupa 170 persone che producono pompe oleodinamiche per veicoli industriali come quelle utilizzate per azionare le gru dei camion, dei veicoli che raccolgono i rifiuti e di tanti altri mezzi. Per oltre cinquant’anni mi sono occupato di quell’impresa, ben conosciuta a livello internazionale, non dimenticando però quale fosse la mia passione e dove io volessi ritornare. Così quando, nel 1960, mi capitò di poter comprare la vecchia villa padronale della famiglia bergamasca dei Capuani

(già Fenaroli) non mi lasciai scappare l’occasione. Una villa importante, con l’intero borgo, la cui storia sono riuscito a ricostruire solo fino al 1540, anno in cui si perdono le tracce della proprietà a causa dell’incendio che colpì l’archivio del notaio Rapinello di Gardone Val Trompia che aveva censo in Monticelli Brusati. Acquistandola, non pensai certo al denaro che, un giorno, avrei potuto ricavare dalla sua vendita, ma solo al profumo del pane bianco, del latte delle mucche che erano nelle stalle e a quello del vino che qui si produceva in grande quantità. Tutto era in uno stato disastroso, di completo abbandono. Le case erano fatiscenti, con i tetti cadenti, mentre le campagne erano coltivate secondo l’estemporaneità e l’interpretazione delle quindici famiglie di mezzadri che, pieni di debiti e con gli zoccoli ai piedi, facevano e disfacevano secondo un loro personale giudizio, vivendo fra queste quattro mura in condizioni difficili. Sembra di raccontare storie lontane, storie di altri tempi, invece mi riferisco soltanto al 1960. E le condizioni in cui gravava questa azienda erano molto simili a quelle di altre aziende agricole della zona. Da allora iniziò un lento e graduale recupero e, fin da allora, non ho mai smesso di investire nella proprietà,

VILLA


303


VILLA sistemandola e trasformandola. All’inizio ero completamente all’oscuro di cosa significasse “agricoltura”, ma non ero il solo. Presto mi accorsi che non mi potevo fidare neanche delle cognizioni tecniche dei mezzadri, che, pur erano cresciuti nella campagna, poiché gli stessi andavano avanti basandosi su convinzioni arcaiche e su una tradizione orale che non conduceva a nulla. Mi dovetti mettere a studiare e approfondire le poche nozioni che, nel frattempo, assimilavo ascoltando il consiglio di un insigne agronomo - il professor Provaglio, che qui mi piace ricordare - e l’esperienza di mio padre. Iniziai col far fare le analisi dei terreni, mi documentai su come rendere proficui gli acri seminativi e proseguii con un lavoro di selezione del bestiame da latte che avevamo nella stalla, un’attività che poi dismisi in conseguenza dell’avvento, nel 1967, del disciplinare del Franciacorta. Da quel momento detti il via al rinnovamento di tutti i vigneti e alla riconversione dell’azienda da promiscua a vitivinicola. Con più viaggi culturali organizzati dalla Regione Lombardia andai a visitare le aree vitivinicole più importanti d’Europa, dall’Ungheria all’Austria, dalla Germania alla Francia, fino alla Spagna. Man mano che viaggiavo, aumentava in me la passione per questa attività di vignaiolo che, presto, mi condusse a dividermi fra l’azienda agricola e l’industria con un conseguente aumento di carico lavorativo. La cosa non mi pesava, perché mi piaceva quello che stavo facendo. Tutto aveva una sua logica che soddisfaceva, da una parte, il mio desiderio di un piacevole ritorno alla terra e, dall’altra, quello più etico di lasciare un importante messaggio alle generazioni future perché continuassero a salvaguardare e tutelare questo territorio come avevo fatto io, che lo avevo difeso per decenni, resistendo alle tentazioni di facili speculazioni edilizie che non solo hanno deturpato il territorio, di questo come di tanti altri comuni della zona, ma ormai hanno quasi completamente circondato la nostra proprietà. Questo ha voluto dire essere rigido sulle proprie posizioni, non accettare compromessi con l’illusione di facili guadagni, facendo delle scelte anche difficili nella convinzione però che alla lunga “è l’onore che porta l’oro, e non l’oro l’onore”; fedele a questi princìpi, ereditati da mio padre, ho deciso di perseguire l’idea del profumo di una fetta di pane bianco. In fondo, non faccio che fare vino e lo faccio con umiltà, convinto come sono di essere solo un custode pro tempore di tutto ciò che mi circonda ed è forse per questo che non ho voluto dare il mio nome a nessun vino che produciamo. La cosa mi sembrava un peccato di presunzione, come se mi stessi appropriando di qualcosa che, in fondo, non mi appartiene, poiché è proprietà di questa terra, di queste colline della Franciacorta. Così parlando mi sono aperto, ma non credo di aver detto cose strane o chissà quanto particolari. Come vedi non c’è niente di nuovo sotto il sole e, come dici anche tu, del resto io faccio solo vino, attraverso il quale, però, riscopro un modo antico, e insieme moderno, di essere uomo che, da una parte, cerca di interpretare, nel migliore dei modi, l’evoluzione tecnica che gli è stata messa a disposizione e, dall’altra, intende collegarsi alle leggi eterne della natura, la quale non sbaglia, non è ingiusta, non è né buona né cattiva, non si pone problemi di opportunismo o di logiche di mercato, ma agisce solo secondo un suo disegno che, certe volte, ci è sconosciuto. Questo mi basta e mi conforta a continuare.


Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Chardonnay, Pinot Nero e Pinot Bianco provenienti dal vigneto Villa che circonda l’azienda, posto nella località omonima nel comune di Monticelli Brusati, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni marnosi, calcarei, ricchi di argille sedimentarie e fossili, è situato ad un’altitudine compresa tra i 220 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a est / sud-est / sud / sud-ovest / ovest. Uve impiegate: Chardonnay 80%, Pinot Nero 15%, Pinot Bianco 5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4-5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla terza decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo 12 ore di débourbage, una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 10-12°C, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati. Questa fase si protrae per circa 15-20 giorni, alla temperatura di 18°C. Il vino viene successivamente affinato in barriques fino al mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia quando si avvia all’imbottigliamento e si procede all’aggiunta del liqueur de tirage per la necessaria presa di spuma. Il vino rimane in cantina a maturare sui lieviti per almeno 60 mesi, al termine dei quali si procede al remuage manuale delle bottiglie per 20 giorni, al dégorgement, fase conosciuta come sboccatura, e alla contemporanea aggiunta del liqueur d’éxpedition. Questo Franciacorta affina ora per altri 3 mesi in cantina prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: circa 4.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Questo Franciacorta veste il bicchiere di un colore paglierino carico di riflessi dorati che arricchiscono un perlage fine, continuo e persistente; si presenta all’esame olfattivo proponendo percezioni dolci, fresche e fini che si aprono a note di tostatura e di pasticceria, le quali si mischiano a fragranze di fiori fra cui il glicine, il mughetto, il biancospino, e di frutta come pesca, mela e cedro, con un crescendo finale di mandorle, cacao, cannella e vaniglia. La bocca è piacevolmente invasa da grande bevibilità e freschezza, essendo il vino sorretto da bella trama gustativa, equilibrata, lunga e persistente. Prima annata: 1986 Le annate prodotte: 1991, 1993, 1994, 1995, 2000, 2001, 2004, 2005, 2006 Note: Il vino, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Alessandro Bianchi dal 1960, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, di cui 37 vitati e 63 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Ermes Vianelli e gli enologi Corrado Cugnasco e Sabrina Dorigoni.

NOTES

Franciacorta DOCG Brut Selezione Millesimato

305


EMILIO, ELEONORA ZULIANI

ZULIANI


307

Entrare in casa Zuliani fu per me come effettuare un viaggio nel tempo. Attraversando quel cancello mi riaffiorarono un’infinità di ricordi che credevo di aver perduto e che mi ricondussero a mio padre Aldo, maestro nell’arte della norcineria e a quando lo accompagnavo per le campagne maremmane, nelle sue escursioni domenicali, dedite alla lavorazione dei maiali di quei contadini che avevano richiesto le sue prestazioni. Anche Emilio e Eleonora mi riservarono l’accoglienza che quella gente offriva a mio padre: un’ospitalità d’altri tempi, destinata all’ospite importante, quello con la “O” maiuscola, atteso, ma giunto, almeno nel mio caso, anticipatamente rispetto all’orario stabilito. Un caffè, un pasticcino, due chiacchiere formali mentre si aprivano le porte e le finestre ancora chiuse e si provvedeva a dare aria alla cantina, a tirar fuori i bicchieri buoni e le bottiglie per la degustazione. La casa, ancora dormiente al mio arrivo, si stava improvvisamente animando e le campane della chiesa vicina incominciavano a rallegrare quella bella domenica mattina. Eleonora, la padrona di casa, un’incantevole settantatreenne con occhi del color del cielo, mentre mi parlava, andava da una stanza all’altra, cercando nel frattempo di costruire una specie di chignon sulla testa e sistemandosi la bianca capigliatura con un fermacapelli. Dava segni evidenti di una preoccupata agitazione, forse per la figlia, che non era ancora arrivata, e quella ingiustificabile assenza la faceva sentire più insicura che offesa. Io, invece, ero felice di ciò, poiché ero convinto che qualsiasi altra figura fosse stata presente avrebbe modificato quell’idilliaca armonia che, con il passare dei minuti, si stava costituendo in casa Zuliani. Era simpatico osservare come, a fronte dell’agitarsi di Eleonora, vi era un controllo silenzioso e quasi distaccato della situazione da parte del marito, Emilio, un settantaquattrenne dal viso squadrato e dagli occhi profondi che mi incuriosivano quanto e forse più di quelli

della sua splendida consorte. Nell’attesa che tutto fosse pronto visitai la vecchia casa, la quale aveva tutte le porte, le finestre del piano superiore e la stessa cantina che si affacciavano sul cortile interno, mentre, dal pian terreno, attraverso una porta secondaria, si accedeva ad un altro cortile che rimaneva sul retro della casa. Una volta, doveva trovarsi alla periferia del paese, con il tempo, invece, era stata inglobata dalle nuove costruzioni. La mia tranquillità, piano piano, contagiò anche i “giovani” sposini che, sedutisi davanti a me, senza esitazione né remora alcuna, cominciarono a narrarmi, con alcuni flash, della loro vita trascorsa tutta d’un fiato stando l’uno accanto all’altro, così come li vedevo io, lì, seduti davanti a me. Il loro racconto, che assomigliava ad una fiaba, mi coinvolse a tal punto che man mano che parlavano mi lasciavo cullare da quella storia. Mi raccontarono di cose d’altri tempi, di cui si erano perse le tracce e che invece, improvvisamente, riapparivano in tutta la loro reale evidenza grazie alle loro parole. Quelle due splendide anime gardesane erano l’immagine della storia d’amore più bella che avevo incontrato nell’ultimo periodo. Ormai mi ero perso nei loro racconti e non mi interessava se facessero vino o bulloni. Ero letteralmente affascinato da Eleonora che, splendidamente, con l’ingenuità di una quindicenne a cui si illuminano gli occhi parlando d’amore, mi raccontava di Emilio e di come, fin da quando lei veniva a giocare nel cortile della casa della mamma di Emilio, la maestra del paese di Padenghe sul Garda, si fossero dichiarati eterno amore. “Pensi... Lui è un anno più grande di me, ma avevamo la stessa maestra, sua madre, e io venivo qua a giocare in questa casa, dove stiamo ormai da cinquant’anni, dove mi promisi a lui giurandogli che sarei arrivata al matrimonio illibata, mentre lui giurò di sposarmi non appena fosse giunto il momento. Passarono anni in cui spesso mi assaliva la paura di perderlo, ma, devo dire,

che anche lui aveva la stessa paura che lo dimenticassi e, nonostante fosse a tutti gli effetti scapolo, veniva tutte le sere a vedermi ricamare per capire a che punto fosse il corredo che preparavo per portare in dote al nostro matrimonio. Federe, cuscini, lenzuola e tovaglie: ci vollero tre anni per finire tutto e quando ciò avvenne non feci nessun proclama, ma, in silenzio, attesi che lui venisse a chiedere la mia mano ai miei genitori, cosa che, puntualmente, avvenne. Questa è la nostra storia e da allora siamo stati sempre insieme. Pensi che non l’ho mai lasciato, neanche per un giorno, neanche per andare al mare che, tra l’altro, non ho mai visto, dove invece accompagnavo i nostri figli che consegnavo ad una nostra parente alla stazione di Iesolo, per rimontare sul primo treno che mi riportava a casa... Ancora oggi sono molto orgogliosa di quella promessa, poiché volevo dimostrare a mio marito che ero solo sua e che sarei stata sempre e solo sua, finché la morte non ci avesse separato. Questo è stato sempre il mio impegno e, forse, la forza della nostra unione. In questi anni ho cercato di assecondarlo, forse non sempre ci sono riuscita e poi...”. Io la ascoltavo incredulo e amorevolmente invidioso, affascinato da una così grande passione e da quella voglia di vivere che Eleonora aveva ancora dentro. La fissavo solo perché non mi staccava mai gli occhi di dosso, poiché voleva vedere se avessi capito l’importanza di ciò che lei mi stava dicendo, ma anche perché cercavo di carpire i segreti, le sfumature e i risvolti negativi di quel sentimento, ma non ne trovai uno: quell’amore era limpido come l’acqua e puro come un diamante. La lasciai parlare. Non avevo voglia di interromperla: tutto quello che diceva era musica per le mie orecchie e la cosa mi gratificava del lungo viaggio che avevo fatto per arrivare fin lì. Improvvisamente, forse accorgendosi di essersi prolungata un po’ troppo, si zittì lasciando così il campo ad Emilio che, nel frattempo, si era un po’ assentato. Con qualche domanda lo riportai


ZULIANI

NOTES

in mezzo a noi e lui incominciò... “Cosa dovrei aggiungere? Non sono uno di molte parole. Sono un tipo un po’ schivo, che non ama le formalità. Del resto, a me piace il silenzio, stare in campagna, fra le mie vigne, da solo, e anche se ho degli operai che mi vengono ad aiutare durante la settimana, loro stanno sempre da una parte e io dall’altra, in silenzio, da solo. Ho scelto di fare il contadino perché volevo vivere nella serenità e nella tranquillità della mia campagna dove sento gli uccelli, gli insetti e, talvolta, anche il battito del mio cuore. C’è qualcosa di affascinante in mezzo a quelle viti e voglio godermelo finché mi sarà possibile e compiacermi se ho fatto bene e le uve sono belle o correggermi e riparare l’errore se ho sbagliato. Sono stato sempre così - Eleonora glielo può confermare - ed è quasi un miracolo che io oggi sia qui a parlare, con lei, di me. Non l’ho mai fatto neanche prima, quando, per anni, andavo a caccia in Ungheria con gli amici: loro sempre da una parte e io dall’altra. Questo non vuol dire che non ami le persone, anzi il mio è un rispetto profondo verso il prossimo... Il problema è che non amo i discorsi sciocchi, le stupide conversazioni e, ancor di meno, non amo l’arroganza e l’egoismo che si respira oggi e che ha distrutto questa nostra cultura paesana dove diventa difficile anche scambiarsi solo un semplice buongiorno. Non mi piace che qui, anche fra questi vicoli di Padenghe, sia scomparsa la solidarietà di una volta, quando le famiglie si aiutavano e si scambiavano i piatti che preparavano a pranzo e non mi piace quello che hanno costruito intorno a questa casa, come non mi piace ciò che siamo diventati... E allora le domando: cosa dovrei dirle? Mi dica lei se con le parole si può far sparire tutto questo... No! Perciò taccio e mi rifugio fra le mie vigne da dove vedo il lago. Rimpiango ancora quando si falciava l’erba per i trattori di una volta, come rimpiango anche...”. Non mi intrometto perché lo sento sincero, vero come molti di questi vignaioli del Garda che ho visitato e che ho scoperto lontani da quel business proprio di altre zone della provincia bresciana, poiché, davanti alla prospettiva di diventare ricchi vendendo le loro vigne, hanno preferito innamorarsi del loro lavoro. E questo li rende degni di grande rispetto, almeno per me... Poi, se si ha la fortuna di incontrare un Emilio e


Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni morenici non uniformi, calcarei, con argilla e ghiaia, è situato ad un’altitudine compresa di 150 metri s.l.m., con un’esposizione a nord / sud. Uve impiegate: Groppello 100% Sistema di allevamento: Guyot con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte; il pigiato ottenuto, posto in vasche di cemento rivestite e inoculato con lieviti selezionati, si avvia alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per circa 10-12 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 25°C, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che invece prosegue per altri 15 giorni con frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino viene riposto sempre nelle vasche di cemento, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 24 mesi, durante i quali vengono effettuati regolari travasi. Al termine di questo periodo di maturazione il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione.

Garda Classico Groppello DOC Balòsse

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Groppello provenienti da un vigneto dell’azienda posto in prossimità del Castello di Padenghe (in una zona denominata Terre Balosse, dove le viti convivono con gli olivi insieme a erbe palustri e orchidee spontanee), nel comune di Padenghe sul Garda, le cui viti hanno un’età di 10 anni.

Quantità prodotta: 8.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Groppello ricco di personalità, intrigante, che veste il bicchiere di un bel colore rosso rubino intenso, presentandosi all’esame olfattivo fresco, intenso, ricco di spezie tra cui pepe nero appena macinato, cioccolato amaro e stecca di cannella; queste note lasciano spazio a frutti del sottobosco maturi, sia neri che rossi, per intrecciarsi poi con profumi di prugne e marasche mature e con importanti nuances di viola appassita. In bocca è strutturato, piacevole, caldo, sapido, mentre la fibra tannica, ben evoluta, si armonizza con un retrogusto fruttato che ritorna piacevole in bocca e rende il vino lungo e persistente. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2005, 2007 Note: La parola Balòsse in dialetto bresciano indica una persona furba, non malleabile, difficile, un po’ pazzerella. Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Zuliani dal 1600, l’azienda agricola si estende su una superficie di 22 Ha, di cui 13 vitati e 9 occupati da prati, oliveto e pascoli. Collaborano in azienda l’agronomo Marco Tonni e l’enologo Armando Vesco.

309




Finito di stampare nel mese di novembre 2008 presso TAP Grafiche s.p.a. Poggibonsi (Siena) - Italy



Forse è proprio l’appagamento della mia grande passione per il viaggio il vero motore che mi spinge a muovermi nel mondo del vino. Ma come raccontarla questa passione? Avrei potuto prendere spunto da chi si era avventurato, prima di me, per le strade a raccontare il Grand Tour dell’Italia del vino, accondiscendendo al semplice piacere che ogni viaggiatore ha di poter accrescere il proprio spirito nel viaggio, appagando il desiderio, recondito, ma artistico, di dare alla propria esperienza una forma compiuta attraverso un racconto, una foto, un messaggio, un libro. Così, come un narratore che si guarda bene dall’elaborare griglie letterarie troppo strette che potrebbero castrare le proprie fantasie, mi sono messo in viaggio alla scoperta della mia Italia da bere senza mai sapere o conoscere in anticipo il porto del mio approdo, lasciando che fossero i vignaioli incontrati a dirottarmi verso nuove e impensate mete. Viaggio così libero, leggero e ogni anno vivo questo mio peregrinare rubando ai miei interlocutori dei frammenti di vita che mi permettono, come delle piccole trame, di imbastire brevi racconti, i quali, se letti attentamente, danno l’esatto spaccato di quel vino, di quel vignaiolo, ma soprattutto di quale sia l’anima che sorregge la viticoltura che incontro. Frammenti di vita che per me sono come viaggi fulminei e brevissimi che la mia mente compie al cospetto di chi ha voglia di raccontarsi. E così anche quest’anno mi sono lasciato trasportare dal vento e mi sono ritrovato in Lombardia, fra i vigneti della Franciacorta, in mezzo alle sparute vigne del Garda, tra le viti legate al cielo della Valtellina o in quelle dolci e verdi dell’Oltrepò pavese. Un viaggio complesso, difficile, talvolta controverso e alquanto strano - variegato direi che mi ha condotto alla scoperta di ciò che ho definito un “mosaico” non solo viticolo...


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.