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Andrea Zanfi
PIEMONTE ... la signora del vino
Carlo Cambi Editore
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PIEMONTE ... la signora del vino di Andrea Zanfi fotografie di Giò Martorana
Carlo Cambi Editore
Piemonte... la signora del vino di Andrea Zanfi Coordinamento editoriale e di redazione: Marco Biotti Assistenza di redazione: Valentina Sardelli Direzione tecnica: Roberto Francini Progetto grafico: Elisa Marzoli Fotografie di Giò Martorana Still-life: Carlo Gianni Traduzione inglese: An.se sas Fotolito e stampa: Tap Grafiche S.p.A. Carlo Cambi Editore Via San Gimignano 53036 Poggibonsi (Siena) Tel. 0577 936580 Fax 0577 974147 www.carlocambieditore.it info@carlocambieditore.it
2005 © Copyright Carlo Cambi Editore Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy I diritti di riproduzione, di traduzione, di memorizzazione elettronica e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi microfilm e copie fotostatiche), nonché l’inserimento in siti internet, sono riservati per tutti i paesi. Prima edizione: dicembre 2005 ISBN 88-88482-43-1
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Un sorriso per il Piemonte di Andrea Zanfi
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Qualcosa di certo di Gigi Cabutto
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Piemonte: la passione di essere autoctono di Donato Lanati
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La parola ai produttori e agli enologi Il significato dei vitigni autoctoni in Piemonte Ritratti di vignaioli piemontesi
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Abbona Anna Maria Abbona Marziano Accornero Alessandria Gianfranco Altare Elio Antoniolo Azelia Barale Boglietti Enzo Braida di Giacomo Bologna Bricco Maiolica Ca’ Viola Cantina Sociale di Vinchio e Vaglio Serra Cappellano Teobaldo Cascina La Barbatella Caudrina Cavallotto Ceretto Cigliuti Clerico Domenico Conterno Fantino Conterno Giacomo Coppo Cordero di Montezemolo - Monfalletto Correggia Cortese Giuseppe Fontanafredda Forteto della Luja Gaja
164 168 172 178 182 186 190 196 200 204 208 214 218 222 226 232 236 240 244 250 254 258 264 268 272 276 282 286 290 294 298 302 308 312 318 322 326 330 336 340 344 350 354 358
Gallino Gancia Giacosa Bruno Gillardi Grasso Elio Grasso Silvio Hilberg-Pasquero Icardi La Scolca La Spinetta Malvirà Marcarini Marchesi Alfieri Marchesi di Barolo Marchesi di Grésy Tenute Cisa Asinari Martinetti Franco Massolino Moccagatta Molino Mauro Nada Fiorenzo Oddero Orsolani Parusso Pecchenino Pelissero Podere Rocche dei Manzoni Poderi Aldo Bertelli Poderi Aldo Conterno Poderi Luigi Einaudi Revello Rinaldi Giuseppe Rocca Bruno - Rabajà Rocche Costamagna San Fereolo Saracco Scavino Paolo Sottimano Travaglini Vajra Veglio Mauro Vietti Vigneti Massa Villa Sparina Voerzio Roberto
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UN SORRISO PER IL PIEMONTE
Quando iniziai la collana editoriale “I grandi vini d’Italia”, avevo ben chiaro nella mia mente quale doveva essere l’evoluzione della stessa e quale il programma operativo che mi avrebbe condotto, negli anni, a toccare con mano le più importanti aree vitivinicole della nostra penisola e con esse le realtà enologiche più prestigiose dei vari territori. Non è stato quindi un caso che io abbia deciso di narrare solo ora il Piemonte. Tutt’altro. È stata una scelta ragionata, voluta e non finalizzata, come potrebbe pensare qualcuno, alla stesura di una graduatoria di merito che ha visto il concepimento e la nascita di questo volume solo dopo quelli che hanno già interessato la Toscana, la Sicilia e il Friuli Venezia Giulia. La collocazione temporale di questo libro sul Piemonte è invece da ricercare nelle difficoltà oggettive e soggettive rappresentate dalla complessità della sua storia vitivinicola e dall’importanza dei vini che i vignerons di questa regione producono. Coerente con questa constatazione, ho sempre pensato che quest’area, nella quale le punte d’eccellenza sono talmente tante e variegate da stordire e confondere chiunque, meritasse un approccio diverso, attento e quanto mai pragmatico da parte di chi avrebbe voluto prima disquisire su cosa fosse e dove stesse andando il movimento enologico piemontese per poi descriverne i contenuti e stilare un elenco della produzione di alta qualità. Fin dall’inizio mi ripromettevo di affrontare tutto questo solo dopo aver saggiato le mie potenzialità in aree il
di Andrea Zanfi
cui tessuto vitivinicolo risultasse, in termini di analisi e valutazione della produzione enologica, di più facile lettura, così da pormi nelle condizioni di sezionarlo, filtrarlo ed elevarlo agli onori della cronaca o, nella peggiore delle ipotesi, scartarlo. Devo dire, senza pudori, che mi preoccupava un po’ quell’infinito elenco di DOC e DOCG presenti sul territorio e ciò che ne conseguiva, come mi preoccupava la sottile “aristocrazia” che percepivo in quei vini e la difficile interpretazione dei percorsi sensoriali che gli stessi riuscivano a suscitarmi; tutti elementi che, in qualche modo, mi incuriosivano, ma contemporaneamente mi incutevano soggezione e, come elementi emotivi e interpretativi di quel mondo, mi condizionavano e mi invogliavano a posticipare la nascita di questo libro. Per la mia carriera di scrittore immaginavo il Piemonte come un punto d’arrivo molto importante, a cui giungere solo dopo aver avviato un personale processo formativo, capace di darmi maggiori sicurezze nei miei mezzi e nella mia capacità di analisi di quei fatti e di quelle situazioni che ogni mondo rurale vitivinicolo possiede e che racchiude in uno scrigno, che è possibile aprire soltanto se si ha il giusto passepartout che risiede nella capacità di interpretarlo con sensibilità e con la capacità, pratica ed intellettuale, di percepirne le sfumature. In questi anni di duro lavoro mi sono accostato a questo personale processo evolutivo con l’umiltà che si può riconoscere a un giovane laureando, che non ha perso tempo e si è impegnato con profitto negli studi; il resto
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è venuto di conseguenza, in modo naturale, sfruttando aspetti caratteriali, giocando e utilizzando la grande passione che mi anima e la sempre maggiore conoscenza del mondo del vino italiano e di realtà vitivinicole come la Toscana, che è stata, per me, un variegato bacino sensoriale e gustativo, al quale attingo, senza ritegno, ormai da anni; la Sicilia, che mi ha aperto alle percezioni visive di un mondo rurale, mediterraneo, complesso e composito, che è capace di promuovere una produzione enologica il cui punto di forza risiede nel sistema pedoclimatico in cui agisce; il Friuli Venezia Giulia, nelle cui terre mi sono allenato a scalzare la reticenza, la diffidenza e il silenzio di quei contadini che hanno fatto del proprio lavoro il loro stesso vessillo. Non me ne vogliano quindi i produttori piemontesi, né gli appassionati del vino, se solo ora mi sono avviato alla conoscenza di questa terra, ma, posso assicurare, che, fin dalla genesi dell’idea della collana editoriale, ho sempre ritenuto che questo Piemonte meritasse qualcosa di più rispetto a ciò che io ero in grado di offrirgli solo cinque anni fa. Non ho remore ad ammetterlo e del resto ho preferito fare un buon tirocinio prima di avventurarmi nell’Astigiano, nel Gavi, nelle Langhe o di spingermi nel Gattinara, nel Canavese o sulle colline Tortonesi; un tirocinio necessario e utile, soprattutto, per incontrare quei personaggi che hanno fatto la storia non solo dell’enologia piemontese, ma anche di quella italiana e, con il tempo, ne sono divenuti ambasciatori nel mondo. Così, in compagnia del mio inseparabile amico di viaggi, Giò Martorana, le cui immagini sono ancora una volta il degno corollario a questo mio lavoro editoriale, mi sono avventurato in questa terra cercando di accostarmi alla sua realtà con il desiderio di approfondire le mie conoscenze enologiche, crescere attraverso una nuova esperienza, arricchirmi sia come semplice appassionato del vino, sia come uomo, con l’animo sereno, la consapevolezza e il sorriso di chi era convinto di poter andare incontro a un’esperienza veramente unica. Così è stato. A posteriori posso assicurare che la scelta di aver posticipato negli anni questo viaggio è stata giusta, poiché ho potuto godere fino in fondo di ogni minimo particolare che quest’avventura enologica mi ha offerto, osservando che, attraverso essa, è aumentata la mia capacità di vedere distintamente e valutare ciò che vi è dentro e dietro ad una bottiglia di vino. Più volte sono rimasto sorpreso da un Piemonte tanto aristocratico quanto chiuso, dipinto da molti come diffidente e colmo di una cortesia tanto formale da sembrare un po’ falsa, e che, invece, si è aperto poco per volta, come il fresco bocciolo di una bellissima rosa
bianca, durante le infinite e lunghe degustazioni, in quelle decine e decine di visite che facevo alle aziende o nelle mie lunghe chiacchierate con i contadini, gli imprenditori e i grandissimi vignerons che sono il mosaico vitivinicolo di questa regione. Personaggi unici, conosciuti nei tre mesi trascorsi a scorrazzare ininterrottamente su e giù per questa terra che ogni giorno sentivo sempre più effervescente e bella e sulla quale ho percepito in modo netto e preciso il significato della parola terroir, scoprendo le sottili sfumature che esistono fra le dorsali della stessa collina e fra i vari crus che caratterizzano i vini che lì vengono prodotti. La chiave di lettura di quel mondo, sospeso fra passato e futuro, credo di averla trovata sotto lo zerbino, davanti all’uscio delle cantine. È proprio sulla soglia di quelle odorose stanze che quei diffidenti personaggi, solitamente chiusi nel proprio mondo di vigne e stoico lavoro, oltre che di cocciuto impegno nel perseguire importanti obiettivi, si sono aperti, narrandomi ora della loro passione e della maniacale attenzione che mettono in tutto ciò che fanno, ora della loro giovinezza e dei ricordi dei bei tempi andati; mi hanno raccontato quale è il valore della famiglia in quella società contadina, quali sono i loro sogni e i loro sentimenti e dove avrei dovuto ricercare le sfumature più recondite delle loro anime. In questo viaggio ho incrociato occhi di contadini che sanno quale sia il significato di zappare, arare, vendemmiare e potare, ma che soprattutto sanno mescolare la terra con il cielo, le foglie della vite con il mosto, il sacrificio con l’amore, la pazienza con il destino; occhi antichi, nei quali è facile riscontrare il senso delle proporzioni, della tradizione e del lavoro. Non è stato raro trovarmi a contatto con uomini che appartengono ad un altro tempo, penetrato di memorie e poesia, molto lontano dal mio e alcuni, pur essendo più giovani di me, mi hanno dato l’impressione di appartenere a quelle generazioni di cui si narra spesso nelle sere d’inverno davanti al caminetto; un’antica stirpe di uomini all’interno della quale ogni persona, ogni vigna e ogni cosa ha il suo posto e che è sorretta da regole non scritte, che tutti devono rispettare. Spesso in quelle lunghe chiacchierate, mi ritrovavo in compagnia di vecchi vignaioli che si accaloravano nel parlarmi di vigne, di buoi e di viti e in quei momenti mi accorgevo di non avere molte argomentazioni con cui interagire; così rimanevo in silenzio ad ascoltarli parlare, magari sull’effetto di un intervento nel vigneto che aveva in qualche modo migliorato o soccorso l’andamento vegetativo di quel vitigno o di quali metodologie avessero utilizzato per salvare alcune viti giunte alla soglia degli oltre sessant’anni di età.
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Rimanevo affascinato da ciò che udivo, poiché tutto era parte integrante della cultura vitivinicola di questo territorio e quei racconti non erano altro che informazioni che si trovavano a vagare un po’ ovunque nell’aria e che, ad ogni vendemmia, si arricchivano dell’esperienza e del racconto di un altro contadino. Nozioni di vita, difficili da codificare per chi non ha vissuto decine di vendemmie; esperienze che forse si possono sentire raccontare solo da chi sia stato a lungo fra i filari, da chi sa ascoltare e interpretare il vento, e arricchisce con il proprio racconto la tradizione orale della terra a cui appartiene. Quindi non solo grandi vini, ma soprattutto grandi personaggi, anche se, per onor di cronaca, più d’uno, baciato da improvviso benessere, si è un po’ allontanato dalle sue origini, ponendosi, nel composito coro degli ottimi solisti di cui è composto il movimento enologico piemontese, in una posizione più defilata, dimostrandosi di più difficile interpretazione. La cosa sorprendente, comunque, è stata quella di constatare che le mie meditazioni, fatte negli anni antecedenti - che credo poi siano partite da un’idea di Piemonte che appartiene all’immaginario collettivo - si sono dimostrate parziali e quanto mai limitate al cospetto di un territorio complesso e variegato che ha saputo proporsi ai miei occhi sotto una luce molto diversa da quella che io immaginavo. La riservatezza di quegli animi e la dolcezza dei paesaggi, abbinata alla raffinata eleganza dei vini e alla sensualità di una gastronomia che non ha mai smesso di stupirmi, mi hanno indotto a definire questo Piemonte del vino, che immaginavo come un gentiluomo burbero, austero e spigoloso, come una nobile e bella “Signora” sempre pronta ad un dialogo aperto e sincero. Una nobildonna alla quale è necessario accostarsi con i giusti modi e con il giusto intento e le cui doti di sensualità e determinazione hanno costituito le basi sulle quali, in questi ultimi decenni, si è avviato un forte movimento di rinnovamento del settore vitivinicolo di queste terre, che da solo, forse, ha rappresentato una delle evoluzioni culturali più importanti per questo Piemonte. Una terra dove la produzione vitivinicola è sempre stata condizionata sia dalle difficoltà economiche e sociali causate da una frammentazione eccessiva della proprietà che ha impedito il nascere di una vera e propria leadership trainante favorendo altresì solo il consolidamento di tante piccole realtà, sia dalla necessità di dover far coesistere la vite con quell’industria che ha sottratto energie e manodopera specializzata alla campagna, snaturando un po’ queste aree da sempre vocate al vino. Una “Signora” che, incurante del tempo e delle mode,
ha mantenuto fede alle sue origini e alle sue tradizioni indossando sempre, con estrema eleganza, gioielli splendenti, intarsiati di pietre preziose, come il Nebbiolo, il Moscato, la Barbera, il Timorasso, l’Erbaluce e tante altre, che, invece, la classe politica piemontese ha considerato spesso soltanto come accessori, sebbene preziosi e importanti, che si custodiscono gelosamente, ma sui quali si fa poco affidamento nella ricchezza della famiglia stessa. Una “Signora” del vino che, incurante delle mutevoli leggi del tempo, è rimasta seria e composta fra queste vigne, nell’attesa, chissà, di poter parlare un giorno del proprio lavoro con un “cantastorie” come me, attenta, sempre e comunque, a non esporsi troppo e timorosa nel rivelare la sua maestria nel fare. Il nostro è stato un incontro estremamente interessante, dal quale io ho ricevuto senz’altro molto più di quanto potrò mai restituire, anche con questo stesso mio lavoro editoriale, con il quale tuttavia spero di essere riuscito a dare un’immagine diversa di questo territorio, offrendo uno spaccato vero, attuale e sincero di quale sia oggi l’anima di questa “Signora” del vino, per me immagine archetipo di questo Piemonte contadino. Salutandola le ho baciato la mano, sfiorandola come si conviene e le ho sorriso, nella certezza di aver stabilito con lei molto più di una semplice conoscenza e nella speranza che, se un giorno ci incontreremo di nuovo, lei mi sorriderà, poiché il Piemonte non ha bisogno in fondo di nient’altro se non di imparare a sorridere.
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QUALCOSA DI CERTO
Ogni vino ha il profumo e il sapore della terra a cui appartiene, ma il vino di questo Piemonte, disegnato fra cielo e filari, ha sicuramente un’anima. Un moto sottile e velato, con sorprese e risorse che si svelano poco a poco all’intenditore e al viaggiatore attento, proprio come i colli di Langa e del Monferrato alle prime leggere nebbie autunnali. È qualcosa di certo e solido che una volta incontrato ed apprezzato non si dimentica e a cui si fa ritorno sempre volentieri, perché si sente che è il prodotto di una terra riservata, nella sua aulica semplicità; una terra immediata nella sua meravigliosa complessità, dalla ordinatissima geometria delle colline e dei contrafforti del vino a quella sfumata delle Prealpi e del pascolo, dalla opulenta Langa del barolo, del barbaresco, del dolcetto e del moscato, a quella dei silenzi e delle ombrose valli dell’Alto Monferrato. È una terra che ha un’anima, ancora autentica e meritevole di essere narrata, è lì ferma e silente a sfidare le mode e, da sempre, è pronta a far parlare di sé e fa dire a Cesare Pavese: “La vigna che sale sul dorso di un colle fino a incidersi nel cielo, è una vista familiare, eppure le cortine dei filari semplici e profondi appaiono una porta magica… Sotto le viti è terra rossa dissodata, le foglie nascondono tesori, e di là dalle foglie sta il cielo. È un cielo sempre tenero e maturo…”. Basterebbe questo attacco sulla vigna, tratto da uno dei più bei racconti di Pavese, per descrivere il Piemonte del vino, quello che poi ha emozionato anche tanti altri scrittori e altrettanti protagonisti, come Davide Lajolo e Guido
di Gigi Cabutto
Piovene, Mario Soldati e Gina Lagorio, Claudio Magris e Rosetta Loy. Maestri che il vino lo hanno saputo raccontare, ora tra le osterie, o come si dice in piemontese nelle piole, ora nelle vendemmie, con il suo duplice aspetto di fatica e festa, di trasgressività e pudicizia, di amicizia e convivialità, perché il vino in definitiva è solo e soprattutto questo! Rimane sorprendente scoprire come anche alcuni grandi autori classici d’oltralpe citino i vini del Piemonte. È il caso di Stendhal per il nebbiolo o di Marcel Proust per il vino d’Asti, il primo nella Certosa di Parma, quando il vino nebbiolo allevia una lunga notte di prigione a Fabrizio e il secondo nel leggendario romanzo La Strada di Swann, nella Recherche. Ma i vignaioli piemontesi non si sono mai lasciati montare la testa con le citazioni dei classici, dato che la loro millenaria fatica ha dovuto sempre fare i conti con una visione pauperistica e troppo venata di nostalgia. Con il timore, mai sopìto, che l’industrializzazione potesse far sparire anche i sentori e i profumi genuini delle loro colline, si sono lasciati piano piano scaldare dal doveroso tributo che il mercato finalmente ha riconosciuto loro e che pone con successo i loro vini sulle tavole dei più prestigiosi ristoranti del mondo e nei bistrot delle metropoli. Sicuramente chi scrive o parla oggi del vino piemontese e del suo mondo, lo narra in termini diversi da allora, ma chi lo vive, indubbiamente non può fare a meno di sentirsi debitore nei confronti di chi gli ha insegnato
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ad amarlo e, nel gesto sublime di levare il calice in alto, riempirsi, oltre che il palato e la mente, anche l’anima di quei versi spesi per raccontare quel sublime gusto e quel luogo che rimane fermo nel tempo e si ritrova in un’etichetta o in un nome i quali sanno narrarti di superbe malinconie, di paesaggi e delle cose sacre del tempo. Non è forse vero che un vino si sceglie e si stappa anche per questo? Sono emozioni che vi confermeranno che nelle vigne di questo Piemonte un tempo si poteva anche cantare e che, ieri come oggi, salpare verso il mare antico dei vigneti, fra banchi di arenarie e di marne azzurre, vuol dire ancora fare un tuffo nella storia, quella che può essere racchiusa in una grande vendemmia o nel profumo del mosto in autunno, di cui sono piene le vie dei crinali dei tanti borghi sulle colline del vino, fin dai tempi delle invasioni barbariche dove furono i monaci benedettini e cistercensi a preservare la viticoltura e a diffondere il consumo del vino insegnando le prime tecniche di cantina ai borghigiani.
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Ora queste sono divenute dei gioielli architettonici, modelli di design “griffati”, progettati come zolle sospese tra cielo e terra o come forme di cristalli posate tra le capezzagne di vigne che vi si riflettono. Strutture che in silenzio “chiacchierano” tra loro e si raccontano del tempo che fu o di questi nuovi vignaioli che pongono ancora le stesse mani callose su quegli stessi dorsali posando lo sguardo sul blu del cielo, nell’attesa di una nuova vendemmia. Ma le emozioni e le speranze, quelle ancora non sono mutate. Solo il cielo continua a sapere cosa accadrà ed è in ogni modo sempre una scommessa o una sofferenza che nessuno, al di fuori di loro, pagherà o capirà mai a fondo. Solo lo stappare una bottiglia offre ancora un’emozione sottile, antica e nuova. Ma non è sempre stato così! Nei tempi antichi, quando l’Italia era chiamata Enotria, cioè terra del vino, tra i grandi vini che si bevevano nella penisola non c’era un vino piemontese. Eppure il consumo del vino in Piemonte risale a prima
della conquista romana. Ci piace pensare in ogni caso che il Piemonte del vino si possa perdere nell’antico e che l’incontro con la cultura celtica sia stato fondamentale per il vino piemontese, a cominciare dalla sostituzione delle anfore di terracotta romane con le botti di legno più pratiche e più adatte ad esaltarne l’aroma. Ci sono zone dove, chissà perché, le parole assumono poi significati diversi. Luoghi dove vivere ha qualcosa in più ed ha il valore della stretta condivisione di una storia, di una cultura, delle abitudini e del “tempo”. Non a caso: “Vivo nelle Langhe..., Sto nel Monferrato..., Ho casa sulla Serra...”, lo si dice con un orgoglio, magari con un moto di superiorità, quasi a voler suscitare nell’oggi una giusta invidia per le conquiste rurali ottenute. Ma non è soltanto il sentimento di questa storia contadina e quello che lega questi uomini alla vite a dover essere narrato. Il Grande Nebbiolo del Piemonte, il vitigno base dei
grandi rossi di questa terra, è molto di più di un vino. È il padre dei grandi vini piemontesi, è l’immagine dell’antica cultura contadina che cerca di sopravvivere, è l’equilibrio perfetto fra il paesaggio e la natura, è l’arte diffusa nelle secolari cantine dalle volte a botte, è colui che potrebbe narrare le mille storie nascoste nelle decine di medioevali castelli che punteggiano come quinte scenografiche i dolci crinali di questi colli. È uno slow a cui concedersi se si ha voglia e desiderio di volerlo comprendere, per poi non lasciarlo più e ricercarlo magari su una tavola lontana, nel mondo, scegliendolo in una prestigiosa Carta dei Vini. Questi sono vini che vengono da una campagna che solo all’apparenza può dare l’illusione della “Terra promessa”, ma che in realtà è dura e riconduce immediatamente a un lavoro manuale e a una sfida annuale che naturalmente, con lo stratificarsi delle generazioni dei contadini che si sono susseguite e che si sono tra-
mandate proprietà e stili di vita, riesce qualche volta ad essere vinta. È una terra che deve fare i conti ancora con le tempeste, il lampo e il tuono, le nebbie e le siccità, le sfide e le attese; elementi che sono gelosamente custoditi nell’animo da questi vignaioli che trovate all’aeroporto, alle fiere, in cantina o in vigna, e che assumono altri valori, diventano, per loro, ragione di vita, il loro humus e fonte stessa della loro forza. Nonostante tutto, con “sufficienza” tutta sabauda, rimangono cortesi, un po’ perché lo devono fare, un po’ perché lo sono e un po’ perché il mercato glielo impone, ma statene certi, starebbero volentieri in vigna e da quelle loro capezzagne non si muoverebbero mai. Pronti solo, per passione o per sfida, a travasare un barolo anche dieci volte in un anno e ad ascoltarlo, se matura e se matura bene, ragionando con dei palati unici che da altre parti si sono persi o nell’omologazione dei gusti o sugli scaffali di qualche supermercato o
sotto quei riflettori che al vino non appartengono e che poco gli devono. Ma non dubitate, per modestia e per innata discrezione, tutto questo loro non ve lo diranno, ma io so che sono loro che fanno la differenza in questo Piemonte del vino che lega magistralmente il passato all’oggi. A chi si aggira per queste terre non sfuggiranno certo le sedi del potere feudale ed ecclesiastico che dominano ancora gli abitati e caratterizzano profili e vedute panoramiche di queste colline, ma al più attento viaggiatore non sfuggirà neppure la trama continua e diffusa dell’edilizia rurale: cascine uniche, splendidi luoghi d’incontro, le cui pareti sono intrise della saggezza popolare e di quella tradizione orale spesa a raccontare delle vendemmie andate. È questo il Piemonte del vino? Io personalmente penso di sì, ma invito chiunque leggerà questo libro ad approfondire queste mie personali riflessioni e a venire ad osservare, con i propri occhi, questo Piemonte che sa oggi dialogare ancora con il suo passato, senza retorica e con lealtà.
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PIEMONTE: LA PASSIONE DI ESSERE AUTOCTONO
I colori forti che si leggono in autunno nei vigneti del Piemonte entrano nei pensieri di chi li guarda come espressione di straordinaria personalità. L’immagine dei paesaggi, la forma di allevamento dei tralci di vite raccontano già molto; poi le sfumature vinose delle foglie di barbera, il rosso vivo di quelle del nebbiolo, il giallo che sembra aromatico del moscato, e quello verde chiaro del grignolino, sono la testimonianza dei cardini della tradizione. Qui la storia è raccontata senza mezzi termini, prima ancora che dal paesaggio, dall’espressione dei volti della gente: qui non ci sono mezze misure, qui vige un sinergismo tra caparbietà, diffidenza, onestà e passione per il lavoro intenso, a volte duro, che è quello che crea prima la vera ricchezza umana e poi quella finanziaria. In Piemonte i confini geografici e comportamentali sono ben marcati anche quando si tratta del patrimonio viticolo: tranne qualche veniale desiderio di volersi sentire internazionali, il comportamento di ogni piemontese è molto severo prima di tutto con se stesso. Perciò questa è una regione in cui un forestiero, forestiero che magari arriva solo dalla Lombardia, non lo lasciano sentire integrato se non dopo qualche decennio di convivenza, ed è così anche per le varietà di viti diverse da quelle tradizionali, alle quali non è stato concesso molto spazio. Questa è una regione dove la tradizione ha asseconda-
di Donato Lanati
to la sensibilità dei vitigni autoctoni, o tradizionali se si preferisce chiamarli così. A queste varietà sono stati dedicati con sapiente sensibilità terreni ed esposizioni tali da farle stare al meglio allo scopo di farle esprimere al meglio; primo esempio tra tutti quello del nebbiolo, che da sempre è insediato nelle posizioni dalle quali, in ogni vendemmia, si ottiene il gusto originale della sinergia tra terreno e vitigno, gusto in cui si manifesta una grande personalità, completamente diverso rispetto a quello che si ricava al di là della capezzagna. La tradizione piemontese non poteva e non può accettare vitigni ubiquitari come il merlot, il cabernet, il marcelan, il tannat, il petit verdot; queste varietà non sono altrettanto sensibili, non traducono con la stessa delicata intensità il territorio e non si possono integrare! Qui in Piemonte la grande ricchezza consiste nel disporre di diversi ecosistemi espressi dalla natura geografica e nell’averli mantenuti nel tempo mediante una cultura dalle forti tradizioni ed una educazione che viene trasmessa di generazione in generazione. La ricchezza della storia, l’attaccamento all’identità di questa regione e dei suoi abitanti si può leggere nel lungo periodo vivendoci, oppure, in pochi attimi, attraverso le immagini fotografiche, che non fanno alcuna fatica a trasmettere la realtà del Piemonte, cioè l’orgoglio ma anche il piacere di essere autoctono.
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LA PAROLA AI PRODUTTORI E AGLI ENOLOGI IL SIGNIFICATO DEI VITIGNI AUTOCTONI IN PIEMONTE
In un mondo sempre più globalizzato, dove paesi emergenti dal punto di vista viticolo dimostrano sempre maggiori capacità produttive e notevole aggressività commerciale con vini di “gusto internazionale”, a noi non resta altra scelta che valorizzare un patrimonio viticolo ormai ambientato ed adattato da decenni all’orografia e al terreno del nostro territorio e capace di dare prodotti che estrinsecano nei loro caratteri organolettici il luogo d’origine. Dolcetto, Barbera, Nebbiolo, Grignolino e molti altri sono vitigni unici, che non è possibile mettere a dimora in ambienti non adatti, a meno che non si voglia dare origine a prodotti scadenti e di pessima qualità, in quanto essi sono molto sensibili all’ambiente pedoclimatico. È importante la scelta del vitigno in relazione alla giacitura del futuro vigneto e in questa opera, oltre alle analisi approfondite, conta molto l’esperienza e la tradizione orale dei vecchi vignaioli del luogo. Proprio per queste specificità di adattamento possiamo garantire un prodotto unico ed inimitabile, sempre che il produttore e l’enologo sappiano, in cantina, valorizzare e rispettare l’uva introdotta senza esasperare la tecnica di vinificazione capace di livellare quei caratteri organolettici distintivi che sono la peculiarità dei nostri vini. Per questo motivo i nostri prodotti devono indirizzarsi sempre più ad un cliente appassionato ed intenditore capace di apprezzare al meglio l’unicità dei vini e l’impegno richiesto per il loro ottenimento.
C’erano una volta Vitigni Autoctoni che producevano Vini Autoctoni... Questo è il primo pensiero che mi è saltato in mente quando ho letto la tua domanda. Purtroppo non è solo una battuta, ma nel nostro territorio è ormai una realtà. Chiaramente non mi riferisco solo ai vari Cabernet, Merlot, Shiraz, Pinot Noir, Chardonnay, Sauvignon ecc... che sono impiantati un po’ dappertutto e che entrano a far parte sia dei vini aziendali così detti di “fantasia” da che sono anche legalizzati dalla Doc Langhe e di sotterfugio colorano e ammorbidiscono i nostri vini tipici. Ma anche i nostri vitigni sono ormai autoctoni solo di nome. Quei bei vecchi vigneti policlonali impiantati sul tufo non esistono quasi più. La ricerca avanzata degli ultimi anni ha prodotto dei nuovi “super cloni” tutti uguali che danno un bel colore, una morbidezza standard e producono molto per cui si rende necessario fare gli abbattimenti (ma questo fa immagine). Non mi dilungo di più con queste recriminazioni con cui potrei scrivere un libro, tanto non ci possiamo più fare molto. Mi auguro solo che d’ora in poi i produttori capiscano la necessità di essere intransigenti contro l’eccessivo ed indiscriminato sfruttamento del territorio ricercando la tipicità e l’originalità dei vini più che il miraggio di fama e ricchezza promesso dai “grandi” vini internazionali costruiti apposta per stupire (anche con il prezzo).
Piero Ballario
Sergio Barale
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La parola autoctono è ultimamente invocata come antidoto efficace nella lotta alla massificazione dei gusti. Una tesi romantica e nostalgica che però molto spesso necessita dei giusti contenuti. L’identità di un vino è la fedele espressione dell’animo del suo creatore ed il valore aggiunto che un produttore può apportare è semplicemente il vitigno che da secoli dimora sulla sua terra. Stefano Conterno
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Il primo pensiero che mi attraversa la mente leggendo questo titolo è che finalmente si torna a parlare un linguaggio che è fondamentale per qualsiasi regione viticola italiana e non solo per il Piemonte. Dopo qualche lustro di “SuperTuscan, Piedmont, ecc.” si sono riscoperti i vitigni autoctoni e, come per incanto, ci si rende conto di avere un patrimonio di inestimabile valore che ci diversifica, ci rende unici ed irripetibili. Ho sempre creduto che un vino sia principalmente l’espressione di un vitigno in un certo ambiente e quindi sono convinto che qualche secolo di storia e tradizione ci abbiano portato una selezione di vitigni di tutto rispetto che bisogna difendere e promuovere per quello che effettivamente sono. Il recente passato ha imposto modelli di vini con certi caratteri ed il loro successo crescente ha portato molti produttori ad orientarsi sulla produzione di vini da vitigni internazionali o, peggio ancora, ad internazionalizzare il gusto e le caratteristiche dei vini da vitigni autoctoni. Per un enologo che vive quotidianamente una sola realtà, credo sia fondamentale lavorare con i vitigni autoctoni e cercare di valorizzarli senza remore e senza falsi pudori, sfruttando appieno tutte le nuove conoscenze (viticole, enologiche e tecnologiche) che sono immensamente più grandi di quelle di venti o trent’anni fa. Stabilito che i vitigni autoctoni sono la base del lavoro quotidiano, credo sia poi importante per ogni azienda aggiungere una personalizzazione che porti effettivamente il vino prodotto ad essere l’espressione di territorio, vitigno e vitivinicoltore. Questo connubio è al momento molto difficile da comunicare e soprattutto non è facile da catalogare.
In estrema sintesi, i vitigni autoctoni sono l’espressione più vera di un territorio da difendere sempre e comunque, ma, come al solito, ogni medaglia ha il suo rovescio. Mi sembra di intravedere in questa crescente voglia di autoctono una nuova corsa allo “scoop”, con una frenetica ricerca di qualcosa di nuovo (o meglio di vecchio) che era stato abbandonato, forse perché la qualità non era così esaltante. Sarà il mercato, comunque, a stabilire quale vitigno, autoctono o alloctono che sia, meriterà successo e quale no. Di sicuro, con l’aumento di qualità che si è avuto più o meno ovunque, con i bassi prezzi dei vini del nuovo mondo, oggi lo spazio per i vini internazionali si è fatto molto piccolo.
I vitigni autoctoni in Piemonte hanno una grande importanza; da questi si producono vini unici con caratteristiche particolari non ripetibili in altri territori. Ritengo sia fondamentale puntare sui vitigni autoctoni, specie quando si hanno vitigni con potenziali enormi come il Nebbiolo, per esempio; non sono da tralasciare i vitigni meno nobili, ma che si identificano con il territorio, visto il quantitativo enorme di vini che si producono in tutto il mondo. Ritengo giusta e doverosa la riscoperta di alcuni vitigni quasi dimenticati, purché abbiano del potenziale; non condivido un certo accanimento da parte di alcuni a voler produrre a tutti i costi un vitigno solo perché autoctono, ma magari privo di quelle caratteristiche necessarie per produrre un buon vino. Pier Carlo Cortese
Il concetto di vitigno autoctono, in Piemonte, è il connubio perfetto fra il Nebbiolo e il territorio. Il compito dell’uomo (il produttore) è saper interpretare Vitigno e Territorio ed ottenere nel bicchiere la migliore espressione che ci sia da questi due elementi. Da cui si evince che nella nostra cantina non c’è spazio né per le barrique, né per i concentratori o altre “pratiche” con le quali si modificherebbero le caratteristiche di un vino e quindi di un vitigno e di un territorio. Quindi un grande vino si può ottenere semplicemente riponendo grande fiducia in ciò che la natura ci ha messo a disposizione.
I vitigni autoctoni piemontesi hanno fatto la storia d’Italia nel mondo. Penso alla Barbera, al Nebbiolo, al Moscato, al Cortese, all’Arneis, al Brachetto. Oltre a ciò ci sono altri vitigni autoctoni con un grande potenziale ancora tutto da esprimere come l’Albarossa, incrocio di Nebbiolo e Barbera ottenuto dal professor Dalmasso nel 1938. I vitigni autoctoni piemontesi hanno anche beneficiato di DOC e DOCG locali molto importanti, sia legate al territorio che allo stesso vitigno, come ad esempio per Barolo, Barbaresco, Asti, Brachetto d’Acqui o Barbera d’Asti. Ritengo che alla luce della sfida dei produttori del Nuovo Mondo ci sia una grande opportunità per il Piemonte nel continuare a valorizzare i suoi territori e i vitigni autoctoni che solo sulle colline delle Langhe e del Monferrato possono esprimersi al meglio. Per me la grande sfida sarà far conoscere di più e meglio al consumatore e al trade internazionale le caratteristiche di questo territorio e dei vitigni storici piemontesi. Per questo bisogna fare sistema e squadra sfruttando le associazioni, i consorzi e le istituzioni, oltre ai grandi eventi del territorio come le olimpiadi invernali e i tour enogastronomici.
Roberto Conterno
Lamberto Vallarino Gancia
Alessandro Ceretto
Il Piemonte, la mia Regione, è senz’altro quella in cui si è dato credito, prima di ogni altra, ai vitigni autoctoni. Sono testimoni di questa mia affermazione le Doc più diffuse: Dolcetto di Dogliani o d’Alba o di Diano; Barbera d’Asti o d’Alba; Nebbiolo d’Alba. Non sto qui ad elencarle tutte, ma è chiaro come sono state concepite: il nome del vitigno (autoctono) che precede il luogo d’origine geografica. Piemontesi all’avanguardia da un quarantennio? Penso piuttosto a gente saggia e sincera che, un po’ alla francese (Borgogna per intenderci), non ha fatto altro che trascrivere sulla carta quanto succedeva nella pratica. Poi è arrivato il tormentone delle invenzioni “internazionali” ed ora, nuovamente, giù a parlare degli autoctoni che salveranno il mondo, di tradizione, di territorio, addirittura ci sarà spazio per gli estremisti: “solo col cavallo in vigneto, in notti di luna piena i trattamenti, laviamoci i piedi e pigiamo” e avanti così… Fortunatamente, tutto quanto è vincolato ai cicli naturali non lascia spazio alle bugie o alle banalità. Penso che autoctono possa infine ricondursi a “coerenza” e “etica”. Fare il vino con un’anima è il futuro, va ricercato col vitigno, nel terreno, nel microclima, ma anche nei motivi che hanno determinato questa scelta e nella costanza di saper tenere duro quando è ora. Mi riferisco a quando la grandine ti distrugge il raccolto, e ricominci; così come quando tutti dicono che morbido e dolce è buono, e tu ce l’hai tannico e secco…! Io credo molto nella riscossa del Piemonte e soprattutto nell’intelligenza dei suoi operatori. In tanti ormai ci si è resi conto che con più calma si dovranno stilare delle reali classifiche di merito, a cui seguiranno adeguati livelli di prezzo. È detto da chi ha avuto il coraggio di piantare il Syrah a Farigliano, per coerenza, e per rispetto con tutti gli “autoctoni” della Langa. Ho voluto che questo vino bastardo facesse sì che il Dolcetto restasse un vino franco e da beva nella classica tradizione. Per non vederlo più sfidare i più nobili Nebbioli, in un confronto già perso; ma lasciare a loro il ruolo di leaders, quando si vuole salire col potenziale nel bicchiere. Giacolino Gillardi
Forse oggi si abusa troppo del termine “autoctono”, ma ci sono delle aree dove le scelte viticole sono state fatte da chi nel tempo ha saputo interpretare la genetica della vite e l’ha saputa adattare alle problematiche ambientali e territoriali. In questo nostro continuo parlarci addosso su quale sia il presente e il futuro del mondo del vino, talvolta disquisendo, con accademiche dialettiche, sui significati di una viticoltura di cui non si conoscono neanche le origini, spesso abbiamo dimenticato quale sia stato il reale sacrificio di quegli eroici viticoltori e quale valore avesse quella loro sagace e ostinata perseveranza nel volerci tramandare una tradizione che molti hanno disconosciuto. Io invece, basandomi su ciò che mi hanno insegnato i miei “vecchi”, con il Timorasso ho avuto la fortuna di prendere in contropiede i fautori del sensazionale enologico e con quello splendido e dimenticato vitigno ho avuto la possibilità di far parlare della mia terra nel salotto buono dell’enologia italiana e internazionale. Non so se ho avuto fortuna, intùito o lungimiranza a riscoprire il Timorasso, ma con questo vitigno, locale e di nicchia, ho capito quanto sia importante una viticoltura che sappia parlare, a tutto il mondo, degli umori di una terra, del proprio humus e del carattere della propria gente. Perché qui autoctono non è solo il Timorasso, ma è la Barbera che sa di tortonese; qui autoctono è cultura, è rispetto, desiderio e voglia di fare vini veri senza l’uso di enzimi, di concentratori, di osmosi inversa o di edulcoranti vari solo perché si deve seguire la moda. Credo che le cause della crisi che in questo momento attanaglia il mercato siano da imputare anche a un certo tipo di cultura che nei lustri scorsi ha fatto tabula rasa della civiltà contadina, dal momento che bisognava prendere scorciatoie produttive che fossero capaci di dare risposte immediate a un mercato in continuo movimento. Tutto era plausibile, tutto era giustificato per raggiungere lo scopo, tutto era buono: dai titoli nobiliari presi a caso nel cestino dei supermercati, alle inflessioni francofone, dalle bottiglie dal contenuto indecente fino alle etichette e ai cancelli firmati che erano e sono uno schiaffo alla fame nel mondo. Tutto era giustificato e non certo giustificabile, ma credo che la strada da percorrere per modificare le cose e la testa della gente sia ancora molto lunga. Personalmente credo che il Piemonte potrebbe diventare grande il giorno in cui crederà ciecamente ai suoi vitigni autoctoni, ma scommetterà altrettanto fortemente sul suo autoctono più bistrattato: la Barbera. Quel giorno potrebbe essere anche vicino, servirebbe forse solo una caratterizzazione organolettica della produzione di tutte le colline preappenniniche e prealpine che vanno da Monleale a Pian Romualdo, passando ovviamente per Vignale, Moirano, Vinchio, Agliano e Canale. Walter Massa
A mio giudizio il vitigno autoctono racchiude la vera identità enologica di ogni singola zona; io credo che la storia e l’intelligenza delle persone che ci hanno preceduto abbiano fatto sì che ogni varietà si coltivasse e si adattasse nelle aree maggiormente rispondenti alle sue esigenze. Questo legame, a mio parere, con il tempo è diventato molto stretto, tanto che la zona dove è “nato” un vino darà, per quella varietà, sempre qualcosa in più rispetto alle altre. Credo sia un concetto elementare, ma nel contempo importantissimo che, nell’odierna era della “globalizzazione”, permette anche alle piccole produzioni di mantenere forti identità e grande valore in quanto uniche e, fortunatamente, davvero difficilmente riproducibili. Franco Massolino
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La tua domanda è quanto mai stimolante, in quanto implica una serie di considerazioni sul termine autoctono e sulla sua definizione letterale. Il nuovo Zingarelli definisce così il termine autoctono usato come aggettivo: “Che, chi è nato (ha origine) nel luogo in cui risiede”. Parlando del Piemonte tale definizione mi sembra alquanto riduttiva e non corrispondente ad una realtà viticola ed enologica. Ci sono dei vitigni tradizionalmente coltivati in Piemonte e che hanno fatto con i loro vini la storia dell’enologia piemontese e dato fama universale alla nostra regione, come il Nebbiolo, il Barbera, il Moscato e il Cortese. Ma non definirei questi vitigni autoctoni, perché presenti in altre regioni italiane per non dire in tutto il mondo. Vitigni autoctoni in Piemonte sono certamente presenti: cito ad esempio il Brachetto, il Grignolino, l’Arneis, il Timorasso, il Prunent, il Pelaverga, il Ruché, ecc. Sono vitigni, questi, che hanno rilevanza per l’economia per la loro zona di produzione, anche se alcuni dei vini che ne derivano, per la loro modesta quantità, non riescono ad affermarsi se non in un mercato assai ristretto. Altri invece quantitativamente più importanti come il Brachetto e il Grignolino hanno saputo conquistarsi spazi importanti a livello internazionale. Ritornando alla tua domanda che i vitigni autoctoni e tradizionali abbiano un significato fondamentale per la viticoltura e l’enologia del Piemonte; senza tali vitigni verrebbe a mancare la nostra storia e la nostra cultura viti-vinicola. Ciò premesso e con decisione confermato, ritengo opportuno sottolineare la straordinaria adattabilità dei diversi terroir della nostra regione; l’esperienza personale di tecnico mi conferma che il Piemonte viticolo rappresenta un’area benedetta dove i vitigni di diversa provenienza (i cosiddetti internazionali) hanno dato prova di produrre grandi vini. In definitiva bisogna tener ben presente che i vitigni trasmigrano mentre i territori no! Giuliano Noè
Il Piemonte ha sempre privilegiato nella propria viticoltura, sia del passato, sia più recente, i propri vitigni tradizionali, considerandoli a buon diritto vitigni importanti da valorizzare. Ad esempio, negli Statuti Comunali del Comune di La Morra del 1511, si legge che il Nebbiolo è un vitigno di qualità da proteggere e da mantenere in coltura perché produttore di grandi vini. In Piemonte poi, è sempre stato tradizionale vinificare separatamente i singoli vitigni; infatti le Denominazioni in Piemonte nascono come espressione - molto riuscita - di un solo vitigno e gli uvaggi rappresentano una percentuale molto modesta e nata più recentemente, per soddisfare la parte più modaiola del mercato, più incline alle tendenze francesi, statunitensi, toscane. In Piemonte crediamo al massimo nella forza del singolo vitigno autoctono, tanto è vero che le nostre grandi DOCG, come il Barolo, il Barbaresco ed il Moscato d’Asti, sono a monovitigno. In esse si crea una felice sinergia tra vitigno, territorio e uomo e nel migliore dei modi si esaltano la grandezza del nostro territorio, l’unicità geologica e strutturale dei suoli, il microclima ottimale per la vite. In sostanza la nostra ricchezza ed unicità. Sul finire degli anni Ottanta, alcune realtà aziendali hanno sperimentato, con buon successo, vitigni di origine fuori confine, come lo Chardonnay, il Cabernet, il Merlot, il Riesling, il Syrah, il Sauvignon. In alcuni casi si è trattato di un modesto risultato, non tanto tecnicamente, quanto di vendita, soprattutto in questi ultimi tempi di ricerca e valorizzazione della biodiversità; in altri casi, piuttosto rari, si è trattato di buone scelte aziendali, alcune delle quali sono diventate vini di nicchia, ricercati dagli appassionati e tali da consentire un discreto ritorno finanziario per le aziende. Ritengo logico ed intelligente puntare su questi vitigni cosiddetti internazionali solo in determinate circostanze, per modeste estensioni e su suoli non altrimenti utilizzabili per vitigni autoctoni di pregio, come il Nebbiolo. Tanto per intenderci, non pianterei Merlot a Vigna Rionda o Brunate. Riserverei per essi aree un po’ meno vocate, piccole estensioni aziendali, al fine di ottenere prodotti di nicchia e in zone con Denominazioni “meno forti” di Barolo e Barbaresco. Mariacristina Oddero
Per quanto mi riguarda, vinifico principalmente un vitigno a bacca bianca autoctono che è l’Erbaluce di Caluso e vivo quotidianamente le gioie ed i dolori di questa scelta fatta o per meglio dire non fatta, ma accettata appassionatamente. La motivazione principale che mi stimola e mi sostiene è l’opportunità di poter contribuire, attraverso il lavoro nei vigneti e in cantina, all’evoluzione o più chiaramente all’aggiornamento della tradizione enoica di un piccolo angolo del mondo che per me si chiama canavese. Credo che lavorare con un vitigno autoctono sia una scelta che, in qualche modo, ti estranea dalla serrata competizione del mercato e ti fa riappropriare di un mondo antico dove i valori non cambiano mai, ma si evolvono e le tue intuizioni, fantasie, sperimentazioni e il desiderio di migliorarti che hai rappresentano una risorsa importante per il territorio stesso. Quando parlo di Erbaluce lo faccio con entusiasmo sincero, quando degusto dei vini o spumanti ottenuti dall’Erbaluce li apprezzo particolarmente e se li critico è solo perché sono sicuro che questa uva può dare di più; forse tutto ciò sconfina talvolta nell’arroganza, quella che si ha nei confronti di una cosa che in qualche modo consideri anche tua, sentimento che non credo si possa avere per vitigni non intimamente legati al tuo territorio. Passando ad una prospettiva più tecnica e più generale credo che vinificare sia sempre un opera di grande rispetto verso il vitigno e a maggior ragione quando si parla di autoctono bisogna saper accompagnare le uve nella loro trasformazione in vino, magari esaltando, quando è possibile, la sua peculiare particolarità, ma mai stravolgendola nel tentativo di inseguire modelli che per il solo fatto di essere ottenuti da altre uve sono di per sé impossibili da raggiungere e comunque di nessun interesse sia culturale che commerciale. Gian Luigi Orsolani
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Il significato dei vitigni autoctoni in Piemonte è da sempre molto radicato. Ci troviamo in una delle poche zone in Italia e nel mondo che ha cercato di mantenere il più possibile il legame con i vitigni classici e unici del nostro territorio, dal momento che negli ultimi vent’anni si è assistito ad una corsa sfrenata ai “vitigni di globalizzazione”. Questo è dovuto anche a un discorso di conformazione del nostro territorio; abbiamo a che fare con colline di non facile lavorazione, dove la nostra realtà agricola è per lo più a conduzione familiare, nella quale prevale la completa dedizione allo svolgimento di un lavoro artigianale, basato su una coltura intensiva piuttosto che estensiva. Non a caso i nostri vitigni più classici come il Dolcetto, il Barbera e soprattutto il Nebbiolo si sono diffusi poco al di fuori del loro territorio naturale, perché necessitano di cure molto più attente, per la maggior parte manuali, con un conseguente aumento delle ore lavoro-ettaro. Allo stesso tempo però, è stato utile sperimentare nuovi vitigni, che sono serviti ad arricchire il nostro bagaglio di esperienze sul nostro territorio. Io stesso ho sperimentato vitigni allogeni dai quali sono emerse nuove espressioni di profumi, gusti e finezze che prima non conoscevo e che adesso le ricerco e le ritrovo anche nei vitigni autoctoni. Penso, quindi, che in primis sia il territorio la pedina dominante, facendo esprimere il vitigno, che in fin dei conti è solo un suo inquilino. Oggi più che mai rispetto il mio territorio (che è alla base della tradizione) e tutti gli agricoltori che per orgoglio e testardaggine hanno contribuito a portare avanti i vitigni autoctoni anche più difficili (Pelaverga, Grignolino, Nascetta…). Io e molti altri viticoltori abbiamo avuto la fortuna di ereditare questo patrimonio e abbiamo cercato, forse in maniera un po’ ingenua, di mantenerlo tale, essendo sicuramente meno imprenditori, ma grandi uomini che rispettano la storia, la tradizione e il loro terroir, a differenza di tante zone, dove le scelte sono sempre più legate a progetti imprenditoriali. Marco Parusso
La storia viticola del Piemonte è molto antica. Effettuando alcune ricerche per trovare il nome ad un mio barbaresco (nubiola) ho trovato dei riferimenti su alcuni testi che parlano del vitigno nebbiolo già tra la fine del 1200 e gli inizi del 1300. Non ho approfondito oltre la mia ricerca per motivi di tempo, ma magari si riusciva ad andare ancora più indietro. Comunque già allora si parlava di una varietà nobile “...una spezie di uva nera detta nubiola... la quale è meravigliosamente vinosa... che fa vino ottimo fine da invecchiamento... che si trovava nelle nostre zone...”. Io credo che bisogna partire da lì per spiegare il significato dei vitigni autoctoni in Piemonte. La nostra è una zona produttiva difficile, siamo in collina, a volte anche con pendenze molto ripide, siamo costretti ad eseguire manualmente la maggior parte delle nostre operazioni in vigneto, abbiamo un dispendio di tempo e di energie per portare un grappolo di uva in cantina molto onerose che arrivano alle 500-600 ore di lavoro uomo ad ettaro. Per fare qualità dobbiamo stabilire la nostra produzione mediamente intorno alle 6000 bottiglie ad ettaro, ma anche di meno, se si tratta di uva per vini da invecchiamento. Nel contesto di un mercato globale, sempre più competitivo, è facile comprendere come questi numeri siano molto limitativi: non possiamo contrastare i grossi volumi, la produttività, il prezzo. Anche le dimensioni aziendali medie o medio piccole sono una grossa limitazione nell’affrontare i mercati internazionali. Dobbiamo quindi specializzarci, portare sul mercato prodotti unici di grandissima qualità. Ecco che allora siamo competitivi e possiamo dire la nostra nei confronti di tutte le zone più importanti per la produzione del vino nel mondo, ecco che i vitigni autoctoni e la lunga storia che abbiamo con queste nostre varietà autoctone sono fondamentali per vincere le sfide con il mercato. Abbiamo una grossa forza sulle nostre colline che è la territorialità; se si assaggiano dieci vini a base nebbiolo in alcuni casi si riesce anche ad identificare la collina nella quale sono prodotti quei vini. Non importa il produttore (purché sia di qualità), non importa la tecnica di produzione, le caratteristiche del territorio emergono prepotentemente; su questo bisogna lavorare per migliorarsi. Proteggiamo il terreno, investiamo sulla ricerca e facciamo in modo che tutte le volte che si apre una bottiglia delle nostre zone sia ben identificabile. Abbiamo una grossa fortuna nell’avere, con le tre varietà a bacca rossa più rappresentative della nostra zona, la possibilità di soddisfare ogni esigenza del consumatore: dal vino semplice, fruttato ed elegante, fatto a base dolcetto, al vino austero, versatile e ricco di personalità, a base barbera, al vino nobile per eccellenza, complesso, corposo ed intrigan-
te, a base nebbiolo. In questa direzione dobbiamo specializzarci. Ancora molto lavoro deve essere fatto nella ricerca, purtroppo molto spesso lasciata al lavoro di ogni singolo viticultore. Credo che questi nostri vitigni autoctoni già molto ci hanno regalato, ma molto ancora ci possono regalare: sta a noi tecnici di vigna, prima ancora che di cantina, lavorare per cercare di rendere la personalità del vitigno e l’originalità dei luoghi di produzione elementi di seduzione per il consumatore. Giorgio Pelissero
Il Piemonte non ha avuto bisogno per qualificarsi di produrre anche i “Super Piedmont”. I “SuperPiedmont” in Piemonte si producevano da sempre e a nessun produttore piemontese o giornalista di riconosciuto prestigio era mai venuta la bizzarria di chiamarli “Super”: erano i vini prodotti dal Nebbiolo. Semmai nell’ormai lontano periodo monarchico, al supposto grande, migliore, super, si era preferito il titolo di “Re dei vini”, ma era probabilmente solo uno slogan inventato dai commercianti. Se il fotografo è il produttore, la fotografia è il vino. Se la Toscana e Bordeaux fotografano a colori, il Piemonte e la Borgogna fotografano in bianco e nero. La mescolanza dei colori piace molto anche a quelli dai gusti un po’ più facili, che sono larga maggioranza; mentre il bianco e nero è per i raffinati. È questa la grandezza e la maledizione del Piemonte: produrre vini straordinari che possono essere compresi e pienamente apprezzati da pochi, dai raffinati, dai conoscitori: che sono minoranza su tutti i mercati. Il vantaggio del Piemonte però è che la produzione dei suoi molti vini a DOC e DOCG è limitata nel numero di bottiglie: basterebbe un po’ di intraprendenza commerciale in più per farli conoscere ad un mercato più vasto e per vederli definitivamente collocati tra i vini più ricercati ed ambiti ovunque a causa della loro unicità, della loro personalità, del loro straordinario carattere. Guido Rivella
Le Radici e le Ali Il Piemonte è da sempre terra di grandi vitigni che, interpretati nel tempo dalla mano sapiente del contadino, hanno dato vita a grandi vini. Questi vitigni sono un importante patrimonio da salvaguardare e costituiscono la vera ricchezza di questo territorio. La sfida di noi giovani produttori è proprio quella di rispettare l’identità delle nostre colline e interpretarne la tipicità esprimendo al meglio il binomio vitigno-territorio. L’obiettivo che ci poniamo, il risultato che vogliamo raggiungere è quello di una bottiglia, frutto finale del nostro lavoro, che rispecchi al meglio le radici più profonde della nostra cultura. Con i piedi nel passato e lo sguardo volto al futuro. Luca Rostagno
Nel nostro paese, negli ultimi decenni, si è osservata una notevole diminuzione della varietà dei vitigni coltivati alla quale hanno contribuito l’espandersi dei commerci e la sempre maggior diffusione dei gusti internazionali che hanno privilegiato pochi vitigni spesso d’origine straniera. Un’altra drastica riduzione era già avvenuta un secolo fa durante la ricostruzione post-fillosserica. Adesso che si è capita la forza fagocitante di questo fenomeno e la concorrenza di altri paesi produttori è diventata massiccia, si cerca di recuperare quel che resta di questo importante patrimonio viticolo per diversificare la produzione ed esaltare qualche originalità. Io penso che la vitivinicoltura piemontese debba guardare con speranza al progetto di recupero di queste “biodiversità” senza farsi però troppe illusioni, perché non credo che tutti i nostri vitigni autoctoni (al di là
del fattore seducente della rarità e dell’unicità) possano dare vini che abbiano la stessa potenzialità per trovare sufficienti consensi tra i consumatori. Occorrerà lavorare sui vitigni autoctoni capaci di dare un’originalità enologica, ma soprattutto di trasmettere al vino il carattere irrinunciabile del loro territorio d’elezione. Il significato dei vitigni autoctoni o tradizionali in Piemonte è grande. Il vitigno nebbiolo messo in qualsiasi altra parte del mondo non darà mai un Barolo o un Barbaresco; è una questione di terra, ma anche d’immagine, che andrà difesa ad iniziare da noi enologi con una sempre miglior qualità percepibile nei vini. Dante Scaglione
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PIEMONTE ... la signora del vino
Ritratti di vignaioli piemontesi
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Anna Maria Abbona e Franco Schellino
Amor che move il sole e l’altre stelle diceva Dante, e aveva ragione, visto che anche secondo me è l’amore il motore che anima l’universo, che consente a questo pianeta di continuare a ruotare sul suo asse, al sole di sorgere e di tramontare, al giorno di alternarsi alla notte. Non posso parlare di quest’azienda senza parlare di quel motore imperscrutabile che ha riempito la mia vita, ma non volermene se per reticenza ti accennerò solo in parte i miei sentimenti. Non mi è facile raccontarti esplicitamente cosa io provi e non mi viene mai facile parlare, né accennare a quale sia stato il telaio che ha teso le trame di questa passione; quando parlo dell’amore, la voce trema e mi prende un indefinibile sentimento di pudore, che fa sorridere in un uomo grande e grosso come me. Pensa soltanto che se ti dico vigna, se ti dico cantina, se ti dico vino, in realtà dico, sempre e soltanto, amore, una parola che segue come un’ombra tutte le altre, le quali non esisterebbero senza di lei ed è lei che fa crescere i grappoli sulle mie vigne e riempie di mosto odoroso la cantina dandomi la forza di fare il vignaiolo. In definitiva è una storia semplice, di un uomo felice che ha trovato quello che poteva essere Laura per il Petrarca o Beatrice per Dante. Tutto era già scritto nel mio destino e se tu, all’epoca, quando ero bambino, avessi potuto guardare nei miei occhi, avresti visto disegnato questo amore. Da una parte una piccola cantina e quattro ettari di antichi vigneti di Dolcetto, piantati di notte dai partigiani che durante il giorno si nascondevano nella vecchia
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casa, dall’altra un vecchio padre ormai stanco che non capiva più per chi dovesse ancora sacrificarsi e, in mezzo, noi due e il nostro grande amore, che ci ha spinti a lasciare i rispettivi lavori e a ricominciare tutto da capo, pur di poter vivere vicini. È questa la storia, mia e di Anna Maria; una storia iniziata molto prima che decidessimo di lasciare tutto per metterci a fare i vignaioli, appagando, con quella scelta di vita, il nostro desiderio di stare insieme e costruire un percorso nel quale dividere tutto, successi e insuccessi, ritrovandoci a sera, stanchi, ma felici di poterci abbracciare, in segno di incoraggiamento e di affetto. È attraverso il nostro amore che abbiamo avuto la forza di ridare vita a questa cantina, di ridare spirito a questa terra dove entrambi siamo nati, ora puntando su scelte enologiche importanti che ci hanno visto valorizzare il Dolcetto, ora canalizzando le nostre risorse verso l’ampliamento dei vigneti e l’ammodernamento delle attrezzature tecniche dell’azienda. Un lavoro duro che, qualche volta, mi porta ad avere dei momenti di défaillance che supero guardando gli occhi di Anna Maria. Non occorrono molte parole: lei mi capisce benissimo. In definitiva abbiamo la stessa positiva ambizione, la stessa volontà di voler migliorare ciò che è stato appena fatto e abbiamo lo stesso bisogno di voler crescere, rimanendo sempre con i piedi ben piantati per terra, da buoni piemontesi, senza mai entusiasmarci, né deprimerci troppo. Siamo legati in modo indissolubile, orientati a guardare il futuro con gli occhi della speranza, sapendo di dare sempre, ogni giorno, il massimo, convinti dell’importanza di questo, non solo per noi, ma anche per i nostri due figli Federico e Lorenzo che non dovranno mai dubitare del nostro entusiasmo. Sono contento del lavoro che abbiamo fatto in questi anni, di ciò che rappresenta oggi la nostra realtà aziendale, dei risultati che ha avuto il nostro Dolcetto e di come questo vino si è comportato sui mercati nazionali e internazionali; ma la felicità maggiore è l’aver realizzato qui il sogno di stare insieme e far crescere i nostri figli costruendo qualcosa che, a ben vedere, non è che un pretesto per avere sempre vicino quell’unico sole e quell’unica stella che “amor move”…
Altri vini: I Rossi: Dolcetto di Dogliani DOC Superiore (Dolcetto 100%) Dolcetto di Dogliani DOC Sorì Dij But (Dolcetto 100%) Langhe Rosso DOC Cadò (Barbera 90%, Dolcetto 10%) Langhe Dolcetto DOC (Dolcetto 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%)
Maioli Dolcetto di Dogliani DOC Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Dolcetto provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Moncucco nel comune di Farigliano, le cui viti hanno un’età di circa 60 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare caratterizzata da terreni calcarei con forte presenza di tufo e marne bluastre, sono posizionati a un’altitudine compresa tra i 550 e i 570 metri s.l.m. con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Dolcetto 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 20 al 30 settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto, senza l’aiuto di lieviti selezionati, si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 30°C e che viene svolta in recipienti di acciaio, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino svolge la fermentazione malolattica e rimane per 10 mesi in acciaio, travasato più volte prima dell’imbottigliamento, che avviene senza filtrazione; in bottiglia subisce un ulteriore affinamento di 3 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino vivace, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi eterei di eucalipto e menta e note di frutti rossi e ciliegie sotto spirito che si integrano con altre sensazioni olfattive speziate di cannella, pepe bianco e liquirizia. In bocca è caldo, sapido, equilibrato, ben armonizzato, lungo e persistente. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 2001 - 2003 - 2004 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 2-3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 6 anni. L’azienda: di proprietà di Anna Maria Abbona e Franco Schellino dal 1989, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 16 Ha, di cui 9 vitati e gli altri occupati da prati, boschi e seminativi. Franco Schellino segue personalmente la parte agronomica, coadiuvato in cantina, oltre che da Anna Maria, dall’enologo Giorgio Barbero.
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Marziano Abbona
È un po’ di tempo che mi sento stanco. Al mattino, quando mi alzo, sento le braccia pesanti e anche le gambe non sono più scattanti come una volta e le ossa rumoreggiano a ogni movimento. Mi sveglio più stanco di quanto lo sia la sera quando mi corico, stentando a prendere sonno, pensando alle cose che non ho fatto e che erano invece in programma nella mia giornata lavorativa appena conclusa. Cose che, al mattino, riaffiorano improvvise alla mente, come il riacutizzarsi di un mal di denti, e si vanno a sommare a quelle che avevo già messo nel programma della giornata appena iniziata. Sempre più spesso mi alzo con la voglia di “staccare la spina”, di prendermi una bella pausa e andare al mare o da qualsiasi altra parte dove sia possibile spengere il telefonino e non pensare a niente. Mi guardo allo specchio e mi domando se questa sensazione di pesantezza, che provoca anche un malessere generale, sia dovuta all’aumento sproporzionato delle cose che ultimamente devo fare, oppure se incomincia a voler dire qualcosa il fatto che i capelli stanno diventando bianchi e le rughe marcano in modo sempre più profondo il mio viso. Inizio ad avere il sospetto che queste avvisaglie e questo latente malessere non siano altro che il segno tangibile dell’arrivo di quella che gli altri chiamano vecchiaia. Io vecchio? Come è possibile? Io penso che questa parola dovrebbe essere utilizzata per classificare chi ha avuto un
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excursus nella sua vita che lo ho condotto ad attraversare tutte le diverse stagioni divenendo, prima vivace e curioso interprete della propria pubertà, poi bello e spensierato protagonista della sua giovinezza, fino a tuffarsi con forza e consapevolezza nella maturità come preludio stesso all’agognata e meritata serenità che sa regalare la vecchiaia. Beh, io almeno due di queste fasi le ho saltate completamente, costretto a sentirmi sempre più vecchio della mia età ed è per questo che, non essendo mai stato giovane, sostengo di non poter essere vecchio. Come figlio più grande di un padre che a soli 43 anni mi lasciò orfano, troppo presto fui costretto a sobbarcarmi l’impegno della famiglia, lavorando come un uomo, accanto a mia madre che doveva accudire mio fratello Paolo di solo un anno e l’altro fratello, Enrico, che di anni ne aveva undici ed era in collegio. A quattordici anni già facevo il contadino, quello che del resto faceva mio padre e quello che in definitiva forse avrei voluto fare quando fosse arrivato il mio momento. Ricordo che dovevo seguire tutte le fasi produttive dell’azienda familiare che aveva trenta capi di bestiame nella stalla e la terra era suddivisa, nella più classica tradizione delle Langhe, in parti uguali: un terzo vedeva la presenza a rotazione di grano o granturco e foraggio, in un terzo c’erano le vigne, nell’altro terzo gli alberi da frutta. È vivo ancora in me il ricordo di quell’azienda e tutte le volte che ci ripenso mi riprometto di lasciare tutto, un giorno di questi, e di rimettermi a fare il contadino sul serio come una volta. Quelle sì che erano aziende! E dico questo non tanto per il fatto che questa azienda, dove produco solo vino, non mi abbia gratificato, anzi; però qui non ritrovo l’armonia che si sprigionava da quel variegato impegno quotidiano. Quelli che mi mancano maggiormente sono gli odori e i sapori del pane, della frutta, della carne e di quelle mille altre cose che producevamo e che oggi non ritrovo più da nessuna parte. Con questi pensieri finisco di vestirmi ed esco di casa. È presto, un mattino come tanti altri, uno di quelli dove, come al solito, ad attendermi ho gli operai che devono andare nelle vigne, i muratori che devono aprire il cantiere della nuova cantina, il cantiniere con il quale dovrò fare dei travasi e, dimenticavo, anche un rappresentante da incontrare… e poi... non ricordo. Faccio il riepilogo delle priorità e mi accorgo che non c’è cosa che non abbia la sua importanza ed è per questo che non ne posso tralasciare neanche una e, del resto, come potrei, visto che, caratterialmente, mi rimane difficile demandare a qualcun altro. Mi scruto dentro, cerco l’energia e mi dico che devo farcela a tutti costi, ma è la solita cosa che mi ero ripromesso di fare anche ieri e il giorno precedente, non riuscendoci. Caratterialmente do troppa importanza ai particolari, nell’intento principale però di concretizzare i miei sogni che a volte si sono dimostrati troppo ambiziosi e più complessi di quanto potesse pensare uno che come me sa fare solo il contadino. Forse è proprio questo mio stoicismo esasperato a farmi sentire così stanco o, forse, tutto è riconducibile alla sommatoria delle preoccupazioni, ai mille pensieri e alle incertezze, ai dubbi e alle paure che mi accompagnano fin da quando sono rimasto solo. Forse queste sono le cose che mi stancano e mi fanno preoccupare della precaria resistenza della mia tempra con la quale ho sempre affrontato tutto. Non ho ancora capito se poi tutto questo continuo agitarmi abbia come fine il soddisfacimento del mio desiderio di voler lasciare un segno tangibile del mio passaggio in questa vita o sia, più semplicemente, l’appagamento di quel bisogno innato che ho di dare delle sicurezze a chi mi circonda. In entrambi i casi mi preoccupo dello scorrere del tempo, perché vorrei concludere molte delle cose che ho avviato, così da riuscire un giorno a vivere, almeno per un po’, al passo con la mia età e avere il piacere di godere del fatto di sentirmi fortunato nell’essere diventato vecchio. Ma so che per questo c’è tempo.
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC Cinerino (Viognier 100%)
Pressenda Barolo DOCG
I Rossi: Dolcetto di Dogliani DOC Papà Celso (Dolcetto 100%) Barbaresco DOCG Faset (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Rinaldi (Barbera 100%) Barbera DOC Caseret (Barbera 100%) Nebbiolo d’Alba DOC Bricco Barone (Nebbiolo 100%)
Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo, posto a Monforte d’Alba, che ha un’età media di 35 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare con forti pendenze, è posto su un terreno marnoso con varie chiazze argillose ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 380 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte, quindi viene fatta svolgere, nei roto-maceratori di acciaio termocondizionati, una criomacerazione che si protrae all’incirca per 24-30 ore alla temperatura di 14°C. Dopo questa prima fase si innalza la temperatura, facendola oscillare fra i 25 e i 34°C, dando avvio alla fermentazione alcolica di 12 giorni e contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce e dopo una breve decantazione, si dà avvio alla fermentazione malolattica che è svolta interamente in tini di acciaio. Terminata la fermentazione, il vino è trasferito per un 50% in barrique di rovere francese a grana fine e di media tostatura, di primo e secondo passaggio, all’interno delle quali si praticano periodicamente dei bâtonnage, mentre l’altro 50% è messo in botti di rovere da 30 hl dove rimane per altri 24 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle partite in un grande tino di acciaio dove il vino rimane per 6 mesi prima di essere imbottigliato, senza alcuna filtrazione, per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 19000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con qualche riflesso aranciato, mentre all’esame olfattivo si mostra intrigante, con profumi complessi di frutti rossi maturi come mirtilli e prugne che si aprono a note speziate di vaniglia, liquirizia, cioccolato amaro e pepe bianco. In bocca è elegante, equilibrato, armonioso, con tannini morbidi quasi impercettibili; lungo e persistente, chiude con note complesse che svariano dai sentori fruttati alle note di liquirizia. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1996 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal cru del vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Marziano Abbona dal 1970, si estende su una superficie complessiva di 60 Ha, di cui 44 vitati e i restanti occupati da prati, boschi e seminativi. Collabora in azienda l’enologo Giuseppe Caviola.
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ACCORNERO
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Ermanno Accornero
Cambiare e ricambiare. Se penso alla mia vita, credo che fino ad oggi questo sia stato il filo rosso, che snodandosi, di volta in volta, mi ha accompagnato in tutte le mie traversie. Cambiare e ricambiare, un po’ perché uno vuol vedere applicate le proprie convinzioni, un po’ perché le circostanze te lo impongono e un po’ perché il cambiamento è la sola costante sulla quale si può basare l’esistenza di piccole aziende come la nostra. Cambiamenti importanti che mi hanno portato da ragazzo a diventare uomo, da inesperto a pratico e appassionato vignaiolo, mentre altre trasformazioni, più interiori e più profonde, si accavallavano le une alle altre. Sì, se guardo al mio passato e al mio presente, posso assicurare che si sono sommati tanti piccoli mutamenti che mi hanno consentito di arrivare a ciò che sono oggi, e di questa apertura al nuovo devo ringraziare mio padre, mia madre e mio fratello Massimo per essermi stati grandi supporti e valide spalle in ogni momento. È stato il loro contributo a favorire i miei mutamenti e le mie evoluzioni che molto spesso, guarda caso, hanno coinciso anche con le trasformazioni e il destino di questa azienda. Sono cambiato e ricambiato rimanendo sempre fedele a me stesso e restando sempre nello stesso posto, senza mai andarmene, senza mai allontanarmi da casa. Ho sempre sentito verso questa terra un affetto caldo, vivo e non mi ha mai lontanamente sfiorato l’idea di fare un altro lavoro se non quello del vignaiolo, un lavoro diretto come me, schietto, spontaneo, naturale, leale, che ti restituisce ciò che tu gli hai dato, che ti riserva grandi sorprese e grandi delusioni. Quando mio fratello Massimo ed io ab-
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biamo iniziato, entrambi giovanissimi nel 1980, si cominciavano già a intravedere i primi sentori di quel nuovo “rinascimento” che qualche anno dopo avrebbe colpito gran parte del mondo del vino in Piemonte. Anche noi ci sentimmo pervasi da questo fervore e, forti del sostegno dei nostri genitori, cominciammo a sperimentare nuove strade per sviluppare l’azienda di mio padre, modificandola e modernizzandola secondo quanto richiedevano i tempi, avendo ben chiaro fin da quei momenti quale fosse il nostro obiettivo: crescere senza disconoscere la tradizione enologica di famiglia, raggiungendo le dimensioni aziendali che abbiamo oggi, magari riuscendo anche a fidelizzare la nostra clientela. Insieme a mio fratello abbiamo completamente “rivoltato” questa azienda, ripensandola dalle sue fondamenta e dotandola di nuove attrezzature, di nuovi impianti e di una gestione manageriale più consona ai tempi, rimanendo però coerenti ai valori che avevamo ricevuto da nostro padre. In quest’opera di trasformazione ci hanno aiutato molti amici i cui nomi sarebbe lungo elencare. Ognuno di essi ci ha portato in dono il proprio stile e la personale interpretazione del sistema vitivinicolo, che si basa non solo su una produzione enologica di qualità, ma anche su quell’intreccio che unisce il territorio alle famiglieaziende da sempre fonte energetica inesauribile per questa terra. Famiglie cementate da legami d’affetto, di lavoro e di condivisione di ideali comuni. Quasi come se fosse uno “stile Piemonte” che si tramanda e, nonostante le mode e le distrazioni, sembra ancora non esaurirsi e rimane un faro che, pur cambiando e ricambiando tutto intorno a sé, anche i modi, le tecniche e i sistemi di fare il vignaiolo, illumina e indica la rotta ai naviganti dando certezze e riconoscibilità al sistema sociale di tutto il territorio. Questo stile Piemonte si riscontra sempre più nell’originalità e nella schiettezza dei vini prodotti qui in Monferrato. Anch’io sento di appartenere a questo stile, come se fossi una vite piantata in questo terreno dal quale attingo energia. Credo che tutto ciò dipenda dall’esempio che uno riceve, da cosa ti hanno insegnato e dal valore che attribuisci a ciò che possiedi, al di là di prevenzioni, divieti e dinieghi che hai ricevuto. Con mio fratello abbiamo sempre condiviso tutto, convinti entrambi che queste vigne e queste mura fossero un bene prezioso da difendere e da far fruttare. Ora purtroppo sto facendo un altro importante cambiamento nella mia vita di cui avrei preferito fare a meno: abituarmi all’assenza di mio fratello, prematuramente scomparso. È un difficile esercizio fra la ragione e i sentimenti del cuore; da una parte il desiderio di riaverlo qui, di poter condividere ancora con lui la nostra comune passione, e dall’altra la certezza e la rassegnazione che ciò non sarà possibile. Mi rimangono molte cose di lui che metto tra le memorie più care; spesso mi trovo a sfogliare il diario delle sue vendemmie, su cui annotava ogni particolare, come se avesse voluto fermare il tempo per renderlo riconoscibile anche quando quegli anni sarebbero poi stati ormai lontani. Segnava ogni cosa: date, quantità dell’uva, andamento della stagione, creando un archivio aziendale unico e irripetibile. Sento che mi manca tanto e questa volta credo che cambiare e ricambiare non sarà facile.
Altri vini I Rossi: Barbera del Monferrato DOC Superiore Bricco Battista (Barbera 100%) Barbera del Monferrato DOC Giulin (Barbera 100%) Monferrato Rosso DOC Centenario (Cabernet Sauvignon 80%, Barbera 20%)
Cima Riserva della Casa Barbera del Monferrato DOC Superiore Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla selezione delle migliori uve Barbera provenienti dal vigneto dell’azienda, posto in località Cima, nel comune di Vignale Monferrato, le cui viti hanno un’età media di 40 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei argillosi con forte presenza di tufo, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Barbera 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito intorno alla metà di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 20 giorni ad una temperatura compresa tra i 35 e i 38°C in recipienti di acciaio termocondizionati, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono praticati délestage, follature e frequenti rimontaggi. Terminata questa fase, il vino viene posto immediatamente in barrique nuove di rovere francese a grana fine e di media tostatura dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 24 mesi durante i quali vengono fatti periodicamente dei bâtonnage e 2 travasi. Conclusa la maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, dopo un breve periodo di decantazione e senza alcuna filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 24 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino scuro con riflessi violacei, con profumi polposi di frutti rossi e di confettura di ciliegie con una venatura che ricorda la pesca e percezioni sensoriali che si aprono poi a note speziate di tabacco da pipa, legno di cedro, crema e menta. In bocca ha un’entratura calda, importante, quasi imponente, da grande vino in possesso di una struttura solida, con tannini dolci e un’equilibrata sapidità che gli conferiscono buona persistenza, lunghezza e longevità. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1998 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Accornero dal 1897, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 23 Ha, di cui 20 vitati e 3 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Alberto Pansecchi e l’enologo Mario Ronco.
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ALESSANDRIA GIANFRANCO
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Gianfranco Alessandria
“Nan na ’nta cutunina” - Non sono nato certo nel cotone io. Anzi, avendo poca voglia di studiare, mio padre pensò bene di mandarmi subito a lavorare con l’intento almeno di farmi comprendere quale fosse il sapore del sacrificio e il senso di responsabilità che ognuno deve avere, a prescindere dal fatto che lavori sotto padrone, che tu sia un imprenditore di successo o un libero professionista più o meno affermato. Oggi, arrivato alla soglia dei miei cinquant’anni, devo riconoscere che forse ho iniziato un po’ troppo presto a volermi sentire più grande e maturo della mia età. A questa mia precocità contribuirono in ogni caso, oltre agli esempi che quotidianamente mi forniva mio padre, anche quei soldi che guadagnavo onestamente come falegname e che contribuirono a farmi sentire importante e autosufficiente. Ricordo che a sedici anni per me era una festa poter andare il sabato al bar del paese alla guida del mio motorino. In quel luogo, affollato e pieno di fumo, strinsi le amicizie che ancora oggi sono fra le più vere. Da una parte c’erano i vecchi che si accanivano nel gioco delle carte e che in un rumoroso silenzio picchiavano, forte e con decisione, le nocche sul tavolo nella speranza di ottenere dal compagno di gioco quella carta che li avrebbe condotti, secondo loro, a vincere la partita e imprecando poco dopo quando ciò non accadeva; dall’altra parte, un po’ scostati, noi ragazzi, sempre a parlare delle ragazze del paese, della settimana appena passata, delle avventure che avremmo potuto vivere se avessimo sconfitto le nostre reticenze, dei “se” e dei “ma” di cui è piena la storia delle genti di queste Langhe.
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Amicizie vere, sincere, che via via si sono andate consolidando e che mi hanno aiutato, qualche tempo dopo, non solo a valutare attentamente l’opportunità di commercializzare le uve che producevamo nella piccola azienda di famiglia, che contava e conta tutt’oggi solo cinque ettari di vigneti, ma anche fornendomi quell’aiuto necessario per iniziare a vinificare, così da costruire “insieme” un percorso enologico che contribuisse a dare il giusto risalto a questa terra. Nel 1986, quando morì mio padre, mi ritrovai davanti a un bivio: da una parte l’opportunità di continuare a crogiolarmi nelle sicurezze che mi dava il lavoro della falegnameria e automaticamente vendere l’azienda ai prezzi poco incentivanti di quell’epoca, dall’altra licenziarmi e dedicarmi alla campagna, intraprendendo il mestiere di mio padre: il contadino. Non ebbi dubbi e scelsi di dedicarmi a quelle vigne di famiglia, anche se il momento, mio malgrado, non si dimostrò uno dei più favorevoli, segnato dallo scandalo del metanolo che investì tutto il settore vitivinicolo italiano, e da una disastrosa grandinata che non solo mi distrusse tutta la produzione di quell’anno, ma condizionò fortemente anche le produzioni degli anni successivi. Fu una partenza in salita, difficile, soprattutto economicamente; tutto ciò mi consentì però di approfondire quelle nozioni tecniche che erano e sono alla base di una produzione viticola di alta qualità e che appresi lavorando al fianco dello staff di un’importante azienda, con la quale mi ero impegnato al conferimento annuale delle uve e che mi fornì per diversi anni assistenza agronomica. Avevo seguìto mio padre nei momenti cruciali della vendemmia, ma mi rendevo conto di non conoscere quale fosse il reale ruolo e l’importanza della vite in enologia; a malapena conoscevo quelle quattro regole che mi erano state tramandate dalla tradizione orale dei vecchi contadini. Ignoravo completamente i fini e lo scopo delle nuove tecniche di diradamento, della vendemmia verde o di come interagissero fra di loro tutti gli altri piccoli e importanti accorgimenti che è necessario attivare affinché in vigna si possa innalzare il livello qualitativo delle uve per arrivare a produrre grandi vini. Con il tempo maturai, sia come contadino, sia come uomo, sentendomi un privilegiato ad ogni vendemmia che passava e sempre più fortunato per la bellezza del lavoro che avevo scelto di intraprendere. La mia fu una crescita lenta, come quella delle mie vigne, che mi portò a considerare tutti gli aspetti della nuova professione, fino a farmi giungere verso la metà degli anni Novanta a decidere di andare per la mia strada e imbottigliare direttamente tutta la mia produzione, staccando quel cordone ombelicale che mi legava alla sicurezza della vendita delle uve. Era un salto verso l’ignoto, ma dalla mia parte, questa volta, avevo più sicurezze e più certezze, fra cui quella di aver imparato a fare il contadino e di questo ero convinto osservando il mio quotidiano impegno e guardando sia le mie mani, ruvide e callose, sia il colore della mia pelle, scuro come la terra. Questo lavoro, fatto di poche parole, ti infonde fierezza e ti pone a confronto con il tempo. Proprio stando a contatto con la terra e con le vigne ho capito come sarebbe stato il vino che io avrei prodotto e così è stato. È solo con questa convinzione che riesco, nonostante la mia timidezza, ad andare in giro per il mondo a vendere il mio vino, comunicando non tanto le sue peculiari qualità organolettiche o le tecniche che utilizzo per farlo, ma soprattutto ciò che esso rappresenta per me.
Altri vini I Rossi: Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG San Giovanni (Nebbiolo 100%) L’Insieme Vino da Tavola (Nebbiolo 40%, Barbera 30%, Cabernet Sauvignon 30%) Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%)
Vittoria Barbera d’Alba DOC Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Barbera provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località San Giovanni nel comune di Monforte d’Alba, i quali hanno un’età media di 75 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti si trovano in una zona collinare su terreni tufacei, calcarei e sabbiosi e sono posti ad un’altitudine compresa tra i 400 e i 430 metri s.l.m. con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Barbera 100% Sistema di allevamento: cordone speronato con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è introdotto in tini di acciaio termocondizionati dove si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 15 giorni ad una temperatura che non supera mai i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura di media 5-7 giorni con l’ausilio di frequenti rimontaggi giornalieri e due délestage e follature durante tutta la vinificazione. Terminata questa fase, si effettua la svinatura e dopo una decantazione che dura all’incirca 15 giorni il vino viene trasferito in barrique di rovere francese di 1° passaggio, per un 65% a grana fine e di media tostatura, in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 18 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle partite in tini di acciaio; qui il vino rimane per 30 giorni prima di essere imbottigliato, senza alcuna filtrazione, per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di venire commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso violaceo con riflessi bluastri, il vino presenta all’esame olfattivo aromi intensi di marasca, frutta a bacca rossa e note speziate dolci. L’entrata in bocca è elegante, equilibrata, con una distinta e piacevole personalità e una buona sapidità che lo rendono piacevole e lungo con una nota, in chiusura, di fragoline selvatiche. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1996 - 1999 - 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che porta lo stesso nome della madre e della figlia di Gianfranco, il proprietario, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Gianfranco Alessandria dal 1986, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 5,5 Ha, tutti vitati. Svolge le funzioni di agronomo e enologo lo stesso Gianfranco Alessandria.
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ALTARE ELIO
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Elio, Silvia e Elena Altare
Se ti devo raccontare un po’ di me per riuscire a farti comprendere chi sia Elio Altare, devo narrarti la mia vita attraverso alcuni eventi, più o meno significativi, iniziando proprio da uno in particolare che forse ha segnato in qualche modo un punto di partenza sul quale ho consolidato il mio pensiero di uomo e di vignaiolo. Voglio narrarti di quella sera quando, a casa di Enrico Scavino, una ventina di produttori eravamo riuniti tutti intorno a un tavolo. Seduto al mio fianco avevo “Mister Parker”, il grande giornalista, che per l’occasione aveva richiesto di poter degustare i vini di alcune aziende riferiti alle vendemmie del 1988 e del 1990. Credimi, la situazione era abbastanza buffa e non devi fare molti sforzi per immaginarti lo stato d’animo dei commensali: si capiva benissimo a quale punto fosse giunta quella sua degustazione. Lo scandire del tempo non era dettato dall’orologio, ma dalle espressioni dei produttori e dal silenzio in cui gli stessi sprofondavano quando si accorgevano che era giunto il momento del loro vino. Fino a un attimo prima avevano scherzato e parlato con chi era seduto loro accanto, poi improvvisamente si chiudevano in un religioso silenzio scrutando ogni movimento espressivo di quel viso, rimanendo in trepida attesa del responso che, per onore di cronaca, gratificò un po’ tutti i presenti, riconoscendo il giusto valore a quei vini. Non ti nascondo che quando assaggiò i miei vini cercai di darmi un contegno, di non far vedere, più di tanto, quanto tenessi a quel suo giudizio. Stette in silenzio per quasi un quarto d’ora davanti a quelle bottiglie, passandosi i bicchieri da una mano
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all’altra e portandoli più volte al naso, sorseggiando ripetutamente. Quei minuti mi sembrarono un’eternità e non so se riesci ad immaginare cosa provai quando, terminata la degustazione dei miei vini, Parker si alzò e mi abbracciò dicendomi “Hai realizzato un vino che mi lascia senza parole, bravo!” Quel suo abbraccio e quelle parole sono scolpite nella mia mente. Era la conferma che tutto quello che avevo avviato più di vent’anni prima era giusto. Non sapevo minimamente dove mi avrebbero condotto quelle mie radicali e rivoluzionarie scelte che erano state contrastate e criticate da tutti. Avevo lavorato tutti quegli anni come se fossi stato in miniera, al buio, avendo a disposizione, per illuminare il mio cammino, solo il mio orgoglio, la mia cocciutaggine e il sogno di riuscire, un giorno, a fare dei grandi vini capaci di rimanere freschi, giovani, lunghi e persistenti nel tempo, come quelli che si producono in Borgogna. Ti posso assicurare, amico mio, che in quell’abbraccio c’era la ricompensa morale dei miei sacrifici e delle mille difficoltà che avevo dovuto superare negli anni per proseguire sulla strada che mi ero prefissato di percorrere. Ma, non è facile voler cambiare le cose, il precostituito e le convinzioni. È stato molto difficile, specialmente quando cresci accanto a un padre padrone colpito dalla miseria di questa campagna di “Langa” che aveva sempre dato poco e dalla quale non c’era da aspettarsi molto; un padre che non accettava né il mutamento, né chi aveva il desiderio di modificare lo status quo delle cose. Ma come dargli torto? E quale dialogo avrebbe potuto avere con un figlio che aveva scelto stupidamente di stare in campagna, invece di andare a lavorare in fabbrica? Quelli erano anni difficili, anni in cui iniziò il grande esodo verso le città e i giovani si vergognavano di lavorare in campagna, perché nessuna ragazza si sarebbe mai fidanzata o sposata con un “buzzurro” che faceva il contadino. Ricordo che un anno andai ad Alba a vendere l’uva per quindici giorni di fila. Al Caffè Umberto, dove si riunivano i commercianti e i mediatori, noi contadini ci dovevamo mettere in fila sulla strada perché non potevamo parlare con i primi e rammento che ogni minuto passato in coda era una frustata al mio orgoglio e quella fila era uno schiaffo alla mia dignità di uomo e di contadino. Fu così che decisi di varcare i confini e di andare in Francia per capire come i vignerons transalpini riuscissero a vendere una bottiglia di Bordeaux o di Borgogna a prezzi cento volte superiori a quanto riuscivamo a fare noi con il nostro Barolo. Fu in quelle terre che compresi quanto fosse diverso l’approccio al “problema vino” e quale fosse il reale potenziale che sa dare la vigna. Piano piano tutto mi sembrò più chiaro e meno complicato di quanto pensassi. Con il tempo convinsi mio padre ad affittarmi l’azienda dietro un lauto indennizzo di 100.000 lire mensili, una cifra che, ti posso assicurare, in quegli anni aveva un valore. Con quel contratto in mano rivoluzionai tutto. Eliminai i pesticidi, gli anticrittogamici, segai il frutteto e le botti vecchie di cento anni che erano in cantina, adoperai per la prima volta le barrique: tutto questo con l’obiettivo di provare a fare il mio vino e con il risultato di ritrovarmi diseredato alla morte di mio padre. All’inizio, avendo molti dubbi su come applicare quelle tecniche transalpine al Nebbiolo, ci furono molti insuccessi e ancora oggi rammento le parole di Paul Pontalier di Château Margaux che, assaggiando i miei primi esperimenti, mi disse: “Caro Elio, tu devi fare il vino per la barrique e non usare la barrique per fare il vino”. Il resto lo puoi scoprire da solo se hai occhi per vedere. Se guardi dalla finestra la mia azienda capisci come io tenga alle mie vigne e se osservi la serenità che metto nel fare le cose, puoi gioire anche tu con me nel vedere quale è il piacere che le mie figlie mettono in questo lavoro. Ma sai cos’è che mi inorgoglisce maggiormente in tutta questa storia? Non è tanto essere indicato oggi come un produttore “importante”, quanto essere portato come esempio avendo contribuito a dare, insieme ad altri, una nuova dignità a questo mestiere di contadino, proprio con l’intento di concedere delle opportunità ai tanti giovani che hanno voglia di continuare a vivere sulla terra dove sono nati.
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Arborina (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG La Morra (Nebbiolo 100%) Langhe Rosso DOC Arborina (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%) L’Insieme Vino da Tavola (Cabernet Sauvignon 40%, Barbera 20%, Nebbiolo 20%, Dolcetto, Syrah, Petit Verdot 20%)
Larigi Langhe Rosso DOC Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Barbera provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Larigi, nel comune di La Morra, le cui viti hanno un’età di 58 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto è posizionato in una zona collinare con terreni calcarei ad un’altitudine di 280 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Barbera 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 7000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima settimana di ottobre, si procede ad una diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto viene inserito dentro il rotomaceratore e sottoposto per 24 ore ad una macerazione a freddo condotta a 22°C, al termine della quale, facendo rialzare la temperatura fino a 28-32°C, si dà l’avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 4-6 giorni. Durante questa breve vinificazione si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura 4 giorni; in questo periodo vengono effettuati rimontaggi e macro ossigenazioni. In seguito il vino viene immesso in barrique nuove di rovere francese di media tostatura a grana fine, dove termina la fermentazione alcolica e dove rimane per 19 mesi, durante i quali, sulle proprie fecce, svolge la fermentazione malolattica. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino impenetrabile con riflessi violacei e con profumi che denotano una grande struttura che si apre a percezioni speziate complesse di cioccolata, cannella e caffè, con sentori di tostatura, nocciola e frutti rossi come more, prugne e fragoline selvatiche. In bocca ha un’entratura potente, pulita, con tannini vellutati e di grande fibra che non coprono né l’eleganza, né la sapidità, elementi che conferiscono al vino lunghezza e persistenza. Prima annata: 1984 Le migliori annate: 1987 - 1989 - 1990 - 1996 - 1997 1999 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà di Elio Altare dal 1988, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 5 Ha, tutti vitati. Svolge la funzione di agronomo e di enologo lo stesso Elio Altare.
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Alberto Antoniolo
Credo sia stato Leonardo Da Vinci a porre l’uomo al centro dell’universo e a sostenere che la sua libertà consiste nel separare e dividere i molteplici aspetti dell’esistenza in generi, classi e categorie, assegnando ad ognuno il ruolo e il merito che compete loro. Questo schematismo solo apparente, che potrebbe sembrare arido e freddo come tutte le cose matematiche o scientifiche, in realtà prende spunto dalla necessità di ognuno di noi di avere un ordine e dal desiderio di godere il più possibile dei molteplici aspetti dell’esistenza. È in questo modo che credo di rapportarmi a ciò che mi circonda, siano questioni di lavoro o faccende inerenti alla mia vita privata. Ogni cosa al proprio posto, con un suo spazio e una sua importanza, cercando, per quanto mi è possibile, di concedere a ciascuna il giusto tempo; così mi ritrovo, durante il giorno, a fare il contadino, il vignaiolo, il cantiniere, la sera a immergermi nei miei affetti e nei miei hobbies. Per me riuscire a separare e a dividere i tempi della mia giornata è importante e decisivo per il raggiungimento del mio equilibrio, perché vuol dire anche essere presente, con la mente e con il corpo, in ciò che faccio, gustando a fondo quel piacere che ogni cosa mi trasmette. È questo che mi piace fare, perché in definitiva soltanto così trovo una mia personale calma interiore e quella sicurezza che mi fa rendere al massimo nell’azienda e nei rapporti quotidiani; allo stesso modo trovo l’appagamento anche nella semplice scelta di un libro, nello stare in mezzo alle mie vigne o nell’affrontare quegli sporadici viaggi che mi conducono, non appena possibile, al mare o in montagna. Da quella calma scaturisce anche una personale interpretazione del mondo del vino,
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un po’ distante da quella di molti altri miei colleghi; ad esso io attribuisco un giusto peso e un giusto valore, ma, pur ponendomi al suo cospetto in modo schietto, serio e professionale, attraverso il mio lavoro di vigneron, gestisco e comunico il mio saper fare in modo semplice e naturale come le cose che faccio, certamente non indossando quell’aureola che si mettono in testa alcuni “grandi personaggi” del settore, vezzeggiati come contadini poetici e sognatori o lusingati come esperti wine maker o business man del vino. Io non sono cambiato e non ho modificato minimamente il mio approccio al vino neanche dopo l’ottenimento di prestigiosi premi e riconoscimenti: per lavorare indosso la mia solita tuta, quella che mi ricorda sempre chi sono e ciò che devo fare. Per me fare vino non è business, né una procedura contabile, ma un impegno che attinge a cose più profonde e si addentra laddove forse nemmeno io posso guardare; cose che forse vanno a toccare tasti importanti di quelle scelte di vita che ho fatto quando ero ancora giovanissimo o quelle effettuate più tardi nei confronti della famiglia; scelte che con il tempo mi hanno consentito di attribuire certe priorità alle cose e hanno determinato i limiti entro i quali le stesse dovevano stare. Per nessuna ragione potrei mai rinunciare al mare, alla montagna, al piacere di leggere o di passare il tempo con la persona alla quale voglio bene e non penserei mai di fare delle telefonate, alle 10 di sera, al mio distributore piuttosto che al rappresentante o ad un giornalista, né farmi delle paranoie per ritrovarmi, la domenica mattina, a controllare la cantina come fanno certi miei amici produttori. No, non mi ci vedo a diventare pazzo per la mia azienda, anche se so che è importante e che per mandarla avanti mi devo impegnare dalla mattina alla sera. Però, quando finisco, mi tolgo la tuta e penso ad altro; per esempio, mi diverto spesso ad intuire, leggendo taluni libri, se diventeranno dei best seller. Di recente mi è successo con un libro di Sebastian Junger, giornalista del New York Times, dal titolo La tempesta perfetta, nel quale si racconta la storia del Capitano Tyne, che, desideroso di mettersi alla prova, decide con la sua barca di solcare l’Oceano Atlantico nonostante condizioni meteorologiche avverse, ritrovandosi, di lì a poco, nel bel mezzo di una grandiosa e insuperabile tempesta. Un libro bellissimo, devo dire, che “schiocca come una serratura perfettamente oliata”, con un meccanismo di suspence che mi ha lasciato con il fiato sospeso e che mi ha anche affascinato, poiché, mentre lo leggevo, mi contrapponevo a quel capitano. Sicuramente io non sarei mai partito con quelle previsioni meteorologiche; avrei atteso momenti migliori. A me non piace rischiare stupidamente per dimostrare il mio valore; conosco bene i miei limiti e faccio sempre ciò che so fare cercando di farlo bene, secondo le mie possibilità, anzi, se devo essere sincero, nelle mie cose preferisco più andare “in levare” che “in mettere”. Forse ragiono così perché in realtà sono attaccato e interessato a tutto e a niente, anche se a una cosa di sicuro non rinuncerei: avere la possibilità un giorno di poter lasciare tutto questo a un figlio, così da dedicarmi alle altre cose della vita che questo impegno quotidiano non mi ha consentito di assaporare a pieno, fra le quali, forse la più importante è sicuramente quella di poter girare il mondo in lungo e in largo insieme alla mia compagna. Non è male come punto d’arrivo, vero?
Altri vini I Rossi: Gattinara DOCG Vigneto Osso San Grato (Nebbiolo 100%) Gattinara DOCG Vigneto San Francesco (Nebbiolo 100%) Coste della Sesia DOC Nebbiolo Juvenia (Nebbiolo 100%) Coste della Sesia DOC Rosato Bricco Lorella (Nebbiolo 100%)
Vigneto Castelle Gattinara DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto nel comune di Gattinara, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni morenico-vulcanici con forte presenza di minerali, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 450 metri s.l.m. con esposizione a sud con filari est-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 14 giorni in vasche di cemento ad una temperatura che non supera mai i 32°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati 2 délestage, follature periodiche e frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene lasciato decantare nei contenitori per circa 1 mese, poi è inserito in barrique nuove di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimane per 24 mesi; in questo periodo svolge la fermentazione malolattica e subisce il travaso. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 3000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta all’esame visivo di un bel colore rosso rubino con riflessi aranciati, mentre all’esame olfattivo offre un percorso sensoriale fresco che spazia da note fruttate di lamponi a quelle di menta, dal ribes al rabarbaro, dai chicchi di caffè al pepe; chiude con interessanti note minerali. In bocca ha un’entratura elegante, equilibrata, sia nel corpo che nella fibra tannica. Bella l’acidità e la mineralità che rendono il vino fresco; lungo e persistente, chiude con un retrogusto di rabarbaro. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1989 - 1990 - 1996 - 1998 - 1999 2000 - 2001 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà di Alberto Antoniolo dal 1948, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 20 Ha, di cui 12 vitati e gli altri occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda la mamma Rosanna, la sorella Lorella e l’enologo Francesco Bartoletti.
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Luigi Scavino
Se un giorno incontrassi un bambino che mi domandasse quale lavoro faccio, non so se mi potrei trattenere dalla tentazione di raccontargli una meravigliosa favola sull’argomento; di sicuro lo guarderei dritto negli occhi, sorridendogli, poi, serenamente, lo metterei seduto sulle mie ginocchia e tenendogli la manina gli direi: “Sai, io faccio il lavoro più bello del mondo, faccio il contadino, il vignaiolo, il cantiniere, il commerciante, faccio... faccio un sacco di cose in un mestiere solo. Vuoi saperne di più di quello che faccio? Vuoi che ti racconti la favola del mio lavoro?” Sono sicuro che mi guarderebbe incuriosito e con gli occhi spalancati, senza proferire parola, annuirebbe, con un cenno della testa, per incoraggiarmi a proseguire. “Il mio non è un mestiere facile da imparare, ci vuole tempo, tanta applicazione e tanta passione ed è molto importante che tu abbia accanto qualcuno che te lo insegni. Io sono stato fortunato, perché avevo mio padre che si è prodigato per tutta la sua vita in consigli e per me è stato un esempio importante da seguire, anche se alcune cose che mi ha insegnato erano un po’ vecchie rispetto all’evoluzione scientifica che lui, ahimé, non ha conosciuto, mentre altre cose erano importantissime, segrete e devi sapere che molte di queste non sono scritte neanche sui libri. Erano le stesse cose che gli aveva insegnato suo padre, mio nonno e, a quest’ultimo, suo padre e così via da generazioni, e anche se tu andrai a scuola e vorrai controllare sui libri se quello che ti racconto oggi è vero, non troverai niente di scritto su tutto questo, da nessuna parte. Perché tu andrai a scuola quando sarai più grande, vero?” Farebbe solo un piccolo cenno del capo per darmi conferma e per invitarmi a pro-
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seguire in quella storia che non ha mai sentito. Con la bocca aperta, lì pronto a ricevere una nuova imbeccata di una favola che ha il sapore di cose sconosciute che appartengono ad un mondo in via d’estinzione. “Si apprendono tante cose stando a contatto con la terra, si impara a rispettare la natura, a stare in equilibrio con la stessa, avendo cura di comprendere quali siano i suoi bisogni e le sue necessità. È un lavoro che per la maggior parte del tempo si svolge all’aria aperta, al vento e al sole, non si sta chiusi in un ufficio come fanno in molti e devi sapere che, fra le zolle e il cielo, si gioca tutto il giorno ed è per questo che gli occhi ti diventano ‘buoni’. Si impara a conoscere le vigne e a comprendere quando è il momento di potarle, quando bisogna legare i tralci, quando l’uva è matura, quando è dolce e pronta per essere mangiata o vendemmiata, così da poter fare il vino. Devi sapere, però, che per imparare a fare tutto questo ci vuole tempo, devi diventare grande e poi vecchio per arrivare a conoscere parecchie, ma parecchie cose che appartengono, per la maggior parte, più al mondo delle ipotesi, dell’esperienza, dei se e dei ma, che a quello delle certezze. Il bello è che mentre impari a fare tutte queste cose, contemporaneamente diventi anche un ‘cavaliere del tempo’ e ti nominano sul ‘campo’ con una grande cerimonia, dandoti il titolo di ‘attento osservatore delle stagioni’ e ‘interprete del loro passaggio’ oltre a quello di ‘fido scudiero e guardiano della terra’. Ti danno un cappello, un fazzoletto legato intorno al collo, una bellissima tuta e ti mandano in mezzo alle vigne, su e giù per queste colline. Sai, è un onore e per questo cavalierato non mi hanno mai pagato, non mi hanno dato un centesimo, ma in compenso, di questa onorificenza mi sono sentito orgoglioso e gratificato. A te piacerebbe diventare, quando sarai vecchio, un grande ‘cavaliere del tempo’? Sì?” Sono sicuro che scuoterebbe la testa più volte in senso affermativo, in silenzio, senza chiudere la bocca, attento ad ogni mia parola. “Bene, ma prima di tutto, se deciderai anche tu di diventare un ‘cavaliere del tempo’ dovrai conoscere tutto, proprio tutto della tua terra, della cantina, di come si lavorano le uve, di come matura il vino e ogni altra cosa, e sai perché? Perché qui, in questo lavoro, tutto è differente da qualsiasi altro lavoro che tu conosci ed è diverso anche da quello del tuo vicino, perché è differente la terra, ora più grassa o più secca, con meno argilla o più sabbia; perché sulla tua terra crescono in modo diverso le viti che si nutrono di ciò che trovano e perché c’è diversità fra il clima e il tuo modo di ragionare e di pensare intorno al mondo del vino. Come te, del resto, che sei diverso dagli altri bambini e reagisci e ti comporti in modo diverso se ti faccio il solletico”. Sorriderebbe. “ O se ti dessi un morsetto...” Si pulirebbe con la mano la guancia dove ho appoggiato la mia bocca. “Sei diverso anche se ti chiami Luigi come me e come tanti altri e forse, come altri bambini, da grande vorrai fare il contadino, il vignaiolo, il cantiniere, il commerciante e tutto, e dico tutto quello che c’è dentro al mestiere più bello del mondo”. Mi fermerei un attimo, per capire il grado d’interesse che ha sulla storia e dopo un sicuro “Ancora!”, riprenderei spedito. “Sai, dopo aver passato tante vendemmie e aver contato le stagioni, quelle buone e quelle brutte, mi sono accorto di essere diventato un esperto e saggio cavaliere del tempo che si è appuntato, per filo e per segno tutto quello che è successo sulla sua terra e nella cantina, a partire da quante volte è caduta la grandine o ha nevicato o è venuta una gelata, fino ad arrivare a contare i tempi precisi di quanto il vino deve rimanere a riposare e a maturare, tempi che, devi sapere, variano molto a seconda dell’annata e di come si è evoluta la maturazione delle uve. Bisogna segnare tutto, non tanto perché uno sia un fanatico della casistica, ma perché tutto fa parte della tradizione orale che mi serve per poter raccontare ciò che faccio ad altri bambini come te. Come vedi, io sorrido quando parlo del mio lavoro, perché a me piace pensare che quando uno stappa una bottiglia del mio vino capisce che dentro non c’è solo una bevanda, ma c’è la mia favola, c’è il mio lavoro, che è il lavoro più bello del mondo e che ho la fortuna di svolgere qui in queste Langhe che mi hanno visto crescere e che oggi vedono crescere te”.
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Bricco Fiasco (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG (Nebbiolo 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Vigneto Punta (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC Bricco dell’Oriolo (Dolcetto 100%)
San Rocco Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località San Rocco in frazione Baudana nel comune di Serralunga d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei e argillosi, sono posti ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dai primi di ottobre fino alla fine del mese, si procede alla diraspapigiatura delle uve e il pigiato ottenuto è inserito all’interno di roto-maceratori di acciaio termocondizionati, nei quali si dà l’avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 15 giorni alla temperatura massima di 28°C, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura 8-10 giorni durante i quali vengono effettuati minimo due rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene è trasferito in barrique di rovere francese di Allier di primo e secondo passaggio dove svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per 24 mesi con almeno 4 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle partite in un grande tino di acciaio in cui il vino rimane per 6 mesi prima di essere imbottigliato, senza alcuna filtrazione, per un ulteriore affinamento che dura altri 9 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso scuro con riflessi granati e con note olfattive vigorose e complesse di polpa di ciliegia, ribes e lievi percezioni di fragoline selvatiche che lasciano spazio a note speziate di cacao e cannella con un finale di liquirizia. In bocca è ben strutturato, armonioso, con un’entratura calda e con tannini evidenti, ma non aggressivi, che insieme ad una buona sapidità lo rendono piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1996 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Scavino dal 1942, l’azienda è oggi gestita da Luigi Scavino e si estende su una superficie complessiva di 13 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Nicola Algamante, mentre svolge la funzione di enologo lo stesso Luigi Scavino.
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Sergio Barale
Io e mio fratello giocavamo a fare il vino. Prendevamo un po’ di uva dai canestri e la pigiavamo con un vecchio torchio giocattolo, impegnandoci, anche noi, a riempire qualche bottiglia di vino. Quasi un sistema didattico per imparare giocando e ricordo che attendevamo, con gioia e frenesia per tutto l’anno, la vendemmia; quell’atmosfera di festa ci piaceva molto e rammento che scorrazzavamo dalla vigna alla cantina e dalla cantina alla vigna seguendo tutte le operazioni dei grandi, sentendoci importanti. Avrò avuto 6 o 7 anni e credo che sia proprio per questo che ancora oggi quando sono nella vigna o in cantina mi diverto e il tempo si ferma rammentando la magia di quando rimanevo sorpreso da ciò che succedeva sotto i miei occhi per quegli acini gonfi di succo che si trasformavano in un vino denso di aromi, pieno di profumi; un’incredibile spremuta di terra, sole, luce e aria delle Langhe. Quei giochi appartengono alle mie memorie e si arricchiscono con le tradizioni che riguardano la mia famiglia e il mio territorio; ci tengo che queste rimangano vive e non siano cancellate completamente da questo nuovo sistema globale che distrugge ogni identità, livellando tutto in una normalizzazione dei gusti, dei sapori e dei pensieri che non può che nuocere a chi, come me, è parte integrante di questo territorio con la sua forte connotazione storica e culturale. So poco dei vini del mondo, di cosa accade nelle altre aree vitivinicole o di quali siano le ultime innovazioni tecnologiche, ma conosco profondamente l’uva Nebbiolo, che è un vitigno splendido nella sua integrità di frutto, che ha bisogno di un territorio dove ci sia il tufo per poter dare il meglio di sé, perché è il tufo che dà potenza a questo vitigno. Non so tante cose,
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ma so che con un caterpillar non si possono inventare o riassettare zone posticce, dove poi piantare le viti. Io so che il territorio ideale per il Nebbiolo è questo, che è irripetibile e che è necessario stare con i piedi ben piantati su di esso, portandoci appresso i nostri valori, le nostre tradizioni e le nostre memorie che per noi rappresentano non solo l’ancora di salvezza, ma il nostro riscatto dinanzi alle enormi sfide dell’economia futura. Il vino non si fa con le idee: con le idee si scrivono i libri, si fanno i quadri; il vino si fa con il territorio e quindi è necessario parlare molto più della sua ricchezza e della sua qualità che degli individui. Basta con questa storia che il vino è legato ad una persona. È falso. Questa è una storia che, come è iniziata, sicuramente finirà, perché prima o poi si comprenderà che il vino deve ritornare nei suoi alveoli; è un prodotto da bere insieme, in allegria, nella convivialità di una tavola imbandita e dentro quella bottiglia non ci sono e non ci sono mai stati né i facili guadagni, né l’immagine stupida del “grande vignaiolo”, ma quella più “socialista” di un vino che deve essere bevuto da tutti, ricchi e poveri. Ma quale grande bottiglia, ma quale grande produttore, qui è necessario ritornare a parlare solo del territorio ed è questo che dobbiamo fare noi produttori, senza avvalorare o scendere a compromessi con chi vuole ficcare il naso in cose che non conosce, come quei quatto maghi saputelli che scrivono e che, in questi ultimi anni, invece di far il bene dell’immagine del vino l’hanno distorta e distaccata dalla realtà e da quel contatto epidermico fra la totalità del tessuto sociale e il nostro lavoro di semplici contadini. Tutti scrivono di tutto, sapendo poco delle realtà di un territorio e tutti si adoperano per inventarsi qualcosa per far parlare di sé, come quelli che si sono inventati i contratti futures o la banca del vino. Rimango basito da tutto questo e dall’incongruenza e dall’arroganza di certe persone, soprattutto di quelli che hanno avuto l’idea di mettere il vino in banca. Mi domando se forse non era meglio metterlo sulla tavola della gente invece di conservarlo stupidamente in un caveau... Del resto non vedo perché dovrei ancora meravigliarmi di costoro o di tanti altri che hanno cantato una canzone giusta per un po’ di tempo, poi, davanti al proprio business, gli si è strozzata in gola, e invece di concentrarsi sulle piccole realtà produttrici per favorire l’originalità e la tipicità di intere aree, hanno pensato bene di fare soldi cavalcando il mondo del vino. Sarà che sono nato vignaiolo in un ambiente di vignaioli che hanno sempre vissuto qui a Barolo, almeno dal 1600 in poi, come risulta nell’archivio parrocchiale del paese, sarà che ho ereditato la mentalità pratica e pragmatica dei miei predecessori, persone schive, abituate a lavorare, lontane anni luce dalle smanie di protagonismo contemporanee e dalle attuali esigenze di marketing di cui sembra che tutti abbiano bisogno, ma a me tutto questo frastuono intorno al mondo del vino non piace. Io non penso affatto di essere importante, né credo che il mio successo dipenda esclusivamente da me, se non nella misura in cui mi prodigo per offrire ogni cura possibile alle mie vigne, al mio vino e a questa terra che generosamente continua a permettermi di lavorare il suo frutto più prezioso, modulandolo ogni anno e seguendo l’incomparabile creatività della natura. Non mi piace andare in giro per ristoranti alla moda o presenziare alle varie serate a tema o, ancora, in generale, apparire negli eventi mondani; non ho neppure molta simpatia per un certo entourage che vive intorno al mondo del vino che alimenta polemiche sterili o finte dicotomie fra “barolisti” conservatori o progressisti, utili soltanto per avere qualche argomento con cui riempire le colonne dei giornali o con cui assurgere ad una momentanea quanto immeritata fama. Il tempo saprà, come sempre, operare le sue selezioni, ma già oggi ho visto tanti “improvvisatori” passare e dissolversi nella stessa superficialità da cui provenivano. Per carattere rifuggo da tutti quegli accessori che contornano il mio lavoro, fiducioso che il solo messaggio che posso dare è tutto racchiuso in quella silenziosa bottiglia di vino e nella valorizzazione di questo meraviglioso paesaggio. Tutte le altre cose che potrei dire non sono che aggettivi che certamente potrebbero aggiungere o sottolineare qualcosa, ma la verità è che io sono semplicemente Sergio Barale e la mia famiglia fa il Barolo da centoventi anni. Punto e basta.
Bussia Barolo DOCG Riserva
Altri vini I Bianchi: Langhe Chardonnay DOC Vigna Bussia (Chardonnay 100%) Langhe Arneis DOC (Arneis 100%) I Rossi: Barolo DOCG Vigna Bussia (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Castellero (Nebbiolo 100%) Langhe Nebbiolo DOC Vigna Bussia (Nebbiolo 100%) Dolcetto d’Alba DOC Vigna Bussia (Dolcetto 100%)
Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Bussia nel comune di Monforte d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 40 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei e argillosi, sono posti ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a cordone speronato basso Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene a metà ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve e il pigiato ottenuto è inserito all’interno di tini troncoconici chiusi di rovere da 50 Hl nei quali si dà l’avvio alla fermentazione alcolica ad una temperatura massima di 30°C a cui segue la macerazione sulle bucce per un periodo complessivo superiore ai 20 giorni. In questo periodo si effettuano rimontaggi brevi e frequenti. Terminata questa fase, il vino viene trasferito in botti di rovere francese da 15 a 30 Hl, in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per 36 mesi con travasi annuali. Al termine della maturazione in legno, la partita di Barolo più strutturata, destinata alla riserva, viene stoccata in damigiane di vetro da 54 lt. conservate per almeno 2 anni in cantine sotterranee. Questo antico procedimento, ormai purtroppo in disuso, serve a rallentare l’evoluzione naturale del vino, mantenendo più a lungo la sua freschezza. Il vino viene poi messo in bottiglia dopo almeno 5 anni dalla vendemmia, senza aver subìto alcun tipo di filtrazione, per un ulteriore affinamento che dura 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino scuro con riflessi aranciati e con note olfattive eleganti, equilibrate, eteree, che si aprono a esperienze olfattive di agrumi e in special modo di scorza di arancia candita, oltre a note di frutta secca, fichi e prugne cotte, con chiodi di garofano e note speziate di cardamomo e pepe. In bocca è armonioso, elegante, con una fibra tannica vellutata e una bella acidità, elementi che lo rendono piacevole, lungo, persistente e longevo; chiude con note di prugne. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990 - 1995 - 1997 - 1998 - 1999 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 30 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Barale dal 1870, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 20 Ha, tutti vitati. Svolge le funzioni di agronomo lo stesso Sergio Barale, mentre quelle di enologo sono svolte da Stefano Della Piana.
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BOGLIETTI ENZO
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Enzo, Gianni e Renato Boglietti
Non ti nascondo che mettermi a fare il vino per me non ha significato seguire la moda o dare libero sfogo a una brillante idea nata all’improvviso e neanche sentirmi improvvisamente colpito da un’irrefrenabile passione per il mondo del vino e per il business che esso racchiude. No, non è stato questo ciò che mi ha fatto diventare un altro vignaiolo delle Langhe. Se, andando in giro per il mondo, incontrerai le mie bottiglie di vino messe qua e là sugli scaffali di qualche enoteca, questo è dovuto solo a quel ragionamento semplice, concreto e raziocinante che riesce spesso agli uomini di campagna che, come si sa, hanno “scarpe grosse e cervello fino”. Credo che sia stata l’evoluzione logica di quella crisi del latte italiano che ho dovuto affrontare, insieme a decine di migliaia di produttori, dal 1 gennaio 1990. Una data catartica, per me e per mio padre, che segnò la fine di un’epoca per questo territorio in cui c’erano decine di stalle come la nostra; un brutto giorno quel primo gennaio, quando rimanemmo invano nell’attesa che qualcuno venisse, come al solito, a prelevare gli oltre tre quintali di latte che producevamo giornalmente. Restammo impietriti e sconcertati. Davanti alla necessità di dover smaltire quella produzione di latte giornaliera, ci prodigammo con tutte le nostre forze, un po’ con un’improvvisata commercializzazione diretta del prodotto e un po’ arrivando anche a fare dei formaggi. Non ci volle molto per comprendere che quella non era la nostra strada e che quella guerra era persa prima ancora di cominciare.
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Non avevamo né la struttura, né le capacità per organizzare un progetto così articolato e complesso come richiedeva una vendita diretta di tutti i prodotti della filiera. Non avevamo la mentalità, né le professionalità per effettuare un salto imprenditoriale così difficile ed economicamente impegnativo; del resto come potevamo averne, visto che fino a quel momento, io e mio padre, avevamo fatto solo i contadini? Furono gli amici ad aiutarci in quei momenti difficili. Essi ci suggerirono, fra le varie soluzioni, anche quella di verificare l’opportunità di metterci a produrre vino. La cosa ci sembrò più razionale di tante altre, un’idea da sperimentare e certamente quella più semplice da intraprendere nell’immediato, almeno per tamponare la crisi. Un’ipotesi non certo bislacca, perché oltre ad una bellissima stalla, avevamo anche delle belle vigne situate nei luoghi più interessanti di tutta La Morra e le uve che producevamo erano state sempre molto richieste dai produttori della zona ai quali le vendevamo ogni anno a prezzi interessanti. Ci sembrò un’idea interessante, soprattutto perché giungeva da voci autorevoli del settore vitivinicolo come Roberto Voerzio, Bartolo Mascarello, Alessandro Fantino, Elio Altare e molti altri che, da veri amici, quando decidemmo di dar corso all’operazione, furono prodighi di buoni consigli su come incominciare a produrre vino. Non ne sapevo molto di quel mondo, ma come un bravo allievo seguii alla lettera i loro insegnamenti, facendo tutto quello che mi dicevano e fidandomi ciecamente di chi ne sapeva molto più di me. Fu così che stilai un programma di lavoro preciso, dettagliato, minuzioso, che nel settembre dello stesso anno mi portò a vinificare e nel 1991 a imbottigliare i miei primi vini per un totale di 10000 bottiglie. Con quelle bottiglie arrivarono anche le prime gratificazioni e quindi nuovi stimoli, ma, come avrai capito, il mio ingresso nel mondo del vino è stato più “necessario” che voluto. A posteriori sono certo che quella fu una scelta giusta, razionale e logica, ma conoscendomi so che se avessi deciso di fare scarpe o se avessi continuato ad allevare vitelli da carne invece che mucche da latte avrei messo in tutto ciò la stessa attenzione e la stessa passione che oggi riverso dentro questa cantina e nelle mie vigne. So che è un concetto dissacratorio rispetto a quanti affermano di essersi accostati al mondo del vino dopo aver ricevuto un segnale divino o dopo avere avuto una visione mistica! Io non ho un approccio “mistico” al mondo del vino; sono abituato a guardare la terra e a lavorare e credo che dipenda dalla semplicità con la quale affronto la vita e il lavoro, qualsiasi esso sia, a cui dedico tutto me stesso. Per riuscire in quello che tu vedi, e per il quale sei qui oggi, ho messo insieme tutte le mie forze e le mie risorse e forse anche qualcosa di più. Ho messo la mia cocciutaggine, il mio orgoglio, la mia sensibilità, la mia umiltà, l’attenzione per le piccole cose, la curiosità di andare a capire cosa c’è dietro l’angolo, per poter capire più che conoscere ciò che facevano gli altri con l’intento di migliorarmi, sapendo che nessuno avrebbe scommesso una lira su quello che stavo facendo. Oggi sono abbastanza soddisfatto di dove sono arrivato, soprattutto se penso che non sono né agronomo, né enologo, né sono uscito da master di specializzazione prestigiosi come altri colleghi produttori. Alla base dei miei risultati c’è il fatto di non avere avuto mai niente che mi condizionasse, di avere avuto una mente libera da preconcetti e culturalmente vergine nei confronti del mondo del vino e questo mi ha consentito di essere umile e di accostarmi a persone fidate, gente giusta, da cui ho preso il meglio, scartando i loro errori. Non so se è stata fortuna o se è stato qualcos’altro, fatto sta che fino ad oggi mi è andata meglio a “mungere” le vigne che le mucche...
Brunate Barolo DOCG
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Case Nere (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Fossati (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Vigna dei Romani (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC Tiglineri (Dolcetto 100%) Langhe Rosso DOC Buio (Nebbiolo 80%, Barbera 20%)
Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Brunate, nel comune di La Morra, che ha viti con un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto si trova in una zona collinare su terreni calcareo-argillosi ad un’altitudine compresa tra i 380 e i 400 metri s.l.m. con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 5 al 15 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 11 giorni alla temperatura di 32°C in recipienti di acciaio termocondizionati, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi. In seguito il vino viene posto in barrique di rovere francese di media tostatura a grana fine, per un 80% nuove, dove svolge la fermentazione malolattica e rimane per circa 15 mesi durante i quali vengono effettuati 3 o 4 travasi. Al termine di questa prima fase viene effettuato l’assemblaggio delle varie partite e il vino è nuovamente messo in botti di rovere francese da 15 e 25 Hl, dove sosta per altri 10-15 mesi. Al termine della maturazione si effettua nuovamente l’assemblaggio delle varie partite e dopo una permanenza di 2 mesi in acciaio e una chiarifica naturale, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3200 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi aranciati, mentre all’esame olfattivo manifesta profumi che abbracciano una vasta gamma aromatica, profumi complessi, eleganti che spaziano dalla confettura di more al cassis, dalle note fruttate di lampone alla menta, dalle note balsamiche a quelle di cuoio e cioccolato cubano. In bocca ha un’entratura potente, presentandosi con tannini maschi che non tolgono niente all’eleganza e all’equilibrio e con una buona sapidità che gli conferisce freschezza, lunghezza e persistenza. Chiude con una sensazione piacevolissima di cacao. Prima annata: 1991 Le migliori annate: 1996 - 1997 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Boglietti dal 1975, l’azienda agricola è condotta oggi dai fratelli Enzo e Giovanni Boglietti e si estende su una superficie complessiva di 13 Ha, di cui 10 vitati e 3 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge funzione di agronomo Giovanni Boglietti, mentre la cantina è seguita da Enzo Boglietti coadiuvato dall’enologo Sergio Molino.
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BRAIDA DI GIACOMO BOLOGNA
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Raffaella e Giuseppe Bologna
Mi sono appassionata al vino perché l’ho “respirato” sin da piccola come elemento quotidiano. Ho notato che, facendolo, riuscivo a rendere felice gli uomini e non è cosa da poco, visto e considerato che non sono Claudia Schiffer! Ho intuito molto presto che non avrei avuto molte chances se per “prenderli” avessi dovuto usare armi di seduzione come gambe lunghe o fisico da mannequin; decisi che il mezzo migliore per conquistarli sarebbe stato quello di prenderli per la gola! E certamente non poteva che essere così, avendo avuto un padre come il mio, amante della vita, sempre attorniato da amici, ottimista, goliardico e curioso ricercatore di rarità gastronomiche. Un vero e proprio intellettuale nel suo lavoro, uno che viveva il vino o qualsiasi altro prodotto agroalimentare non soltanto come puro fatto produttivo, ma anche e soprattutto come ricerca più profonda, direi quasi esistenziale, e come sintesi del ragionamento e del compromesso che si era venuto a creare fra i vari elementi, umani, naturali e materiali, che avevano consentito il raggiungimento di un risultato così squisito. Vignaiolo per vignaiolo, cantina per cantina, andava assaggiando ogni vino, buono o cattivo, per capire le capacità produttive di questo o di quel vigneto, quali fossero le potenzialità di un vitigno o di un altro, discutendo, parlando con tutti e trasferendo agli altri il suo grande entusiasmo e la sua gioia di vivere. Non ho mai pensato che la mia strada potesse essere lontana da quella del vino e questo l’ho capito quando, ancora giovanissima, compresi che dietro a quel prodotto c’era un mondo meraviglioso, tutto da scoprire. Ricordo che ciò avvenne proprio
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nel momento in cui vidi mio padre stappare una bottiglia e mettersela all’orecchio, confidandomi che il vino è anche musica ed è possibile ascoltarla, se si ha voglia di sentirla. Quel suo gesto colpì le mie fantasie e mi incuriosì conoscere di più quella metodologia di rifermentazione che si sviluppava nella Barbera che producevamo allora, la quale aveva una sua musicalità, un flebile borbottìo, che poteva essere ascoltato, avvicinando la bottiglia all’orecchio, comprendendo così se questo processo si stesse svolgendo nella maniera giusta. Le sue passioni erano i cavalli, il vino, la famiglia e la ricerca enogastronomica. Credo che quest’ultima l’avesse ereditata dalla tradizione familiare che si era radicata, almeno dal 1948, intorno alla trattoria di nonna Caterina, riconosciuta da molti come punto fermo di una grande ristorazione e di una buona ospitalità. In quella cucina deve essere successo qualcosa e quelle prelibatezze che venivano preparate giornalmente devono averlo stregato e reso felice per sempre. Forse fu quel familiare incontro con la nobiltà del cibo, del vino e quell’ospitalità amichevole a fargli comprendere quali e quanti fossero i misteri che si nascondono all’interno delle percezioni sensoriali che si celano dietro a un bicchiere di vino. Fu tramite quella trattoria che mio padre entrò in contatto con personaggi che lo stimolarono culturalmente e gli consentirono di andare in Francia a fare esperienze enologiche importanti, formandosi un grande palato, raffinato, e una capacità unica che lo conduceva a scoprire, attraverso i sensi, il terroir di un prodotto. Dopo la scomparsa di nostro padre, mio fratello Beppe ed io abbiamo cercato di costruire il nostro futuro non solo sulle cose materiali che ci ha lasciato, ma soprattutto sulla sua eredità spirituale, trovandoci in perfetta armonia con il suo modo di affrontare le cose, di interpretare il vino, di godere della vita, cercando, per quanto ci è stato possibile, di seguire il solco netto, preciso e ben visibile che lui ha tracciato. All’inizio ci siamo posti il problema di essere alla sua altezza e la cosa era inevitabile, visto lo spessore dell’uomo e posso assicurare che non è stato semplice superare questo stato di cose, anche se il sentirci sempre sotto esame ci ha fatto crescere rapidamente, nella necessità di mantenere alto il livello qualitativo della produzione e della ricerca, sia in vigna che in cantina. Poi abbiamo capito che insieme saremmo stati una duova forza, attiva e dinamica, ognuno dando il suo contributo: io con l’istintività e una buona capacità d’intuizione e Beppe con il suo pragmatismo e il suo fairplay. Oggi condividiamo non soltanto i metodi e le tecniche di quel mondo enologico che nostro padre aveva pensato e sviluppato intorno alla Barbera, ma anche quel suo pensiero illuminato di porsi davanti ai problemi e alle opportunità, in modo sempre tollerante, curioso, aperto, liberale, vivendoli in maniera semplice e diretta, con un’attenzione costante alla qualità delle cose, delle persone e delle idee.
Altri vini I Bianchi: Moscato d’Asti DOCG Vigna Senza Nome (Moscato 100%) I Rossi: Barbera d’Asti DOC Bricco dell’Uccellone (Barbera 100%) Barbera d’Asti DOC Bricco della Bigotta (Barbera 100%) Barbera d’Asti DOC Montebruna (Barbera 100%) Grignolino d’Asti DOC (Grignolino 100%) Monferrato Rosso DOC Il Bacialè (Barbera 60%, Pinot Nero 20%, Cabernet Sauvignon 10%, Merlot 10%)
Ai Suma Barbera d’Asti DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Barbera provenienti dai vigneti condotti dall’azienda, posti nel comune di Nizza Monferrato, le cui viti hanno un’età di oltre 60 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni marnosi con forte presenza di argilla e sabbia, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Barbera 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla metà di settembre e si prolunga fino alla fine di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 20 giorni alla temperatura di 26-30°C in recipienti di acciaio termocondizionati, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura invece solo 10 giorni, durante la quale vengono praticati frequenti follature.Terminata questa fase, il vino viene posto immediatamente in barrique di rovere francese a grana fine e di media tostatura, per un 70% nuove, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 15 mesi, durante i quali subisce almeno 2 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino scuro con riflessi violacei e con profumi freschi, polposi, pieni e dolci di frutti rossi, lamponi, visciole e note speziate di menta, tostatura e un finale di tartufi. In bocca ha un’entratura elegante, calda, con una struttura solida e tannini dolci, equilibrati e una grande sapidità che conferisce al vino buona persistenza e grande longevità. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 1989 - 1990 - 1998 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal termine dialettale che indica il raggiungimento del massimo grado qualitativo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Bologna dal 1961, oggi è gestita da Anna Martinengo e da Giuseppe e Raffaella Bologna. Si estende su una superficie complessiva di 70 Ha, di cui 40 vitati e 30 occupati da prati, boschi e seminativi. Collabora in azienda l’agronomo Federico Curtaz, mentre la funzione di enologo è svolta da Giuseppe Bologna.
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BRICCO MAIOLICA
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Giuseppe Accomo
Credo che tutto dipenda dalla mentalità con la quale mi hanno fatto crescere i miei genitori, interpreti perfetti del loro tempo. Andavo a scuola e studiavo, ma la cosa non mi autorizzava a distogliermi dall’impegno lavorativo che dovevo svolgere nell’azienda. Ogni membro della famiglia era chiamato a dare il proprio contributo, piccolo o grande che fosse, ed io diligentemente, fin dalla mia adolescenza, non mi tiravo indietro. Per un ragazzino, quelle erano giornate lunghe e noiose che, grazie a Dio, ogni tanto però prendevano vita, soprattutto quando ero chiamato a fare cose particolarmente impegnative per la mia età, come per esempio andare a prendere il trattore che mio padre aveva lasciato nella vigna. Non me lo facevo ripetere due volte e a quell’ordine neanche rispondevo, ma scattavo via e le mie gambe, secche e lunghe, correvano veloci come il vento che soffia in mezzo alle viti per arrivare prima possibile a quella macchina e poterla guidare poi fino a casa. La stalla, la terra e le vigne erano il parco giochi, il mio personale luna park e il passatempo obbligatorio per i miei pomeriggi liberi. Quella era una campagna dura, concreta, che regalava molta fatica, dove il lavoro non mancava mai a differenza delle “lire” che mancavano sempre ed erano troppo poche da poter spendere. E così cresci e, giorno dopo giorno, ti accorgi di impossessarti degli odori e dei sapori che ti avvolgono e ti segnano nel profondo e ti ritrovi amorevolmente prigioniero dello stesso mondo rurale in cui sei nato e di cui oggi, forse, si sono perse le tracce. Sto parlando della campagna delle Langhe, quella degli anni
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Sessanta, quando le aziende erano quasi tutte autosufficienti, a ciclo continuo, con un po’ di tutto, dove c’erano i buoi e le mucche, i campi in cui si coltivava il fieno o il granturco, dove le vigne lasciavano spazio al noccioleto e agli alberi da frutta, dove c’era l’orto e il pollaio e dove c’era un unico comandamento, che era obbligatorio rispettare alla lettera: il lavoro. Credo che sia proprio per questo che, appena finiti gli studi, non ho avuto la forza, il coraggio e l’intelligenza o la maturità di prendere la borsa e andarmene da qualche parte a vedere, almeno per un po’, le cause e gli effetti di quell’effervescenza che, agli inizi degli anni Ottanta, stava coinvolgendo tutto il mondo enologico. Sono sempre stato qui, su questi campi e fra queste vigne e solo adesso, con il passare del tempo, mi rendo conto che forse ho perso degli anni preziosi, duranti i quali sono cresciuto troppo lentamente rispetto alle attese odierne, proprio per il fatto di non aver cercato l’opportunità di confrontarmi e di misurarmi con altre realtà. La mia è stata una gavetta lunga, faticosa e difficile, che mi ha visto sciupare più tempo del necessario per arrivare al punto in cui sono oggi e, sicuramente, più di quanto ne avrei impiegato se avessi fatto esperienze diverse, in altre cantine, a contatto con altra gente che ne sapeva più di me. Non mi sto certo battendo il petto in un triste mea culpa, ma, serenamente e col senno di poi, riconosco che non è stata una bella idea rimanere in questo “guscio” che ti porta a stare fuori dal mondo e ti conduce, se ti va bene, a convincerti di essere un “padreterno”, il più furbo e il più intelligente di tutti, o altrimenti lo scemo, lo stupido del villaggio. Nonostante tutto ne ho fatta fare di strada a questa piccola azienda. Quando sono entrato a tempo pieno, finiti gli studi, il lavoro della cantina era marginale, era un complemento, come la stalla e i campi e mio nonno e mio padre si accontentavano di fare il vino d’annata per venderlo sfuso, in damigiana o all’ingrosso senza porsi problemi sulla qualità. Quella che ho intrapreso io è stata una strada diversa da quella che avevano percorso loro, forse più tortuosa di quella che stavano utilizzando le altre aziende anche della zona, ma che, in ogni caso, mi ha consentito di mettere radici solide e di far crescere, con il grande contributo di tutta la famiglia, quest’azienda in modo concreto, rinnovando i vigneti, che in questi ultimi dieci anni hanno ricoperto completamente la superficie aziendale, modificando la cantina, nella quale è stata inserita, con moderazione ed equilibrio, della tecnologia e cambiando il nostro approccio al mercato. Un lavoro meticoloso, razionale, progressivo, senza troppi picchi né strappi, che nel tempo mi ha portato ad avere molte gratificazioni fra cui l’onore di ricevere in azienda la visita del principe Carlo d’Inghilterra. Quello che è stato è stato e ormai non ho molti rimpianti su cosa avrei potuto fare e non ho fatto, perché ho la certezza di essere cresciuto sia come uomo, sia come vignaiolo. Andando via avrei acquisito più sicurezze, più determinazione e forse avrei modificato un po’ questo mio carattere chiuso, taciturno e introverso che mi accompagna da sempre e non mi consente di aprirmi e di avere molti argomenti di cui parlare, se non quello monotematico che riguarda il mio lavoro. Non so se tornando sarei stato diverso, ma credo che avrei avuto meno attenzione e sensibilità a quei valori, legati alla terra, che ancora oggi mi affascinano. Non so se riesco a spiegare quali siano questi valori, ma io li trovo all’interno dei ritmi della vita che svolgo, sana e genuina, che è sicuramente diversa da quella di altri luoghi; li ricerco all’interno delle sfumature cromatiche di cui si veste la campagna al cambio delle stagioni; sono sicuramente all’interno dell’attesa dello stagionale andamento vegetativo della vigna e dell’evoluzione del vino in cantina; li cerco nella serenità che respiro fra le mie viti; di certo sono nei grandi occhi buoni dei buoi che ancora, per passione, tengo nella vecchia stalla, nei quali ritrovo il sunto completo del mio essere contadino.
Sorì Bricco Maiolica Diano d’Alba DOC
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC Rolando (Chardonnay 50%, Sauvignon Fumé 50%) I Rossi: Barbera d’Alba DOC Vigna Vigia (Barbera 100%) Nebbiolo d’Alba DOC Cumot (Nebbiolo 100%) Langhe Pinot Nero DOC Lorié (Pinot Nero 100%) Langhe Merlot DOC Filius (Merlot 100%)
Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Dolcetto provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Bricco Maiolica nel comune di Diano d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 20 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni marnosi e tufacei, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 420 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Dolcetto 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve e quindi si effettua una macerazione a freddo di 48 ore durante le quali la temperatura del pigiato viene abbassata a 8-10°C. In seguito si fa rialzare la temperatura fino ai 25°C e si avvia la fermentazione alcolica che si protrae per 7 giorni in recipienti di acciaio termocondizionati, mentre contemporaneamente avviene anche la macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati due rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, al vino, sempre mantenuto in tini di acciaio, vengono fatti almeno tre o quattro travasi nell’arco del primo mese prima di lasciare avviare la fermentazione malolattica, conclusa la quale è trasferito in barrique di rovere francese di terzo e quarto passaggio per almeno 4 mesi. Al termine di questa breve maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo circa 2 mesi di sosta in acciaio il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 15000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un colore rosso rubino con riflessi purpurei, mentre al naso è immediatamente fresco, elegante, con suadenti sentori fruttati di fragoline selvatiche e ciliege oltre a note speziate di nocciole, nuances floreali di mammola ed erica e ad un finale di agrumi canditi. In bocca risulta equilibrato, elegante, con tannini morbidi e con una buona sapidità che conferisce lunghezza e persistenza. Chiude ancora con note di fragoline selvatiche. Prima annata: 1982 Le migliori annate: 1990 - 1995 - 1996 1998 - 1999 2000 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Accomo dal 1928, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 22 Ha, di cui 20 vitati e 2 occupati da prati, boschi e seminativi. In azienda svolge la funzione di agronomo e di enologo Giuseppe Accomo.
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CA’ VIOLA
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Giuseppe Caviola
Credo di essere una persona fortunata, perché in definitiva esercito un mestiere che mi piace, mi appassiona e nel praticarlo mi diverto. Non sento né la fatica, né lo stress e non conto i giorni della settimana che mi separano dal sabato e dalla domenica. Non ho bisogno del weekend per ricaricarmi; fortunatamente è una cosa che mi succede quotidianamente ed ogni occasione è buona per trovare stimoli giusti. Succede quando vedo che il mio modo di essere e di propormi incontra l’approvazione degli altri, con i quali, volutamente e piacevolmente, creo un rapporto d’amicizia che dura nel tempo; succede quando le mie scelte professionali contribuiscono a migliorare la qualità dei vini delle aziende con cui collaboro, oppure quando quello che produco nella mia piccola azienda incontra il favore del mercato e della critica; succede anche quando amorevolmente incrocio lo sguardo di Simonetta, la mia compagna, con la quale condivido i sogni, i sacrifici e gli impegni che ho assunto. Non è stato semplice raggiungere questo obiettivo personale che oggi mi fa vivere in equilibrio e serenamente il presente e mi proietta in un futuro ricco di prospettive. Come si usa dire, “niente viene per caso” e per me è stato così e se è anche vero che nessuno ti regala niente, posso assicurare che tutto quello che sono riuscito a ottenere l’ho conquistato con dedizione, impegno e tanti sacrifici. Non sono molti anni che fornisco assistenza tecnica alle aziende che si trovano al di fuori dei confini di questa zona delle Langhe. La mia è stata una scelta ponderata, che ha richiesto tanto tempo, tanto quanto è stato necessario per capire, conoscere e
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sviscerare quali fossero gli aspetti del mio lavoro, così da soddisfare il mio approccio e il modo che ho di interpretare la professione dell’enologo. Un mestiere che mi spinge a cercare, prima di tutto, un feeling con il territorio su cui sono chiamato a operare, cercando di comprendere, per quanto è possibile, quali siano le scelte da effettuare sul vigneto, fonte primaria per ogni successiva e ulteriore disquisizione sul vino. Sono sempre stato convinto che, per essere consulenti, non bastasse aver studiato: c’era bisogno di acquisire le sicurezze e l’esperienza che solo una grande pratica sa dare, e allo stesso tempo, del resto, c’era bisogno di conoscere mille altre sfumature e piccole cose che dovevano essere prima di tutto osservate e poi comprese. Appena diplomato non conoscevo le sfaccettature e i risvolti che interagivano sul sistema vigneto, anche se comprendevo le grandi potenzialità racchiuse in un vitigno e le migliori metodologie da utilizzare per ottenere il massimo. Non sapevo invece quale fosse la migliore tipologia di potatura da applicare a una vite di oltre sessant’anni e come la stessa dovesse essere trattata nel tempo. Per fare questo ho impiegato anni, trovandomi immerso, dopo la scuola, in una realtà completamente diversa da quella che era scritta sui libri. Dal 1982, anno in cui mi sono diplomato, ho preferito attendere fino al 1996 prima di prendere la decisione di allargare i miei orizzonti professionali. Dopo il diploma avevo due scelte a disposizione: quella di mettermi a fare il “Cagliostro” della situazione e diventare uno di quegli enologi che prendono, un po’ qua un po’ là, tutto quel che serve per fare il vino che vuole l’azienda, oppure azzerare ogni cosa e ripartire dalla base, dalla professione del contadino, per riuscire a capire cosa vi fosse realmente nel legame che esiste fra la terra e la vite e fra l’uomo e la terra e come questi elementi interagissero con le stagioni, nella speranza, se fosse stato possibile, di definire dei miei personali parametri sul significato vero del termine terroir. Lo stimolo verso questa mia decisione era scaturito dalla constatazione e dalla semplice presa di coscienza di quanto io fossi impreparato trovandomi a contatto con i vignaioli “storici” della zona, soprattutto quando incominciavano a parlarmi di vigne e di viti. Mi accorgevo che in quei momenti non avevo argomentazioni; con loro non avevo dialogo e rimanevo muto ad ascoltare le loro logiche deduzioni, per me poco comprensibili, sulle cause e sugli effetti di un loro intervento nel vigneto che aveva migliorato o soccorso l’andamento vegetativo delle piante o di quali metodologie avevano utilizzato per salvare alcune viti giunte oltre i sessant’anni di vita. Non mi serviva a nulla, una volta tornato a casa, aprire i libri di viticoltura: lì dentro non c’era una sola risposta alla mia curiosità. Compresi che le cose che udivo erano parte integrante della storia vitivinicola del territorio, informazioni che non avevano un proprietario. Erano parole che si trovavano a vagare un po’ ovunque, arricchite a ogni vendemmia dall’esperienza e dal racconto di un altro contadino. Nozioni di vita, difficili per me da codificare, perché comprensibili solo a chi ha vissuto decine di vendemmie. Esperienze che si sentono raccontare fra i filari dai vecchi vignaioli che sanno ascoltare il vento e sanno, con le loro chiacchiere, arricchire la tradizione orale della terra cui appartengono. Capii che se volevo diventare un bravo enologo dovevo “calarmi” nelle vigne e vivere la professione del contadino di questa zona che è una delle poche, in Italia, dove esiste un radicato senso della cultura della vite. Fu così che presi in affitto una vigna con il mio amico e attuale socio Maurizio Anselmo e dopo qualche anno produssi, in una specie di cantina poco più grande di un garage, le prime bottiglie di vino. Si trattava di poche centinaia di esemplari; se non ricordo male erano per l’esattezza 450 per il Barturot e poco più di 200 per il Bric du Luv. Quei vini ebbero un grande successo e finirono anche nelle mani di ottimi professionisti della ristorazione. Quei successi iniziali non mutarono i miei piani, ma contribuirono a darmi delle certezze e una maggiore convinzione sulla strada che avevo intrapreso e che comincia a delinearsi pianeggiante. Per questo mi ritengo un po’ fortunato.
Altri vini I Rossi: Dolcetto d’Alba DOC Barturot (Dolcetto 100%) Dolcetto d’Alba DOC Vilot (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC Brichet (Barbera 100%) L’Insieme Vino da Tavola (Barbera 30%, Nebbiolo 30%, Pinot Nero 30%, Cabernet Sauvignon 10%)
Bric du Luv Langhe Rosso DOC Zona di produzione: il vino è un blend prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Barbera e Nebbiolo provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Ceppa Mortizzo nel comune di Montelupo Albese, che hanno un’età media di 55 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti che si trovano in una zona collinare, su terreni di medio impasto ricco di marne con presenza di sabbia e argilla e una percentuale di calcare attivo abbastanza alta, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 450 s.l.m. con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Barbera 95%, Nebbiolo 5% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di ottobre, si procede a una diraspapigiatura delle uve e il pigiato ottenuto segue una vinificazione analoga, ma separata, che prevede un protocollo operativo per ogni vitigno con lo svolgimento della fermentazione alcolica in recipienti di acciaio termocondizionati che di solito si protrae per 1215 giorni alla temperatura massima di 30°C, mentre contemporaneamente è fatta svolgere anche la macerazione sulle bucce con frequenti rimontaggi e almeno 4-5 délestage durante tutta la vinificazione. Terminata questa fase, si effettua la svinatura e dopo una breve decantazione i vini sono trasferiti in barrique di rovere francese a grana fine e di media tostatura, per un 40-60% nuove e le altre di primo e secondo passaggio, in cui svolgono la fermentazione malolattica e dove rimangono per circa 15 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle partite e il blend ottenuto, senza alcuna filtrazione, viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 11000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino intenso e con profumi complessi che spaziano dalla piacevole percezione di mele e prugne cotte per arrivare a quella di confettura di lamponi e aprirsi successivamente a note dolci di cassis e cioccolato bianco. In bocca è caldo, elegante, equilibrato, armonioso, risultando piacevolmente rotondo, vellutato, con note fruttate che rimangono ben impresse ed evidenti per un lunghissimo tempo. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990 - 1995 - 1998 - 1999 - 2001 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dalla collina dove è posto il vigneto, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Giuseppe Caviola dal 1990, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 12 Ha, di cui 10 vitati e 2 occupati da prati e boschi. Collabora in azienda l’agronomo Giampiero Romana, mentre svolge la funzione di enologo lo stesso Giuseppe Caviola.
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CANTINA SOCIALE DI VINCHIO Lorenzo Giordano E VAGLIO SERRA
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Sono pochi anni che ricopro la carica di Presidente di questa Cantina Sociale e credo che l’incarico mi sia stato affidato più che per la ricchezza delle conoscenze enologiche in mio possesso, per le mie doti di oratore e organizzatore che ho acquisito ricoprendo con grandissimo onore, per un decennio, la carica di Sindaco di Vinchio e poi quella di Segretario provinciale del Sindacato della Federazione Italiana Agricoltori. Nata nel 1959 come associazione tra viticoltori, questa cantina sembrò fin da subito l’unica risposta concreta alla crisi che aveva colpito la viticoltura in quegli anni, durante i quali si assisteva all’abbandono delle campagne verso la città e alla totale mancanza di una qualsiasi politica economica finalizzata al sostegno di aree rurali come questa. Unirsi e cooperare sembrò una buona idea, creativa oltre che ottimistica, rispetto al diffuso malessere e all’incertezza che aleggiava fra queste colline e che impediva alle famiglie di progettare un futuro sereno che permettesse loro sia di rimanere nella terra d’origine, senza sperimentare la sofferenza dell’emigrazione, sia di non dover sottostare a una frustrante rassegnazione. Ma riuscire a mettere insieme più pensieri e più interessi in Piemonte, dove l’individualismo e la diffidenza fanno parte delle forme più recondite del carattere degli uomini, poteva risultare un’impresa titanica. Fin da subito non mancarono né le polemiche, né le discussioni sulla sistemazione
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dell’immobile: c’erano quelli di Vaglio che volevano realizzarlo nel loro paese, mentre invece quelli di Vinchio ritenevano che il loro territorio comunale fosse più adatto. Una diatriba che si protrasse per anni e che oggi potrebbe farci sorridere, se non riflettessimo sul fatto che, in quegli anni, avere la cantina vicina alla propria azienda significava fare meno strada e perdere meno tempo, visto che il mezzo di trasporto più diffuso era il carro con i buoi. Fu così che la cantina fu costruita su un terreno a cavallo fra i due comuni, a metà strada, scontentando tutti, ma ponendo fine a una polemica sterile e lanciando le basi affinché negli anni la struttura potesse allargarsi senza problemi, fino a giungere agli oltre 22.000 metri quadri attuali. Oggi, parlando con qualche vecchio socio, si ha la certezza che quei primi anni non furono facili: la scelta di cooperare tutti insieme comportò non solo uno sforzo culturale e un radicale cambiamento di abitudini, ma anche un grosso sacrificio, se si considera che, per scaricare l’uva, alcuni partivano con i carri la mattina e tornavano a casa la sera. Ne è passato di tempo e oggi, ormai, siamo tutti convinti che ognuno di noi può avere un grande ruolo nella difesa e nella tutela del proprio territorio, ma io credo che, ancora di più, questo ruolo possa essere attribuito a una Cantina Sociale come la nostra, che funziona bene, che ha resistito e ha saputo adattarsi ai cambiamenti del mercato enologico, che ha svolto un lavoro sociale di ripartizione degli utili, sostenendo l’economia di molte famiglie, presidiando un territorio e valorizzando lo stesso, motivando il comparto vitivinicolo a innalzare il livello qualitativo della produzione, impedendo, in questo mezzo secolo di attività, che queste colline si spopolassero e si ricoprissero di boschi: e questo non è poco! È stato ed è un progetto condiviso da molte persone che hanno lavorato per costruire insieme una realtà migliore, capace non solo di dare un esempio, ma anche di modificare il tessuto sociale di un’intera area con l’apertura di ristoranti, agriturismi e altre attività collegate al turismo enogastronomico. È una lunga storia, posta sulla strada che dagli inizi degli anni ‘60 conduce fino ai nostri giorni, costellata di scelte impegnative, discusse, ma approvate e condivise; un gioco di squadra che ha innescato una escalation che ci ha portato dalla vendita di vino sfuso fino alla commercializzazione di prodotti di grande qualità, premiati da un consenso generale in tutto il mondo. Io, del resto, come Presidente di questa Cantina cerco di dare il mio contributo nella crescita e sperimento ogni mattina, quando mi reco sul posto di lavoro, la grande gioia di vedere che ognuno si adopera per fare qualcosa di utile, per sé e per le numerose famiglie dei nostri soci. Un lavoro molto positivo, portato avanti da una équipe affiatata, motivata dall’idea di svolgere una funzione di responsabilità per conto e in nome di chi ha vissuto qui, da sempre, tendendo filari e zappando terra, legando germogli, maledicendo la grandine e benedicendo il buon raccolto. Non c’è dubbio che questa Cantina Sociale, con il suo operare, trasmetta quotidianamente un senso di appartenenza a una collettività, un elemento che sostiene e che, in qualche modo, è anche un’occasione di crescita. È chiaro che, se non ci fossero stati questi risultati, non sarei forse qui a parlarne e, per questo, deve essere rivolto un particolare ringraziamento all’enologo Giuliano Noè, che ci ha fatto capire quale fosse la strada giusta per creare una nostra identità produttiva, in grado di porci all’attenzione dei mercati nazionali e internazionali; ma ci sono anche molte altre persone da ringraziare, a partire dai Presidenti che mi hanno preceduto fino ad arrivare a ogni singolo socio che, consapevole del proprio ruolo, si adopera per portare in cantina uve sempre più “belle”. Per questo oggi guardiamo al futuro con ottimismo, sostenuti da risultati concreti e dalla certezza che “l’unione fa la forza”.
Altri vini I Bianchi: Monferrato Bianco DOC Lipiai (Müller Thurgau 50%, Cortese 30%, Chardonnay 20%)
I Rossi: Barbera d’Asti DOC Bricco del Moro (Barbera 100%) Barbera d’Asti DOC Superiore Vigne Vecchie (Barbera 100%) Barbera d’Asti DOC Superiore Nizza Bricco Laudana (Barbera 100%) Barbera d’Asti DOC Superiore I Tre Vescovi (Barbera 100%) Monferrato Rosso DOC Tutti per Uno (Barbera 50%, Cabernet Sauvignon 40%, Merlot 10%)
Sei Vigne Insynthesis Barbera d’Asti DOC Superiore Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Barbera provenienti da porzioni di vigneti, di proprietà dei soci conferitori, posti nei comuni di Vinchio, Vaglio Serra, Cortiglione, Incisa Scapaccino, Castelnuovo Belbo e Castelnuovo Calcea, le cui viti hanno un’età non inferiore ai 40 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argillosi, calcarei e sabbiosi, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Barbera 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 7000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito verso la fine di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10-12 giorni ad una temperatura compresa fra 26 e 30°C in rotomaceratori orizzontali di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono praticati meccanicamente frequenti follature e rimontaggi. Terminata questa fase, il vino viene posto immediatamente in barriques nuove di rovere francese a grana fine e di media tostatura dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 18 mesi al termine dei quali si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, dopo un breve periodo di decantazione e senza alcuna filtrazione, viene imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 9 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino scuro con riflessi granata e con profumi freschi, polposi, pieni e dolci di frutti rossi, lamponi e ciliegie e note speziate di tostatura, tartufi e liquirizia. In bocca ha un’entratura potente, elegante, calda, oltre ad una struttura solida da grande vino, con tannini fibrosi e una grande sapidità, elementi che conferiscono al vino grande persistenza, lunghezza e longevità. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001 - 2003 Note: il vino, il cui nome indica la “sintesi” dell’amore, dell’impegno, della volontà, della scienza enologica e della passione dei Viticoltori Associati di Vinchio & Vaglio Serra, raggiungerà la piena maturità dopo circa 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione dovrebbe essere compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: la Cantina Sociale di Vinchio e Vaglio Serra è operativa dal 1959 e in essa conferiscono le uve 180 soci che operano sul territorio di Vinchio e Vaglio Serra e di alcuni comuni limitrofi su una superficie di oltre 320 Ha. Collaborano in azienda l’agronomo Lorenzo Giordano, che è anche il Presidente della Cooperativa, il direttore Ernestino Laiolo, il capo cantiniere Massimo Sguotti e l’enologo Giuliano Noè.
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CAPPELLANO TEOBALDO
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TeobaldoCappellano
Sono nato in una terra cosmopolita, un coacervo di etnie e di culture diverse provenienti da tutto il mondo che mi hanno consentito di crescere senza troppi pregiudizi e con una visione molto ampia dell’altro. Quell’Eritrea, che mi ha visto diventare uomo, era un mondo dove il diverso non era poi tanto diverso quanto sarebbe potuto apparire qui in Italia; lì l’italiano faceva l’italiano e l’eritreo faceva l’eritreo, ognuno per la sua strada, senza troppe interferenze, nel massimo rispetto delle reciproche tradizioni e culture. A quest’apertura mentale contribuì molto la composizione della mia struttura familiare, con una nonna eritrea e un padre piemontese, affiancati da un nonno lombardo, per di più massone. In casa regnava una piacevole anarchia che trovava la sua ragione d’essere nella complessità delle diverse culture presenti, dando l’idea che tutto potesse anche essere il contrario di tutto; l’eccezione in alcuni casi diveniva regola e nel Corno d’Africa la rigidezza della legge era spesso sostituita dal buon senso di una logica e più semplice convivenza sociale, sicuramente più complessa che in Italia. Era un piccolo mondo, lontano e abbandonato dalla madre patria, che aveva dovuto, per necessità, far fronte a molte difficoltà e sopperire a mancanze strutturali importanti derivanti dalla perdita della guerra, che in quest’area era avvenuta nel 1941, anziché nel 1945. La conseguente chiusura del canale di Suez, che aveva provocato l’impossibilità per la comunità italiana di importare qualsiasi cosa, stimolò la genialità che solo noi italiani sappiamo esprimere. Infatti si cominciò a veder circolare per le case di tutto: pasta di grano duro, pane, panettoni, parmigiano, mozzarelle e anche il vino che produceva mio padre e che, se la memoria non m’inganna, era abbastanza commestibile.
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C’era quasi tutto e a quello che mancava si sopperiva con l’ingegno e con la cultura del fai da te. Abitando in periferia, la mia vita passava dalle favelas, che erano vicino casa, ai circoli buoni della città di Asmara. Tutte le domeniche si “usciva”, si andava al mare o a caccia con vetture che erano, con le frontiere chiuse e con i tassi doganali alle stelle, dei veri reperti storici, che bisognava conoscere e riparare, anche in savana. È con questa grande esperienza e con questa capacità di adattamento che sono tornato in Italia negli anni ‘70, ritrovandomi, come alternativa al mio passato, questa antica e prestigiosa azienda di famiglia, nella quale ho profuso anima e corpo per riuscire a fare il vignaiolo. Non è stato un passaggio facile, anche se avevo l’esperienza per riuscirci. Qui non c’era una cultura cosmopolita e aperta come quella che avevo lasciato; in quegli anni le Langhe erano molto diverse da oggi. Come un camaleonte ho cercato di trasformarmi in un contadino piemontese e da africano, come mi sento, ho provato a ragionare come uno di loro cercando di scoprire quanto di quel mio mezzo sangue piemontese circolasse ancora nelle mie vene e scoprendo, via via, il significato del culto del lavoro e della proprietà. Con gli anni ho imparato a convivere con la chiusura e la reticenza del vicino, scoprendo i lati positivi e negativi dei “langhetti” e il vero significato di quella ospitalità, falsa e cortese, necessaria più che voluta, ragionata, intorno alla quale si sono costruiti meccanismi di una micro economia contadina che si è andata evolvendo. Con il tempo ho sempre più apprezzato la concretezza e la riservatezza di questi uomini di campagna che conoscevano bene quale fosse la differenza sostanziale fra l’apparire e l’essere, conservando, fino a poco tempo fa, una schiettezza riscontrabile da poche altre parti. Oggi sono contento di essere qui e di avere avuto un carattere del genere che mi ha consentito di non mollare e di proseguire a fare vino. Scelta genetica questa, dovuta forse al fatto che mio padre faceva vino, come lo faceva mio nonno e il mio bisnonno, e credo di aver continuato a farlo perché è l’emblema massimo della socializzazione, perché è anarchia, perché è la cosa che ha consentito all’uomo di essere ciò che è; è l’elemento che ha mosso il mondo e cambiato la sua storia, mutato le abitudini dei popoli e innescato gli scambi commerciali fra gli stessi. Oppure vino forse solo per il semplice motivo che mi hanno forzato a esercitare questo mestiere che non credevo potesse così coinvolgermi, ma che mi ha fatto innamorare di lui e di tutto quello che ruota intorno al suo mondo. Spesso mi soffermo a godermi lo spettacolo che il vino è riuscito a costruire intorno a sé, a partire proprio dall’identità che ha saputo dare ai territori di produzione e alla dignità che ha saputo far riconquistare al mestiere del contadino. E cosa dire poi di tutte le chiacchiere, le passioni, le emozioni che suscita e che alimenta? Oggi una marea enorme di persone è coinvolta piacevolmente intorno al vino, gente che ha riscoperto il piacere dell’olfatto, del gusto, dei sensi, che socializza, discute e che ha sviluppato una maggiore sensibilità verso la qualità e ha movimentato, anche economicamente, tutto l’ambiente del vino, il quale, a sua volta, ha mosso una marea di strumenti comunicazionali. Un mondo fatto non solo di luccichii e lustrini, per questo non so quanto sia sopravvalutato, ma che, comunque, ha avuto il grande merito di salvaguardare l’ambiente, creare occupazione e focalizzare l’attenzione nei confronti dell’agricoltura. Ciò che non mi piace di questo mondo è la superficialità di pensare che un voto, posto accanto alle mie etichette su una guida, possa determinare il giudizio, più o meno positivo, sul mio lavoro nel quale ho messo la passione e anche forti sentimenti non descrivibili certamente da un numero. Alla soglia dei miei sessant’anni ho deciso di smettere di prendere voti, anche perché, quando incontro un amico, non voglio sentirmi chiedere quale votazione mi ha dato Robert Parker. “Ma cosa vuoi che me ne freghi” gli rispondo. “Sono ateo, vuoi che mi preoccupi del giudizio di un uomo?” Con gli amici voglio parlare di altre cose, chiedere loro se stanno bene e se anche in famiglia stanno bene, voglio parlare del lavoro, cercando, per quanto possibile, di non essere invadente e di fare poca “ombra” agli altri, anche se, purtroppo, la mia è un’ombra ingombrante!
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%)
Barolo Chinato Vino Aromatizzato DOC Zona di produzione: il vino è frutto della miscelata fra una concia a freddo di più di 13 erbe aromatiche macerate in alcol puro con del Barolo Docg prodotto dalla vinificazione delle uve Nebbiolo del vigneto di proprietà dell’azienda posto in località Gabutti, nel comune di Serralunga d’Alba, che ha viti con un’età media di 50 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare con il 35% di pendenza, su terreni argilloso-calcarei, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 300 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda metà di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è immesso in tini di legno dove si avvia la fermentazione alcolica che si protrae a temperatura ambiente fino all’esaurimento degli zuccheri; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi manuali. Terminata questa fase, il vino viene posto in botti di rovere di Slovenia dai 12 ai 50 Hl dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 40 mesi durante i quali vengono praticati, a seconda delle annate, dai 2 ai 5 travasi. Al termine di questo lungo periodo di maturazione il vino è trasferito in tini di acciaio inox per una naturale decantazione. Ottenuta la certificazione della Docg, si inserisce nel Barolo la concia ottenuta dall’infusione delle erbe e delle spezie in alcol e zucchero, che di solito dura 15 giorni e che rappresenta il 25% della massa totale. Dopo circa 5-6 mesi e dopo una leggera filtrazione, il Barolo chinato è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura 2 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 4500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi aranciati e con percezioni olfattive complesse, intriganti, di china e assenzio a cui si aggiungono un’infinità di altre note speziate come cannella, anice stellato, noce moscata, liquirizia, menta, cardamomo, tamarindo e rabarbaro, oltre all’archèrmes, con una piacevole evoluzione che riporta alla mente una zuppa inglese di altri tempi. In bocca è piacevole, caldo, elegante, fine, con un equilibrio fra naso e bocca quasi perfetto che lascia spazio a sensazioni che confondono, sia di amaro, sia di dolce, chiudendo con note di china e tamarindo. Prima annata: 1895 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 50 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Cappellano dal 1870, l’azienda è gestita oggi da Teobaldo e Augusto e si estende su una superficie complessiva di 3 Ha, di cui 2,75 vitati. Svolge la funzione di agronomo e di enologo lo stesso Teobaldo Cappellano.
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CASCINA LA BARBATELLA
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Emiliana Martini e Angelo Sonvico
Un mio amico dice che sono l’uomo più fortunato che lui conosca. Io credo invece di essere una persona che si è posta sotto la protezione di una angelica “general ministra e duce” dei beni mondani che ha fatto sì che nella mia vita le cose avessero un corso piacevole. Ci sono uomini che si rovinano con il gioco, con l’arte, con il vino, mentre altri, come me, hanno attraversato indenni tutte queste passioni e come fachiri che camminano sul fuoco sono riusciti a sfruttarle facendole diventare parte integrante della loro vita scegliendo di porsi sempre dalla parte di chi sa comandare il proprio destino. Questa mia personale visione della vita mi ha condotto a trovare diversi modi con cui appagare i miei desideri; piccole o grandi iniziative attraverso le quali sono sempre riuscito ad ottenere ciò che desideravo. Ricordo che, amando tremendamente l’arte nelle sue più svariate forme e dovendo investire in quadri e altri oggetti, nella dispendiosa ricerca del “bello” ritenni che la forma migliore per appagare la mia passione fosse quella di aprire una galleria d’arte a Milano; più tardi, invece, trovai modo di soddisfare la mia attrazione per il mondo dei cavalli aprendo delle agenzie ippiche, che tutt’oggi gestisco, e il piacere di bere un buon bicchiere di vino è stato soddisfatto dall’acquisto di questa piccola azienda vitivinicola. Non so spiegarmi però quale sia il motivo che mi spinga a misurarmi con le cose, quale forma di sfida mi stimoli a confrontarmi con le mie passioni, che solo all’apparenza sembrano molto diverse fra loro, ma che invece hanno in comune un elemento che le contrad-
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distingue: l’irripetibilità. Ogni quadro è diverso dall’altro, ogni corsa di cavalli è diversa da quella successiva e ogni annata produce un vino mai uguale a se stesso, sempre unico. Credo che, in definitiva, sia stata proprio questa caratteristica ad invogliarmi a conoscere e ad approfondire ciò che il mio ego richiedeva, riuscendo a trasformare le mie passioni in lavoro; una specie di self made man che ha costruito il suo mondo su ciò che gli piaceva. Sono sempre stato un appassionato di vini, ma ricordo che mi piaceva in modo particolare la Barbera di Giacomo Bologna, i cui profumi e percezioni sensoriali mi spinsero a cercare l’opportunità di provare autonomamente a produrre il mio vino. Nel giro di qualche anno, con l’aiuto dell’enologo Giuliano Noè, piantammo un magnifico vigneto di Cabernet Sauvignon e risistemammo quelli di Barbera già esistenti, battezzando il nuovo vigneto con le note suadenti delle nove Sinfonie di Beethoven che un mio amico architetto, appassionato di questo grande musicista, nelle sere d’estate, faceva “ascoltare” alla mia vigna con il potente impianto stereo della sua macchina, convinto che se io avessi voluto ottenere un grande vino avrei dovuto far ascoltare a quelle viti una grande musica! In definitiva posso dire di essere riuscito a realizzare molte cose nella mia vita alle quali mi sono sempre appassionato, mantenendo viva la curiosità e la gioia di fare, accettando sempre nuove sfide per conoscere e apprendere, sostenuto in questo, e incoraggiato, dalla mia famiglia, da mia moglie e dai miei figli. Soltanto la salute ultimamente mi fa sentire un po’ meno fortunato per via di qualche acciacco legato all’età, visto che non sono più un ragazzino. So che non si può avere tutto dalla vita, ma confesso che non mi piace poi così tanto invecchiare e che vorrei essere anch’io immortale come le nove Sinfonie di Beethoven e non dover venire a patti con le cose che si possono o non si possono più fare quando si comincia ad andare in là con gli anni. Il tempo sfugge e trascina via tutto, ma con questo mio modo di fare ho l’illusione di fermarlo un po’, nella speranza di essere un giorno ricordato. Comunque c’è una cosa che avevo preventivato di realizzare e che ancora non sono riuscito a fare, un mio vecchio progetto: aprire un ristorante, ma chissà, forse un giorno… Devo dire, comunque, che quando scorro così velocemente le pagine della mia vita, mi rendo conto che in definitiva quel mio amico ha ragione nel definirmi un uomo fortunato, perché, ancora oggi, continuo ad avere nel cassetto dei sogni da realizzare e la cosa non mi sembra di poco conto.
Altri vini I Bianchi: Monferrato Bianco DOC Noè (Cortese 60 %, Sauvignon Blanc 40%) I Rossi: Barbera d’Asti DOC (Barbera 100%) Monferrato Rosso DOC Sonvico (Barbera e Cabernet Sauvignon) Monferrato Rosso DOC Mystère (Barbera 50%, Cabernet Sauvignon 35%, Pinot Nero 15%)
La Vigna dell’Angelo Barbera d’Asti DOC Superiore Nizza Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle uve Barbera provenienti dal vigneto omonimo (cru) di proprietà dell’azienda, posto in località Strada Annunziata nel comune di Nizza Monferrato, le cui viti hanno una età di circa 60 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei tendenti al sabbioso, è posizionato ad un’altitudine di 220 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Barbera 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di ottobre, si procede a una diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto viene avviato alla fermentazione alcolica che si protrae per 10-12 giorni ad una temperatura che non supera mai i 28-30°C in recipienti di acciaio termocondizionati. Durante la fermentazione avviene una macerazione delle bucce per l’estrazione del colore e dei tannini nobili mediante ripetute miscelazioni del mosto (rimontaggi). Terminata questa prima fase, il vino rimane in acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica; quindi viene immesso in barrique di rovere francese a grana fine e tostatura leggera per il 30% nuove e per il 70% di secondo passaggio, in cui rimane per 812 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e il vino, dopo un periodo di decantazione, viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 8500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati e con profumi che denotano grande struttura e che si aprono lentamente a una complessa speziatura di pepe bianco, note di nocciola e caffè, sentori di frutti rossi come fragoline selvatiche e mirtilli e percezioni floreali di rosa rossa. In bocca ha un’entratura pulita, importante, con tannini vellutati e con una buona sapidità, elementi che conferiscono al vino lunghezza e persistenza. Prima annata: 1984 Le migliori annate: 1989 - 1990 - 1991 -1997 - 1998 - 1999 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Emiliana Martini Sonvico dal 1982, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 4,5 Ha, di cui 3,5 vitati e 1 occupato da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Piero Roseo e l’enologo Giuliano Noè.
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Renato, Alessandro, Sergio e Marco Dogliotti
Quando avevo quattordici anni, siccome non avevo tanta voglia di studiare, mio padre Redento pensò bene di comprare una cascina e di mettermici a lavorare dentro, come forse era giusto che facessi, visto che ero il più grande, il primo di tre fratelli e una sorella, e qualcuno avrebbe pur dovuto dare loro una mano in quel duro lavoro. Quei tempi non si possono definire particolarmente semplici e non vorrei tu pensassi che la mia sia retorica quando ti racconto degli enormi sacrifici e del duro lavoro, ma in quegli anni era veramente così, forse più di quanto l’immaginario moderno riesca oggi a concepire. Ricordo che non avevamo niente, solo i buoi per arare o per agevolarci nel trasportare le cose e qualsiasi lavoro fosse stato necessario fare in campagna dovevamo svolgerlo con la sola forza delle braccia e con quei pochi attrezzi, rudimentali ed arcaici, che avevamo a disposizione. Anche lo scasso per le vigne, largo un metro e profondo un metro e mezzo, così infossato per togliere la gramigna fitta come i capelli, si faceva a mano, con piccone e badile e l’ausilio di un aratro tirato da un argano: ci vollero tre inverni per preparare e realizzare mezzo ettaro di vigneto. Fu nel ’67, se ricordo bene, il primo anno in cui incominciammo la produzione del Moscato che era venduto in fusti da 7 quintali all’industria spumantiera che lo pagava circa trenta lire al chilogrammo, una cifra vergognosamente bassa anche per quei tempi. Del resto, non imbottigliando, eravamo assoggettati a quelle “Forche caudine”, ma noi, con la cocciuta determinazione che ci ha sempre contraddistinto, decidemmo di provare anche quell’esperienza, l’unica che potesse risolvere la nostra
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situazione. Ricordo che mio padre, per quelle prime esperienze, utilizzava pesanti bottiglie legando il tappo con uno spago e se il tappo teneva, bene, altrimenti saltava tutto e rimanevamo senza vino in cantina, come successe diverse volte. Piano piano affinammo la nostra tecnica e, dopo aver comprato un po’ di vasche di cemento e un nuovo filtro, smettendo così di utilizzare i sacchi per filtrare il vino, migliorammo la nostra produzione che, in ogni modo, era sempre orientata più all’autoconsumo o a soddisfare qualche amico, che ad un vero e preciso canale di commercializzazione. Continuò così fino al ’70, poi le cose cambiarono. Rammento che una volta Romano, un amico rappresentante che vendeva i trattori, mi portò con sé nel classico giro commerciale che era solito fare in Liguria. Non dimenticherò mai quel viaggio e, del resto, non potrebbe essere diversamente, visto che era uno dei primi che facevo. Al mercato di Sanremo lui conosceva tutti e io mi prodigai per fare assaggiare alle persone che mi venivano presentate quelle cinque o sei bottiglie che mi ero portato dietro, riuscendo in poco tempo a vendere quattrocento cartoni di vino. Non credevo a ciò che mi stava accadendo e tornai a casa, felice come non lo ero mai stato. Mamma mia, che emozioni! Vi fu poi un susseguirsi di eventi che mi coinvolsero e modificarono sostanzialmente il mio rapporto con il mondo del vino, come la fiera di Pasqua di Alba, dove conobbi Veronelli e Giacomo Bologna, e da lì vennero fuori le prime due righe sui giornali, poi la prima esperienza al “Bibe”, la fiera di Genova, durante la quale, non avendo i soldi sufficienti per pagarmi l’albergo, bivaccai per tre notti nella mia 850, in compagnia delle mie inseparabili pancette di maiale con le quali accompagnavo le degustazioni dei miei vini. In quelle manifestazioni incontravo tantissima gente: rappresentanti importanti delle istituzioni, clienti appassionati, giornalisti e nuovi amici come il grande Gianni Brera. Ricordo bene che erano gli anni in cui c’erano i primi segnali di un crescente interessamento verso l’enologia di qualità e i prodotti tipici, anni in cui cominciava ad essere riscoperta “l’Italia da gustare” che sicuramente, pensai, non avrebbe potuto fare a meno del mio Moscato. Nel frattempo, poco per volta e d’occasione, recuperai due autoclavi, un furgone, una riempitrice, una tappatrice, qualche contenitore, un oggetto di colore verde, uno grigio, uno rosso: entrare in quella cantina dava la stessa impressione che avrebbe dato entrare all’interno di un museo di arte moderna, dove la mano di un designer avanguardista aveva abbinato insieme, in una scultura post-moderna, molteplici oggetti post-industriali. Poi, in questi ultimi anni, con la costruzione della nuova cantina e l’acquisto di altri terreni, è stato come ripartire da zero, con un ripetersi di tanti eventi, accompagnati, come sempre, da tanti sacrifici e tante paure. Molte cose sono cambiate, ma oggi io e mia moglie Bruna abbiamo a fianco tre magnifici ragazzi, Alessandro, Sergio e Marco che ci aiutano molto e ci danno soddisfazioni e speranza per dare continuità a questa azienda. Rammento che una volta, un mese dopo la vendemmia, venne a trovarmi Mario Soldati. Abbiamo assaggiato il Moscato, attinto direttamente dalla botte e abbiamo mangiato coniglio e salame. Ricordo che osservava tutto con molta attenzione, ma soprattutto si era concentrato sul gusto del coniglio e sul sapore del vino, e riportò quelle sue emozioni nel suo libro Vino al vino - di cui poi mi mandò una copia con dedica, in modo intenso e profondo come solo uno scrittore sa fare. Sono state quelle sue parole, come quelle di tanti altri amici giornalisti, a darmi la forza di sacrificarmi, di arrivare a casa alle tre o alle quattro del mattino, dopo una degustazione, dormire due ore e avere la forza di montare di nuovo sul furgone già carico e partire, consegnare, incassare e ripartire. Quante cose mi ha dato la vita, quanti racconti mi ha fatto... Forse mi sarebbe anche piaciuto studiare, e mi dispiace un po’ non averlo potuto fare, ma ammiro chi riesce a tirare fuori dal grande mare del linguaggio le gocce di parole giuste per descrivere le emozioni, i fatti, le sensazioni della gente; penso che sia un po’ come fare il vino: anche le parole le devi raccogliere, lasciare fermentare e, infine, imbottigliare nella forma di un racconto, unico come le sensazioni che spero regali ogni mia singola bottiglia di vino.
Altri vini I Bianchi: Moscato d’Asti DOCG La Caudrina (Moscato bianco di Canelli 100%) Moscato d’Asti DOCG La Galeisa (Moscato bianco di Canelli 100%) Piemonte Moscato Passito DOC Redento (Moscato bianco di Canelli 100%)
I Rossi: Barbera d’Asti DOC La Solista (Barbera 100%) Barbera d’Asti DOC Superiore Montevenere (Barbera 100%) Barbera del Monferrato DOC La Guerriera (Barbera 100%)
La Selvatica Asti Spumante DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalle migliori uve Moscato provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località La Caudrina nel comune di Castiglione Tinella, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 70 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni marnosi con forte presenza di sabbia rossa, è posizionato ad un’altitudine di 300 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Moscato bianco di Canelli 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 10 al 30 settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte giornalmente e il mosto ottenuto viene messo in tini di acciaio termocondizionati e la temperatura viene abbassata fino a -2C°. Terminata la vendemmia si avvia la fermentazione alcolica facendo risalire la temperatura fino a 18°C con l’inoculo di lieviti selezionati fino a quando non si è raggiunto l’equilibrio ideale tra alcool, acidità e zuccheri, raggiunto il quale si riabbassa la temperatura per interrompere il processo. Al termine si effettua la stabilizzazione tartarica e dopo una filtrazione sterile il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura 30 giorni prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati e con profumi complessi di frutta gialla e piacevoli sensazioni floreali. In bocca ha un’entratura dolce con una buona acidità che conferisce al vino persistenza e lunghezza. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1996 - 1997 - 1998 - 1999 - 2000 2001 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 1 e i 5 anni. L’azienda: di proprietà dalla famiglia Dogliotti dal 1870, l’azienda agricola, oggi è gestita da Romano, si estende su una superficie complessiva di 25 Ha, di cui 24 vitati. Le funzioni di agronomo e di enologo sono svolte da Romano e Alessandro Dogliotti.
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Alfio e Laura Cavallotto
Descrivere la nostra azienda vuol dire in sostanza raccontare la nostra famiglia, parlare di me e dei miei due fratelli, dei sogni che abbiamo, dei nostri caratteri e delle nostre aspettative, diverse per ognuno di noi; vorrebbe dire entrare nel merito della nostra passione di fare vino, che non può essere considerata solo come attenzione e amore per il nostro lavoro, per quanto bello e gratificante possa essere, ma va ben oltre e compenetra di sé il nostro modo di pensare e concepire la vita e, di conseguenza, il nostro modo di agire. L’essere e lo stare qui è per noi semplicemente naturale, ovvio, innato. Non riusciamo ad immaginarci altrove. È una passione che ha coinvolto tutti, ognuno con il proprio mondo di emozioni e ricordi e con le soddisfazioni che derivano dal lavoro quotidiano che ognuno di noi svolge, rispettando le proprie competenze e i ruoli ricoperti all’interno dell’azienda, sia che si tratti di fare pubbliche relazioni, come faccio io, o di seguire il lavoro nella vigna e nella cantina, come fanno i miei due fratelli, entrambi enologi, mio zio Gildo e mio padre Olivio, quando non si occupa di botanica. Qui tutto scorre secondo regole precise, dettate dalle stagioni, e ogni cosa rispetta il tempo e lo spazio che le è stato concesso, in un semplice mosaico familiare, ma, per quanto possa apparire incredibile, niente si ripete e nessun giorno è uguale all’altro. Ogni anno è diverso, unico, irripetibile: non solo per l’incidenza dell’andamento climatico sul lavoro nelle vigne e in cantina, ma anche per il modo con cui ognuno
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affronta le cose, attraverso le quali certamente arricchisce anche la propria vita. C’è chi sviluppa una maggiore consapevolezza professionale e chi, come me, con decisione, si predispone, ogni anno di più, a sostenere con il proprio lavoro i fratelli più giovani e i genitori, in là negli anni. Equilibri antichi, traccianti le linee che dividono il mondo maschile da quello femminile, una divisione radicata da sempre in questa cultura contadina delle Langhe, che un tempo vedeva gli uomini dediti ai lavori della terra e le donne, pazientemente, a casa, a tessere le fila degli elementi di una semplice ma composita quotidianità; oggi la situazione è un po’ cambiata, è tutto più intercambiabile, i ritmi sono più veloci, l’apertura al mondo non più una novità. Devo ammettere che c’è stato un periodo della mia vita in cui ho provato a convincermi che era giusto e necessario riuscire a spezzare il cordone ombelicale che mi teneva legata a questa terra e alla mia famiglia. Alla fine degli anni ‘70 il mondo si era messo a correre velocemente e le stesse Langhe non erano più quelle di una volta; io, per alcuni anni, infervorata da chi sa quali aspettative, ho creduto che fosse importante, come donna, sperimentarmi lontano da qui. Fu così che, dopo alcune esperienze londinesi, mi misi a frequentare l’Università a Torino, credendo che il mio futuro fosse da un’altra parte, provando l’emozione della grande città, ma riscontrando, da subito, che quei frenetici ritmi non facevano per me e accorgendomi di non sopportare l’assenza di una dimensione più naturale e più contemplativa: mi mancavano gli spazi verdi, gli alberi, i prati, i vigneti e il silenzio nel quale, ancora oggi, mi rifugio per pensare e pregare e nel quale riesco a tenere in mano tutti i fili del mio destino. Ricordo che fra quelle strade affollate e rumorose mi sentivo agitata, non respiravo bene, non pensavo bene e non riuscivo più a sacrificarmi nello studio. Non so cosa mi stesse succedendo, forse era la scelta sbagliata dell’indirizzo accademico, forse l’impatto violento con una realtà troppo distante dal mio modo di pensare e di interpretare i rapporti umani, ma, appena terminati gli esami che mi interessavano, ritornai a casa. Da allora sono rimasta qui, cercando di rendermi utile in questa antica famiglia di viticoltori che, grazie a nonno Giuseppe e a zio Marcello, è stata una delle prime della zona a imbottigliare. Con piacere constato che anche i più giovani, i miei due fratelli, sono legati a questa terra e, con passione, portano avanti la nostra tradizione enologica, soddisfatti e orgogliosi dei risultati fin qui ottenuti. E se domani, per assurdo, tutto questo finisse? Mah! Per il momento non vedo assolutamente alternative. So solo che nessuno potrà mai togliermi le passeggiate sul Bricco, tra questi bei filari, il panorama mozzafiato che ogni giorno mi stupisce e, all’orizzonte, magnifici tramonti. Qui sono felice.
Altri vini I Bianchi: Langhe Chardonnay DOC (Chardonnay 100%) I Rossi: Barolo DOCG Bricco Boschis (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Vignolo Riserva (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba Bricco Boschis vigna del Cuculo (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba vigna Melera (Dolcetto 100%) Dolcetto d’Alba vigna Scot (Dolcetto 100%)
Bricco Boschis Vigna San Giuseppe Barolo DOCG Riserva Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, posto in località Bricco Boschis nel comune di Castiglione Falletto, le cui viti hanno un’età media di 48 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni marnosi con una forte presenza di argilla, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 370 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 15 al 30 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni ad una temperatura di 24-30°C in rotomaceratori termocondizionati, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 20 giorni; durante la macerazione vengono effettuate meccanicamente delle follature. Terminata questa fase, il vino viene posto in botti di rovere di Slavonia, la cui capacità varia dai 25 ai 100 Hl, dove avviene la fermentazione malolattica e in cui rimane per altri 48 mesi durante i quali vengono fatti 4-5 travasi. Al termine della maturazione si effettua un ultimo travaso in vasi vinari in acciaio e, dopo un periodo di stabilizzazione di 6 mesi, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi. Quantità prodotta: 13300 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un colore rosso rubino con riflessi granati; i profumi sono delicati ed eleganti: toccano note salate e fruttate, come agrumi e fragoline selvatiche, che si esaltano a vicenda con percezioni speziate passando dai sentori di ciliegia sotto spirito per allargarsi al cacao in polvere e alla liquirizia fino a quelli erbacei, di fieno e di frutti rossi. In bocca ha un’entratura elegante, con tannini vellutati che si armonizzano con una spiccata sapidità, dando percezioni di grande bevibilità, persistenza e longevità. Prima annata: 1961 (dal 1948 al 1960 questo Barolo è stato commercializzato senza la denominazione di vigna) Le migliori annate: 1961 - 1964 - 1967 - 1971 - 1974 - 1978 1979 - 1982 - 1985 - 1989 - 1990 - 1996 1997 - 1998 - 1999 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 30 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Cavallotto da oltre cinque generazioni, la Tenuta vitivinicola si estende su una superficie complessiva di 25 Ha, tutti vitati. Svolgono la funzione di agronomo e di enologo Alfio e Giuseppe Cavallotto.
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Alessandro, Federico e Lisa Ceretto
Abbiamo avuto la fortuna di crescere in una famiglia che ha creduto nel vino e ha saputo adattarsi perfettamente al grande cambiamento che il mondo vitivinicolo nazionale ha subìto in questi ultimi trent’anni. Quattro “ragazzacci” che, una volta arrivati alla fine della loro adolescenza, all’unisono hanno creduto che l’impresa di famiglia potesse essere una buona occasione di crescita e di autogratificazione. Così, prendendo spunto dall’esempio fornitoci dai nostri genitori, Bruno e Marcello, ci siamo mossi per divenire parte integrale della Ceretto, con i pro e i contro derivanti dall’assumere responsabilità decisionali all’interno di un’azienda che porta il tuo stesso nome. Chi da una parte, chi dall’altra, attingendo ognuno alle proprie peculiari caratteristiche caratteriali, abbiamo intrapreso percorsi di crescita diversi, specifici, acquisendo delle professionalità che, di lì a poco, sarebbero risultate molto utili all’interno di una famiglia-azienda nella quale i piani economici, aziendali, il budget, le strategie di marketing, l’analisi del mercato e la gestione delle risorse umane erano azioni di cui, in alcuni casi, non solo non se ne conosceva il significato, ma non se ne sentiva il bisogno. Tutto era guidato dal buon senso e dal rispetto fra due fratelli che, da cinquant’anni, oltre ad avere un unico conto corrente, sono abituati a risolvere le loro diatribe con un salutare ma quanto mai affettuoso “viaggio a quel paese”. È facile immaginare quale sia stato il nostro ingresso alla Ceretto: quattro “guasconi” desiderosi di “mordere” il mondo e di bruciare le tappe di una vita che per
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troppo tempo era corsa via, veloce, senza di loro. Fu così che ci adoperammo per modificare, per quanto ci fosse stato possibile, i ritmi “suonati” fino ad allora dal piccolo “complessino” di famiglia, in una ripartizione più classica di strumenti come fiati, archi, corde e ottoni, con le immancabili difficoltà di ottenere subito una melodia perfetta. Ne abbiamo prodotti di accordi stonati che non sono passati inosservati ai nostri padri, i quali hanno tuttavia dimostrato pazienza e comprensione, senza mai dubitare della nostra abilità, della nostra capacità di prendere in mano le redini e il testimone dell’azienda. Del resto ci siamo ritrovati immersi in questo mondo del vino avendo alle spalle la sola esperienza familiare a sostenerci, senza una personale conoscenza operativa dei meccanismi utili per gestire i dipendenti, per capire le leggi che regolano i rapporti commerciali e tutte le astuzie necessarie per far rendere propositiva e scrupolosa l’amministrazione. Tutto era nuovo per noi e imparare ha voluto dire sbagliare e produrre talvolta note dissonanti che ci hanno messo uno di fronte all’altro su questa o quella questione e ci hanno fatto capire come ognuno di noi avesse modi diversi di affrontare le cose. In ogni caso tutti sappiamo che non vi è niente di personale nelle nostre discussioni e che niente deve poter intaccare la stima e la fiducia reciproca che portiamo l’uno all’altro. In questi anni poi abbiamo imparato l’importanza del confronto diretto, del guardarci negli occhi e del dirci la verità su cosa ci sia dentro i nostri sentimenti rispetto alle cose e alle situazioni che dobbiamo affrontare insieme, perché sappiamo che tutto questo serve anche per crescere e migliorarsi. Confidando nel nostro naturale istinto musicale e nella nostra capacità di accordarci, abbiamo provato a suonare una nuova musica e, piano piano, smussando le nostre esuberanze e miscelando le nostre melodie ci siamo misurati con le difficoltà, impostando nuovi obiettivi aziendali che fossero più raggiungibili rispetto ai sogni fantastici che avevamo all’inizio. In ogni caso una melodia che prende spunto principalmente dalle nostre passioni, dal nostro entusiasmo e della nostra volontà di superare le difficoltà e acquisire maggiore esperienza e sicurezza. Ognuno di noi mette le sue note su questo nuovo spartito: chi, come Federico, occupandosi della gestione commerciale e dei mercati esteri, chi, come Roberta, occupandosi delle pubbliche relazioni o di quant’altro possa produrre immagine per l’azienda stessa, chi, come Lisa, diventando responsabile amministrativa o chi invece, come Alessandro, dedicandosi alla produzione viticola e a quella enologica della cantina. Ci sono voluti tre anni perché il nostro processo di inserimento si completasse e divenisse esecutivo; anni in cui ci siamo dati una struttura diversa e più consona ai tempi, trasformandoci da famiglia-azienda a impresa-famiglia, con un consiglio di amministrazione vero e proprio, un piano marketing, un piano vendite, un budget annuale prestabilito e un programma di investimenti quinquennale. In questa evoluzione continua abbiamo capito che occorre andare oltre il limitato orizzonte individuale e pensare nei termini ben più vasti di una condivisione generale di questo progetto che ci vede uniti sotto un unico nome, con tutto quello che ciò significa in termini di assunzione di responsabilità rispetto alla famiglia e alla sua storia. Ciascuno di noi, con le sue caratteristiche uniche e inconfondibili, si impegna per dare garanzie ai nostri collaboratori, certezze ai mercati e serenità ai nostri genitori.
Altri vini I Bianchi: Langhe Arneis DOC Blangè (Arneis 100%) Langhe Bianco DOC Arbarei (Riesling Renano 100%) I Rossi: Barolo DOCG Bricco Rocche Bricco Rocche (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Bricco Rocche Brunate (Nebbiolo 100%) Barbaresco DOCG Bricco Asili Bricco Asili (Nebbiolo 100%) Barbaresco DOCG Bricco Asili Bernardot (Nebbiolo 100%)
Bricco Rocche Prapò Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è prodotto attraverso la vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto nel comune di Serralunga, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-argillosi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 370 e i 390 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 5 al 15 ottobre, ha luogo la diraspapigiatura delle uve raccolte che è effettuata ad una temperatura di 15°C; al termine di questa fase si fa risalire la temperatura, così da consentire al pigiato l’avvio della fermentazione alcolica, che si protrae per 10-12 giorni alla temperatura di 32°C in recipienti di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che dura invece 10 giorni, durante la quale sono praticati frequenti rimontaggi giornalieri. In seguito il vino viene posto in barrique di rovere francese da 300 lt. a grana fine di media tostatura dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 30 mesi durante i quali vengono effettuati almeno 8 travasi. Al termine della maturazione avviene l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 12000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati e profumi complessi di liquirizia, cioccolata amara, mora e cassis, che si aprono a percezioni di violetta e ciliegia sotto spirito. In bocca ha un’entratura autorevole, importante, con tannini ben presenti e che conferiscono al vino grande struttura, lunghezza e persistenza. Chiude con le note fruttate percepite al naso. Prima annata: 1976 Le migliori annate: 1982 - 1985 - 1990 - 1996 - 1997 - 1998 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto posizionato nella sottozona omonima, raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 30 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Ceretto dal 1973, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 170 Ha, di cui 110 vitati e 60 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda, sotto la guida di Alessandro Ceretto, l’agronomo Gianluigi Marenco e l’enologo Mauro Daniele.
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Renato, Dina e le figlie Claudia e SilviaCigliuti
Eravamo in quaranta a frequentare la scuola del paese: solo in tre siamo rimasti in campagna. Quelli erano tempi in cui, chi poteva, scappava via lontano da questa terra e gli si aprivano le porte di fabbriche come la Fiat, la Ferrero o la Miroglio. Io, invece, decisi di restare; mi piaceva il lavoro del contadino, lo stare in famiglia mi dava sicurezza e tranquillità e poi non capivo: perché mai avrei dovuto abbandonare questa campagna? Una volta un vecchio del paese, parlando con un suo coetaneo, ricordo che disse: “Eti vist? Chi yè staie que an campagna? I desgrasià, i debui ed ment e i vej”. (“Hai visto? Chi si è fermato in campagna? I disgraziati, i deboli di mente e noi vecchi”). E io pensai: Me vej e sun nen, desgrasià manc, sarem debul ed ment! (“Io vecchio non sono, disgraziato nemmeno, sarò debole di mente!). A distanza di tempo rammento ancora quelle parole e mi domando spesso se quel vecchio non avesse ragione, almeno in parte. In ogni modo la cosa che mi faceva più rabbia era vedere gli altri arrivare di sabato, tranquilli e rilassati, qualcuno anche con la sua bella macchina nuova, indossando la loro tuta candita e pulita per spuntare qualche filare di vite o lavorare quel pezzetto di terra che gli era rimasto. Io, invece, era già tutta la settimana che, come un asino, stavo dietro a quei filari, a spaccarmi la schiena su e giù per curare le mie viti e per riuscire a vendere, se tutto andava bene, un po’ di vino in damigiane. Fu nel ’64 che incominciai a imbottigliare le prime 300 bottiglie di Barbaresco e non credo di essere smentito se dico che fui fra i primi della zona insieme a Giacosa e a
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qualche altra azienda, a farlo. Credo che in quegli anni come imbottigliatori in zona potevamo contarci sulla punta delle dita di una sola mano. Di questo avvio devo ringraziare soprattutto mia moglie Dina, che da grande lavoratrice quale è, mi ha stimolato ad andare avanti, e mio fratello Giuseppe che mi ha spronato aiutandomi anche materialmente a commercializzare un po’ di quelle bottiglie tramite amici, conoscenti e qualche cliente del circondario. In ogni caso ci vollero degli anni prima che io trovassi la forza e il coraggio di partecipare ad eventi che mi ponessero all’attenzione di qualche distributore e, se ricordo bene, non fu prima del ‘78–’79, al Bibe di Genova o al Vinitaly, che mi feci conoscere ad alcuni importatori, molto selettivi, che cercavano vini italiani di qualità in piccole partite. Le richieste incominciarono a giungere sempre più frequentemente e, ad ognuna di esse, mi mordevo le mani per le crescenti difficoltà che avevo nel soddisfarle. Del resto non potevo farci niente; non avevo molti vigneti perché mi era sempre mancato il coraggio di comprarne altri, così da poter aumentare il mio fatturato. Paure e remore che mi hanno sempre accompagnato e mi hanno fatto rimanere piccolo, anche quando i terreni costavano poco, il mercato rispondeva bene e incominciavano ad arrivare oltre agli ordini anche i riconoscimenti importanti che mi costringevano ad assegnare la mia piccola produzione di anno in anno. Le cose non sono cambiate da allora: erano trentamila le bottiglie prodotte in quegli anni e trentamila sono le bottiglie prodotte oggi, come se nel frattempo non fosse successo niente o come se il mondo si fosse fermato. Non posso farci niente se le cose le ho viste sempre in questa ottica e poi, del resto, i soldi per poterle fare non c’erano mai; una volta c’era bisogno di provvedere alla casa, un’altra volta all’attrezzatura della cantina, un’altra ancora al rifacimento degli impianti nelle vigne e così via. C’erano sempre delle priorità rispetto all’acquisto di altre vigne ed io sono sempre stato abituato a fare il passo secondo la gamba e mai più lungo della stessa. Anche se qualche volta mi rammarico di non aver trovato il coraggio di rischiare e comprare qualche ettaro di vigna, mi rendo conto che uno non può cambiare il suo destino, né ciò che è. Così è comprensibile come io, con una simile produzione, mi possa spaventare di tutto e possa mettermi in agitazione per ogni piccola variazione meteorologica. Sebbene oggi si possa prevedere con i moderni sistemi scientifici, il tempo rimane pur sempre un’incognita, la più importante nel mio lavoro di vignaiolo. Ogni mattina mi domando che tempo farà, perché è inutile nasconderlo: per me le cose cambiano molto se su quelle poche vigne che ho a disposizione piove troppo, cala il gelo, c’è troppo sole, viene la grandine o tira troppo vento. Non sono uno che possiede più vigneti in diverse zone e alla fine dell’anno delle bottiglie di vino riesce in qualche modo a tirarle fuori; io no, io ho tutto accorpato intorno a casa e se il tempo cambia improvvisamente, volge al brutto e comincia a piovere oppure arriva una grandinata, io sono fregato: butto via il lavoro di un intero anno. Quando vedo finalmente le grosse nuvole nere allontanarsi dallo spazio di cielo sovrastante i miei vigneti con il loro carico di piogge torrenziali, tiro un sospiro di sollievo e mi tornano in mente quei versi de La casa in collina di Pavese: “Il bel tempo tornava, come tante stagioni passate, e mi trovava ancora libero, vivo […]. Potei respirare, guardarmi intorno, pensare al domani”. Quanti sospiri di sollievo tiro anch’io vedendo quella nuvolaglia allontanarsi! In tutti questi anni, anche se sono cambiate molte cose, non si è modificato il mio approccio al tempo e ogni mattina, svegliandomi, alzo gli occhi al cielo. Non riesco a rilassarmi completamente per questa costante incertezza che è, forse, l’unico neo della mia vita, della quale sono molto contento e soddisfatto per aver costruito, in tutti questi anni, qualcosa di piccolo, ma che funziona.
Altri vini I Rossi: Barbaresco DOCG Vigne Erte (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Serraboella (Barbera 100%) Barbera d’Alba DOC Campass (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC Serraboella (Dolcetto 100%) Langhe Rosso DOC Bricco Serra (Barbera 50%, Nebbiolo 50%)
Serraboella Barbaresco DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto nel comune di Neive, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 45 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei con presenza di tufo, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4150 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni alla temperatura di 30°C in tini di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 4-5 giorni, durante la quale vengono effettuati manualmente rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in barrique di rovere francese a grana fine di media tostatura, solo per un 30% nuove e il restante di secondo e terzo passaggio, dove sosta solo il tempo per consentire lo svolgimento della fermentazione malolattica prima di essere trasferito, per un 60%, in botti grandi da 20 Hl in cui completa la maturazione che dura circa 18 mesi durante i quali vengono effettuati 2 travasi, così come del resto l’altro 40% che, invece, completa la maturazione nelle barrique. Quindi si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino profondo con riflessi aranciati e con sensazioni che introducono a un bouquet complesso che lascia intuire note di menta, liquirizia, tostatura di caffè, bacche di cacao e percezioni fruttate di ciliegie, fragole e rose rosse. In bocca ha un’entratura importante, elegante, equilibrata e anche i tannini, pur essendo ben presenti, si armonizzano con la sapidità; questi elementi conferiscono al vino freschezza, lunghezza e persistenza. Chiude con le note fruttate percepite al naso. Prima annata: 1964 Le migliori annate: 1970 - 1971 - 1979 - 1980 - 1982 - 1989 1990 - 1996 - 1997 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Cigliuti dal 1790, l’azienda agricola, oggi condotta da Renato, si estende su una superficie complessiva di 9 Ha, di cui 6 vitati e 3 occupati da prati, boschi e seminativi. Renato e Silvia Cigliuti si occupano del vigneto e della cantina.
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CLERICO DOMENICO
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Domenico Clerico
Per conoscere un uomo bisogna sapere quali sono le sue origini e quale è il suo vissuto; se hai deciso di raccontarmi, è necessario che tu conosca un po’ più nel profondo la mia storia e forse così ti rimarrà più semplice comprendere chi è Domenico Clerico. Sono nato qui, in questa casa nelle Langhe, una terra dalla quale, per molti decenni, tutti cercavano di scappare via, per andare a lavorare alla Fiat, per rincorrere un impiego qualsiasi o per sposarsi. Tu forse non puoi capire cosa ha significato in quegli anni essere contadini, ma io sì, e ricordo ancora che a 20 anni, quando andavo a ballare, dire che ero figlio di un contadino era come denunciare pubblicamente una malattia infettiva: mi allontanavano tutti. Quelli erano i drammatici anni ’70, durante i quali, in nome del progresso e di un finto consumismo “social popolare”, si sono compiuti gli scempi più atroci di tutto il secolo passato, peggio delle due guerre che, almeno, hanno avuto il merito di rinsaldare i popoli. Niente si è salvato e di questo disastro ancora oggi ne abbiamo le testimonianze: basta guardare i siti industriali o lo scempio compiuto dai “palazzinari”; le conseguenze di quella sciagurata industrializzazione hanno permeato, irreparabilmente, ogni cosa, provocando anche l’esplosione della chimica in agricoltura, nell’ottica di una produzione orientata alla quantità più che alla qualità. Mi ricordo che d’estate si andava a raccogliere la camomilla nei cortili, perché non si mischiasse con il grano che, allora, si trebbiava ancora nelle aie; alla festa della trebbiatura seguiva quella della vendemmia e dopo ancora quella del granturco, che legavi, come tanti mazzi di fiori, appeso sotto i poggioli. In quegli anni, senza televisione
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né cellulare, anche il parto di una mucca era una buona occasione per stare insieme, magari mandando a chiamare il vicino per farsi dare una mano e, mentre si aspettava che la mucca si decidesse a partorire, si beveva il caffè, la grappa o un bicchiere di vino. Sicuramente erano tempi in cui si era più uniti. Non c’era niente da vendere, né la propria immagine, né il proprio ego, c’era solo l’amicizia. Sembra che io ti parli come se fossi Matusalemme, descrivendoti tempi lontanissimi; invece ho poco più di quarant’anni e ciò che ti racconto mi sembra sia successo ieri, anche se qui tutti se ne sono dimenticati. Ma io non voglio dimenticare: è stata proprio quella mia gioventù che mi ha stregato e mi ha fatto rimanere qui, che mi ha dato un senso di appartenenza che non scambierei con nessuna cosa al mondo e che mi fa sentire orgoglioso di essere un “langhetto”. Devi sapere che prima di fare il vignaiolo ho fatto diversi altri lavori, dal cameriere al rappresentante di generi alimentari e come puoi comprendere questi non mi sono serviti gran che nella mia formazione di vigneron. Fu tra la fine del ’76 e l’inizio del ’77, quando mio padre era ammalato, che decisi di prenderne in mano le redini e cominciare a fare il vino. Per due o tre anni ho lavorato in maniera molto “sperimentale”, utilizzando attrezzature rudimentali, ma che in ogni modo rispondevano alle mie esigenze e contribuivano alla risoluzione dei problemi. Non so dirti chi mi abbia insegnato a capire il momento giusto per potare, raccogliere o imbottigliare e ti posso assicurare che non è certo una questione di cultura, visto che, ahimè, ho fatto solo la quinta elementare e non ho mai frequentato scuole di enologia o corsi di specializzazione. Credo che sia stata la simbiosi che si è venuta a creare fra me e le mie vigne a farmi intuire quando era il momento di fare la cosa giusta. Non mi ci volle molto per comprendere che per fare un grande vino avevo bisogno di conoscere la mia vigna, sentirla, capire quale fosse il tempo giusto per fare una prima spuntatura o togliere i droppi, quando legare i tralci o raccogliere l’uva. Ogni attimo era il mio attimo fuggente, irripetibile, che doveva essere carpito in quel preciso momento senza rimandare. È fondamentale individuare quell’istante, perché altrimenti non servirebbe a nulla avere una bella cantina, delle botti nuove e una grande tecnologia: niente di tutto questo ti darebbe la certezza di fare un grande vino. Io continuo a seguire il mio istinto e non ho bisogno dell’enologo, che considero un bravo medico, convinto come sono che se le mie uve sono sane, belle e mature al punto giusto, sicuramente anche il mio vino lo sarà, senza la necessità che me lo confermi un dottore. Un produttore deve capire la grandezza del suo vino, quando il vino va travasato e quando va imbottigliato; ma ogni anno è un’avventura nuova, unica, perché la natura si sa, è come Paganini: non si ripete mai. Oggi so che non cogliere il momento giusto significa perdere ogni volta una grande occasione, sprecare la preziosa opportunità che la terra mi offre di produrre un vino che magari, un giorno, potrà essere eccezionale. Per questo sono esigente, per questo raccomando a Massimo, il mio fidato scudiero e perfetto cantiniere, di stare attento a valutare ogni particolare come io faccio nella vigna per non sciupare un lavoro complesso e commettere un’imperdonabile distrazione o una qualsiasi sciatteria che sarebbe un’offesa alla nobile professione del vignaiolo. Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Percristina (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Pajana (Nebbiolo 100%) Langhe DOC Arte (Nebbiolo 90%, Barbera 10%) Langhe Dolcetto DOC Visadì (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC Trevigne (Barbera 100%)
Ciabot Mentin Ginestra Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Ginestra nel comune di Monforte d’Alba, che hanno un’età media di 35 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti che si trovano in una zona collinare e su terreni marnosi, tufacei, con presenza di argille, sono posizionati ad un’altitudine di 400 s.l.m. con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che di solito avviene nei primi quindici giorni di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve e il pigiato è immesso nei rotomaceratori termocondizionati dove si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 12-14 giorni alla temperatura di 30°C, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale si effettuano due rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura, per un 90% di primo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e dove rimane 24 mesi durante i quali sono effettuati almeno 4 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e il vino è fatto decantare per almeno 4-6 mesi prima di essere imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 14 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 18200 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso molto intenso, con un approccio olfattivo che denota immediatezza e uno spessore evolutivo importante con sentori che spaziano dal fruttato con note di ciliegia sotto spirito ai frutti rossi maturi fino a sensazioni speziate più complesse di pepe, cacao e cannella. In bocca ha un’entratura importante, austera, con una struttura personale che si lascia identificare immediatamente, con tannini ancora evidenti che insieme ad una buona sapidità rendono il vino piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1979 Le migliori annate: 1982 - 1985 - 1989 - 1990 - 1996 1999 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalle zone dove sono collocati i vigneti, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Domenico Clerico dal 1976, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 21 Ha, di cui 19 vitati e 2 occupati da boschi e seminativi. Svolge le funzioni di agronomo ed enologo lo stesso Domenico Clerico.
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CONTERNO FANTINO
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Claudio Conterno
Dal balcone naturale della mia azienda volgo lo sguardo verso l’orizzonte e mi soffermo a pensare a quanto in definitiva io sia fortunato. Con questo pensiero rimango per qualche minuto ad ammirare lo spettacolo che mi è offerto da questo osservatorio naturale, dove è posta la mia cantina, qui sopra a Monforte, più in alto dell’antica rocca catara che fece da ostello agli eretici, quasi mille anni fa: a perdita d’occhio i vigneti e i grandi crus storici che degradano verso Barolo per poi risalire verso La Morra e in lontananza le Alpi, da quelle prime propaggini liguri fino al Monte Rosa e laggiù appena visibile il massiccio del Monte Bianco. Di fronte, a far da direttore d’orchestra, il Monviso, il Re di pietra, che in certe mattinate come questa sembra vicinissimo e si mostra in tutto il suo splendore e si slancia imponente verso il cielo. Alla vista di tanta magnificenza, mentre l’occhio fissa il Cervino, la Grivola o quel lontano luccichìo della cupola di Superga, il mio animo si placa e si pone in armonia con quei conflitti interiori dai quali non è mai facile emergere. L’istinto mi suggerisce che in questi momenti Dio mi è più vicino, mentre la ragione me lo allontana: tale è il contrasto tra la perfezione di quel che riempie i miei occhi e le miserie con cui noi uomini siamo costretti a misurarci. È un dialogo contrastato, duro, leale, ma anche un po’ rabbioso che dura fin dalla mia infanzia, a partire dalle prove dolorose che la vita mi ha sbattuto in faccia quando era davvero troppo presto per affrontarle.
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In silenzio guardo ancora un po’ questo spettacolo della natura, poi sospiro, scuoto il capo, e riparto per un’altra giornata che sarà segnata sicuramente dalla fatica, come lo sono tutte le giornate di un contadino delle Langhe che deve fare i conti con questi crinali, uno più ripido dell’altro. Sono stufo di girarmi intorno e vedere che qualsiasi cosa mi ricorda solo ed esclusivamente la fatica. Del resto, fin da quando tornavo da scuola e andavo a strappare l’erba nei filari, mi sento ripetere che qui l’unica compagnia certa che potevo avere era la fatica. Ormai mi sono abituato e non ci faccio più caso, anche perché sono cresciuto con l’educazione che usava una volta nella nostra civiltà contadina, proprio in una grande famiglia, fra genitori, zii e cugini a capo della quale c’era nonna Rosina che teneva le fila di tutto, in un sottile gioco di equilibri in cui ognuno aveva un dovere da compiere e un contributo giornaliero da dare. Una società matriarcale dove le donne dettavano i tempi e i modi della vita quotidiana e non solo della casa. Sono state mia nonna e mia madre a farmi capire che la terra era il bene primario, ma che dalla stessa, per poter crescere, avrei dovuto alzare gli occhi e guardare oltre, poiché il mondo non si limitava a questo piccolo paese, era molto più grande, molto più bello e la stessa vita doveva essere considerata splendida se saputa vivere nella sua pienezza, magari anche osservando e apprezzando le sfumature e i particolari che la natura sa offrire. Forse è con questa visione delle cose che mi sono messo a fare il vignaiolo, osservando tutto quello che mi circondava, con l’intento di capire le cose belle del mio lavoro. Con il tempo il meccanismo si è perfezionato e man mano che si susseguivano le stagioni è diventato più evidente e sempre più sincronizzato il mio rapporto con la vite: l’unica pianta capace sia di dare il valore esatto al mio impegno quotidiano, sia di far marciare di pari passo il mio orologio biologico e psicologico con il suo sistema vegetativo. Da sempre il giorno di San Martino, l’11 novembre, chiude l’anno agricolo. È il San Silvestro di noi che lavoriamo la terra. Il vino nuovo è in cantina, le foglie hanno esaurito il loro campionario di colori. Comincia la potatura, tutto finisce e in un certo senso ricomincia. Non può esserci allegria tra quelle prime nebbie autunnali, un altro anno è passato e anche questo in fretta, troppo in fretta. Ma intanto si riparte, noi e la vite, noi e la vita. E non passerà poi molto tempo prima che la pianta ricominci a germogliare, prima che arrivi il momento di ricominciare a inseguire i tralci che si allungano, che sbordano, che bisogna rimettere in ordine e non solo perché anche l’occhio vuole la sua parte... Così, col passare degli anni ho scoperto di vivere in simbiosi con le mie viti. Ho scoperto che il mio umore nella vita di tutti i giorni dipende anche dal loro stato vegetativo, dal germoglio, dall’invaiatura, dalla maturazione. Ho scoperto, o forse mi sono rassegnato a questa trasformazione continua della vite e insieme della vita, a questa simbiosi ininterrotta e sempre nuova. La vite non è mai uguale a com’era l’anno prima. Nemmeno noi lo siamo. In fondo è proprio questo il fascino del mio lavoro. L’incertezza, la sorpresa, la mutazione. Sembra paradossale, visto che ho a che fare con delle piante: ma posso garantire che non si comportano mai allo stesso modo. E proprio lì sta la sfida. Nello spirito d’osservazione, nell’attenzione estrema, nella continua adattabilità ai cambiamenti. Nella rassegnazione di riscoprire, ogni volta, che di certezze ce ne sono poche, ma poi nella sensibilità di trovare soluzioni nuove, atte a fronteggiare l’evoluzione, in qualche caso i capricci che la natura si concede. Alla fine, pur tra mille patemi, pur tra confronti d’opinione e consultazioni assortite, è sempre la sintonia di fondo che hai con le tue viti a suggerirti la soluzione migliore. Da questo, innanzitutto, la fatica è ripagata. Per questo mi ripeto anche nei momenti più duri che non cambierei il mio mestiere di contadino con nessun altro al mondo.
Altri vini I Bianchi: Langhe Chardonnay DOC (Chardonnay 100%)
I Rossi: Langhe Rosso DOC Monprà (Nebbiolo 45%, Barbera 45%, Cabernet Sauvignon 10%) Barolo DOCG Parussi (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Vigna del Gris (Nebbiolo 100%) Dolcetto d’Alba DOC Bricco Bastia (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC Vignota (Barbera 100%) Langhe Nebbiolo DOC Ginestrino (Nebbiolo 100%)
Sorì Ginestra Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru ottenuto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto Sorì, di proprietà dell’azienda, posto in località Ginestra, nel comune di Monforte d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 25 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto si trova in una zona collinare su terreni calcarei-marnosi ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di ottobre, si procede ad una diraspapigiatura delle uve raccolte manualmente e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica. Contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce in vinificatori orizzontali a pale rotanti ad una temperatura controllata di circa 32°C per 8-10 giorni. Il vino viene poi trasferito in barrique di rovere francese di Allier di primo passaggio in cui effettua la fermentazione malolattica e dove rimane per 24 mesi. Al fine di ottenere un prodotto omogeneo e una piena stabilizzazione, il contenuto di tutte le barrique viene travasato in acciaio dove rimane per circa 1 anno. Il vino viene poi imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 14000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso intenso con riflessi purpurei e con profumi importanti, superbi, estremamente complessi, con note fruttate e speziate che si esaltano a vicenda passando da sentori di ciliegia sotto spirito per allargarsi a sentori di frutti di bosco maturi, al profumo della rosa, con una chiusura di note balsamiche. In bocca ha un’entratura elegante, potente, con tannini ancora giovani che devono affinarsi, ma che insieme a una sapidità equilibrata danno percezioni di grande bevibilità, persistenza e longevità. Prima annata: 1982 Le migliori annate: 1982 - 1985 - 1986 - 1989 - 1990 - 1996 1998 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo (esposto a sud in piemontese) raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Claudio Conterno e Guido Fantino dal 1982, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 30 Ha, di cui 22 vitati e 8 occupati da prati, boschi e seminativi. Responsabile dei vigneti è Claudio Conterno, coadiuvato da Giampiero Romana, mentre della cantina si occupa Guido Fantino con il figlio Fabio.
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CONTERNO GIACOMO
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RobertoConterno
L’io è un mare sconfinato e non misurabile di cui percepisco l’immensità soprattutto quando mi trovo fra queste montagne, magari seduto su una roccia, ad osservare il mondo circostante cercando di recuperare le forze per l’ultimo strappo, prima di raggiungere la vetta. Il cuore batte forte, il sangue scorre veloce e il respiro, prima affannoso, ritrova in quel riposo un ritmo più naturale, mentre davanti a me ho l’infinito. Scruto il cielo per capirne l’umore, mentre ripercorro mentalmente il cammino che ho fatto e quanto rimane ancora per raggiungere la vetta, ma, inspiegabilmente, mi trattengo più del dovuto per ripercorrere, invece, i sentieri più profondi della mia anima. È una splendida giornata di sole, e sembra che nessuno voglia intaccare questa quiete, né la montagna, né le nuvole lontane, così rimango seduto su questo sperone di roccia godendo dei raggi del sole, mentre la mente corre a paesi lontani, dove avrei voluto andare e non sono andato, a mio padre, di cui oggi più che mai sento la mancanza e a tutte quelle cose che ancora mi rimangono da fare. Il richiamo di un’aquila distante attrae la mia attenzione e mi calmo nell’osservare quel suo volo, invidiando, come Icaro, le sue ali. Vigile, scruta il territorio, librandosi in un elegante volo sulla mia testa. In silenzio la osservo, dispiaciuto di aver violato il suo mondo. Fra queste rocce il tempo assume un significato particolare e mi rendo conto che non ho più fretta, anzi oggi ho voglia di godere fino in fondo di questa natura, spalancando il mio sguardo agli orizzonti lontani, come faccio quando apro la porta della mia cantina e mi soffermo ad osservare il tramonto o la luna. Emo-
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zioni. In definitiva è di questo che si tratta e oggi ho deciso che con questo voglio sfamarmi. Mi metto comodo e disinteressandomi di quanta strada ho ancora da fare per arrivare in vetta, godo del presente che è qui davanti a me e voglio viverlo a pieno. Non so come mai, ma da vecchie reminescenze scolastiche mi torna in mente la frase “conosci te stesso”, così calzante per questo momento da farla mia. In effetti, io so che è questo che mi dà felicità, so che queste mie fughe mi aiutano e mi ricaricano, so che fra queste cime costruisco un percorso interiore sempre più profondo che mi aiuta a conoscermi fino al punto di sapere ciò che voglio e ciò che non voglio, ciò che sono e ciò che non potrò mai essere. Un processo lento iniziato tanto tempo fa, osservando le cose che mi circondavano e confrontandomi con quegli attimi che io chiamo i “clic” che la vita mi ha riservato; momenti piacevoli o dolorosi che hanno saputo accendermi riflessioni profonde. Anche dopo la morte di mio padre, molte volte mi sono posto l’interrogativo di quanto io fossi alla sua altezza o fossi stato capace di seguire il suo sentiero che così cocciutamente, nel corso della vita, aveva perseguito riuscendo a dare forte visibilità alla nostra azienda. Un “clic” che mi ha fatto crescere ulteriormente e mi ha messo davanti alle mie responsabilità. È la conoscenza della complessità delle cose e la ricerca del feeling con le stesse che mi sprona e mi stimola e per quanto il vino e le mie vigne siano stati importanti e in loro io ricerchi la conoscenza, ho sempre avuto bisogno di confrontarmi, continuamente, con qualcosa di trascendentale da dove attingere energia. Sì, in un certo senso ciò che cerco è forse quello che Cicerone chiama l’otium, ben diverso dall’ozio contemporaneo del dolce far niente, ma piuttosto una contemplazione attiva, un appagamento egoistico del mio ego, la ricerca di una serenità interiore che non disdegna il lavoro e che mi pone in armonia sia con il mondo contadino, nel quale sono cresciuto, sia con l’infinito. Una vita contraddittoria forse, spesa fra un sano egoismo e una generosa apertura, nella necessità di ricercare ciò che mi piace fare e nel dovere di assolvere alle responsabilità che ho assunto. Fin da quando, dopo il Liceo Scientifico, rimasi in azienda al fianco di mio padre, intuii qual’era il mio posto e quale doveva essere il mio contributo in termini di rinunce e di sacrifici che avrei dovuto dedicare all’azienda di famiglia. Ma sono piccoli rincrescimenti rispetto alle soddisfazioni che ho avuto da questo lavoro, che ho affrontato con umiltà sapendo di essere solo una pedina di un ingranaggio che mio padre aveva scrupolosamente architettato. Non so se sono questi momenti di benefica solitudine, che mi prendo fra queste mie montagne a fortificarmi, ma mi accorgo sempre più di affrontare la mia quotidianità senza angoscia, poiché in fondo credo che per quanto tutto sia importante, non bisogna mai dare troppo peso alle cose e mai vivere con ansia il raggiungimento degli obiettivi, ma avere, piuttosto, un atteggiamento distaccato e leggermente ironico come quello che aveva il pilota nel bellissimo libro Staccando l’ombra da terra di Daniele Del Giudice. È a queste altitudini, fra queste rocce, che ho imparato a tirare dritto per la mia strada, come ho imparato a sorridere gioendo di ciò che sono; una gioia che cerco di trasmettere al vino, sperando di inserirla dentro a quelle bottiglie insieme alla storia della mia famiglia, alla filosofia di mio padre Giovanni, alla forza e alla determinazione di mia madre Ivonne e a ciò che rappresenta questo territorio di Monforte. Consapevole di quanto questo lavoro potrà darmi e di ciò che mi ha già dato, richiudo lo zaino e in silenzio, come sono arrivato, riprendo il sentiero che mi condurrà alla mia vetta, cercando con lo sguardo quell’aquila che non vedo più.
Monfortino Barolo DOCG Riserva
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Cascina Francia (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Cascina Francia (Barbera 100%)
Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dalle particelle del vigneto di proprietà dell’azienda, situato in località Cascina Francia, nel comune di Serralunga d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei di medio impasto, con uno scheletro di arenaria con forte presenza di marne bluastre, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 450 s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 10 al 20 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte che sono inserite in tini di legno troncoconici nei quali si avvia la fermentazione alcolica la quale si protrae per 10 giorni a temperatura libera, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che prosegue per altri 20 giorni con l’ausilio di frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in botti di rovere che vanno dai 30 ai 75 Hl dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 82 mesi durante i quali vengono effettuati circa 6-7 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e senza alcuna filtrazione, né chiarifica, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 4 mesi. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore granata opaco, tenue, il vino si presenta all’esame olfattivo con una spiccata sensazione fruttata di confettura di mirtilli e more che via via lasciano spazio a sentori floreali e speziati, di garofano, cannella e menta con un finale balsamico. In bocca ha un’entratura vigorosa che ne esalta il corpo senza togliere niente alla sua eleganza e raffinatezza che esce immediatamente fuori insieme a tannini equilibrati e ad una sapidità che lo rende lungo e persistente chiudendo con un finale minerale veramente affascinante. Prima annata: 1920 Le migliori annate: 1952 - 1955 - 1958 - 1961 - 1964 - 1967 1970 - 1971 - 1974 - 1978 - 1979 - 1982 1985 - 1987 - 1988 - 1990 - 1995 - 1996 1997 - 1999 Note: il vino, che prende il nome dal paese dove è collocata l’azienda, raggiunge la maturità dopo 15 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 15 e i 40 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Conterno da molte generazioni, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 20 Ha, di cui 14 vitati e 6 occupati da prati e boschi. Collabora in azienda l’agronomo Albino Morando, mentre svolge la funzione di enologo lo stesso Roberto Conterno.
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COPPO
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Paolo, Piero, Gianni e Roberto Coppo Ci sono momenti in cui è necessario fermarsi a riflettere, altri dai quali è necessario prendere slancio per ricominciare a delineare un futuro diverso, nella speranza che sia migliore. Uno stop and go necessario per aziende storiche come la nostra, soprattutto quando si avvertono forti cambiamenti nel mercato di riferimento, che in questo momento coincidono con una forte stagnazione della domanda. In questi casi è facile cadere nella retorica del “te l’avevo detto”, o in conviviali discussioni su quello che gli altri avrebbero dovuto fare e non hanno fatto, e quello invece che noi abbiamo fatto, nonostante tutto... Quasi come se il futuro di un’azienda o il programma di sviluppo di un territorio si potessero risolvere alla maniera di una semplice discussione al bar fra tifosi il giorno dopo la partita. In questi casi, non vorremmo dire come tanti che la cosa “a noi non ci tocca”, “noi siamo avanti”, siamo andati oltre questa crisi o che l’abbiamo affrontata e superata attraverso la ricerca della qualità, la sola cosa che ci ha consentito di non risentirne! Vorremmo affermare che è da generazioni che “noi” operiamo per il meglio e che la qualità che tutti cercano, “noi” sappiamo benissimo dove trovarla: nelle nostre vigne e nel nostro saper fare. E conosciamo talmente bene la qualità, che pensiamo, demagogicamente, anche di insegnarla, sventolandola e dicendo ai quattro venti o al primo giornalista che si presenta, che per produrre qualità bisogna saper scartare, rinunciare e compiere scelte che la favoriscano, ed è ovvio che “noi” tutto ciò sappiamo farlo benissimo. Ecco, questa è retorica; e oggi, in un mondo che cresce e diventa sempre più globa-
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lizzato, la qualità non è più un valore aggiunto, ma una costante imprescindibile di un’azienda che produce vino. No, non vorremmo cadere in questi giochi di autogratificazione, ma crediamo sia necessario dare delle risposte a quei segnali negativi che arrivano dal mercato, come è giusto determinare quali siano le cause e le concause che provocano ricadute differenti nei vari territori a spiccata vocazione vitivinicola, non solo nazionali, ma addirittura fra quelli collocati nella stessa regione o confinanti. In questi casi ognuno usa le armi che ha a disposizione, cercando di mascherare la realtà, contrapponendo alla stagnazione un aumento del suo impegno nell’azienda, diminuendo gli investimenti e razionalizzando le economie dell’impresa. Cose che facciamo tutti e molto spesso alla stessa maniera, perché noi, da un po’ di tempo, ci siamo convinti che in un mercato così complesso sia necessario fare gruppo e ciò non solo aiuterebbe i singoli, ma agevolerebbe anche l’interazione con il territorio. Del resto è da riconoscere che nel tempo non sono mancate le occasioni per imporre definitivamente questo territorio all’attenzione mondiale e per consolidare il suo prestigio, ma ogni volta ci sono stati errori strategici, politici, economici e culturali che ne hanno impedito una piena affermazione. Una cecità collettiva che ha colpito tutti, ma, come diceva Qualcuno, “chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Se i produttori avessero programmato la produzione e non avessero rincorso la chimera di un immediato business, se avessero regolamentato la produzione e se invece di punteggiare il territorio di impianti industriali lo avessero difeso, oggi probabilmente l’Asti Spumante avrebbe la solita e consolidata fama dello Champagne e forse Canelli potrebbe godere di tutte le positive ricadute delle quali gode, appunto, la regione dello Champagne, in Francia. Ma quanti se, quanti ma, quante chances perse e opportunità non sfruttate. Crediamo che la difficoltà maggiore sia stata quella di non saper togliere il piede dall’acceleratore al momento giusto nell’euforica previsione di facili guadagni. In ogni caso, oltre a quel naturale egoismo che contraddistingue tutti, siamo convinti che vi siano stati altri fattori ad impedire che tutto ciò accadesse, non ultimi l’inadeguatezza culturale di base, la mancata visione economica d’insieme e l’assoluta noncuranza per il territorio. Oltre alle colpe dell’imprenditoria vitivinicola vi sono anche quelle di una classe politica che non ha saputo coniugare i bisogni dell’agricoltura con quelli dell’industria. Indubbiamente si trattava di un compito non facile, che è stato tra l’altro anche sottovalutato; dovevano essere fatte delle scelte coraggiose e rispettose della memoria e della cultura di questa zona, prettamente a vocazione agricola. Invece in questi ultimi cinquant’anni, fatta qualche eccezione per scelte e conseguenti iniziative risalenti ad un lustro fa (o forse due), tutti si sono rivelati assolutamente incapaci di avere una minima sensibilità nei confronti di questo territorio che possiede un importantissimo patrimonio vitivinicolo, storico, gastronomico, artistico e architettonico. Ciò che è stato non si può certo modificare, ma se sbagliare è umano, dicono che perseverare sia diabolico, quindi è necessario modificare la mentalità, l’approccio al problema, cercare di crescere proprio in un momento di forte stallo, affidandosi soprattutto alla straordinaria potenzialità dei vitigni di questa terra, Barbera, Moscato e Nebbiolo, che hanno dimostrato di essere capaci, da soli, di affrontare a testa alta i mercati di tutto il mondo. Forse ci siamo arrivati tardi, ma abbiamo capito che non basta più fare vino: è necessario produrre un sistema-territorio che sappia trasmettere tipicità e caratterizzazione di un’intera area che racchiude un piccolo mondo; c’è il paesaggio, l’enogastronomia, la qualità della vita, la cultura, l’ospitalità e tutte le prerogative, esclusive, di questo territorio. Quello che a noi oggi interessa di più è sicuramente guardarci dentro, valorizzare ciò che già abbiamo per rispondere ai nuovi bisogni del mercato, per non doverci ripetere sempre che dobbiamo fare “solo qualità” o per non doverci guardare allo specchio e capire di non essere stati poi tanto furbi o peggio, dover dire ancora: “Piove. Governo ladro!”
Monteriolo Piemonte DOC Chardonnay
Altri vini I Bianchi: Piemonte Chardonnay DOC Riserva della Famiglia (Chardonnay 100%) Coppo Brut Riserva (Pinot 80%, Chardonnay 20%) Moscato d’Asti DOCG Moncalvina (Moscato d’Asti 100%) I Rossi: Barbera d’Asti DOC Pomorosso (Barbera100%) Barbera d’Asti DOC Camp du Rouss (Barbera 100%) Barbera d’Asti DOC Riserva della Famiglia (Barbera 100%)
Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Chardonnay provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nei comuni di Canelli e paesi limitrofi, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei con forte presenza di marne tufacee, sono posizionati ad un’altitudine di 200 metri s.l.m. con esposizione variabile da sud a sud-ovest. Uve impiegate: Chardonnay 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 14°C per circa 24 ore, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 14 giorni in barrique in cui rimane per 9 mesi durante i quali vengono effettuati bâtonnage al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. A seconda delle annate, la fermentazione malolattica non sempre è fatta svolgere. Di solito alla fine del mese di maggio successivo alla vendemmia viene effettuato l’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15000-20000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati e con profumi complessi di burro fuso, fiori di acacia e caramella al miele, con piacevoli sensazioni di frutti tropicali che spaziano dalla banana, all’ananas, al pompelmo; sul finale leggere nuances di mandorla e complesse percezioni minerali. In bocca ha un’entratura pulita, elegante, importante, con una buona acidità che conferisce al vino bella freschezza; grande lunghezza e notevole persistenza. Prima annata: 1984 Le migliori annate: 1986 - 1989 - 1992 - 1994 - 1996 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla collina posta alle spalle della casa di famiglia, raggiunge la maturità dopo 4-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Coppo dal 1892, l’azienda agricola si estende su una superficie di 18 Ha in proprietà, tutti vitati. Collaborano in azienda l’enologo Gianmario Cerutti e l’enologo Guglielmo Grasso.
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CORDERO DI MONTEZEMOLO MONFALLETTO Enrico, Elena, Gianni e Alberto
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Cordero di Montezemolo
Non è facile portare avanti una storia che risale al 1340, quando i nostri avi, i Falletti, dettero vita a questa azienda agricola, conosciuta oggi con il nome di Monfalletto. Da allora sono trascorsi tanti secoli, durante i quali in queste Langhe sono avvenute infinite trasformazioni. Storie belle e brutte, di cui ci sentiamo parte integrante, come anelli di una continuità mai interrotta, per quella sensibilità che ci è stata tramandata e si manifesta nelle premure che abbiamo ogni qualvolta ci troviamo a contatto con questa terra. Qui è passata la storia della nostra gente che, nel tempo, ha saputo mantenere vivo il culto della coltivazione della vite, unito al desiderio di perpetuarlo alle generazioni future. Portare un cognome altisonante come Cordero di Montezemolo è impegnativo, vista la parentela che ci lega con un nostro cugino che ricopre cariche amministrative di primaria importanza nel panorama economico nazionale, con il quale condividiamo, solo e soltanto, la passione per il colore rosso. Come ripetiamo sempre ai clienti, lui viaggia in rosso Ferrari, mentre noi beviamo vino rosso e, anche se gli strumenti che usiamo sono diversi, è questo il colore di famiglia che ci unisce. Pensando a lui, è logico collegarsi al ruolo che ha svolto l’industria automobilistica nazionale ed è inconfutabile, in ogni modo, che l’apertura delle Langhe al mondo sia coincisa con lo sviluppo di questa industria specifica. Qui una volta non vi erano strade asfaltate e, anche dopo, quando lo furono, non vi erano macchine che le percorressero e, anche se vi fosse stata una piccola azienda in grado di fare un grande vino, sarebbe stato difficile, o quasi impossibile, trasportarlo. Come avrebbe potuto, quell’azienda, spe-
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dire quel vino, se aveva a disposizione solo strade sterrate e una precaria ferrovia che si fermava ad Alba? Oltre tutto lontana anche dal mare, forse l’unica via sulla quale avrebbe potuto far viaggiare le sue merci per il mondo? Qui non c’era niente. È stata la costruzione delle strade e il diffondersi del trasporto privato a dare sviluppo a questo profondo Sud del Nord. Fotogrammi di una storia di cui abbiamo sentito parlare, vivendola solo marginalmente, ma che, in ogni caso, ha interessato direttamente i membri della nostra famiglia. Ciò che è successo dopo è sotto gli occhi di tutti: in poco più di qualche decennio queste terre sono state trasformate e i langaroli, colpiti da improvviso benessere, hanno modificato il loro rapporto con la terra. Le pratiche enologiche si sono sempre più evolute e, grazie ad esse, è stato possibile diffondere il linguaggio di un radicato concetto di qualità nella produzione vitivinicola. Lo sviluppo della tecnologia ha coinvolto ogni settore e ha messo a disposizione strumenti impensabili, fino a qualche anno addietro, che hanno semplificato non solo i processi di lavorazione, ma hanno interagito nei meccanismi di comunicazione, nella conoscenza dei mercati e nel sistema culturale dell’intera area. È ancora grazie alle strade e alle macchine che si è avviata una positiva ricaduta sul territorio, con l’aumento del turismo enogastronomico che ha dato spunto a una ristorazione di alto livello e a ottimi agriturismi e alberghi, sviluppando una cultura dell’ospitalità che oggi comincia a dare i suoi risultati. In questa “schioppettante” evoluzione anche la stampa ha giocato un ruolo importantissimo nella promozione, facendo sì che questo privilegiato fazzoletto di terra fosse conosciuto in tutto il mondo, e la notorietà che ne è conseguita ha incoraggiato moltissimi piccoli produttori a vinificare le proprie uve e a battere con le proprie etichette i mercati di tutto il mondo, lubrificando sempre più quel volano economico che già si era messo in movimento. Insomma, sono stati molti i fattori che hanno concorso a promuovere spontaneamente questa terra, ma ce ne sono alcuni, e crediamo di non essere smentiti se affermiamo questo, che hanno determinato la nostra grande fortuna e questi sono proprio i nostri vitigni autoctoni, come il Nebbiolo, la Barbera, il Dolcetto e il Moscato. Vitigni dai quali abbiamo ricavato vini unici, irripetibili in ogni altra parte del mondo, che si trovano in perfetta simbiosi con questo territorio, trasferendo al vino, che raggiunge i mercati di tutto il mondo, l’humus di questa terra. Vitigni forti, austeri che hanno saputo caratterizzare non solo le Langhe, ma l’intero sistema vitivinicolo regionale. Oggi tutti si sono messi a correre e a scommettere sul futuro di questa terra, ma in molti si sono accorti che è difficile fabbricarsi una storia che consenta di avere un’identità spiccata, in simbiosi perfetta con il territorio che li ospita. Questa storia appartiene a noi da sempre e, anche chi capisce poco di vino, venendo qua ha la sensazione che quanto affermiamo è vero e non è difficile, qui a Monfalletto, percepire l’armonia che lega questa azienda al territorio e alle sue tradizioni. Dietro a tutto questo c’è un progetto che parte da lontano, c’è un’architettura ambientale, c’è uno studio e la voglia, da parte di tutti, vecchie e nuove generazioni, di proseguire un’avventura senza tempo. Altri vini I Bianchi: Langhe Chardonay DOC Elioro (Chardonnay 100%)
I Rossi: Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba Superiore DOC Funtanì (Barbera 100%) Barolo DOCG Monfalletto (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Enrico VI (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Riserva Gorette (Nebbiolo 100%)
Vigna Bricco Gattera Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto Bricco Gattera, posto in località Gattera nel comune di La Morra, che ha un’età media di 18 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni argilloso-calcarei ricchi di ossido di magnesio e manganese, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: cordone speronato con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 15 giorni alla temperatura massima di 33°C in recipienti di acciaio inox termocondizionati, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura 5 giorni con l’ausilio di frequenti follature e rimontaggi. Terminata questa fase, il vino viene posto in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura, dove svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 18 mesi con 5 travasi complessivi. Al termine di questo lungo periodo di maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 4500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con leggeri riflessi granati e con profumi ampi e complessi che spaziano dalle note fruttate di prugna e ciliegia ad aromi speziati come quelli del cassis con una chiusura piacevole di liquirizia. In bocca è elegante, caldo, con tannini vellutati e una buona sapidità che lo rende fresco, piacevole, lungo e persistente con un finale che ricorda il bastoncino di liquirizia. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997 - 1998 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla vigna omonima, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Cordero di Montezemolo dal 1340, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 30 Ha, tutti vitati. Svolge la funzione di agronomo Bruno Roggero, mentre gli enologi sono Gianfranco Cordero ed Enrico Olivieri.
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CORREGGIA
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Ornella, Giovanni e Brigitta Correggia
Sono cresciuta come crescono tante brave ragazze di buona famiglia, un po’ timida, riservata, chiusa, molto giudiziosa, educata a seguire sempre una certa linea di condotta, a non fare cose che andassero al di fuori degli schemi, avviata a una vita tranquilla e magari, dopo un lungo fidanzamento, a un matrimonio e poi a qualche figlio da allevare con cura. In questa idilliaca previsione niente mi faceva presupporre che la mia vita potesse essere costellata di eventi catartici, alcuni dei quali piacevoli, altri dolorosi, ma che in tutti i casi mi avrebbero posto davanti a continue scelte che con risolutezza e determinazione ho poi sempre affrontato. La stessa conoscenza di mio marito Matteo fu un evento catartico che mi condusse prima a innamorarmi di lui e poi a ritrovarmi, entro un anno, sposata e nell’attesa del primo figlio, Giovanni, come voleva la tradizione dei Correggia, che ogni trent’anni dovevano festeggiare un figlio maschio, arrivato a perpetrare il nome della famiglia. Così mi sono trovata moglie di un grande vignaiolo e mamma felice. È in questo modo che mi sono avvicinata al mondo del vino: sposandomi. Prima non sapevo neanche che sapore avesse, ne distinguevo appena il colore, il bianco dal rosso, e avrei scoperto solo molto più tardi che c’era anche il rosato! Quello del vino era un mondo che non mi apparteneva e poi l’azienda di Matteo, quando ci siamo sposati, era piccolina e non aveva bisogno di una mia presenza attiva. Ero comunque amorevolmente coinvolta nelle decisioni che mio marito prendeva: lui era sempre pieno di entusiasmo per questo lavoro. Ricordo che spesso tornava
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a casa contento come un bambino per aver raggiunto l’accordo sull’acquisto di un pezzo di vigneto che lui riteneva ”grandioso” ed io gioivo con lui e non aveva importanza se avevamo da 7 anni il salone di casa da arredare; prima o poi sarebbe arrivato anche quel momento, l’importante era continuare ad investire bene, nelle vigne, con la possibilità di avere tutta l’uva di proprietà e permettersi di vendere quella che non ci piaceva. Aveva sempre mille cose da fare e mille idee da realizzare ed era geniale nello sfruttare ogni minuto della sua giornata per farle tutte; non restava mai con le mani in mano e, per quanto ne so, credo che studiasse anche di notte cosa fare il giorno dopo. Andava sempre di fretta, come in fibrillazione, alla continua ricerca di un suo appagamento personale che sembrava non arrivasse mai, sempre proteso alla realizzazione del sogno del suo grande vino. Posso assicurare che stargli accanto non era facile, però, se non altro non mi annoiavo! Era come se il tempo gli mancasse e sapesse che non ne avrebbe avuto molto da spendere. Poi ecco, quando sembrava che tutto andasse per il meglio, un altro evento a modificare nuovamente tutto. Dal martedì al giovedì la mia vita è improvvisamente cambiata e mi sono ritrovata da sola, con due figli piccoli e un’azienda in mano. La ragazza per bene, timida, chiusa e riservata, rimasta sino ad allora tranquilla e silenziosa dietro le quinte, felice per il suo uomo che si prendeva i riflettori della notorietà e le soddisfazioni per il suo lavoro, era improvvisamente scomparsa, “volatilizzata” nel dolore. Al suo posto c’era un’altra donna, ancora tutta da scoprire, che si ritrovava catapultata sul palcoscenico del mondo del vino a lei completamente estraneo. Senza dubbi e senza esitazioni decisi di proseguire su quel solco che Matteo aveva tracciato e che in qualche modo anche io avevo contribuito a delineare. Così ho dovuto nuovamente cambiare pelle e trasformarmi lentamente in una donna che, attraverso questo lavoro, doveva definire una nuova identità di sé, andando alla ricerca di nuove forze e di una risolutezza che non era sicura di possedere. Se i casi della vita non mi avessero costretto, forse non avrei mai scoperto né la grinta che oggi mi riconosco, né il coraggio che ogni giorno tiro fuori per affrontare questa solitaria quotidianità. Energie che non sospettavo di avere e che hanno zittito coloro che sostenevano che non ce l’avrei mai fatta, che avrei abbandonato tutto e venduto l’azienda. Non è stato facile, e non lo è tuttora, soprattutto perché ho dovuto misurarmi con me stessa, superando le mie paure, le mie incertezze, i miei stessi pregiudizi, fino ad arrivare in fondo, proprio al nocciolo di me stessa, a quella parte interna, dura e coriacea che doveva essere rimossa, alimentando un orgoglio che mi sostiene e mi stimola a continuare a far crescere e sviluppare quanto avviato con Matteo. Nel frattempo i tempi sono cambiati per tutti, non solo per me, e anche il mercato del vino non è uguale a quello che c’era qualche anno fa, quando era vivo mio marito. Oggi infatti, mi trovo da sola ad affrontare una sfida molto difficile con un’azienda che deve misurarsi ogni giorno con necessità nuove che richiedono decisioni immediate e lungimiranti e, sebbene la paura di sbagliare sia costante, questa sfida mi porta ad autovalutarmi e a mettermi sempre in discussione per essere certa di fare la cosa giusta. Quella lontana educazione “formale” fa ancora sentire la sua presenza e a volte sembra che mi ingessi in comportamenti artificiosi, ora per paura dei giudizi degli altri, ora per paura di non saper corrispondere al nuovo ruolo di imprenditrice o a quello di madre attenta e premurosa. Mi accorgo che, piano piano, il vuoto e le paure stanno scomparendo; devo dire grazie a questo lavoro, un vero toccasana, che in certi momenti è stato un valido rifugio per alleviare il mio dolore, in altri un valido strumento didattico con il quale costruire questa mia nuova professionalità. Il tempo passa, ma tramite lui io trovo la maniera di testimoniare il mio perenne omaggio a chi non c’è più e lo stimolo per andare avanti, fare, creare, produrre il “grande vino” che voleva fare Matteo.
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC Matteo Correggia (Sauvignon 100%) Roero Arneis DOCG (Arneis 100%) I Rossi: Langhe Rosso DOC Le Marne Grigie (Cabernet Franc 20%, Cabernet Sauvignon 20%, Merlot 20%, Syrah 20%, altri vitigni francesi 20%) Nebbiolo d’Alba DOC La Val dei Preti (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Marun (Barbera 100%) Anthos Vino da Tavola (Brachetto 100%)
Ròche d’Ampsèj Roero Rosso DOC Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Pecetto nel comune di Canale d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 25 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni sabbiosi con presenza di argilla e limo, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 330 metri s.l.m. con esposizione variabile da sud-est a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 25 settembre al 15 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni alla temperatura di 30°C in rotomaceratori termocondizionati di acciaio inox; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura invece dai 3 ai 6 giorni durante la quale si effettuano frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in barrique di rovere francese a grana fine di media tostatura tutte di primo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 14-18 mesi durante i quali vengono effettuati di solito 3 travasi. Al termine della maturazione avviene l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati e con profumi dolci e complessi che spaziano dalle note floreali di viola a quelle di menta, dalla liquirizia alla ciliegia, oltre a piacevoli sensazioni speziate di cannella, caffè e foglia di tabacco. In bocca ha un’entratura potente, come ci si aspetta da un grande vino con una fibra tannica equilibrata e con lunghezza e persistenza invidiabili. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1996 - 1997 - 1998 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome, in dialetto piemontese, dalla collina dove è posizionato il vigneto, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 18 anni. L’azienda: di proprietà di Ornella Costa Correggia dal 2001, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 20 Ha, tutti vitati. Svolge la funzione di enologo Luca Rostagno.
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Giuseppe Cortese
Spero che mi crederai se ti dico che per me il vino è un grande ambasciatore di pace che oltrepassa ogni frontiera e porta con sé un messaggio di comunione e fratellanza globale che, oggi più che mai, è necessaria, visto che ognuno a questo mondo sembra aver voglia soltanto di gridare e di imporre, con la forza, le proprie ragioni. È a questo caos e a questa inquietudine generale che, ogni tanto, volano i miei pensieri quando mi trovo immerso nella quiete della mia cantina o nei silenzi delle vigne. Da solo, ascolto i miei pensieri che corrono alle apprensioni, alle insicurezze e alle instabilità che sembrano toccare ogni aspetto della vita sociale, e mi rammarico di come esse si proiettino negativamente nel cuore della gente e rendano tutto più fragile e incerto. Non credo che siano solo i focolai di guerra, oggi accesi un po’ ovunque, a creare una così grande instabilità; come scriveva il grande Cesare Pavese ne La Casa in collina: “Cosa importa la guerra, cosa importa il sangue – pensavo – con questo cielo tra le piante? [...] La guerra finiva domani, tutto tornava come prima. Tornavano la pace, i vecchi giochi, i rancori. Il sangue sparso era riassorbito dalla terra. Le città respiravano. Nei boschi nulla mutava e dove un corpo era caduto riaffioravano radici”. Le guerre passano e dopo la morte rinasce la vita; ma quanto dolore, quante sofferenze, quante ingiustizie inutilmente commesse per difendere questa o quella
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ragione! Come sarebbe più bello poter discutere e risolvere le dispute dopo una piacevole e gaudente cena nella quale si gusta anche un grande vino? Il mio, forse, non è nient’altro che un paradosso, ma sono convinto che chi ha il piacere di godere delle gioie della tavola e di quelle di un buon bicchiere di vino, affronta meglio la vita. Non sono certo un esperto osservatore, né tanto meno un sociologo, ma nel mio piccolo noto che il vino oggi è venduto, sempre più, in ogni parte del mondo e anche una piccola azienda come la nostra ha l’opportunità di avere contatti con le nuove economie, non solo dei paesi dell’Est, ma anche di quelli extraeuropei, che si stanno consolidando, nel panorama mondiale, come nuove realtà economiche. Dieci anni fa erano soprattutto tedeschi e americani a visitare la nostra azienda, mentre oggi non è difficile vedere arrivare in cantina un russo, un israeliano, un giapponese o un lituano. C’è stata una crescita economica e culturale di molti paesi e il benessere raggiunto si è tradotto in viaggi e desiderio di conoscere i prodotti tipici di qualità, nella voglia di comprendere altre realtà, soprattutto se antiche e importanti come quella italiana. In azienda, dove mi occupo particolarmente della cantina e della produzione, ne vengono molti di questi “enoturisti”. La nostra è un’azienda storica, anche se è stato soltanto a cominciare dagli anni ’80 che abbiamo iniziato a vinificare tutte le uve che prima vendevamo solo in parte lavorate, per soddisfare il fabbisogno familiare o quello di qualche amico a cui vendere un po’ di vino. Finita la scuola enologica, nel ’91, senza esitazioni, mi gettai in questo lavoro stando accanto a mio padre, con il quale mi sono sempre trovato bene, sebbene lui fosse un tipo molto scrupoloso: il classico contadino che ama la vigna, la segue, la controlla in tutte le sue fasi, dalla potatura al diradamento, dalla vendemmia all’assistenza riservata a quelle piante che necessitano di una cura e di un’attenzione maggiore rispetto alle altre. Standogli accanto, oltre a comprendere un’infinità di particolari, ho appreso quanto fosse determinante la continuità attraverso la quale si crea la storia di una azienda, si traccia un solco, si plasmano punti di riferimento su cui intervenire, per poter, alla fine, modificare solo ciò che è necessario e indispensabile. Uno sguardo al passato e uno al futuro, così da far sapere sempre, a chi apprezza i nostri vini, quale sia con esattezza la nostra identità aziendale. Le sole innovazioni che abbiamo introdotto hanno riguardato il nostro parco botti, un po’ datato, e l’abbassamento delle rese in vigna che, all’inizio, mio padre ha accolto con la classica incertezza di chi era abituato, pur facendo un prodotto di qualità, a considerare un valore anche la quantità. Per il resto niente è cambiato, né i tempi, né i modi di quell’antica arte che contraddistingue noi vignaioli piemontesi, che sa comunicare il territorio ed esaltare la grande uva, come quella che mio padre ha sempre saputo portare in cantina. Il nostro obiettivo è stato quello di produrre un grande vino che potesse farsi ottimo ambasciatore nel mondo, veicolando i nostri valori positivi di attaccamento al territorio e di fiducia in un lavoro di qualità, che riteniamo siano princìpi universali e condivisibili da ogni uomo su questo pianeta. Ora il nostro scopo è quello di consolidare la produzione senza cambiare né lo stile, né il volume della stessa, ma mantenendoci stabili sul livello raggiunto e accreditando sempre più il nostro vino in terre diverse, consapevoli che questo è il nostro “piccolo” modo di far star bene la gente.
Altri vini I Bianchi: Langhe Chardonnay DOC (Chardonnay 100%) I Rossi: Barbaresco DOCG Rabajà (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%) Barbera d’Alba DOC Morassina (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC Trifolera (Dolcetto 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%)
Rabajà Barbaresco DOCG Riserva Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo raccolte nelle più vecchie particelle dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Rabajà e situato nel comune di Barbaresco, le cui viti hanno un’età compresa tra i 35 e i 60 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-argillosi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 7 giorni alla temperatura di 30°C in tini di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altre due settimane durante la quale vengono effettuati meccanicamente rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, si procede alla svinatura e dopo un primo travaso il vino viene posto in botti di rovere di Slavonia da 17 Hl in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 36 mesi durante i quali vengono effettuati altri 3 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 36 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino profondo con riflessi aranciati e con sensazioni di eucalipto e tè verde che introducono a note di fiori appassiti, liquirizia, bacche di cacao e percezioni fruttate di lamponi sotto spirito, fragole e rose rosse. In bocca ha un’entratura elegante, equilibrata, con una fibra importante, con tannini morbidi che, insieme a una bella percezione sapida, conferiscono al vino freschezza e una notevole lunghezza e persistenza. Chiude con le note di liquirizia e di rabarbaro. Prima annata: 1971 Le migliori annate: 1971 - 1978 - 1982 - 1985 - 1988 1990 - 1996 - 1997 - 1999 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di produzione e viene prodotto solo nelle migliori annate, raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 25 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Cortese dall’inizio del XIX secolo, l’azienda è oggi condotta da Giuseppe Cortese e si estende su una superficie complessiva di 8 Ha, tutti vitati. Svolge la funzione di agronomo e di enologo Pier Carlo Cortese.
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FONTANAFREDDA
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Giovanni Minetti
Fu la scomparsa di Re Vittorio Emanuele II che contribuì ad avviare sui mercati di tutto il mondo la splendida avventura commerciale di Fontanafredda, la tenuta che, accorpando vigneti e terreni diversi nel territorio dei comuni di Serralunga d’Alba e Barolo, era stata comprata dallo stesso sovrano come appannaggio per i figli avuti dalla Contessa Rosa, la famosa “Rosina”: Emanuele e Vittoria Guerrieri di Mirafiori. Dopo la morte del Re, i Savoia abbandonarono i Mirafiori al loro destino, costringendoli a dare il massimo impulso all’attività vitivinicola che fino a quel momento era stata per lo più condotta per soddisfare le esigenze del Re, ma che improvvisamente, per necessità, dovette divenire un’importante fonte di reddito. Fu chiaro che il Barolo della tenuta, fino ad allora omaggiato come dono personale del Re alle corti e alle ambasciate di mezza Europa, confermando così il detto “Barolo, re dei vini e vino dei Re”, doveva essere avviato verso altre strade, oltre a quelle già consolidate: era necessario aprire nuovi canali commerciali che contribuissero ad aumentare le rendite, seguendo gli esempi di altre nobili famiglie piemontesi con le aziende Martini & Rossi, Gancia o Cinzano, sorte qualche anno prima, al tempo di Carlo Alberto, padre di Vittorio Emanuele II, per produrre soprattutto spumanti o Vermouth. A Fontanafredda si produceva invece il Barolo, quel vino che aveva conquistato lo stesso Carlo Alberto. Così Fontanafredda, grazie alle sue nobili origini e ad un’intensa attività produttiva e commerciale ad opera del conte Emanuele Guerrieri di Mirafiori, divenne in breve tempo l’azienda che diffuse il Barolo nel mondo. Toccò al nipote del Re, Gastone, cinquant’anni dopo, “abdicare”:
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del resto la grande crisi del 1929 aveva fatto numerose vittime illustri... La Tenuta passò così al Monte dei Paschi di Siena, che subentrò ai Mirafiori nel 1931 e che detiene tuttora la proprietà dell’azienda. Quando leggevo di queste storie o frugavo fra gli archivi della memoria popolare delle Langhe, scoprivo ogni volta aspetti diversi di un mondo affascinante che contribuiva ad accrescere la mia grande passione per la vite e il vino, elementi di una cultura materiale che aveva, nel tempo, modellato il carattere degli uomini oltre che lo stesso ambiente rurale. Quando mi fu data l’opportunità di dirigere Fontanafredda, fu con grande entusiasmo che aderii alla proposta, sapendo di essere chiamato ad operare per realizzare un progetto preciso, di rinnovamento dell’immagine e della produzione dell’azienda nel suo complesso. Come chiunque abbia avuto la fortuna (io, almeno, la ritengo tale) di crescere in una grande regione vitivinicola come le Langhe, ero sempre stato attratto dal mondo del vino e per questo motivo, terminati gli studi classici, mi iscrissi alla Facoltà di Agraria di Torino, conseguendo, dopo la laurea, anche la specializzazione in Viticoltura ed Enologia. Poi, come dirigente presso l’Assessorato all’Agricoltura della Regione Piemonte, mi sono occupato in particolare della viticoltura della provincia di Cuneo e, in qualità di direttore dell’Enoteca Regionale del Barolo, ho avuto modo di acquisire una visione più globale e più ampia di tutte le problematiche che interagiscono sulla filiera produttiva. Molto importanti per la mia formazione sono state le amicizie e le frequentazioni di produttori come Battista Rinaldi - indimenticato maestro -, Bartolo Mascarello, Renato Ratti, Giacomo Oddero, Teobaldo Cappellano, Massimo Martinelli e Angelo Gaja, solo per citarne alcuni; rapporti che mi hanno consentito di comprendere meglio quali delicati meccanismi governassero dall’interno un’azienda di successo. Poi è arrivata la proposta di Fontanafredda, una grande scommessa sul piano personale. Una scelta effettuata per passione e per il gusto di accettare una nuova sfida, con quel pizzico di incoscienza che rende l’uomo capace di avvicinare l’utopia. Fontanafredda oggi è un’azienda ricca di passato e di futuro, una realtà della vitivinicoltura italiana dalle grandi potenzialità, che sta esprimendo con vini ogni anno sempre migliori. Alla base del progetto di miglioramento continuo, insieme con la proprietà, si è costituito un team di persone che credono nell’azienda e nel lavoro come valori e che soprattutto “mettono in rete” il loro sapere e le loro energie per rendere raggiungibili gli obiettivi che ci siamo dati reciprocamente, con grande senso di appartenenza. Per me Fontanafredda ha una molteplicità di significati che è difficile sintetizzare in un unico pensiero. Mi colpisce sempre la quieta e silenziosa bellezza di questo anfiteatro di vigneti, dove protagonista è la storia, né l’azienda è uno scarno dato economico di costi e ricavi o un semplice soddisfacimento della mia passione per il vino. La mia lettura di Fontanafredda è più complessa: è il paesaggio, l’architettura degli edifici, ma è anche l’energia che qui si respira. È una sorta di splendido pretesto per un altro tipo di ricerca - più artistica, forse, che metafisica - che riguarda le nostre stesse vite, l’apertura a un mondo che non finisce mai di stupirci. Sono percezioni che si mischiano alla consapevolezza degli impegni e delle responsabilità che ho assunto, non solo nei confronti di una proprietà come la banca Monte dei Paschi di Siena, particolarmente attenta e competente, ma anche nei confronti delle numerose famiglie di quei vignaioli che da più generazioni vendono orgogliosamente le loro uve all’azienda. È con questi pensieri che ogni mattina trovo la forza di affrontare con vigore il mio impegno, consapevole di contribuire così a proseguire la storia della tenuta, di queste nobili vigne e di quella, più generale e collettiva, degli uomini che qui lavorano, come me, con il medesimo slancio e la stessa volontà di operare per il successo comune.
Lazzarito Vigna La Delizia Barolo DOCG
Altri vini I Bianchi: Alta Langa DOC Vigna Gatinera Talento Metodo Classico (Pinot Nero 100%) Roero Arneis DOC Pradalupo (Arneis 100%) Gavi del Comune di Gavi DOCG (Cortese 100%) I Rossi: Barbaresco DOCG Coste Rubìn (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Vigna La Rosa (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Papagena (Barbera 100%)
Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto nel comune di Serralunga d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 20 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto si trova in una zona collinare su terreni di origine sedimentaria marina ricchi di marne calcaree, ad un’altitudine di 400 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nei primi giorni di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che dura 20-30 giorni ad una temperatura massima che non supera i 32°C in recipienti di acciaio inox termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che prosegue per altri 10 giorni effettuando diversi délestage, follature e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, si procede a far svolgere al vino la fermentazione malolattica che viene favorita mantenendo la temperatura intorno a 20°C in recipienti termocondizionati. Conclusa la vinificazione, il vino è messo in barrique di rovere di Allier, nuove per il 30%, in cui rimane per circa 12 mesi. Al termine viene travasato in botti di Allier più grandi, da 20 e 30 Hl, dove prosegue l’affinamento ancora per 1 anno. Al termine della permanenza in legno si effettua, se necessario, una leggera chiarifica per ottenere un illimpidimento ottimale del vino, che viene quindi messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di circa 1 anno prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 25000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un colore rosso rubino con riflessi granati, mentre all’esame olfattivo offre una gamma di sensazioni tutte affascinanti e piacevoli, a partire dalle note di frutti rossi a quelle di confettura di prugna, dal geranio all’eucalipto, alla menta fino alla noce moscata, alla liquirizia e al pepe. In bocca ha un’entratura elegante, sobria, ben armonizzata fra i tannini morbidi e la viva sapidità. Vino dalla grande struttura e lunghezza. Prima annata: 1967 Le migliori annate: 1971 - 1974 - 1978 - 1982 - 1989 1990 - 1996 - 1997 - 1999 - 2000 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Banca Monte dei Paschi di Siena dal 1931, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 110 Ha, di cui 70 vitati e 40 occupati da prati, boschi, noccioleto e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Alberto Grasso e l’enologo Danilo Drocco.
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FORTETO DELLA LUJA
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Giovanni Scaglione
Sono nato tra questi vigneti ed è qui che venivo a giocare, quando ero ragazzino, e non so spiegarmi se sia la familiarità che ho con questi luoghi, l’attaccamento a queste colline o l’epidermico contatto quotidiano con questo ambiente, ma ogni giorno di più sento forte in me il pulsare di questa terra. Certe volte la sento viva, forte, prepotente, mentre in altri momenti la percepisco malinconica e melodiosa. È come se ascoltassi una musica con dissonanze jazzate, composite, articolate, con lunghi e frenetici assoli, che mi lasciano esterrefatto, e che, piano piano, si armonizzano con le morbide note delle stagioni o con dei downbeat, i tempi forti delle battute, bruschi temporali o contrappunti, che segnano le mie emozioni e marcano le mie paure per un raccolto incerto, fino a giungere a un bridge, un ponte, che attraversa il tempo che intercorre fra la vendemmia e la titubante attesa del vino che sarà. Così, la cantina mi sembra un po’ stretta per contenere le note di tutta quella musica che la mia anima percepisce, appena oltre la sua porta, diffusa nelle correnti sottili dell’aria di tutta quell’immensità che sta là fuori. Lavorando fra queste botti mi convinco sempre più di dover riuscire a trasferire al mio vino queste mie emozioni, forse il solo elemento capace di avvicinarsi più di ogni altra cosa a quella musica e l’unico capace di restituire con la sua dolcezza le stesse note che parlano degli umori di questa terra. Mi accorgo che, con il passare degli anni, ho trasformato l’azienda di famiglia in uno strumento musicale, attraverso il quale ho intensificato e concretizzato quel
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legame, già forte, che ho con il paesaggio e il delicato e rispettoso equilibrio che ho con questo complesso ecosistema. Mia sorella Silvia si occupa dell’amministrazione, mio padre Giancarlo, enologo, mi segue da lontano con occhio attento e vigile, io mi dedico ai vigneti e alla cantina ed è forse per questo che sento più degli altri elementi della famiglia il legame con questo territorio. Un sentimento forte che è cresciuto con il passare degli anni, come può succedere solo nelle vere amicizie, con le quali hai condiviso e attraversato le varie fasi della vita. Un sentimento come quello costruito venti anni fa (io ero ancora un ragazzino) tra mio padre e Giacomo Bologna, che cambiò il modo di rapportarsi alle viti e al vino di questa azienda. Da quell’amicizia, e dai consigli di altri amici come Veronelli si arrivò, qui a Loazzolo, alle prime vinificazioni delle uve Moscato, raccolte in un vecchio vigneto del 1937, lavorate con l’antica tecnica dell’appassimento, ormai rara, ma largamente praticata in questa zona all’inizio del secolo scorso e usata, più che altro, per la produzione di vino a uso e consumo familiare, senza alcuna velleità di etichettatura o commercializzazione. Nacque così questo nostro vino, che è unico, magico, nuovo e vecchio contemporaneamente, anche sotto un punto di vista concettuale, l’unico in grado di racchiudere le note di questo terroir; un vino da meditazione, con un forte valore antropologico, figlio di questo ecosistema e indifferente all’interesse che suscitano oggi i vitigni autoctoni. Come la bella musica di un trio jazz, questo vino restituisce all’aria e al palato le note che io sento oltre la porta della mia cantina. Una musica improvvisata, ogni anno diversa, che inizia a comporsi già in vigna traendo linfa dalla terra e dal passaggio delle stagioni, e poi si amalgama e diventa swing con il mio intervento. In quest’ottica di armonia, che contraddistingue il rapporto che ho instaurato con l’ambiente circostante, ho sviluppato, insieme al WWF, un progetto per la creazione di una riserva naturale di 100 ettari che comprende sia alcuni appezzamenti di terra appartenenti alla nostra azienda, sia di altri proprietari. Ho condiviso volentieri questo progetto nella certezza più assoluta che tutto sia in relazione, come quei boschi che stanno lassù, di fronte alla mia azienda, e che fanno parte di questo habitat che sicuramente interagisce con le mie vigne. È facile comprendere come vi sia un collegamento stretto fra tutto questo, che va ben oltre la semplice tutela dell’ambiente, e tocca note più complesse, percezioni emotive, personali, come se fosse quasi una forma di delicatezza, circospezione e rispetto nei confronti delle cose che ti circondano, sapendo che ognuna di esse fa parte di un delicatissimo equilibrio pre-esistente. Gli obiettivi da raggiungere sono ancora molti e rimanere immobili significherebbe quasi morire e chi conosce la nostra realtà sa che non potrebbe essere diverso, visto che siamo un’azienda molto piccola, inserita in un ambiente montano, in un paesino di poche centinaia di persone, a 550 metri sul livello del mare, con un clima e un terreno diversi dalla maggior parte degli altri luoghi di produzione del Moscato, un territorio al quale è stata riconosciuta una DOC, quella di Loazzolo, che è la più piccola d’Italia con solo 5 ettari di vigneti e 8 produttori. Siamo piccoli, ma intorno c’è tanto altro, c’è il paesaggio, la natura, il bosco, i prodotti tipici come il caprino di Roccaverano, l’unico formaggio a Denominazione di Origine Protetta prodotto con latte di capra crudo, o la Tonda Gentile delle Langhe, la migliore nocciola del mondo, quella del Gianduiotto, il cioccolatino simbolo di Torino. Tutte queste meravigliose specificità sono costantemente insidiate, purtroppo, da una cultura industriale dominante che va tenuta lontano, visto come ha interagito con le zone che avrebbero avuto invece tutt’altra vocazione. Con il mio modesto contributo spero soltanto di poter dare un piccolo esempio, mostrando quanto sia più fruttuoso, anche economicamente, un atteggiamento di rispetto e convivenza con il territorio che non un suo sistematico depredamento. Io, del resto, mi sento fortunato a pensarla così e a vivere qui.
Altri vini I Bianchi: Moscato d’Asti DOCG Piasa San Maurizio (Moscato bianco 100%) I Rossi: Monferrato Rosso DOC Le Grive (Barbera 80% circa, Pinot nero e altri vitigni a bacca rossa il resto) Piemonte Brachetto DOC Forteto Pian dei Sogni (Brachetto 100%)
Piasa Rischei Loazzolo DOC Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Moscato bianco provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Regione Bricco Candelette nel comune di Loazzolo, le cui viti hanno un’età media di 60 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare con oltre il 20% di pendenza e su terreni calcareo-marnosi tendenzialmente sciolti, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 500 e i 550 metri s.l.m. con esposizione a sudovest. Uve impiegate: Moscato bianco 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 8000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla fine di settembre e si protrae fino alla metà di novembre e durante la quale si procede alla selezione dei grappoli attaccati dalla Botrytis cinerea, le uve raccolte sono avviate a un appassimento naturale, su stuoie in ambienti molto arieggiati fino alla metà di dicembre. Poi si avvia la diraspapigiatura delle uve e il pigiato ottenuto è sottoposto ad una breve criomacerazione a freddo di 12 ore alla temperatura di 5°C. Al termine si procede alla pressatura delle uve e il vino è sottoposto a un breve periodo di stabilizzazione e illimpidimento naturale sempre alla temperatura di 5°C; quindi segue una lunga fermentazione alcolica, che può durare anche due anni, a 14°C in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui il vino rimane per altri 24 mesi; i legni sono nuovi e vengono sostituiti sempre allo scadere del primo anno con altre barrique nuove; vengono effettuati periodicamente dei bâtonnage e almeno 12 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo una microfiltrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5220 bottiglie l’anno (da 0,375 lt.) Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati e con profumi complessi, non aggressivi, di confettura di albicocche che si aprono a sensazioni tostate dolciastri di orzo e a note speziate di prugne cotte con cannella e vaniglia. In bocca è dolce, cremoso, con una buona sapidità che conferisce al vino una bella e persistente freschezza; chiude con note piacevoli di cioccolato bianco. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1985 - 1988 - 1990 - 1993 - 1994 - 1995 - 1996 1997 - 2000 Note: il vino, che prende il nome dal bosco (Forteto) che circonda il vigneto, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà di Giancarlo Scaglione dal 1983, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 19 Ha, di cui 8 vitati e 11 occupati da prati e boschi. Collabora in azienda l’agronomo Giovanni Scaglione, mentre svolge la funzione di enologo lo stesso Giancarlo Scaglione.
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Angelo Gaja Credo che ciò che ha permesso di esaltare i vini di questa terra sia stato l’accurato lavoro svolto nei vigneti dai contadini piemontesi. È stato uno sforzo unanime, di tutti, dei piccoli e dei medi produttori che via via si sono prodigati per tamponare quel gap che li divideva dal resto del mondo. Grandi menti illuminate, veri e propri artigiani del vino che hanno saputo ridare dignità al mestiere del contadino, divenendo in poco più di due decenni gli interpreti più fedeli delle tradizioni vitivinicole di questo territorio. Uomini duri, tosti, con grandi attributi, che hanno rivoltato questa terra come un calzino e l’hanno fatta diventare una delle zone vitate più belle del mondo. Basta guardarsi intorno per capire come le cose qui sono cambiate; colline dolci, paesaggi unici, dove le vigne si susseguono ad altre vigne ed è per questo che non ho paura di essere smentito se affermo che è forse l’unica regione al mondo che possa annoverare un così alto numero di vignerons votati alla qualità assoluta. Ricordo che nel 1961, quando presi le redini dell’azienda di famiglia, in Piemonte gli imbottigliatori erano 130, il 70% dei quali grandi industriali del vino. Essi però, pur facendo qualche errore, hanno avuto il merito di non puntare le loro strategie aziendali solo sui loro marchi aziendali, ma sul vino che commercializzavano, consentendo così ai nostri Barolo e Barbaresco di avere una corsia preferenziale quando iniziò il rinascimento del vino piemontese. Io, del resto, sono sempre stato convinto che la qualità di un vino nasca dall’interpretazione del territorio in cui lo stesso è prodotto e mi sono accorto che oggi qui ci sono grandissimi interpreti di questo splendido terroir, ma continuare a dirlo mi sembra
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pura retorica e una semplice banalità, visto che di questo ne siamo tutti convinti. Posso assicurare però, che non è stato sempre così. Quando ripenso a gente come Elio Altare che andava a tagliare i grappoli a metà e cimava le punte delle viti, abbassava i sistemi d’impianto, sorrido; allora gli davano del matto, ciò che faceva era una bestemmia, uno spreco, un’eresia. Oggi dietro a quegli esempi si è messo in moto un meraviglioso movimento culturale viticolo ed enologico, un meccanismo imprenditoriale unico nel suo genere, composto da piccole realtà nelle quali le nuove e le vecchie generazioni si sono adoperate all’unisono per raggiungere nei vini un livello assoluto di qualità. C’è stato un cambio di mentalità sulle nostre terre che forse ha rappresentato una delle evoluzioni più importanti per il Piemonte, dove purtroppo la produzione vitivinicola è stata sempre condizionata da una serie di fattori negativi: quelli riferiti al clima o alle difficoltà oggettive riscontrate nell’allevamento dei nostri vitigni autoctoni, unici e particolarissimi, oppure le difficoltà economiche e sociali di una frammentazione eccessiva della proprietà che non ha mai dato vita a una leadership trainante, o la necessità di dover far coesistere la vite con una forte e importante economia industriale che ha sottratto energie e manodopera specializzata alla campagna, snaturando un po’ queste aree da sempre vocate al vino. Per troppo tempo qui i politici hanno considerato il vino un accessorio, prezioso e importante come certi gioielli di famiglia che si custodiscono gelosamente, ma sui quali si fa poco affidamento per contare la ricchezza della famiglia stessa. Qui non ci sono mai stati grandi investimenti in agricoltura, non si è assistito agli stravolgimenti che i programmi comunitari in questi decenni hanno attivato in altre regioni; qui non esistevano e non esisteranno mai le grandi proprietà terriere: chi poteva ha preferito investire nell’industria invece che nell’agricoltura. Piccole e grandi problematiche che ho vissuto sulla mia pelle; realtà difficili da modificare alle quali vanno aggiunte, per onor di cronaca, anche quelle difficoltà soggettive che sono nel nostro DNA. Noi piemontesi siamo dei “calvinisti”, duri con noi stessi e con gli altri, stoici interpreti del lavoro, orgogliosi e convinti assertori del nostro libero pensiero, polemici e perfezionisti più per amor di critica che per noi stessi, sempre schierati da una parte o dall’altra come quando arrivarono le barriques e si formò il partito di chi ne esaltava le lodi e quello che criticava il loro utilizzo. Le Langhe fagocitano tutto, masticano tutto ciò che passa di qui ed è per questo che mi potete credere quando dico che ciò che è accaduto nel mondo del vino è qualcosa di meraviglioso. Inoltre qui è mancata la grande nobiltà terriera presente in tante altri parti d’Italia e con essa quella dimensione internazionale che nel vino hanno avuto altre regioni come ad esempio la Toscana, mentre in Piemonte questa è giunta attraverso la grande industria, rappresentata non solo dal marchio Fiat, ma dalla Ferrero o da chi ha costruito, e continua a costruire, stabilimenti un po’ in tutto il mondo come ad esempio la Miroglio. Un’industria che ha rappresentato la vera fonte di ricchezza delle famiglie contadine che si mantenevano con la campagna, congelando gli stipendi in banca per quando i figli si sarebbero sposati, utilizzando quei capitali accumulati per la costruzione di casette dei geometri, quelle stesse che rappresentano un corpo estraneo rispetto allo stupendo territorio nel quale sono inserite, forse totem perfetti e tangibili di una miseria che non c’è più. Del resto qui il territorio non era sentito come un valore, né la sua necessaria e doverosa tutela come una fonte di ricchezza. Il denaro che arrivava dall’industria era quello che consentiva il salto qualitativo della propria esistenza e il territorio non era altro che la strada da percorrere per andare al lavoro in fabbrica e quindi… Con questa mentalità si sono definite la zone Doc della regione, tante e diffuse come in nessuna altra parte d’Italia, non riuscendo ancora a capire quanto tutto questo sia da attribuire a una volontà politica finalizzata a dare opportunità a tutti, o se invece, forse, alla necessità di dover presidiare il territorio e farlo partecipe di un più ampio disegno, di una più consona collocazione del sistema vino nel panorama economico di questa regione. Dubbi e perplessità dei quali mi azzardo a parlare solo fra amici, ai quali d’altronde non saprei dare risposte esaurienti; io del resto continuo a fare il mio vino, poi si vedrà.
Altri vini I Bianchi: Langhe DOC Gaia & Rey (Chardonnay 100%) I Rossi: Langhe Nebbiolo DOC Sperss (Nebbiolo 94%, Barbera 6%) Langhe Nebbiolo DOC Costa Russi (Nebbiolo 95%, Barbera 5%) Langhe Nebbiolo DOC Sorì San Lorenzo (Nebbiolo 95%, Barbera 5%) Langhe Nebbiolo DOC Sorì Tildin (Nebbiolo 95%, Barbera 5%)
Barbaresco DOCG Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti da 14 vigneti separati di proprietà dell’azienda, posti nel comune di Barbaresco, le cui viti hanno un’età compresa tra i 12 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 270 metri s.l.m. con esposizione variabile da sud a sud-ovest a sud-est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: da 3000 a 6000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza settimana di settembre fino alla seconda di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 3 settimane in recipienti di acciaio inox termocondizionati ad una temperatura che non supera mai i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene lasciato decantare nei contenitori d’acciaio per circa 1 mese, durante il quale svolge la fermentazione malolattica e al termine della quale viene travasato in botti di Slavonia da 50 a 1000 Hl dove rimane per circa 12 mesi. Conclusasi questa fase di maturazione, il vino viene travasato in barrique di rovere francese a grana fine e a tostatura leggera dove rimane per 12 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 60000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino profondo con sensazioni eteree e di tostatura che introducono a un bouquet più complesso che lascia intuire note di liquirizia, caffè in grani, cacao amaro e percezioni fruttate di ciliegia, ribes, fragola selvatica e rose rosse. In bocca ha un’entratura elegante, potente, con una fibra tannica ben presente che insieme a una bella sapidità conferiscono al vino una notevole freschezza oltre che una bella lunghezza, persistenza e longevità. Chiude con le note fruttate percepite al naso. Prima annata: 1859 Le migliori annate: 1961 - 1971 - 1972 - 1982 - 1989 1990 - 1996 - 1997 - 1999 - 2000 2001 - 2003 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Gaja dal 1859, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 100 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Giorgio Culasso e l’enologo Guido Rivella.
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GALLINO
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Filippo e Gianni Gallino
Quando ti guardo negli occhi vedo lo sguardo buono di un contadino. Sono occhi profondi, che sanno raccontare più delle parole. Occhi trasparenti che non sanno nascondersi e che con pudicizia narrano, in ugual misura, delle miserie e della buona sorte. Occhi veri, leggeri quasi come l’aria di questa campagna che ti circonda e che ti spronano a frugare, con serenità fanciullesca, nella storia della tua vita per aprirti e raccontarmi il tuo divenire. Affascinato capto i loro segnali, vivi, freschi come la rugiada, e cerco di scoprire in essi cosa siano per te queste vigne che ti hanno visto crescere e quanto ancora siano vive le memorie di quando ancora adolescente andavi nella stalla a scaldarti o, seduto sugli scalini freddi della vecchia casa, inzuppavi il cucchiaio nel piatto che tenevi stretto tra le mani, mentre i grandi erano seduti al tavolo. Sono occhi che hanno il colore del cielo e di questa terra. Ti guardo e mi perdo nel tuo racconto, nel tuo semplice monologo che scorre, sorvola il tempo e va oltre le avversità che la vita non ti ha risparmiato. Sono occhi di contadino che sanno quale sia il significato di saper zappare, arare, seminare, vendemmiare, potare e mungere, ma soprattutto sanno mescolare la terra con il cielo, le foglie della vite con il mosto, il sacrificio con l’amore, la pazienza con il fato, occhi antichi che hanno il senso delle proporzioni, della famiglia, del lavoro e del sacrificio. T’illumini nel ricordo di quando portavi i tuoi tre figli, ancora fanciulli, nelle vigne e li adagiavi su un lenzuolo bianco fra quei verdi filari come se quel candido qua-
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drato fosse il loro cortile e, giocando, lo avessero come punto di riferimento per non allontanarsi troppo. Più ti guardo e più mi rendo conto che appartieni ad una generazione nella quale ogni persona, animale e cosa aveva il suo posto e per la quale c’erano regole precise a cui tutti dovevano rispondere e, come diceva Cesare Pavese in un suo racconto, “L’uomo sa queste cose contemplando la sua vigna [...]. Ci sono cieli e piante, e stagioni di ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto passato che la vita riplasma come giochi di nubi. La vigna è fatta anche di questo, un miele dell’anima, e qualcosa nel suo orizzonte apre plausibili vedute di nostalgia e speranza...”. È cosi che io ti immagino, con lo sguardo che ha in sé il miele dell’anima e il tuo viso, scolpito nel ceppo di una vite, che freme ancora ad ogni tuono, ad ogni goccia d’acqua, e rimane incredulo di come quelle grandi mani, che ora mi agiti davanti, abbiano potuto ottenere tutto ciò che oggi mi mostri. Ti ascolto e mi domando quali sapori avranno avuto quei vini, che tuo zio ti faceva assaggiare... Quali saranno state le tue emozioni nel prendere il primo aereo e volare negli Stati Uniti a promuovere i tuoi vini... E quali sensazioni avrai provato nello stappare quella bottiglia di vino nata seguendo le indicazioni di Matteo Correggia che ti aveva spinto a diradare, pigiare e vinificare in modo diverso... In quel mondo antico ci doveva essere una magia nel fare le cose e lo capisco da come ne parli e da come il tono della voce si sia fatto più lento e il tuo sguardo sfuggente. Come se avessi pudicizia ad ammettere tutto questo, soprattutto ora che il mondo si è messo a girare troppo velocemente e, pur sentendo ancora una forza virile scorrere in te, ti scopri vecchio e come tutti i vecchi rammenti con nostalgia quei tempi passati, come se, per il fatto di essere trascorsi, fossero i migliori. Può darsi che tu abbia ragione; lo percepisco dalla struggente malinconia che non puoi spiegare e misurare quando parli dei tuoi lontani esordi da vignaiolo. La vite del resto è sempre stata la tua vita. Ma quanta passione hai messo in quell’ettaro di vigna che avevi quando sei partito? Sono sicuro che deve essere stata dura riuscire a costruire tutto questo con tre figli da crescere e poca terra per farlo. Nei tuoi occhi, tuttavia, non leggo l’arroganza dell’orgoglio stupido, ma la fatica del lavoro; non leggo la prosopopea dell’apparire, ma la serena gioia di raccontare ciò che era e ciò che è. Sono sicuro che hai potuto superare tutto questo grazie alla fiducia nel futuro, al tuo senso del dovere, all’amore per la famiglia e alla passione che ti lega al tuo mestiere di contadino. Ti saluto e allontanandomi scopro di essere felice di aver potuto godere anche per poco di quello sguardo.
Altri vini I Bianchi: Roero Arneis DOC (Arneis 100%) I Rossi: Roero DOC (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%) Barbera d’Alba DOC Superiore (Barbera 100%) Birbét Mosto d’uva parzialmente fermentato (Brachetto 100%)
Roero DOC Superiore Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, posti in località Gran Madre Monpissano e Valle del Pozzo, nel comune di Canale d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 15 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni marnosi con una buona percentuale di limo, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 370 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla fine di settembre e prosegue per tutta la seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 4-5 giorni alla temperatura di 30°C in rotomaceratori di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene mantenuto in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, poi la metà della massa vinosa viene posta in barrique di rovere francese nuove a grana fine di media tostatura, in cui rimane per circa 12 mesi durante i quali vengono effettuati 3 travasi, mentre l’altro 50% del vino viene invece posto in botti di rovere francese da 25 Hl dove rimane per 15 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo una leggera filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta all’esame visivo di un bel colore rosso rubino con riflessi granati, mentre all’olfatto offre aromi fruttati di lamponi e pesca gialla oltre a note floreali di viola e piacevoli sensazioni di sottobosco, geranio, garofano e cannella che piano piano fanno intuire nuances speziate di pepe e rabarbaro. In bocca ha un’entratura pulita, con una grande fibra strutturale e una buona sapidità che danno al vino freschezza, lunghezza e persistenza; chiude con note di rabarbaro. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1997 - 1998 - 1999 - 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione dovrebbe essere compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Gallino dalla meta del secolo XIX, l’azienda agricola, che oggi è condotta dal signor Filippo e dai figli Gianni e Laura, si estende su una superficie complessiva di 12 Ha, di cui 9 vitati e 3 occupati da prati e seminativi. Collabora in azienda l’enologo Lorenzo Quinterno.
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GANCIA
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Edoardo, Lamberto e Massimiliano Vallarino Gancia
Chi non rammenta il rumore beneaugurante nello stappare una bottiglia di spumante italiano? Secco o dolce che sia, a quelle bollicine sono legati i ricordi felici di tantissime persone. Feste di compleanno, lauree, matrimoni, cene romantiche a lume di candela, alla fine delle quali, spesso, il rumore di un tappo che salta, con quel suo inconfondibile “botto”, riassume tutta la felicità in un istante, la promessa di un amore, il piacere conviviale di condividere con altri un momento di gioia. Quelle coppe di vino, fresco, profumato, leggero e inconfondibile, diventano non solo le ambasciatrici perfette dei momenti da ricordare, ma anche di una italianità unica, capace di oltrepassare i confini nazionali portandosi dietro il nome di una famiglia che, da oltre 150 anni, promuove il Piemonte. Sì, siamo stati noi Gancia che abbiamo contribuito a spumantizzare l’Italia e il mondo, e lo abbiamo fatto con i nostri vini, con le nostre bollicine, con le nostre idee, attraverso un processo di valorizzazione di un sistema imprenditoriale che, da cinque generazioni, si sta adoperando perché tutto questo non termini, anzi continui. È stato il nostro trisnonno Carlo Gancia che, nel 1850, decise di fondare, dopo aver commercializzato per anni Vermouth e vini a vario titolo e dopo essersi recato in Francia, una nuova azienda, l’antica “Casa Gancia”, con la quale iniziò a produrre sia quello che sarebbe divenuto il primo “Champagne italiano”, sia il primo spumante dolce da uve aromatiche al mondo. Ma, com’è facile immaginare, anche quella non fu una cosa
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semplice, né immediata. I libri di famiglia raccontano che le prime bottiglie scoppiavano per colpa dei vetri inadatti e che gli stessi tappi non reggevano alla pressione interna, sviluppatasi nella fase di fermentazione, e quelle continue e pericolose esplosioni lo costringevano a lavorare con un casco metallico in testa simile un po’ a quello degli schermitori. Quante prove e tentativi per arrivare a fare quelle bottiglie che divennero, fin da subito, sinonimo di festa! Da quelle effervescenti esplosioni è partita la storia della nostra famiglia che oggi noi stiamo cercando di portare avanti nel segno della continuità, dell’innovazione e della tutela delle tradizioni, dalle quali attingiamo a piene mani con il rigore tipico di noi piemontesi. Custodi attenti del nostro passato e pragmatici interpreti del nostro presente, oggi lavoriamo per riuscire a trasferire a chi ci seguirà un’azienda sempre più propositiva, capace di mantenere quel trend qualitativo che le ha consentito di tramandare un nome e un marchio spendibili nel panorama enologico mondiale. Ogni passaggio generazionale ha messo un timbro importante sulla storia di quest’azienda. Di padre in figlio, ognuno ha segnato con il suo acume imprenditoriale il proprio passaggio, ora con gli spumanti dolci, ora con i Vermouth, ora con lo spumante Brut e il Pinot di Pinot, che divenne leader di mercato, fino ad arrivare alla nostra generazione, la quinta, che si prefigge non solo di consolidare la propria leadership sul mercato degli spumanti, ma anche di lanciare nuove linee produttive, fra cui quella dei classici vini piemontesi come le Barbere realizzate nelle Tenute dei Vallarino. In famiglia ci hanno insegnato a lavorare duro, a impegnarci, a rimanere sempre con i piedi ben piantati per terra, cercando di sciogliere attentamente i nuovi quesiti posti dal cambiare dei tempi, migliorando, trascendendo gli interessi personali, ponendo le risorse a disposizione di una continuità propositiva sulla quale si possano innestare le future generazioni. Ma abbiamo compreso anche che non c’è modo di trasmettere ciò che rappresentiamo attraverso una semplice campagna pubblicitaria. No, la cosa non è proprio possibile, è impensabile che un semplice spot possa contenere il mondo dei Gancia. C’è bisogno di prendere la gente e portarla qui, in queste campagne, fra questi vigneti, in queste terre piemontesi, nelle nostre cantine, nella Locanda Gancia o magari nel nostro Castello di Canelli, dove sono passate quasi tutte le teste coronate d’Europa. Soltanto così crediamo uno possa rendersi conto di che cosa sia un’azienda vinicola storica come la nostra, proprietaria di una grande cantina, con progetti di selezione clonale sulle vigne che ci vedranno impegnati per i prossimi trent’anni, impianti per la spumantizzazione del Moscato bianco di Canelli ad hoc e mille e mille altre cose che potremmo elencare. Non è possibile, con un qualsiasi strumento di comunicazione pubblicitaria, restituire a chi osserva la nostra storia e la nostra tradizione: soltanto venendo qua si possono percepire. Quante aziende in questi 155 anni sono nate, e poi scomparse, dal panorama enologico di questa terra piemontese? Queste défaillances non sono scaturite soltanto dalla mancanza di una cultura d’impresa, ma da quella mancanza di coesione quale solo una grande famiglia è in grado di assicurare, trasferendo ai propri membri un importante bagaglio storico ricco di valori veri e autentici, che li sostiene. È con questi argomenti consolidati che noi guardiamo serenamente al futuro, anche se dobbiamo prendere atto dei momenti difficili che sta attraversando il mercato e di una concorrenza sempre più agguerrita, che contrasta abilmente la gamma dei nostri prodotti di punta. Altre aree negli ultimi anni, come quelle dell’Oltrepò pavese, della Franciacorta o del Trentino, hanno saputo migliorare i loro standard qualitativi, ma la cosa non ci spaventa, sappiamo come rimboccarci le maniche e con quali strumenti riaffermare anche la tradizione piemontese degli spumati secchi, tradizione che siamo rimasti tra i pochi a perpetuare e che stiamo riproponendo con il progetto metodo classico Doc Altalanga.
Carlo Gancia Riserva del Fondatore Alta Langa Piemonte Doc Millesimato
Altri vini Asti Millesimato DOCG Modonovo Cantine Gancia (Moscato Bianco di Canelli 100%) Brachetto d’Acqui DOCG Scarlatto Cantine Gancia (Brachetto d’Acqui 100%) Pinot di Pinot Blanc de Blancs Cantine Gancia (Pinot Bianco 100%)
Oltrepò Pavese DOC Pinot della Rocca Cantine Gancia (Pinot Nero 100%) Oltrepò Pavese DOC P.Rosé Cantine Gancia (Pinot Nero 100%) IGT P.R.Osé Blanc Cantine Gancia (Cuvée dei migliori vitigni)
Zona di produzione: il vino spumante è una selezione delle migliori uve Pinot Nero e Chardonnay vendemmiate in cassetta e provenienti da terreni selezionati nelle colline astigiane e cuneesi della Doc Alta Langa. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi con forte presenza di tufo e argilla, sono posizionati ad un’altitudine di oltre 250 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Pinot Nero 60%, Chardonnay 40% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nell’ultima decade di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte. Il mosto ottenuto, in parte viene fatto fermentare in barrique e successivamente travasato in vasche d’acciaio termocondizionate, con l’utilizzo di fermenti autoctoni; così facendo si avvia la fermentazione alcolica, che si protrae per circa 21 giorni alla temperatura di 16-18°C. Terminata questa fase, il vino rimane per 6 mesi nei contenitori in acciaio, attraverso l’utilizzo di sur lies periodici. Verso il mese di aprile dell’anno successivo alla vendemmia il vino viene imbottigliato e rimane sui suoi lieviti per circa 30 mesi, periodo durante il quale sono effettuati dei remuages periodici al fine di canalizzare i sedimenti in punta di bottiglia. Trascorso questo lungo periodo di maturazione e di affinamento, si procede alla sboccatura, al rabbocco e all’inserimento della liqueur d’expédition; poi lo spumante è nuovamente lasciato affinare per altri 3 mesi sempre nella stessa bottiglia prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 30000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta all’esame visivo con un bel colore giallo paglierino dai riflessi dorati con una spuma fitta e vivace oltre ad un perlage fine, ricco e persistente, mentre all’esame olfattivo si dimostra immediato, fresco, abbastanza acidulo, con sentori dolci come la vaniglia, il lievito e la frutta matura. In bocca ha un’entratura secca, fresca, con una stoffa vellutata lunga e persistente; chiude con note di nocciole. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino spumante è dedicato al Cav. Carlo Gancia, fondatore della F.lli Gancia & C., che nel 1865 creò in Italia a Canelli il primo Spumante con il Metodo Tradizionale Classico. Raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Gancia dal 1850, l’azienda agricola è gestita da sempre al 100% dalla famiglia omonima, che oggi con Lamberto, Max ed Edoardo è alla quinta generazione. L’azienda si estende su una superficie complessiva di 50.000 mq. Svolge la funzione di agronomo Federico Curtaz, mentre quella di enologo è svolta da Piergiorgio Cane e da un team che si avvale del contributo del consulente Beppe Caviola.
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GIACOSA BRUNO
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Bruno Giacosa
Ricordo che quando avevo 14 anni, mio padre venne a prendermi in collegio ad Alba. Tutto intorno c’era la guerra e ovunque erano in corso dei bombardamenti e, per farmi stare al sicuro, mi mise in cantina. Da lì non mi sono più mosso! Sono passati più di sessant’anni da quei cupi momenti, durante i quali ho avuto un solo e inseparabile amico al mio fianco: il lavoro. Nonostante tutto, e nonostante le numerose vendemmie sulle mie spalle, che ora incominciano ad essere veramente tante, sento ancora forte, come un tempo, il desiderio di imparare e di far sì che le cose intorno a me accadano, come quando, appena quindicenne, domandavo a mio padre i motivi e le cause di quelle sue scelte e cercavo, con ogni mezzo, di dare il mio contributo all’azienda di famiglia. È stata quella cantina il mio campo scuola, il mio cortile, dove giocare e diventare grande e dove poter rincorrere i miei sogni, cominciati proprio in quel lontano ’44. C’era la guerra, c’erano i bombardamenti e c’era anche un ragazzino, ebbro per l’odore del mosto, che imparava con passione a lavorare le uve. Chiuso, taciturno, riservato, non avvezzo a dare molta confidenza alla gente, mi sono sentito subito a mio agio in quel mondo di cantina, come se indossassi un abito che mi tornava a pennello. Non so se sono stato bravo o se sono stato semplicemente fortunato ad imparare presto quel mestiere di cantiniere, so solo che avevo un compito da svolgere e cercavo di svolgerlo bene, adoperandomi affinché quelle uve, che mio padre, da buon commerciante, comprava in giro per le Langhe, dessero il miglior risultato possibile.
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Mi piaceva quel mestiere e mi innamorai della creatività che mi trasmetteva quel lavoro, con l’intento di comprendere i segreti e quelle sottili sfumature che racchiude la vigna, i profumi dell’uva, i meccanismi che determinano la scelta e la selezione dei legni, i tempi della maturazione dei vini, fino alla definizione dei migliori periodi per l’imbottigliamento, in una continua metamorfosi e in un continuo adattamento all’evoluzione dei tempi. Devo dire che nel mondo del vino ce ne sono stati di mutamenti in questo mezzo secolo, e posso assicurare che ne ho viste tante di aziende salire alle stelle e poi sparire nel nulla e sono contento di essere riuscito sempre a rimanere tranquillo, perseguendo con fiducia solo l’obiettivo della qualità. In questi anni ho capito tante cose del vino, alcune delle quali oggi possono sembrare ovvie, ma allora non lo erano e non lo sono state in certi periodi storici del secolo passato, quando sulla bocca di molta gente correva la frase scherzosa che il vino si poteva fare anche con l’uva; beh, io l’ho capito, prima di molti altri, proprio nei momenti in cui c’erano delle aziende che, da sole, commercializzavano tanto Barolo quanta era la capacità produttiva di tutto il territorio; l’ho capito e mi sono adoperato per cercare le uve migliori, i territori migliori sui quali piantare, a partire dal ’78, le mie vigne e i legni più pregiati e riservando ai miei prodotti il giusto tempo perché maturassero, prima di commercializzarli. Scelte che andavano contro il trend di quel periodo, ma, nel massimo rispetto delle scelte altrui, io sono sempre andato avanti dritto per la mia strada, con la serietà che ormai più generazioni di clienti, e anche di produttori, mi riconoscono e dalla quale non mi sono mai discostato. Questo ha voluto dire non soltanto sognare, impegnarsi o sacrificarsi, ma anche avere una buona dose di lungimiranza e, guardando lontano, ho ritenuto che il vino dovesse essere seguìto, proprio in una prospettiva futura, con l’attenzione che si riserva a un bambino, costruendogli intorno i presupposti affinché la sua vita possa essere armoniosa, equilibrata, matura e predisposta al giudizio degli altri in modo sereno. Ora è arrivato un momento in cui non faccio più grandi sogni e non perché non ne abbia più le capacità o mi senta disilluso o vecchio. Tutt’altro. Credo, invece, che questi anni trascorsi a disegnare il futuro di quest’azienda, abbiano contribuito a farmi comprendere meglio che la profondità delle cose risiede nella capacità che un uomo ha di poter costruire cose concrete e se poi tutto è andato bene e se ciò che si è desiderato si è materializzato, è facile scoprire che quel sottile confine che esiste tra sogno e realtà si assottiglia o addirittura si annulla. Così, sempre più, mi trovo appagato da quei sogni fatti a occhi aperti tutti i giorni fra le mie vigne, nella mia cantina o guardando gli occhi di mio nipote, nella consapevolezza quotidiana di aver fatto tutto ciò che era nelle mie possibilità. Per il resto non posso che sperare, come ti dicevo, che tutto vada bene… e tu, giovane interlocutore, non credere di ingannarti, io sono tutto quello che vedi e questo è il mio universo. La mia sostanza è tutta nella mia apparenza, sono un vignaiolo silenzioso, sono il Bruno che tu vedi, niente di più e niente di meno, un uomo senza distrazioni, forse poco incline al sorriso, ma solo perché non me lo hanno insegnato, e poco incline alla mondanità. Io, del resto, sono sempre qui, ieri come oggi, immerso nel mio lavoro che si è dimostrato un’occasione più che sufficiente per farmi incontrare e conoscere, in pratica, gente di tutto il mondo. Credo, come forse tu stesso avrai potuto constatare, di aver costruito in questi anni una realtà aziendale che è lo specchio fedele del mio modo di essere e che ha assunto massa, densità e materia tali da poter sostenere le fondamenta della mia vita; poi, per il resto, spero che vada tutto bene.
Altri vini I Bianchi: Roero Arneis DOCG (Arneis 100%) Spumante Brut Metodo Classico Extra Brut (Pinot Nero 100%) I Rossi: Barbaresco DOCG Asili Riserva (Nebbiolo 100%) Barbaresco DOCG Rabajà (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Falletto (Nebbiolo 100%)
Le Rocche del Falletto di Serralunga d’Alba Barolo Docg Riserva Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto di proprietà dell’azienda situato in località Falletto, nel comune di Serralunga d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto che si trova in una zona collinare su terreni argilloso-calcarei di medio impasto con uno scheletro di arenaria, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m. con esposizione a ovest/sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 15 giorni ad una temperatura massima di 32°C in tini di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati délestage e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino, dopo un periodo di decantazione, viene posto in botti di rovere francese da 55 a 105 Hl in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 30 mesi, durante i quali vengono effettuati 4 travasi. Al termine della maturazione il vino viene nuovamente posto in acciaio e dopo circa 1 mese, senza alcuna filtrazione, è imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 14000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta all’esame visivo di un bel colore rosso rubino opaco, tenue, con riflessi granati, mentre il bouquet ha dapprima spiccate sensazioni fruttate di confettura di fragole selvatiche che lasciano poi spazio a sentori speziati, di stecca di cannella, menta, oltre al pepe bianco e ad un finale di note balsamiche. In bocca ha un’entratura importante, sobria, che esalta il corpo senza togliere niente all’eleganza e alla raffinatezza che escono immediatamente fuori insieme a tannini equilibrati e ad una sapidità che lo rendono lungo, persistente e longevo; chiude con un affascinante finale speziato. Prima annata: 1982 Le migliori annate: 1982 - 1985 - 1988 - 1989 - 1990 - 1996 1997 - 1998 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Giacosa dal 1900, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 20 Ha, tutti vitati. Collabora in azienda l’enologo Dante Scaglione.
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GILLARDI
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Giacolino Gillardi
Avevo pochi anni e già andavo con mio padre tra i filari a vendemmiare. Ricordo ancora le sagome curve dei contadini che lavoravano intorno alla vigna con quei mormorii appena accennati e le parole portate lontano dal vento che rompevano il silenzio della campagna. Quello era un cielo che stava alto sopra i filari e, nei miei ricordi di bambino, anche mio padre mi appariva alto, gigantesco sullo sfondo di quella lontana prospettiva. Crescendo ho imparato anch’io a parlare quella lingua con la quale comunicavano fra di loro i contadini e che né i maestri, né i compagni di scuola capivano; parole strette nel dialetto che sembravano la lingua dell’anima. Erano tempi antichi, dove gli uomini impastati di questa terra della “malora”, avara e dura da dissodare, erano innocenti e puri, riservati e schivi, taciturni e ombrosi come le stagioni, poiché conoscevano solo il lavoro, la fatica, il sacrificio e poche altre cose… Quello era il mese del mosto, il cui odore, dopo aver riempito le volte alte e ombrose della cantina, fuoriusciva dalla porta aperta e riempiva tutta l’aria intorno. Era un profumo sottile e volatile che si spengeva nelle mie narici inebriandomi, incuriosendomi e facendomi avvicinare, settembre dopo settembre, a ciò che per nascita sentivo più simile a me: la terra. Erano quei filari, simili a dei merletti che ingentilivano i colli, e quelle vigne, dove avevo vissuto tanti giorni di festa e tanti giorni di pace, a ricoprire sempre più un ruolo importante nella mia crescita. Quello era un bel mondo che mi giungeva in-
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tatto da un passato indefinito e, ricordo, mi sembrò quasi incredibile avere l’onore di poterne testimoniare i suoi ultimi passi sul limite di una modernità che, di colpo, cancellava ogni sua poesia. I contadini di Fenoglio, con il loro senso tragico di un destino ineluttabile che li sovrastava, scomparvero piano piano lasciando spazio ai nuovi vignerons o ai nuovi imprenditori del vino. La terra stessa, che aveva rappresentato fino a pochi anni prima l’unico giustificativo plausibile per resistere dove erano radicate le proprie radici, assunse un altro significato dando nuova dignità a chi la lavorava. L’antico pessimismo contadino e la disillusione cronica lasciarono presto il posto alle certezze fondate sulla qualità del lavoro. Certo, quel lontano fanciullo non avrebbe mai potuto immaginare ciò che ora sta vivendo. Allora la vita era più semplice, qualsiasi distanza sembrava enorme e anche il paese, posto dall’altra parte della collina, era lontano anni luce. Gli stessi uomini avevano a disposizione meno strumenti, ma quelli che avevano, paradossalmente, mi sembrano oggi più adatti e più logici rispetto a tutti quelli che ci siamo inventati; quelle nelle vigne e in cantina erano tecniche antiche o per meglio dire “originarie”. Piacevolmente, in questo ricordo, scopro come negli ultimi venti anni il percorso del vino si sia incrociato con il mio personale percorso di crescita. Un grafico parallelo e speculare che mi ha portato, con una parabola ascendente, alla ricerca spasmodica e tecnologica dell’innovazione, delle certificazioni e dei marchi di riconoscimento, per poi, con una parabola discendente, ma non per questo meno costruttiva, ricondurmi ad un più pacato e ragionato ritorno ad un vino naturale, espressione piena e compiuta di un territorio. Così, nel mio caso, ho affrontato prima una crescita innovativa aperta al mondo, per arrivare, con il tempo, a distillare la mia stessa esistenza e raccoglierne il succo, l’essenza, la concretezza del mio essere contadino su questa terra di Langa. Dalla tecnologia alla riscoperta della poesia di un gesto antico, dalla ricerca qualitativa delle uve prodotte e spremute alla disamina del mio carattere fino all’appagamento della mia curiosità e alla conoscenza delle mie debolezze. Ho sempre pensato che se non fossi riuscito a estrarre e valorizzare il mio carattere deciso, forte e dolce al contempo, e dare sfogo alla mia verve che mi serve per affrontare la vita, come avrei potuto pensare di estrarlo da una pianta? Il tourbillon avvenuto in tutti questi anni nel settore enologico, con le innovazioni tecnologiche, scientifiche e quant’altro delinei e definisca questo roboante mondo del vino, non ha scalfito minimamente la mia sostanziale natura di contadino. Le mie radici rimangono tenacemente attaccate a questo mondo, del quale oggi ho una maggiore consapevolezza, acquisita forse con il tempo, che ha saputo smussare gli angoli e modellare i sogni conducendomi alla ricerca di valori profondi in cui investire l’esperienza di una buona fetta della mia vita, valori autentici, originari, veri, come quelli del vino. Ma quanti errori, quanti sbagli per imparare a diventare sottile e raffinato nella comprensione di quelle potenzialità segrete che creano il distinguo del mio lavoro, e quanta sottigliezza e arguzia nell’intuire gli umori nascosti della mia terra. Ci sono voluti anni per apprendere questo mestiere, avendo avuto bisogno di diventare padrone dei gesti e dei ritmi prima di poter decidere, così come è stato necessario conoscere ogni cosa alla perfezione per poter esprimere esattamente attraverso il vino tutto il mio amore e la mia gratitudine per questa terra.
Altri vini I Rossi: Dolcetto di Dogliani DOC Vigneto Maestra (Dolcetto 100%) Langhe Rosso DOC Yeta (Dolcetto 50%, Merlot 40%, Cabernet Sauvignon 10%) Langhe Rosso DOC Harys (Syrah 95%, Cabernet Sauvignon 5%)
Cursalet Dolcetto di Dogliani DOC Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Dolcetto provenienti dal vigneto omonimo posto in località Cursalet, nel comune di Farigliano, le cui viti hanno un’età media di 50 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto che si trova in una zona collinare su terreni argilloso-calcarei è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 450 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Dolcetto 100% Sistema d’impianto: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 6500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 20 settembre al 10 ottobre, si procede a una diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 12-15 giorni ad una temperatura che non supera i 30°C in piccoli tini di acciaio, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce; durante questo periodo si effettuano frequenti follature e rimontaggi. Terminata questa fase, il vino viene decantato per 8-10 giorni e una volta travasato viene rimesso nei tini di acciaio in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 3 mesi, al termine dei quali il 30% del volume è travasato e messo in barrique di rovere francese a grana fine di media tostatura di secondo passaggio. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite, si lascia riposare per altri 2-3 mesi durante i quali sono effettuati diversi travasi, poi il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 3 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 14000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino vivo, con profumi complessi di frutti rossi, confettura di susine e note di ribes e ciliegia, con un finale che ricorda le nocciole del cioccolato gianduia. In bocca è elegante, con tannini pieni e morbidi che lo rendono complesso, polposo, pieno, lungo e di buona persistenza, chiudendo con i sentori percepiti al naso. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 1995 - 1996 - 1999 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla zona geografica dove è collocato il vigneto, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Gillardi, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 10 Ha, di cui 7 vitati e 3 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge la funzione di enologo lo stesso Giacolino Gillardi.
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GRASSO ELIO
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Elio Grasso
Sono stato troppo tempo lontano da questi luoghi ed è forse questo il mio più grande rammarico. Sono uscito da casa a undici anni e ci sono ritornato passati i trenta, attraverso continui processi evolutivi di crescita che però non hanno mai reciso del tutto il cordone ombelicale con questa terra. Ogni momento era buono per lasciare la città e tornare in campagna ad aiutare i miei genitori nei lavori della vigna e della vendemmia dedicando la totalità dei weekend e delle mie vacanze. Erano altri tempi, tutto era diverso, dai rapporti umani all’approccio con il vino: nelle osterie dei paesi c’erano ubriaconi, poi si giocava d’azzardo e vi erano persone che in una sera sperperavano il lavoro di una vita e in ogni dove si percepiva il livello di miseria dignitosa, ma radicata. Per questo, mio padre, quando io e mio fratello partivamo per il collegio, ci raccomandava di impegnarci e studiare, almeno avremmo avuto l’opportunità di andare via da queste colline ed è forse per questo che non diceva nulla quando tornavo il sabato per dargli una mano; dietro quei silenzi vi era la paura che qualunque sua parola potesse, in qualche modo, condizionarmi e spingermi a prendere la decisione di ritornare a casa e continuare il suo lavoro. Negli ultimi anni della sua vita vendeva l’uva, ma certe volte il ricavato non era sufficiente neppure per pagare gli operai che avevano lavorato, ma nonostante tutte queste difficoltà, sentivo dentro di me l’attaccamento a queste colline, a questi vigneti.
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Non era possibile andare avanti così ed allora nel 1979 decisi di incominciare a vinificare una parte delle uve prodotte, ad imbottigliare il vino e venderlo con una mia etichetta. Nel frattempo mi sentivo sempre più insoddisfatto del lavoro in banca, mi mancava, nonostante le difficoltà, la bellezza di quella terra e di quei vigneti che digradavano ripidamente verso il basso per risalire più dolcemente verso Serralunga. Certe volte mi appoggiavo ad un vecchio noce e rimanevo a lungo ad “ascoltare il silenzio”, mi guardavo intorno e mi domandavo cosa avrei potuto fare per “mettere il manico” a quest’azienda. Non passò molto tempo che all’età di 92 anni mio padre morì e la sua dipartita doveva essere interpretata come una delle cose più naturali che potessero succedere alla sua età, ma sentii dentro di me che era arrivato il momento di prendere quella decisione, che avevo nella mente e nel cuore da lungo tempo, ma che avevo sempre rimandato. Così all’età di 36 anni lasciai la banca: non potevo continuare a tenere il piede in due staffe, non avrei svolto bene il mio lavoro né da una parte, né dall’altra. Pensai che la mia volontà e ciò che mi aveva insegnato mio padre potessero essere sufficienti per entrare rapidamente in simbiosi con queste vigne e con il vino, che tra l’altro non avevo mai bevuto! Volevo spendere nel migliore dei modi la mia vita su questa terra, così come aveva fatto mio padre. Caparbiamente mi sono messo a fare vino e per farlo ho castigato i miei sentimenti, rinunciando a tutto con l’unico scopo di raggiungere risultati importanti che mi potessero permettere di non rimpiangere di aver lasciato la banca e avere il rispetto della mia famiglia che aveva creduto in me. In questi anni ho lavorato sempre nella certezza che quello che stavo facendo sarebbe stato approvato dai miei vecchi ed è con questa mentalità che vorrei che mio figlio diventasse uomo. Ho sempre cercato di insegnargli che non è importante apparire, ma essere. Ho cercato di insegnargli l’umiltà, di non scendere mai a compromessi, di trasformare l’uva in vino, cercando di mettere nel vino la massima espressione di queste terre, di non sconvolgere la vinificazione con tecniche di cantina esasperate. È con piacere che vedo crescere il suo impegno e se poi riuscirà, come mi auguro, a darmi prova di saper superare il momento difficile che sta vivendo un po’ tutto il mondo del vino, sarò orgoglioso di metterlo alla guida dell’azienda, ma senza dimenticare il passato. Io, del resto, ho raggiunto quell’età (anche se non sono ancora Matusalemme!) in cui non ho più voglia di mettermi in mostra e credo sia giunto il momento di lasciare agli altri lo spazio, ma come ho ripetuto mille volte, vorrei essere riconosciuto prima come contadino e poi come produttore: penso sia il modo migliore di onorare e continuare il lavoro di chi prima di me ha affrontato tutte quelle difficoltà che si possono incontrare lavorando con la natura e con un prodotto naturale come è il vino. Di conseguenza e per scrupolo di coerenza, la mia famiglia vuole evidenziare, senza presunzione, quei convincimenti e quei modi di essere di tutte le famiglie contadine di Langa, tratti caratteristici che vanno conservati e che credo facciano la differenza. Così mi racchiudo nei miei ricordi, in quelle amicizie che mi sono rimaste, attraverso le quali cerco di riappropriarmi del “tempo”, riscoprendo giorno per giorno chi sia Elio Grasso.
Altri vini I Bianchi: Langhe Chardonnay DOC Educato (Chardonnay 100%) I Rossi: Barbera d’Alba DOC Vigna Martina (Barbera 100%) Barolo DOCG Gavarini Vigna Chiniera (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Ginestra Vigna Casa Maté (Nebbiolo 100%)
Rüncot Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Gavarini, nel comune di Monforte d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 15 anni. Tipologia dei terreni il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni di medio impasto, calcarei, tendenti all’argilloso, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 320 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 18 giorni alla temperatura controllata di 32°C in recipienti di acciaio inox termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che dura altri 8 giorni, durante la quale si effettuano 3 rimontaggi giornalieri. Dopo la vinificazione il vino compie, sempre in acciaio, la fermentazione malolattica e al termine viene messo in barrique dove rimane per circa 28 mesi. Al termine della maturazione viene effettuato l’assemblaggio di tutte le barrique e poi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 18 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un colore rosso rubino con riflessi aranciati e offre profumi potenti, importanti, estremamente complessi: principalmente note fruttate come ciliegia marasca sotto spirito e confettura di lampone, a cui si aggiungono note speziate di liquirizia, caffè, torrone e noce moscata che si esaltano a vicenda chiudendo con note balsamiche. In bocca ha un’entratura elegante, potente, con la trama complessa del grande vino, con tannini morbidi, bella sapidità e una percezione di grande bevibilità, persistenza e longevità. Chiude con note di liquirizia. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1996 - 1997 - 1998 - 1999 2000 - 2001 L’azienda: di proprietà della famiglia Grasso dal 1830, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 30 Ha, di cui 14 vitati e 16 occupati da prati, boschi e seminativi. In azienda svolgono la funzione di agronomo e di enologo Elio e Gianluca Grasso, con la collaborazione dell’enologo Piero Ballario.
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GRASSO SILVIO
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Alessio Federico Grasso
Non ho un carattere facile e certe volte riesco a riconoscerlo anche da solo, senza che nessuno me lo faccia notare. Del resto però, non posso farci niente: è più forte di me, non riesco a trattenermi e le cose che ho nel cuore, spesso le ho anche sulla punta della lingua e questo non è sempre un bene; inoltre, quando non capisco dove gli altri vogliono arrivare con i loro discorsi e con le chiacchiere, mi chiudo a riccio e difficilmente mi smuovo dalle mie convinzioni, che sono poche, ma molto consolidate... In definitiva sono una persona molto semplice e come tutti i semplici in un mondo di difficili, spesso rischio di essere frainteso e inserito nell’elenco dei soggetti “particolari”; d’altronde è la vita stessa che mi ha portato ad essere quello che sono e caratterialmente trovo qualche difficoltà a ricercare i termini giusti per comunicare agli altri quali siano i piani o le strategie da seguire in azienda. Spesso questo modo di fare mi porta a non dilungarmi troppo nelle spiegazioni e a impartire ordini perentori agli altri, ma non potrebbe essere altrimenti, visto che tutte le cose che ho imparato in questo mestiere di contadino le ho apprese non certo con le parole, ma attraverso l’esempio, stando al fianco dei miei vecchi, senza mai un dubbio sul fatto che quello che loro mi stavano insegnando fosse la cosa più giusta alla quale io potessi aspirare. Oggi ciò che ho imparato mi ha fatto diventare orgoglioso di essere un contadino; del resto ho fatto solo questo nella mia vita e so parlare solo del mio lavoro, perché è di questo che parlo tutti i giorni.
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Rimangono qui in Langa ancora molti che come me sono nati nelle cascine e lì continuano a vivere, facendo quello che faceva il padre e prima ancora il nonno e prima ancora il padre del nonno: il contadino. Sono persone che in questo mondo, dove tutti vogliono farsi grandi e apparire, amano ancora stare nel loro piccolo, seguire attentamente e scrupolosamente ogni fase del proprio lavoro, sacrificandosi e dando poca importanza ai soldi, perché sanno che attraverso il loro impegno, pochi o tanti, sicuramente, arriveranno; così è sempre stato e sempre sarà; sono uomini contenti e felici quando, di buon’ora il mattino, riescono ad andare in vigna a lavorare per mantenere ciò che gli è stato affidato dalle generazioni precedenti. È gente che ha poche priorità e pochi grilli per la testa: la famiglia, il lavoro e gli amici che li rendono felici stando loro vicino. Ripeto spesso ai miei due figli che devono studiare, perché questo consentirà loro di conoscere e apprendere, accelerando i tempi della crescita individuale, ma devono stare attenti anche agli insegnamenti che arrivano dalla migliore maestra che potranno avere: la vita, che a me ha insegnato la pratica, la sostanza e la concretezza delle cose. Dico così perché è da quella maestra che ho appreso le nozioni che poi mi hanno fatto diventare un bravo contadino ed è ancora la stessa vita che mi ha fatto trovare gli strumenti per superare le difficoltà quotidiane di questo mestiere, inculcandomi il concetto della costanza e della serietà sul lavoro, elementi utili per ottenere la fiducia e il rispetto degli altri. Stando sempre ad ascoltarla ho compreso che per ottenere dei grandi risultati era necessario impegnarsi a fondo e questo mi è stato ancora più chiaro dopo aver abbandonato i frutteti e aver iniziato l’allevamento delle vigne e il lavoro della cantina, arrivando a scoprire presto che il difficile non era fare un “buon” vino, ma un “grande” vino. Questo obiettivo mi è sempre sembrato lontano dalle mie possibilità e il raggiungimento del traguardo ha condizionato e trasformato in modo radicale il mio approccio al lavoro spingendomi ad approfondire ogni elemento e ogni singola fase che appartenesse alla filiera produttiva della mia azienda, si tratti della cura delle viti, dell’imbottigliamento o dell’igiene che esigo in cantina e in generale dell’attenzione che metto in ogni momento della vendemmia. Tutto deve essere eseguito con scrupolosa attenzione, tutte le fasi operative e produttive che si svolgono in questa azienda devono essere finalizzate a quel mio traguardo. È stato mio padre a spingermi verso questo modo di lavorare, verso questo approccio diretto nei confronti del nostro mestiere. Anche prima, quando avevamo l’azienda promiscua, con le mucche nelle stalle e una grande estensione di frutteti, la cura dei particolari e l’attenzione verso le cose era seguita con scrupoloso zelo. Tutto doveva essere in ordine ed eseguito perfettamente, immediatamente, con indicazioni precise, urlate se necessario. Non voglio arrivare ad essere vecchio e dover ancora comandare, voglio che i miei figli crescano presto e che prendano in mano le redini dell’azienda, però devono capire che i lavori vanno fatti bene, senza tergiversare o rimandare a domani quello che può essere fatto oggi. Ognuno deve avere il suo compito e deve sapere perfettamente cosa fare. Raccontarmi non è il mio lavoro, non so farlo molto bene, mi mancano l’esperienza e il tatto; io sto meglio in vigna, sul trattore o in cantina a fare il vino; io so fare il contadino, perché ho fatto questo per tutta la vita. Ognuno è fatto a modo suo e, in definitiva, non vedo poi perché dovrei cambiare...
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG L’Andrè (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Ciabot Manzoni (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Giachini (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba Fontanile (Barbera 100%) Langhe Nebbiolo DOC Peirass (Nebbiolo 100%) L’Insieme Vino da Tavola (Nebbiolo 40%, Barbera 20%, Cabernet 20%, Merlot 20%)
Bricco Luciani Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Bricco Luciani, nel comune di La Morra, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei di medio impasto ricchi di argilla, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda metà del mese di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 6-7 giorni alla temperatura di 28-30°C in recipienti di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale si effettuano frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in barrique di rovere francese nuove di media tostatura a grana fine dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 24 mesi, durante i quali vengono effettuati 2-3 travasi. Al termine della maturazione, dopo l’assemblaggio delle varie partite e un periodo di decantazione di 68 mesi in tini di acciaio, il vino, senza alcuna filtrazione, viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 8 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati, mentre all’esame olfattivo offre una gamma di profumi che vanno dalle note fruttate di ciliegie e prugne, a quelle erbacee di peperone fino a quelle speziate di pepe e cuoio con una sensazione eterea nel finale. In bocca ha un’entratura potente, ma al tempo stesso elegante, armonizzata fra i tannini ben evidenti, ma non aggressivi, e una bella sapidità: tutti elementi che conferiscono al vino grande struttura e lunghezza. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1985 - 1986 - 1989 - 1990 - 1995 1996 - 1997 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà di Alessio Federico Grasso dal 1993, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 8 Ha, di cui 4 vitati e 4 occupati da seminativi e frutteti. Svolge la funzione di agronomo e di enologo lo stesso Alessio Federico Grasso.
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HILBERG-PASQUERO
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Michele Pasquero e Annette Hilberg
Non so dirti se il mio vino parla più tedesco o italiano, se ha un’impronta creativa e passionale piuttosto che razionale e ordinata, sicuramente unisce in sé i temperamenti diversi di mio marito Michele, piemontese DOC, e il mio. Credo profondamente che il nostro vino, autoctono e tipico, sia poliedrico: con la personalità fresca e musicale del ramo neolatino, quella precisa, netta e chiara, dell’indole tedesca, e perché no, anche tipica e unica, del dialetto piemontese. Un mix che del resto ha permeato anche me che, senza farmi perdere niente della mia cultura d’origine, mi ha arricchita e addolcita in questo paese così distante dalle brume e dalle nebbie sassoni. Anche per me, come per molti altri stranieri, l’Italia era ed è il paese dei sogni, il luogo ideale per rifugiarsi, il “solare Paese degli Dei”, quello, per intenderci, di una fuga verso un altrove ideale, quel paese dove era ed è possibile realizzare un viaggio alla ricerca delle cose più profonde che sorreggono il proprio spirito. Nei secoli passati, del resto, ci sono stati esempi eccellenti di tedeschi, che, innamorati dell’Italia, hanno lasciato tutto per venire qua, come Goethe, che nel ’700 scappò dal suo incarico di ministro a Weimar, soffocato dal rigido determinismo tedesco per giungere nel “Bel Paese” iniziando un viaggio che, attraverso le bellezze di questa terra, lo condusse alla ricerca e alla scoperta della sua anima. Anche a me è successa la stessa cosa; anch’io mi sentivo stretta in quel lavoro di infermiera, che, seppure impegnativo e utile, finiva per soffocare la mia creatività.
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Avevo circa 20 anni e ricordo che mi domandavo spesso se avrei avuto la forza di continuare per tutta la vita a correre su e giù per quelle corsie d’ospedale o se invece non sarebbe stato meglio intraprendere un’altra strada, forse meno utile nei confronti delle sofferenze degli altri, ma più consona al mio carattere libero e aperto. Venni in Italia agli inizi degli anni ’80 attratta dal neonato movimento ecologista e dalle strade aperte dall’agricoltura biologica e, una volta qui, conobbi mio marito, anch’egli interessato a queste nuove forme di produzione. Mi sono innamorata, come capita a vent’anni, e sono rimasta a vivere qui, iniziando un percorso nuovo intorno al vino, intorno alla campagna e a me stessa, smussando certe spigolosità, certe severità culturali del mio carattere, arricchendo il mio spirito e la mia anima del “Bello”, che qui si avverte ovunque. Credo che non vi siano popoli che sappiano apprezzare il “Bello” quanto i tedeschi; secondo Goethe, lo sanno ricercare nelle cose più piccole, nei minimi dettagli dove si rivela Dio, ed io di tutto ciò mi sono arricchita, scoprendolo giornalmente, nei volti dei contadini di questa terra, nella loro saggezza antica, in questi mosaici di viti che si intrecciano di continuo, nelle stagioni e nel mio vino. Tutto qui mi parla di un passato forte, importante, al quale, orgogliosamente, mi sento di appartenere e in nessun altro posto sento appagata la mia curiosità nei confronti della vita e rimango ad osservare tutto, in un susseguirsi di continue scoperte che, giorno dopo giorno, mi mettono in comunione con questa terra di Piemonte. Posso assicurare che all’inizio l’impatto non è stato dei più semplici, sono passati diversi anni prima di essere accettata, ma alla fine, attraverso l’apprezzamento che ho dimostrato per il mio lavoro, che faccio con entusiasmo e passione, sono riuscita a costruire un rapporto di stima e di rispetto reciproco. Io credo di appartenere a quella schiera di tedeschi che nei secoli, proprio perché non sono un popolo di colonizzatori, hanno saputo ambientarsi in ogni parte del mondo creando attività produttive e portando benessere al territorio nel quale si sono insediati. Con questo spirito, che ora mi riconosco, avrei potuto, allo stesso modo, allevare cavalli in Texas, coltivare piantagioni di caffè in Kenya o di cotone in America Centrale; sarei potuta andare ovunque, in Africa come in Asia, ma dovunque fossi andata, il paese che in assoluto mi sarebbe mancato, sarebbe stato l’Italia. Ho realizzato il mio sogno proprio in questa bellissima regione; mi rammarico solo di non avere maggiori doti comunicative e diplomatiche che, certamente, mi sarebbero state d’aiuto per una migliore convivenza e comprensione reciproca. Non vorrei sembrare banale affermando che sono stati il sole, l’amore e la ricerca di un senso più profondo di vita a farmi arrivare qua, ma so benissimo che non sono tutte rose e fiori, che molte cose, qui come altrove, non vanno e mi dispiace constatare il diffondersi di un preoccupante disinteresse verso il territorio, verso la cultura che lo anima e la memoria che lo alimenta, alla quale con il tempo mi sono profondamente legata. Non mi è difficile sentire nell’aria l’eco delle voci dei contadini o quelle delle donne che chiamano i bambini presi dai loro giochi, in un susseguirsi di profumi e di odori che entrano dentro l’anima e rimangono impressi nella memoria; non mi è difficile perdermi fra i filari delle mie vigne o nell’odore del mosto in cantina; non mi è difficile innamorarmi di tutto questo. Vorrei che la parte più bella di questo territorio rimanesse intatta per sempre, che questa terra fosse protetta e curata. Spero che l’equilibrio tra uomo e natura, che l’esperienza millenaria del contadino ha costruito, rimanga stabile nel suo rinnovarsi e possa crescere senza che il vento distruttivo della globalizzazione sconvolga il “solare Paese degli Dei”.
Nebbiolo d’Alba DOC
Altri vini I Rossi: Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%) Barbera d’Alba DOC Superiore (Barbera 100%) Langhe Rosso DOC Pedrocha (Nebbiolo 70%, Barbera 30%) Vareij Vino da Tavola (Brachetto 70%, Barbera 30%)
Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda posti in località Monteforche e Granera, nei comuni di Priocca e Castellinaldo, le cui viti hanno un’età di oltre 25 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni limosi con forte presenza di argille, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 7 giorni alla temperatura di 28-30°C in recipienti di acciaio inox; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 8 giorni durante la quale, nei primi 5-6 giorni, vengono praticati frequenti délestage e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino è posto per un 60% in barrique di rovere francese a grana grossa e fine e il restante 40% in botti di rovere di Slavonia da 20 Hl in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 22 mesi durante i quali vengono effettuati almeno 2 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino viene imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 4500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino scuro con riflessi violacei e con profumi ampi, pieni, fini e dolci di confettura di mirtilli che via via si aprono a note speziate di menta, cedro, pepe bianco e liquirizia. In bocca ha un’entratura elegante e una struttura da grande vino, con tannini dolci, equilibrati, vellutati che, insieme ad una grande sapidità, conferiscono al vino persistenza e longevità; chiude con le note speziate percepite al naso. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1997 - 1999 - 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Annette Hilberg dal 1993, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 8 Ha, di cui 5 vitati e 3 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge le funzioni di agronomo e di enologo Michele Pasquero.
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ICARDI
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Sara, Claudio, Luca e Mariagrazia Icardi
Per avere una storia, bisogna avere il tempo di costruirla e per farlo è necessario mettersi in gioco non avendo paura di costruire una serie di rapporti, fatiche, intuizioni, rischi, alleanze e compromessi, utili per raggiungere l’obiettivo. Anche se ho fatto tutto il necessario affinché ciò che mi ero prefissato si realizzasse, posso dire, con certezza, che non è facile costruire una storia nuova quando in mano si ha poco, o addirittura niente, soprattutto se è proprio da quello zero assoluto che la stessa storia deve prendere avvio. Questa cieca rincorsa verso una fantomatica gratificazione, sovente conduce a far perdere di vista molte cose importanti che, silenziose, ti passano accanto e solo dopo che esse sono fuggite via ti accorgi di non aver avuto il tempo né di assaporarle, né di gustarle fino in fondo. Così, pur avendo tirato su una bella cantina, aver dato identità ai vini, aver fatto conoscere il nome Icardi a tanta gente nel mondo ed essere stato colpito, come tanti, da un “improvviso benessere”, ho scoperto che i miei figli erano cresciuti, andando ormai per la loro strada, e allo stesso tempo che con la loro madre avevo costruito più un “rapporto-azienda” che un vero e proprio matrimonio. La sola malinconica distrazione era cercare di capire dove avevo sbagliato, quanto era diventato importante il mio “grande vino”, a cosa avevo rinunciato per arrivare a tanto e quali mani beffarde avevano confezionato quella coperta double face che era diventata la mia vita, che durante il lavoro mi scaldava e la sera, nella solitudine, mi rattristava. In quei momenti, guardandomi allo specchio, comprendevo quanto fossi arrivato
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vicino al pericolo di percorrere una strada che non era la mia, “etichettabile”, che mi aveva portato a diventare uno di quegli attori che si alternano sul palcoscenico del mondo del vino, filtrati da un unico stampo, tanto semplificato da riprodurre un profilo che non dà adito a sorprese; tutti proiettati a interpretare la solita parte dei buoni contadini, vignerons o winemakers che qualcuno ha insegnato loro. Ero un altro elemento della tribù di neo-artigiani del vino alla ricerca del business ad ogni costo, che si sposta a ondate dietro al mercato, scambiandosi il copione e le parti, cercando di legittimare la proprie quotazioni professionali tra passioni fredde e “saperi” standard, perfetti nella loro ovvietà e incapaci di raccontarsi imprese, successi e soprattutto sconfitte. Un attimo di smarrimento legittimo, ma sufficiente per farmi comprendere che il solo pensiero di dover continuare, per il resto della mia vita di enologo, a selezionare, travasare e assemblare vino nel modo in cui lo stavo facendo, mi terrorizzava. Avevo bisogno d’altro, avevo bisogno di riappropriarmi dell’energia che avevo scoperto in alcuni vini degustati nei miei viaggi in Francia e in altre parti del mondo: vini che sapevano raccontare la loro terra di provenienza. Fu un colloquio con mio nonno Angelo a farmi riscoprire quel filo di Arianna che avevo perso; sì, proprio da lui, uomo taciturno e silenzioso, con un rapporto quasi sacro con la terra e con le vigne, che lo poneva distante anni luce dal mondo contemporaneo, percepivo un mix di elementi che non riuscivo ancora a mettere a fuoco. Ricordo che non proferiva parola da settimane quando, improvvisamente, un giorno, forse conscio di essere arrivato alla fine della sua vita, mi prese da parte e incominciò un lungo discorso in piemontese stretto, quasi incomprensibile, raccontandomi il significato dell’armonia, della complessità e della semplicità della natura e di come la terra, la luna e il sole fossero un tutt’uno, una sola cosa che io avrei dovuto conoscere per capire meglio il vero valore delle cose che mi circondavano, così da determinare i tempi giusti per agire. Dopo tre giorni morì, ma quel suo discorso mi illuminò e mi fece comprendere che fino a quel momento avevo solo guardato, ma non avevo visto, e in tutto ciò che mi circondava vi era un “Ordine” a cui tutti avrebbero dovuto far capo, anch’io, magari ricercando quell’armonia che avevo perso, sia nei confronti della mia terra che della mia vita. Quelle sue parole mi aprirono un mondo sconosciuto che mi esaltò, mi riempì le serate, tutto il tempo libero e fece in modo che io sentissi nuovamente scorrere quell’energia e quella forza che non pensavo più di avere. Fu così che iniziai ad informarmi, a leggere libri e riviste, a visitare aziende che si adoperavano già da anni in questa filosofia che è chiamata biodinamica. Romanée-Conti, Zind-Humbrecht, Coby erano solo alcune di quelle aziende, che si muovevano da anni in quella direzione, ma ve ne erano tante altre alle quali potevo eventualmente far riferimento e, nel prosieguo di questa mia avventura culturaleformativa, incominciai sempre più a sintonizzarmi su quel dialettico linguaggio che parlava il mio Nebbiolo, con questa terra e sul significato, vero, del lento passaggio delle stagioni che avevo dimenticato, puntando lo sguardo solo sulla vite. Un mondo misterioso, affascinante, quasi magico, che non conoscevo e del quale, anche oggi, riesco a percepire solo alcuni aspetti, ma che già mi sta dando risposte importanti e uniche. In questo viaggio spirituale ho acquisito più serenità; mi sono posto con più amore, non soltanto al fianco di mia sorella Mariagrazia, anima e mente amministrativa dell’azienda, che mi è stata accanto nei momenti difficili dimostrando grande pazienza, ma anche di mio padre Pierino che, devo dire, pur discutendo su certe mie scelte, non mi ha mai negato nulla. Oggi più che mai mi rendo conto che il mio viaggio è appena iniziato e non so ancora dove mi condurrà, ma so di certo che ho ritrovato il gusto di fare le cose e il piacere di scommettere su un domani diverso che, sono sicuro, mi riserverà splendide sorprese grazie alla voglia e al desiderio di ricercare la mia armonia.
Altri vini I Bianchi: Piemonte Cortese DOC Balera (Cortese 100%) Monferrato Bianco DOC Pafoj (Sauvignon 60%, Chardonnay 40%)
I Rossi: Monferrato Rosso DOC Bricco del Sole (Nebbiolo, Cabernet Sauvignon, Barbera) Barbera d’Asti DOC Nuj Suj (Barbera 100%) Barbera d’Alba DOC Suri’ di Mu’ (Barbera 100%) Barolo DOCG Parej (Nebbiolo 100%)
Montubert Barbaresco DOCG Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto nel comune di Neive, le cui viti hanno un’età di oltre 50 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni marnosi e calcarei bianchi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra 200 e 230 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 7 giorni alla temperatura di 32°C in tini di acciaio inox termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale giornalmente si effettuano meccanicamente le follature e manualmente i rimontaggi. Terminata questa fase, il vino rimane in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica al termine della quale viene travasato in barrique nuove di rovere francese a grana fine con tostatura leggera in cui rimane per circa 30 mesi, periodo durante il quale avvengono 5 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo una leggera chiarifica a base di albumina di uovo e una leggera filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 3 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 12000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi aranciati e con sensazioni che introducono a un bouquet complesso che si apre con note fruttate di more, confettura di visciole, oltre a lamponi e ad altre percezioni speziate di eucalipto, liquirizia, con una chiusura floreale di rose rosse e garofano. In bocca è elegante e i tannini risultano di grande stoffa e ben equilibrati; essi, insieme a una bella sapidità, conferiscono al vino notevole freschezza oltre che lunghezza e persistenza; chiude con le note fruttate percepite al naso. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 18 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Icardi dal 1750, l’azienda agricola oggi è condotta da Pierino e dai figli Mariagrazia e Claudio e si estende su una superficie complessiva di 78 Ha, di cui 73 vitati e 5 occupati da prati, boschi e seminativi. Collabora in azienda l’agronomo Franco Aimasso, mentre le funzioni di enologo sono svolte da Claudio Icardi.
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LA SCOLCA
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Chiara Soldati
Mi dà fastidio sprecare il tempo, quasi più del denaro, poiché il tempo è una grande ricchezza ed è una di quelle cose che, pur non appartenendomi, sento profondamente mia. Sono sempre stata abituata a prendere la vita di petto, mi piace viverla appieno, impegnandomi in ogni cosa che faccio e ogni minuto della mia giornata deve essere finalizzato alla risoluzione di qualcosa d’importante. È così che mi sento viva. Credo che l’unica volta nella mia vita in cui ciò non è valso è stato quando mi sono iscritta alla facoltà di Giurisprudenza. Un corso di laurea che mi piaceva, perché credevo appagasse la mia passione per gli studi classici e per quel Diritto Romano che è alla base di gran parte dei nostri codici; materie che stimolavano il mio immaginario ponendomi un po’ a paladina delle cause altrui. Tuttavia ero cosciente di avere dentro un’altra passione, quella del mondo del vino. Una passione forte, prorompente, che mi era entrata nell’animo ed era cresciuta negli anni; una passione che mi portava, ogni qualvolta avevo un minuto di tempo libero, a recarmi con entusiasmo nell’azienda di famiglia: La Scolca. In quegli anni, pur impegnandomi negli studi, pensavo spesso che ciò che stavo facendo non mi sarebbe servito professionalmente e qualsiasi sforzo io facessi risultava inutile; davanti a me avevo una strada tracciata e ben delineata ed era inutile che io facessi finta di disconoscerla. Avevo ben presto capito che quella vita agreste, passata fra le vigne e la cantina, si confaceva al mio desiderio di sperimentarmi e misurare i miei limiti più di ogni altra cosa; anch’io forse, come tanti altri figli di
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produttori, avevo compreso quasi subito il fascino racchiuso in quelle percezioni sensoriali che sa trasmettere un bicchiere di vino. Quello a cui avrei dovuto rinunciare, per una toga, era un lavoro coinvolgente, capace di mescolare continuamente le carte della vita. Ora che sono qui, come volevo, non rimpiango il tempo dedicato a quell’esperienza universitaria, anzi, ritengo che la stessa abbia confermato la mia incapacità a stare lontana dalla terra e dal vino. Una volta capito che questo non era possibile, lasciai l’Università, complice anche un matrimonio e l’arrivo, poco dopo, di un bambino, oltre a un andamento lavorativo, in cantina, che diventava sempre più impegnativo. Da allora mi occupo a tempo pieno dell’azienda; la seguo nei minimi dettagli affrontando le problematiche giornaliere, cercando di coniugare questo lavoro con la mia anima “paladina”, che continua a farsi sentire, e con l’essere mamma e moglie. Credo che in definitiva sia stata proprio la sicurezza che mi viene dalla famiglia a stimolarmi nel lavoro e a contribuire, giorno dopo giorno, a mandare avanti quest’azienda che ho vissuto, soprattutto nei primi tempi, attraverso l’esperienza di mio padre, attraverso il suo modo di razionalizzare e risolvere le cose, attraverso la sua creatività e la sua inesauribile voglia di fare. A rotazione, i primi 2 anni ho fatto e ho visto tutto, impegnandomi ad ogni livello, dalla vigna alla cantina passando per le etichette, così da comprendere quali fossero i miei ambiti d’eccellenza e quelli invece dove avrei dovuto impegnarmi di più. Mio padre voleva che io fossi in grado, in ogni caso, di capire e conoscere tutto, per poter essere autonoma e agire in base a ciò che avevo imparato. Sicuramente sono arrivata nel mondo del vino in un momento favorevole, in cui molti cambi generazionali, all’interno delle aziende, sono avvenuti al femminile, fra padri e figlie. Un’innovazione importante, più per il Piemonte che per altre regioni d’Italia, che ha sicuramente portato una generale modernità di toni, di metodi, contribuendo a svecchiare obsoleti concetti individualisti e dando una nuova visione d’insieme al movimento enologico della regione. È in quest’ottica che ho accettato certi incarichi, per provare a fare qualcosa di concreto per il mio territorio al quale sono molto legata. Ho ricoperto, in quel poco di tempo libero sottratto alla famiglia e all’azienda, l’incarico di rappresentante per il Nord Italia e per il Piemonte dell’Osservatorio dell’Imprenditoria Femminile presso il Ministero delle Politiche Agricole, l’incarico presso un’Associazione no profit di produttori, con i quali cerco di rilanciare l’immagine del territorio e del vino a Gavi, nonché l’incarico di Presidente del Movimento Turismo del Vino del Piemonte in un momento non facile per una regione dove manca una radicata cultura dell’accoglienza. Credo di aver accettato questi incarichi per la qualità dell’impegno che essi richiedono e, pur sapendo che investono gran parte della mia quotidianità, vedo con piacere che riescono a soddisfarmi e a completarmi, dandomi la possibilità di essere utile a questo mio Piemonte. Per me è una grande soddisfazione, che spero sia presto affiancata da una situazione produttiva e commerciale più tranquilla, meno concitata, priva dell’affanno legato alla rincorsa della vendita o all’accondiscendenza verso quello che il cliente si aspetta, ma un po’ più proiettata all’appagamento delle passioni individuali che ogni produttore ha, sperando di tornare presto nel mondo del vino ad uno spirito più semplice, più aperto, più agreste e meno artefatto.
Soldati La Scolca d’Antan
Altri vini I Bianchi: Gavi del Comune di Gavi DOCG La Scolca (Cortese del Comune di Gavi 100%) Gavi dei Gavi® DOCG La Scolca (Cortese del Comune di Gavi 100%) I Rosati: Rosato Vino da Tavola (Cortese del Comune di Gavi 96%, Nebbiolo 4%)
Vino Spumante Brut Millesimato I Rossi: Pinot Nero DOC (Pinot Nero 100%) Gli Spumanti: Rugrè La Scolca V.S.Q. (Cortese 100%) Soldati La Scolca Brut DOCG (Cortese del Comune di Gavi 100%)
Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Cortese provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Rovereto nel comune di Gavi Ligure, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 60 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi con forte presenza di tufo e argilla, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Cortese 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4400 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla metà di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto viene introdotto in tini di acciaio inox termocondizionati, in cui, dopo una breve sedimentazione naturale a temperatura controllata, si avvia, con l’utilizzo di fermenti autoctoni, la fermentazione alcolica, che si protrae per circa 21 giorni alla temperatura di 19-21°C. Terminata questa fase, il vino rimane nei contenitori in acciaio, dove è conservato sur lies con periodici rimontaggi. Verso la fine dell’anno successivo alla vendemmia il vino viene imbottigliato sui suoi lieviti e qui rimane per circa 10 anni, durante i quali sono effettuati dei remuages periodici al fine di canalizzare i sedimenti in punta alla bottiglia. Trascorso questo lungo periodo di maturazione e di affinamento, si procede alla sboccatura, al rabbocco e all’inserimento della liqueur d’expédition e lo spumante è nuovamente lasciato affinare per altri 3 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 2000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta all’esame visivo di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, un perlage fitto, minuto e continuo, mentre all’esame olfattivo è delizioso, con profumi di frutta candita, miele, caramella, oltre a note di frutta esotica e spezie come il cumino e il papavero; il finale ricorda molto le mandorle verdi e le arachidi. In bocca ha un’entratura secca, importante; risulta fresco, con una stoffa vellutata, è lungo e persistente e chiude con note di ananas e mandorle. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 1989 - 1990 - 1992 - 1997 Note: il vino, che prende il nome da un verso di una ballata del poeta francese François Villon nella quale egli ricordava il tempo passato (d’Antan), raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Soldati dal 1919, l’azienda agricola, gestita oggi da Giorgio e Chiara Soldati, si estende su una superficie complessiva di 42 Ha, di cui 36 vitati e 6 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge la funzione di agronomo Anathasius Fachorellis, mentre quella di enologo è svolta dallo stesso Giorgio Soldati.
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LA SPINETTA
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Giorgio Rivetti
Tutto è collegato e connesso all’onestà. L’honestas che puoi avere nei confronti di una persona, di una pianta, di una parola data o di una qualsiasi altra cosa; una regola nella quale si racchiude il segreto del personale rapporto con la vita. Se uno ha ben chiaro questo, non ha importanza quale sia il suo lavoro, poiché, sicuramente, lo svolgerà bene e in esso troverà positività ed entusiasmo. È con questa regola che io mi rapporto alle cose che faccio e anche con la vite, questa pianta meravigliosa, che sa leggermi dentro molto meglio di tante persone e si adopera, come un’amica fidata, per comprendere cosa io voglio da lei. Il nostro è un rapporto schietto, sincero, finalizzato al raggiungimento di quel vino ideale che ho sempre voluto produrre. E sai quale è la mia idea del vino? Secondo me, il vino deve essere l’espressione delle persone che lo producono e tutto questo è raggiungibile solo se uno riesce a porsi in armonia e creare un ordine fra tre cose: la terra, la vigna e se stesso. Io non faccio divisioni fra queste tre cose e in questa unione trovo un enorme piacere, soprattutto quando tutto questo lo ritrovo dentro quel bicchiere di vino che riesce a darmi emozioni importanti e riesce a trasmettermi sensazioni uniche, particolari, caratteriali, tipiche di eleganza e potenza, che vanno al di là del semplice piacere di berlo perché è buono o perché è tecnico o equilibrato.
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Non ti dico quanto tempo mi ci è voluto per far comprendere alle mie vigne cosa volessi da loro. C’è voluto moltissimo tempo prima che le piante capissero quale era il mio fine e riuscissero ad entrare in sintonia con me e apprendere la filosofia con la quale ho costruito questo mio terroir. Ci vuole tempo per riuscire a realizzare l’armonia di cui parlavo prima; trascorso questo tempo, tutto si trasforma e, piano piano, anno dopo anno, vendemmia dopo vendemmia, ecco che finalmente si incominciano a sentire, nel vino, il piacere, i gusti, i profumi e i colori che io desidero, scoprendo che, in fondo, dentro quel bicchiere ci sono anch’io, c’è il mio lavoro, la mia terra, l’ordine che ho dato alle cose, la mia onestà e le mie idee. È bello quando faccio assaggiare, come ieri sera, il mio vino a degli amici e assisto, dopo mezz’ora che stanno lì con il bicchiere in mano e incominciano a percepire cosa fuoriesca da quel calice, alle loro emozioni. È da quei profumi belli, potenti e al contempo delicati, che spesso incomincia il gioco sottile, nel quale interagiscono le memorie e le percezioni olfattive, al quale tutti vogliono partecipare. Ognuno percorrendo un suo preciso sentiero sensoriale che lo conduce a scoprire chi i profumi delle margherite, dell’uva quando fiorisce o del tiglio, chi, invece, sensazioni eteree e di tostatura o note di liquirizia e caffè in grani e chi, ancora, del cacao amaro o il fruttato di ciliegia, ribes, fragola selvatica e rosa rossa. Una disquisizione libera da schemi precostituiti, all’interno della quale le emozioni si mischiano al piacere e ciò che uno ha dentro fuoriesce in modo vero, sincero, onesto, come piace a me. Quel vino di ieri sera era esattamente come lo volevo io, con quel giusto mix fra potenza, delicatezza e carattere, percezioni che si hanno anche nell’osservare il movimento fluido di un cavallo lanciato al galoppo. Per arrivare a quei risultati ci vuole tempo e dedizione e c’è bisogno di un lavoro meticoloso, svolto onestamente nella terra e nella vigna, poiché la vite è una pianta sensibile e lo sente se la tratti bene, se la lavori con rispetto e se la dissodi nel modo giusto; lei, di sicuro, ti ripagherà sempre a seconda di come la poti, la diradi e la vendemmi. In quella pianta c’è il novanta per cento del mio vino, mentre il resto dipende dalla mia capacità di relazionarmi alle cose e da come io vedo il mondo. Non ti sarà difficile scoprire quali siano le leggere sfumature che si racchiudono in quel dieci per cento e come le stesse siano in grado di creare un quid e un distinguo, talvolta neanche tanto sottili, fra il vino di un produttore e quello di un altro, pur provenendo, entrambi, dalla stessa zona o addirittura da vigneti confinanti. Sono quelle sostanziose variabili che rappresentano lo specchio fedele di ciò che sono i vignerons e ciò che gli stessi riescono a trasmettere ai loro vini, con l’armonia della loro anima, dei loro pensieri, dei loro sogni. È con quelle fantasie e con quei pensieri che fanno il vino e anche se tutto parte dai terreni, da come vengono coltivate le vigne e da dove le stesse sono posizionate, tutto, o quasi, potrà variare a seconda di ciò che avranno da esprimere, da cosa avranno da dire, dai ricordi, dalle sensazioni e dal loro background. Il vino è qualcosa di molto più complesso di quanto si possa immaginare, deve dare suggestioni, deve essere come una donna che, dopo che ti sei soffermato sulla sua bellezza, incominci a scoprire poco per volta, a sentirne i profumi, a capirne l’anima e i segreti e ti accorgi che è proprio ciò che volevi!
Altri vini I Bianchi: Moscato d’Asti DOCG Biancospino e Bricco Quaglia (Moscato 100%) Chardonnay Piemonte DOC Lidia (Chardonnay 100%) Langhe Bianco DOC (Sauvignon 100%) I Rossi: Barbera d’Asti DOC Superiore Bionzo (Barbera 100%) Monferrato Rosso DOC Pin (Nebbiolo 65%, Barbera d’Asti Superiore 35%) Barolo DOCG Campè (Nebbiolo 100%)
Vigneto Starderi Barbaresco DOCG Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto nel comune di Neive, le cui viti hanno un’età media di 35 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 350 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4800 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 10 al 30 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 12 giorni alla temperatura di 32°C in rotomaceratori di acciaio inox termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale sono praticati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in barrique di rovere francese a grana fine con tostatura leggera in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 18 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati almeno 4 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo 5 mesi di stabilizzazione in acciaio, il vino, senza alcuna filtrazione, viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 11000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino profondo con sensazioni eteree e di tostatura che introducono a un bouquet più complesso che lascia intuire note di liquirizia, caffè in grani, cacao amaro e percezioni fruttate di ciliegia, ribes, fragola selvatica e rose rosse. In bocca ha un’entratura elegante, potente, con una fibra tannica ben presente che, insieme a una bella sapidità, conferisce al vino notevole freschezza oltre a lunghezza, persistenza e longevità. Chiude con le note fruttate percepite al naso. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1996 - 1997 - 1999 - 2000 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Rivetti dal 1950, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 150 Ha, di cui 100 interamente vitati in Piemonte e 50 interamente vitati in Toscana. Svolgono la funzione di agronomo e di enologo i fratelli Carlo, Bruno e Giorgio Rivetti.
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MALVIRÀ
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Massimo e Roberto Damonte
Non vorrei apparire pleonastico, ma quando si incomincia ad andare indietro nel tempo e i discorsi iniziano con “Mi ricordo che una volta…”, c’è da preoccuparsi! Vuol dire che ne abbiamo viste così tante che tutto si confonde e le cose fatte solo qualche giorno fa ci sembrano lontanissime nel tempo, mentre quelle distanti anni e anni dall’odierna quotidianità ci sembrano accadute solo pochi giorni addietro. Non so quando sia successo, ma ricordo ancora, come se fosse ieri, i momenti in cui giocavo nel cortile dietro alla bottega di generi alimentari che i miei genitori avevano qui in paese, a Canale. Eravamo cinque figli e mio padre e mia madre, oltre al negozio, un’attività avviata da generazioni del ramo materno della famiglia, vendevano frutta e verdura nei mercati rionali di Torino. Mentre parlo, mi torna in mente, vivissimo, il ricordo dell’interno di quel negozio dove c’era di tutto e di più: dai quaderni all’olio, dal Vermouth al Marsala all’uovo arrivato in grandi damigiane odorose; c’erano gli spaghetti nelle cassette di legno, i barili delle acciughe e delle aringhe, il secchio con il baccalà a bagno e la cassa dello stoccafisso; sugli scaffali il concentrato di pomodoro faceva compagnia alle bustine di “Idrolitina” e alle caramelle di orzo vendute sfuse; sotto, alle spalle del bancone, c’erano i cassoni con il pane. Questi odori sono rimasti impressi nella mia mente, primo fra tutti quello del caffè, appena tostato, che si diffondeva per tutto il quartiere; percezioni olfattive si mischiavano ad altre sensazioni che oggi fanno parte di quelle memorie che mi consentono di iniziare spesso i discorsi con quel “Mi ricordo…”.
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Quando penso a tutto questo, mi convinco che in definitiva sono queste memorie il significato più profondo del mio rapporto con il territorio a cui appartengo e che è quello della mia gente; è un legame profondo e ancestrale che non si crea in un attimo, perché l’essenza che lo alimenta è proprio il tempo, l’unico in grado di restituire l’eco vero di quelle cose a chi si trova a passare per questo territorio: un “vero” omaggio per chi ha saputo aver cura di questa terra. Memorie che certe volte si trasformano in tradizioni, che sono fatte per essere rispettate e per essere infrante, così da costruirne di nuove, in una continua alternanza fra ciò che era e ciò che è. Anche io ho iniziato questa mia avventura di vigneron andando contro la tradizione che proponeva, fino a qualche decina di anni fa, l’Arneis come vino dolce, al pari del Moscato. Ero un “bastian contrario” già al quarto anno di scuola enologica e rammento che, a dispetto di tutti, vinificai sette damigiane di Arneis secco. Più passava il tempo e più mi convincevo che per uscire da quella situazione di stallo in cui versava questa zona del Roero, avrei dovuto puntare su una produzione enologica di alta qualità e fu così che con l’amico Rivetti cominciammo a percorrere quel nuovo sentiero. Costruii la cantina in questa zona, proprio sotto la casa dove abitiamo attualmente e da quel lontanissimo 1975 ho continuato ad investire, acquistando i vigneti di mio zio, poi quelli di alcuni vicini e di altri parenti. Questo processo di crescita l’ho condiviso prima con mio padre e poi con mio fratello Massimo, che segue i vigneti e con il quale, pur avendo idee molto diverse, sono riuscito a costruire un connubio che ci consente di dare il meglio di noi a questa azienda, ognuno con il proprio carattere: estroverso e sognatore io, concreto e pragmatico lui. L’esperienza mi ha insegnato che una famiglia, se organizzata bene, è in grado di gestire ogni sorta di problemi: l’importante però è che tutti siano animati da uno stesso spirito, simile a quello dei pionieri. Guardandomi indietro, devo dire con soddisfazione che molte cose sono cambiate da allora; da quella bottega e da quella antica cantina ne abbiamo fatta di strada. La più grande soddisfazione comunque è stata quella di poter acquistare questa azienda, oggi divenuta Villa Tiboldi, con i 4 ettari di terreno intorno, bellissimo, esposto tutto a sud e non come la nostra vecchia casa dove avevamo il negozio, che era chiamata appunto “Malvirà” (“mal girata” in dialetto piemontese) proprio per l’esposizione del suo cortile a nord, poco adatta per seccare i cereali raccolti. Dopo l’acquisto, la prima cosa che rimettemmo a posto furono i vigneti, poi, con calma, aggiustammo il tetto della casa e, successivamente, ristrutturammo alcune stanze da affittare ai turisti fino ad arrivare all’apertura del ristorante; un’idea perseguita per tutti questi anni, convinti entrambi che nel mix di vino, ospitalità e cibo vi fosse il futuro della viticoltura di questa zona. Con un domani sempre più incerto e con un mercato sempre più globalizzato e globalizzante, mio fratello ed io riteniamo che la sopravvivenza delle piccole aziende come la nostra dipenderà dalla capacità che avremo di vendere, insieme al vino, il territorio dove lo stesso è prodotto, creando un amalgama fra il prodotto enologico, il paesaggio, l’ambiente, la qualità della vita e le memorie, quelle vere però, piene delle cose sane di una volta, dei profumi che mi ricordo ancora, delle sensazioni e delle passioni, dei sentimenti e del grande valore che qui ha la famiglia, senza sceneggiate messe in opera ad uso e consumo dei turisti o semplici “specchietti per le allodole”. Sarà la consapevolezza sempre maggiore della bellezza e della fragilità del territorio che ci circonda a stimolare la qualità di una produzione sempre più attenta e responsabile nell’offerta turistica ed enologica. Dobbiamo crescere ancora in questa zona del Roero, facendo tesoro dell’esperienza raccolta fino ad ora, mantenendo la nostra identità, rimanendo semplici, senza montarci la testa, e cercando di essere disponibili e aperti verso quanti ci vengono a trovare. È con questo spirito che faccio vino e offro ospitalità nella mia casa.
Altri vini I Bianchi: Langhe Favorita DOC (Favorita 100%) Roero Arneis DOC Saglietto (Arneis 100%) Langhe Treuve DOC (Chardonnay 40%, Sauvignon 40%, Arneis 20%)
Mombeltramo Roero Superiore DOC
I Rossi: Barbera d’Alba Superiore DOC San Michele (Barbera 100%) Langhe Rosso DOC San Guglielmo (Barbera 70%, Nebbiolo 25%, Bonarda Piemontese 5%) Roero Superiore DOC Trinità (Nebbiolo 100%)
Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto di proprietà dell’azienda denominato Monte Beltramo, posto nel comune di Canale, le cui viti hanno un’età media di 25 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-sabbiosi con residui fossili marini, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 320 metri s.l.m. con esposizione a est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene a partire dalla seconda decade di ottobre fino alla fine dello stesso mese, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 15-20 giorni in recipienti di acciaio termocondizionati ad una temperatura che parte dai 14°C per arrivare alla fine verso i 35°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 1012 giorni, periodo durante il quale vengono effettuati rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino, dopo un breve periodo di decantazione, viene posto in double barrique di rovere francese a grana fine e tostatura leggera per un 80% di primo passaggio, in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 24 mesi, durante i quali vengono effettuati almeno 3 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo una decantazione naturale che dura circa 1 mese e senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati, con aromi fruttati di pesca gialla e amarena oltre a note floreali di viola e piacevoli sensazioni di sottobosco, prugne cotte, chiodi di garofano e cannella. In bocca ha un’entratura netta, sapida, che lascia intuire una grande fibra strutturale, con tannini che abbinati a una buona sapidità conferiscono al vino freschezza, lunghezza e persistenza; chiude con note di rabarbaro. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla località dove sono posizionati i vigneti, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Massimo e Roberto Damonte dal 1983, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 27 Ha, di cui 25 vitati e 2 occupati da prati, boschi, seminativi e noccioleti. Svolge la funzione di agronomo Massimo Damonte e quella di enologo Roberto Damonte.
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Luisa Bava e Manuel Marchetti
La prima decisione fu di non cambiare nulla. Venivo da esperienze e completamente diverse e da mondi imprenditoriali agli antipodi rispetto a quello del vino e la decisione di tornare a La Morra, in Piemonte, per seguire l’azienda agricola della famiglia di mia moglie, fu presa di comune accordo con Luisa, con l’intento di ricercare altre esperienze, da aggiungere a quelle che mi avevano già segnato e per dare un valore aggiunto al nostro domani. Mi assicuravano che per fare vino occorrevano passione, amore per la terra, capacità professionali e senso degli affari. Non so cosa di tutto questo poteva appartenermi: dalla mia parte avevo una poliedricità caratteriale che si era sviluppata stando in contatto con culture diverse, ora giocando con i miei coetanei a Città del Guatemala, dove sono nato e ho trascorso la mia infanzia, ora frequentando le scuole a Città del Messico, dove avevo seguito mio padre, piemontese DOC, responsabile per la Cinzano dell’America Centrale, e dove ho trascorso tutta l’adolescenza e parte della mia giovinezza. Esperienze di vita importanti che si erano ulteriormente arricchite con un anno di università trascorso a studiare informatica, in Texas negli Stati Uniti, che mi dette ulteriori sicurezze nell’assumere, senza pormi troppi problemi, la decisione di seguire mio padre che, stanco di starsene in giro per il mondo, ad un certo momento decise di tornare in Italia. Ritenni di aver appreso abbastanza dalla cultura americana e presi in seria considerazione l’idea che se poi in Italia avessi trovato difficoltà e l’esperienza si fosse dimostrata per me un grosso sbaglio, non ci avrei messo molto a tornare sui miei
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passi. In definitiva fra il passato e il futuro, a quei tempi, avevo solo un Oceano facilmente superabile. Un background che, dopo essermi laureato in Economia aziendale all’Università a Torino, si arricchì ulteriormente con un’altra esperienza all’estero propostami dalla Miroglio - Gruppo Vestebene, una grande azienda tessile della zona di Cuneo, che m’inviò a Barcellona come responsabile della filiale iberica. Quando i miei suoceri fecero presente la loro decisione di trovare chi continuasse a lavorare quelle vigne che avevano da più generazioni a La Morra, decisi, di comune accordo con mia moglie, di ritornare in Italia e di sperimentarmi nel settore del vino, che non conoscevo per niente. Nell’ignoranza più assoluta mi guardai un momento intorno per comprendere cosa ruotasse intorno a quel prodotto, cercando di apprendere quale fosse la storia di questa azienda e cosa potesse significare essere un vignaiolo nelle Langhe. Ci volle un po’ di tempo prima che potessi comprendere le motivazioni che spingevano l’enologo a fare un certo tipo di vinificazione o le scelte da apportare nelle vigne per migliorare la qualità delle uve prodotte e non mi fu sufficiente la lettura di qualche libro o di qualche manuale. Capii che dovevo crescere, lentamente, accanto a chi ne sapeva molto più di me, lasciando correre i bollori e le frenesie di facili e personali successi. Bisognava che prima di cambiare qualcosa che funzionava, riflettessi attentamente, non una, ma tre volte. Forse erano stati i preti americani a insegnarmi ad essere così pragmatico, realista e concreto nelle cose o forse è stata questa mia innata capacità di osservazione che mi ha consentito, prima di guardare con distacco e con occhio critico tutto quello che mi succedeva intorno e poi di ponderare le decisioni da prendere. Posso assicurare che mi è stato utile e mi serve tuttora, negli scambi commerciali, essere un po’ guatemalteco, messicano e americano, ma è con piacere che mi scopro sempre più piemontese. Non so spiegarmi da dove venga fuori questa mia “piemontesità” che interagisce nelle mie scelte e marca alcuni miei atteggiamenti caratteriali che non conoscevo. Credo di non sbagliare nell’associare questo cambiamento, che mi sta trasformando da cosmopolita a piemontese, al mio quotidiano contatto con questa terra e alla “cultura del tempo” che si respira fra queste vigne. Non so se in tutto questo abbia influito anche il fatto che io mi sia messo a fare vino. Non credo. Penso invece che se avessi cominciato a produrre qualsiasi altra cosa, come le barche, per esempio, che sono la mia grande passione, la mia vita non sarebbe molto diversa da quella odierna. Questa certezza mi è data dalle motivazioni, concrete e razionali, che mi spingono sempre a fare le cose e a ricercare il “bello” in esse. Così anche nel vino ricerco il “bello”, così come lo ricerco nelle mie vigne, nei misteri della vinificazione e del terroir, nel piacere che assaporo stando a contatto con la natura o nella qualità della vita che mi sono imposto di vivere. Sento in ogni modo che ora il vino è divenuto parte di me, ma nonostante tutto sento che non mi rappresenta nel mio insieme. È soltanto una parte, come ogni altro singolo elemento della mia vita; una delle tante piccole schegge che compongono un puzzle dei tanti Manuel che sono dentro di me, che non si sentono ancora completamente italiani, né messicani, né guatemaltechi, né americani. Sento però che mi manca un po’ questo senso di appartenenza ed è per questo che sono costretto a scavare nel profondo delle cose, ad analizzarle in ogni particolare, andando a scoprire cosa vi sia dietro l’angolo, così da comprendere ciò che mi dovrebbe spingere a rimanere in un luogo e lasciarmi incatenare definitivamente ad esso. Il vino, quindi, diventa per me una risorsa, un tramite per capire e comprendere la natura, gli elementi che la compongono, lo spirito che anima le cose e la forza divina che ne controlla il divenire e anche quella mia “piemontesità” che sento crescere in me. Sono sicuro che tutto questo mi aiuta a trovare equilibrio e risorse importanti dentro di me, nell’attesa che questo mondo del vino, che si è trasformato in uno show business, si sieda a riflettere sul suo futuro.
La Serra Barolo DOCG
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Brunate (Nebbiolo 100%) Dolcetto d’Alba DOC Boschi di Berri (Dolcetto 100%) Langhe Nebbiolo DOC Lasarin (Nebbiolo 100%) Dolcetto d’Alba DOC Fontanazza (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC Ciabot Camerano (Barbera 100%) Moscato d’Asti DOCG (Moscato 100%) Barolo Chinato Vino Aromatizzato
Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, situato in località La Serra, nel comune di La Morra, le cui viti hanno un’età media di 14 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-argillosi con forte presenza di magnesio, è posizionato ad un’altitudine di 380 metri s.l.m. con esposizione a sud-sud/ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 10 al 20 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 8 giorni in recipienti di acciaio e di cemento termocondizionati a una temperatura che non supera mai i 30°C; contemporaneamente avviene anche la macerazione sulle bucce che prosegue per altri 30-35 giorni con temperature non inferiori a 20°C. Terminata questa fase e dopo aver effettuato due o tre travasi, parte la fermentazione malolattica al termine della quale il vino viene posto in botti di rovere di Slavonia da 25-45 Hl dove rimane per circa 24 mesi durante i quali vengono effettuati almeno 4 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione né chiarifica, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura almeno altri 6 mesi. Quantità prodotta: 16-17000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un colore rosso granato con riflessi aranciati, mentre al naso ha spiccate sensazioni che abbracciano un ampio ventaglio di percezioni olfattive che spaziano da quelle fruttate di confettura di prugne a sentori floreali e speziati di garofano, cannella, caffè, pepe nero, noce moscata, con un finale di note balsamiche e liquirizia amara. In bocca ha un’entratura importante che ne esalta il corpo; tannini equilibrati e bella sapidità donano una raffinata eleganza e rendono il vino piacevolissimo, lungo e persistente. Chiude con un grande finale che riporta alla mente le percezioni di liquirizia avute al naso. Prima annata: 1975 Le migliori annate: 1978 - 1979 - 1982 - 1985 - 1988 1989 - 1990 - 1996 - 1997 - 1998 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 30 anni. L’azienda: di proprietà di Luisa e Manuel Marchetti dal 1990, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 23 Ha, di cui 17 vitati e 6 occupati da frutteti e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Maurizio Cerrato e l’enologo Armando Cordero.
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MARCHESI ALFIERI
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Antonella, Emanuela e Giovanna San Martino di San Germano
Rimango ogni volta affascinato da tutti quei piccoli angoli d’Italia che rappresentano perfettamente l’essenza del tempo che vi è trascorso; bellissime perle giunte fino a noi grazie alla cocciutaggine e all’illuminata coscienza di chi ha saputo proteggere con un guscio di ostrica non solo le sfumature architettoniche che racchiudono, ma l’essenza stessa della storia del territorio al quale esse appartengono. Siano rocche bizantine, castelli medioevali, palazzi rinascimentali o ville settecentesche, non mi è difficile percepire la grande energia che essi racchiudono e che si è accumulata con il tempo, infiltrandosi e condensandosi nelle venature del legno, nelle trame degli arazzi, sulle suppellettili. Un’energia carica, magnetica, sottile, che è percepibile in ogni dove, nelle mura, sui bastioni, nelle sale affrescate, nei grandi portoni che si aprono su ambienti interni, nelle statue e negli alberi secolari che arredano il giardino; tutti elementi che solo all’apparenza sembrano immutabili, ma che invece, avendo attraversato il tempo come osservatori attenti e silenziosi delle virtù e dei difetti degli uomini che lì hanno vissuto, si sono caricati di una vitalità propria attraverso la quale sanno raccontare agli attenti uditori storie meravigliose e uniche. Sembra abbiano un’anima e, come perfetti interpreti di ciò che è stato e messaggeri di ciò che sarà, appartengono a una dimensione che sfugge al nostro concetto di tempo. Silenziosi e immobili, osservano il mio modesto passaggio fra le volte di immense e grandiose cantine o nella leggera frescura di atrii e porticati che si affacciano su giardini, dove dialogo con le mie ospiti, divenute, per volontà o per virtù loro, “guardiane” oltre che vignaiole.
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È come se facessi un tuffo in una dimensione temporale a me sconosciuta, ma che ammiro come un bambino, cercando di carpire al mio interlocutore quale sia il significato, il peso, la fortuna di sentirsi elemento attivo di una storia che parte da lontano ed è di là dal divenire. Donna Antonella è seduta davanti a me, mentre Donna Emanuela e Donna Giovanna sono sedute sulle poltrone ai miei lati nel grande salotto del loro castello. Mentre le tre Marchese San Martino di San Germano mi parlano, la mia mente spazia tutto intorno per comprendere il più possibile questo luogo in cui mi trovo. Quei loro racconti mi hanno affascinato e momentaneamente mi hanno fatto dimenticare il vino e le motivazioni del mio viaggio. In definitiva ero venuto solo per conoscere la loro produzione enologica e ora invece mi trovo ad ascoltare queste splendide sorelle, eleganti donne di altri tempi, di una nobiltà piemontese culturalmente aristocratica, dai modi gentili come i vini che producono, le quali mi affascinano con parallelismi storici e contemporanei dei quali in certi casi stento a discernere i contenuti. Scopro così che qui, in questa casa, e forse proprio qui dove sono seduto, si è molto discusso dell’Unità d’Italia e come per incanto mi ritrovo anch’io a passeggio tra i vigneti, a parlare con Cavour e con l’Alfieri, sciorinando nozioni sul supporto che potrebbe venire dai Francesi e sull’astensione dal conflitto degli Inglesi, sulla necessità di sostenere i moti carbonari e dei rapporti da tenere con Mazzini, per poi passare agli aspetti sociali che affliggono il Regno d’Italia, gli ospedali e le scuole da costruire, mentre in lontananza si sentono già gli echi risorgimentali… Lontane cronache di un Piemonte che qui ritrovo in tutto il suo rigore, proprio negli occhi attenti e acuti di queste nobildonne. Io continuo a volare con la mia fantasia e a degustare il vino che nel frattempo mi hanno portato, mentre loro, calme e pacate continuano a raccontarmi del loro coinvolgimento e dei desideri che hanno per quest’antica tenuta di famiglia e dei sacrifici e delle iniziative che hanno approntato per trasferire ai posteri ciò che hanno ereditato. Io, guardandole, vedo davanti a me tre splendide ortensie coltivate da un giardiniere esperto che ha saputo ottenere stupende fioriture, ognuna con un colore e un profumo particolare. Mi raccontano che questa è la casa degli Alfieri, e fra le sue mura sono passati uomini e donne illustri come Giuseppina Cavour, e sua figlia Adele Alfieri, donna di grande personalità, la quale, non potendo contare su sistemi pensionistici o assistenza sanitaria per i suoi contadini, li prendeva in carico dalla nascita fino alla sepoltura e, in molti casi, quando non potevano più lavorare, donava loro della terra. Mi raccontano anche che loro padre, il Marchese Casimiro di San Germano, è stato un appassionato viticoltore, nonché membro dell’Accademia di Agricoltura di Torino. L’esempio paterno, unito al rispetto per chi aveva sempre amato queste vigne, ha fatto sì che Antonella, Emanuela e Giovanna decidessero di continuare a produrre vino, investendo, restaurando e risistemando l’azienda in San Martino Alfieri. Giovanna, delle tre, mi sembra quella più attratta dalla terra e dai vigneti, mentre Emanuela, razionale e precisa, è adatta per la parte commerciale, così come Antonella, grande organizzatrice, è entrata perfettamente nel sistema produttivo-amministrativo. Per ognuna di loro quest’azienda, oltre al significato “collettivo” ne ha anche uno privato, personale. Per Antonella il complesso aziendale con i vigneti intorno al castello è qualcosa da conservare, migliorare e, se possibile, trasmettere alle future generazioni; per Giovanna è soprattutto una sfida, un grosso impegno che l’ha ripagata con molte soddisfazioni, mentre per Emanuela, che è già nonna, ma che quando parla ancora un po’ si infervora, questo posto significa famiglia. Guardo fuori e ormai Cavour e l’Alfieri sono scomparsi, tornati di nuovo nel loro glorioso passato o nascosti da qualche parte, poi un tuono e l’apparire di una grossa perturbazione all’orizzonte fa trasalire le mie interlocutrici: “È la grandine” - mi dicono - “il grande spettro di queste zone”. Il tuono riporta anche me alla realtà, al vino che ho finito di degustare, che si è aperto e mi ha fatto intravedere la passione e l’attenzione che esse mettono in questo prodotto. Me ne vado leggero, mentre è tornato un po’ di sereno, nella consapevolezza di aver osservato un altro spaccato di questo Piemonte che non finisce di stupirmi.
Altri vini I Rossi: Barbera d’Asti DOC La Tota (Barbera 100%) Monferrato Rosso DOC San Germano (Pinot Nero 100%) Piemonte Grignolino DOC Sansoero (Grignolino 100%)
Alfiera Barbera d’Asti Superiore DOC Zona di produzione: il vino è un cru prodotto della vinificazione delle migliori uve Barbera provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto nel comune di San Martino Alfieri le cui viti hanno un’età di oltre 70 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni argillosi mediamente calcarei, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Barbera 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla metà di settembre e si prolunga fino alla prima settimana di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 12 giorni alla temperatura di 28-30°C in recipienti di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale, nei primi 5-6 giorni, vengono praticati délestage e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto immediatamente in barrique di rovere francese a grana fine, per un 70% nuove, in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 15 mesi, durante i quali vengono effettuati almeno 2 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, dopo un breve periodo di decantazione, viene imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 19000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino scuro con riflessi violacei e con profumi freschi, polposi, pieni e dolci di frutti rossi, lamponi e note speziate di menta, tostatura, con un finale di eucalipto e di pepe. In bocca ha un’entratura elegante, calda, con una struttura solida e tannini dolci, equilibrati e una grande sapidità che conferisce al vino una buona persistenza e grande longevità; chiude con note di bacca di cioccolato al peperoncino. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990 - 1991 - 1994 - 1997 - 1999 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Antonella, Giovanna ed Emanuela San Martino d’Aglié di San Germano dal 1988, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 100 Ha, di cui 25 vitati e 75 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Piero Roseo e l’enologo Mario Olivero.
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MARCHESI DI BAROLO
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Ernesto Abbona e Paolo Abbona
Il lavoro nobilita, modifica, crea e trasforma le cose ed è il valore nel quale la nostra famiglia si è sempre riconosciuta; da quattro generazioni, ognuno contribuendo, con le proprie esperienze di vita, con le proprie capacità imprenditoriali, con le proprie idee e i propri progetti, alla nostra storia. Tutti hanno saputo incidere e costruire un senso di appartenenza forte che tutt’oggi ci unisce e ci lega a questa azienda, a questa terra e a questo piccolo paese di Barolo. Un senso di appartenenza forte che si “allarga”: si arricchisce nella memoria con la lungimiranza di personaggi come la Marchesa Giulia Falletti, si valorizza in questo vino di Barolo o in questo palazzo con le sue cantine storiche, si abbellisce negli aspetti sociali che affronta la Fondazione Opera Pia di Barolo dalla quale lo abbiamo acquistato, si intreccia con il marchio di famiglia del Cavaliere Felice Abbona & Figli e si accresce con l’arguzia, l’ingegno e la tenacia di Pietro Emilio Abbona e con le successive generazioni capaci di superare questa localizzazione per confrontarsi con il mondo. Un mix che si è venuto a costituire nel tempo, ognuno cosciente di essere un semplice “mattone” di quella costruzione che oggi rappresenta la nostra azienda, certi di appartenere ad una continuità che ci vede, come famiglia, attori della storia di questo territorio che orgogliosamente difendiamo e valorizziamo. È importante e rassicurante avere una tradizione sulla quale contare, che ci dà serenità e ci scalda come una coperta, soprattutto in tempi come questi in cui tutto
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cambia troppo velocemente e dove spesso, oltre a mancare dei punti di riferimento, il senso del “bello” o del “buono” seguono una moda che crea nuovi desideri, disconoscendo il gusto storicizzato a cui noi facciamo riferimento. Non è facile spiegare il vero significato che attribuiamo al fatto di poter frugare nella storia di questa famiglia, arricchendoci della sua tradizione. In quelle memorie troviamo spesso le risposte a tanti problemi e a gran parte di ciò che ci sembra insormontabile, accorgendoci di quanto siano relativi i nostri problemi rispetto a ciò che hanno superato tutti coloro che ci hanno preceduto. Certe volte ci lamentiamo dei sacrifici e degli enormi impegni ai quali siamo costretti ad adempiere giornalmente per stare al passo con i tempi, ma è niente se paragonato al senso del dovere di chi, nella nostra famiglia, ha rinunciato anche al matrimonio e alla propria vita privata pur di onorare gli impegni economici sottoscritti per acquistare questa azienda. Come non è descrivibile il piacere che proviamo nel leggere la corrispondenza che le due sorelle del nonno Ernesto e di Pietro Emilio, zia Celestina e zia Marina, tenevano nei periodi di guerra con i clienti importanti dell’epoca: ambasciatori e famiglie agiate che si complimentavano per i vini o buoni d’ordine dalle ambasciate di Helsinki, Washington, Baghdad, dal Vaticano o da casate particolarmente abbienti. Se non avessimo avuto la certezza di appartenere a questa storia, sicuramente avremmo trovato più difficoltà a superare gli anni ’70: allora il mondo del vino era quasi una giungla e la DOC per il Barolo era stata appena posta in essere nella speranza di raggiungere l’ambito obiettivo di una qualità generalizzata. Purtroppo, questa tutela si rivelò molto approssimativa: ciò spinse i Produttori alla richiesta di una maggiore protezione legislativa, ottenuta solamente con l’attribuzione della DOCG il 1° luglio 1980. Quegli anni difficili contribuirono molto ad indicarci ciò che avremmo dovuto fare per creare un netto distinguo fra noi e chi faceva un lavoro mediocre. Un grande aiuto venne da personaggi colti ed appassionati come Renato Ratti, Gino Veronelli, Carlin Petrini e da sempre più numerosi ottimi colleghi vitivinicoltori. Pur vivendo quotidianamente in un ambiente tradizionale e ricco di storia, abbiamo compreso che lo stesso concetto di “appartenenza” che c’era stato insegnato, non doveva essere riferito solo al ceppo familiare, ma doveva essere anche allargato al territorio circostante e a tutto quello che lo stesso poteva rappresentare come valore aggiunto per il nostro vino. È per questo che abbiamo cercato di conservare le memorie, sia orali che materiali, promuovendo in questi anni un’opera di restauro di tutti quei documenti, quegli oggetti e strumenti di un passato recente e remoto che ci appartenevano. Un esempio di questo nostro impegno è rappresentato dalle cinque enormi botti di rovere da 125 ettolitri: le “botti della Marchesa”. Risalenti alla metà dell’Ottocento, ma accuratamente restaurate per ridare loro tutta la freschezza e la capacità di scambio osmotico originarie, sono ancor oggi funzionanti nella nostra cantina. Come sentinelle attente del tempo sono lì, con la loro grande mole, a troneggiare nelle Cantine Storiche per ricordarci, in ogni momento, l’inizio di questa nostra avventura così ricca di successi e di soddisfazioni.
Altri vini I Bianchi: Gavi di Gavi DOCG (Cortese 100%) I Rossi: Barolo DOCG Sarmassa (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Estate Vineyard (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Coste di Rose (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Paiagal (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC Boschetti (Dolcetto 100%)
Cannubi Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto nel comune di Barolo, le cui viti hanno un’età compresa tra i 18 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni argilloso-calcarei con venature sabbiose, è posizionato ad un’altitudine di 300 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: cordone speronato con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per circa 10 giorni alla temperatura di 2830°C in recipienti di acciaio termocondizionati, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, si procede alla svinatura e il vino viene posto in tini di cemento nei quali svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 2 mesi, al termine dei quali il 70% è trasferito in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo e secondo passaggio, dove rimane per 12 mesi, mentre il restante 30% viene posto, per lo stesso periodo, in botti di rovere di Slavonia da 30 Hl. Al termine di questa prima fase viene effettuato l’assemblaggio delle varie partite e il vino è di nuovo trasferito nelle botti di rovere da 30 Hl dove rimane a maturare per altri 12 mesi, al termine dei quali, dopo un nuovo assemblaggio e senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura almeno 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 40000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati; all’esame olfattivo offre profumi dolci di tostatura e note più complesse che spaziano dalla marasca alla cannella, dalla liquirizia a frutti rossi come i lamponi, a sensazioni floreali di fiori di acacia e rose rosse. In bocca ha un’entratura importante, morbida, con tannini vellutati, con un finale lungo nel quale riaffiorano le percezioni fruttate avute al naso. Prima annata: 1961 Le migliori annate: 1971 - 1982 - 1997 - 1999 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla collina dove è posizionato il vigneto, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà delle famiglie Abbona e Scarzello dal 1929, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 40 Ha, di cui 37 vitati e 3 occupati da noccioleti. Collaborano in azienda l’agronomo Giancarlo Alessandria e gli enologi Roberto Vezza e Flavio Finocchio.
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MARCHESI DI GRÉSY TENUTE CISA ASINARI
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Alberto Cisa Asinari di Grésy
Mi ritengo molto fortunato perché la vita mi ha dato, quasi per gioco, l’opportunità di vivere un’esperienza “agricola” non comune. Sono uno a cui va bene praticamente quasi tutto, che sta bene con ogni persona, a prescindere dall’estrazione sociale alla quale appartiene e dalla cultura che possiede e questo non è dovuto al fatto che io sia stato folgorato da un’improvvisa bontà francescana o costretto, in conseguenza del forte interesse che nutro per questo lavoro, a relazionarmi, volente o nolente, con un variegato e complesso mondo rurale e imprenditoriale. No! Questo mio aspetto caratteriale, che si è sviluppato con il tempo, ha avuto bisogno di un processo lento, che forse è iniziato fin nella mia giovanissima età, subito dopo la morte di mio padre, che mi ha lasciato quando io avevo appena quattro anni. Sono cresciuto fra questa campagna e la città, fra la “Milano da bere” e la semplicità di questa terra di Langa, fra gli anni “Bocconiani” dell’università e le serate passate ad ascoltare i racconti di quella tradizione orale contadina che i vecchi mi narravano quando trascorrevo, qui in campagna, la fine dell’estate dopo il mare, prima di tornare a scuola a Milano, giocando con i miei fratelli più grandi, ma soprattutto con Giorgio Zoppi, dalla mattina alle tarde ore pomeridiane, rimproverato per questo da mia madre che, troppo apprensiva, era costretta a venirmi a cercare fuori dal giardino di Villa Giulia sulla sommità della collina di Monte Aribaldo. Bastava che passasse il trattore e io scappavo dal giardino e andavo a cercare il mondo
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fantastico di vigne, stalle, vacche che era tutto intorno, ma soprattutto la simpatica famiglia Zoppi, agricoltori da generazioni delle nostre Tenute. Renato, il padre di Giorgio, è un uomo eccezionale che lavora ancora oggi con noi. Suo fratello Ercole, zio di Giorgio, era il vero artista, con una grande nobiltà d’animo, sia nei gesti che nel modo di fare, soprattutto prodigo di consigli che non ha mai lesinato nei miei confronti. Ercole è stato uno di quegli uomini che ha contribuito a far crescere la mia passione per la campagna e quando è stato il momento, mi ha reso meno gravoso il mio noviziato in questa azienda; mi è servito da stimolo, mi ha insegnato a guidare il trattore, a pascolare le vacche, a impartire ordini ai buoi quando si aravano le vigne. Ricordo ancora il profumo delle sue sigarette di trinciato forte che si preparava con santa pazienza tutte le volte che ne aveva voglia; diceva che un fumatore in gamba era in grado di rollarsi una sigaretta camminando di notte al buio con una mano sola… Del resto non lo vedevi mai affaticato: in questo suo habitat si muoveva con signorilità, in un modo così naturale che sembrava che intorno a lui ogni cosa andasse al suo posto in modo perfetto. In ogni caso non è stata l’unica persona che mi ha accompagnato in questo mio avvicinamento al mondo del vino; ce ne sono state altre, grandi personaggi come Giovanni Fallabrino, fattore delle aziende agricole di proprietà della nonna Giulia Pellizzari di Cassine, nel Monferrato alessandrino, che mi ha fatto innamorare non tanto della vigna, ma della campagna, dei profumi e di quelle percezioni che si possono comprendere solo se si sperimentano sulla propria pelle e non sono neanche facilmente raccontabili, oppure Adriano Romanò, il nostro primo rappresentante a Milano o Nino Audisio, il responsabile area per il Piemonte, una vera roccia. Ma senz’altro le persone che mi sono state più vicine in questo mio lento, ma radicale inserimento nel mondo del vino, sono state mia madre che, rimasta vedova con 4 figli, mi ha tirato su con dei buoni principi, e mia moglie Giovanna, che mi coadiuva nelle scelte e pazientemente mi comprende se arrivo tardi alla sera e sto via tanto tempo per lavoro. Da quegli inizi sono passati anni e anche se la passione non è venuta meno e non sono riuscito a fare i soldi con il vino, sono contento lo stesso di ciò che ho, ma soprattutto sono felice della qualità della vita che riesco ad avere. Non so se sarei stato capace di rinchiudermi in uno studio e stare tutta la vita a contabilizzare i redditi degli altri come fa invece Giovanna nel suo ufficio di commercialista. Credo che se ciò fosse accaduto e se non avessi avuto l’opportunità di ereditare questa azienda, sicuramente ne avrei comprata un’altra, perché è troppo divertente ciò che faccio. Da quando poi ho superato la cinquantina, mi rendo conto di appassionarmi ogni giorno di più a questo mestiere di vigneron e di questo se ne accorgono anche i miei collaboratori che si stringono a me e mi vogliono più bene. Del resto io li lascio liberi di decidere e li responsabilizzo sui compiti che ognuno di loro ha dentro questa piccola azienda e ripeto sempre: “Potete fare gli errori che volete, ma sappiate che gli errori si dividono in due grandi categorie, quelli costosi per l’azienda, che è vietato fare e quelli che non hanno costi per l’azienda e lì avete la libertà di scegliere e di sfogare la vostra fantasia”. Non amo essere troppo educativo o coercitivo: amo la tranquillità e la mia pigrizia, vivo e lascio vivere, cercando, per quanto mi è possibile di trasferire questo terroir nei miei vini e se ne faccio troppi è solo per un eccesso di passione, considerando quel versante o l’altro della collina il più idoneo o il migliore. Spesso, tornando dai miei frequenti viaggi, al mattino amo guardare Martinenga, la collina di fronte a casa; proprio lì sotto, con il suo grande vigneto che si sviluppa come un anfiteatro, ogni volta rimango estasiato dalla complessità delle cromìe che la natura sa offrire ad ogni stagione e scopro sempre più che, in definitiva, io non posso più fare a meno di queste Langhe.
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC Villa Giulia (Chardonnay 60%, Sauvignon Blanc 40%) Langhe Chardonnay DOC (Chardonnay 100%) I Rossi: Barbera d’Asti DOC Monte Colombo (Barbera 100%) Barbaresco DOCG Martinenga (Nebbiolo 100%) Barbaresco DOCG Gaiun (Nebbiolo 100%) Langhe Rosso DOC Virtus (Barbera 60%, Cabernet Sauvignon 40%)
Camp Gros Barbaresco DOCG Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto all’interno del cru denominato Martinenga nel comune di Barbaresco, le cui viti hanno un’età che varia fra i 25 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei e tufacei con marne azzurre, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 280 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 3200-4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 7 giorni alla temperatura di 28-30°C in tini di acciaio inox termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 7-8 giorni, periodo durante il quale vengono effettuati meccanicamente follature e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino rimane in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica al termine della quale viene travasato in barrique di rovere francese a grana fine di tostatura leggera per un 60% nuove, in cui rimane per circa 6-8 mesi. Terminata questa prima fase e dopo un primo travaso, il vino viene immesso in botti di rovere di Slavonia da 12,5 Hl dove rimane per circa 12 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 10-12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi aranciati e con sensazioni che introducono a un bouquet complesso che si apre con note fruttate di fragoline selvatiche, visciole e ribes, per proseguire con percezioni speziate di noce moscata e liquirizia e chiudere con nuances di rose rosse e garofano. In bocca ha un’entratura pulita, elegante, con tannini ben presenti ma equilibrati che, insieme a una bella sapidità, conferiscono al vino una notevole freschezza oltre ad una bella lunghezza e persistenza. Chiude con le note fruttate percepite al naso. Prima annata: 1978 Le migliori annate: 1982 - 1988 - 1990 - 1996 - 1997 - 1999 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 18 anni. L’azienda: di proprietà dei Marchesi di Grésy dal 1797, l’azienda agricola è oggi gestita da Alberto Cisa Asinari di Grésy e si estende su una superficie complessiva di 50 Ha, di cui 35 vitati e 15 occupati da prati e boschi. Svolge le funzioni di agronomo e di enologo Marco Dotta.
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MARTINETTI FRANCO
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Franco Martinetti
A Piovà Massaia, il paese d’origine dei miei nonni, avevamo un pezzo di vigna che serviva esclusivamente a produrre vino per uso familiare e per il parentado. Da piccolo ero affascinato da quel lavoro minuzioso e sistematico nel quale nonno Mario si prodigava tutti gli anni a settembre. Mi incuriosivano quelle pratiche di cantina molto artigianali: tutto sembrava assomigliare a un rito propiziatorio che partiva con la preparazione degli strumenti per la vendemmia e arrivava al ripristino e alla pulizia di tini, secchi, tubi e quant’altro era stato accantonato e lasciato fermo per troppo tempo. Quella cantina, rimasta silenziosa per un anno intero, si movimentava e per pochi giorni diventava una piazza del mercato, l’ombelico del mondo, il luogo di ritrovo di parenti e amici che accorrevano per dare una mano nella raccolta delle uve, ma l’occasione era buona per ritrovarsi e chiacchierare di tutte le cose che erano successe nell’ultimo anno, consolidando così quei legami che all’occorrenza sarebbero serviti. I vini prodotti erano due, quello più beverino per tutti i giorni, proveniente da una vigna posta su un terreno più sabbioso e quello delle grandi occasioni, ricavato dalla vinificazione delle uve della vigna migliore; il primo tenuto nelle damigiane e imbottigliato all’ultimo momento, l’altro messo in bottiglia, rigorosamente, come da tradizione, con la luna di marzo e conservato per le occasioni, per le feste o per quando fosse venuto a trovarci un ospite speciale. Il nonno era orgoglioso di offrire il suo vino e ricordo che in quelle occasioni guardava la persona negli occhi per capire cosa ne pensasse. Da buon piemontese non chiedeva nulla, ma stava attento
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alle espressioni del volto di quel degustatore; osservava tutto, anche il corrucciare della fronte, l’eventuale sorriso di compiacimento o quei silenzi che non auspicavano niente di buono. Per lui quel volto era come uno specchio fedele e sincero della qualità del suo vino e se si accorgeva che qualcosa non andava, in maniera velata faceva magari delle domande, le più discrete possibili, non per trovare a tutti i costi una risposta, ma tutt’al più per sollecitarla. Con il tempo mi sono appassionato anch’io al mondo del vino e ogni occasione era buona per cercare di capire di più di quell’universo, incominciando con delle letture tecniche sempre più approfondite o viaggiando in lungo e in largo per la Francia. Ero giovanissimo nei primi anni ’60, quando, neanche ventenne, non mi lasciavo sfuggire l’occasione di stappare bottiglie di vino come Chambertin o Château Margaux, prodotte in Borgogna e a Bordeaux, né di sedermi nei più prestigiosi ristoranti francesi come Troisgros o Lucas Carton e stappare una bottiglia di Champagne, magari gustando certe prelibatezze gastronomiche di cui oggi si sono perse le tracce. Viaggi brevi, ma intensi, spinto dal grande desiderio che ho sempre avuto di godere dei piaceri che può offrire la vita. Così, non appena ho potuto, cioè nel 1974, quando il lavoro di pubblicitario ha incominciato a dare i suoi frutti, mi sono messo a fare vino dando libero sfogo a questa grande passione che non ho più abbandonato e che ancora oggi porto avanti per diletto, per gioco, per amore e per appagare la mia curiosità, la mia creatività e il grande desiderio di conoscere. Ma ieri come oggi non ho niente di mio, da sempre faccio vino prendendo in affitto vigne e cantine sparse un po’ su tutto il territorio piemontese, seguendo però dettagliatamente tutta la filiera produttiva, dalla selezione delle uve che devono concorrere alla realizzazione di quel vino, alle scelte delle migliori tecniche di vinificazione, fino alle metodologie di affinamento, tenendo sotto controllo ogni elemento che può interagire sulla qualità. “Faccio di necessità virtù”; del resto io sono nato senza terra e non potevo fare diversamente. Sono come il “Giovanni senza Terra” di storica memoria, un vigneron che non possiede neanche una vigna e pur avendo rincorso questo sogno da sempre, non ha ancora avuto sufficienti risorse economiche per soddisfare questa grande aspirazione. Ma non importa, va bene così, mi diverto lo stesso, anzi, con questo sistema mi diverto ancora di più, avendo l’appagamento della mia passione e la mente concentrata in più cose, tutte entusiasmanti e tutte diverse. Io parto poi dal concetto semplice che, a prescindere da come vadano le cose, il mio bicchiere di vino è sempre mezzo pieno ed è con questa ottica positiva che mi adopero perché le cose accadano, così da raggiungere importanti obiettivi, puntando in alto nel vino, come in tutti gli altri aspetti della vita. Per me l’importante è vivere in modo qualitativo, sia quando stappo una bottiglia, mi siedo a un ristorante, scelgo la stoffa dal sarto per farmi cucire i vestiti e le camicie su misura o scelgo dal calzolaio il pellame per le mie scarpe. Era così quando ero piccolo e ho cercato di far rimanere le cose tali e quali fino ad oggi, quasi fosse un mio personale percorso didattico sulla qualità, nel rispetto della quale sono cresciuto trovando un giusto equilibrio fra le cose che desidero e quelle che ricerco. Ma non faccio questo per appagare il mio bisogno di apparire, come non faccio vino solo per un bisogno economico: faccio invece tutto questo per soddisfare il mio essere. Credo che vi siano dei segnali precisi che appartengono a ognuno di noi, con i quali comunichiamo agli altri ciò che siamo; sensori che passano attraverso il modo di fare e la capacità di rapportarsi con gli altri e di comunicare agli stessi le proprie passioni ricercando il “bello”. È con questa ottica che ho sempre fatto le cose ed è così che ho iniziato a fare il vino, soddisfacendo il mio modo di essere e convincendomi sempre più che la qualità della vita è fatta di tante piccole cose, di piccoli particolari che fanno la differenza e questo vale per le letture, per gli amici e per il vino che produci.
Altri vini I Bianchi: Colli Tortonesi Bianco DOC Martin (Timorasso 100%) Quarantatre Vino Spumante Brut Millesimato (Pinot Nero 55%, Chardonnay 45%)
I Rossi: Colli Tortonesi Rosso DOC Georgette (Croatina 100%) Barbera d’Asti DOC Bric dei Banditi (Barbera 100%) Barbera d’Asti DOC Superiore Montruc (Barbera 100%) Barolo Docg Marasco (Nebbiolo 100%) Colli Tortonesi Rosso DOC Lauren (Freisa 100%)
Minaia Gavi DOCG Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Cortese provenienti dal vigneto Moeia, posto in località Rovereto nel comune di Gavi, le cui viti hanno un’età media di 25 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto si trova in una zona collinare su terreni di marna argillosa con alta presenza di ferro ad un’altitudine di circa 300 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Cortese 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: oltre 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella terza decade di settembre, si procede alla diraspatura delle uve raccolte e alla criomacerazione con le bucce per 36 ore. Dopo una pressatura soffice con pressa orizzontale e una pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 18-20°C, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per oltre 15 giorni in barrique di rovere francese in cui rimane per 12 mesi durante i quali vengono effettuati bâtonnage al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. A seconda delle annate, la fermentazione malolattica non sempre è fatta svolgere. Di solito, alla fine del mese di settembre successivo alla vendemmia viene effettuato l’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione e una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 8000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi verdi-dorati, mentre all’esame olfattivo offre profumi complessi di albicocca matura e sul finale leggere nuances di buccia di agrumi e percezioni di pistacchio. In bocca ha un’entratura pulita, elegante, importante, con una buona acidità che conferisce al vino bella freschezza; grande lunghezza e notevole persistenza. Prima annata: 1986 Le migliori annate: 1987 - 1989 - 1990 - 1996 - 1997 1998 - 2001 - 2003 Note: il vino, raggiunge la maturità dopo 2-3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: l’azienda che porta il nome Franco M. Martinetti vinifica solo uve provenienti da vigneti presi in affitto con contratti pluriennali o uve acquistate da viticoltori convenzionati, posti sul territorio dei comuni di Vinchio, Nizza Monferrato, Gavi, Barolo, Serralunga d’Alba, Monleale, Rocca de’Giorgi. Collaborano gli enologi Giuliano Noè, Gianluca Scaglione e Guido Martinetti (figlio di Franco).
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MASSOLINO
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Franco Massolino
Finalmente mi sono preso un pomeriggio libero. Era tanto che non succedeva e non capisco come mai io non mi imponga di far diventare queste saltuarie occasioni una regola fissa. A me piace moltissimo stare all’aria aperta, passare i pomeriggi in mezzo alle vigne, fare delle belle gite in bicicletta, sulla quale, ultimamente, ho anche montato due seggiolini per i miei due figli Giulia e Luca, gli unici che riescono a staccarmi un po’ da questo lavoro. Purtroppo negli ultimi tempi non riesco a stare neanche con loro e spesso mi chiedo come sarebbe bello trascorrere mezza giornata tra i filari con il telefonino spento... Quando succede, il mio pensiero, che corre veloce in mille direzioni, ritrova improvvisamente il piacere di rallentare la sua corsa. Questo mi consente di determinare le priorità, di valutare le ultime cose successe che mi sono passate sotto il naso troppo rapidamente e di rivedere i progetti discussi con mio fratello Roberto, cercando di recuperare una serenità e un equilibrio mentale che sempre più spesso mi fanno diventare l’ago della bilancia nelle piccole discussioni che sorgono all’interno della nostra numerosa famiglia che, fra giovani e vecchi, conta ben otto persone. Quando sono in mezzo alle vigne e ho terminato di “resettare” le mie idee, con un senso d’appagamento mi lascio trasportare dal pensiero che questa terra dove sto camminando è la stessa sulla quale ha camminato per tutta la sua vita mio padre e ancora prima suo padre e questo senso di appartenenza mi rigenera e mi stimola. Mi domando spesso quante volte sia stata rivoltata questa terra che io stesso ho rivoltato, quanto la stessa abbia visto impegnati gli uomini e le donne della mia famiglia,
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ognuno dei quali avrà sicuramente pensato di poter contribuire, con il proprio lavoro, al mantenimento della campagna per le generazioni future. Anno dopo anno, ognuno avrà dato qualcosa; un tempo che sembra infinito, ma che in realtà per questa mia terra non è che un battito di ciglia rispetto alla folata di vento che accompagnerà il mio passaggio. Se queste zolle potessero parlare, sicuramente si ricorderebbero di come le hanno accarezzate le tre generazioni che mi hanno preceduto e mi racconterebbero, sicuramente, le storie, le gioie e le disavventure di quella mia gente. Loro sentono che io appartengo a quella famiglia, sanno che mi occuperò di loro e non potrei spiegare in altro modo la confidenza e la familiarità che sento di avere in questi spazi, fra queste vigne. Era quindi naturale che io facessi questo lavoro con una tale confidenza; non avrei potuto fare altro che il vignaiolo, visto che è su questa terra che sto bene, anche se ultimamente, purtroppo, ho dovuto un po’ abbandonarla trovandomi costretto a seguire più il settore enologico e commerciale che non quello agronomico dell’azienda, a cui provvede mio fratello. Io e Roberto in questi anni abbiamo compiuto sforzi comuni per valorizzare l’azienda che c’è stata affidata, facendo innovazioni importanti in tutti i settori aziendali, potendo contare anche sulla lungimiranza di mio padre e di mio zio, i quali hanno fatto investimenti rilevanti, nei momenti in cui era possibile farli, con l’acquisto di terreni oggi preziosissimi per la qualità della nostra produzione. Abbiamo fatto e stiamo facendo ancora tante cose, arricchendo ogni giorno la nostra esperienza e qualificando le nostre professionalità in questo mestiere, che ti dà tante possibilità di espanderti culturalmente, ma che richiede allo stesso tempo la capacità di fare tante cose e tutte insieme. Dalla gestione di ogni fase operativa della cantina e della vigna alla disamina di tutti gli input innovativi che possono in qualche modo agevolare il lavoro, fino ad arrivare alla conoscenza almeno degli indispensabili elementi di marketing, design e packaging, assumendo nella stessa giornata più ruoli e avendo la capacità di variare continuamente i propri punti di vista. Io, del resto, sono stato abituato ad affrontare le difficoltà e a non mettermele mai dietro le spalle, cercando le soluzioni e le motivazioni che le hanno determinate, un po’ come mio padre, che è sempre stato esigente con se stesso e con gli altri e per il quale nessuna cosa era mai sufficientemente ben fatta o a posto. Penso di aver preso molto da lui e sento che mi appartengono la sua determinazione e la sua cocciutaggine; ciò che invece ci differenzia un po’ sono il suo pessimismo e la sua riluttanza a una maggiore apertura verso il prossimo. Lo comprendo e non posso dargli torto, visto che la vita gli ha riservato alcune situazioni poco simpatiche che lo hanno indotto a mettersi sulla difensiva. Io, invece, sono convinto che la vita debba essere portata avanti con entusiasmo e con ottimismo e questo mio tempo voglio viverlo aprendomi al mondo, rimanendo fedele alla filosofia dei nostri vini. Punti di vista che ci accomunano e ci dividono, ma si sa che uomini e aziende appartengono al proprio tempo e credo che sia giusto, adesso, guardare propositivamente a questo inizio di secolo, senza lasciarsi condizionare dalle brutte esperienze del passato. “Ogni cosa a suo tempo ed ogni tempo ha la sua cosa” diceva mia nonna e aveva ragione ed è per questo che ogni tanto mi fermo e freno il mio entusiasmo, in modo da comprendere quale sia il tempo giusto per dare una sterzata e modificare le direttrici che hanno guidato per anni quest’azienda e improntarne di nuove per il futuro. Proprio in questo momento stiamo vivendo una fase di riflessione, poiché ci siamo resi conto che, anche se non sono aumentate le dimensioni aziendali, né a livello di estensione, né a livello produttivo, per crescere imprenditorialmente è necessario fare un nuovo salto qualitativo, razionalizzare economicamente la produzione, trovando una migliore distribuzione delle competenze interne e dei collaboratori in possesso di capacità specifiche che ci possano dare una mano. Pensieri che si accavallano ad altri pensieri; tutti però scorrono lisci e vanno al loro posto a completare quel mosaico che ho ben disegnato in testa, e ancora una volta devo ammettere che mi è servito, come immaginavo, passeggiare sulla mia terra.
Altri vini I Bianchi: Langhe Chardonnay DOC (Chardonnay 100%) I Rossi: Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC Gisep (Barbera 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Margheria (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Vigna Rionda Riserva (Nebbiolo 100%)
Parafada Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalle vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda posto nel comune di Serralunga d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 45 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi con una forte presenza di macchie sabbiose, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 320 e i 350 s.l.m. con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot basso Densità di impianto: 6000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 10 al 25 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è immesso dentro a roto-maceratori di acciaio dove si procede a innalzare la temperatura nel più breve tempo possibile portandola fino a 38°C per 12-24 ore. Terminata questa fase la temperatura è fatta scendere e mantenuta intorno a 30°C, in modo da dare l’avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 6 giorni, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati due rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto immediatamente in barrique di rovere a grana fine di media tostatura, per un 30% di primo passaggio e il restante 70% di secondo e terzo passaggio; qui svolge la fermentazione malolattica e rimane per circa 24 mesi, durante i quali vengono effettuati almeno tre travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo un periodo di 6 mesi, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso granato intenso e con delle profumazioni complesse che spaziano dai sentori fruttati a quelli speziati, dall’amarena al cioccolato, dalla liquirizia alla caramella mou fino alla nocciola tostata e al torroncino. In bocca ha un’entratura potente, massiccio nel corpo, ha una bella sapidità con tannini presenti, ma eleganti, non aggressivi e con note minerali piacevolissime che gli conferiscono freschezza e lunghezza. Il vino chiude con un retrogusto di liquirizia dolce. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990 - 1996 - 1998 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Massolino dal 1896, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 17 Ha, tutti vitati. Le funzioni di agronomo sono svolte da Roberto Massolino, quelle di enologo da Franco Massolino.
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MOCCAGATTA
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Sergio e Francesco Minuto
Mi ricordo ancora che quell’anno venne una grandinata così intensa e forte che distrusse qualsiasi coltura e non rimase niente da raccogliere: il granturco e il grano furono trebbiati in una sola ora e gli stessi alberi da frutto e le viti non solo persero i frutti, ma sembrarono segnati in modo irreparabile. Io avevo poco meno di otto anni e rammento appena che un silenzio assoluto avvolse tutta la campagna dopo quel nefasto passaggio che la segnò profondamente per moltissimo tempo. Chi invece l’ha vissuto già da adulto lo ricorda meglio quel 21 luglio del 1955 e, ancora oggi, rammenta che furono in molti a rimanere attoniti e sconsolati sulla soglia delle loro case a guardare quello scempio, passandosi le mani fra i capelli con un gesto più di disperazione che di rassegnazione. Nei giorni successivi, per strada, i ragazzi più grandi di me discutevano accanitamente sul fatto che le loro famiglie volevano lasciare tutto e andarsene a lavorare ad Alba, in città, lontano da questa terra che dava appena il necessario per l’autosostentamento. Io pensavo ad Alba e la immaginavo lontana, anzi lontanissima e mi dava l’idea che per raggiungerla ci volessero giornate di viaggio. Tornando a casa scrutavo lo sguardo di mio padre per comprendere il nostro futuro; del resto non mi ero mai mosso da Barbaresco e se dovevamo trasferirci avrei voluto saperlo. Mio padre Mario, così si chiamava, non era certamente un uomo che si scoraggiava facilmente, la sua generazione aveva vissuto una vita dura e grama che forse aveva contribuito a salvarlo, durante la Seconda Guerra mondiale, dai due anni passati sul fronte russo, durante i quali, raccontava,
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aveva fatto di tutto per portare a casa la pelle. No, non avrebbe mai lasciato quel terreno, sarebbe potuto venire giù anche il fuoco, non solo la grandine: lui di lì non si sarebbe mosso, quella era la sua terra, la cosa più importante che avesse. Ogni tanto mi chiamava e mi impartiva ordini perentori perché anch’io contribuissi a risollevare la situazione, con l’intento soprattutto di farmi comprendere che la vita doveva continuare. Era un contadino vero, attaccato alle sue cose e quindi alle sue vigne, ma non disdegnava i cambiamenti, anzi era sempre il primo a curiosare sulle opportunità che arrivavano dalle innovazioni, che riguardassero la meccanizzazione del lavoro nei campi o la tecnologia in cantina: sempre al passo con i tempi e con grande disponibilità. Seguendolo e standogli a fianco non mi sono mai posto il problema se fare il vignaiolo fosse o non fosse la strada giusta o la migliore che avrei potuto percorrere. Tutto è avvenuto in modo naturale, ogni cosa era quella che era e sembrava messa lì apposta, come se appartenesse da sempre alla mia vita e mi calzava come una comoda scarpa che mi ha accompagnato senza troppi problemi da quei lontani anni Cinquanta fino ad oggi. Del resto, se uno veste fin da piccolo i panni del contadino, perché avrebbe motivo o interesse a cambiarli? Se uno ci sta bene dentro, perché dovrebbe cercare altro? Sicuramente è stato mio padre a trasmettermi tutto questo, come mi deve aver trasmesso quella sua testardaggine, quella sua scrupolosa concretezza, quel senso di libertà che solo la campagna trasmette, quell’assoluta limpidezza nei modi e la trasparenza che si rispecchia, ieri come oggi, anche nei vini che produciamo in azienda. Oggi siamo io e mio fratello Francesco ad andare avanti, sorretti dalla semplice filosofia paterna che ci è stata tramandata e che ci vede pronti a impegnarci, giorno dopo giorno, per migliorare ciò che nel tempo è stato fatto. Devo ammettere che non sempre tutto fila liscio, non sempre quello che faccio mi soddisfa, non sempre quello che ottengo è ciò che avrei voluto, ma non importa, ci provo lo stesso e quando le cose non vanno come avrei desiderato, senza nascondermi critico obiettivamente il mio operato, schietto fino in fondo come faccio anche con gli altri, dicendo sempre “pane al pane e vino al vino”. Se penso ai tempi passati, alla stalla e alla raccolta del fieno, a quelle vendemmie, alle prime bottiglie di Barbaresco vendute, dopo l’istituzione della DOC nel ‘68, mi rendo conto che il tempo è trascorso inesorabilmente al mio fianco senza che quasi io me ne accorgessi. In certe giornate piovose, quando i lavori della terra sono fermi e rimane solo l’attesa, osservando i cambiamenti del cielo mi domando quanto tempo abbia avuto per godere a pieno di tutto ciò che ho fatto. Ho sempre lavorato, scoprendo però che per ogni cosa c’è un tempo: cronologico, fisiologico e atmosferico. Vivo con tutti e tre in armonia, e non ha importanza se mi ritrovo sul viso qualche ruga in più, non ha importanza se vedo crescere velocemente mia figlia, l’importante è vivere il mio tempo serenamente, soprattutto quel tempo “amico” che scorre vicino a me, quando sto in mezzo alla campagna e vivo la mia terra che non ho mai abbandonato e che non lascerei mai, anche se grandinasse come nel ’55.
Altri vini I Bianchi: Langhe DOC Chardonnay (Chardonnay 100%) I Rossi: Barbaresco DOCG Cole (Nebbiolo 100%) Barbaresco DOCG Basarin (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%) Langhe Nebbiolo (Nebbiolo 100%)
Bric Balin Barbaresco DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Moccagatta, nel comune di Barbaresco, le cui viti hanno un’età che varia dai 20 ai 50 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni alla temperatura di 28°C in rotomaceratori termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura invece solo 6 giorni, durante la quale vengono effettuati meccanicamente follature e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto per un 50% in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura, completamente nuove, mentre il restante 50% è lasciato nei tini di acciaio dove svolge la fermentazione malolattica prima che anche questa partita venga inserita all’interno delle barrique di secondo e terzo passaggio. Dopo una maturazione di circa 18 mesi, durante i quali vengono effettuati 3-4 travasi, si effettua l’assemblaggio delle varie partite e il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 10 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 25000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino profondo con riflessi granati, mentre al naso offre sensazioni speziate, che conducono a note più complesse di liquirizia, polvere di caffè, tabacco da pipa, cacao amaro e percezioni fruttate di mora e lamponi. In bocca ha un’entratura elegante, con una ricchezza estrattiva importante, tannini ben presenti e una buona acidità: tutti elementi che conferiscono una notevole freschezza oltre che lunghezza e persistenza. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1989 - 1990 - 1996 - 1997 - 1999 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Minuto dal 1884, oggi l’azienda agricola è condotta dai fratelli Sergio e Francesco e si estende su una superficie complessiva di 15 Ha, di cui 12 vitati e 3 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolgono la funzione di agronomo e di enologo gli stessi Sergio e Francesco Minuto.
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Mauro Molino
La mia è una semplice “canzone da due soldi”, come ce ne sono tante, composta da note che sanno solo di lavoro e di fatica. Non c’erano molte possibilità economiche nelle case dei contadini delle Langhe nei primi anni ’70, ma questo non credo di essere il solo a raccontarlo; eravamo tutti nelle stesse condizioni, forse c’era qualcuno che stava meglio, qualcuno peggio; di certo chi rimaneva in campagna era un eroe o uno senza possibilità di altre scelte, uno che sapeva fare solo il contadino e che piano piano aveva trasformato la sua disperazione in rassegnazione. Credo che quello che sosteneva tutto era l’orgoglio di voler mantenere, a qualsiasi costo, quel pezzo di terra che, attraverso le generazioni passate, era arrivato chissà da dove, visto che i soldi per comprarla non ci sarebbero mai stati, soprattutto a causa del fatto che, insieme con la proprietà, era abitudine ereditare anche la miseria. Era una dura lotta, paragonabile a una guerra di trincea, dove ognuno era arroccato sulle sue posizioni a difendere una zolla di terra che valeva una vita. Tutto era in funzione della sopravvivenza e utile per il sostentamento della famiglia: un po’ di vigna, l’orto, un po’ di frutteto e la stalla con qualche capo di bestiame. I pochi soldi che entravano nelle tasche erano guadagnati dal piccolo commercio delle uve e di qualche capo di bestiame e servivano per far studiare i figli nella speranza di allontanarli da quella vita grama. Mio padre Giuseppe era uno di quei genitori che, sicuramente, l’aveva pensata così e non fece niente per trattenermi quando io, constatato che questa terra non dava
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utili sufficienti per tutti, decisi di andare a lavorare lontano da qui. Per un giovane enologo come me non c’erano molti spazi professionali da ricoprire in questa zona, perciò, dopo il servizio militare mi trasferii a Modena a lavorare alla CIV, dove rimasi fino a qualche tempo dopo la morte di mio padre che avvenne nel 1978. Furono otto anni che mi arricchirono molto e che mi dettero maggiori sicurezze nel momento in cui decisi di lasciare quel lavoro sicuro e ritornare a casa. Erano ancora anni difficili per l’agricoltura, ma non erano certo le difficoltà, alle quali io del resto ero abituato, a preoccuparmi; ciò che mi creava qualche apprensione era, invece, l’impatto che avrebbe potuto avere mia moglie con questa terra. Per questa azienda avevo in mente un progetto ben definito, ma mi occorrevano soldi per realizzarlo. Stando lontano avevo compreso che qui tutto doveva essere trasformato e adattato per raggiungere quella qualità che il mercato iniziava a richiedere. Così dal 1980 fino al 1992 lavorai come libero professionista nei consorzi agrari della zona, fornendo consulenza agronomica a chi ne avesse avuto bisogno, mentre nel frattempo avevo ristrutturato l’abitazione, trasformato la stalla in cantina e un po’ alla meno peggio ottimizzato la produzione delle vigne, così da poter incominciare a imbottigliare il mio primo Barolo, quello della vigna della Conca. Ero orgoglioso di quel primo passo che mi consentiva di verificare le mie idee e le reali potenzialità delle mie vigne. L’altro lavoro, quello di consulente, mi permetteva di vivere e quel poco che guadagnavo dalla vendita del vino lo reinvestivo tutto nell’azienda. Molto tempo dopo sono arrivati gli anni fortunati, gli anni in cui il Barolo si vendeva facilmente. Arrivarono e sembrò quasi che tutto l’excursus che mi aveva portato a quel periodo felice fosse stato cancellato con un colpo di spugna: dimenticati i momenti duri e difficili e le ansie che accompagnano sempre i momenti di grande incertezza. Io però ho sempre avuto poche titubanze ed essendo più un podista che un centometrista, sapevo che con il lavoro e con una buona dose di serenità i risultati alla fine sarebbero arrivati. Pensai che sarei stato fortunato se avessi potuto godere, negli anni che mi rimanevano da vivere, di qualche piccola gratificazione e se ciò non fosse stato possibile, pazienza: sicuramente avrebbero goduto i miei figli di quanto io stavo facendo. Avevo programmato che per avere qualche risultato economico concreto sarebbe stato necessario attendere almeno un’intera generazione, invece tutto si è mosso improvvisamente e in modo così rapido da farmi quasi trasalire fino al punto di non credere a ciò che vedevo. I tempi sono cambiati in meglio e molto prima di quanto avevo previsto sono arrivati traguardi che non pensavo neanche di raggiungere. Ma io non sono cambiato per niente. Come puoi capire, non sono uno che si mette a correre o che, colpito da un improvviso fervore, vuole bruciare le tappe. Io vado avanti per la mia strada cercando di fare i passi giusti al momento giusto, stando attento a non perdere il treno sul quale sono riuscito a salire e che mi sta dando tante soddisfazioni. Ho fatto bene a non produrre né frutta, né mais, né verdura. Ho fatto benissimo a investire tutto me stesso nella viticoltura: mi ha dato tanto, mi ha fatto crescere nella conoscenza delle mie viti, come enologo mi ha consentito di produrre vini che durano nel tempo e le etichette hanno portato e portano il mio nome in giro per il mondo. Per me, che sono semplice e fondamentalmente timido, il vino ha rappresentato anche una valvola di sfogo per esprimere i miei sentimenti, le mie sensazioni, le mie fatiche. So che si sta parlando di vino e le cose che può rappresentare non sono grandissime o eccezionali, ma sicuramente a me danno un’enorme soddisfazione, sono quelle cose che ti fanno andare avanti e constatare con mano ciò che hai fatto. Sicuramente se tornassi indietro rifarei di nuovo lo stesso percorso di vita che ho fatto fino ad oggi. Non ho assolutamente rimpianti e sono molto gratificato dal fatto che Matteo e Martina, i miei due figli, con la loro esuberanza, la loro voglia di fare, la loro giovinezza, la loro immediatezza e spontaneità siano qui accanto a me a lavorare in azienda e, visto che i figli sono migliori dei padri, chissà dove potranno arrivare.
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Vigna Gancia (Nebbiolo 100 %) Barolo DOCG (Nebbiolo 100%) L’Insieme Vino da Tavola (Nebbiolo 40%, Barbera 20%, Cabernet Sauvignon 20%, Merlot 20%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Vigna Gattere (Barbera 100%)
Vigna Conca Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo, posto in località Annunziata, nel comune di La Morra, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni argilloso-calcarei è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con esposizione ad anfiteatro da sud-est a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 15 al 25 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 20 giorni alla temperatura di 30°C in recipienti di acciaio, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura soltanto 7 giorni con l’ausilio di frequenti rimontaggi. Terminata questa fase, si effettua la svinatura e dopo una decantazione di circa 20 giorni, il vino viene travasato e posto in barrique di rovere francese di Allier e Tronçais, per un metà di primo passaggio e per metà di secondo passaggio, dove rimane per 23 mesi durante i quali svolge la fermentazione malolattica e almeno 4 travasi. Al termine della maturazione si svolge l’assemblaggio delle partite e dopo qualche mese, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 8 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 2500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso granato carico con riflessi aranciati, mentre al naso ricorda immediatamente note dense di frutti rossi, viola e note speziate di amarene appena cotte, lamponi e ribes con profumi complessi di terra e liquirizia. In bocca ha un’entratura morbida, elegante, risultando piacevole ed equilibrato; lungo e persistente, chiude con le stesse note percepite al naso lasciando una bocca asciutta. Prima annata: 1982 Le migliori annate: 1989 - 1990 - 1996 - 1997 - 1999 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Mauro Molino dal 1950, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 8 Ha, tutti vitati. Svolge le funzioni di agronomo ed enologo lo stesso Mauro Molino coadiuvato dal figlio Matteo e dalla figlia Martina.
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Bruno Nada
Era strano come tutto fosse cambiato eppure uguale. Nemmeno una vite era rimasta delle vecchie, nemmeno una bestia; adesso i prati erano stoppie e le stoppie filari, la gente era passata, cresciuta, morta; le radici franate, travolte in Belbo – eppure a guardarsi intorno, il grosso fianco di Gaminella, le stradette lontane sulle colline del Salto, le aie, i pozzi, le voci, le zappe, tutto era sempre uguale, tutto aveva quell’odore, quel gusto, quel colore d’allora. (Cesare Pavese, La luna e i falò, Einaudi, 1950)
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Ho un calendario che sfoglio tutti i giorni rendendomi conto di quanto il tempo passi velocemente trascinando tutto via con sé, senza che io possa fare niente per trattenerlo. Anche questi ultimi anni sono trascorsi come un soffio, volati via; tutta quella miriade di cose che ho fatto e tutto ciò che le stesse hanno significato è andato ad arricchire le memorie del mio passato. Tempi lontani e vicini che racchiudono tutto: la mia gioventù e la scuola, mia moglie Dina e i miei figli Monica e Danilo, i miei genitori Maria e Fiorenzo, i miei anni di insegnamento, la mia esperienza di viticoltore, le mie paure e le mie piccole gratificazioni, gli amici, tutte le mie vendemmie, dalla prima a quella appena conclusa, la mia gente, i tanti ricordi, le storie che mio padre mi raccontava alla sera sulla nostra famiglia tra cui quella di nonno Carlo che, indebitandosi per comprare questa cascina, da contadino diventò uno stimato possidente. Quando parlava, rammento che cercavo di immaginare come fosse stata
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la gioventù di quei sette figli che aveva avuto quel burbero e ostico nonno o cosa potesse essere successo, quando lui era ormai vecchio e stanco, per invogliare Fiorenzo e i suoi tre fratelli maschi a chiudere la bellissima cantina che avevano aperto con il padre, dividersi le terre e andare ognuno per la sua strada. In testa un bailamme di ricordi che si confondono con i progetti futuri; il passato remoto che s’intreccia con il futuro prossimo, mentre il tempo continua a cancellare, inesorabilmente, i giorni da quel mio calendario, dove vi sono date cerchiate in rosso su alcuni fogli, come su tanti altri di tutti i calendari che ho staccato dal muro e riposto via; date importanti, da ricordare, che hanno qualcosa da raccontarmi. Giorni che segnano il ticchettìo di un tempo che solo oggi è mio amico; quel tempo che mi vedeva costantemente impegnato nella scuola, al termine della quale, al fianco di mio padre, mi ingegnavo per apportare sostanziali cambiamenti a questa nostra azienda familiare che, a mala pena, provvedeva alla propria sopravvivenza. In quel periodo facevo ancora l’insegnante negli istituti tecnici della zona e lo stipendio che guadagnavo mi garantiva sia una certa serenità, sia la possibilità di dedicarmi senza troppi affanni economici a questa terra. Ma pur confrontandomi con Fiorenzo, non riuscivo a migliorare la situazione; molti nostri tentativi erano inefficaci e i risultati stentavano ad arrivare. Ricordo addirittura che quando siamo partiti avevamo ancora in mezzo ai filari le classiche tre file di grano. Le idee erano piuttosto confuse su ciò che volevamo realizzare: avevo una scarsa preparazione enologica, non ero certo di essere in grado di tradurre in pratica i consigli che mi giungevano da alcuni amici, né di capire il reale significato di quell’innalzamento qualitativo della produzione di cui sentivo parlare continuamente. Era necessario che mi aggiornassi, che studiassi, che assaggiassi altri vini oltre a quelli della mia zona, e che mi documentassi su ogni più piccolo dettaglio, perché tutto poteva essermi utile, convinto, come Goethe, che “Dio è nei particolari”. Erano anni di grande fermento comunicativo nel mondo del vino, con un fiorire di guide: l’esplosione dello Slow Food, le degustazioni e una continua innovazione tecnologica, soprattutto a livello di marketing. È così che nacque il tempo dell’entusiasmo, della voglia di fare, di sperimentarsi e con quel tempo arrivarono le barriques, gli ettari vitati dell’azienda da 4 passarono a 7, mentre i vigneti subirono una forte ristrutturazione; prese vita una nuova cantina e con essa una piccola azienda in grado di produrre vini di grande qualità, preparata per le nuove sfide che si sarebbero potute presentare. Anche se non posso in alcun modo fermare lo scorrere dei giorni su quel calendario, ho cercato di farmi amico il tempo, provando ad avere con lui un compromesso, al fine di tracciare un solco che abbia un sèguito, per dimostrare ai miei figli che con il mio lavoro, i miei sforzi e l’attenzione nel produrre un numero limitato di bottiglie di qualità, si può resistere al tempo e al mercato. Certo, per sopravvivere c’è bisogno di lungimiranza, di capire e seguire i cambiamenti in atto ed io... voglio sopravvivere! Ma perché ciò avvenga sono sempre più convinto che per sfidare il tempo una mia bottiglia di vino deve contenere la perfezione, deve essere un omaggio alla vigna, alla terra, al cielo, uno spaccato di questo pezzo di terra, piccolino, ma unico e inimitabile. Altri vini I Rossi: Barbaresco DOCG (Nebbiolo 100%) Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%) Langhe Rosso DOC Seifile (Barbera 80%, Nebbiolo 20%)
Rombone Barbaresco DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Rombone, nel comune di Treiso, le cui viti hanno un’età di 40 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 230 e i 280 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10-12 giorni alla temperatura massima di 32°C in recipienti di acciaio inox termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuate 2 follature e 3 o 4 rimontaggi giornalieri. Finita la vinificazione, il vino viene posto in barrique di rovere francese di media tostatura a grana fine, nuove dal 70 al 100% (la percentuale varia in base all’annata), in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 15-16 mesi durante i quali vengono effettuati 2 travasi. Al termine della maturazione avviene l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 14 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 4000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi aranciati e con sensazioni olfattive fresche di liquirizia, caffè, cacao e stecca di vaniglia, oltre a zenzero, anice stellato e floreali di rosa e mammola. In bocca ha un’entratura pulita, sobria, elegante, con tannini ben presenti che insieme a una bella sapidità conferiscono al vino lunghezza e persistenza. Chiude con note di rabarbaro e bacche di cacao. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997 - 1999 - 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Nada dal 1921 e di Bruno Nada dal 1998, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 13 Ha, di cui 7 vitati e 6 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Giampiero Romana e l’enologo Beppe Caviola.
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Mariacristina Oddero
Dopo il liceo mi sono dedicata agli studi universitari frequentando la facoltà di Agraria a Torino, specializzandomi in viticoltura ed enologia, nella speranza, percorso questo iter scolastico, di avere l’opportunità di iniziare subito a lavorare nell’azienda di famiglia o di fare, pensando di avere intorno a me persone illuminate, esperienze in altre realtà produttive, italiane o estere, dove imparare, fra le altre cose, una o più lingue. In realtà tutto ciò non è stato possibile.Tante piccole cose hanno fatto sì che ciò non accadesse; piccoli e insanabili contrasti familiari che non mi hanno consentito né di fermarmi fra queste vigne dove ero cresciuta, né di ampliare i miei orizzonti professionali, per colpa di uno zio, restìo a concedere lo spazio che si era conquistato. È facile comprendere come per me quei momenti furono duri, difficili e molto particolari. Quella mancanza di fiducia creò in me insicurezze, paure e difficoltà che trovai ardue da superare. Ancora oggi mi rimane difficile dare delle giustificazioni a quella loro totale chiusura nei miei confronti, anche perché so di non essere mai stata una “Annetta” che volesse indossare ad ogni costo i pantaloni, né ho mai considerato dovuto il mio ingresso in azienda come se fosse un diritto acquisito per nascita; so solo che se mi avessero concesso un’opportunità, sarei stata disposta a fare il mio bel tirocinio e, nel tempo, dimostrare il mio valore. Invece, non avendo l’appoggio e l’aiuto di nessuno e avendo le porte chiuse, per sbarcare il lunario iniziai a insegnare materie scientifiche quali Chimica, Biologia e Scienza della Terra negli Istituti
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Superiori di Alba. Un’esperienza lunga che non rinnego e che ritengo mi sia servita per fortificarmi e acquisire delle sicurezze personali, alla quale però mi rendo conto oggi di aver concesso troppo tempo rispetto a quello che invece avrei voluto dedicare alla mia primaria passione e al grande desiderio che ho sempre avuto di cimentarmi in cantina. Spesso mi fermavo a pensare ai motivi che avevano innescato quei disguidi, non trovando però risposte plausibili e ogni volta che mi addentravo in questi ragionamenti la memoria mi riportava, purtroppo, alla mente non quella Mariacristina matura e consapevole della durezza della vita, ma quella giovanile, quella dei tempi della scuola che non aveva paura, libera, spensierata e capace di guardare in faccia il mondo, quella che forse avrebbe dovuto, una volta finito di studiare, sposarsi e andarsene. Succedeva però che a scuola mi annoiavo tremendamente, non ne potevo più e mi stressavo con quel lavoro ripetitivo. Fu così che un giorno mi guardai dentro cercando di capire cosa volessi veramente dalla vita, scoprendo che il mio più grande desiderio era quello di fare il mio “grande vino”. Decisi che era giunto il momento di affrontare la situazione con decisione, altrimenti con il passare del tempo non sarei più riuscita a distaccarmi da quella routine che mi stava conducendo all’oblìo. Con il passare degli anni sarebbe stato molto più duro cambiare lavoro, anche se il cambiarlo avrebbe voluto dire dare vigore e nuovi stimoli alla vita. C’è voluto un po’ di tempo prima che io potessi riappropriarmi di quell’habitat che sentivo fortemente mio, lavorando prima part-time con la scuola e poi, dal 1997, dedicandomi a tempo pieno alla cantina. Tornando scoprii che per me le difficoltà non erano scomparse, anzi, in azienda continuavo ad avere delle resistenze, ma ormai mi ero fortificata trovando dentro di me risorse che non conoscevo, quelle che attingevano alle radici profonde del mio carattere piemontese, duro e risoluto, e più mi osteggiavano e più spuntavano nuove forze utili per resistere. Con tenacia e risolutezza insospettate sono riuscita negli anni a crescere e a costruire una mia personale strada produttiva e una precisa identità lavorativa e con il tempo ho acquistato molta più stima in me stessa e anche un po’ negli altri ed è forse per questo che ho iniziato a vedere dei risultati. Sarà che mio padre con i suoi 78 anni non si sente ormai più tanto giovane, o sarà che suo fratello, non che suo socio, si sta sempre più dedicando alla sua nuova famiglia, o sarà perché mi sono trovata come alleato “il tempo” che rende meno gravosa la strada e contribuisce a smussare gli spigoli, ma sembra proprio che le cose qui stiano cambiando veramente. Per molti anni ho creduto che l’unica responsabile di tutta questa situazione fossi io, scoprendo che poi non è così e spesso mi domando se in altre zone vitivinicole italiane il mio ingresso nell’azienda familiare sarebbe stato così contrastato. Non conoscendo altre realtà non posso dare una risposta adeguata a questa mia curiosità, ma oggi sono certa che il settore vitivinicolo delle Langhe non è un mondo facile per le donne. Sbaglio? Quante donne ci sono qui nelle Langhe che fanno il mio stesso lavoro? Non siamo in molte, perché non è un lavoro semplice e anche se mi faccio aiutare nel vigneto e se in cantina non vado certo a spostare né le botti, né le barrique, né le pompe… non è un lavoro semplice. È chiaro che mi avvalgo di persone di cui ho la massima fiducia e il massimo rispetto, proprio perché fanno le cose che io, a volte, a malincuore, non ho il tempo di poter fare; per questo ho la massima stima per chi va nel vigneto o per chi lavora in cantina. Con il tempo sto cercando di fare un lavoro di squadra, cercando di demandare agli altri anche compiti importanti e in questa quotidianità non mi sento né la più brava di tutti, né la padrona e rifiuto di fare agli altri quello che hanno fatto a me. Oggi ho solo voglia di impegnarmi e raggiungere risultati che mi appaghino completamente. Quelli fin qui raggiunti mi hanno aiutato a star bene, mi hanno dato un gran benessere, però non sono ancora arrivata dove voglio e chi mi conosce sa che non è nel mio stile abbandonare una cosa prima di averla ottenuta, quindi…
Altri vini I Bianchi: Langhe Chardonnay DOC Collaretto (Chardonnay 100%) I Rossi: Barolo DOCG Rocche di Castiglione (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Rivera di Castiglione (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Mondoca di Bussia Soprana (Nebbiolo 100%) Barbaresco DOCG (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%)
Vigna Rionda Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda situato in località Vigna Rionda, nel comune di Serralunga d’Alba, che ha viti con un’età media compresa tra i 15 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni marnosi e calcareo-argillosi con presenza di arenarie e residui minerali, è posizionato ad un’altitudine di 350 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 6000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nei primi giorni di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che dura 7-8 giorni alla temperatura di 28°C in recipienti di acciaio inox termocondizionati, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che prosegue per altri 18 giorni con temperature non inferiori ai 25°C effettuando diversi délestage, follature e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, i due terzi della massa vengono lasciati in acciaio, mentre l’altra parte viene messa in barrique di rovere francese di media tostatura a grana fine, di primo e secondo passaggio; in entrambi i contenitori si procede a far svolgere al vino la fermentazione malolattica. Conclusa la vinificazione, la parte del vino che era stata lasciata in acciaio è posta in botti di rovere francese da 20 Hl, dove rimane per circa 28 mesi durante i quali vengono effettuati almeno 4 travasi. Al termine della maturazione avviene l’assemblaggio delle varie partite e dopo circa 2 mesi di decantazione, senza alcuna filtrazione né chiarifica, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi. Quantità prodotta: 5600 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino tenue con riflessi aranciati e offre profumi complessi di ciliegia, prugna e foglia di tè con note erbacee del sottobosco; le percezioni si aprono poi a piacevoli sensazioni speziate di cardamomo e ad una leggera tostatura di tabacco. In bocca ha un’entratura pulita, elegante, armoniosa, con una fibra importante che conferisce, insieme a una buona sapidità, lunghezza e persistenza. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1985 - 1989 - 1990 - 1995 - 1996 1997 - 1998 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 30 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Oddero dal 1800, l’azienda agricola si estende oggi su una superficie complessiva di 65 Ha, di cui 58 vitati e 7 occupati da frutteti e noccioleti. Svolge la funzione di enologo la stessa Mariacristina Oddero.
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Gianfrancesco e GianluigiOrsolani
Mi fa piacere pensare di essere un po’ figlio d’arte, poiché questo mestiere mi è stato tramandato e non l’ho trovato né sulle colonne di un settimanale di annunci, né tramite il passaparola di qualche amico. Sì, deve essere proprio così, visto che rappresento la quarta generazione di vignerons della famiglia Orsolani. È infatti dal 1894 che lavoriamo questa terra, da quando in pratica il mio trisnonno Giovanni iniziò una duplice attività che vide l’apertura dapprima di una locanda e poi di una cantina, dove produceva il vino da vendere agli avventori di passaggio. Si racconta che molti di questi clienti, antesignani dei turisti enogastronomici odierni, godendo del cibo e del vino proposto, sempre più spesso, chiedevano di acquistarlo; così fu dato il via ad uno smercio che in pochi anni fece diventare la commercializzazione del vino l’attività primaria della famiglia. Da quegli albori a oggi ne è passato di tempo, ma, frugando nella nostra storia, mi sono accorto che ognuno degli elementi di questa catena ha portato qualcosa di proprio all’interno del processo evolutivo della cantina Orsolani, aggiustando o rivedendo le cose fatte, proponendo un proprio stile e un’idea personale del vino conforme ai gusti del suo tempo, ma fedele alla vigna. Uno stile che si è perpetuato fino a mio padre Gian Francesco, che ha fatto una vera e propria rivoluzione, modificando la percezione storicizzata del nostro vitigno principe: l’Erbaluce. Attraverso una selezione di uve e ponendo una semplice, ma logica attenzione alla maturazione, per questo vino iniziò un processo di rinnovamento veramente unico nel panorama
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circostante che fin dai primi anni incuriosì il mercato. I risultati che egli si prefiggeva in termini di carattere e di finezza arrivarono e con loro anche le caratteristiche organolettiche di quel vino si modificarono: divennero uniche, acquisendo sentori floreali, di biancospino, di anice oltre ad una piacevole morbidezza; note diverse quindi, più intriganti rispetto a quelle tipiche, che volevano l’Erbaluce squilibrato, un po’ acido, “sgraziato” come da tradizione. Si sa che tutte le novità hanno bisogno di tempo per affermarsi e ricordo che lui dovette combattere una vera e propria battaglia contro una concezione errata del significato di tipicità. Quando sono entrato in azienda, da Gian Francesco ho appreso le basi e le nozioni fondamentali che mi hanno consentito, sin da subito, di scegliere, decidere e cominciare a camminare su questa strada, come aveva fatto lui prima di me, quando gli era stata affidata l’azienda da suo padre. Io ho preferito crescere accanto a lui e ho voluto che mi stesse al fianco, così da poter continuare a combattere insieme per l’affermazione di questo nostro vitigno, lavorando per conferire piena espressione a queste uve, così legate al territorio e alla gente di questo posto. Un passaggio generazionale equilibrato, non traumatico, che ha dalla sua la forza di basarsi sulle certezze di un passato su cui sono state costruite solide fondamenta e sul desiderio di misurarsi con un presente sempre in evoluzione che richiede un confronto continuo e un aggiornamento quotidiano. In questo costante processo evolutivo, iniziato da mio padre e non ancora conclusosi, non ci trovo un ostracismo come qualcuno sostiene, ma solo un grande rispetto per la tradizione di questo vitigno. Vista l’evoluzione dei gusti, per lui sarebbe stato più facile piantare dei vitigni internazionali e fregarsene di questa storia; invece l’ha innovata, l’ha attualizzata e si è impegnato economicamente scommettendo su quel vitigno. Basandosi sulla sua esperienza e su quella degli Orsolani che lo hanno preceduto, si è posto delle domande alle quali ha dato delle risposte, riportando in vita non la copia di un vino vecchio di 100 anni, ma un vino nuovo, realizzato dalla reinterpretazione di un vitigno antico. Ogni tanto mi domando come abbiamo potuto superare agilmente tutte queste difficoltà e quale sia il limite entro il quale si possono dividere i meriti dell’uno o dell’altro o come dare un valore alle sue intuizioni e alla mia perseveranza di portarle avanti con cocciuta convinzione. Durante questi anni mi ha trasmesso molto con il suo esempio, senza impormi mai niente, nella piena convinzione che la creatività sia un fatto personale: ognuno ha la sua. Ecco perché mi sento figlio d’arte.
Altri vini I Bianchi: Erbaluce di Caluso DOC La Rustìa (Erbaluce di Caluso 100%) Erbaluce di Caluso DOC Vignot S. Antonio (Erbaluce di Caluso 100%) Caluso Spumante Cuvée Tradizione Metodo Classico Brut (Erbaluce di Caluso 100%) Caluso Spumante Cuvée Tradizione Metodo Classico Gran Riserva (Erbaluce di Caluso 100%)
I Rossi: Carema DOC Le Tabbie (Nebbiolo 100%) Canavese Rosso DOC Acini Sparsi (Barbera 50%, Nebbiolo 20%, Croatina, Freisa e Neretto 30%)
Sulé Caluso Passito DOC Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Erbaluce di Caluso provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nei comuni di Caluso, Mazzè, Roppolo e Piverone, le cui viti hanno un’età che varia dai 10 ai 50 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici con forte presenza di sabbia e limo e argilla in piccola quantità, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Erbaluce di Caluso 100% Sistema di allevamento: Pergola canavesana Densità di impianto: 2500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede all’appassimento naturale delle uve che si protrae fino al marzo successivo alla vendemmia quando le uve sono sottoposte a una pressatura soffice e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si svolge come minimo nell’arco di 3 o 4 mesi in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura di terzo e quarto passaggio in cui rimane per 36 mesi, durante i quali vengono effettuati periodicamente dei bâtonnage. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo una breve decantazione statica in tini di acciaio e una leggera filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno (da 0,375 hl); 500 (da 0,750 hl) Note organolettiche: di colore topazio con riflessi giallo oro, il vino al naso presenta spiccate note di frutta secca come albicocche e ananas, mandorle e nocciole tostate con un finale che ricorda molto i biscotti Krumiri e un piacevole retrogusto nasale di cognac. In bocca è caldo, elegante e la complessità delle percezioni gustative lo caratterizza e lo rende equilibrato e persistente. Prima annata: 1928 Le migliori annate: 1962 - 1964 - 1967 - 1969 - 1973 - 1974 1977 - 1983 - 1985 - 1989 - 1990 - 1991 1993 - 1995 - 1997 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal piemontese sulé, solaio dove vengono appassite le uve, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Orsolani dal 1894, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 18 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Pierluigi Donna e l’enologo Sergio Paolucci.
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Mauro Parusso
Mi posso riconoscere una fortuna: avere al mio fianco in azienda mia sorella Tiziana, con la quale ho raggiunto un buon equilibrio, visto che ci bilanciamo sia caratterialmente che professionalmente, io fornendo un contributo in vigna e in cantina, lei provvedendo più alla parte contabile, economica, gestionale, dove, sicuramente senza il suo sostegno avrei fatto “bancarotta” da tempo! Del resto ognuno ha i suoi limiti e io non sono da meno degli altri. Sono fatto così e certe cose non solo non mi interessano, ma sono proprio lontane anni luce dalla mia forma mentis. Cose troppo complicate, numeri che rincorrono altri numeri e che per me non rappresentano nulla: è stato sempre così e sicuramente anche se mi fossi messo a fare un’altro mestiere non avrei mai anteposto il denaro al mio obiettivo. Tiziana ogni tanto scruta il cielo per comprendere quali siano le mie origini, mentre alle volte mi accusa di voler continuare a vivere come se abitassi in un altro mondo. Sentendo quelle parole scuoto il capo e vado avanti, tanto so che continuerà a starmi accanto come ha sempre fatto, e, anche se non glielo dico, qualche volta sono assalito dal dubbio che nelle sue frasi ci sia un fondo di verità. Certamente quello che abbiamo realizzato insieme in questi ultimi vent’anni è qualcosa di grande. È per questo che, in definitiva, ritengo che il mio modo di fare non sia così deleterio, anzi credo sia la mia fortuna dal momento che penso non sia sbagliato voler perseguire obiettivi tanto grandi da sembrare quasi irraggiungibili. È in questo gioco sottile di continua tensione e di stoico impegno sul lavoro che io mi
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sento bene; è nell’abbattimento continuo delle mie certezze che mi esalto e cresco, mentre nella voglia sfrenata dell’irraggiungibile perfezione che dovrebbero avere i miei vini trovo il soddisfacimento del mio ego e la piacevole sensazione di sentirmi vivo. Ed è per questo che non capisco il motivo per cui dovrei cambiare questo “caratteraccio”. Del resto anch’io, come tutti, faccio molta più fatica ad assecondare gli altri che ad essere me stesso e poi è così che voglio essere: un simpatico e cocciuto “testone” che fa il vino con passione, a sua immagine e somiglianza, un paradossale perfezionista senza regole precise, un vigneron che segue ciecamente il suo terroir adattandosi come un camaleonte all’annata, assecondandola ed esaltandola, per quanto gli è possibile, ricercando ciò che di meglio la stessa è capace di offrire. Ecco il motivo per il quale i miei vini sono buoni, ma completamente diversi da un anno all’altro; perché non ho regole certe e sicure da applicare, non so mai come farò il vino della prossima vendemmia, né so come lo stesso sarà, poiché potrò scoprirlo solo dopo un anno, quando avrò compreso i risultati e il reale contributo di quelle piccole e sottili sfumature tecniche nella lavorazione che ho applicato in vigna e in cantina nel corso di quell’anno. E in questo mio viaggio di continuo acculturamento professionale tengo nota di tutto, giorno dopo giorno; segno ogni cosa relativa a queste mie costanti incursioni enologiche, cercando delle strade percorribili con un perfezionismo e un enorme rispetto della natura, un percorso sicuramente impegnativo, ma allo stesso tempo affascinante. Per chi ha le mie tendenze maniacali, esistono solo due sistemi per fare le cose: quello facile, che comporta un rischio minimo e che consente di preparare grandi vini in cantina, o quello invece rischioso, con il quale si costruisce il vino non solo in vigna, ma anche nel modo più naturale possibile, senza l’utilizzo di anticrittogamici, lieviti o altre sostanze utili a modificare in cantina ciò che madre natura ci ha dato, cercando di fare un vino “vivo” che si conservi nel tempo. Fare un vino “vivo” è difficile e indubbiamente è un’operazione rischiosa, soprattutto quando non puoi permetterti il lusso di buttare via un’intera annata di lavoro. Nonostante il duro lavoro, non nascondo l’emozione nel veder uscire dalla mia cantina quel vino “vivo”, che rimane sempre una splendida provocazione per chi come me sostiene che si possono usare altre strade per fare grandi vini, strade forse diverse, ma allo stesso tempo antiche, capaci di risvegliare nuove discussioni e sopite diatribe nella storia enologica di questo territorio dove, negli ultimi trent’anni, se ne sono viste di tutti i colori. Ma quale sarà la strada giusta da percorrere per il futuro? Quale sarà il vino di domani? Quali saranno le tecniche migliori per poter garantire una maggiore longevità al vino? E quale invece la tecnica che, più di tutte le altre, saprà interpretare l’anima delle Langhe? Non so dare risposte certe a questi interrogativi, so solo che riscopro gli antichi sistemi con i quali i vecchi giudicavano se il vino fosse più o meno adatto all’invecchiamento mettendolo in un bicchiere esposto all’aria: la prova più semplice e più rischiosa che un vino può subire, capace di rivelare i suoi tempi di ossidazione. Sono prove che nessuno fa più, come tante altre, attraverso le quali forse si scoprirebbe che tutti noi, che siamo reputati “addetti ai lavori”, ragioniamo e parliamo solo perché abbiamo la bocca e il respiro per farlo. Queste prove ci condurrebbero a capire che tanti discorsi sono inutili e retorici e che in definitiva i grandi vini corrispondono sempre alle grandi annate e mai alla capacità dell’uomo. Semplice no?
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC (Sauvignon Blanc 100%) I Rossi: Barolo DOCG Bussia Vigna Munie (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Bussia (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba Superiore DOC (Barbera 100%) Barbera d’Alba DOC Ornati (Barbera 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%)
Mariondino Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda che è posto in località Mariondino, nel comune di Castiglione Falletto, le cui vigne hanno un’età media di 25 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su un terreno marnoso-arenario, è posizionato ad un’altitudine di 290 metri s.l.m. con esposizione a ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre fino alla fine dello stesso mese, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si inserisce in roto-maceratori di acciaio dove si avvia la fermentazione alcolica che si protrae per 15-20 giorni ad una temperatura che, pur partendo dai 32°C, ridiscende per stabilizzarsi poi sui 24°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura 6-10 giorni con l’ausilio di uno o due rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino è trasferito in piccole botti di rovere dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 24 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e il vino viene posto a decantare e ad affinarsi per 6 mesi in tini di acciaio, prima di essere imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta all’esame visivo di un bel colore rosso granato vivo, mentre all’esame olfattivo offre note eteree e un netto frutto rosso di ciliegia che salta evidente, oltre a sensazioni di viola mammola a cui si aggiungono fini e delicate note speziate. In bocca ha un’entratura elegante, con tannini morbidi che insieme ad un’acidità evidente lo rendono persistente. Prima annata: 1986 Le migliori annate: 1989 - 1990 - 1996 - 1999 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla località dove sono posizionate le vigne, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Parusso dall’inizio del ‘900, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 22 Ha, tutti vitati. Svolge le funzioni di agronomo ed enologo lo stesso Marco Parusso.
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PECCHENINO
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Orlando Pecchenino
Credo che la caparbietà sia uno degli elementi che accomunano i contadini di questa terra. È un nostro modo personale di confrontarci con la vita, con le sue difficoltà e con i nostri sogni. Un modo di essere che nel tempo è diventato elemento culturale, peculiarità, si è fatto distinguo, modo di vivere e di interpretare la quotidianità nella quale la parola lavoro ha assunto un significato profondo, quasi biblico, che ci ha messo fortemente in comunione con la terra. Una caparbietà con la quale siamo abituati a gestire le cose, costruire le nostre idee e definire le nostre priorità, ma che, nello stesso tempo, ci consente di dare dignità al nostro lavoro di contadini rimanendo ancorati, più di quanto si possa immaginare, a quel pezzo di terra che ci è stato lasciato, proteggendolo come hanno fatto tutti quelli che ci hanno preceduto e che l’hanno difeso, come crociati, anche e soprattutto dalla grande voglia di fuggire via. È un’ostinazione che non accetta compromessi, dove il bianco è bianco e il nero è nero, una compagna che non ti abbandona mai e non ti fa contare né le ore, né le giornate, né gli anni che hai trascorso lavorando nelle vigne o ristrutturando la casa, quella storica, di famiglia, nella quale abbiamo investito, da 20 anni a questa parte, tutti i pomeriggi di pioggia, le poche ore libere e le domeniche. Sono quelle pietre, più che le bottiglie di vino o il successo che con esse è arrivato, le icone perfette della cocciuta voglia che hai di lasciare un segno tangibile del tuo passaggio e il valore intrinseco della tua costanza di non voler mai lasciare le cose a metà.
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Non è facile spiegare tutto questo a chi non è un “langarolo” come me, come non è facile far comprendere quale sia la differenza fra ciò che viviamo fra queste viti e il mondo, quello fuori, lontano anni luce dai nostri campi, dai nostri filari, da questa casa e da questa cultura contadina; un mondo che ha regole diverse, anzi, certe volte troppo diverse, alle quali, però, è necessario adattarsi e confrontarsi per non restarne escluso. Come posso trovare le parole per spiegare che, forse, è proprio il lavoro che facciamo a costruire questo nostro modo di essere? Un lavoro vero che ci lega in maniera viscerale a questo territorio e che crea un distinguo con altre realtà vitivinicole, dove questo legame si è perso, trasformando il territorio in una fabbrica e la memoria in folklore per smanie di grandezza, business e, più spesso, ignoranza e scarsità di vedute. Per noi è come se quelle viti fossero il nostro tramite fra il passato e il futuro; sono uno strumento, al quale dedicarsi completamente, per evolversi, per misurarsi e, cocciutamente, ricercare quelle gratificazioni che fino a qualche anno addietro sembravano irraggiungibili. Quando terminai i miei studi di enologia, negli anni ‘80, c’erano pochissime aziende orientate alla qualità e i vini buoni, interessanti, si contavano sulle dita di una mano, mentre la maggior parte erano vini mediocri, di basso profilo qualitativo e il loro mercato di riferimento non superava i confini provinciali. In quegli anni la situazione della viticoltura, qui a Dogliani, era in uno stato primordiale e ognuno continuava a fare come il padre gli aveva insegnato; non c’era una conoscenza specifica di cosa fare, come farlo e cosa ottenere. La stessa famiglia era l’immagine patriarcale di una piccola società rurale dove gli “anziani” dirigevano i giovani e le decisioni erano prese in senso verticistico più che per una condivisione, ampia e plurale, di vedute. Anche se in azienda ho sempre avuto margini di manovra abbastanza ampi, avevo altri obiettivi e non avevo intenzione di continuare sulla strada tracciata dalla tradizione, volevo cambiare e modificare quello stato di cose che avevano consentito solo il mantenimento dell’esistente. Avevo altri sogni, difficili da realizzare, volevo fare “il mio vino”, raggiungere una qualità che i miei non avevano mai raggiunto. Iniziare fu veramente critico, la scuola mi aveva dato solo un’infarinatura tecnica, ma, nonostante le incognite fossero tantissime, una sola cosa per me era certa: quello che mi era girato attorno nei primi 20 anni della mia vita non era sufficiente. Non mi interessavano gli onori della cronaca, fare vino per me aveva un significato più ampio, era un modo di esprimere la mia arte e il mio grande rispetto per questa terra e per ciò che essa aveva significato per me. Così ho provato, cambiato e ricambiato, caparbiamente, stando sempre attento e condividendo questo impegno con mio fratello Attilio. Ci siamo divisi i compiti e ognuno ha fornito il proprio contributo. Sono passati altri 20 anni nei quali ci sono stati momenti duri e difficili, nei quali siamo riusciti a raggiungere dei risultati che oggi ci gratificano. Guardandomi intorno mi rendo conto che la situazione è cambiata ed è estremamente diversa da quella di tanti anni fa e, gratificato di ciò, mi piace pensare che tutto sia un po’ anche merito mio e di quella testarda determinazione che abbiamo noi contadini piemontesi. Anche se ritengo che i passi che ho fatto siano stati enormi, non ho nessuna intenzione di interrompere questo mio processo di crescita, poiché credo che ci sia sempre spazio per fare qualcosa di meglio, e per ottenerlo non posso abbassare la guardia, devo rimanere sempre vigile e insistere, per vincere questa difficile sfida che mi impegna continuamente, ma che riesce a farmi sentire sempre vivo, anno dopo anno.
Sirì d’Jermu Dolcetto di Dogliani DOC
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC Vigna Maestro (Chardonnay 40%, Sauvignon 30%, Arneis 30%) I Rossi: Dolcetto di Dogliani DOC San Luigi (Dolcetto 100%) Dolcetto di Dogliani Superiore Doc Bricco Botti (Dolcetto 100%) Piemonte Barbera DOC Quass (Barbera 100%) Langhe Nebbiolo DOC Vigna Botti (Nebbiolo 100%)
Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Dolcetto provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Val di Berti nel comune di Dogliani, i quali hanno un’età media di 25 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi di medio impasto, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 380 e i 420 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Dolcetto 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 18 al 24 settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 15 giorni ad una temperatura di 25-28°C in recipienti di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura 10 giorni durante i quali si procede a frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene lasciato nei tini di acciaio dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 6 mesi durante i quali si procede settimanalmente ad effettuare dei bâtonnage. Verso il mese di maggio dell’anno successivo alla vendemmia, il vino viene travasato, chiarificato e lasciato affinare ancora per 4 mesi prima che venga effettuato l’assemblaggio delle varie partite; poi, senza alcuna filtrazione, viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 2 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 38000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino con riflessi purpurei, all’esame olfattivo il vino si presenta fresco, vinoso, aprendosi a sentori di frutta rossa matura come lamponi, ribes e more e alle note speziate di china e liquirizia. In bocca è elegante, armonico, abbastanza lungo e chiude con le stesse percezioni speziate avute al naso. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1997 - 1999 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dal proprietario del vigneto acquistato dal nonno Attilio, che si chiamava Guglielmo, detto Jermo, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 6 anni. L’azienda: di proprietà di Orlando e Attilio Pecchenino dal 1986, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 25 Ha, di cui 23 vitati in produzione. Collaborano in azienda l’agronomo Giampiero Romano e l’enologo Giuseppe Caviola.
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PELISSERO
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Giorgio Pelissero
Si racconta che ci sono annate buone per il vino e annate buone per le persone; se è confermato che il 1965 non sia stata un’annata da annoverare fra le migliori del secolo scorso per il vino, posso sentirmi fortunato di essere venuto al mondo in quell’anno. Nella speranza che ciò sia vero, per il resto posso raccontare solo una storia molto semplice come quella che potrebbero narrare altre decine di vignerons che in questi ultimi vent’anni hanno saputo dare valore a questa terra, cercando di coniugare e innestare la tradizione contadina sul tessuto eterogeneo di questo tempo frenetico che scorre veloce, massifica e macina tutto, riuscendo a far sì che questa unione divenisse feconda e generasse un frutto nuovo capace di guardare, contemporaneamente con occhi antichi e moderni, al futuro. La mia è una storia comune a quella di tante altre famiglie: praticavamo un’agricoltura promiscua, su un piccolo fazzoletto di terra, appena sufficiente a sostenerci. Avendo vissuto sempre e solo questa realtà hai poche alternative e quando conclusi gli studi di enologia ad Alba mi ritrovai a scegliere se lavorare in fabbrica o la terra: scelsi di rimanere in campagna, come aveva fatto mio padre e prima ancora suo padre. Ricordo che sotto casa avevamo una piccola cantina ed è lì che iniziai i miei primi esperimenti accorgendomi fin da subito che avrei dovuto modificare tempi e modi di affrontare le cose se volevo stare dietro a un mercato enologico che sembrava essersi risvegliato improvvisamente. Fu così che feci come l’attore Benigni, in quel suo film di cui non mi ricordo il titolo, quando andò in banca per comprare la casa e si trovò
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a parlare con un direttore che mi sembra si chiamasse “Diotiaiuti”. Beh, io feci la stessa cosa e, nella speranza che Dio mi aiutasse davvero, presi un mutuo in banca, ristrutturai il possibile, feci la cantina, aumentai gli ettari vitati di proprietà e incominciai a produrre i miei primi vini, impegnandomi, fin da subito, nella ricerca e nel raggiungimento di un’eccellenza che è ancora di là da venire. Ma il vero problema non era quello di produrre grandi vini, ne avevo un’altro di ostacolo da superare, più difficile per uno come me che è nato in queste zone così chiuse e introverse: la commercializzazione. Tuttavia con grande entusiasmo e senza lasciarmi intimorire, cominciai a vendere la mia produzione enologica, girando in lungo e in largo l’Italia, direttamente in prima persona, a bordo di una vecchia Fiat Punto di colore verde, che lasciai solo dopo qualche anno per una Fiat Regata Weekend Riviera con la quale percorsi oltre 400.000 Km. Compresi che la cosa più difficile era, prima di tutto, far sapere agli altri della mia esistenza e poi comunicare cosa facevo, quali erano le origini di quel vino e con quale passione lo producevo. Non so se mi erano servite quelle lunghe chiacchierate invernali che facevamo in casa, o quella breve esperienza avuta negli Stati Uniti, o chissà quale altra reminiscenza storica o caratteriale mi aiutò, ma ricordo che, fin da subito, mi trovai a mio agio in quella nuova veste commerciale. Non feci molto per imparare quel mestiere, le cose mi venivano spontanee, essendo riuscito, in poco tempo, a mettere in equilibrio quell’umiltà contadina che avevo appreso dai miei vecchi, i quali dicevano le cose con grande semplicità quando gli sembrava di invadere territori linguistici a loro proibiti, con l’aggressività con la quale oggi si comunicano le informazioni nel mondo del vino. Da una parte il pudore dei semplici, la dignità e la modestia di chi sa di offrire ciò che di meglio produce e, dall’altro, il vocìo dei “venditori”. Compresi presto che, in fondo, chi gridava cercava di sopperire con il frastuono alla mancanza di contenuti e di sostanza dei suoi prodotti e fu così che scelsi di far parlare, il più possibile, la qualità dei miei vini, capace, da sola, di riempire il silenzio con misura, eleganza e senza grida. Dell’antica tradizione ho preso il pragmatismo che lega i contadini alla terra e ai suoi frutti e, per quanto mi è stato possibile, ho mantenuto quello che era possibile mantenere, incartandolo con gli strumenti che la tecnologia mi metteva via via a disposizione. In questa continua evoluzione ho capito che avrei dovuto produrre un vino che provenisse dalla mia parte migliore, che fosse la rappresentazione preziosa e liquida dei miei sentimenti per questa terra e per il mio lavoro. Credo, almeno in parte di essere riuscito in ciò e il mio messaggio è arrivato a molti miei clienti che hanno capito il contenuto delle bottiglie che produco, fino a diventare non solo fedeli estimatori dei miei vini, ma anche interpreti di rapporti più profondi che si sono consolidati nel tempo e hanno raggiunto lo spessore di vere e proprie amicizie. Oggi le cose sono molto cambiate e anche le stesse Langhe non mi sembrano più quelle di una volta e, pur rendendomi conto di guardarle con occhi meno critici di allora, godo per ciò che i viticoltori sono riusciti a fare con queste vigne, ma soprattutto gioisco di cosa siamo riusciti a mettere dentro le nostre bottiglie di vino che vanno in giro per il mondo. I contadini come i miei nonni guardando queste vigne non avevano altra ispirazione che fare mentalmente il conto delle giornate di lavoro che esse avrebbero richiesto e, sicuramente, nell’ondulata lunga curva dei colli stracolmi di viti, non trovavano nessun’altra poesia, se non quella della fatica e del lavoro. Per noi è diverso e, con la consapevolezza di ciò che è stato e di ciò che potrebbe essere, sarebbe bello, in un prossimo futuro, riuscire a creare un sistema-territorio capace di promuovere l’insieme delle innumerevoli imprese, di modo che ognuna di esse trovi sostegno nell’altra.
Vanotu Barbaresco DOCG
Altri vini I Bianchi: Langhe DOC Favorita Le Nature (Favorita 100%) I Rossi: Barbera d’Alba DOC Piani (Barbera 100%) Langhe Rosso DOC Long Now (Barbera 50%, Nebbiolo 50%) Barbaresco DOCG Tulin (Nebbiolo 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%)
Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, che è posto a cavallo di tutti e tre i comuni di produzione del Barbaresco Docg (Treiso, Neive e Barbaresco), le cui viti hanno un’età di circa 40 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 15 giorni alla temperatura di 28°C in rotomaceratori termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuate meccanicamente delle macro ossigenazioni. Terminata questa fase, il vino viene posto in barrique di rovere francese a grana fine e leggera tostatura, per l’80% nuove, in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane circa 22 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati 6 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino profondo con riflessi granati e con sensazioni dolciastre di vaniglia e nocciola, che introducono dapprima a note fruttate di lamponi e pesca gialla matura, poi ad altre di rosa rossa, ciliegia sotto spirito, tabacco e liquirizia. In bocca ha un’entratura morbida, con tannini vellutati che insieme a una bella sapidità conferiscono al vino notevole freschezza oltre a lunghezza e persistenza. Chiude con le note fruttate percepite al naso. Prima annata: 1960 Le migliori annate: 1978 - 1979 - 1982 - 1988 - 1989 1990 - 1994 - 1996 - 1997 - 1999 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal diminutivo piemontese di Giovanni, il nonno di Giorgio, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: l’azienda agricola, di proprietà della famiglia Pelissero dal 1890, è oggi condotta da Giorgio e Cristina, figli di Luigi, e si estende su una superficie complessiva di 35 Ha, di cui 30 di proprietà e 5 in affitto, tutti vitati. Svolge la funzione di agronomo e di enologo lo stesso Giorgio Pelissero.
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PODERE ROCCHE DEI MANZONI
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Valentino, Alfonso e Rodolfo Migliorini
Sono sempre stato un grande estimatore del Barolo e credo di aver contribuito, con l’impegno profuso in questi ultimi trent’anni, alla sua consacrazione nella élite dei migliori vini del mondo, dedicandogli gli onori che si attribuiscono ai grandi personaggi, erigendogli una reggia dove “Sua Altezza” possa riposare, invecchiare e migliorare, com’è sua consuetudine. Un impegno quotidiano, profuso con passione e dedizione anche nei confronti di una terra, le Langhe, che per me è stata un po’ straniera e alla quale ho dovuto adattarmi, cercando di comprendere i ritmi, le abitudini, i modi e i pensieri dell’antico retaggio contadino di cui, ancora oggi, questa cultura è permeata. Ricordo che quando comprai i primi venti ettari di vigne, negli anni in cui tutti fuggivano via da queste terre, non fui esente né dalle critiche, né dall’essere guardato con diffidenza da chi non comprendeva questo mio interesse nei confronti del Barolo, che andava contro corrente rispetto alla generale indifferenza che il mercato dimostrava per questo grande vino. In piazza, fra la gente di Monforte d’Alba, si sprecavano le chiacchiere su questo straniero che era venuto a comprare le vigne e spesso ero etichettato come un matto, uno di quelli che “Tant u l’ra i sod, u ven si ma u resistra’ ‘n poc e dop u scapra’ via paid tuti” (”Tanto ha i soldi, viene qui, ma resisterà un po’ e poi scapperà via, come tutti”). Io non me ne curavo, avevo le mie idee e sapevo benissimo dove volevo arrivare; non erano certamente quattro chiacchiere di paese a scoraggiarmi, sicuro com’ero della mia intuizione sulle enormi
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potenzialità di questo vino e sul fatto che qui avrei potuto fare grandi cose. Del resto venivo da altre esperienze, da una cultura forse un po’ più aperta, allargatasi ulteriormente grazie all’attività ristorativa che la mia famiglia gestiva a Caorso, in Emilia Romagna; questo mi aveva aiutato ad ampliare le mie vedute e a confrontarmi giornalmente con il mondo che transitava in quel ristorante divenuto presto un punto di riferimento, non solo per i gourmet, ma anche per gli industriali di Piacenza e Cremona, per parecchi cantanti e molti politici. Nel 1964, grazie all’aiuto di mio nonno materno, acquistai a Nizza Monferrato la mia prima azienda vitivinicola e iniziai a produrre i miei vini, ma fu solo nel 1974 che arrivai qui a Monforte d’Alba dove cominciai a fare i primi lavori, pur mantenendo sempre l’attività di ristorazione che ha sostenuto, fino al 1988, gli investimenti cospicui che ero costretto a fare qui in azienda per raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissato. Da allora non mi sono mai fermato, dedicando tutte le mie risorse a questa attività di vignaiolo, comprando nuove vigne nei crus più importanti della zona e impostando un lavoro di valorizzazione del Barolo che ancora non si è concluso e al quale dedico i progetti presenti e futuri di questa azienda. Trent’anni pieni, emozionanti, irripetibili, che hanno visto un susseguirsi di iniziative, di innovazioni tecnologiche e di scelte strategiche uniche per le Langhe, grazie alle quali, credo di aver acquisito credibilità e rispetto da parte di tutti. È qui che è stato fatto il primo blend di tutta la zona fra Nebbiolo e Barbera, che è arrivato il primo vitigno bianco, che sono state utilizzate per la prima volta le barriques fatte arrivare di notte, e ancora qui, in questa azienda, è stato utilizzato, per la prima volta nelle Langhe, il metodo classico di fermentazione Champenois. In questi anni però non ho voluto soltanto cambiare o aggiungere all’esistente; ho voluto anche integrarmi nel territorio e adattarmi rispettosamente alle forti tradizioni che qui si respirano ancora. Così ho fatto mio l’attaccamento a questa terra che è facile vedere e che si palesa osservando ogni singolo vigneto; ho compreso ancora di più il significato che qui si dà alla famiglia e il valore di quella ruralità sana e genuina che si respira nelle campagne, dove le donne fanno ancora i “taglier” e gli uomini, quando è il tempo, macellano il maiale o mettono il peperone sotto la grappa. Con l’età ho un po’ stemperato il mio carattere esuberante, ma sono ancora capace di entusiasmarmi e di appassionarmi come trent’anni fa e, sempre più, mi piace assecondare i miei figli Alfonso e Rodolfo nel loro desiderio di far fiorire, intorno a questa azienda, nuove idee. Insieme a tanti produttori, con i quali ho stretto belle amicizie, abbiamo fatto sì che le cose cambiassero in queste Langhe, senza stare alla finestra nell’attesa che le cose accadessero, ma spingendo e agevolando un movimento enologico intorno al Barolo che, a distanza di anni, sta ripagando un po’ tutti grazie all’importanza che, con giusto merito, è stata oggi riconosciuta a questo vino e, ti posso assicurare, non è stata una strada né breve, né semplice. Sono passati gli anni e guardandomi indietro mi accorgo di aver fatto molte cose e di questo sono felice, perché mi rendo conto di quante mie idee sono racchiuse fra le mura di questa cantina, che si è allargata piano piano seguendo i miei sogni. Sono contento perché vedo che i miei ragazzi mi seguono e che, come me, si stanno sempre più appassionando a questo lavoro, cercando di continuare quella che è stata la mia idea di un vino di qualità. Sì, sono state sempre le idee che mi hanno sorretto e che spero sorreggano anche loro; quelle idee che, in definitiva, sono in grado di allargare la strada intrapresa tanti anni fa: costruire una grandiosa reggia per il mio “Re dei vini”.
Altri vini I Rossi: Langhe Rosso DOC Quatr Nas (Nebbiolo 50%, Cabernet Sauvignon 17%, Pinot Nero 17%, Merlot 16%) Barolo DOCG Vigna d’la Roul (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Big’d Big (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC La Cresta (Barbera 100%) Barbera d’Alba DOC Sorito Mosconi (Barbera 100%)
Vigna Cappella di Santo Stefano Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Cappella Santo Stefano, nel comune di Monforte d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni a base calcarea ricchi di limo e sabbia, è posizionato ad un’altitudine di circa 460 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda metà di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10-12 giorni ad una temperatura compresa fra i 25 e i 28°C in recipienti di acciaio termocondizionati, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 6 giorni con l’ausilio di frequenti follature e rimontaggi. Terminata questa fase, il vino viene posto in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura tutte di primo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 36 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati almeno 5-6 travasi. Al termine della maturazione viene effettuato l’assemblaggio delle varie partite e dopo una breve decantazione, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino e con profumi potenti e complessi di frutti rossi e piacevoli sensazioni speziate di cannella, liquirizia, catrame, pepe e cacao. In bocca è elegante, equilibrato, lungo e persistente con una chiusura che riporta alle sensazioni fruttate avute al naso. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1997 - 1998 - 1999 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla piccola cappella campestre del XII secolo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà di Valentino Migliorini dal 1978, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 60 Ha, di cui 55 vitati e 5 occupati da prati e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Giuseppe Vivalda e l’enologo Giuseppe Albertino.
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PODERI ALDO BERTELLI
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Elisabetta e Aldo Bertelli
Questa casa è il mio punto di riferimento, qui ho trascorso la mia infanzia; i miei ricordi sono legati a questa campagna, a queste vigne e alla cantina, anche se, in effetti, non posso considerarmi un vero e proprio vignaiolo, né questa una vera e propria azienda. Qui abbiamo sempre fatto il vino per la famiglia e per gli amici e solo negli ultimi anni è iniziata una commercializzazione più vasta, proprio in concomitanza della necessità di dover smaltire il numero crescente delle bottiglie prodotte. Produrre vino è sempre stato un mio hobby, una delle mie innumerevoli passioni e devo affermare che è rimasto tale per tutti questi anni anche grazie ai miei figli Alberto ed Elisabetta, che si sono addossati il compito di seguire ogni fase della filiera produttiva, lasciandomi il gusto e il piacere di rimanere in disparte come attento osservatore del loro agire. È un hobby che ha richiesto notevoli investimenti durante gli ultimi vent’anni e solo oggi ci ha condotti all’obiettivo di portare “Poderi Bertelli” a regime. Del resto, fin dall’inizio, sapevo benissimo che questa passione mi sarebbe costata molto, anche in senso economico, ma ogni passione ha un costo ed io ne ho diverse: quella per il mare e per le barche, o per la montagna che soddisfo, quando mi è possibile, nella mia splendida baita sul Monviso, o quella per le macchine sportive che mi diverto ancora a guidare o ancora per il mio lavoro che, quasi a ottant’anni, mi vede impegnato costantemente con grande energia. Passioni creative, fantasiose, variegate,
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che mi forniscono continui stimoli, che mi infondono energia e mi fanno sentire giovane, che sono necessarie, direi quasi indispensabili, per chi come me, uomo di scienza, passa gran parte del suo tempo in un laboratorio di ricerca a sviluppare studi ora sulla pigmentazione, ora sugli antiossidanti. Stimoli che non sono mai venuti meno in tutti questi anni e che ritrovo piacevolmente nel vino, al quale mi accosto con molto rispetto e con la giusta umiltà di chi ne apprezza il significato e gli dà il giusto valore. Anche nelle scelte enologiche, “Poderi Bertelli” si è sempre distinta, orientandosi in funzione di una continua ricerca di vini in grado di andare al di là degli schemi convenzionali, capaci di comunicare, con forza, le potenzialità di questo territorio e sapere, nel bene o nel male, stupire, appassionare o suscitare critiche. Scelte non facili, che hanno creato all’inizio qualche problema con il mercato nazionale, forse non ancora pronto a recepire vini così strutturati, ma nella mia lunga vita non ho mai scelto le strade facili, prediligendo sempre quelle più tortuose, ma più interessanti. In questi giorni, leggendo alcuni fogli dimenticati in fondo ad un cassetto, ripensavo al mio passato e cercavo tra me e me una parola che mi definisse e, per quanto banale, l’unica che sembrava calzare a pennello era “eccentrico”, non comune, forse un po’ come i miei vini. In ogni modo, nonostante il fatto che io non sia né enologo, né agronomo, so di avere molti argomenti con i quali affrontare un’aperta chiacchierata con chi è più addentrato di me in questo mondo; potrei parlare delle proprietà cardiotoniche o di quelle antiossidanti, potrei disquisire sulle caratteristiche che contraddistinguono un vino toscano, piemontese o siciliano, potrei motivare le varianti che intervengono e interagiscono nel modificare il processo chimico che la fermentazione innesca, ma preferisco rimanere un semplice appassionato, un giovane innamorato delle percezioni sensoriali che un buon bicchiere di vino sa ancora suscitarmi. Con questo attento distacco seguo l’impegno dei miei figli, osservo attentamente come affrontano le difficoltà e come le risolvono, godendo, quando riesco a stappare nei più famosi ristoranti di Milano o di Parigi una bottiglia del vino che loro producono, gratificato dell’attenzione che ad essi è riservata. Credo che l’aspetto positivo, in tutto ciò, sia il fatto che non si sono lasciati prendere la mano dal mercato e dal grande interesse che è scoppiato in questi ultimi anni intorno al vino, scegliendo di rimanere dei semplici artigiani che realizzano le loro opere più per puro soddisfacimento personale che per un ipotetico ritorno economico, dedicando il loro impegno a chi sa realmente apprezzarlo. Osservandoli, noto che stanno mettendo il cuore e l’anima in tutto quello che fanno, sempre con il nostro stile e con la voglia di promuovere vini originali, andando avanti seguendo la passione piuttosto che il soddisfacimento del mercato. Per arrivare ai risultati odierni sono passati quasi vent’anni, provando e riprovando diversi tipi di vinificazione e di legni, e i risultati di tutte queste esperienze ci hanno spinto su una strada ben delineata, percepibile immediatamente da chi assaggia i nostri vini. Credo che quando si seguono spirito e sentimento riversandoli in ciò che si fa, allora si rimane giovani e vivi. Del resto io ne sono l’esempio, e alla mia età devo ammettere che sono stati gli svariati interessi che ho avuto nella vita, a mantenermi così, ancora cocciutamente voglioso di appassionarmi a tutto ciò che faccio e a quello che ancora ho da fare: e ne ho di cose da fare! Il futuro del vino di “Poderi Bertelli” se lo giocheranno i miei figli, ma non perché mi reputi “vecchio” per queste cose, ma perché io ho le mie passioni e una gamma di interessi enormi da seguire e non ho molto tempo per pensare al mercato, ai distributori o agli agenti. Lascio volentieri a loro questo compito, come del resto ho sempre fatto, preferendo, a quest’età, approfondire i miei hobbies, oltre che il mio lavoro, senza perdere quel tocco di eccentricità che ormai, credo, non mi abbandonerà mai.
Altri vini I Bianchi: Piemonte Chardonnay DOC Giarone (Chardonnay 100%) Monferrato Bianco DOC I Fossaretti (Sauvignon 100%)
St. Marsan Vino Bianco da Tavola
I Rossi: St. Marsan Vino Rosso da Tavola (Syrah 100%) Monferrato Rosso DOC I Fossaretti (Cabernet Sauvignon 100%) Monferrato Rosso DOC Mon Mayor (Nebbiolo 80%, Cabernet Sauvignon 20%) Monferrato Rosso DOC M B (Merlot 100%)
Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Roussanne e Marsanne provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località San Carlo nel comune di Costigliole d’Asti, le cui viti hanno un’età di 25 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti si trovano in una zona collinare su terreni calcarei con forte presenza di argille ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Marsanne 60%, Roussanne 40% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 3000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla metà di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e al mosto ottenuto viene fatta svolgere una prima decantazione statica alla temperatura controllata di 14°C prima di dare avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 20-25 giorni alla temperatura di 16-18°C in barrique di rovere francese di Allier per il 50% nuove e per il 50% di secondo passaggio in cui svolge anche la fermentazione malolattica e dove rimane 12 mesi durante i quali vengono effettuati frequenti bâtonnage. Dopo questa maturazione si effettua quindi l’assemblaggio delle varie partite e, dopo una leggera filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 2500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino intenso con riflessi dorati e con profumi complessi di miele, pesche a pasta gialla e sentori tropicali di ananas a cui si aggiungono note floreali di acacia e gelsomino. In bocca ha un’entratura dolce, elegante, piena, importante, con un’acidità che conferisce freschezza e persistenza; chiude con vellutate nuances di petali di rosa e con piacevolissime note tostate. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1989 - 1990 - 1995 - 1996 1998 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal Marchese Filippo Asinari di St. Marsan, che introdusse i vitigni che compongono il vino su questo territorio, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Bertelli da cinque generazioni e condotta oggi dal professor Aldo e dalla figlia Elisabetta, si estende su una superficie complessiva di 20 Ha, di cui 15 vitati e 5 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge la funzione di agronomo e di enologo lo stesso Aldo Bertelli.
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PODERI ALDO CONTERNO
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Giacomo Conterno
Devo dire che di solito la “bomba” esplode... È così in tutte le degustazioni a cui ho partecipato, dove c’è sempre il grande vino che riesce a stupire e a prendersi l’attenzione del panel dei degustatori. Poi, alla sera, le cose cambiano, e, ritrovandosi intorno a un tavolo per la cena, si scopre che il vino richiesto dalla maggior parte dei commensali non è mai quello che era stato giudicato una “bomba”, che nel frattempo si è già spento, ma altri che invece erano stati accantonati troppo velocemente ed etichettati come troppo ermetici o, peggio ancora, poco maturi. Così succede che le idee si confondono, i primi giudizi sono ridimensionati e le certezze iniziali si trasformano in dubbi. Io, invece, ho idee precise su come deve essere il mio vino e di queste mie certezze devo ringraziare la storia della mia famiglia, che affonda le sue radici nelle cinque generazioni di vignaioli che mi hanno preceduto, la lungimiranza dei miei genitori e quelle poche esperienze che ho vissuto fino ad oggi. Il mio principale obiettivo non è mai stato fare il vino più buono del mondo; ho sempre desiderato, invece, fare un vino comprensibile, semplice nel suo insieme, capace di invogliare ad essere bevuto, ma a cui doveva essere concessa l’opportunità e dato il giusto tempo per aprirsi, come il tempo che si concede alle cose belle e importanti. Non mi è mai interessato fare dei vini che siano solo belli, colorati o quei vini che io chiamo Coca Cola: ho sempre desiderato invece fare un vino che fosse un “chiacchierone”, capace di rac-
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contare la sua annata di riferimento e di saper descrivere tutto quello che è stato fatto nella vigna e svolto in cantina. Un ambasciatore perfetto di questo terroir, capace di comunicare il mio saper fare o magari di rievocare, a un attento enoturista, i ricordi di un viaggio fatto qualche tempo prima in queste stupende Langhe. Chi conosce il mio vino sa che non potrà mai aprirsi e donarsi immediatamente e, del resto, se è figlio di questa terra, è altrettanto logico che anch’esso abbia i difetti e i pregi di queste Langhe, così da risultare all’inizio chiuso, introverso e riservato, prima di concedersi con un’innata schiettezza e un equilibrato calore. Così sono le Langhe, che non saranno forse il luogo più bello del mondo, ma è sicuramente quello in cui io voglio vivere. È qui che mi sento in simbiosi con le mie radici, con la mia terra, con le mie vigne, dove passo gran parte del mio tempo scoprendo intorno a me, ad ogni cambio di stagione, nuove percezioni sensoriali che non si comprendono leggendo un libro, né navigando su internet, ma solo vivendo a stretto contatto con questa terra; ed è quello che io faccio, giorno dopo giorno, felice di stare qui e non sentendo assolutamente il desiderio di muovermi, circondato come sono da tutto ciò che desidero. Del resto, perché dovrei allontanarmi? Ho la fortuna di svolgere un lavoro che mi piace tantissimo e che mi dà l’opportunità di essere vero, schietto e onesto con me stesso. Un lavoro che mi ha concesso l’opportunità sia di crearmi degli affetti e una mia famiglia, sia l’occasione di consolidare, con una connivenza lavorativa, anche tutti gli altri rapporti familiari. In ogni modo, il piacere principale sta nel constatare che tutto qui ha una sua logica e un suo schema consolidato; tutto ha una sua lettura precisa e profonda che infonde sicurezza e a cui non voglio rinunciare. Uno splendido sistema territorio-famiglia-azienda che è diventato un punto di riferimento e un approdo sicuro al quale mi piace attraccare, scoprendo, ogni volta di più, quanto siano profonde le radici che mi legano a queste Langhe. Infatti sono ancora molto giovane e ho ancora tanta di strada da fare, ma ho la consapevolezza e la prova che proprio in questo ambiente sto trovando elementi importanti che mi aiutano a percorrerla. Vivendo a stretto contatto con questo mondo rustico, ogni giorno scopro valori umani unici e la lungimiranza e la grandissima intelligenza dell’ambiente contadino, da sempre predisposto all’accettazione delle tristezze o delle gioie della vita. Vivendo qui ho compreso il significato della fede, quella che risponde a esigenze diverse per ognuno, quella consolidata e ben radicata nello spirito di ogni contadino di questa terra; una fede a cui essi si aggrappano, in silenzio, nei momenti difficili e che dà la forza di rimboccarsi le mani e andare avanti. Avrei anche altre importanti motivazioni da raccontare, che hanno cementato il mio rapporto con questa terra, ma la mia natura piemontese non mi consente di esprimerle con la naturalezza che meriterebbero; del resto, imparando dagli stessi contadini, ho compreso il valore di certi silenzi e il peso da dare alle parole e poi, in definitiva, io sono un “figlio” della Langa, che ha deciso di fare il contadino conducendo una vita che forse a molti potrebbe apparire monotona, ma che a me piace da matti…
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC Bussiador (Chardonnay 100%) I Rossi: Barolo DOCG Granbussia Riserva (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Colonnello (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Bussia (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Conca Tre Pile (Barbera 100%) Langhe Rosso DOC Quartetto (Nebbiolo 40%, Merlot 25%, Cabernet Sauvignon 25%, Barbera 10%)
Cicala Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, posti sulla collina denominata Cicala, in località Bussia nel comune di Monforte d’Alba, i quali hanno un’età media di 45 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argilloso-calcarei con una buona presenza di magnesio e manganese, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 380 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla seconda settimana di ottobre alla prima settimana di novembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 21 giorni ad una temperatura che non supera mai i 28°C in recipienti di acciaio inox, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura invece soltanto 14 giorni con l’ausilio di frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene lasciato decantare nei contenitori d’acciaio per due settimane, dopo di che viene travasato in botti di Slavonia da 30 e 50 hl dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 24 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 8000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore granato e con note speziate di pepe bianco, filo di liquirizia e note tostate che si evidenziano immediatamente, ma che via via lasciano spazio a sentori di ciliegia e mirtilli. In bocca risulta immediatamente elegante, delineando la sua grande struttura che si evidenzia ancora di più attraverso tannini morbidi e vellutati che insieme ad una bella sapidità lo rendono lungo e persistente. Prima annata: 1971 Le migliori annate: 1971 - 1974 - 1978 - 1982 - 1985 1989 - 1990 - 1996 - 1999 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dalla collina dove è posto il vigneto, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Conterno dal 1967, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 30 Ha, di cui 25 vitati e 5 occupati da prati, boschi e seminativi. Collabora in azienda l’agronomo Edoardo Monticelli, mentre le funzioni di enologo sono svolte da Stefano Conterno.
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PODERI LUIGI EINAUDI
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Matteo Sardagna
Se dovessi trovare un termine o uno pseudonimo capaci di esprimere il concetto, la filosofia, i principi che guidano, identificano e regolano il divenire di questa azienda, sicuramente affermerei che tutto si racchiude in una semplice parola: famiglia. In queste poche sillabe c’è un mondo, un gruppo di persone vario, eterogeneo, complesso, ognuno con una grande personalità, ferrei principi e serietà; in questa parola c’è la continuità, la mia memoria storica e la condivisione dei valori che questo territorio piemontese sa trasmettere. Se è vero che gli uomini sono imprescindibilmente legati alla loro terra d’origine che, insieme all’aria, al vento e all’acqua li ha plasmati, allora è altrettanto vero che sono state queste Langhe a plasmare e a dare identità, carattere e anima alla famiglia Einaudi. Tutto parte da Dogliani e tutto in definitiva ritorna qui, con un legame inscindibile che non si è mai spezzato e che è stato ancor più cementato dalla passione e dall’energia che mio nonno Roberto mi ha trasferito. Vivendo questo territorio sempre più assiduamente, mi rendo conto che la sola cosa di cui mi rammarico è di non essere piemontese al 100%, però mi consola il fatto che sento, ogni giorno di più, profondamente scorrere nel mio sangue, mezzo lombardo e mezzo trentino, la discendenza che mi lega, da parte di madre, a questa storica famiglia nella quale il bisnonno, Luigi Einaudi, economista e appassionato bibliofilo, divenne Presidente della Repubblica dal maggio 1948 all’aprile 1955. Io purtroppo, non ho conosciuto il mio grande bisnonno, ma i suoi tre figli sì, nonno
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Roberto, che mi è stato vicino, Giulio, l’editore che viveva a Torino e Mario, professore di economia politica alla Cornell University: tutti e tre uomini di grandissimo livello intellettuale e morale. Piemontesi purosangue nati a Dogliani, figli quindi di queste Langhe, di questa terra tanto cara a Fenoglio e a Pavese. Piemontesi, figli di quel Piemonte che uno si porta dentro per sempre, asciutto, scabro, severo, addolcito e mitigato dal particolare carattere che la Langa infonde agli uomini di queste fortunate colline. Sì, mi rammarica un po’ non poter dire di essere piemontese e mi sento un po’ ridicolo, quando provo a parlare questo dialetto che, pur comprendendo, non sento completamente mio. Sfumature che ti fanno sentire parte di un sistema, ti danno identità; sfumature che devi conoscere nelle loro mille sfaccettature, parole che devi interpretare e aver masticato fin da subito, magari giocando in un cortile o seduto sui banchi di scuola, oppure al caffè del paese discutendo con gli amici o magari borbottando tra le vigne con i contadini, come avranno fatto chissà quante volte il mio bisnonno e mio nonno Roberto. Al principio non è certo stata questa “mancanza dialettale” a spaventarmi, bensì l’inserimento a pieno titolo in una realtà permeata ancora fortemente dall’esempio di Luigi Einaudi, che si è trasmesso incredibilmente come una matrice in molti Einaudi che si sono distinti nei più diversi campi, con quel rigore e quella serietà che ancora oggi si respira nella vecchia casa di San Giacomo. Per un certo periodo ho creduto che il mio compito di vignaiolo, inserito in questa catena dove ognuno degli Einaudi rappresenta un anello nella storia della famiglia, fosse poca cosa rispetto all’essere Presidente della Repubblica, grande editore, musicista, fisico o ambasciatore come lo erano quelli che mi avevano preceduto. Se ci penso, posso assicurare che, ieri come oggi, il confronto non è facile, anche se ho accettato il fatto che non possiamo essere tutti dei “fenomeni”: ognuno ha la sua strada da percorrere. L’importante, mi sono detto, non è cercare di assomigliare a qualcuno, ma essere sempre me stesso. Scelta fondamentale, soprattutto per uno come me che non ha sempre saputo trasferire i pensieri in parole, che fino a poco tempo addietro, per troppa curiosità, metteva in piedi tante cose e ne terminava poche e che nella sua vita ha sempre voluto frugare in ogni dove, vedere, capire e assaporare tutto ciò che lo circonda per poter godere delle sensazioni che il “bello”, che si racchiude in ogni cosa, sa trasferire all’attento osservatore: si parli di lavoro, di un quadro o di un mobile antico, si guardi una donna o si degusti un vino. Questo mio modo personale di interpretare la vita ha creato, indubbiamente, un distinguo fra me e quel rigore tipico degli altri Einaudi, nel quale ho trovato la mia dimensione. Quando ero studente e dovevo imparare un argomento, mi ritrovavo il più delle volte ad andare oltre, ad approfondirne altri affini, vicini o paralleli a quello principale, arrivando, alla fine, a costruire un programma di studio tutto mio. Adesso so perché studiavo sempre qualcos’altro: cercavo risposte per questa mia continua, inquieta e curiosa ricerca che solo adesso ha trovato certezze, in questa famiglia che mi ha consentito di riannodare i fili della mia esistenza. Sicurezze che si acquisiscono con il tempo e che ora mi fanno sentire un fondamentale anello di congiunzione fra queste terre, queste vigne, questa cantina e gli Einaudi. È con questo spirito che ho deciso di venire a vivere a Dogliani, rimettendo a posto, con l’aiuto di mia madre, molte cascine, costruendo una cantina nuova, accorgendomi che via via, più il tempo passa e più riesco ad entrare in simbiosi con questa terra, con le viti, con l’uva ancora sulla pianta, con le stagioni, con l’aria, con il vento e i profumi di queste Langhe, sentendomi un po’ più piemontese e un po’ più vicino a quei grandi personaggi.
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC Vigna Meira (Pinot Grigio 100%) I Rossi: Barolo DOCG Costa Grimaldi (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Cannubi (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG (Nebbiolo 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%) Dolcetto di Dogliani DOC Vigna Tecc (Dolcetto 100%)
Luigi Einaudi Langhe Rosso DOC Zona di produzione: il vino è un blend prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Nebbiolo, Merlot e Barbera provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località San Giacomo e San Luigi nei comuni di Dogliani e Barolo che hanno viti di un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni marnosi, argillosi e calcarei, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 360 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 35%, Nebbiolo 35%, Merlot 18%, Barbera 12% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che si svolge, a seconda della maturazione dei vari vitigni, dal 20 settembre al 15 ottobre, si procede separatamente alla diraspapigiatura delle uve e i pigiati ottenuti sono sottoposti ad una macerazione a freddo per 28 ore alla temperatura di 12°C, dopo di che sono inseriti singolarmente in tini di acciaio termocondizionati dove si avvia la fermentazione alcolica che si protrae, a seconda della tipologia delle uve, dagli 8 ai 14 giorni, alla temperatura di 32°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale sono praticati frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase e dopo una breve pulizia, ai vini viene fatta iniziare la fermentazione malolattica in acciaio e dopo il suo avvio gli stessi sono messi in barrique di rovere francese a grana fine di media tostatura di primo e secondo passaggio, dove rimangono per circa 18 mesi durante i quali vengono praticati almeno 4 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo circa 2 mesi il blend ottenuto, senza alcuna filtrazione, viene imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 8000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi violacei e con profumi complessi di cioccolato, frutti rossi maturi, ribes e prugna cotta. In bocca è caldo, potente, equilibrato, con tannini dolci ed eleganti e una sapidità evidente che lo rendono gustoso e bevibile; lungo e persistente, ha un finale piacevolmente speziato. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997 - 1998 - 1999 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dall’ex Presidente della Repubblica Luigi Einaudi ed è stato presentato per il centenario della cantina, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Paola e Roberta Einaudi dal 1992, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 125 Ha, di cui 46 vitati e 79 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Giampiero Romana e l’enologo Giuseppe Caviola.
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Carlo e Lorenzo Revello
Non so se sia meglio considerarsi contadino o vignaiolo. Non mi sono mai posto questa domanda. Potrei definirmi più un vignaiolo, uno che ama stare all’aria aperta, in mezzo alle sue vigne, senza che nessuno mi controlli o verifichi quante ore faccio, come invece succedeva quando lavoravo come tornitore, lasciando magari che il tempo mi scivoli addosso e le stagioni si accavallino, una sull’altra, nell’attesa della prossima vendemmia. Sarà la mia natura estroversa, ma preferisco stare fra la terra e le nuvole, avendo sempre davanti a me, come pareti, questi stupendi fondali delle Langhe, proprio quelli che da La Morra scendono all’Annunziata e risalgono fino al castello di Castiglione Falletto. Solo quando mi rifugio fra queste vigne, lasciando scorrere lo sguardo nella vallata, mi rendo conto del tempo che è passato da quando, ragazzo, girovagavo con mio fratello fra queste campagne. Allora il paesaggio era un po’ diverso e il territorio, pur essendo a spiccata vocazione vitivinicola, comprendeva, oltre alle vigne, alberi da frutta, noccioleti e un po’ di campi seminati a granturco e grano; oggi, invece, è un continuo susseguirsi di filari di viti che, con la loro presenza, hanno mutato il paesaggio dei luoghi della mia infanzia. Del resto, anche noi abbiamo contribuito a modificare in parte quest’ambiente con la nostra breve, ma intensa, storia di nuovi vignaioli delle Langhe che è cominciata non molti anni fa, nel 1995, per merito di Elio Altare, proprio nel giorno che andammo ad aiutarlo a piantare dei pali in una sua vigna, che aveva appena preso nella zona delle Brunate. Tornando a casa, dopo una giornata di lavoro, ci fermammo a un bar, credo fosse il
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Vin Bar, a chiacchierare del più e del meno, e ricordo che fu in quell’occasione che Elio ci confermò la sua disponibilità ad aiutarci a modificare, nell’eventualità l’avessimo desiderato, il nostro approccio nei confronti della viticoltura, che era finalizzata alla vendita delle uve e alla produzione di un po’ di vino, magari ricercando un rapporto più qualificante fra ciò che producevamo e i risultati economici che ottenevamo. Ci disse: “Avete una posizione eccezionale, siete giovani, se avete voglia vi do una mano”. Rammento che le sue parole ci entusiasmarono, sapevamo di poter contare su una professionalità indiscussa che aveva già valicato i confini nazionali. Fu così che, di li a poco, Elio si mise a nostra disposizione e, gratuitamente, ci insegnò tutto quello che era necessario conoscere per consentire ai nostri vini di effettuare quel salto qualitativo che abbiamo poi compiuto. Ci siamo adoperati, impegnati, sacrificati, seguendo alla lettera quel pozzo d’esperienza che è Elio, il quale ci mise su un piatto d’argento tutto il suo saper fare, tracciandoci una strada che, se avviata da soli, avrebbe richiesto, come minimo, il doppio del tempo in cui, invece, l’abbiamo percorsa: un regalo grandissimo, dal valore incalcolabile, difficile da ricambiare. Sicuramente siamo stati fortunati, anche se è necessario ricordare sempre i primi anni, che sono stati molto duri, anni in cui abbiamo acquistato nuovi vigneti, modificato quelli già in nostro possesso, passando dai 4 ettari vitati del 1990 agli 11 attuali, e contemporaneamente attrezzando tutta la cantina. Momenti in cui io e mio fratello ci siamo confrontati e compensati, dando ognuno di noi il meglio di se stesso, e portando all’interno di questo progetto le nostre peculiari caratteristiche; chi, come me, i propri sogni e la sua creatività, chi, invece, come Carlo, la sua capacità organizzativa, la sua meticolosità e la sua scrupolosità amministrativa. Ognuno arricchito dalle sue passate esperienze; Carlo da quella di cuoco, io da quella di disegnatore meccanico. Del resto siamo cresciuti insieme e da sempre dividiamo le responsabilità, le scelte e i successi, confrontandoci spesso sul futuro di quest’azienda. Infatti, era già da diverso tempo che tenevamo sotto controllo il grande movimento che si era venuto a creare intorno al mondo del vino, il quale, sicuramente, avrebbe coinvolto anche questa nostra zona che, certamente, di lì a poco, era destinata ad esplodere. Tutto faceva supporre che il mercato del vino delle Langhe cominciasse a correre spedito e fu per questo che decidemmo non solo di accettare di buon grado quell’aiuto, ma aprimmo, per agevolare il flusso economico necessario a sostenere gli investimenti che nel frattempo facevamo in cantina e nelle vigne, un agriturismo con annesso un ristorante, nel quale mia madre e mio fratello lavoravano in cucina, mentre io aiutavo in sala. Il nostro ingresso nel movimento enologico di quest’area coincise inoltre con l’ingresso stesso delle barrique nella metodologia di vinificazione del Barolo; fino a quel momento esse erano “proibite”, e il fatto determinò una nostra presa di posizione in quella direzione che ci pose, come tanti altri, in contrapposizione con chi sosteneva la perdita d’identità di quel vino riconosciuta e consolidata a livello internazionale. Da allora sono passati anni e la questione tecnica è superata e la diatriba, tra innovatori e tradizionalisti, accantonata ed è con piacere che oggi constatiamo che si è instaurato un buon rapporto con i colleghi viticoltori. Ci siamo resi conto che uniti è possibile avere informazioni più rapide, verificare in tempi reali l’andamento della vendemmia e le soluzioni più adatte da applicare ad essa, ed è possibile confrontarci e migliorare anche quelle poche tecniche di comunicazione che approntiamo artigianalmente nei confronti del mercato, sia di quello esterno, sia di quello che si muove sempre più numeroso su queste nostre strade. Abbiamo compreso che da come impareremo a comunicare dipenderà il nostro futuro e per questo è necessario un radicale cambiamento di mentalità da parte di tutti: ognuno dovrà cercare di abbandonare le proprie paure, aprirsi e avere più fiducia negli altri. Noi crediamo che tutto questo sia possibile e pensiamo ottimisticamente che il futuro sarà roseo per queste Langhe, dove ora si comincia a stare davvero bene.
Altri vini Barolo DOCG Vigna Conca (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Vigna Gattera (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Rocche dell’Annunziata (Nebbiolo 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Ciabot du Re (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%)
Vigna Giachini Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo posto in località Annunziata, nel comune di La Morra, le cui viti hanno un’età media di 50 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-argillosi, è posizionato ad un’altitudine di circa 240 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto viene immesso nel roto-maceratore dove si avvia la fermentazione alcolica che si protrae per 4 giorni alla temperatura di 30-32°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura soltanto 4 giorni durante i quali si effettuano anche due o tre rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in tini di acciaio dove termina la fermentazione alcolica e in cui effettua una prima decantazione al termine della quale è immesso in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura per la metà di primo passaggio; qui svolge la fermentazione malolattica e rimane per circa 24 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e il vino è posto ad affinare per 4-5 mesi in un tino di acciaio prima di essere imbottigliato, senza alcuna filtrazione, per un ulteriore affinamento che dura altri 8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 4800 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino e con profumi complessi di marasca, ribes nero e ginepro, con una piacevole percezione di crostata di ciliegie, caramella mou e note speziate di liquirizia che si aprono via via a note di tabacco e mallo di noce. In bocca ha un’entratura pulita, elegante e con tannini ben presenti; lungo e persistente, ha un finale che ricorda molto il bastoncino della liquirizia. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1997 - 1999 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà di Carlo e Lorenzo Revello dal 1990, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 13 Ha, di cui 11 vitati e 2 occupati da seminativi. Svolgono la funzione di agronomo ed enologo gli stessi fratelli Revello con la supervisione dell’enologo Beppe Caviola.
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RINALDI GIUSEPPE
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Giuseppe Rinaldi
Troppe pagine bianche da riempire per un libro ancora da scrivere. Forse ero ottimista, quando decisi di pormi davanti a questi fogli e iniziare a narrare la mia vita, come se tutto fosse facile e potessi controllare quella confusione che albergava nella mia mente e trasformare i miei pensieri in parole. Una semplice illusione, poichÊ davanti al bianco candido e immacolato di quei fogli la mia mente si spegneva e tutto ciò che avevo appena pensato spariva o si fermava sulla punta della penna. Confusione di visi, che si sovrapponevano ad altri visi, confusione di desideri, di rimpianti e di speranze, di luoghi sperduti nella memoria, dove speravo di andare, ma che sono rimasti cartoline alle quali il tempo, beffardo, continua a togliere il colore e, anno dopo anno, le vedo sempre meno nitide. Fogli sui quali scrivere i ricordi di una giovinezza trascorsa a scalare montagne: ora il Monviso, ora il Monte Rosa, in un arcobaleno di nomi che mi hanno aperto le porte di allettanti e appassionanti storie da poter raccontare. Ricordi di una vita intensa, trascorsa in campagna, saggiando i suoi piÚ diversi aspetti: dal vino, tra i cui odori sono cresciuto, agli animali, per curare i quali mi sono laureato; aspetti diversi ma complementari di una stessa vita, trascorsa con i piedi ben piantati per terra e gli occhi rivolti al cielo, a contatto di una natura vissuta a tutto tondo, accanto ad un padre rigido e austero, ma che tuttavia mi ha sempre lasciato libero di scegliere la mia strada senza mai forzarmi, convinto, suppongo, che avrei fatto la cosa giusta. Adesso che rifletto e ti racconto questi fuggevoli ricordi che passano nella mia mente come lievi nubi nel cielo d’estate, mi rendo conto che questi fogli iniziano a ravvivarsi di parole che non avrei
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mai creduto di poter scrivere e tutto mi sembra assumere la giusta posizione nel puzzle della mia vita. Del resto, se ne avessi il tempo, avrei tante cose da raccontare, dato che appartengo a una generazione complessa, passata attraverso un momento storico di grandi ideali e stravolgimenti che hanno messo in dubbio tutto, anche i modi di interpretare la campagna e l’agricoltura. Una generazione che si è portata sulle spalle, con fatica, il fardello delle vecchie generazioni, cercando di alleggerirlo e scaricando ogni tanto quel fagotto dalle certezze e dalle sicurezze che vi erano racchiuse dentro, per poi ricredersi e tornare indietro a ricercarle. Ricordo ancora il grigiore e l’indigenza del dopoguerra, il boom economico, le lotte studentesche, il periodo goliardico dell’Università a Torino e tutti quei momenti di forti contrasti socio-politici tra gli anni ‘60 e ‘70. Momenti di grande crescita individuale che mi hanno condotto, insieme a mio fratello Paolo, una volta terminati gli studi, a comprendere meglio l’importanza di ciò che aveva fatto nostro padre e a decidere, serenamente, di continuare l’attività di famiglia, legandoci a questo territorio e al vino. Mio padre diceva sempre che il Barolo è un vino a cui vale la pena dedicarsi; prestandosi all’invecchiamento, manifesta con il tempo un bouquet di profumi e un gusto nobili, capaci di mantenere caratteri personali e unici, proprio come i ricordi, le memorie e quelle sensazioni che sono relegate nel profondo di ognuno di noi, e che, se fatte riaffiorare, ci danno il senso della nostra appartenenza. Da mio padre, già enologo, Sindaco e Presidente dell’Enoteca Regionale del Barolo, ho cercato di imparare quali fossero i segreti di questo territorio e quali le tecniche migliori per esaltare i vini che da esso provengono e anch’io mi sono impegnato pubblicamente nella tutela e nella salvaguardia di questi luoghi. Man mano che gli anni si sommavano ad altri anni ho scoperto di avere un carattere introverso e bizzarro, né da burocrate, né da politico, né da imprenditore. Del resto, mi sono sempre ritenuto un discreto artigiano del vino, un contadino che fa il suo vino perché è ciò che ha scelto di fare e lo fa nel modo che ritiene giusto e che gli riesce meglio. Vorrei avere il controllo di tutto il ciclo produttivo, dalla vigna alla bottiglia, pur rendendomi conto che ciò comporta sacrifici ed è, forse, sbagliato, ma mi pesa delegare e se c’è da pulire una botte voglio pulirla io, voglio entrarci dentro e renderla candida come dico io, ed è così che ragiono per tutte le altre cose che, quotidianamente, è necessario fare in una azienda familiare come la mia. È il mio carattere, anche se mi rendo conto che tutto ciò condiziona, poiché un’attività come questa, se ci si dedica come è giusto che sia, ti lascia poco spazio per altre cose. So che il mio è un modo controverso e contraddittorio di affrontare la vita, con un occhio proiettato al dilettantismo e un altro all’eclettismo, uno aperto sul mondo e sulle sue molteplici prospettive, l’altro cocciutamente e stoicamente ancorato a questo mio lavoro. Quella attuale è una fase molto impegnativa per la nostra realtà aziendale che, nell’arco di pochi anni, nonostante le piccole dimensioni, è diventata meta di molti turisti, di gente che arriva da ogni parte del mondo per vedere la cantina o per assaggiare il vino e non è facile rifiutare tutto questo, vivendo sentimenti contrastanti tra felicità e misantropia. Non nego che mi piacerebbe “andar per Langa” con le mie figlie, dedicarmi alla lettura, coltivare la passione della fotografia o semplicemente andare in giro per il mondo a vedere delle mostre d’arte, a Torino piuttosto che a New York, ma c’è una quotidianità da dover affrontare, anche se tutto questo può sembrare ripetitivo per uno spirito libero. Vedo che il tempo che mi rimane è sempre meno e le cose che devo ancora fare sono tante, ma sono fiducioso e aspetto che un giorno le mie figlie Marta e Carlotta scendano in cantina e si “dichiarino” a Bacco, così da poter ricominciare a preparare le borse e a girare, con la mia vecchia moto, l’Europa del vino. Ti vedo assorto, amico scrittore, mentre ancora mi ascolti parlare senza mai interrompermi, e sorrido, ringraziandoti nella mia mente, poiché, silente, mi hai sostenuto e ora ho la certezza che questi fogli bianchi sarebbero ben pochi per tutto ciò che dovrei scrivervi.
Brunate Le Coste Barolo DOCG
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Cannubi San Lorenzo Ravera (Nebbiolo 100%) Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%)
Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Le Coste e Le Brunate, nel comune di Barolo, le cui viti hanno un’età di 25 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti che si trovano in una zona collinare su terreni marnosi, con fronti tufacei o con una struttura argillosa ricca di silicio, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot modificata ad archetto Densità di impianto: 3500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a metà ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 10 giorni ad una temperatura che non supera mai i 32°C in tini troncoconici di rovere locale, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 15-20 giorni durante i quali si effettuano manualmente follature e rimontaggi giornalieri. Dopo la vinificazione, il vino viene posto in tini di acciaio dove subisce 2 travasi prima di essere conservato in botti di rovere di Slavonia da 35 Hl dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane circa 36 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati almeno altri 3-4 travasi. Terminata questa fase di maturazione, avviene l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi aranciati, mentre all’esame olfattivo offre profumi ampi, pieni, dolci, con eleganti note fruttate di ciliegia che lasciano poi spazio a percezioni di nocciola, tabacco, liquirizia e cacao con un finale vegetale. In bocca ha un’entratura pulita, calda, con tannini rotondi e una bella sapidità, tutti elementi che conferiscono al vino notevole freschezza e lunghezza. Prima annata: 1916 Le migliori annate: 1961 - 1970 - 1982 - 1985 - 1988 1989 - 1990 - 1995 - 1996 - 1998 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dai vigneti in cui viene prodotto, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Rinaldi dal 1916, l’azienda agricola oggi è condotta da Giuseppe Rinaldi e si estende su una superficie complessiva di 10 Ha, di cui 6,5 vitati e i restanti occupati da boschi e noccioleti. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Giuseppe Rinaldi.
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ROCCA BRUNO - RABAJÀ
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Bruno Rocca
Ricordo benissimo che, quando venimmo ad abitare in questa casa di campagna, a Rabajà, non avevamo neanche la luce elettrica. La mia famiglia aveva la necessità di allargare la propria attività agricola e a Barbaresco, dove io ero nato, ciò non era possibile, in quanto le case erano troppo a ridosso l’una dell’altra e gli spazi disponibili non erano sufficienti per raggiungere gli obiettivi che mio padre Francesco si era prefissato di ottenere. Devi sapere che all’epoca, per chi faceva il contadino il lusso maggiore era quello di avere la cucina comunicante con la stalla e in quel borgo medioevale questo non era possibile, e così, quando si presentò l’occasione di comprare questa azienda, mio padre non se la lasciò sfuggire. Tutto avvenne nel ‘58, quando io avevo appena sette anni, e ti confesso che, all’inizio, soffrii molto quel trasferimento che mi allontanava sia dai luoghi della mia fanciullezza, trascorsa fra quelle stradine di paese intorno alla torre di Barbaresco, sia dai miei amici che erano rimasti là. Essendo figlio unico, spesse volte mi ritrovavo a giocare da solo, avendo come unica compagnia un padre e una madre già anziani. Era una solitudine che mi pesava e che, in qualche modo, deve aver contribuito a forgiarmi il carattere che è sempre stato un po’ chiuso e restìo a parlare di me stesso, conducendomi, nel tempo, a invidiare chi aveva avuto la fortuna di condividere la propria vita con un fratello, dal quale io, sicuramente, non avrei mai avuto il coraggio di separarmi o con cui non avrei discusso di venali problemi di soldi o di eredità, come succede spesso. Comunque, la cosa che più mi affascinava di quella casa era il lume a petrolio che dovevamo usare per illuminare le serate, il quale riusciva a modificare le cose, esaltare le
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ombre e i volti delle persone, oltre a creare atmosfere uniche e di grande fascino che ancora oggi ricordo nitidamente. Era splendido soprattutto quando andavamo a dormire, si appoggiava il lume sul comodino, si tirava su la cupola di vetro, si soffiava e... puff!, tutto veniva avvolto dal silenzio che, per un bambino come ero io, si riempiva di rumori che mi facevano trasalire e un po’ impaurire; era un mondo fiabesco, stracolmo di mezzi toni rischiarati solo da quella flebile luce, che spariva improvvisamente e, una volta spenta, mi riportava davanti alle mie paure, da cui mi nascondevo sotto le coperte. L’anno dopo arrivò la luce e tutto cambiò radicalmente. La cascina prese una nuova dimensione, gli elettrodomestici entrarono nella nostra vita quotidiana e, con quel chiarore, anche le dimensioni delle cose inspiegabilmente mutarono, la cucina e la stalla divennero più grandi e anche il cortile della casa, che fino a poco tempo prima era stato abitato da troppe ombre, smise di farmi paura. Con l’arrivo della luce finì anche il mio mondo di bambino e quello fu il mio primo grande click al quale, nella mia vita, ne seguirono altri che, sotto forma di lampi di un’idea o di uno scatto improvviso, in qualche modo contribuirono a dare delle risposte precise ai miei perché. Domande che incominciarono a sorgere sempre più frequentemente, come quando dovetti prendere in mano le redini dell’azienda dopo la morte di mio padre, che avvenne nel 1978, ma soprattutto quando mi trovai davanti alla decisione di lasciare, nel 1983, il lavoro alla Ferrero. Caratterialmente sono uno a cui è sempre piaciuto avere i piedi ben saldi per terra e non si è mai lasciato trasportare troppo da facili entusiasmi o da voli pindarici verso un futuro incerto; se mai, mi devo riconoscere una grande perseveranza e la cocciutaggine nel perseguire gli obiettivi e quelle idee, nate come illuminazioni da quei click improvvisi che regolarmente si accendevano nella mia testa. Compresi come anche il mondo del vino stava subendo una grande trasformazione e, cautamente, incominciai a fare investimenti in azienda, costruendo il primo pezzo di cantina, comprando qualche vasca e iniziando a domandarmi come doveva essere il mio primo vino. Sicuramente volevo che fosse diverso da tutti gli altri, il più vicino possibile a quello di Gaja, che era sempre il migliore in quelle pochissime degustazioni che a volte riuscivamo ad organizzare, anche se c’era sempre qualcuno che, abituato al proprio vino, criticava l’eleganza e la raffinatezza di quel suo Barbaresco. Ma cosa dovevo fare per riuscire in quei risultati? In giro si sentiva dire spesso che Gaja usasse la barrique e quella parola rimbalzava fra noi produttori come una leggenda metropolitana; era quasi una parola esotica, misteriosa e capace di evocare grandi successi in mercati lontani o sulle prime pagine delle riviste specializzate. Barrique sembrava essere il nome della bacchetta magica del mago Merlino, in grado di trasformare il nostro vino e farci ottenere subito quello che ognuno di noi aveva segretamente in testa. Ironia della sorte, i primi vini che produssi con le tanto sospirate barriques, che ero andato a comprare “clandestinamente” in Francia portandomi nelle mutande i soldi necessari per acquistarle, sapevano di segatura e mi ci vollero diversi anni per capire dove stavo sbagliando. Per capire i tempi e i modi del loro utilizzo occorse un altro click importante nella mia vita, anche perché nessuno in realtà mi aveva insegnato ad usarle e io mi ero guardato bene dal chiederlo, anzi, ritenevo di dover arrivare da solo alla quadratura di quel cerchio, attraverso prove, dubbi e quesiti che dovevo risolvere in solitudine, fra le mura della mia cantina, anche se tutto questo oggi può farmi sembrare sciocco e banale. Quella che avevo ereditato era la classica mentalità contadina che faceva acqua da tutte le parti, fatta di orgoglio, diffidenza e chiusura verso il nuovo. Oggi le cose sono cambiate, vuoi per le sicurezze acquisite, vuoi per i risultati ottenuti e per le gratificazioni che non sono mancate e di questo devo forse ringraziare la mia voglia di pormi spesso la domanda del perché le cose accadano e far sì che le stesse, poi, si realizzino. Se non fosse stato così, forse sarei ancora lì, con il lume in mano, a spengere quella fiammella con un puff… come facevo da bambino.
Altri vini I Bianchi: Langhe DOC Chardonnay Cadet (Chardonnay 100%)
I Rossi: Barbaresco DOCG Coparossa (Nebbiolo 100%) Barbaresco DOCG (Nebbiolo 100%) Langhe Rosso DOC Rabajolo (Cabernet Sauvignon 40%, Nebbiolo 30%, Barbera 30%) Dolcetto d’Alba DOC Vigna Trifolè (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC (Barbera 100%)
Rabajà Barbaresco DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Rabajà, nel comune di Barbaresco, che ha viti con un’età compresa fra i 25 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 320 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 7 giorni alla temperatura di 32°C in rotomaceratori termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati meccanicamente follature e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto per l’80% in barrique nuove di rovere francese a grana fine di lunga tostatura e per il 20% in botti di rovere francese da 25 Hl dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane circa 18 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati 2 travasi. Al termine della maturazione e dopo l’assemblaggio delle varie partite, senza alcuna filtrazione il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 14 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino profondo con riflessi aranciati e con sensazioni olfattive di vaniglia e nocciola, che introducono a un bouquet più complesso che lascia intuire note di liquirizia, caffè, cacao amaro e percezioni fruttate di lamponi, fragole e rose rosse. In bocca ha un’entratura massiccia con tannini ben presenti che insieme a una bella sapidità conferiscono al vino freschezza, notevole lunghezza e decisa persistenza. Chiude con le note fruttate percepite al naso. Prima annata: 1978 Le migliori annate: 1982 - 1988 - 1990 - 1996 - 1997 1999 - 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 18 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Rocca dal 1958, oggi l’azienda è condotta da Bruno e si estende su una superficie complessiva di 15 Ha. Svolge la funzione di agronomo e di enologo lo stesso Bruno Rocca.
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ROCCHE COSTAMAGNA
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Claudia Ferraresi e Alessandro Locatelli
Sai come si chiama questo luogo? Ca dj’ Amis, Casa degli Amici. L’ho voluta chiamare così per sottolineare il mio innato senso di apertura verso il prossimo, la mia personale capacità di sdrammatizzare le cose e di ricercare in esse il loro senso e il loro valore, perché ho sempre desiderato misurare le mie con le altrui esperienze, soprattutto se nuove, importanti, capaci di arricchirmi in un confronto continuo, dinamico e chiedo a te, mio giovane cantastorie, che cosa meglio dell’amicizia riesce a darti tutto questo? Sai, volevo che questa cantina e questa casa non fossero identificate né con un club, né con un salotto culturale, ma con una vera e propria casa aperta a tutti, che sapesse recuperare l’energia dei suoi ospiti e trasferire a essi l’immagine, antica e nuova, di questa terra. All’inizio pensavo che questa mia idea non trovasse un riscontro. Avevo messo alle pareti un’infinità di libri, oggetti di vario genere sparsi un po’ ovunque, quadri e pezzi unici capaci di raccontare queste terre delle Langhe, a me tanto care, sulle quali erano state scritte innumerevoli pagine di romanzi e versi di poesie. Avevo il timore che la gente non si sentisse libera di entrare in una casa privata, ma poi, all’improvviso, due impresari dell’Enel che giravano qua davanti chiesero: “È permesso?”. Lì capii che il gioco dell’intimità e dell’accoglienza su cui avevo scommesso era riuscito. Confesso che in un primo momento avevo pensato di trasformare questo luogo in una mostra permanente dei miei quadri, ma trovai la cosa banale e, ripensando al suo significato, con l’aiuto di qualche amico scrittore, decisi che Ca dj’ Amis doveva
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essere il luogo dove raccontare il Piemonte con i suoi molteplici aspetti, quelli più nascosti, in grado di valorizzare le peculiarità di questa terra che ha molto da evocare, da dire, ma che, paradossalmente, è capace di nascondersi e defilarsi, schiva e taciturna come poche altre, curva sulle fatiche della gente che la vive. Fu così che nel ’75 cominciai a far vivere questa casa in modo poliedrico, alternando mostre di pittura a lunghe chiacchierate con scrittori importanti come Primo Levi, Giovanni Arpino, Gina Lagorio, Piero Angela e Alberto Bevilacqua, solo per citarne alcuni, riuscendo a far diventare questo luogo un punto di richiamo. Ma quest’esperienza bellissima non poteva rimanere isolata, doveva continuare; così, intorno alle altre iniziative culturali, detti vita insieme a un valido gruppo di persone, a un’associazione che iniziò un percorso di più ampio respiro, non solo con proposte puramente letterarie o accademiche, ma anche esplorative del mondo enogastronomico che, di lì a poco, sfociò nella nascita del gruppo de I Ristoranti della Tavolozza. C’è stato un momento in cui molti pensavano che questa casa fosse un centro informazioni dell’Azienda di Promozione Turistica di La Morra, poiché, a chi ne faceva richiesta, prenotavamo alberghi, cercavamo ristoranti, distribuivamo materiale illustrativo che io stessa andavo a ritirare ovunque con l’intento di informare e raccontare la storia della nostra terra. Sono stati momenti meravigliosi, di grande crescita interiore, anni in cui si respirava un grande desiderio di conoscere e di confrontarsi. Un percorso avvincente per me e per mio figlio Alessandro, che è cresciuto respirando questo ambiente che vedeva impegnato anche mio marito Giorgio. Avevamo sempre la porta aperta, cercando di conoscere e approfondire non solo gli agganci, i rimandi, i motivi per cui certe situazioni si erano venute a sviluppare su questo territorio, ma anche le infinite sfaccettature di questo mondo contadino e i valori che a esso appartengono. Ma dopo tanti anni di lavoro e dopo che mi sono data tanto da fare, ho avuto spesso la sensazione che le mie intuizioni fossero eccessivamente anticipatrici e che venissero accettate come atto di fiducia, piuttosto che comprese nel profondo, quanto meno all’inizio, quando questa realtà mi ha fatto anche un poco soffrire. I tempi e gli eventi hanno dato ragione a chi, come me, ha anteposto gli ideali ai percorsi puramente materiali. Forse la ragione di ciò è da ricercare nella mia profonda capacità di identificarmi con questo paesaggio che è stato non solo la molla per tutto il mio lavoro, ma la sua stessa radice. Un paesaggio che mi ha fatto vivere emozioni uniche e irripetibili, oltre a passioni che mi hanno spinto a pregare e a ringraziare questa natura di essere così ampia e perfetta e di regalarmi ogni giorno la felicità di godere della sua bellezza. Secondo te, è ingenuo amare questo infinito che mi circonda e volerlo condividere con tutti? Davanti a tanta infinita magnificenza è impossibile pensare in modo ridotto e circoscritto e questo luogo ti ispira ad andare oltre, lontano, in compagnia di chi, come te, riesce a percepire le tue stesse emozioni, avendo il desiderio di raccontare agli altri l’evocazione fortissima che questa terra trasmette e della quale sento quotidianamente gli umori sotterranei. È per quel suo ampio respiro che ritengo riduttivo pensare al singolare. Io proprio non ci riesco; devo pensare ad un plurale più esteso, capace di esprimere dei segnali che potevano e dovevano essere raccolti anche da questa comunità. Io ho sempre creduto che ognuno di noi può dare un importante contributo e rappresentare un tassello di sviluppo per questa terra, portando con sé la propria tradizione e la propria storia, conscio però del fatto che non tutto ciò che è di un tempo ha valore assoluto. La porta della mia casa è sempre aperta e tutti i giorni saluto e sorrido alle persone che entrano, convinta, come trent’anni fa, che non serva niente di eclatante o di appariscente per esaltare la bellezza di questa terra che ha bisogno solo di imparare una migliore gestione delle sue innumerevoli potenzialità, senza stravolgerle e magari accompagnandole nel futuro in un percorso fatto di professionalità, consapevolezza ed entusiasmo.
Altri vini I Bianchi: Langhe Arneis DOC (Arneis 100%) I Rossi: Langhe Nebbiolo DOC Roccardo (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Bricco Francesco (Nebbiolo 100%) Dolcetto d’Alba DOC Rùbis (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC Annunziata (Barbera 100%) Barbera d’Alba DOC Superiore Rocche delle Rocche (Barbera 100%)
Rocche dell’Annunziata Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto di proprietà dell’azienda, posto nel comune di La Morra in località Rocche dell’Annunziata, con viti di un’età che varia dai 10 ai 25 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni marnosi, calcarei, con una solida struttura tufacea blu, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 325 e i 360 metri s.l.m. con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nelle prime due settimane di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato si avvia alla fermentazione alcolica che dura di solito 12-14 giorni alla temperatura di 28°C in tini di acciaio inox termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae per altri 10-12 giorni, periodo durante il quale vengono effettuati almeno un délestage e diversi rimontaggi al giorno. Terminata questa fase, il vino, dopo un primo travaso, viene lasciato in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica al termine della quale è posto per un 30% in barrique di rovere francese a grana fine di media tostatura di primo e secondo passaggio, mentre il restante 70% è inserito in botti di rovere di Slavonia da 25-30 Hl dove rimane per 24 mesi. Terminata questa fase di maturazione, si effettua l’assemblaggio delle varie partite e dopo una sosta di diversi mesi in acciaio, senza alcuna filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 18000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati, mentre all’esame olfattivo affascina per le percezioni e i profumi che trasmette immediatamente con eleganti note erbacee di rose rosse e geranio e altre fruttate di prugne e mirtilli che lasciano poi spazio a nuances speziate di liquirizia e mentuccia. In bocca ha un’entratura pulita, elegante, con tannini rotondi; di grande struttura, con una sapidità che conferisce al vino bella freschezza e lunghezza notevole. Prima annata: 1970 Le migliori annate: 1978 - 1982 - 1985 - 1989 - 1990 - 1995 1996 - 1997 - 1998 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Costamagna fin dal 1840, è condotta oggi dagli eredi Claudia Ferraresi e dal figlio Alessandro Locatelli e si estende su una superficie complessiva di 14 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Giampiero Romana e l’enologo Beppe Caviola.
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SAN FEREOLO
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Nicoletta Bocca
Sono cresciuta a Milano, in una città da cui sono fuggita per rifugiarmi in queste Langhe, in mezzo alle vigne, a fare vino. Un passaggio, forse una fuga o forse un semplice viaggio, che mi ha portato dal mondo della moda, nel quale lavoravo, verso quello della viticoltura, in cui oggi sono immersa. Scelte importanti, dettate da situazioni dolorose che hanno cambiato il corso della mia esistenza e che sono state compiute per una concomitanza di fattori che hanno interagito fra la mia vita privata e quel mondo del lavoro nel quale, casualmente, mi ero trovata ad operare. Del resto non sono mai stata capace di vivere dimensioni puramente artistiche o puramente filosofiche e, anche se i miei studi universitari mi hanno condotto a un corso di Laurea in Filosofia, trovavo difficoltà a coniugare le mie concrete necessità interiori con il piacere di disquisire accademicamente del pensiero, della conoscenza e dell’agire dell’essere umano. Ho invece constatato che rendo meglio quando ho davanti a me dei limiti e delle direttive, imposte dalla realtà, dalla concretezza e dalla durezza della vita. Limiti di progettazione, di impostazione e di costi che mi stimolano a costruire un percorso, all’interno del quale rafforzo le mie capacità e sono spronata a fare di più per superarli. Quando ci sono situazioni concrete che ci limitano, si è sempre costretti a far valere la propria creatività, magari sviluppando la fantasia e trasformando quello che appare negativo in qualcosa di positivo. Anche quando lavoravo negli uffici stampa di Armani, di Versace o di Ferrè mi rendevo conto che quella non era la mia dimensione. Mi sentivo assolutamente inabile a trattare gli esseri umani in modo formale e, da
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“orsa” come sono, preferivo defilarmi e concentrare le mie attenzioni su altre cose per me più concrete, come sull’archivio che Ferrè aveva acquistato quando aveva deciso di fare alta moda, o su mostre importanti come quella che riguardò “L’abito per pensare”, realizzata quando lavoravo da Versace, oppure adoperandomi nella stesura del primo libro sulla Storia della Moda Italiana edito della casa editrice Electa, avendo però come obiettivo il sogno, un giorno, di poter realizzare a Milano un Museo delle Arti Applicate, all’interno del quale costruire un percorso di studio che potesse rendere fruibile a tutti i motivi per i quali era nata l’Alta Moda o il prêt à porter o come si fosse sviluppato il design di quel settore specifico. Non volevo vivere la dimensione puramente estetica e superficiale di questo lavoro. Così dopo che anche l’ultimo tentativo d’interesse di fare un Museo della Moda crollò e, contemporaneamente, anche altre cose importanti della mia vita personale finirono e persero valore, lasciai. Ricordo che fu un amico che lavorava da Bartolo Mascarello a portarmi a vedere questa casa che cadeva a pezzi: qui tutto era fatiscente e marcio, i soffitti crollavano, tutto era dismesso e abbandonato e anche la vigna era vecchissima, piccola ed esposta a nord. Sembrava che ogni segnale mi inducesse a rinunciare, ma le considerazioni oggettive dei pro e dei contro di quell’affare, a quel tempo, non mi interessavano: in me c’era solo il desiderio di cambiare aria e dare una svolta alla mia vita, misurandomi e cercando di capire quali fossero i miei limiti, accettando una sfida alla cieca, utile più per sradicare le mie paure e le mie angosce che come investimento imprenditoriale in viticoltura, di cui all’epoca non conoscevo niente. Fu così che comprai l’azienda, rendendomi immediatamente conto che questa era la dimensione di cui avevo assolutamente bisogno, una dimensione dura, una realtà piena di sacrifici, ma vera, distante anni luce da quella che avevo sperimentato fino ad allora. Con il passare degli anni, le colpe che mi sentivo di dover espiare si confusero con le mille cose che avevo da fare e lasciarono spazio a una maggiore considerazione di me stessa, portandomi a trovare, piacevolmente, un connubio fra la moda e il vino e fra le capacità che l’individuo ha di ricercare, fra le linee di un abito o nelle modalità d’applicazione delle proprie conoscenze vitivinicole, la sua personale concezione delle cose e del mondo. È stato un percorso lungo che ancora non so se sia completato, ma che mi ha condotto sicuramente a capire quanto, per me, fosse importante e pieno di significato accudire anche soltanto la vita di una pianta, accompagnando ogni anno a maturazione i suoi frutti. Avevo bisogno di dimostrare a me stessa che anche in situazioni estreme, difficili e non particolarmente favorevoli, sarei riuscita a fare delle cose buone, delle cose di cui essere orgogliosa. Di tempo ne è passato e l’inquietudine interiore si è addolcita, ma non per questo è venuto meno l’impegno per quelle vecchie vigne e per quelle nuove, piantate quando è nato mio figlio. Credo in ogni modo che oggi mi attenda il passaggio più difficile, quello che mi condurrà a comprendere che produrre vino è semplicemente gioia e piacere e non il refugium peccatorum di tutte le mie fatiche o delle mie sofferenze, né lo strumento della mia “redenzione”. Devo riuscire a produrre vino, modificando il mio stile e un certo mio modo di pensare “bizantino”, rendendolo più dolce, più equilibrato, meno prepotente e meno duro, più piacevole, cercando di incarnare il ruolo di semplice e attenta esecutrice di ciò che ha voluto regalarmi la natura. A volte avrei voluto essere meno drammatica e assomigliare di più a mia madre che, da ballerina quale era, spesso mi ripete che la danza è un lavoro duro che prevede una disciplina ferrea, un’enorme fatica fisica e tanto studio, ma che alla fine di tutto, ciò che si deve percepire è solo la leggerezza, la bellezza e l’assoluta grazia dei movimenti. Sì, vorrei che l’aspetto drammatico e la fatica non si percepissero, vorrei tenere queste sensazioni dentro di me e fare filtrare fuori solo la mia disponibilità, l’allegria, l’amore che ho nei confronti della vita, oltre alla mia instancabile passione nel produrre vini; vorrei... però in realtà qualcosa elude questa mia volontà e la mia natura, più forte e austera, si ripropone nei miei vini.
San Fereolo Dolcetto di Dogliani DOC
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC Coste di Riavolo (Riesling Renano 70%, Gewürtztraminer 30%)
I Rossi: Dolcetto di Dogliani DOC Valdibà (Dolcetto 100%) Dolcetto di Dogliani DOC Superiore 1593 (Dolcetto 100%) Langhe Rosso DOC Austri (Barbera 100%)
Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Dolcetto provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Valdibà e Valdiberti nel comune di Dogliani, che hanno un’età che varia dai 30 ai 60 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare caratterizzata da terreni con differenti caratteristiche, da marnosi a calcarei, da argillosi a sabbiosi, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 370 e i 500 metri s.l.m. con esposizioni che vanno da sud-est a sud-ovest. Uve impiegate: Dolcetto 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 20 al 30 settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 8 giorni ad una temperatura che varia dai 25 ai 30°C e che viene svolta parte in recipienti di acciaio e parte in tini tronco-conici di rovere; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi con un paio di délestage complessivi. Terminata questa fase, il vino rimane in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica al termine della quale è posto per un 30% in tonneau di rovere francese, di primo, secondo e terzo passaggio, mentre il restante 70% viene messo in tini troncoconici di rovere dove rimane a maturare per 12 mesi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, senza alcuna filtrazione, il vino viene imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20000 bottiglie l’anno Note organolettiche: di un bel colore rosso rubino vivace, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi complessi di frutti rossi maturi che si integrano con altre sensazioni olfattive floreali di viola e speziate di cannella, pepe bianco e china. In bocca è equilibrato, ben armonizzato, lungo e persistente e chiude con il fruttato già percepito al naso. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1997 - 1999 - 2000 - 2001 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dalla cappella di San Fereolo posta all’interno della proprietà dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: di proprietà di Nicoletta Bocca dal 1992, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 30 Ha, di cui 11 vitati e i restanti occupati da prati e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Giampiero Romana e l’enologo Giuseppe Caviola.
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SARACCO
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Paolo Saracco
Quando si nasce fra queste colline può succedere di accorgersi di avere dentro un grande senso di libertà al quale non riesci più a rinunciare, come un abito che ti calza a pennello e ti veste come se ti fosse stato cucito addosso. Un privilegio che si compenetra nei tuoi gesti, nelle parole, nei pensieri e diventa elemento cardine del tuo agire e ragione stessa di vita. È bello vivere avendo addosso un abito così ben cucito che ti facilita nel misurarti e nel confrontarti con il resto del mondo in modo schietto e sincero, attraverso le tue idee. Non so spiegarmi da dove possa essere scaturita tutta questa indipendenza o quale sia il legame fra questa mia visione delle cose e queste colline, dove sembra che tutto sia rimasto immutato da quando, bambino, andavo con mio padre fra i filari delle viti. Ogni tanto mi soffermo a guardare le foto che lo raffigurano, sparse un po’ ovunque e rammento quei suoi silenzi, quei suoi rimbrotti, quell’agitazione che lo invadeva tutte le volte che ci avvicinavamo alla vendemmia o alla svinatura, alle quali assisteva senza mai riuscire a dirmi un “bravo”! Forse questo mio profondo amore verso la libertà è nato proprio come moto di ribellione verso il suo rigore e i suoi modi spicci di interpretare questo lavoro che prevedeva la vendita delle uve o quella del mosto e che, io, invece, ho ritenuto sempre più complesso e affascinante di quanto lui immaginasse. Forse sono stati quei suoi continui dinieghi davanti a qualsiasi mia proposta di rinnovamento a farmi scattare la volontà di voler applicare le mie idee nella massima libertà; un giorno
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questo mi ha portato a prendere la ruspa e a sbarazzarmi di tutte le cose inutili che erano in cantina. Di lui mi ricordo la sua integrità, la sua specchiata onestà, il suo carattere schivo di contadino e la frase che ripeteva sempre: “Ricurdeve masnò e bel fé” (“Ricordatevi ragazzi che il bel fare paga”). Mio padre paragonava l’onestà al bel fare e negli anni ho scoperto quanto fosse vero, quanto il “bel fare” fosse anche e soprattutto una disposizione dell’animo, una mentalità. All’inizio questo richiamo ad una libertà di movimento lo colpì di sorpresa: non pensava avessi l’ardire di prendere le redini dell’azienda e demolire la cantina. Forse prese quel fatto come una forma poco rispettosa verso ciò che era stato fino ad allora il suo mondo. Non so se si sentì umiliato, offeso, privato della sua autorità di pater familias. Ciò che feci non fu un gesto arbitrario, ma necessario e utile per lo sviluppo di un’azienda alla costruzione della quale aveva contribuito anche lui. In quella scelta io esercitai la mia grande libertà di decisione, dettata dai nuovi tempi che stavano arrivando e che lui avrebbe faticato a capire. Qualche discussione e lunghi mesi di silenzio ci accompagnarono dopo quell’evento, ma un po’ la mia risolutezza, un po’ i 44 anni che ci separavano e la sua età avanzata mi agevolarono in questo passaggio generazionale. Ero cresciuto, ed era ora che iniziassi ad incamminarmi sulla mia strada. Volevo sperimentarmi come uno dei primi vignaioli di questo territorio capaci di realizzare vini di grande qualità da un vitigno, il Moscato, che era sempre stato declassato da una scellerata politica commerciale delle grandi aziende che, per far quadrare i conti, spingevano i piccoli contadini ad una sovrapproduzione delle uve. Sembrava una lotta impari con le grandi cantine che avevano contribuito al mantenimento di un’intera area vitivinicola, ma che con le loro politiche non avevano consentito lo sviluppo di quell’humus che in qualsiasi area vitivinicola italiana si era venuto a creare con produzioni di nicchia di alta qualità, fatte da un’infinità di piccoli vignaioli. Io sicuramente appartengo alla prima generazione di vignaioli di Moscato e, pur considerando che all’inizio non avevo concorrenza, posso affermare che non è stato facile salire la china: nessuno mi ha regalato niente. È stata in ogni modo una libertà duramente conquistata che però oggi mi dà la possibilità di muovermi agevolmente in questo lavoro verso il raggiungimento dei miei obiettivi, la realizzazione delle mie personali aspirazioni e la crescita continua dell’azienda. Mi basterebbe questo per poter affermare che sono un uomo felice, ma non abbasso mai la guardia e continuo a combattere le mie battaglie laddove c’è bisogno, proprio come sta succedendo in questo momento in cui, a fronte della volontà di voler attribuire più potere ai Consorzi di Tutela da parte delle grandi imprese che sono alla guida degli stessi, c’è un’accanita resistenza da parte delle piccole aziende che non si sentirebbero tutelate nei loro diritti. In quest’ampia discussione, che interessa tutto il settore vitivinicolo nazionale, ho cercato di far sentire la mia voce convincendo altri produttori a non accettare che fossero i più forti a comandare e ad avere in mano le redini del gioco. Non so se sono stato ascoltato o se queste future scelte tarperanno le ali alla mia libertà; nel frattempo faccio due passi tra le vigne, poiché, quando sono in mezzo a loro, sento la libertà, la tocco con mano, è intorno a me, è nell’aria, è nel paesaggio e la sento fortemente mia.
Altri vini I Bianchi: Monferrato Bianco DOC Graffagno (Riesling Renano 50%, Sauvignon Blanc 50%) Langhe Chardonnay DOC Prasuè (Chardonnay 100%) Moscato d’Asti DOCG (Moscato Bianco 100%)
Moscato d’Autunno Piemonte Moscato DOC Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Moscato provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel comune di Castiglione Tinella, le cui viti hanno un’età variabile dai 3 ai 70 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni marnosi e sabbiosi, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 400 metri s.l.m. con esposizioni che variano da sud a nord, da est a ovest. Uve impiegate: Moscato 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000-6000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 7 al 21 settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte nella stessa giornata e il mosto ottenuto viene immediatamente immesso in tini di acciaio termocondizionati e fatto decantare alla temperatura di 7°C per 12 ore con l’intento di fermare la fermentazione. Al termine della vendemmia, scegliendo le partite migliori che concorreranno all’ottenimento del blend denominato “Moscato d’Autunno”, si inoculano i lieviti selezionati neutri e il vino si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 4-7 giorni alla temperatura di 20°C, fino al raggiungimento dell’equilibrio ideale tra alcool, acidità e zuccheri; fatto ciò si riabbassa la temperatura per interrompere il processo. In seguito si effettua la stabilizzazione tartarica e dopo una filtrazione sterile, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura 30 giorni prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 18000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino e con i profumi caratteristici dell’uva Moscato, intensi e freschi che ricordano immediatamente la salvia, la pesca e la pera verde estiva. In bocca ha un’entratura dolce, pungente, elegante, con una buona acidità che lo rende fresco, lungo e persistente; chiude con note di mela verde. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 1990 - 1997 - 2000 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dalle uve utilizzate, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 5 anni. L’azienda: di proprietà di Paolo Saracco dal 1996, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 40 Ha, di cui 35 vitati e 5 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge la funzione di agronomo e di enologo lo stesso Paolo Saracco.
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SCAVINO PAOLO
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Enrico, Enrica e Elisa Scavino
L’ultimo bue che abbiamo avuto si chiamava Pavone. Un animale splendido, imponente, con grandi occhi espressivi, di una dolcezza unica. Ricordo che una mattina d’inizio estate, mio cugino venne a chiedercelo in prestito per lavorare le sue vigne e, mentre arava, all’improvviso l’animale si arrestò, come faceva istintivamente, quando il rostro dell’aratro si impuntava in un palo o in una vite. Lo sentì muggire in modo forte, inusuale, e la cosa quasi lo spaventò. In tutta la sua vita non aveva mai sentito un bue muggire così forte sotto sforzo, ma non comprendendo il significato di quello strano verso, dette nuovamente il via al suo minuzioso lavoro di aratura. Non ci volle molto per svelare il mistero: Pavone aveva sentito arrivare mio padre che, dopo un minuto, infatti, giunse nel filare. Come un cane che abbaia all’arrivo del padrone, anche quello splendido animale, con quel muggito, salutava l’arrivo del suo. Tra quel nobile bue e mio padre c’era molto di più di quanto vi possa essere oggi tra me e le mie attrezzature, c’era un reciproco rispetto e una comune attitudine al sacrificio e al lavoro. Quando nel ’58, decidemmo di trasformare l’azienda abbandonando l’allevamento del bestiame e la frutticoltura, ci trovammo costretti a dare via anche Pavone e percepii, in maniera netta, che un’epoca si era definitivamente conclusa. Quel ciclo storico che aveva contraddistinto per centinaia di anni questa lenta cultura contadina delle Langhe si era definitivamente chiuso e si stava aprendo una nuova era che avrebbe condotto verso un futuro ancora tutto da scrivere, sicuramente diverso, ma estremamente
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affascinante. Ho avuto la fortuna di vivere questo passaggio epocale sulla mia pelle e di assistere a grandi mutamenti che mi hanno insegnato a vivere il mio lavoro con sensibilità e umiltà. Ho trascorso la mia gioventù senza tante distrazioni e possibilità di svago, vivendo comunque con intensità un rapporto armonioso con le cose e con il tempo, molto diverso da quello frenetico che siamo costretti a vivere attualmente. È stato il lavoro, del resto, insieme alla mia famiglia, che mi ha sempre appoggiato e sostenuto in ogni momento a permettere che i miei sogni si realizzassero. Mi ha donato soddisfazioni ed emozioni bellissime, anche se oggi, alla soglia dei miei sessantaquattro anni, mi rendo conto che questa scelta ha condizionato molto la mia vita personale dovendo talvolta rinunciare ad altri piaceri. È stato mio padre a trasmettermi la passione per la vite e per il lavoro minuzioso nel vigneto, così come in cantina. Ho sempre ammirato e ho avuto come esempio la sua dedizione profonda e costante al lavoro, la sensibilità ed il rispetto con cui si accostava alle piante e quindi alla natura. Per produrre un grande vino credo che siano necessarie anche queste virtù e sono convinto che i sentimenti e l’amore che metto nel mio lavoro mi abbiano aiutato a crescere nella conoscenza e nell’esperienza. È questo lo stimolo che alimenta le mie giornate lavorative, allietate dall’emozione che provo nel seguire la “crescita” dei miei vini, il delinearsi dei loro differenti caratteri nel tempo. Per capire meglio cosa intendo, bisognerebbe che gli appassionati come te venissero in queste zone prima della vendemmia a visitare i vigneti, per comprendere fin dall’inizio la differenza tra coloro che mirano ad una qualità eccezionale e quelli che invece producono senza ambizione: solo così capirebbero la sostanziale differenza fra lavoro e passione. Sono quasi 50 anni che lavoro nei miei vigneti ed è proprio lì che mi sento a mio agio, comprendendo sempre più, con il passare del tempo, quanto sia importante curare ogni dettaglio e quanto sia affascinante vinificare un vitigno come il Nebbiolo. Le cose, poi, come dicevo, sono cambiate. Il mercato ha incominciato a tirare e il vino non bastava più; così, ogni volta che si presentava l’occasione, acquistavo dei vigneti, finché non siamo arrivati alla nostra attuale superficie. D’accordo con le mie figlie Enrica ed Elisa, che sono entrate in azienda, abbiamo deciso di non aumentare ulteriormente le dimensioni aziendali, al fine di poter continuare a gestire personalmente tutte le fasi di produzione e commercializzazione. Ovviamente seguo con attenzione e apprensione paterna la crescita imprenditoriale delle mie figlie all’interno dell’azienda, cercando, per quanto mi è possibile, di agevolarle in un ambiente così variegato e particolare nel quale è necessario sia saper fare, sia comunicare al mondo intero le qualità del Barolo che a mio avviso è uno dei più grandi vini al mondo; ha un carattere, una piacevolezza, un’eleganza che pochissimi altri vini possono esprimere. È importante in ogni modo che, in una piccola struttura come la nostra, il salto generazionale avvenga senza troppi sussulti e io ho fiducia in loro e sono sicuro che continueranno positivamente su questa strada che ho tracciato, sperando di riuscire ad avere il tempo necessario per trasferire loro le sensazioni che io avevo quando guardavo negli occhi Pavone e quando pensavo a ciò che quei buoi hanno significato per la tradizione contadina di questa terra, cosicché non dimentichino mai le nostre origini.
Bric dël Fiasc Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dall’omonimo vigneto aziendale, posto nel comune di Castiglione Falletto, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 60 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che è situato in zona collinare su terreni che geologicamente fanno parte della formazione tortoniana delle Marne di Sant’Agata fossili, è posizionato ad un’altitudine di circa 260 metri s.l.m. con esposizione a sudovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene normalmente nella prima metà di ottobre, le uve vengono sottoposte a diraspapigiatura e inizia così la fermentazione alcolica che si protrae per circa 14 giorni a temperatura controllata in fermentini orizzontali di acciaio. In seguito il vino viene posto in barrique di rovere francese, a grana fine e di media tostatura, dove affronterà la fermentazione malolattica e l’affinamento per circa 12 mesi durante i quali vengono effettuati periodici travasi. Al termine di questa fase il vino sosta per altri 12-20 mesi in botti di rovere francese la cui capienza varia da 25 a 50 Hl per poi essere assemblato nelle vasche d’acciaio ed imbottigliato. Seguono 12 mesi di ulteriore affinamento in bottiglia prima della commercializzazione. Quantità prodotta: circa 11000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati, mentre all’esame olfattivo affascina per le percezioni e i profumi dolci che trasmette immediatamente, con eleganti note floreali di rose rosse e fruttate di more e mirtilli che poi lasciano spazio a percezioni di cuoio. In bocca ha un’entratura pulita, calda, potente, con tannini rotondi, ma evidenti che insieme ad una grande sapidità conferiscono al vino freschezza e lunghezza notevoli. Prima annata: 1978 Le migliori annate: 1978 - 1982 - 1985 - 1989 - 1990 - 1995 1996 - 1997 - 1998 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: si estende su una superficie complessiva di 20 Ha ad indirizzo viticolo. È stata fondata nel 1921 dal padre Paolo dell’attuale titolare Enrico Scavino, il quale gestisce in prima persona la produzione e la vinificazione. Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Rocche dell’Annunziata (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Cannubi (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Carobric (Nebbiolo 100%)
Barbera d’Alba DOC Affinato in Carati (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC (Dolcetto 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%)
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Rino e Andrea Sottimano
Il mio più grande difetto è quello di essere impetuoso, passionale, ma ho la fortuna di avere al fianco mio padre che è la mia parte razionale, la mia memoria storica, il mio punto di raccordo fra passato e futuro. Il nostro è uno scontro generazionale continuo e costruttivo dal quale traggo riflessioni ed energia e che mi consente di impegnarmi, sempre di più, in tutto ciò che vedi. Con il tempo ho capito che contrapponendoci ci completiamo, come moderni personaggi della scrittrice inglese Jane Austen; di questo non ne avevo dubbio, dal momento che ho sempre saputo che sarei rimasto al suo fianco su questa terra, per continuare a fare, come lui, il vignaiolo. Tutto questo l’ho compreso abbastanza presto, aiutandolo ancora bambino, a vendemmiare, e successivamente, da adulto, condividendo i suoi obiettivi pur seguendo altri itinerari, cercando di dare a questa attività una connotazione diversa e di più ampio respiro, consona ai tempi. Posso assicurare che mi ha aiutato molto quella sana curiosità, insita nella mia natura, che mi ha portato in giro per il mondo alla scoperta di nuove culture o di nuove interpretazioni del vino, che non è stata, per me, la classica fuga dalle Langhe, ma il semplice approfondimento di ciò che avevo imparato al fianco di mio padre o alla scuola enologica di Alba. Mi è sempre piaciuto capire l’evoluzione delle cose e i percorsi attraverso i quali queste entrano nella mia vita, sia che si tratti delle mie passioni, come la musica e i libri, sia che si tratti del mio lavoro. Per questo, una volta diplomato, ho ritenuto necessario effettuare alcuni viaggi in Francia, proprio in Borgogna, in quella zona
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che più di altre assomiglia al Piemonte e dove spesso ho sentito ripetere che in una bottiglia di vino c’è “la terra” e che per riuscire a fare il “grande vino” è necessario essere contadini. Due concetti che sintetizzano, ognuno a suo modo, una visione più complessa e più naturale del mondo del vino; concetti che hanno sicuramente influenzato, in senso positivo, la mia visione di questo lavoro e che mi hanno consentito di legarmi, sempre di più, a ciò che stavo facendo. La diversa concezione transalpina dell’enologia mi conquistò, e non posso negare che rimasi affascinato dalla semplicità di quei grandi vignerons, sempre pronti a cogliere l’occasione per confrontarsi con nuove idee e a rifuggire, allo stesso tempo, da tutto ciò che potesse distrarli dal loro lavoro in mezzo alle vigne. Quel confronto dette forza alle mie teorie e contemporaneamente mi confermò il reale valore della vite verso la quale era necessario accostarsi con umiltà e semplicità, senza troppe alchimie e tecniche, cercando di lavorare su ogni piccolissimo elemento che interagisce con il terroir, agendo sulla caratterialità sia del vitigno, sia del territorio, così da riuscire a produrre non solo un vino di grande qualità, cosa che riesce a moltissimi winemakers, ma un vino del territorio, riconoscibile, che comunichi immediatamente la sua provenienza. Sono tutti elementi e concetti che, del resto, nel territorio del Piemonte sono facili da ritrovare, poiché qui, come avrai notato, puoi non solo distinguere un Barolo da un Barbaresco, ma anche riconoscere un Barbaresco di Neive da un Barbaresco di Treiso o di Barbaresco, perché ognuno di essi possiede sfumature uniche, caratterizzanti di una determinata zona o di un determinato cru. Ritornai da quel viaggio con un bagaglio colmo di novità e di conferme che volevo sperimentare nella mia azienda e con la fiducia di mio padre e il supporto della sua grande esperienza ho potuto portare in cantina quelle trasformazioni che ritenevo ormai necessarie, non in un’ottica di semplice imitazione, ma di una personale interpretazione di ciò che avevo visto altrove. La prima e forse più grande novità, fu l’ingresso nella nostra azienda delle barriques, che all’inizio degli anni ’90 erano ancora in una fase di sperimentazione, poiché il loro utilizzo comportava una grande conoscenza dei legni e della loro stagionatura e ancora non si conosceva l’impatto che quelle variabili avrebbero avuto sui nostri vitigni autoctoni. Nel tempo, pur avendo riscontrato qualche eccesso di legno in alcune nostre partite, abbiamo notato che le barriques possono dare grandi soddisfazioni e ritengo che il loro utilizzo sia un meraviglioso sistema che ci consente di focalizzare i tratti caratteristici di ogni nostro vino. Ricordo con emozione la mia prima annata di produzione, il ‘94, ma fu solo l’anno successivo che insieme a Rino identificammo quale dovesse essere “l’idea” del vino che desideravamo produrre, delineando da quella vendemmia un percorso che è ancora ben lungi dall’essersi concluso. Nel caotico fervore del “rinascimento” enologico che colpì le Langhe e un po’ tutto il Piemonte nel decennio passato, c’era il rischio che attecchissero quei meccanismi contorti di emulazione verso altre zone vitivinicole, le quali avevano assistito all’ingresso massiccio e indiscriminato, nel loro territorio, dei vitigni “internazionali”, a scapito di quelli autoctoni con conseguente perdita dell’identità territoriale. Qui da noi tutto questo non è successo, ma posso assicurare che non sono state poche le battaglie che abbiamo combattuto per salvaguardare la nostra più importante ricchezza che si basa su vitigni unici e su un terroir irripetibile che ci consente di fare un vino che ha delle radici e nel quale è facile sentire la “terra”. Radici che mi appartengono e che fiduciose mi hanno guardato allontanarmi e andar via, nella certezza che sarei tornato, dopo aver appagato la mia curiosità, aver capito le novità e aver filtrato le nuove frontiere del vino, per costruirmi quelle esperienze necessarie a far crescere il nostro territorio.
Cottá Barbaresco DOCG
Altri vini Barbaresco DOCG Pajoré (Nebbiolo 100%) Barbaresco DOCG Currá (Nebbiolo 100%) Barbaresco DOCG Fausoni (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Pairolero (Barbera 100%) Dolcetto d’Alba DOC Bric del Salto (Dolcetto 100%) Matè Vino da Tavola (Brachetto 100%)
Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Cottà, nel comune di Neive, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 50 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 230 e i 250 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 12 giorni alla temperatura di 30°C in tini di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati manualmente dei rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene posto in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura, per il 30% nuove e il restante di secondo e terzo passaggio, in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per circa 22 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati 2-3 travasi. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle varie partite e il vino viene messo in bottiglia, senza alcuna filtrazione, per un ulteriore affinamento che dura altri 7 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino profondo con riflessi granati, mentre al naso offre sensazioni fruttate di mora, mirtilli e ciliegia sotto spirito, quasi di “Mon Chéri”, che si aprono a note speziate che portano a percezioni di liquirizia, caffè, cacao, con una chiusura di tamarindo. In bocca ha un’entratura equilibrata, robusta, con una ricchezza estrattiva importante, tannini ben presenti e grande acidità: tutti elementi che gli conferiscono notevole freschezza oltre a grande lunghezza e persistenza. Prima annata: 1976 Le migliori annate: 1978 - 1982 - 1989 - 1990 - 1996 1997 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà di Rino Sottimano dal 1975, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 10 Ha, tutti vitati. Svolgono le funzioni di agronomo e l’enologo Rino e Andrea Sottimano.
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T
TRAVAGLINI
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Cristina e Cinzia Travaglini
Si fa presto a dire vigna o a riempirsi la bocca lasciandosi andare a facili sentimentalismi sul fascino che racchiude il mestiere di vignaiolo. Io so bene cosa comporta tutto questo e quali sacrifici ci sono dietro ad ogni pezzo di vigneto piantato! Adesso è gratificante guardarsi intorno e pensare che 55 dei 105 ettari che compongono la DOCG Gattinara sono di nostra proprietà o che nel mondo quando qualcuno pensa a questa DOCG, in automatico, spunta il nome di noi Travaglini, ma vi assicuro che non è sempre stato così. Tutto ciò ha comportato un impegno enorme e per farne capire l’importanza ricordo spesso alle mie figlie che molte di queste viti che si vedono qui intorno le abbiamo piantate mio marito Giancarlo ed io, una per una, arrivando così, anno dopo anno, a modificare l’architettura paesaggistica di queste nostre colline, divenute oggi bellissime. Terreni comprati nel corso di questi cinquant’anni, quando nessuno scommetteva sulla zona vitivinicola di Gattinara; per entrare in possesso di alcuni, c’è voluta la costanza di Giancarlo e uno scrupoloso lavoro di convincimento durato un quarto di secolo per mettere d’accordo un’infinita schiera di piccolissimi proprietari e dare vita ad un’area che fosse sufficiente per le nostre aspirazioni. In ogni momento, il motore trainante di tutto è stata l’incontenibile voglia di vivere e di fare che animava mio marito e la sua grande passione per questo lavoro che coinvolgeva tutti, anche me, fino a farmi nascere dentro un’incondizionata passione per questa natura che io, figlia di un mobiliere, non sapevo di avere.
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Sarebbe comunque riduttivo pensare che quest’azienda sia solo il frutto di grande tenacia e passione; sono convinta, invece, che sia nata dal grande amore che ci univa, in nome del quale siamo riusciti a superare momenti difficili e a gioire per le soddisfazioni che arrivavano dall’esterno. Ognuno con il proprio ruolo e con i propri compiti; da una parte lui, impegnato quotidianamente nelle infinite sfaccettature che compongono questo poliedrico mestiere, dall’altra io, che seguivo i lavori in campagna e curavo la vigna quasi più delle mie stesse figlie, dando a questa terra e a questi filari, inerpicati su per i colli, i migliori anni della mia vita, con la forza e la passione di chi ha grandi sogni da condividere e da realizzare. Quando abbiamo iniziato non avevamo molti estimatori e ricordo che tutti cercavano di dissuadere mio marito dal proseguire in quella sua idea. Dicevano: “Qui al vin al ven not bon” (“Qui il vino buono non viene”). Sembrava che avessero un sottile piacere a proferire quelle parole; forse perché le situazioni, nuove e/o diverse, costringono gli altri ad un confronto più arduo, su un piano più alto, disturbandoli in quel quieto vivere in cui si accucciano. Ricordo che c’erano alcuni che addirittura, improvvisandosi veggenti, quando mio marito piantava le vigne, pronosticavano che queste non avrebbero fatto uva e che di lì a poco avrebbe dovuto tagliarle. Lui non se ne curava, andava per la sua strada e piantava quelle sue viti sempre più fitte, andando contro corrente rispetto al sistema tradizionale degli impianti in uso a Gattinara, innescando con questo suo ardire nuove polemiche e funeste previsioni sulle sue scellerate valutazioni. Non posso contare le ore che abbiamo trascorso insieme lavorando nei vigneti. Per lui piantare una vigna, vederla crescere, seguirne le evoluzioni e assaggiarne il prezioso nettare prodotto era lo scopo stesso della sua vita. È con orgoglio che affermo che l’essergli stata accanto tutti questi anni, mi ha resa felice; anni durante i quali penso di aver contribuito alla crescita di quest’azienda, rammaricandomi però, adesso che sono nonna, di aver dato troppo a questo lavoro, rinunciando a godere a pieno dei momenti belli e importanti che si hanno nella crescita dei figli, tralasciando o mettendo in secondo piano quelle sfumature e quelle piccole e grandi cose che rendono unico il rapporto materno. È quando guardo i miei nipoti che mi rendo conto che Tiziana, Cristina e Cinzia, le mie tre figlie, avrebbero preferito forse avere una madre e un padre più vicini, più presenti, cosa che questi filari di viti non sempre consentivano. Nessuno è profeta in patria e neanche noi lo siamo stati, anche se in questi anni non ci sono mancati importanti riconoscimenti di stima e fiducia da ogni parte del mondo che ci hanno gratificati e hanno rafforzato la nostra convinzione di essere sulla strada giusta. Oggi che lui non c’è più, ho un grande vuoto dentro e intorno a me, ma sento aleggiare in queste vigne e in questa cantina la sua voglia di vivere e quella meravigliosa testardaggine che lo portava a non abbattersi mai. Un’energia che è sempre stata nell’aria e di cui si sono impossessate le nostre figlie: Tiziana, dopo essersi diplomata alla scuola di enologia di Alba, conduce insieme a suo marito una sua cantina a Vignale; Cristina e Cinzia, insieme al marito Massimo, hanno preso in mano le redini dell’azienda assumendone la dirigenza. Diverse per temperamento e tutte interpreti perfette dello spirito lavorativo del padre; ognuna con il proprio carattere, con il proprio temperamento e con l’orgoglio di voler continuare sulla strada tracciata tanti anni fa da me e da Giancarlo, intrapresa per passione e per chissà quale altra misteriosa ragione, ammesso che l’amore abbia una ragione.
Altri vini I Rossi: Gattinara TreVigne DOCG (Nebbiolo 100%) Gattinara Selezione DOCG (Nebbiolo 100%)
Gattinara DOCG Riserva Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dalle parti migliori dei vigneti Ronchi, Molsino, Permolone e Uccineglio, di proprietà dell’azienda, posti nel comune di Gattinara, che hanno viti con un’età compresa tra i 5 e i 50 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni rocciosi e marnosi, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 420 metri s.l.m. con esposizione variabile da sud-ovest a sud-est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot semplice Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 12-15 giorni ad una temperatura che non supera mai i 32°C in tini di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati 2 délestage, lievi follature periodiche e frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene lasciato decantare nei tini di acciaio in cui rimane per circa 4 mesi, periodo durante il quale svolge la fermentazione malolattica. In seguito il 75% della massa è inserito in botti di rovere di Slavonia da 60 a 100 Hl, mentre il restante 25% è inserito solo per 1 anno in barrique di rovere francese a grana fine e media tostatura per un 25% nuove e il restante di secondo e terzo passaggio prima di ricongiungersi con il restante inserito precedentemente nelle botti. Il vino rimane a maturare nel legno complessivamente per 36 mesi, al termine dei quali si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, dopo una leggera filtrazione, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 3 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 29000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati e con note olfattive che spaziano dai sentori balsamici a quelli fruttati di lamponi e fragole selvatiche, dalle percezioni nette di rosa e crosta di pane tostato fino ad arrivare a quelle speziate di pepe nero e chiodi di garofano, con un finale dalle nuances rugginose e minerali. In bocca ha un’entratura elegante, equilibrata, con una fibra tannica importante, così come lo sono anche la sapidità e le note minerali: tutti elementi che conferiscono al vino freschezza, lunghezza e persistenza; chiude con un delicatissimo retrogusto fruttato. Prima annata: 1958 Le migliori annate: 1958 - 1960 - 1964 - 1967 - 1970 - 1971 1974 - 1976 - 1978 - 1980 - 1985 - 1989 1990 - 1996 - 1998 - 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Travaglini dal 1958, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 59 Ha, di cui 42 vitati e 17 occupati da boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Flavio Bera e l’enologo Sergio Molino.
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VAJRA
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Aldo Vaira Sarà che sono nato sotto il segno del Toro, un segno di terra, e forse in quel cielo stellato del ’53 era scritto che il mio carattere dovesse essere un po’ testardo, pignolo, amante della buona tavola, delle atmosfere lente e rilassate, delle letture davanti al caminetto, pigro e robusto, ma anche attivo e forte come la stessa terra che amo lavorare. In quelle stelle doveva esserci scritto anche il mio destino, segnato fin da piccolo dal desiderio di fare il contadino, incoraggiato dalle letture di Pavese e Fenoglio del periodo liceale, che mi stimolarono a proseguire su quella strada già tracciata. Molte cose cambiarono per me a cavallo del ’68-’70, i famosi anni della contestazione giovanile, durante i quali mio padre pensò bene che la migliore contestazione che io potessi fare era quella di andare, con una zappa in mano, a lavorare in mezzo alle vigne. Fu così che, durante quelle calde estati, mi obbligò a stare nell’azienda di famiglia e accudire quelle “inamovibili” viti. Gli stimoli di rivolta e quell’euforia giovanile si placarono sotto quel solleone, mentre incominciò a farsi strada in me la passione per la campagna e per quelle stimolanti viti. Fu solo nel ’72, in seguito a una stagione pessima che non aveva concesso all’uva neanche di terminare l’invaiatura, che feci il mio primo vino. Davanti all’impossibilità di vendere quelle uve, provai a vinificarle con l’aiuto di parenti e amici che mi fornirono chi i tini, chi la diraspatrice, ognuno contribuendo a modo suo, chi materialmente e chi elargendo consigli sul da farsi. Inspiegabilmente nell’arco di pochi
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mesi riuscii a vendere loro tutto quel vino, che faceva, sì e no, 7 o 8 gradi d’alcool; un vino che mi consentì di avviare una prassi che non ho più interrotto e che mi convinse che per fare un vino buono mi occorreva dell’uva buona. Questa cosa oggi potrebbe sembrare una banalità, ma posso assicurare che in quegli anni, arrivare a quell’intuizione non fu cosa da poco. Un concetto che modificò molto il mio approccio al vino e alla vite. Poi la Laurea in Agraria, il matrimonio e alcuni anni di insegnamento di estimo rurale e contabilità alle scuole superiori, fino al 1985, quando decisi di lasciare tutto per diventare un vigneron a tempo pieno, sorretto da una grande passione e dal desiderio di costruire qualcosa d’importante per la mia famiglia, per la mia terra. In questi vent’anni ho cercato sempre di avere il ruolo di un semplice artigiano del vino proiettato alla continua ricerca di una proficua collaborazione con la natura, la vera artista, la sola in grado di creare vini unici, irripetibili, differenti da un’annata all’altra. Il mio apporto deve limitarsi a portare nel bicchiere vini eleganti, mai sfacciati, quasi defilati nel loro accostamento al cibo, bevibili e compagni ideali della buona tavola e della convivialità. È una ricerca continua che ancora non ho concluso e che vede momenti di gioie e momenti di sgomento, soprattutto quando si abbattono avversità atmosferiche che non posso fronteggiare in nessun modo. In quei momenti ho sempre presente la poesia If che Rudyard Kipling scrisse nel 1910 a suo figlio: “[...] Se sai raccogliere tutte le tue vittorie e rischiarle con un lancio a testa o croce e perdere e ricominciare ancora dall’inizio e mai sussurrare una parola della tua perdita [...], se né i nemici e neppure gli amici più cari possono ferirti; se tutti possono contare su di te, ma nessuno eccessivamente [...], tua è la terra e quanto vi è in essa, e – cosa ancor più importante – tu sarai un uomo, figlio mio!”. Mi è servita spesso quella poesia, poiché ho trovato dentro a quelle righe la forza di ricominciare e di non abbattermi davanti alle avversità, testardo come un toro. Ogni tanto mi fermo a guardare la mia terra e osservo i vigneti che, come me, sono cambiati: oggi li vedo diversi, come è diverso il mio approccio a questa natura. Del resto è cambiato il mio approccio al lavoro, un lavoro sempre diverso, mai uguale, sempre modificabile secondo la stagione e mi rendo conto che la sola e vera regola di questo mestiere è quella del cambiamento costante e perenne di tutte le cose. Omnia transit, tutto passa, come diceva il grande poeta latino Orazio, ma ciò che per me non è cambiato in questi anni sono certe esigenze di nitidezza interiore, di schiettezza e di trasparenza che mi porto dentro, quelle forse di voler guardare il mondo con occhi placidi e quieti, non più quelli di un impetuoso “toro”, ma di un “pio bove” paziente che in silenzio rumina l’erba grassa e gode dei momenti tranquilli che la vita gli regala. Le cose realizzate hanno superato abbondantemente i miei sogni e non posso che ringraziare il buon Dio per la sua generosità...
Altri vini I Bianchi: Langhe Bianco DOC (Riesling Bianco 100%) Moscato d’Asti DOCG (Moscato 100%)
I Rossi: Barolo DOCG Albe (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Bricco delle Viole (Nebbiolo 100%) Dolcetto d’Alba DOC Coste & Fossati (Dolcetto 100%) Langhe Nebbiolo DOC (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Superiore Bricco delle Viole (Barbera 100%)
Kyè Langhe Freisa DOC Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Freisa provenienti dal vigneto San Ponzio, posto in località Vergne nel comune di Barolo, le cui viti hanno un’età media di 25 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni marnoso-calcarei, è posizionato ad un’altitudine di 400 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Freisa 100% Sistema di allevamento: spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 10 al 20 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 14-21 giorni alla temperatura di 28-32°C in recipienti di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuate follature e rimontaggi. Successivamente alla fermentazione malolattica il vino è trasferito in botti di legno di rovere di Slavonia in cui rimane per circa 18 mesi a maturare a maturare. Dopo l’assemblaggio delle varie partite, senza alcuna filtrazione, viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: dal colore rosso rubino con riflessi granati, il vino si presenta all’esame olfattivo con note di frutti rossi di sottobosco come mirtilli e fragoline che si mischiano a quelle di fiori di acacia e a sensazioni speziate che ricordano il cardamomo. In bocca ha un’entratura pulita, elegante, con tannini ancora evidenti che, insieme ad una buona sapidità, conferiscono freschezza, lunghezza e persistenza. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1985 - 1989 - 1990 - 1995 - 1997 1999 - 2001 - 2003 Note: in occitano Kyè significa “proprio io”. Con un pizzico di civetteria, vuole dire che questa tipologia di vinificazione e di elaborazione è l’espressione più completa del vitigno Freisa. L’etichetta di Padre Costantino Ruggeri sottolinea e rafforza ulteriormente il carattere, non banale di questo prodotto, che raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il cui plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: di proprietà di Aldo Vaira dal 1972, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 52 Ha, di cui 44 vitati e 8 occupati da campi e boschi. Svolge la funzione di agronomo ed enologo lo stesso Aldo Vaira.
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VEGLIO MAURO
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Daniela e Mauro Veglio
Andare avanti, guardare dietro la curva superando l’ostacolo, nella convinzione che ci sia sempre qualche cosa da imparare e da migliorare, muovendomi sempre con cautela, ma convinto e risoluto. È questo, in definitiva, il filo conduttore della mia vita e la strada percorsa dalla mia mente che non vola alta nel cielo, ma cammina, per fermarsi di tanto in tanto ad osservare ciò che incontra lungo il sentiero, nell’intento di arricchire il proprio bagaglio di esperienze e conoscenze. È sempre stato così e ormai penso di non riuscire più a cambiare. Sembra diventato un modo di agire che, più o meno consapevolmente, applico ad ogni cosa che faccio, che si tratti della mia vita privata come del mio vino con il quale mi approccio in modo slow, cercando di migliorare, nel tempo, i risultati ottenuti. Non mi interessa allargarmi e avere una grande cantina, né aumentare il numero delle bottiglie, ma voglio, invece, che quelle poche prodotte siano in grado di esprimere l’unicità di questa terra e l’irripetibilità delle stagioni. In ogni modo non è stato sempre così; quando ero ancora un ragazzo, infatti, ero pervaso da un grande fervore e da mille dubbi e non sapevo che lavoro avrei voluto fare da grande. Volevo andar via, ma non ne avevo il coraggio, trovando una volta la scusa di non aver studiato e quindi di non avere dimestichezza con le lingue, un’altra volta di non avere un mestiere da spendere nel mondo del lavoro; ma erano sempre e comunque scuse, perché, in definitiva, credo che inconsciamente, io volessi rimanere qui, nella mia terra. Provai in ogni caso a lasciare la campagna, iniziando per un po’ di tempo a fare il meccanico, visto che amavo i
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motori, ma questa avventura terminò quando compresi che ciò che provavo non era tanto la voglia di “cambiare” quanto la paura di “restare” e dover fare il contadino come aveva fatto sempre mio padre, spaccandosi la schiena su questa terra. A quei tempi del resto non si parlava di viticoltori, ma di contadini e il lavoro in campagna era duro, senza sosta e i soldi in tasca erano sempre pochi. Per un giovane non era una prospettiva allettante, ma con coraggio presi la strada più difficile decidendo di rimanere accanto a mio padre e, incurante delle conseguenze di quella scelta, ritenni che avrei potuto fare delle cose interessanti e trovare la mia autogratificazione anche facendo il contadino. Quindici anni fa non avrei mai pensato di arrivare al punto in cui sono oggi, né che fare il vignaiolo sarebbe diventato il mio unico mestiere che, tra l’altro, mi ha consentito di avere enormi gratificazioni e mi ha dato la possibilità di girare il mondo. Di tutto questo devo grazie a Elio Altare, che mi ha dato tanto. Un amico fraterno che si è esposto in prima persona non solo con me, ma con tutto il comparto vitivinicolo delle Langhe, conducendo i primi esperimenti nelle vigne, le prime vinificazioni corte, facendosi prendere per pazzo, anche da mio padre, fino a quando le sue intuizioni non si sono rivelate esatte e tutti hanno iniziato a rispettarlo, papà compreso. In modo disinteressato, sorretto da uno spirito libero, che solo i grandi uomini hanno, mi ha regalato quella sua esperienza affinché io crescessi e potessi seguire le sue orme. Ricordo che una volta lessi che “la quercia non cresce mai all’ombra del salice”; io devo riconoscere, invece, che sono divenuto vignaiolo sotto le fronde di un salice che non mi ha nascosto ai raggi del sole, ma li ha filtrati per me, perché non mi bruciassero. Conoscendomi non so se sarei in grado di trasferire ciò che ho imparato; non sono un grande comunicatore, ma nonostante ciò mi adopero per dare il meglio di me a chi mi chiede consigli, prodigandomi affinché si crei uno spirito unitario di vedute e di scopi fra noi viticoltori della zona e mentre faccio questo sorrido, arricchito dal senso di felicità che mi ha dato il mio lavoro. In queste Langhe è facile trovare volti senza sorriso, ma non perché la gente sia triste o strana: è solo poco aperta e questa chiusura tante volte nasconde quell’energia e quella forza lavorativa prorompente che scaturisce da questa terra, madre di grandi vigneti e di grandi vini. Io, invece, questa energia me la porto dentro e quando vado in giro per il mondo o ricevo ospiti nella mia cantina, sorrido. Un modo come un altro per dare il benvenuto a chi si addentra per queste vigne e anche se ancora non ci sono cartelli o insegne che accolgono i turisti nella terra del Barbera, dell’Asti, del Dolcetto o del Barolo, sono fiducioso che il mio modo di fare serva a qualche cosa. Questo lavoro mi ha dato l’opportunità di crescere, di confrontarmi, di farmi apprezzare e quando questo accade penso all’importanza di ciò che faccio, penso a mio padre, alla sua vita, alla “pazzia” di Elio e al mio modo lento di affrontare la vita e… sorrido, perché ormai so quale è la strada che devo percorrere per fare il mio vino.
Castelletto Barolo DOCG
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Vigneto Gattera (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Vigneto Arborina (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Vigneto Rocche (Nebbiolo 100%) Barbera d’Alba DOC Cascina Nuova (Barbera 100%) L’Insieme Vino da Tavola (Nebbiolo 40%, Barbera 30%, Cabernet Sauvignon 30%)
Zona di produzione: il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto di proprietà dell’azienda posto in località Castelletto nel comune di Monforte d’Alba, le cui viti hanno un’età media di 35 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-sabbiosi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 300 metri s.l.m. con esposizione a sud/sud-est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e, senza aggiunta alcuna di lieviti, il mosto ottenuto inizia la fermentazione alcolica che si protrae per 30 giorni e che prevede due fasi ben distinte: una identificabile con la fase tumultuosa della vinificazione, che si svolge a 28°C con un’importante macerazione sulle bucce che dura solo 6 giorni dentro gli appositi rotomaceratori, il cui meccanismo di pale rotanti mantiene le bucce in costante immersione nel mosto, accelerando il processo di estrazione; la seconda fase, dopo la svinatura, prosegue in botti di acciaio inox per una ventina di giorni circa.Terminata questa fase, il vino è trasferito tutto in barrique di rovere francese a grana fine e a tostatura media per un 50% di primo passaggio, in cui, finita di svolgere la fermentazione alcolica, effettua la fermentazione malolattica, sempre senza aggiunta alcuna di coadiuvanti, e rimane per 24 mesi, durante i quali si effettuano almeno 4-5 travasi. Al termine della maturazione avviene l’assemblaggio in un’unica botte di acciaio e dopo 8 mesi di decantazione e qualche ulteriore travaso, il vino, senza alcuna filtrazione, viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 10 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta con un colore rosso rubino con riflessi granati e con un impatto olfattivo complesso, pieno, intenso, che varia da note speziate di zenzero e tabacco, a percezioni dolci di crosta di pane caldo e burro fuso, fino ad arrivare a profumi di petrolio o a note più semplici di prugne cotte, frutti rossi, sentori vegetali e di ginepro. In bocca è suadente, elegante e potente con tannini vellutati e una sapidità che lo rendono lungo e persistente; chiude con una nota di rabarbaro. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1996 - 1997 -1999 Note: il vino, che prende il nome dalla borgata dove sono posizionati i vigneti, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 18 anni. L’azienda: di proprietà di Mauro Veglio dal 1992, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 11 Ha, tutti vitati. Per la vinificazione, Mauro si avvale della consulenza di Giuseppe Caviola.
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Mario Cordero e Luca Currado Ogni cosa ha un suo posto e una sua stagione, e gli avvenimenti si susseguono. Equilibrio significa sapere cosa è presente e cosa sta per subentrare e possedere la chiave per vivere in perfetta armonia con tale progresso. (Deng Ming-Dao, Il Tao per un anno, Guanda Editore)
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Se dobbiamo dire cosa rappresenta quest’azienda per noi e scegliere un unico termine per definirla, la sola parola che ci viene in mente, per quanto poco originale, è tradizione. Quando parliamo di tradizione non ci riferiamo all’accezione comune del termine, ma al significato che essa riveste per noi e che abbiamo coniato per lei, secondo la nostra interpretazione e secondo un esame attento della storia di questa famiglia, la quale, per arrivare al punto in cui si trova oggi, ha impiegato un secolo di tentativi, successi e delusioni. Un tempo molto lungo, sempre accompagnato da un grande orgoglio costruttivo che ci ha consentito di rialzarci davanti a qualsiasi avversità e ci ha fatto sempre camminare a testa alta, orgogliosi di avercela fatta in ogni occasione. È questo il significato, per noi, della parola tradizione, un mix di cocciutaggine, impegno e memoria, tra passato e presente, cento anni spesi a dare valore al tempo che, per lo più, è stato investito ad approfondire il “solco” su cui ogni elemento della famiglia si è personalmente impegnato e al quale ha dedicato la sua vita.
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È una tradizione “innovata” che è riuscita a seguire l’evoluzione dei tempi e i progressi che ad essi si accompagnano, attingendo alle memorie dei corsi e dei ricorsi storici, così da filtrare e sperimentare solo il meglio che la scienza ci mette a disposizione, consci che la stessa è serva, mentre la natura è padrona. Un esempio è ciò che accadde nel 2002, quando mezz’ora di grandine distrusse tutti i nostri sogni di gloria e, dopo essere stati viziati da sei annate consecutive di grandi risultati, quel nefasto evento atmosferico ci riportò con i piedi ben piantati per terra. Anche se viviamo in un momento in cui la tecnologia e la scienza danno un valido contributo alla viticoltura e all’enologia, è sempre la natura il giudice insindacabile del nostro agire e per questo crediamo che sia necessario trovare, nello scrupoloso rispetto delle sue variabili, sia l’equilibrio tra la grande voglia di fare e le possibilità oggettive offerte ogni anno dalla vigna, sia la chiarezza di obiettivi circa il prodotto che si desidera ottenere, attraverso una strada che non sia influenzabile dall’esaltazione per le grandi annate e dallo smarrimento per quelle pessime. Noi non siamo altro che piccoli operatori della vigna e non grandi industriali del vino abituati al protagonismo, ai successi e agli applausi; non avremmo potuto fare altro mestiere che questo, mai ripetitivo, sempre diverso, nel quale viviamo ogni vendemmia in modo epidermico e, quando poi magari arriva anche una gratificazione o un successo, c’è l’orgoglio di accogliere quel plauso che risulta tanto più sincero in quanto assolutamente non dovuto. Dobbiamo riconoscere che i recenti anni ‘80 sono stati molto belli sotto il profilo evolutivo dei metodi di vinificazione e quel fervore enologico che attraversò, come un’onda di piena, tutto il settore vitivinicolo, condusse a un riesame di tutta l’eredità acquisita fino a quel momento. Tutto si evolveva rapidamente e le certezze consolidate in decenni sembravano dissolversi come neve al sole, per ricomporsi poi in nuove forme, nascendo a nuova vita e aprendosi a nuovi sistemi di fare vino. Per questo salto interpretativo crediamo si debba dire grazie a una serie di molteplici fattori che hanno interagito fra di loro e che spaziano dall’interessamento del mercato, sempre più orientato alla qualità e alla tipicità, fino alla voglia di rivalsa di questa società contadina piemontese, e langarola in particolare, che ha visto in questo settore una via di uscita da quella stentatezza nella quale era sempre vissuta. Così abbiamo preso coscienza di quali fossero i reali valori della nostra tradizione vitivinicola, mantenendo in essere ciò che era utile e scartando il superfluo, fino ad arrivare al punto in cui la chiusa mentalità piemontese ha cominciato lentamente a modificarsi, iniziando a concepire il vino in maniera diversa, contemporanea, forse estremamente più difficile da creare, ma indubbiamente molto più gratificante. In questi anni è stato molto importante mantenere un atteggiamento di equanimità e imparzialità nei confronti del nostro lavoro, una sorta di sereno distacco che ci ha sempre fatto guardare con obiettività ai risultati raggiunti, così da consentirci di modificare, gradatamente, ciò che noi definiamo tradizione, costruendo per lei un abito nuovo, capace di coniugare il passato con il presente e far nascere un vino destinato al futuro, chiuso nella minuscola navicella spaziale di vetro della bottiglia che lo contiene.
Altri vini I Bianchi: Roero Arneis DOC (Arneis 100%) I Rossi: Dolcetto d’Alba DOC Tre Vigne (Dolcetto 100%) Barbera d’Alba DOC Scarrone (Barbera 100%) Barolo DOCG Lazzarito (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Rocche (Nebbiolo 100%)
La Crena Barbera d’Asti DOC Zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Barbera provenienti dal vigneto La Crena, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Agliano d’Asti, le cui viti hanno un’età di 74 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni limosi tendenzialmente argillosi, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 290 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Barbera 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4800 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito intorno alla metà di settembre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 8-10 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 32°C in recipienti di acciaio, mentre contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono praticati frequenti follature e rimontaggi.Terminata questa fase, il vino viene posto immediatamente in barrique di rovere francese a grana fine e di media tostatura, solo in parte nuove, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 16 mesi, al termine dei quali si effettua l’assemblaggio delle varie partite e, dopo un breve periodo di decantazione e senza alcuna filtrazione, viene imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 9500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino scuro con riflessi violacei e con profumi freschi, polposi, pieni e dolci di frutti rossi, di lamponi, ciliegie e note speziate di tostatura e liquirizia. In bocca ha un’entratura elegante, calda, con una struttura solida, tannini dolci ed equilibrati e una discreta sapidità che conferiscono al vino buona persistenza. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1996 - 1997 - 1999 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà delle famiglie Vietti, Currado e Cordero dal 1900, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 32 Ha, tutti vitati. L’azienda è condotta da Mario Cordero e Luca Currado con la collaborazione esterna degli agronomi Giampiero Romana e Paolo Ruaro.
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VIGNETI MASSA
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Walter Massa
Sono felice che tu sia venuto a trovarmi, che tu abbia potuto vedere dove abito e che cosa faccio, ma soprattutto sono contento che tu abbia avuto l’occasione di osservare quale sia l’ambiente e la realtà vitivinicola di Monleale, che tra l’altro è rappresentativa della realtà vitivinicola tortonese. Quello che puoi osservare non è più l’ambiente in cui sono cresciuto e ti posso assicurare che oggi è molto diverso da quando ero ragazzo e, terminata la scuola, montavo su un trattore a giugno e ne riscendevo a settembre, per tornarmene in classe. Non mi piaceva quel lavoro ripetitivo e ricordo che, non appena potevo, lasciavo tutto e scappavo in cantina da mio zio Giuseppe, al fianco del quale mi sono accostato alle radici pure e semplici di un’enologia che basava la sua ragion d’essere sul grappolo d’uva, sulla capacità di comunicare la sua bio-diversità, e sulla qualità di quelle uve che erano portate in cantina e che in silenzio diventavano vino e trasmettevano cultura. Erano anni difficili, durante i quali, a prescindere dal sacrificio fisico, facevo fatica ad accettare remissivamente lo stato in cui gravava quell’agricoltura. Rammento che la fonte primaria di reddito dell’azienda paterna era il pescheto, ma il lavoro che lo stesso richiedeva, fatto di dedizione e stoicismo, era scarsamente ripagato dal mercato. Fu in quegli anni che maturai la convinzione che in un futuro, neanche tanto remoto, vi sarebbero state due agricolture ben distinte: una dedita alla propria sopravvivenza e una invece orientata al piacere di promuovere il proprio saper fare. Così, dopo la scuola di enologia, che fui quasi costretto a frequentare per soddisfare le ambizioni di un padre che mi avrebbe visto più volentieri indossare un
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camice bianco che sporcarmi di terra come lui, rivoluzionai completamente l’azienda di famiglia trasformandola e dandogli un indirizzo prettamente vitivinicolo e non più promiscuo come prima. Questa mia cocciuta volontà di ritornare alla terra e di voler provare a mutare il corso delle cose, all’inizio impaurì e scatenò il dissenso in famiglia con notevoli contrasti generazionali che condussero a momenti di forte tensione fra me e mio padre Augusto, ma io ero sostenuto incondizionatamente da una madre meravigliosa. Non puoi capire quando incominciai il diradamento cosa accadde: in paese incominciarono a darmi del matto e non mancarono battute sul tema da parte della gente e di mio padre che non perdeva occasione per darmi del visionario. Pensa che un giorno una signora arrivò addirittura a propormi di ritardare quella vendemmia verde, poiché lei avrebbe voluto raccogliere l’uva per pigiarsela. Quelli erano i primi anni dell’agricoltura “ragionata” e si cominciava a parlare di qualità, di provenienza, di tipicità e di produzioni compatibili con l’ambiente. Istintivamente credetti fosse giunto il momento di darmi un’identità forte, capace di creare un distinguo netto fra me e gli altri piemontesi ed è lì che è nata la mia passione per l’autoctono che mi condusse alla riscoperta di vitigni che si erano ormai persi. Compresi presto però che nei limiti culturali del mio territorio avrei trovato difficoltà a perseguire, con la mia cocciuta ricerca della qualità assoluta, l’obiettivo di coinvolgere il tessuto vitivinicolo della zona, correndo il rischio di rimanere solo. E così è stato, ma nonostante tutto non è mai venuta meno la fiducia e ho continuato per la mia strada che mi ha condotto oggi a gestire una delle poche aziende vitivinicole alessandrine riconosciute dalla ristorazione nazionale. Devo riconoscere che in questo mio compito mi ha agevolato il fatto di avere avuto alle spalle una famiglia sana, integra; una famiglia-azienda che, dopo i primi screzi, mi ha sostenuto, collaborando fattivamente, piantando con me le nuove vigne, aiutandomi nell’acquisto di attrezzi di avanguardia per gestire vigna e cantina. Vieni però, ti voglio far fare un giro qui intorno, ti voglio far vedere le mie vigne, che per me valgono più di ogni altra cosa. Ecco, questa che vedi di fronte ha ancora il suo vecchio impianto verticale, memoria di quando era lavorata con i buoi che salivano chini e scendevano ritti; quella invece sulla tua destra l’abbiamo piantata dieci giorni fa e ci sono 6000 viti di Croatina, queste altre sono di Moscato e Barbera, mentre quell’altra vigna che è di fronte, a forma di T rovesciato, che non si vede troppo perché è coperta dall’albero, è tutta di Timorasso, un vitigno che aveva fatto innamorare Beppe Zerbino, un mio amico giornalista, scomparso di recente, che non perdeva occasione per raccontare le sue lodi e che io, in suo onore, ho chiamato vigna del Gattopardo. Lì dietro, dove vedi i fili della luce, ci sono altre vigne, tra cui la Costa del Vento e la Cerreta. Le conosco tutte, sono le mie silenziose compagne, dove mi rifugio quasi sempre sereno, ma ogni tanto “incazzato”. All’inizio ho fatto degli esperimenti, cercando di individuare quale fosse il percorso migliore per riuscire a fare un vino capace di declinare il proprio terroir. Mi sono accorto che più riesco a fargli parlare la sua lingua, perfezionandolo e approfondendo il mio rapporto con il vitigno, e più riesco a farmi interprete di questa terra, provando orgoglio nel presentarla nelle varie vetrine del mondo e provando stima di me nel divenire, in quelle occasioni, suo portavoce. Preferisco essere onesto e giocare con le carte che la natura mi ha dato distinguendomi con la Barbera, con una Croatina dignitosa e un buon Timorasso piuttosto che cimentarmi in un percorso enologico che mi condurrebbe su un territorio che non mi compete. È da molto tempo che sono convinto che la gente ricerchi autenticità, identità e non prodotti stereotipati e devo assicurare che alla lunga la mia scelta di lavorare su vitigni autoctoni mi ha ripagato, attraverso l’apprezzamento dei miei vini, dei molti sacrifici che ho fatto. Il nostro giro però è finito, direi che ti ho mostrato tutto; del resto non sono molte le cose che ho, ma fino a qui sono arrivato con le mie forze e con le mie idee e per me non c’è niente che conti di più. Ho cercato con dignità di dare senso ai sacrifici fatti dai miei “vecchi” ai quali rivolgo un umile “grazie”.
Costa del Vento Colli Tortonesi DOC Zona di produzione: il vino è una selezione delle migliori uve Timorasso provenienti dal vigneto Costa al Vento, posto nel comune di Monleale, le cui viti hanno un’età media di 15 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei con presenza di marne tufacee, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 270 e i 310 metri s.l.m. con esposizione a ovest. Uve impiegate: Timorasso 100% Tipologia impianti: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 20 al 25 settembre, si procede alla pigiatura delle uve raccolte, durante la quale si effettua una macerazione pellicolare che dura 12 ore alla temperatura di 13-25°C; al termine si procede a una pressatura soffice e il pigiato ottenuto, dopo una breve decantazione a freddo, si travasa e quindi si avvia alla fermentazione alcolica in recipienti di acciaio inox termocondizionati. Terminata questa fase, il vino viene lasciato sempre nei tini di acciaio sur lies. Si contribuisce a far svolgere interamente la fermentazione malolattica. Al termine della maturazione, dopo la stabilizzazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7500 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, mentre all’esame olfattivo ha percezioni minerali e agrumate che si vanno ad aprire a note fruttate di pesche a pasta gialla e mango per finire con nuances vegetali e di miele. In bocca ha una bella struttura sapida ed equilibrata che rende il vino piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997 - 1999 - 2002 - 2004 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Massa dal 1879, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 30 Ha, di cui 18 vitati e 12 occupati da frutteti. Svolge le funzioni di agronomo e di enologo Walter Massa coadiuvato dal cugino Franco che si occupa dei frutteti e dalla sorella Paola.
Altri vini I Bianchi: Colli Tortonesi DOC Derthona (Timorasso 100%) Colli Tortonesi DOC Casareggio (Cortese 100%) Colli Tortonesi DOC Muscatè (Moscato Bianco 100%)
I Rossi: Colli Tortonesi DOC Monleale (Barbera 100%) Colli Tortonesi DOC Pietra del Gallo (Freisa 100%) Colli Tortonesi DOC Pertichetta (Croatina 100%)
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VILLA SPARINA
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Stefano Moccagatta
È bello chiacchierare amabilmente con te sotto questa pergola in questo pomeriggio d’estate, anche se, perché tutto sia perfetto, su questo tavolo manca un salame da affettare e un buon bicchiere di vino da degustare. Sei capitato in un momento giusto, e sai perché? Perché per me questo è un momento di felicità e di grandi soddisfazioni e mi fa enormemente piacere condividerlo con te, aprendoti il mio animo e mettendoti a conoscenza dei risultati che sono riuscito a ottenere attraverso la mia passione per il vino e per questa terra, per l’ospitalità e le tradizioni. Da qui posso mostrarti Villa Sparina e se ti volti, tutto intorno potrai notare come essa sia immersa completamente tra i vigneti. Non credi anche tu che qui tutto sia bello? Questi sono i luoghi dove si svolge la vita lavorativa della mia famiglia, di mio padre, di mia madre, dei miei due fratelli e anche di molta altra gente che ha sempre creduto in questo splendido progetto che oggi felicemente vedo funzionare. E sai perché tutto sta funzionando? È semplice, perché tutti condividiamo gli stessi obiettivi e ci sentiamo obbligati ad essere più che perfetti nel costruire intorno all’azienda un “mondo” capace di rappresentare i profondi valori positivi di ospitalità e generosità che sono da sempre patrimonio della mia famiglia. Io, del resto, come potrai constatare, quando parlo del mio lavoro sorrido, perché credo che la cosa più importante sia la gioia che uno mette nel fare le cose in cui crede. È un modo sano di affrontare la vita e questa fiducia nell’esistenza e nei miei progetti, spinge un uomo a realizzare i propri sogni; la insegnerò anche a mia
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figlia, cercando di trasferirle l’entusiasmo e la stessa passione che mi ha insegnato mio padre Mario, il quale, in questi ultimi trent’anni, ha promosso questo territorio vitivinicolo con intelligenza cercando di farlo crescere a livello d’immagine. Fu nel 1978 che mio padre acquistò questa azienda insieme ad alcuni amici, per avere, soprattutto, un buen retiro gastronomico dove potersi ritrovare per allegre serate in compagnia. Con il tempo, gli amici si sono via via ritirati per svariati motivi, ed egli si è ritrovato unico “castellano” di Villa Sparina. Innamorato com’era di questa terra, di questa casa e di queste cantine decise di investire prima nelle vigne e poi, con gli anni e con l’ingresso dei suoi tre figli, nel progetto dell’albergo L’Ostelliere e del ristorante La Gallina, cercando di mettere a punto e di perfezionare il suo concetto ideale di un’ospitalità, calda e amichevole, e di una ristorazione che offrisse i sapori del territorio, qualificandolo attraverso un’accorta promozione dei suoi aspetti più tipici. Ogni tanto guardandolo non ti nego che sorrido, perché mi viene spontaneo accostarlo un po’ a un principe umanistico che ha cercato di plasmare il vino, l’ospitalità e il cibo alle sue idee, facendo diventare quest’azienda uno strumento promozionale perfetto del suo grande amore per questa terra di Gavi. Lui ci ha insegnato che gli attori principali di questo film, dal titolo “Villa Sparina”, siamo noi e quindi soltanto nostra sarebbe stata la responsabilità di fare un grande flop oppure di dare una grande personalità alla sua trama e alla sua sceneggiatura, cercando di interpretarla a nostra immagine e somiglianza, basandoci sui valori in cui crediamo. In questo percorso non abbiamo fatto fatica ad assecondarlo, forse quello che ci chiedeva era già dentro di noi e il sacrificio è stato minimo nello sviluppare progetti che fossero positivi per il futuro, utili per noi e per i nostri figli, ma anche per la gente che, senza esitare, ci ha accompagnato in questi anni lungo tutto questo percorso di crescita, siano stati essi i contadini o gli impiegati, che collaborano a stretto contatto con noi, oppure i giornalisti, i nostri clienti o quel pubblico eterogeneo delle degustazioni, tessere di un mosaico variegato, potenziali clienti verso i quali abbiamo tenuto sempre alta l’attenzione, cercando di condividere con tutti i nostri traguardi, la nostra spontaneità, la nostra creatività e la qualità delle nostre idee. Le prime ombre del tramonto cominciano a calare sui vigneti, un venticello leggero muove le fronde della pergola e io credo di averti detto tutto. La sola cosa che mi dispiace è che non sia arrivato né quel salame, né quel bicchiere di vino, ma sicuramente per me è meglio così. Sono qualche chilo sovrappeso e dovrei mangiare un po’ di meno, ma quando sono con gli amici... come si fa a non mangiare? Non è consigliato, si fa brutta figura e poi è anche maleducazione, non trovi? L’assenza del salame e del vino comunque non ha tolto niente al grande piacere che ho avuto nel dialogare con te. Sai, se mi guardo intorno, scopro che questa terra mi piace sempre più, soprattutto a quest’ora, quando le ombre cominciano a profilarsi sui vigneti e mi sento a casa e, per uno come me che è sempre in giro per il mondo, ti posso assicurare che è una bella sensazione. Ma è con piacere che vedo che anche tu ti senti a casa ed è per questo che spero che tu rimanga a cena con me e con altri amici che dovrebbero arrivare da un momento all’altro. Lo so che devo frenare questa mia passione per la tavola, come spesso mi ricordano mia moglie e mia figlia Ludovica; lo so, ma non è facile e poi sono di un segno zodiacale, i Pesci, che non mi aiuta e per natura sono curioso, sognatore, un passionale a cui piace stare in compagnia, godere delle cose belle della vita soprattutto se condite dal sale del buonumore e dell’allegria. Quando mi guardo intorno, come ora, e assaporo l’aria profumata di questa valle, mi chiedo cosa potrebbe riempirmi di più lo spirito e quale altro luogo potrebbe aggiungere alla mia vita qualcosa che ancora non ho. Non trovo risposta, perché in realtà la risposta non esiste e poi io non vorrei stare che qui e in nessun’altra parte del mondo, perché questo è il mio ombelico del mondo.
Altri vini I Bianchi: Villa Sparina Brut (Cortese 100%) Villa Sparina Gavi DOCG del Comune di Gavi (Cortese 100%) Monterotondo Gavi DOCG del Comune di Gavi (Cortese 100%) Monferrato DOC Bianco Montej (Muller Thürgau 40%, Chardonnay 30%, Sauvignon blanc 30%) I Rossi: Monferrato Rosso DOC Sampò (Barbera 90%, Merlot 10%) Dolcetto d’Ovada DOC Maioli (Dolcetto 100%)
Rivalta Monferrato Rosso DOC Zona di produzione: il vino è un blend prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Barbera e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, situati nel comune di Rivalta Bormida, le cui viti hanno un’età media di 50 anni. Tipologia dei terreni: i vigneti si trovano in una zona collinare su terreni calcarei e argillosi, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 320 metri s.l.m. con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Barbera 95%, Merlot 5% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito intorno alla prima decade di ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 8-10 giorni alla temperatura di 24-28°C in recipienti di acciaio; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale si praticano frequenti follature e rimontaggi. Terminata questa fase, i vini sono posti immediatamente in barrique nuove di rovere francese a grana fine e media tostatura, in cui svolgono la fermentazione malolattica e dove rimangono per circa 18 mesi, al termine dei quali si effettua l’assemblaggio delle varie partite e il blend ottenuto, dopo un breve periodo di decantazione e senza alcuna filtrazione, viene imbottigliato per un ulteriore affinamento che dura altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore rosso rubino scuro con riflessi violacei e con profumi freschi, polposi, pieni e dolci di frutti rossi, lamponi e ciliegie a cui si aggiungono note speziate, di liquirizia e tostatura. In bocca ha un’entratura elegante, calda, con una struttura solida, tannini morbidi ed equilibrati e una discreta sapidità che conferisce al vino una buona persistenza. Prima annata: 1996 Le migliori annate: 1996 - 1997 - 1998 - 1999 2000 - 2001 - 2003 Note: il vino, che prende il nome dalla zona di provenienza, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 12 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia Moccagatta dal 1978, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 120 Ha, di cui 56 vitati e 64 occupati da prati, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Giampiero Romana e l’enologo Giuseppe Caviola.
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VOERZIO ROBERTO
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Roberto Voerzio
C’è chi cura in maniera particolare la cantina, chi l’immagine, chi si concentra sulla parte commerciale e chi invece, come me, orienta tutte le sue energie solo ed esclusivamente alla vigna. È con questo concetto e con questa semplice idea in testa che da oltre vent’anni continuo a fare il vino, prodigandomi nel mestiere che mi riesce meglio: il contadino; un lavoro duro, fatto di sacrifici, di oculata attenzione nei confronti della natura e della vite, che necessita di essere seguita per poter dare frutti eccezionali capaci di trasformarsi in grandi vini. Sarà che io ci sono nato fra queste vigne, ma a me rimane facile pensarla così. È qui che sono cresciuto, proprio fra questi filari, annusando l’odore del vino e riconoscendo quali fossero quelli degni di chiamarsi tali, divenendo adulto proprio in un momento in cui si percepiva un gran fervore intorno al Barolo e sembrava che tutto fosse facile e le cose venissero lisce come l’olio. Con gli anni ho preso coscienza dei mezzi e delle mie capacità che si sono consolidate, insieme all’idea di quale doveva essere il mio approccio a quella campagna, facendo nascere in me la voglia di misurarmi e dimostrare quanto valessi, non dimenticando mai che solo attraverso il lavoro avrei potuto affermarmi, sia come uomo, sia come vignaiolo. Una sana ambizione che non mi ha mai abbandonato e che in questi anni mi ha dato la forza di non arrendermi, andando avanti per la mia strada. Ho sempre pensato che per ottenere grandi risultati fosse necessario puntare in alto e io l’ho fatto mettendo insieme, dal 1986 a oggi, i vigneti più belli di questa zona, dei crus
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sui quali produco vini che rispondono a standard qualitativi unici, stando attento a non lasciarmi incantare dai facili guadagni o dai ritorni economici, che, pur arrivando, non hanno modificato la mia indole semplice di contadino. In questi anni ho assistito ad una lenta ma inesorabile metamorfosi del sistema vitivinicolo di queste Langhe, come se tutti, “colpiti da improvviso benessere” avessero dimenticato le loro origini. Ma se il vino nasce nel vigneto, come tutti sostengono, perché avrei dovuto smettere di fornire a quell’habitat le cure necessarie? Perché avrei dovuto modificare quel lavoro manuale che contraddistingue da sempre questa zona e che mi conduce ad avere un rapporto meraviglioso e maniacale con ogni pianta, con ogni filare e ogni vigneto di mia proprietà? E se è necessario rispettare l’ambiente e la natura, per quali motivi avrei dovuto inserire nella mia filiera produttiva sostanze chimiche invece di ricercare un sano equilibrio del mio terroir con concimazioni e procedure naturali? Domande alle quali ho dato, negli anni, risposte precise che non ammettevano titubanze e che non si sono mai modificate nel tempo, a prescindere dal successo ottenuto, che peraltro ha consolidato e avvalorato le mie idee. Ho sempre considerato quei filari come se fossero l’officina nella quale ottempero a tutte le necessarie fasi della messa a punto del mio motore per avere sempre la certezza delle migliori performances. Una volta che il motore è a posto, tutto il resto è un accessorio: dalla tecnologia estrema in cantina alla pubblicità sulle guide, dalla scenografia dei winemakers, ai lustrini dei palcoscenici alla moda, dalle lusinghe dei giornalisti al frastuono assordante che c’è, oggi, intorno al mondo del vino. No, io non ho bisogno di questo, faccio sì e no due degustazioni all’anno, poi lascio che parlino le mie bottiglie, che sanno raccontare in modo perfetto le emozioni, che sanno parlare di me più di quanto ci riesca io stesso, e che sanno gratificarmi sapendo quanto mi sia spaccato la schiena su quella terra e quante attenzioni abbia riservato a quelle mie vigne controllandole come il più scrupoloso dei meccanici. Certo, fossi più presenzialista, facessi più incontri con la stampa o frequentassi di più i circoli esclusivi del vino, potrei aumentare certamente il fatturato e l’azienda ne trarrebbe guadagno. Ma a me piace essere un piccolo produttore ed è così che voglio rimanere, convinto come sono che non si possono servire contemporaneamente due padroni e la passione mi spinge verso quelle vigne dalle quali la notorietà mi allontanerebbe. Sarà che io non mi dimentico mai da dove arriva il vino, che la terra è bassa, che la zappa pesa, che è fatica passare le viti una ad una, ma non mi identifico con la figura contemporanea del vignaiolo che visita la sua vigna con il “SUV” durante i weekend. Io la devo sentire, devo avere con lei un rapporto epidermico, devo seguirla, controllarla, interpretando le sue variazioni con l’intuito e la sensibilità che ho acquisito negli anni stando a contatto con questa terra nella quale sono nato. Ci vuole tanta pazienza per fare il vino, bisogna saper attendere senza fretta abituandosi all’ansia del brutto tempo e alla gioia per ogni singola giornata di sole, ma nello stesso tempo ho fretta di sapere come sarà il mio vino del futuro. Del resto è nella mia indole, guardo, come sempre, il giorno dopo e mai a cosa è stato, così, quando passeggio tra le vigne penso al vino che farò fra dieci anni e mai al vino che ho appena fatto, e in silenzio cerco di sentire l’umore di quelle piante e cerco di immaginarmi che vendemmia verrà. So di non essermi fermato neanche un minuto a godere dei risultati ottenuti; a che servirebbe poi? Ciò che è stato è stato; così, confidando ciecamente in quelle viti, ogni giorno cerco di andare avanti e punto dritto per ottenere un piccolo risultato quotidiano che sono sicuro, arriverà, se sarò capace di continuare a guardare con ottimismo al futuro.
Altri vini I Rossi: Barolo DOCG Cerequio (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG La Serra (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Rocche dell’Annunziata Torriglione (Nebbiolo 100%) Barolo DOCG Vecchie Viti dei Capalot e delle Brunate Riserva (Nebbiolo 100%) Langhe DOC Vigneto Fontanazza (Merlot 100%) Barbera d’Alba DOC Pozzo dell’Annunziata Riserva (Barbera 100%)
Brunate Barolo DOCG Zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Nebbiolo provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto nel comune di La Morra, le cui viti hanno un’età che varia dai 6 ai 38 anni. Tipologia dei terreni: il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni marnoso-argillosi con una struttura solida, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 310 metri s.l.m. con esposizione a sud-sud/est. Uve impiegate: Nebbiolo 100% Sistema di allevamento: controspalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dal 20 settembre al 10 ottobre, si procede alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 12 giorni alla temperatura di 32°C in tini di acciaio termocondizionati; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura altri 6-8 giorni, periodo durante il quale vengono effettuati rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino svolge la fermentazione malolattica sempre in acciaio, prima di essere posto in barrique di rovere francese a grana fine e di media tostatura di primo e secondo passaggio, in cui rimane per circa 24 mesi durante i quali vengono effettuati almeno 2 travasi. Al termine di questa prima fase di maturazione il vino viene assemblato e inserito in botti di acciaio, dove prosegue l’affinamento per altri 8 mesi. Terminata questa fase, senza alcuna filtrazione, il vino viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento che dura altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3000-4000 bottiglie l’anno Note organolettiche: il vino si presenta di un bel colore rosso rubino con riflessi granati, mentre all’esame olfattivo affascina per le percezioni e i profumi dolci che trasmette immediatamente, con eleganti note fruttate di mora e mirtilli che lasciano spazio a nuances di rose rosse e poi di cuoio. In bocca ha un’entratura pulita, calda, potente, con tannini rotondi ma evidenti che insieme a una grande sapidità conferiscono al vino freschezza e lunghezza notevoli. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1989 - 1990 - 1995 - 1996 - 1997 1999 - 2000 - 2001 Note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà di Roberto Voerzio dal 1986, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 12 Ha, tutti vitati. Svolge la funzione di agronomo e di enologo lo stesso Roberto Voerzio.
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Finito di stampare nel mese di Dicembre 2005 presso la Tap Grafiche S.p.A. Poggibonsi (SI) - Italy
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PIEMONTE ... la signora del vino Non me ne vogliano quindi i produttori piemontesi, né gli appassionati del vino, se solo ora mi sono avviato alla conoscenza di questa terra, ma, posso assicurare, che, fin dalla genesi dell’idea della collana editoriale, ho sempre ritenuto che questo Piemonte meritasse qualcosa di più rispetto a ciò che io ero in grado di offrirgli solo cinque anni fa. Non ho remore ad ammetterlo e del resto ho preferito fare un buon tirocinio prima di avventurarmi nell’Astigiano, nel Gavi, nelle Langhe o di spingermi nel Gattinara, nel Canavese o sulle colline Tortonesi; un tirocinio necessario e utile, soprattutto, per incontrare quei personaggi che hanno fatto la storia non solo dell’enologia piemontese, ma anche di quella italiana e, con il tempo, ne sono divenuti ambasciatori nel mondo. Così, in compagnia del mio inseparabile amico di viaggi, Giò Martorana, le cui immagini sono ancora una volta il degno corollario a questo mio lavoro editoriale, mi sono avventurato in questa terra cercando di accostarmi alla sua realtà con il desiderio di approfondire le mie conoscenze enologiche, crescere attraverso una nuova esperienza, arricchirmi sia come semplice appassionato del vino, sia come uomo, con l’animo sereno, la consapevolezza e il sorriso di chi era convinto di poter andare incontro a un’esperienza veramente unica. Così è stato.