Toscana. Anima del vino

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TOSCANA L’OBBEDIENZA ALLA TERRA


TOSCANA L’OBBEDIENZA ALLA TERRA

di Andrea Zanfi Fotografie: Luigi Biagini - Giò Martorana Coordinamento editoriale e di redazione: Marco Biotti Direzione artistica: Laura De Biasio Still-life delle bottiglie: Stefano Tonicello Traduzioni: StudioLingue2000 - Molfetta (BA) Fotolito e stampa: Tap Grafiche S.p.A.

Un sincero ringraziamento al Consorzio del Vino Nobile di Montepulciano e al Consorzio Tutela Vini Bolgheri DOC per la disponibilità, il sostegno e l’ospitalità concesse allo staff della Carlo Cambi Editore. 2009 © Copyright Carlo Cambi Editore Carlo Cambi Editore Via San Gimignano snc 53036 Poggibonsi (Siena) Tel. 0577 936580 - Fax 0577 974147 www.carlocambieditore.it - info@carlocambieditore.it Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy I diritti di riproduzione, di traduzione, di memorizzazione elettronica e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi microfilm, copie fotostatiche e cd), nonché l’inserimento in siti internet, sono riservati per tutti i paesi. Prima edizione: dicembre 2009 ISBN Versione italiana: 978-88-6403-004-3 ISBN Versione inglese: 978-88-6403-005-0


ANDREA ZANFI Fotografie GIÒ MARTORANA LUIGI BIAGINI

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CARLO CAMBI EDITORE



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L’obbedienza alla terra di Andrea Zanfi

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La Toscana del vino tra passato e futuro di Zeffiro Ciuffoletti e Leonardo Casini

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La parola ai produttori e agli enologi Il futuro della viticoltura e del vino in Toscana. Opportunità e vantaggi, problematiche e incertezze di un sistema vitivinicolo in via di grandi cambiamenti

Ritratti di vignaioli toscani 54 58 62 68 72 76 82 86 90 96 100 104 110 114 118 124 128 132 138 142 146 152 156 160 166 170 174 180 184 188 194

Agricola San Felice Altesino Amerighi Antinori - Tenuta Guado al Tasso Avignonesi Badia a Coltibuono Banfi Barone Ricasoli - Castello di Brolio Biondi Santi Boscarelli Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano Casanova di Neri Castell'in Villa Castello di Ama Castello di Bolgheri Castello di Cacchiano Castello di Fonterutoli Castello di Gabbiano Castello di Monsanto Castello di Querceto Ciacci Piccolomini d’Aragona Col d’Orcia Collemassari Colognole Contucci Costanti Andrea Dei Dionisio Fabrizio Eredi Fuligni Fattoria Colleverde Fattoria del Cerro

198 202 208 212 216 222 226 230 236 240 244 250 254 258 264 268 272 278 282 286 292 296 300 306 310 314 320 324 328 334 338

Fattoria di Magliano Fattoria Lavacchio Fattoria Le Pupille Fattoria Nittardi Fattoria Poggio di Sotto Fattoria San Felo Fattoria Selvapiana Fattoria Sorbaiano Fèlsina Fontodi Frescobaldi - Castello di Nipozzano Grattamacco Gualdo del Re Guicciardini Strozzi - Fattoria di Cusona Icario Il Marroneto Isole e Olena La Cipriana Lamole di Lamole Le Casalte Le Macchiole Massa Vecchia Mastrojanni Molino di Sant’Antimo MorisFarms Ormanni Pacenti Siro Panizzi Petra Piaggia Pieve de’ Pitti

342 348 352 356 362 366 370 376 380 384 390 394 398 404 408 412 418 422 426 432 436 440 446 450 454 460 464 468 474

Pieve di Santa Restituta Podere Forte Podere Le Bèrne Podere Le Boncie Poggio Argentiera Poliziano Querciabella Rocca di Montegrossi Roccapesta Salustri Salvioni - La Cerbaiola San Giusto a Rentennano Satta Michele Tenimenti d’Alessandro Tenuta Argentiera Tenuta del Buonamico Tenuta dell’Ornellaia Tenuta delle Ripalte Tenuta di Capezzana Tenuta di Lilliano Tenuta di Valgiano Tenuta Fanti Tenuta San Guido Tenuta Valdipiatta Tenuta Vitereta Tenute Folonari Tenute Silvio Nardi Terenzuola Uccelliera


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L’obbedienza alla terra Mi domandavo, fin da quando ho deciso di affrontare questa nuova avventura editoriale, che rappresenta l’ottavo volume della collana “le grandi aziende vitivinicole d’Italia” se, da toscano quale sono, avrei mai potuto avere l’occhio e l’animo sgombri dall’appannamento che l’amore e l’attaccamento per questa mia terra mi hanno costruito e cementificato dentro. Mi ripetevo che anche questo doveva essere un viaggio come gli altri e che, come gli altri, mi avrebbe dovuto spingere a verificare, con occhio critico, lo stato dell’arte del settore vitivinicolo di questa regione, rimanendo il più possibile libero da qualsiasi sentimentalismo, per essere critico e costruttivo come penso di essere sempre stato. Bastava che visitassi il maggior numero di aziende per arrivare a scattare una fotografia dell’esatto momento storico che stava vivendo il settore enologico di Toscana. Semplice, no? Per le altre regioni, affrontate nei precedenti volumi, lo era stato, e tutto era risultato più facile, poiché conoscevo i vini, e andare a visionare le idee, gli usi e i costumi che animano lo spirito e l’essenza dell’operato di quei contadini, vignaioli o imprenditori, era un’impresa, un vero viaggio con il quale arricchivo il mio animo e crescevo come uomo e come narratore di quelle storie private che da anni vado scrivendo. Per la Toscana tutto mi appariva più complicato. Forse perché conoscevo bene quale fosse lo spirito che animava gran parte di quelle figure che mi apprestavo a visitare, avendo instaurato con loro, nel tempo, un franco e costruttivo dialogo, sia con quei Prìncipi, Marchesi e Conti che qui, più che in ogni altra parte d’Italia, hanno saputo costruire una signorile aristocrazia rurale e un legame indissolubile con il territorio, sia con quei contadini-vignaioli di cui comprendevo bene la visione artigianale delle cose, essendo stato per anni vicino a zii, parenti e amici, che ho sempre creduto non fossero stati concepiti dal grembo di una donna, ma fossero stati “impastati” con la terra e il vino, costruendomi, al loro fianco, i bellissimi ricordi di quel mondo agricolo che dava animo, fino ad una trentina di anni fa, alle campagne toscane. Sentivo che, per raccontare il mondo del vino di questa regione, non mi sarebbe bastato osservare e descrivere l’alchimia che determina quei loro meravigliosi risultati enologici, ma avrei dovuto scoprire che cosa vi fosse ancora di vero fra quelle viti, cosa fosse sopravvissuto al perseverante globalismo dei mercati, cosa fosse rimasto di quella grande storia e tradizione vitivinicola e come quei contadini, vignaioli o imprenditori se ne facessero interpreti, con quale operosità filosofica cercassero di costruire un nuovo o diverso futuro per questa terra, che io trovavo intensamente ricca di spiritualità, capace solo di creare armonia. Per questo viaggio non volevo seguire il cliché degli altri libri; non cambiando metodo, ma sostanza, mi interessava andare a ricercare quanto, ancora, fosse sopravvissuto di quello spirito toscano che così tanto aveva contribuito a costruire questo paesaggio e quanto quel senso del bello, che ad esso si accompagna, capace di ispirare le menti eccelse di artisti e poeti, fosse ancora dentro quei vignaioli. Se quello che stavo osservando era arrivato ai nostri giorni, significava che c’era stato chi, per lunghi secoli, aveva sempre rispettato quest’ambiente, attuando pratiche in perfetto equilibrio con ciò che lo circondava, ponendo le vigne, così

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come i campi di grano, gli antichi, nobili e immortali olivi e tutti gli altri elementi che compongono il paesaggio, lì, esattamente dove dovevano stare. Un territorio antropomorfizzato, che era così proprio perché era stato amato. Esistevano ancora quegli uomini? - mi domandavo. E quanti di questi vignaioli, contadini e imprenditori possedevano ancora la sensibilità di sentirsi parte integrante dei luoghi in cui lavoravano? Quanta poesia esisteva ancora nel loro saper fare? E quanti “macchiaioli” c’erano in circolazione fra queste vigne? E quanti di loro avrebbero avuto il coraggio, come Severini, di scrivere Chianti all’incontrario? Sentivo il bisogno di avvicinarmi in modo diverso ai pensieri di quella gente, per comprendere quanta obbedienza antica vi fosse, in loro, per la terra. Quello che mi incuriosiva era scoprire se, in questa Toscana, fosse più forte il valore relazionale fra il vino e il territorio o quello fra uomo e terra, a cui sentivo di dover porre più attenzione. Perplessità e domande che nascevano, come ogni volta, prima di un lungo viaggio. Ma qui era diverso, proprio per il fatto che avevo assistito, in poco meno di trent’anni, fra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Novanta, a una serie di mutamenti del comparto, che era cambiato repentinamente, modificando la stessa cultura enologica di questi nostri territori viticoli, sui quali si era voluto coprire, in poco tempo, un gap temporale di seicento anni, innescando una frenetica e smaniosa corsa verso il nuovo, durante la quale, mi ero accorto, molte cose erano state distorte, ma altre, per fortuna, erano sopravvissute, anche se, di sicuro, erano andate perse, per strada, importanti opportunità, con le quali, forse, non sarebbero stati commessi certi errori macroscopici. Una trasmigrazione epocale che era stata figlia di una sempre maggiore omologazione dei vini prodotti, che dovevano assomigliare, non si sa perché, a un modello, prodotto da qualche altra parte, o, peggio ancora, piacere a qualcuno che non parlava neanche il toscano; un’uniformazione che aveva condotto ad una nuova e quanto mai destabilizzante percezione della reale identità dei territori che doveva essere, invece, valorizzata, prendendo spunto proprio dalle specifiche e peculiari diversità che li caratterizzavano. Una confusione che non aiutava a risolvere i miei dubbi, né quelli dei mercati, per i quali mi sembrava di percepire che vi fosse più interesse al concetto dell’origine dei vini che non a quello della loro provenienza. Era proprio il ragionamento intorno all’origine dei vini che mi preoccupava e mi riconduceva alle domande iniziali sulla terra e su ciò che essa rappresentava per questi vignaioli, e cosa essa potesse offrire se lavorata e rispettata da chi, conscio del suo ruolo e delle sue responsabilità, avesse saputo tutelarla e salvaguardarla come custode attento e conservatore oculato di un presente che appartiene alle generazioni future. Con questo spirito e questa volontà mi sono messo in movimento, per arrivare all’anima del mondo del vino toscano, a me amico, trovando in esso più la volontà che la determinazione di voler mantenere ciò che la storia, il “bello” e la tradizione avevano costruito. Un viaggio lungo quasi 3 mesi, nel corso del quale sono state contattate 112 aziende, ne ho visitate più di cento e inserite nel volume 91; un viaggio che mi ha portato dalla zona di Rufina a quella del Chianti Classico, dalla Lunigiana alle colline


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lucchesi e a quelle pisane e poi giù, verso il mare, a Bolgheri, per risalire, verso l’interno, a Cortona, Montepulciano e Montalcino e ridiscendere, attraverso la Val d’Orcia, verso la costa maremmana. Un girovagare attento e scrupoloso, durante il quale ho incontrato contadini, vignaioli, imprenditori e “bischeri”, i quali non mancano mai. Tutte terre da vino - come amo definirle - rispetto alle quali ho riscontrato, il più delle volte, l’aspirazione, da parte dei miei interlocutori, di mantenere viva proprio quell’armonia tra uomo e terra che andavo cercando, anche se, certe volte, in alcuni casi, rari per fortuna, era portata avanti più per senso estetico che come misura dell’animo, con la quale, in passato, altri avevano costruito le pievi, i severi manieri e i monasteri, quelle splendide e lineari case coloniche in pietra, disegnato colline e reso fertili le vallate, come espressione di un equilibrio interiore, etico e spirituale che, ahimè, è andato annacquandosi, ma non si è dissolto, poiché mi è capitato di incontrarlo, in certi casi, più vivo che mai. Un viaggio che mi ha riconciliato con la mia Toscana, notando come queste terre, pur cambiando padroni e passando di mano in mano, siano, fortunatamente, poliedriche, eclettiche e talmente forti che hanno saputo adattarsi e confrontarsi con tutte quelle culture che le hanno calpestate e provato a dialogare con loro. Sono terre ormai avvezze a sentir parlar, di rado, il toscano e non si meravigliano più a sentir dialogare in “forestiero” e non si scompongono, neanche più di tanto, della babele di lingue che si ode ad ogni angolo di strada, in ogni trattoria o filare. Con pazienza e in silenzio si lasciano accarezzare, acconciare, coccolare o vestire come vogliono questi nuovi vignaioli, sapendo che la toscanità, che esse rappresentano, va ben oltre questo, ed è talmente unica e irripetibile che andrà al di là di quella loro umana esistenza. Terre dal caloroso abbraccio, dove ho visto un miliardario, un Principe o un avvocato diventare contadini, e contadini e mezzadri diventare Principi e Baroni del vino; dove ho visto il fiorire di una genìa nuova di vignaioli quelli che altri hanno definito gli inventori della polvere da sparo - gli stessi, che una volta arrivati in Toscana si sono arrogati il compito di insegnare ai vecchi vignaioli di queste terre a fare il vino, ma, con la fretta di far soldi, si sono dimenticati di farlo da toscani, contribuendo a depredare la storia viticola di questi territori. Gente di poco conto, che ho cercato di isolare e mettere da parte, concentrandomi invece sulla vigorìa, pulsante e viva di chi si è appoggiato proprio su quella tradizione la quale ha dimostrato di aver successo e che, essendo entità culturale di una popolazione, non è statica, ma in continuo divenire ed è parte integrante di quell’innovazione che ha saputo trasformare il passato, evitando che lo stesso si impadronisse del futuro. Un passato che è divenuto stimolo e motivo di progresso, promuovendo la combinazione che si è venuta a creare fra ruralità e modernità, fra storia e innovazione, fra tipicità e naturalità, verso cui sempre più vignaioli si stanno orientando, e non è un caso, forse, che molti di essi, il 20% di quelli presenti in questo libro, stiano instradando le loro “culture” verso un sistema biodinamico. Una nuova direzione che apre a più interessanti prospettive, dimostrando come, ancora una volta, questa viticoltura toscana vada avanti, modificandosi continuamente, con una capacità non usuale di progettare un diverso futuro, nella speranza di riacquisire quella leadership del comparto enologico nazionale che ha sempre avuto.


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La Toscana del vino tra passato e futuro La Toscana, come è noto, è stata l’artefice della lunga rincorsa che ha portato la vitivinicoltura italiana a gareggiare con quella francese in qualità e quantità. A metà Ottocento fu proprio il Barone Ricasoli, nella fattoria di Brolio, in Chianti, a sperimentare e poi a realizzare un vino rosso da pasto destinato a invertire la marcia della lunga decadenza della vitivinicoltura italiana. Il Chianti era già da secoli, come il Montalbano, il Montepulciano, il Montalcino, il Pomino, una terra votata alla vitivinicoltura, ma la qualità dei vini era complessivamente scadente e da tempo la prestigiosa Accademia dei Georgofili invitava i proprietari toscani a seguire i progressi della vitivinicoltura d’Oltralpe e la qualità dei vini francesi che si erano imposti nel mercato internazionale. Così, grazie al Barone di Brolio e alla cura rigorosa con cui dalla terra alla cantina veniva trattato il vino prodotto da Ricasoli, in Toscana, ma anche in tutte le altre regioni vitivinicole italiane, si cominciò a seguirne l’esempio. La scelta del Barone aveva valorizzato un vitigno, il “Sangioveto”, che per il suo “profumo” e la sua “vigoria” rappresentava la madre di tutti i grandi vini toscani, dal “Nobile” di Montepulciano al “Brunello” di Montalcino, sino al “Morellino” di Scansano, ma anche un territorio, il Chianti, diventato tra ‘800 e ‘900 sinonimo del successo del vino italiano. Per i vini di Brolio cominciarono ad arrivare premi in molte grandi esposizioni internazionali, al punto che proliferarono le falsificazioni e le frodi. In effetti, complice la fillossera che aveva colpito duramente la vitivinicoltura francese, la domanda di vino Chianti, già alla fine dell’Ottocento, stava aumentando sia sul mercato interno che su quello internazionale. Ricasoli aveva anche fatto capire ai produttori italiani quanto fosse importante non solo seguire al massimo tutti i perfezionamenti nella vigna e in cantina, ma anche l’impegno nel marketing per qualificare, distinguere e vendere al meglio i vini di qualità, soprattutto nei più evoluti mercati esteri, dove i vini francesi dominavano incontrastati. Per una serie di ragioni, comprese quelle di natura normativa relative al ritardo nella regolazione del prodotto e sulla tipicità in rapporto al tipo di vino, al territorio e all’azienda, i vini italiani, dopo il primo grande impulso dell’Ottocento, non continuarono a perfezionarsi. Ci volle il secondo dopoguerra per assistere a un nuovo risorgimento. Allora, sull’onda di un enologo geniale e di mente aperta come Giacomo Tachis, superando le pratiche tradizionali e le rigide normative dei disciplinari, si riuscì a produrre, riguadagnando il tempo perduto, dei “nuovi” e grandi vini, come il Sassicaia o il Tignanello, destinati a salire alle vette più alte delle classifiche mondiali e a riaprire la strada all’ascesa dei nostri vini sul mercato internazionale. Ancora una volta la Toscana era stata di impulso ad un movimento di produttori grandi e piccoli capaci di rilanciare in maniera clamorosa la vitivinicoltura italiana, che oggi contende ai vini francesi il primato nella produzione e nella qualità. Lo dimostra, ancora una volta, il Chianti

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prodotto nella storica fattoria del Castello di Brolio. Negli ultimi anni il Chianti stava perdendo terreno e quote di mercato: per questo ci voleva una nuova scossa. Il Castello di Brolio Chianti Classico 2006, proprio in occasione del bicentenario della nascita del grande imprenditore agricolo e protagonista del Risorgimento italiano Bettino Ricasoli, è stato classificato al quinto posto della classifica dei cento migliori vini al mondo selezionati dagli esperti della rivista “Wine Spectator”. Un successo storico, tanto più significativo in tempi di crisi economica, ma anche una sfida per tutti i produttori toscani e italiani che devono affrontare i problemi connessi non solo alla ripresa del mercato, ma anche all’assetto produttivo e al marketing. Una sfida che i produttori toscani stanno affrontando con grande impegno, come dimostra la tenacia con cui tutti i vini della regione, compreso il Chianti, hanno saputo sinora stare sul mercato internazionale. Recentemente, per il convergere di una molteplicità di eventi che hanno influito tanto a livello di domanda che di offerta, il settore vitivinicolo in generale, e quello toscano in particolare, hanno dovuto affrontare un periodo di “ripensamento” se non, in alcuni casi, di crisi vera e propria. Il sistema vitivinicolo toscano, nonostante le condizioni di complessivo successo in cui ancora oggi si trova ad operare, sta maturando in modo sempre più evidente l’esigenza di definire nuove strategie di sviluppo sia per il prodotto vino in senso stretto, sia per una valorizzazione complessiva del proprio territorio. Il modello toscano si basa su quattro elementi portanti: imprese di piccola dimensione; produzioni organizzate su denominazioni protette con disciplinari di produzione spesso anche molto rigidi e con varie forme di integrazione orizzontale fra gli aderenti; una forte integrazione del settore con il territorio, con i suoi valori ambientali e culturali di altissimo pregio; la presenza di produttori leader a livello mondiale. Riuscirà questo modello ad essere vincente anche in futuro? Quali degli elementi ora sommariamente descritti rappresenteranno i fattori chiave del nuovo sviluppo? Gli attuali limiti dimensionali delle aziende, che comportano fra l’altro forti vincoli sulle capacità di investimento e di comunicazione, insieme ad una professionalità imprenditoriale orientata più al prodotto che al mercato, permetteranno il mantenimento di sufficienti margini di competitività o saranno necessarie ristrutturazioni e riqualificazioni? Il panorama delle produzioni vitivinicole toscane è molto diversificato e quindi altrettanto vari sono i problemi da affrontare e le soluzioni da adottare, ma in estrema sintesi è possibile individuare alcuni fenomeni strategici trasversali che interesseranno le aziende vitivinicole nel prossimo futuro: la globalizzazione, con l’aumento dei competitors e la creazione di nuovi mercati; l’affermarsi di nuovi modelli di consumo e di nuovi canali commerciali; i nuovi scenari di politica agricola europea con gli effetti sulle strutture produttive. Su ciascuno di questi temi sarebbe necessario un ampio approfondimento per evidenziarne tutti i riflessi a breve e a lungo termine sul nostro settore vitivinicolo, ma, ricercando la sintesi, i principali elementi di impatto appaiono i seguenti. Una crescente aggressività dei nuovi paesi produttori su tutti i segmenti di mercato, anche con importanti


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campagne di comunicazione. L’aprirsi di nuovi importanti mercati (Cina, Russia, India, ecc.) con, però, caratteristiche commerciali e di consumo estremamente diversificate e spesso distanti dai tradizionali modelli europei. Il rapido mutamento dello stesso modello di consumo europeo sia on trade che off trade. In particolare in Italia si stanno rapidamente modificando anche i canali distributivi, con un ruolo della grande distribuzione progressivamente crescente non solo nei segmenti più bassi del mercato. Grande distribuzione che reclama con crescente insistenza maggiore controllo sulla produzione e che in ogni caso pone il tema del divario nelle capacità contrattuali fra produttore e distributore. In ultimo anche la nuova disciplina europea del settore apre nuovi scenari con vincoli e opportunità. Gli obiettivi dichiarati della riforma e il suo impatto previsto sono infatti sintetizzabili in queste parole del commissario europeo: “I cambiamenti introdotti conferiranno equilibrio al mercato, condurranno alla progressiva eliminazione di misure di intervento sul mercato inefficaci e costose e permetteranno di destinare il bilancio a misure più positive e dinamiche che aumenteranno la competitività dei vini europei. La riforma consente una rapida ristrutturazione del settore, poiché include un regime triennale di estirpazione su base volontaria volto a offrire un’alternativa per i produttori che non sono in grado di far fronte alla concorrenza e ad eliminare dal mercato le eccedenze e i vini non competitivi”. Al di là della reale capacità della riforma di raggiungere tutti gli obiettivi previsti, gli strumenti introdotti sono comunque di rilevante significatività. I principali fra essi sono infatti: l’abolizione dei diritti di impianto entro la fine del 2015; l’introduzione di un regime di estirpazione volontaria su un periodo di tre anni, per una superficie totale di 175.000 ettari e con premi decrescenti; l’Articolo 45 - Le denominazioni di origine protette e le indicazioni geografiche protette possono essere utilizzate da qualsiasi operatore che commercializzi vino prodotto in conformità del relativo disciplinare di produzione; maggiori limiti da parte di un produttore nell’utilizzare più denominazioni o indicazioni protette per la produzione di un dato territorio, modificando le consuete strategie commerciali legate al possibile declassamento delle produzioni. Tutti questi elementi convergono verso la liberalizzazione del mercato e verso la necessità di maggiore competitività delle produzioni. Competitività che richiede maggiori capacità imprenditoriali, l’adozione di adeguate strategie di marketing differenziate per aree e segmenti di mercato e coerenti sistemi informativi. Di fronte alle nuove sfide, il settore vitivinicolo si trova a dover affrontare un nuovo importante percorso innovativo, investendo stavolta non più soltanto in innovazioni di pieno campo e di cantina, ma anche in interventi finalizzati ad elevare le proprie capacità di relazione col mercato. Tali capacità sono sinteticamente individuabili nel massimo controllo del prodotto sino al consumo finale, nonché nella massima conoscenza dell’ambiente esterno all’azienda, soprattutto per quanto riguarda le conoscenze relative alle


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preferenze dei consumatori e al comportamento dei diretti concorrenti, e nella conseguente possibilità di tradurre tali elementi in efficienti strategie aziendali. Per rispondere alla domanda iniziale se l’attuale modello potrà essere vincente anche in futuro, alla luce di questi elementi è quindi necessario completare il quadro con l’analisi delle strutture produttive. Utilizzando i risultati di una recente ricerca sul sistema vitivinicolo toscano come caso emblematico di buona parte del sistema nazionale, emerge come le attuali strutture produttive presentino vari limiti di competitività fra cui risaltano: - l’assenza di economie di scala (leverages); - le modestissime disponibilità finanziarie; - l’assenza di professionalità nel settore marketing. Su quest’ultimo aspetto l’indagine condotta ha evidenziato in particolare come le imprese abbiano raggiunto soddisfacenti capacità nell’ambito della gestione dei loro rapporti con il mercato a livello di leve di prodotto e di prezzo, ma siano ancora ben lontane dall’avere pienamente sviluppato le leve della comunicazione e della distribuzione, e questo non tanto in termini di impegno assoluto, ma in relazione alla potenzialità dei prodotti locali. Da questo punto di vista lo studio ha posto in evidenza come, ancora oggi, siano poche le realtà che hanno convinzioni e capacità tecniche e finanziarie per operare incisivamente in tale senso, rilevando peraltro come ancora molti degli operatori si muovano senza precise strategie di mercato, limitandosi spesso ad effettuare adeguamenti operativi di breve periodo, reagendo estemporaneamente alle tendenze del momento, senza la conoscenza e l’adozione di strumenti di valutazione degli investimenti di lungo periodo e di market analysis. Il modello toscano finora ha garantito importanti risultati, ma i limiti ora evidenziati pongono pesanti interrogativi sulla futura capacità di tenuta del sistema in uno scenario a crescente competitività e con modelli di consumo sempre più dinamici ed evoluti. La qualità del prodotto ed il ruolo delle denominazioni rappresentano indiscutibilmente dei punti di forza, ma il modo in cui questi due elementi interagiscono può e deve essere gestito secondo precise strategie di sviluppo e di efficienza di mercato. Un primo problema delle denominazioni è paradossalmente legato proprio al loro punto di forza: l’esistenza di un disciplinare che assicura una qualità minima del prodotto. Questi disciplinari per svolgere al meglio la loro azione di garanzia devono essere necessariamente molto vincolanti; se questi vincoli non sono però sopportabili da molti produttori, il rischio di una loro elusione e, quindi, di denunce per frode diviene molto alto. Il secondo è rappresentato dal contesto territoriale di riferimento delle denominazioni: o esso è molto limitato e garantisce sufficienti omogeneità, interessando però un numero modesto di produttori, o esso interessa molte aziende e ha quindi anche una maggiore potenza operativa e di immagine, ma presenta inevitabilmente forti disomogeneità al suo


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interno che, se non evidenziate, possono giungere a disorientare il consumatore e a penalizzare alcune categorie di produttori. Un caso tipico in cui si evidenzia questo limite è rappresentato dalle denominazioni che comprendono prodotti con un ampio range di prezzi. In tali circostanze l’immagine della denominazione per il consumatore è quella dei prodotti a maggiore diffusione, generalmente nella fascia inferiore della gamma offerta: conseguentemente, diventa molto difficile l’affermazione dei prodotti di alta qualità a prezzi elevati proprio per la mancanza di un’immagine adeguata per tale posizionamento. Questo quadro sembra destinato a mettere oltremodo in evidenza le già citate fragilità di un sistema produttivo, eccessivamente frammentato, suggerendo almeno una maggiore attenzione agli aspetti del marketing strategico sia a livello aziendale, sia di consorzio/denominazione se non una vera e propria riorganizzazione, soprattutto in favore di una ricomposizione dell’offerta. In questa luce il futuro del modello toscano e anche di varie altre realtà nazionali, sembra definirsi intorno ai seguenti scenari: - poche aziende leader con alta capacità reddituale e tante aziende satellite con caratteri di marginalità più o meno accentuata a seconda delle congiunture di mercato; - espulsione delle aziende senza autonoma forza di mercato e ricomposizione fondiaria; - mantenimento dell’attuale assetto grazie al ruolo dei consorzi di produzione, che saranno chiamati ad assolvere a maggiori funzioni in termini di marketing e specificamente di comunicazione e distribuzione. Quale di essi si concretizzerà dipende da vari fattori, fra cui uno di non secondaria importanza è rappresentato dalle modalità di applicazione degli strumenti della nuova Organizzazione Comune di Mercato che saranno adottate a livello nazionale e regionale. In questa prospettiva alcune linee d’azione strategiche per il settore che dovrebbero trovare attuazione, possibilmente in un quadro organico integrato proprio con le predette misure possibili con la nuova OCM, appaiono essere le seguenti: - il ruolo dei Consorzi di Tutela e delle Cantine Sociali sembra destinato ad avere una funzione crescente, per superare i limiti dimensionali delle nostre imprese e consentire adeguate condizioni di concorrenzialità sui mercati. È però necessario che nell’ambito delle denominazioni si sciolgano alcuni nodi strategici, legati principalmente all’immagine/posizionamento dei prodotti; - a livello di singole imprese risulta fondamentale elevare le capacità organizzative e gestionali in una prospettiva di marketing strategico, enfatizzando in generale le loro capacità di relazione con i mercati e con altri produttori,


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anteponendo a qualunque scelta interna un’attenta analisi dell’ambiente esterno, soprattutto per quanto riguarda le preferenze dei consumatori, la posizione dei competitors ed il generale andamento delle vendite; - a livello di consumatori appare molto importante un’intensa azione di customer education, al fine di elevare in essi tutte le conoscenze necessarie per apprezzare appieno le caratteristiche e il relativo valore dei vini consumati e l’integrazione della comunicazione di prodotto con quella di territorio, in modo da integrare valori commerciali con valori culturali ed ambientali; - a livello di pubbliche istituzioni risulta molto importante il loro ruolo sia nelle azioni di tutela della qualità, in senso lato delle produzioni e del territorio, sia nella promozione e nell’indirizzo dei processi di sviluppo socioeconomico locale che, in una prospettiva di marketing territoriale, sappiano valorizzare la viticoltura nella complessità del suo ruolo multifunzionale. Lo scenario è ricco di possibilità e la Toscana, come in passato è accaduto, potrebbe cogliere ancora una volta l’opportunità di un rilancio del settore vitivinicolo facendo forza sugli asset di cui ancora dispone e, più ancora, sulla forza che le deriva dalla sua storia e dalla ricchezza del suo patrimonio culturale, che sempre più rappresenta la garanzia e il fascino dei grandi vini di qualità.

Zeffiro Ciuffoletti e Leonardo Casini Università degli Studi di Firenze

Bibliografia Casini L., Corsi A. M., Rungie C., The Impact of Wine Attributes on the Behavioural Loyalty of Italian Consumers, paper presented at the 4th International Conference of the Academy of Wine Business Research, Siena (Italy), 17th-19th July 2008. Casini L. (a cura di), Produzioni vitivinicole di qualità e mercato: caratteristiche del sistema produttivo senese e tendenze di mercato, FrancoAngeli, Milano, 2007. Ciuffoletti Z., Il pionieri del risorgimento vitivinicolo italiano, Polistampa, Firenze, 2006. Ciuffoletti Z., Alla ricerca del “vino perfetto”. Il Chianti del Barone di Brolio. Ricasoli e il Risorgimento vitivinicolo italiano. Con il carteggio fra Bettino Ricasoli e Cesare Studiati (1859-1876), Leo S. Olschki Editore, Firenze, 2009. Goodman S., Lockshin L., Cohen E., Using the Best-Worst Method to Examine Market Segments and Identify Different Influences of Consumer Choice, in Proceedings of the 3rd International Wine Business and Marketing Conference, F. d’Hauteville, Montpellier, Francia, 2006 (CD-ROM). Goodman S., Lockshin L., Cohen E., Best-Worst Scaling: A Simple Method to Determine Drinks and Wine Style Preferences, paper presented at the 2nd International Wine Marketing Symposium, Sonoma State University, Sonoma, California, 2005 (CD-ROM).



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LA PAROLA AI PRODUTTORI E AGLI ENOLOGI

“Il futuro della viticoltura e del vino in Toscana. Opportunità e vantaggi, problematiche e incertezze di un sistema vitivinicolo in via di grandi cambiamenti”


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Il futuro del settore vitivinicolo mondiale è sicuramente meno roseo di quanto poteva apparire fino a pochi anni fa. Se consideriamo, infatti, l’aumento delle produzioni dei paesi del Nuovo Mondo, i consumi che diminuiscono, la campagna contro l’abuso di alcol che spara a zero senza tener conto di quanto invece sarebbe importante educare ad un consumo moderato e consapevole di vino - che in genere si insegna a bere durante i pasti e a tenere lontani cocktails e superalcolici - appare logico preoccuparsi per il nostro futuro. Anche la riforma della nuova OCM comporterà nel breve periodo degli assestamenti non trascurabili, dovuti principalmente alla liberalizzazione dei diritti di reimpianto e alle nuove regole che riguardano l’etichettatura dei vini da tavola. A mio parere, la Toscana ha l’opportunità di guadagnarsi uno spazio importante, nel mercato sempre più globalizzato. Dovrà però essere in grado di salvaguardare ed enfatizzare le peculiarità del territorio, ridando fiducia ed attenzione alle denominazioni storiche che rappresentano la spina dorsale della nostra enologia. Abbiamo la fortuna di avere un territorio unico per bellezze artistiche e paesaggistiche, ma unico è soprattutto il rapporto tra territorio-vitignobagaglio culturale dei viticultori. Questo connubio, se ben interpretato, potrà far vincere la scommessa alla Toscana, fornendo al mercato vini di qualità con spiccata identità e personalità, facendo respirare nel bicchiere non gli aromi di quel frutto o di quel fiore, ma il profumo del Chianti, piuttosto che di Montalcino o di Bolgheri, insieme al carattere del produttore. In poche parole riuscire a proporre vini con un’anima.

Leonardo Bellaccini


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Le prospettive sono stupende, perché la vocazione viticola delle colline toscane è perfetta; si tratta soltanto di gestirla in maniera razionale, senza sentirsi dominati dalle tipologie mediatiche che in questo mondo così commerciale sono per la maggior parte mirate al tornaconto e ai guadagni rapidi. Grazie alla vocazione viticola, la Toscana ha espresso vitigni dai quali si traggono vini con personalità estremamente diversificate e, per quanto riguarda la mia esperienza, mi riferisco soprattutto al Sangiovese, i cui vini esprimono caratteristiche differenti a seconda delle zone in cui si sono create delle vere e proprie mutazioni. Il Sangiovese è un vitigno che ha espresso caratteristiche straordinarie soprattutto a Montalcino, dove però risente molto delle differenze climatiche dovute alle diverse caratteristiche pedoclimatiche (con altitudini che variano dai 60 ai 600 metri s.l.m.) e alle esposizioni a 360°: da nord a sud, da est a ovest. Su questo territorio si creano quindi Brunelli con caratteristiche diverse, più o meno longevi, ma inconfutabilmente Brunelli che hanno saputo conquistare il mondo. La caratteristica fondamentale del Brunello è la longevità, che va gestita anche attraverso scuole di pensiero, basate sulla certezza derivante dalla conoscenza delle peculiarità di quelle tipicità, a partire dalle grandi cure durante le fasi fenologiche di sviluppo della vite. Per prima cosa il diradamento delle uve da metà luglio a metà agosto, per permettere ai grappoli di maturare in maniera ottimale. In seguito la vendemmia, rigorosamente eseguita a mano e la selezione manuale direttamente sulle capezzagne, dove viene effettuata la selezione della prima e della seconda scelta delle uve. Solo la prima scelta e quindi solo le uve perfettamente sane saranno destinate alla produzione del Brunello. In cantina non vengono utilizzati lieviti selezionati - perché incidono troppo sulla tipicità del vino - ma solo lieviti naturali. Per la maturazione del vino si utilizzano esclusivamente botti di rovere di Slavonia di medie-grandi dimensioni e di legni anche molto vecchi. In cantina sono ancora in uso botti che risalgono al XIX secolo. Niente barriques, proprio perché il rovere di Slavonia è considerato essere un tipo di legno pressoché neutro, un legno che non influenza in maniera aggressiva le caratteristiche base dell’uva. Questi legni, anche molto vecchi, non incidono sulla tipicità del vino ed il Brunello Biondi Santi non ha bisogno di apporti esterni, perché è un vino molto equilibrato. L’equilibrio fra tannini ed acidità, l’armonia e la longevità del mio Brunello, sono stati alla base della filosofia da sempre seguita da mio nonno Ferruccio, da mio padre Tancredi e mantenuta da me. La longevità, caratteristica fondamentale del mio Brunello, è garantita anche da un’operazione necessaria e molto preziosa, la Ricolmatura. Con questa operazione si controlla lo stato di conservazione del vino e se ne prolunga la vita ancora per decenni; è proprio grazie alla Ricolmatura se al giorno d’oggi possiedo ancora nella mia cantina del Greppo, perfettamente conservate, bottiglie che risalgono addirittura al 1888 e al 1891, prima Riserva creata da mio nonno Ferruccio. Il futuro del Brunello sta nell’esperienza, nel mantenere le tradizioni e nel non forzare la natura. Tutto deve essere fatto con estrema naturalezza, mantenendo le caratteristiche di un territorio, soprattutto di quei territori con vera vocazione viticola.

Franco Biondi Santi


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Elemento fondamentale per lo sviluppo di una viticoltura di qualità, che sia riconosciuta e soprattutto riconoscibile dal consumatore, è il collegamento imprescindibile tra il territorio di produzione, i vitigni utilizzati, la qualità del vino prodotto e la filosofia produttiva voluta e gestita dal produttore stesso. Guardando nello specifico alla Toscana, si può notare che il successo della vitivinicoltura in questa regione è tale, in quanto riproduce in modo percettibile il frutto della sua specificità territoriale. L’obiettivo principale è quello di riuscire a trovare un equilibrio tra la peculiarità del territorio, che si esprime attraverso le proprie caratteristiche pedologiche e climatiche, e la cultura enologica che a questo si applica, frutto di storicità e modernità. In questo quadro, il ruolo dell’enologo deve essere quello di contrastare la propensione alla banalizzazione e all’omologazione, valorizzando, grazie ad una migliore conoscenza, il terroir, al fine di ottenere vini con una forte identità, che rappresentino la massima espressione qualitativa della zona, nel massimo rispetto delle nuove e sempre più complesse esigenze del consumatore. Il vino, come ultimo atto, deve essere bevuto e, durante questo momento, deve dare emozioni e il massimo piacere. In sintesi si può dire che il presupposto essenziale per il futuro della viticoltura toscana è la creazione di un sistema che permetta la garanzia della qualità nella produzione di vini strettamente legati al territorio e a questo facilmente riconducibili.

Rudy Buratti “Credo nel vigneto italiano”. Questa frase sintetizza il mio pensiero ed il mio approccio con il vino. Il vigneto esprime il territorio attraverso l’estetica, disegnando bellissime geometrie; esprime il profumo e il sapore della terra e del sole; esprime l’anima della gente che vive in un luogo, la sapienza, la cultura, la tradizione, la storia. Il vigneto è il luogo dove si consuma il magico incontro tra vitigno e territorio, tra paesaggio e cultura, tra passione e conoscenza. La Toscana è ricca di questi luoghi, dalla Rufina a Montalcino, dal Chianti Classico a Montepulciano, da Carmignano a Scansano, da Pomino a San Gimignano. Qui si può respirare la storia della viticoltura e dell’enologia dagli Etruschi ad oggi. Scrutando attentamente nel passato possiamo comprendere meglio quanto forte sia il legame tra vite, vino e uomo, che ha portato quest’ultimo, sin dall’antichità, a studiare la viticoltura, sviluppare l’enologia, regolamentare produzione e consumo. Ed è proprio il legame a doppio filo tra uomo e vite, la possibilità di controllarne ogni fase vegetativa, che ha determinato, insieme allo sviluppo della viticoltura, l’identificazione di particolari zone di produzione, con caratteristiche specifiche, non solo per le loro peculiarità vocazionali, ma anche per l’anima derivante dal fattore umano. Nella storia del vino abbiamo la prova di come l’attenzione minuziosa e la conoscenza approfondita di certi frati religiosi


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portarono alla nascita di vini tuttora famosi e alla salvaguardia e diffusione della viticoltura. La vitivinicoltura toscana moderna è il risultato delle trasformazioni e dei cambiamenti che tale settore dell’agricoltura ha subìto durante il corso dei secoli, in seguito alle profonde mutazioni geo-politiche, economiche, culturali e climatiche. Trovo uno stretto legame tra la viticoltura attuale e quella compresa tra la fine del Basso Medioevo ed il Rinascimento, quando iniziò lo sviluppo della viticoltura “borghese”. I ceti arricchiti con l’artigianato ed il commercio investirono le loro risorse finanziarie nella viticoltura, che risultava economicamente conveniente, perché il consumo del vino era in aumento per l’incremento demografico, l’accentramento delle popolazioni nelle città e le aumentate disponibilità di denaro di più ampie classi sociali. Ma tale sviluppo fu possibile anche grazie alla diffusione della mezzadria e di altre forme di compartecipazione, che stabilizzarono i contadini sulla terra, consentendo loro di dedicarsi alla coltivazione di specie arboree a lungo ciclo biologico - come la vite - che richiedono continue e diligenti cure colturali. Questa testimonianza del passato ci riporta al concetto espresso in apertura sulla definizione di vigneto, di cui l’uomo è custode e protagonista. Dopo la Seconda Guerra Mondiale e con la scomparsa della mezzadria - abolita definitivamente nel 1964 - gli imprenditori toscani non hanno saputo riciclare quelle manovalanze di qualità nelle stesse aziende agricole, vedendo così finire abbandonati molti vigneti insieme a buona parte del patrimonio genetico, perdendo quasi definitivamente non solo le professionalità, ma anche la cultura rurale, l’espressione massima della toscanità. Cultura rurale significa estetica, cucina, stile di vita, rispetto per l’ambiente, carattere, spirito. Caratteristiche che si devono respirare in un territorio, assaporare in un piatto, gustare in un vino. La storia ci ha regalato periodi di sviluppo e successo a cui sono seguìti momenti di crisi e di riflessioni profonde. Editti, Statuti, Bandi governativi per regolamentare, sostenere e difendere le produzioni. Uomini di scienza che via via proponevano varie formule, su vitigni, zone, tecniche colturali, tecniche di vinificazione, strategie commerciali. Dobbiamo essere consapevoli che la viticoltura e l’enologia non sono immutabili, ma l’uomo con capacità, coscienza, scienza e cultura deve guidare i cambiamenti ed interpretare le tendenze. Le nostre colline toscane sono uniche e le stesse dalla notte dei tempi, i nostri vitigni più importanti come il Sangiovese, considerati nobili in passato, lo sono ancora oggi, anzi migliori, perché più selezionati. La nostra storia deve essere il nostro faro per affrontare le sfide del futuro, e nell’interpretare l’evoluzione del gusto, lasciamoci guidare dal pensiero di Indro Montanelli, che parlando dei toscani ebbe occasione di dire: “Asciutta è la loro cucina, fatta di poche cose essenziali e refrattaria alle salse che qui infatti si chiamano, con disprezzo, pasticci. E nient’altro che asciuttezza è la loro stessa parsimonia, che non va confusa con avarizia, perché, più che calcolo economico, è un abito mentale. E se i toscani per il loro stile di vita sono ammirati in tutto il mondo, con il vino, meglio non imitare i pasticci”.

Paolo Caciorgna


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La Toscana ha raggiunto e conserva una posizione di primo piano nel panorama vitivinicolo italiano. Il suo è un patrimonio che comprende importanti vitigni autoctoni con la maggioranza di rossi e con significative presenze per i bianchi; non sono altresì da trascurare gli ottimi insediamenti di vitigni internazionali, né il vasto ed importante patrimonio dei vitigni autoctoni minori. Questi hanno trovato nelle caratteristiche del clima (calore, luce, precipitazioni) e del terreno delle colline toscane (composizione, giacitura, esposizione) le condizioni adatte per svilupparsi e fornire un importante contributo all’economia vitivinicola. Prendiamo come esempio il Sangiovese, che ricopre senza alcun dubbio il ruolo di assoluto protagonista del panorama vitivinicolo toscano. A tal proposito positivi sono i simposi internazionali di questi ultimi anni, ma ciò potrebbe non bastare; la ricerca scientifica deve essere divulgata sempre più alle aziende e di conseguenza agli operatori, agevolando lo sviluppo di tutto il comparto. È noto che il vitigno gode di buona vigoria e che per esprimersi al meglio necessita di un determinato terroir, mentre in cantina si devono eseguire diversi rimontaggi per agevolare la polimerizzazione della ricca componente fenolica con operazioni delicate, ma questi non sono e non possono essere gli unici fattori di qualità per un vitigno. Di fondamentale importanza sono la gestione del suolo, la potatura secca e quella verde, la conduzione del vigneto dal germogliamento alla selezione del grappolo sino alla raccolta - la scelta dei lieviti, la metodica di vinificazione e di conservazione, la conoscenza dei mercati. Sono questi temi che necessitano di un continuo studio e approfondimento, al fine di poter perseguire un progressivo miglioramento qualitativo; temi di tal genere, illustrati in queste poche righe, possono sembrare semplici oppure già studiati, ma proprio il loro approfondimento serio e costante, abbinato anche alla ricerca sulle piante o sui lieviti del territorio, potrà dare maggiore spinta allo sviluppo del sistema vitivinicolo regionale e diventare esempio di analisi e divulgazione anche per i vitigni minori. Una nuova opportunità per la valorizzazione della viticoltura toscana potrebbe nascere dalla creazione di un centro di consulenza con tecnici dedicati e specializzati per le diverse aree produttive; essi dovrebbero essere dotati di un supporto informatico dove archiviare i dati relativi agli impianti o alle particelle fondiarie, registrare le analisi dei terreni, la gestione fitosanitaria, le analisi e le pratiche di cantina. Questa associazione potrebbe così aiutare la crescita della viticoltura e del vino in Toscana offrendo consulenze specifiche e differenziate in relazione alla richiesta del produttore-viticoltore che avrebbe inoltre a disposizione nel tempo un’importante banca dati. La complessità del vigneto-Toscana aumenta se consideriamo la forte e positiva differenziazione delle aziende presenti sul territorio, non solo per la diversa posizione geografica, ma anche per la diversa conduzione agricola


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- convenzionale, biologica e anche biodinamica - con cui tutte cercano di esprimere le potenzialità della viticoltura regionale. Di primario valore è l’impegno profuso dai viticoltori biologici e biodinamici che intendono tutelare il territorio con un’agricoltura esente da prodotti chimici di sintesi. Sono le piccole e medie imprese a rappresentare il futuro e la differenziazione della viticoltura toscana: un’agricoltura che ha bisogno del rispetto delle tradizioni del territorio, delle persone che vi operano e dei consumatori. Concludo con un breve accenno alle norme legislative, che proprio nel 2009 vedono l’entrata in vigore delle nuove leggi europee. Ad oggi è troppo presto per pronunciarsi in merito ai cambiamenti a cui porterà la nuova politica europea; dobbiamo ancora comprendere ed assimilare le nuove direttive, anche se alcune di esse, come l’arricchimento o lo zuccheraggio dei vini, sono discutibili già da subito. Da sottolineare che il ruolo delle regioni diventa di fondamentale importanza nel recepire e trasferire decreti e leggi: un aspetto da non sottovalutare, che conferisce un importante potere, ma anche grandi responsabilità.

Cristian Cattaneo


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La continua evoluzione del panorama vitivinicolo sta portando ad una viticoltura nuova, sempre più attenta alla qualità del prodotto finale, all’ambiente e alla salute del consumatore. L’avvicinamento alla cultura del consumatore diverrà in futuro uno dei punti cardine delle aziende vitivinicole: chi beve vino sarà sempre più attento alla qualità e alla salubrità del prodotto, sarà più preparato sulle tecniche produttive e sulle caratteristiche organolettiche, ma soprattutto vorrà avvicinarsi e conoscere sempre più le realtà aziendali. Non sarà più sufficiente che il prodotto sia “solo” buono, ma diverrà basilare la trasparenza delle aziende: dovremmo far conoscere tutte le fasi del processo produttivo, la realtà aziendale, la filosofia del produttore, aprire le nostre cantine e far visitare i vigneti anche in momenti molto impegnativi (periodi di vendemmia, ecc.). Questo in Toscana lo stiamo già facendo, ma il tutto dovrà essere integrato con strategie di marketing mirate alla valorizzazione dei nostri vini e dei nostri territori. I produttori non saranno più solo uomini di cantina o di vigna, ma saranno sempre più in giro per il mondo a far capire la propria filosofia a chi vende i loro vini e di conseguenza ai consumatori finali. Uno degli obiettivi della viticoltura moderna è, a mio avviso, quello di riuscire a produrre vini in cui domini il carattere aziendale, alla base del quale c’è la valorizzazione dei terroirs ed il rispetto delle tradizioni. Se tale obiettivo verrà portato avanti riusciremo a produrre dei vini che inducono “curiosità” nel consumatore. Al giorno d’oggi, di vini buoni nel mondo ce n’è un’infinità, ma la forza della viticoltura toscana sta nel suo meraviglioso territorio - diverso in ogni zona per terreno e clima - che, se rispettato, riesce a dare vita a prodotti eccezionali in ogni loro caratteristica. Per rendere possibile tale finalità deve sicuramente aiutarci la legislazione: troppi paletti sono stati messi su alcune cose e troppo pochi su altri, troppa burocrazia c’è per produrre vino e dietro al mondo agricolo in generale. È necessario uno snellimento e l’introduzione di norme che riescano realmente a valorizzare i territori, non solo toscani, ma di tutta Italia. I nostri prodotti - non solo il vino - devono avere un supporto da parte dello Stato, non solo a livello fiscale, ma a livello di protezione, di tutela e di promozione. Se non sono i nostri “portavoce” a credere per primi nella nostra agricoltura e a valorizzarla, a portare nel mondo i nostri prodotti a testa alta e ad evitare che per uno scoop vengano distrutti interi territori, come fanno i produttori e gli enologi, da soli, a portare i consumatori dalla loro parte? Non so dire in futuro cosa succederà, ma di sicuro questa domanda se la stanno ponendo in molti e spero che prima o poi vengano apportate modifiche importanti all’intero sistema agricolo. Passando agli aspetti puramente tecnici, cambiamenti radicali sono già stati fatti a partire dal secolo scorso, sia in cantina che nel vigneto, ma altri ce ne saranno. Innanzitutto il personale che opera nel settore sarà sempre più specializzato, o almeno dovrà esserlo, per avvicinarsi e introdurre nella filiera vitivinicola le nuove tecnologie che la ricerca e la sperimentazione ci mettono a disposizione. Questo potrà realizzarsi grazie alle Università, che dovranno però rimodernarsi e immettere nel mondo del lavoro agronomi ed enologi veramente all’altezza della nuova vitivinicoltura, che sappiano tutto sui nuovi macchinari, che conoscano i mezzi per portare il massimo della qualità dell’uva in cantina e da questa estrarre le caratteristiche migliori. Per portare avanti la teoria della


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qualità e dell’esaltazione delle caratteristiche del territorio ci potremmo avvalere di nuove tecnologie: nuovi cloni di vite saranno messi a disposizione per esaltare le caratteristiche di ogni ambiente pedoclimatico e moderne attrezzature permetteranno di svolgere in maniera più tempestiva le operazioni colturali, in modo da avere un’uva di eccellente qualità. In cantina si farà una selezione delle uve più attenta, nuovi vinificatori ci aiuteranno ad estrarre e ad esaltarne le caratteristiche più interessanti, a gestire le temperature in maniera più semplice, così da riuscire ad avere sotto controllo tutte le fasi del processo produttivo, fino all’imbottigliamento e al confezionamento, in modo più veloce e preciso. Queste moderne tecnologie dovranno però essere gestite in maniera razionale, ed è qui che arriva la conoscenza dell’uomo. Alla base della viticoltura, anche di quella più moderna, ci sarà sempre il produttore, il quale dovrà conoscere a fondo i mezzi con cui lavora, supervisionare ogni passaggio, ogni macchina, per poterla sfruttare a suo pro e riuscire a valorizzare il prodotto finale e il suo territorio. Ed è qui che nasce l’incertezza: riusciremo a sfruttare al meglio la tecnologia per valorizzare le nostre terre? L’intelligenza e la cultura saranno messe in gioco al fine di evitare che si producano vini troppo simili l’uno all’altro, ma questa è la parte più bella del nostro mestiere: portare a termine e vincere le nuove sfide.

Stefano Chioccioli Quando si devono esprimere idee su qualche argomento, spesso vengono in mente concetti espressi da altri ed è quello che mi capita ora nel parlare del futuro del vino in Toscana in un momento di cambiamenti. Sallustio diceva: “con la concordia le piccole cose crescono, mentre nella discordia le più grandi vanno in rovina”; questo mi fa dire che i produttori di vino devono essere più solidali tra loro per rafforzare il concetto che in quello che fanno c’è storia, amore ed etica. Demostene affermava: ”esiste un’isola di opportunità all’interno di ogni difficoltà”; questo mi fa riflettere che in un momento di crisi globale come quello che stiamo vivendo bisogna avere la saggezza di verificare noi stessi, “potare” la vanagloria di successi avuti in passato e, rimboccandoci le maniche, far trasparire sempre meglio la storia, l’amore e l’etica che mettiamo ogni giorno nel nostro operare. Proust argomentava: “il vero atto della scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel vedere con occhi nuovi” e questo mi fa osservare che il successo che in Toscana i seri produttori di vino continueranno ad avere è perché, pur mantenendo ben salda la propria millenaria tradizione, sapranno vedere quei cambiamenti che nel mondo ci sono stati e sapranno scartare le cose effimere, rafforzando il proprio essere che è fatto di storia, amore ed etica.

Alamanno Contucci


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Quali saranno i cambiamenti che aspettano nell’immediato futuro i produttori di vino toscani? Non è semplice rispondere a tale domanda, in quanto il prossimo futuro sarà senz’altro condizionato da quanto sta accadendo nel mondo a livello economico-finanziario. Il terremoto che si è abbattuto sul mondo della finanza sta scuotendo anche il settore vitivinicolo. Uno degli effetti è che molte aziende, entrate da poco sul mercato e non supportate dalla forza di un marchio affermato, sono in sofferenza. La previsione di una liberalizzazione degli impianti, a partire dal 2013, tenderà ad aggravare la situazione: le aziende più marginali, nate spesso come forma di investimento immobiliare (dunque non competitive sul mercato) non saranno in grado di sfruttare le nuove opportunità. Un dato più certo riguarda l’aspetto qualitativo dei vini. Pare sia finita (finalmente) l’era dei vini così detti “internazionali” ovvero facili, opulenti, “marmellatosi”, realizzati per soddisfare il gusto di una clientela internazionale distratta e poco consapevole. Sembra quasi che, precedendo la crisi, il gusto del consumatore sia tornato verso la semplicità, la schiettezza, il vitigno autoctono buono (ce ne sono anche di terribili!). Se da un lato il produttore non dovrà più stressarsi nella ricerca di colori ed estratti improbabili, dall’altro assisteremo al ritorno di vini sempre più espressione del territorio e lo saranno sempre di più se torneremo anche a produrre nel rispetto dell’ambiente, senza utilizzare concimi chimici o anticrittogamici di sintesi. Ogni anno sempre più viticoltori si avvicinano alla gestione biologica o biodinamica del vigneto, perché ormai un dato è certo: rinunciando alla chimica non si hanno perdite significative di prodotto, mentre si migliora la qualità intrinseca dei frutti. Questa è senz’altro una strada da seguire e che i nostri amministratori dovrebbero incentivare, anche perché il mercato, diffidente all’inizio, comincia a premiare i vini ottenuti seguendo protocolli di coltivazione naturale. Dalla consapevolezza che si può produrre senza avvelenare l’ambiente, alla consapevolezza che non si può piantare dappertutto. Nel recente passato si è forse un po’ esagerato, concedendo il permesso di piantare vigne in terreni dove si coltivavano grano e girasole, con la prospettiva di produrre vini che, per il solo fatto di essere toscani, avrebbero dovuto avere un grande successo. Questi sono errori da non ripetere se non si vuole mettere in difficoltà tutta la viticoltura toscana. Concludendo, penso che i viticoltori toscani abbiano comunque qualche opportunità in più. Dalla loro parte c’è il grande vantaggio di una Toscana che è riuscita a fare sistema: territorio, arte, gastronomia e vino si fondono per dare vita ad un’immagine di grande suggestione, conosciuta, ammirata e forse invidiata, in tutto il mondo.

Guido De Santi


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Il mio pensiero sulla situazione della vitivinicoltura in Toscana e sul suo sviluppo nel prossimo futuro si è formato lavorando in prima linea e vivendo giorno per giorno, ormai da alcuni decenni, tutto il ventaglio dei problemi connessi con la gestione e la relativa evoluzione nel tempo del Castello di Querceto, le cui redini sono passate nelle mie mani da ormai quasi trent’anni. Pur essendo la mia esperienza circoscritta a questo territorio, credo che le convinzioni da me acquisite siano estendibili anche alle altre aree viticole della regione, nelle quali i profondi cambiamenti verificatisi si sono realizzati seguendo un percorso simile e perseguendo obiettivi analoghi, pur se con velocità diverse. Negli ultimi decenni l’imprenditoria vitivinicola si è arricchita di molte nuove energie, le quali hanno avuto l’intelligenza di colloquiare con quelle storiche. La fantasia e l’approccio moderno e pragmatico delle prime si sono fusi con l’esperienza e l’ancoraggio alla tradizione delle seconde, producendo un rinnovamento armonico che ha avuto come conseguenza un miglioramento qualitativo e di immagine ed una diversificazione produttiva che ha dimostrato le grandi potenzialità del territorio. Il terroir della Toscana è molto vario. La consapevolezza di questa varietà ha indotto a ricercare le aree più adatte e vocate per ogni tipo di produzione in modo da ottenere sempre il miglior risultato. Tutto fa pensare che questa ricerca del “meglio” continuerà, e perciò credo si debba essere ottimisti sul futuro della nostra vitivinicoltura. Per trarne il massimo vantaggio dobbiamo considerare la varietà del nostro territorio come una ricchezza e valorizzare la specificità dei vini che produciamo allontanandoci da qualsiasi tentazione di omologazione. Solo così saremo in grado di produrre vini che si distinguono per carattere e personalità e che per questo vengono desiderati e memorizzati come espressione peculiare del nostro territorio e quindi legati strettamente ad esso. Estremizzando questi concetti, auspico che in futuro vi siano sempre più vini prodotti da singole vigne, per i quali l’omogeneità del terreno e del microclima possa portare ad un irrobustimento del carattere e quindi della riconoscibilità. Da molti anni questa è la strada che stiamo percorrendo con successo nella nostra azienda. Il futuro della Toscana nel campo vitivinicolo sarà tanto più roseo e facilitato quanto più saremo in grado di valorizzare le grandi ricchezze di storia, cultura e arte del nostro territorio, permeando di esse l’immagine dei nostri vini, cercando cioè di far capire quanto la loro personalità sia ad esse strettamente legata. La fusione di questi valori può essere un mezzo per dare un denominatore comune all’insieme delle numerosissime varietà di vini che la Toscana è in grado di produrre. Pur salvaguardando le molteplici diversità che i vari terroirs esprimono, può nascere così un carattere unificante che identifichi una specie di marchio virtuale “Toscana” che può valorizzare tutta la produzione di eccellenza della regione.

Alessandro François


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Non c’è argomento della viticoltura che abbia suscitato opinioni diverse come il rapporto della vite con il suo ambiente e con la composizione e la qualità dei mosti che ne derivano e non c’è argomento che ancora oggi non scaldi, in vigna e in taverna, i pensieri di chi, come noi, si è votato al vino. Perché chiunque abbia offerto in voto la propria esistenza al vino, per necessità o per amore, quand’anche privo di una reale vocazione, non potrà che finire con l’apprendere, dal gusto e dalla mano, che il vino è un condensato di terra (questa) e di cielo (sopra queste vigne), di aria (che respira tra le vigne) e di cultura (un po’ appresa e un po’ dalla terra assorbita). Il vino è tutta una questione di stile. Lo stile di vita che la vigna mi impone, che io le propongo. Uno stile univoco, anzi di più: monocromo e non (giammai!) globale. Un gusto inquieto di vite e di uomo. Un sapore costante di quello che qua, e non là, crebbe e cresce.

Caterina Gargari


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Il livello qualitativo della Toscana era noto già nel secolo scorso, ma il vero miglioramento in termini di qualità e l’effettiva espansione quantitativa si sono concretizzati negli ultimi cinquant’anni con il passaggio dalla viticoltura promiscua alla viticoltura specializzata. Unitamente alle zone viticole storicamente conosciute e vocate come quelle del Brunello di Montalcino e del Vino Nobile di Montepulciano, le vallate della Rufina o le colline del Chianti Classico, si sono sviluppate anche altre zone come Bolgheri e la Val di Cornia, meno legate alle varietà tradizionali tipiche toscane, ma nelle quali si sono ben adattate varietà internazionali. Sebbene la varietà Sangiovese abbia la predominanza nelle DOCG toscane, negli ultimi anni molti produttori hanno premuto per la modifica varietale di alcuni disciplinari. È di recente attuazione il cambiamento varietale apportato al disciplinare del Chianti che riduce la presenza di Sangiovese mantenendone però una percentuale minima del 70%. Nulla vieta alle aziende di fare un vino con Sangiovese al 100%, ma questo cambiamento dona una opportunità di coerenza e onestà alle varie realtà aziendali. Nel futuro, sempre di più bisognerà concentrarsi verso una viticoltura di qualità, focalizzandosi all’ottimizzazione espressiva impressa dal territorio sul trittico varietà-clone-portainnesto e all’ottimizzazione delle lavorazioni colturali per modellare a fini quantitativi e qualitativi la risposta vegetativa del vigneto. La tecnologia attuale è già in grado di aiutare a perseguire l’obiettivo. Servirà, se mai, un aiuto anche da parte delle strutture pubbliche per una più ampia applicazione di queste regole. E questo gioverà senz’altro alla qualità produttiva, al prestigio dei prodotti Made in Tuscany e al territorio. Credo che il vero passo in avanti nel futuro della viticoltura toscana sarà legato ad un grande cambiamento: la visione dell’attività viticola come elemento non esclusivo dell’ecosistema agricolo aziendale. Non soltanto viticoltura, ma agricoltura di qualità a 360 gradi, per migliorare l’economicità aziendale e la salvaguardia del territorio. Una viticoltura integrata ad una visione più ampia, ad un’agricoltura eco-sostenibile. Per la sua conformazione, la realtà agricola toscana potrebbe ben prestarsi a questo nuovo modo di fare impresa agricola.

Andrea Giovannini


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Per fare economia, il Paese deve puntare sulle sue risorse reali. Una delle grandi opportunità per uscire da questo momento di incertezza è il Made in Italy. È un punto essenziale per vincere la concorrenza ed è vitale difenderlo sui mercati con tutte le nostre forze. Uno dei nostri settori più importanti è l’agroalimentare ed è fondamentale capire come impostare strategie capaci di gestire le dinamiche mondiali. Occorre guardare ancora più avanti, capire quello che ogni mercato richiede e percepire ciò che il consumatore desidera. In una concorrenza internazionale importante come quella attuale, occorre crescere continuamente ottimizzando la qualità, ma soprattutto occorre porsi degli obiettivi chiari e, dove è necessario, riqualificarsi. Il “Sistema” agricoltura si deve sintetizzare in qualità, sicurezza alimentare e tracciabilità. Sui mercati mondiali dobbiamo sostenere l’originalità delle nostre produzioni. Sappiamo che i mezzi per superare la globalizzazione sono storia, tradizioni, territorio, ma anche innovazione di prodotto, di processo e capacità imprenditoriali. La ricerca diventa indispensabile per avere competitività e deve essere vista come strategia dell’economia. Nell’agroalimentare italiano il vino è un bene prezioso per ogni regione. I vini italiani sono profondamente diversi da quelli internazionali. Il nostro territorio è diverso da quello australiano o californiano e il valore della diversità serve a superare il concetto di omologazione. Il punto chiave è: essere riconoscibili. Il consumatore pensa al “prodotto” come alla possibilità di comprendere un territorio e vuole trasparenza e certezza dell’origine. L’utilizzo del territorio nella comunicazione diventa una carta vincente nella promozione, ma si deve arrivare ad una reale certificazione della provenienza ed è nostro obbligo trasmettere certezze! Nel futuro saremo chiamati a fare i conti con la “trasparenza per il consumatore” e pertanto occorre allearsi con il consumatore attraverso alcune regole. Noi dobbiamo competere nella globalizzazione con la nostra specificità, che è il capitalismo di territorio: dobbiamo misurarci attraverso le piccole e medie aziende agricole che sono le vere detentrici del territorio. La fonte della qualità è la terra, il territorio genera uva e vino ed occorre legare ancora di più il vino al suo territorio. Si potrebbe affermare che il vino italiano soddisfa già questa esigenza con le denominazioni di origine. Esse sono un sistema importante per trasferire un’immagine di continuità dal territorio al prodotto. DOCG significa proprio denominazione di origine controllata e garantita; ma l’origine è davvero controllata e garantita? I controlli sono soltanto cartacei e i giudizi di provenienza e varietà non possono essere certificati da banali analisi chimiche e semplicisticamente da una prova di degustazione delle commissioni di degustazione dei Consorzi di Tutela, perché queste non sono certo infallibili; è un esempio di storia recente il “caso” Brunello di Montalcino. Da una parte l’attuale sistema di certificazione delle denominazioni di origine stimola i produttori alla produzione dei vini di qualità, ma


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dall’altra non riesce a contrastare quei vini che, pur riportando in etichetta la denominazione di origine, non provengono in realtà da quel territorio. I controlli (per verificarne la provenienza) si basano su autocertificazioni e si riducono ad un semplice aspetto cartaceo formale, cosicché la nostra credibilità di fronte al mondo viene messa in dubbio e le denominazioni perdono inesorabilmente credito. Sappiamo che i prodotti italiani (pasta, olio, vino) sono imitati nel mondo e dobbiamo combattere l’agropirateria, ma occorre avere la coscienza che la partita si gioca prima di tutto in casa nostra e i consumatori hanno tutto il diritto di pretendere una garanzia obiettiva dell’origine. La certificazione dell’origine diventa valorizzazione dell’economia reale, perché il territorio rappresenta il vero potenziale della tipicità difficilmente imitabile dalla concorrenza e non esportabile. Per determinare l’origine zonale dei vini esistono già metodi analitici specifici dove il principio di misura si basa sul valore dei rapporti isotopici degli elementi leggeri della tavola periodica di Mendeleev: i risultati che si ottengono però, sono influenzati da molteplici variabili legate alla latitudine e alle componenti meteoclimatiche che determinano un frazionamento isotopico degli elementi. Per tali motivi i valori di riferimento sono variabili di anno in anno, per cui ne consegue la necessità di rinnovare la banca dati con questa frequenza. Anche se sono attualmente inserite nei Metodi Ufficiali di Analisi, si tratta di tecniche difficilmente proponibili, in quanto i risultati rivestono carattere probabilistico e sono sempre di più influenzate dalle modifiche del clima a cui stiamo assistendo in questi ultimi anni. Per ovviare a tali criticità, la ricerca attuale si basa sul principio che la vite, come tutti i vegetali, assorbe dal terreno le sostanze per il proprio metabolismo. In particolare è dimostrato che nel percorso terreno-pianta-uva-vino i metalli pesanti (presenti nel suolo a livello di tracce) non subiscono un frazionamento isotopico; essi quindi si affermano come eccellenti indicatori di provenienza, sempre costanti nel tempo, ma con valori specifici in funzione della natura e composizione del terreno. Si individua così una vera e propria impronta digitale che dal terreno si trasferisce prima alla vite, poi al grappolo ed infine al vino. Una cosa è certa: il territorio imprime una matrice precisa all’uva; basta cercarla. Al fine di legare in modo chiaro e autorevole il vino al territorio di origine dell’uva, l’attuale indirizzo di studio individua quindi come traccianti petrogenetici i rapporti isotopici di elementi come lo Stronzio e il Piombo, dove il più promettente è il primo nel rapporto 87Sr/86Sr. Si utilizza uno spettrometro di massa ad alta risoluzione con sorgente al plasma e sistema multicollettore (ICP-MS-HR-MC): si tratta di una tecnologia innovativa caratterizzata da elevata sensibilità analitica unita a estrema precisione e accuratezza della misura. Il territorio imprime una matrice precisa all’uva, basta determinarla con questo metodo scientifico, compiendo in tal modo un salto culturale per certificare una


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fedeltà assoluta al territorio dal quale il vino prende vita. In un momento come questo non si deve fare l’errore di aspettare il futuro, ma impegnarsi attivamente per il recupero di identità del nostro paese, sostenendo la territorialità e l’originalità delle nostre produzioni agroalimentari.

Donato Lanati Spesso e volentieri il futuro proviene dal passato. Ciò è sicuramente vero quando si parla di prodotti legati al territorio; diventa imprescindibile se ci si riferisce al “Sangiovese”, vitigno principe in Toscana. La Toscana è da sempre terra di grandi vini e di grandi uve e il Sangiovese è un vitigno che per sua natura esprime al meglio la territorialità del luogo. È un vitigno estremamente variabile, difficile, duro e schietto, che può dare grandi soddisfazioni se trattato con la giusta esperienza e con il giusto rispetto. È forse il vitigno italiano che più risente della variabilità ambientale e dà tutto o niente a seconda del terroir di collocazione. La sua coltivazione richiede enormi cure ed attenzioni, a partire dalla messa a dimora fino alla gestione di ogni singola pianta, diradamenti dei grappoli compresi. Spesso le operazioni, se si vuole puntare alla qualità, sono ancora manuali. I viticoltori toscani difficilmente potranno competere sui costi di produzione: occorre spostare la competizione sulla qualità, sulla “irripetibilità” del prodotto, sulla tipicità e l’unicità. Con la globalizzazione dei mercati occorrerà puntare anche sulla diversificazione e sull’integrità dei prodotti, nel rispetto dei disciplinari di produzione, a maggior tutela dei consumatori, consapevoli della validità del nostro territorio, della bontà dei nostri prodotti e della professionalità e capacità degli addetti al settore. Le risorse umane dovranno essere un’altra carta vincente: non ci si improvvisa viticoltori ed enologi, ma lo si diventa con anni di esperienza, facendo tesoro di errori commessi, di scelte talvolta sbagliate e cercando nella maniera più analitica possibile di interpretare al meglio ciò che la natura ci suggerisce. Un’altra carta vincente, per poter competere al meglio, dovrà sicuramente essere un’elevata aggressività dei mercati, eliminando certi atteggiamenti individualistici e poco corporativi che talvolta avvolgono il mondo imprenditoriale vitivinicolo per lasciar posto ad uno spirito più collaborativo. Serietà e onestà nella produzione, solidarietà e collaborazione tra produttori, perfetta conoscenza della filiera e dei mercati, tecnologia e ricerca, valorizzazione delle risorse umane: sono questi gli ingredienti fondamentali per dar forza a tutta la viticoltura toscana. Nessuna strana ricetta o alchimia, ma la consapevolezza di dover produrre nel rispetto del territorio, facendo tesoro degli sforzi di chi ci ha preceduto.

Fabrizio Lazzeri


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Doverosa è la premessa che chi scrive è piemontese, nato e cresciuto a Torino e perciò, nonostante il coinvolgimento ventennale nella viticoltura di Montalcino, rimane pur sempre un forestiero. Unicità, riconoscibilità ed irripetibilità sono gli elementi che rappresentano la formula necessaria per competere nel mercato globale e dare modo di ricavare uno spazio duraturo sulle tavole dei consumatori di vino di tutto il mondo, evitando di entrare in competizione diretta di stile e conseguentemente anche di prezzo. La storia e la tradizione della viticoltura toscana offrono tutti gli elementi necessari per soddisfare tali obiettivi. I vitigni autoctoni sono il primo elemento al quale dedicare un lavoro di riscoperta, selezione e valorizzazione. L’Università di Firenze con la sua collezione di germoplasma offre uno spunto importante; quali altri tesori si celano in quella collezione oltre al Ciliegiolo, al Pugnitello o al Vermentino? La combinazione del suolo e del clima è il secondo elemento che offre ampio spazio per coltivare la diversità, l’unicità alla quale bisogna aspirare per costruire il futuro. Viaggiando e visitando le zone di produzione dei paesi del nuovo mondo colpisce il fatto che definiscano il loro clima “mediterraneo” nonostante si affaccino su sconfinati oceani, la bruma mattutina oscuri spesso il sole fino a mezzogiorno o le escursioni termiche siano tipiche di un deserto. Il vero clima mediterraneo, unito al galestro o ai terreni franco-sabbiosi della costa, rappresenta un elemento unico da coltivare e sfruttare. Infine la mano dell’uomo, di quell’uomo per cui il vino è atavicamente un alimento, un elemento del proprio bagaglio culturale. L’uomo toscano deve avere come obiettivo il creare vini che siano riconoscibili ad occhi chiusi (letteralmente) ed evitare di mimare sapori esotici. Per questo la difesa della purezza del Sangiovese nel Brunello di Montalcino è così importante: in nessun’altra parte d’Italia e in nessun’altra parte del mondo si può produrre un vino con le stesse uniche, riconoscibili ed inimitabili caratteristiche.

Francesco Marone Cinzano La Toscana, come altre regioni viticole italiane, ha una vocazione strettamente legata alle differenze di terroir e di vitigno. Una visione d’insieme del territorio ci offre una realtà molto variegata e diversificata, a dispetto di qualsiasi rischio di omologazione. È questo il lascito di una regione con un potenziale straordinario. Ma può non bastare. La viticoltura trova i suoi fondamenti nell’intima relazione che il soggetto umano vive con la “sua” terra. Economia d’impresa, tecnica e cultura possono convivere se stabiliscono un rapporto etico e di responsabilità con la terra e con chi la lavora. Fèlsina trova la sua collocazione ideale in questa prospettiva e ne dà testimonianza vissuta.

Giuseppe Mazzocolin


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Credo che il Rinascimento enologico, cominciato all’inizio degli anni ’80, sia arrivato alla fine del suo ciclo. Sta iniziando una nuova fase di grandi cambiamenti che ci conduce verso vini meno dimostrativi, meno “palestrati”, meno alcolici: vini finalmente da bere e non solo da degustare. Il vino deve tornare ad essere un compagno del buon cibo, un piacere quotidiano.

Fabrizio Moltard Siamo in un periodo di grandi cambiamenti e anche il vino di qualità subisce gli effetti della globalizzazione dei mercati. In un momento di grave crisi economica stiamo assistendo ad un calo dei consumi di vino nel vecchio continente, mentre nel resto del mondo si registra un aumento della domanda di prodotti a basso costo e di gusto internazionale. La taglia media delle aziende vitivinicole toscane rende impossibile alla maggioranza di esse una concorrenza ai grandi gruppi mondiali sul mercato dei vini tecnologici di fascia medio-bassa. Tuttavia continua e continuerà ad esserci richiesta di prodotti di alta gamma fortemente caratterizzati. Passata la sbornia dei Supertuscans - che comunque hanno contribuito a creare, insieme alle grandi denominazioni di origine della regione, un brand “Toscana” nel mondo - oggi è fondamentale, nelle zone riconosciute come fortemente vocate, continuare con una produzione di alta qualità riconoscibile dal mercato, per abbinare alle produzioni “internazionali” prodotti unici che possano rappresentare le tipicità locali. La vitivinicoltura toscana deve far risaltare i suoi terroirs che le permettono di produrre vini irripetibili nel resto del mondo. Risulta quindi essenziale promuovere una moderna viticoltura di qualità capace di esaltare, insieme ad una corretta tecnica enologica, i vitigni locali. Il futuro del “pianeta Toscana” sarà garantito solo se si riuscirà a mantenere una specificità territoriale e a produrre vini fortemente tipici, espressione inequivocabile del luogo di provenienza, ma con un taglio moderno e senza certi difetti riscontrati negli anni passati.

Mauro Monicchi


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In un momento storico nel quale non riusciamo neppure a prevedere cosa succederà domani, parlare del futuro dell’enologia toscana mi sembra un paradosso, ma l’argomento è avvincente e pertanto... Negli ultimi 25 anni siamo passati dal niente al tutto, dal vino sfuso ai Supertuscans osannati dalla critica e dai consumatori, ma con un’estrema improvvisazione e questa mi pare una delle cause - certo non l’unica e forse neppure la principale - della crisi odierna. La nostra ricerca si è concentrata nel far crescere i nostri vini, puntando però spesso ad imitare gli altri piuttosto che ad esaltare la personalità del proprio vino e la sua unicità. Sono convinto che il nostro futuro non si giocherà più con i Vitigni Autoctoni, il Biologico, la Biodinamica e le infinite IGT, DOC, DOCG, ecc, ecc. E allo stesso modo il nostro futuro non sarà più legato alla qualità, visto che questa oramai è (o dovrebbe essere) data per scontata. Dobbiamo credere, difendere e promuovere il nostro territorio, dobbiamo credere nell’unicità di tanti nostri terreni e nell’irripetibilità del connubio che tanti vitigni hanno con i nostri microambienti. La vitivinicoltura di qualità non può essere uno sterile campo da analizzare con freddezza e pragmatismo, ma un ambiente dove trasmettere l’emozionante connubio tra natura e uomo. Non è retorica. Sono convinto che nel futuro ci aiuteranno la storia del nostro territorio e le storie dei nostri viticoltori: questo affascina il consumatore di un prodotto che sempre meno è alimento e sempre più strumento di piacere e socializzazione. Lo scenario che abbiamo di fronte non è certo semplice, ma sono certo che è tutto in mano agli attori di questo straordinario prodotto che è il vino. Dobbiamo tutti credere al nostro territorio, alla sua unicità e questo dobbiamo raccontare, senza campanili, senza invidie, ma con la certezza che il “vino Italia” ha ancora tanto da raccontare al mondo. Non avrei mai pensato di scrivere una cosa così “nazional-popolare”, ma sono veramente stanco di assistere al massacro che noi stessi facciamo della nostra cultura e delle nostre unicità. Siamo bravissimi a concentrare tutta l’attenzione del mondo sui nostri difetti - che sono senz’altro tanti e grandi - ma allo stesso tempo non dovremmo dimenticarci degli innumerevoli pregi e delle peculiarità dei nostri territori, dei nostri produttori e dei nostri vini. Mi rendo conto che da enologo avrei dovuto parlare di uve, vigneti, tecniche di vinificazione, ecc, ma davvero non credo che la “tecnica” possa risolvere il problema vino. In questi miei primi 25 anni di professione ho visto arrivare e sparire con la stessa velocità innumerevoli tecnologie, mentre la cosa che è sempre rimasta è un’uva che arriva da un vigneto, che è piantato su un terreno e che degli uomini trasformano in un prodotto straordinario: questo connubio è ciò che da sempre dà ai nostri vini la loro straordinaria unicità. Il mio compito per il futuro sarà proprio cercar di capire e aiutare i produttori ad esaltare la personalità dei loro territori e dei lori vitigni. Il compito dei produttori sarà quello di credere nel loro territorio, aprirsi al confronto sincero con gli altri e prendere coscienza di quanto c’è da fare per crescere in termini di qualità e di presenza sul mercato.


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Il compito di chi comunica dovrà essere quello di farlo correttamente, sapendo che si parla di un settore dove i cambiamenti seri richiedono anni e anni. Non bisogna dimenticarsi che si vendemmia una sola volta l’anno e che alle spalle di quell’etichetta c’è il lavoro di tante persone. Il compito di chi berrà questi vini sarà quello di andare oltre la facilità di beva: nel vino le cose più complesse e sfaccettate danno le sensazioni più belle e uniche.

Attilio Pagli La viticoltura toscana sta vivendo in questi anni una serie di profondi mutamenti sotto molteplici aspetti, sia fisiologici che congiunturali. La nostra personale convinzione è che assisteremo all’incremento del livello di qualità collettivo dei vini prodotti, in particolare per quanto riguarda la denominazione di origine di Montalcino. Saranno necessari controlli più capillari su vigneti, cantine e produttori. In secondo luogo, con l’aumento del numero di bottiglie prodotte, sarà assolutamente necessaria una maggiore espansione nei mercati esteri, specialmente in quelli emergenti dell’Estremo Oriente e del Sud America, dove l’accesso di piccole realtà, come quelle che compongono la viticoltura montalcinese, è subordinato ad una promozione più intensa ed estesa che sappia mantenere alto il nome della Toscana.

Piero Palmucci

Ritengo che per auspicare un buon futuro alla vitivinicoltura toscana occorra seguire, con molta determinazione e senza compromessi, essenzialmente due inscindibili linee guida: l’identità - e quindi la tipicità - e la qualità. La tipicità dei nostri prodotti è l’unica via per emergere nei mercati internazionali. Se vi rinunciamo, per rincorrere il cosiddetto “gusto internazionale”, saremo destinati a soccombere nei confronti dei grandi produttori australiani, sudamericani e, in un prossimo futuro, cinesi. Essi hanno possibilità tecnico-economiche-commerciali più che sufficienti per realizzare e commercializzare vini di qualità a costi per noi irraggiungibili. L’unico modo per non essere soffocati dalla loro concorrenza è il differenziarsi con ciò che non potranno mai avere: l’identità, ovvero la tipicità dei nostri vitigni legata al nostro terroir. Ovviamente, oltre alla riconoscibilità dovremo puntare all’innalzamento della qualità. Ultimamente, in Toscana sono stati fatti enormi progressi in questa direzione, ma purtroppo da un po’ di tempo mi sembra di notare un certo rallentamento, come se ormai si ritenesse di aver raggiunto la meta. In questo settore bisogna continuamente migliorare, mettendo a frutto le proprie esperienze e andando nello stesso tempo ad imparare da chi, vicino o lontano, ha insegnamenti da darci. È inammissibile che all’interno di una stessa denominazione ci si imbatta in vini di


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eccellenza e in vini al di sotto della sufficienza: questo è il peggior danno che si può arrecare al prestigio di un vino e perciò è indispensabile che tutti si impegnino per un innalzamento globale della qualità. Le basi per promuovere i nostri vini nel mondo ci sono tutte: la natura stupenda, i borghi incantevoli, l’arte, il mare, le città che tutti ci invidiano: sforziamoci di mettere qualcosa in più noi produttori e i risultati arriveranno sicuramente.

Giovanni Panizzi

Mi sembra che la strada sia stata ormai intrapresa: concentrarsi sulla viticoltura e tornare ad un approccio enologico essenziale. Dopo la sbornia dei vini “dopati”, i vignaioli si sono svegliati con un gran mal di testa. La crisi economica ha determinato il potere di scelta dell’acquirente e sono finiti i bei tempi in cui la domanda superava abbondantemente l’offerta. Adesso il compratore sceglie e, nel farlo, inevitabilmente i vini prodotti da una viticoltura sana risultano vincenti, mentre i vini costruiti in cantina con fantasiosi tagli o con preponderanza della tecnica e della tecnologia marcano il passo, si bevono meno e non si arriva in fondo alla bottiglia. L’agricoltura biologica si diffonde, i più bravi si impegnano nella biodinamica, si scopre il terroir. La Toscana ha la fortuna di godere di un clima splendido, di una luminosità unica, calda e avvolgente, di terreni molto interessanti con una grande eterogeneità. Impariamo a sfruttare queste ricchezze, veri doni della natura, comprendiamo come il vitigno serva a leggere il terroir e non a vendere più vino, come la densità d’impianto sia un mezzo tecnico e non una formula di marketing, come la tecnologia debba asservirsi alla qualità e non viceversa. Le basi sono state gettate in questi anni per fare un salto qualitativo, cominciare a definire i terroirs, autolimitandosi, accettando che non tutti i nostri vigneti siano grand cru, definendo come tali solo quelli che veramente lo meritano e strategicamente lavorare ad accrescere il prestigio della Toscana, creando quella piramide qualitativa che le denominazioni non sono riuscite a edificare, con orgoglio e determinazione, ma soprattutto con lungimiranza. Da un “fiasco” abbiamo creato un successo; adesso è tempo di consolidare, di lavorare seriamente, affinché chi acquista vino toscano paghi effettivamente per la qualità che riceve, affinché le bottiglie di vino toscano vengano bevute fino all’ultima stilla e se ne ordini un’altra bottiglia, affinché chi acquista per conservare in cantina non abbia delle delusioni quando stapperà le preziose bottiglie. La strada è intrapresa e non ho dubbi che i produttori toscani sapranno percorrerla fino in fondo.

Francesco Saverio Petrilli


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Per immaginare il futuro occorre aver sempre ben presente il passato. Il mondo del vino in Toscana non sfugge a questa regola. Se analizziamo il progresso compiuto nella nostra regione negli ultimi 20 anni in termini di qualità enologica e viticola non possiamo non renderci conto delle cose che ancora occorre fare per consolidare tale percorso qualitativo. Ma le prospettive sono incoraggianti, perché la base produttiva è più solida: molti vigneti sia nelle zone più classiche (Chianti Classico, Montalcino, Montepulciano) che in quelle emergenti (Bolgheri, la Maremma, le Colline Senesi) sono frutto di una viticoltura non solo razionale, ma anche territoriale. Inoltre è aumentata la conoscenza, frutto del lavoro congiunto di agronomi ed enologi che hanno condiviso l’obiettivo di qualità. Ma adesso ci aspetta un altro compito, altrettanto importante: comunicare. Il grande cambiamento dell’inizio del XXI secolo sta proprio nella massa di informazioni che si muove attraverso canali diversi e che internet amplifica indifferentemente. Il mondo viticolo deve quindi focalizzare la sua comunicazione sull’elemento alla base della sua azione: l’ingegno umano che interpreta territorio e ambiente. E allo stesso tempo riconoscere però che l’agire è sottoposto a vincoli. È una delle definizioni di etica: chi meglio di un agronomo o di un enologo può analizzare i vincoli (ambientali, climatici, organizzativi, legislativi) che è necessario affrontare affinché il vino non sia solo una produzione agricola, ma l’essenza di un territorio?

Leonardo Raspini


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Il futuro di una viticoltura antica come quella toscana risiede nella capacità di saper coniugare con equilibrio tradizione ed innovazione. Non è facile oggi per una delle produzioni vitivinicole che vede le proprie origini più lontane nel tempo, confrontarsi con le produzioni più moderne, che sono nate confezionate su misura per le esigenze, i gusti, i mezzi e le aspettative del mercato. La produzione toscana si porta appresso una dote di un certo peso: una lunga storia, un’importante tradizione e la particolarità del territorio, che costituiscono la sua ricchezza (indubbiamente) e, allo stesso tempo, uno svantaggio (una rete dalle larghe maglie, in cui è assai facile inciampare e rimanere intrappolati). Ma se la vera qualità del vino toscano - che può fare la differenza e non potrà mai essere riprodotta risiede nel suo stile e nel territorio, perché andare a mettersi in competizione su altri valori, che non sono i punti di forza? Si rischia di trasformare il cammino di un prodotto in evoluzione verso la sua massima espressione di qualità in una corsa maldestra, su un campo scivoloso, alla conquista di una meta, che... è quella di un’altra gara! E se la salvaguardia di uno stile e la valorizzazione del territorio devono costituire il focus della produzione toscana moderna, la cultura e la tecnologia ne devono rappresentare il valore aggiunto. Le conoscenze più recenti, le nuove pratiche sperimentate e le tecniche moderne sono uno strumento prezioso il cui impiego deve essere teso alla giusta evoluzione di una produzione che rimanga fedele a stessa. La ricerca di uno stile che niente ha a che fare con il proprio, la rincorsa di caratteristiche che rendono il prodotto più competitivo su un mercato sempre più ampio, raramente sono compatibili con l’elevazione della qualità di una produzione.

Giancarlo Roman Io credo. Io credo nell’onestà. Io credo nell’onestà dell’imprenditore; continuo a credervi nonostante tutto. Io credo nell’onestà intellettuale e nel riconoscimento del valore del lavoro, princìpi che stanno a monte e vengono prima della passione per il proprio mestiere e di tutti gli altri vocaboli - sempre più ovvi - usati per convincere l’interlocutore che si stanno facendo le cose per bene. Io credo che poi, subito dopo, venga l’umiltà, la quale, se impastata con l’autoironia, dà buoni frutti in termini di spirito d’osservazione, di apertura al nuovo e di rispetto verso l’antico, anche laddove questo talora si mostra ostico da comprendere. Questo memento mori accompagna il dottor Tachis quando con una vocina chioccia rammenta di essere sempre solo un “mescolavino” o il prof. Danny Schuster che, dopo 17 anni di concentrata consulenza alle vigne di una prestigiosa azienda in California, sommessamente ammette “di averne cominciato a capire le reazioni e i bisogni”. Quindi da artigiano, con l’Amerighi e con altri, faccio professione di ostetrica, di levatrice ed esercito, come posso, l’arte della maieutica, traendo nel vino, meno peggio che mi riesce, ciò che naturalmente è già tutto lì.

Federico Staderini


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La Regione Toscana costituisce uno dei luoghi più interessanti e vocati al mondo per la coltivazione dell’olivo e della vite. La sua configurazione, in realtà, rappresenta una serie ininterrotta di situazioni ambientali differenziate sia dal punto di vista orografico che climatico. Osservando la mappa della Toscana, infatti, salta subito all’occhio come essa sia incastonata in una cornice naturale che funge quasi da protezione al suo territorio. La catena montuosa degli Appennini definisce il suo confine da ovest a sud-est e il Mar Tirreno lambisce il suo confine occidentale. L’interno del territorio toscano è caratterizzato da numerose valli principali e secondarie sul fondo delle quali scorrono fiumi e corsi d’acqua di diversa portata e le zone pianeggianti sono pressoché assenti. È evidente che in una simile condizione ambientale la coltivazione della vite e dell’olivo trovano una collocazione ideale e non di rado terreni coltivabili sono situati anche ad altitudini superiori a 600-700 metri s.l.m. Protetta dalle correnti fredde del nord e accarezzata dal mare per un lungo tratto di costa a ovest, gode di un clima mite e regolare, anche se molto vario. Sui pendii delle valli e delle colline la vite trova un habitat ideale, favorito anche dalla natura e dalla composizione dei suoli, nonché dal notevole soleggiamento e dall’importante escursione termica fra il giorno e la notte. Da sempre, perciò, la Toscana è considerata una terra dall’enorme potenziale vitivinicolo, che negli ultimi decenni ha trovato adeguata espressione in vini che, in un contesto di grande competitività, hanno saputo conquistare i mercati mondiali. Ora si tratta di consolidare il successo fin qui conseguito, facendo scelte molto oculate riguardanti i vari aspetti della filiera, da quelli tecnici a quelli normativi e culturali, in modo tale da poter continuare ad offrire alla clientela di tutto il mondo i vini toscani in un contesto nel quale la loro unicità e peculiarità territoriale possano assicurare un appeal nel consumatore “globalizzato”. Il primo obiettivo da conseguire, è sicuramente il completamento del rinnovamento viticolo. Siamo all’incirca a due terzi del percorso e disponiamo di una conoscenza approfondita, come non mai in precedenza, della scienza viticola. Perciò non ci è concesso commettere errori o ripeterne altri simili a quelli che spesso hanno caratterizzato e penalizzato il recente passato. Oggi siamo finalmente giunti alla realizzazione di un catasto viticolo dettagliato e completo che ci permetterà di utilizzare al meglio informazioni veritiere e tempestive, utili ad orientare le politiche produttive dei territori che compongono la regione. Si sta lavorando con alacrità e con non pochi investimenti per approfondire la conoscenza del territorio e degli ambiti climatici e microclimatici, attraverso un sempre più esteso lavoro di zonazione, che ci consentirà di utilizzare al meglio le diversità dei territori. La tecnologia è ormai in grado di valorizzare al massimo la materia prima ottenuta dai nostri vigneti e si va via via affinando la capacità di individuare le scelte viticole più idonee per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di mercato. Siamo, però, purtroppo ancora condizionati da una normativa obsoleta, farraginosa, anacronistica e molto onerosa in


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termini economici e di agilità operativa, che appesantisce il lavoro del viticoltore e ne ritarda il dinamismo, senza una chiara visione delle problematiche produttive e del mercato. Questo - a mio avviso - è uno degli aspetti negativi di maggior rilievo fra quelli che ci pongono in svantaggio nei confronti dei nostri competitors operanti al di fuori dell’Unione Europea. Un altro handicap di non secondaria importanza non è tanto o solo il frazionamento delle dimensioni aziendali, quanto l’incapacità, o meglio, la mancata volontà da parte di molti produttori di costituire gruppi consortili in grado di avanzare sul mercato internazionale offerte importanti, sia dal punto di vista qualitativo che sul piano del volume di prodotto disponibile. Aggredire il mercato partendo da basi economiche forti e con chiare strategie ampiamente concordate è oggi il solo mezzo per riuscire a tener testa con successo all’enorme quantità di offerta proveniente dal resto del mondo. Purtroppo, invece, sul palcoscenico internazionale l’Italia in generale, ma anche le singole Regioni, si presentano in maniera estremamente frammentata, con iniziative affidate a questo o a quell’Ente (non di rado in contrapposizione fra loro), estemporanee e prive del necessario coordinamento, al punto da disorientare gli interlocutori commerciali, che sovente - per questi motivi - disertano tali iniziative, non attribuendo loro la necessaria professionalità e concretezza. È auspicabile pertanto un maggiore coordinamento promozionale, la formazione di figure professionali addette al marketing e alla commercializzazione e contemporaneamente lo sviluppo di un’attività di educazione e di informazione dei potenziali consumatori nei nuovi Paesi che ci si augura diventino nuovi clienti del futuro mercato del vino. Comunque, mi sembra che la Regione Toscana goda di ottima salute per quanto riguarda il futuro della sua viticoltura e dei suoi prodotti enologici. È stata, sin dagli inizi del rinascimento vitivinicolo del nostro Paese, un elemento di traino e di esempio per molte altre realtà italiane, e ne sono certa, continuerà a costituire un punto di riferimento importante, perché anche nei momenti più difficili, lungi dal manifestare segni di resa, continua a lavorare con intelligenza, nella

prospettiva di mantenere e - se possibile - potenziare il suo ruolo di primaria importanza in questo fondamentale settore dell’economia nazionale.

Barbara Tamburini


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Sono probabilmente l’ultimo arrivato in Maremma. Sono venuto qui senza esperienza enologica e senza tradizioni familiari. Nonostante ciò sento un forte attaccamento a questa terra e questo mi spinge a dare il mio parere, anche se basato più su intuizioni che su fatti concreti. Il fascino esercitato dall’enologia toscana verso l’esterno l’ho vissuto in prima persona. Ho cambiato vita per lei. Ho cambiato lavoro, ho cambiato luogo in cui vivere e solo qui ho trovato la voglia di metter su famiglia. Questo fascino irresistibile (quindi non solo il vino, ma la combinazione di vino, paesaggio, cultura e stile di vita) è il grande vantaggio che la tradizione toscana lascia in eredità a noi produttori di oggi. Credo che il futuro non possa che partire da qui: dalla tradizione e dai vitigni che sono propri di questa tradizione. La ricerca e la selezione dei migliori cloni (sia dei vitigni conosciuti in tutto il mondo come il Sangiovese, sia la riscoperta di varietà autoctone ormai sconosciute anche nella stessa Toscana, come per esempio il Pugnitello) è il modo per tenere sempre accesa l’attenzione sulla nostra enologia. Nessun altra regione (o Stato) può vantare una combinazione di terroir e una presenza di turismo enologico (il Chianti, Montalcino, Bolgheri, la Maremma) come in Toscana. Questo vantaggio è straordinario e va sfruttato sino in fondo. Qui si può offrire il vino in degustazione a giapponesi, americani, russi e australiani, soltanto aprendo la cantina. Questo permette di dare un volto alle etichette che, di conseguenza, non sono mai uguali a tutte le altre, ma diventano uniche e irripetibili contribuendo a rendere ogni turista del vino un ambasciatore del prodotto toscano nel mondo. A mio modo di vedere il futuro dell’enologia toscana passa da questi due fattori principali: selezione delle uve autoctone adatte ad ottenere vini di qualità e sfruttamento del turismo enologico per promuovere i vini sui mercati internazionali. In fin dei conti, l’appassionato di vino è un viaggiatore in cerca di emozioni. La Toscana e i toscani hanno tutti gli elementi per non lasciare nessuno deluso.

Alberto Tanzini


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Vino e relatività: un insolito binomio per offrire spunti alternativi utili a decifrare un settore in profonda trasformazione, con la sola licenza di invertire i due valori cardine di Einstein. Infatti sono i tempi ormai a contrarsi e, ovviamente, le lunghezze vanno dilatate se si spera di rispondere alle richieste di un mercato che va compreso prima di essere conquistato. Cosa vuol dire, allora, fare il vino oggi per domani? In una fase come la nostra, che ha il suo baricentro su una certa evanescenza dei valori e degli stili, si fa preziosa la riflessione sulla solidità del verbo fare. Fare il vino è concetto moderno e concreto che si declina inevitabilmente sul sincero legame con la realtà geografica. La grande responsabilità dell’enologo si chiama etica del territorio e identità del prodotto. È lui che deve farsi interprete, o traduttore simultaneo, di una mappa del vino nuova nella forma, ma invariata nella sostanza, se la sostanza è quella che i vini toscani da sempre confermano. Il settore vitivinicolo attraversa un ennesimo ciclo di incertezza e serve una buona dose di obiettività nel cercare di coglierne le cause: non si può negare che sia penalizzato da impalcature normative che blindano una OCM sempre più demotivante per chi ne fa parte, subendo inoltre, a livello europeo, continue corse all’impianto e all’espianto, come se il vino fosse un bene mobile senza radici e senza tempo. Come si può competere all’esterno se l’interno stesso è agganciato a logiche che appiattiscono o spostano gli obiettivi verso il basso? Focalizzando l’attenzione sulla Toscana, solo un ferreo ridimensionamento delle superfici - selezionando le sole zone davvero vocate anche alla luce del calo dei consumi individuali - potrà risollevare una tendenza che nell’ultimo decennio aveva proposto un “made in” ormai insidioso oltre che superato. Il vino non si fa ovunque, per fortuna. E non viene fatto neanche da chiunque. L’enologo è di certo una figura anomala nel nostro Paese. Come si può pretendere che abbia un ruolo se le premesse sono queste? Chi ha il coraggio di parlare di valorizzazione dei territori e dei vitigni se il settore tende ad opacizzare e a confondere? Mentre il mercato cambia direzione non possiamo dimenticare che il consumatore sceglie oggi e il suo acquisto è sempre in un presente che il mercato stesso cerca di traslare continuamente a grande velocità. Chi acquista, tra l’altro, sceglie da una prospettiva sensoriale che l’enologo ha il dovere di intuire e mai di manipolare, così come chi di vino scrive. Se l’economia impone codici di acquisto che hanno già iniziato a trasformare i consumi, la prima domanda da porsi è se il mercato vorrà prevalere sulla qualità. Ci vorrà coraggio - e tanto - per modulare il posizionamento delle proprie etichette su spazi e contesti profondamente diversi da quelli cui abbiamo guardato finora. Solo chi sarà forte della propria identità saprà vedersi collocato anche sullo scaffale di una GDO senza il timore di dissacrare una vendita che non può più farsi solo rito. Con linguaggi più attuali e con un marketing capillare e modulare si potrà dare un senso


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al cambiamento: se qualche pedina si sposta sulla scacchiera del vino, inevitabilmente vanno ridefiniti equilibri e strategie. Bisogna osservare per cogliere l’opportunità delle nuove reti di vendita senza demonizzarle con pregiudizio. Se fare il vino vuol dire venderlo e se vendere vuol dire offrire un prodotto che sintetizzi un tessuto geografico e sociale, l’equazione riserva allora poche incognite. Ad ogni anello della filiera è chiesto di bilanciare opportunità e vantaggi, ma solo con le singole professionalità - e con necessaria attitudine al cambiamento - il vino potrà recuperare un valore di mercato consapevole. Da anni, ormai, si abusa di termini quali territorio e tradizione, passato e futuro, autoctono e locale: sono significati che dobbiamo già dare per acquisiti e da lì ripartire per innovare. Mentre in vigna e in cantina da tali valori non si può prescindere, il testimone passa all’esterno e il porsi domande è sempre una via di crescita.

Paolo Trappolini


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Tutto ruota attorno a un vitigno, il Sangiovese, una varietà presente pressoché in tutti i vini rossi della Toscana. Spesso vinificato in purezza, molte volte utilizzato in percentuali diverse insieme ad uve locali, altre volte assieme alle uve internazionali. La sinergia tra questo austero vitigno, il clima, la terra e l’uomo, rende questa regione viticola così ricca di tradizioni, tra le più conosciute ed apprezzate al mondo per l’eccellenza qualitativa che i suoi vini sanno proporre. La filosofia produttiva, come base di partenza, deve puntare alla valorizzazione delle potenzialità dei vari “terroirs” attraverso un approccio “scientifico” che studi il territorio sotto ogni aspetto (fisico, pedologico, agronomico, meteorologico, ecc.), che ne valuti le potenzialità di interazione con il Sangiovese e altri vitigni ivi coltivati e che analizzi la funzionalità delle migliori operazioni in vigneto e in cantina in grado di estrarre il meglio dai frutti di queste viti. Per far questo è necessario superare il concetto di “tradizione” nell’accezione statica del termine, come ripetizione automatica di operazioni colturali e di cantina tramandate nei secoli, per interpretarla dal punto di vista “dinamico” come conoscenza approfondita e consapevole della realtà in cui si opera, alla ricerca della naturalezza espressiva dei vini. Questa visione dinamica non comporta assolutamente il rifiuto a priori di tecniche e modalità di lavoro “tradizionali”, ma presuppone il ricorso ad esse solo quando giustificate dal punto di vista scientifico, diventando quindi frutto di una scelta consapevole e progettuale, come dimostrato ad esempio dal recupero di terrazzamenti in alcune zone del “Chianti Classico”, dall’utilizzo di tecniche di cantina come il salasso - per addomesticare e allo stesso tempo valorizzare la potenza tannica del Sangiovese – e dall’attento uso del legno nel rispetto delle caratteristiche tipiche del vitigno. In quest’ottica, dove innovazione e tradizione si integrano e si completano, un ruolo fondamentale è rappresentato dal lavoro svolto in vigna: dalla selezione attenta e pianificata dei cloni per i nuovi impianti ai sistemi di allevamento adottati, alle densità d’impianto, alla ricerca dell’equilibrio vegetativo della vite con particolare attenzione alla gestione della superficie fogliare, alla gestione della produzione a partire dalle operazioni di potatura, ricorrendo al diradamento dei grappoli solo in casi particolari, quando - ahimé - si è sbagliato prima, all’utilizzo dell’acqua - elemento a mio parere sempre più discriminante nella gestione di una viticoltura di qualità - alla scelta ragionata dell’epoca vendemmiale in funzione della maturità tecnologica, fenolica e aromatica. Dal punto di vista “sensoriale” i nostri sforzi dovranno essere mirati a ottenere vini sempre più eleganti, in cui si integrano peculiari sfumature, che vanno dalla sottile ma penetrante mineralità, alla vibrante freschezza in cui sia riconoscibile il frutto, rivedendo il concetto di finezza non come “pochezza di alcuni elementi” (poco colore, bassa intensità olfattiva, poca morbidezza), ma come ricchezza e armonia degli stessi. Insomma sono finiti quei tempi


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in cui erano privilegiati i vini “muscolari”, molto spesso omologati; l’auspicio e la speranza è che i vini della Toscana sappiano essere sempre di più l’espressione dei molteplici straordinari terroirs in essa racchiusi, ricchi di personalità, in cui si possa riscoprire l’autentica “piacevolezza” del bere un eccellente bicchiere di vino rosso.

Loris Vazzoler


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RITRATTO DI

VIGNAIOLI TOSCANI




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AGRICOLA

SAN FELICE

Alessandro Marchionne


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I nostri progetti potranno essere raggiunti solo attraverso l’impegno e la dedizione Dal maggio 2007 mi è stato conferito l’incarico di direttore generale di Agricola San Felice, che non è una semplice azienda vitivinicola, ma un “sistema” più complesso, proiettato alla ricerca di una coesione fra i vari componenti che lo caratterizzano.

Non ti nego che tutto è arrivato inaspettatamente, in un momento fortunato della mia vita nel quale avevo una gran voglia di agire. Sentivo il bisogno di soddisfare i sacrifici fatti lungo tutto il mio percorso formativo e lavorativo, durante il quale avevo acquisito l’esperienza di manager con esperienza nel largo consumo alimentare. Essere qui mi riempie di soddisfazione e, in quanto toscano di origine, mi sono trovato immediatamente in sintonia con l’ambiente e con i miei nuovi collaboratori, tanto da essere subito ben predisposto nell’accettare i traguardi che la proprietà - il Gruppo Allianz SpA - si attende da me. Obiettivi nei quali, fin dal primo momento, ho intravisto l’opportunità di costruire un percorso che potesse travalicare il semplice rendiconto finanziario di breve termine. Puntando sulle risorse umane a disposizione e andando oltre lo stato dell’arte in cui gravava San Felice - che, come tante aziende vitivinicole, era ed è alle prese con un momento di recessione - avevo deciso di affrontare la situazione con risoluta fermezza attraverso la collaborazione di tutti e senza correre il pericolo di cadere in staticità infruttifere e nell’immobilismo di una ferrea rigidità amministrativa. Ho sempre ritenuto che i momenti di crisi si debbano affrontare con entusiasmo, creatività e innovazione, con una più ampia visione dell’economia sociale del libero mercato, applicando ad essa un maggiore sforzo di professionalità, intesa come patrimonio della conoscenza, delle esperienze e di quelle motivazioni etiche e culturali che ogni elemento interno a San Felice deve mettere a disposizione degli altri e dell’azienda stessa. Dopo il mio arrivo, per prima cosa ho tracciato una mappa delle possibili modalità di azione, effettuando un meticoloso screening aziendale volto a conoscere quanto era stato fatto prima di me, così da dar vita, con cautela e determinazione, ai progetti a breve, medio e lungo termine che avrebbero condotto San Felice fuori dall’immobilismo, proiettandola verso il futuro e valorizzando l’unicità del suo sistema-azienda. Posso assicurare che non è facile gestire la storia e l’immagine di un’azienda che per quarant’anni è stata un punto di riferimento importante del comparto vitivinicolo chiantigiano, poiché gli interventi da effettuare devono tener conto dell’armonia che esiste fra la complessità del sistema aziendale e il sistema territoriale. Un mix che avrei dovuto necessariamente porre in equilibrio prima di farlo crescere e migliorare, riuscendo a mantenere quella relazionalità che deve esistere fra la terra e i suoi prodotti, fra la fruibilità del borgo di San Felice - dal 1992 Hotel Relais & Château - e gli uomini che in esso lavorano, fra il tessuto sociale, il Chianti e la storia e la cultura dell’azienda. Per raggiungere i risultati prefissati, avrei dovuto operare senza entrare in conflitto con nessuna delle componenti che caratterizzano questo complesso puzzle. Mi accorsi, infatti,

appena arrivato, di come l’azienda non riuscisse più a “dialogare” con il territorio circostante e che si era “annacquata”, inspiegabilmente, anche la naturale corrispondenza che San Felice aveva sempre avuto con il Chianti, proprio in funzione delle capacità che per decenni ha dimostrato di possedere nell’ambito della ricerca, della sperimentazione e della promozione del movimento viticolo dell’area. Mi attendeva una mission importante e sentivo di doverla condividere con i miei collaboratori, coinvolgendoli direttamente nell’ottenimento degli obiettivi auspicati. Trascorso qualche mese, andando contro le più logiche programmazioni che si fanno in momenti di crisi, aumentai gli investimenti in alcuni settori strategici dell’azienda, diretti dal direttore commerciale Fabrizio Nencioni; poi convinsi ogni membro operativo del comparto vitivinicolo ad interfacciarsi con l’intera filiera produttiva, in modo tale da abbandonare quelle rigide gabbie di competenze che non potevamo più permetterci di sostenere, per cui ognuno doveva essere capace di svolgere mansioni plurime a seconda delle necessità correnti. Eravamo tutti sulla stessa barca e ognuno doveva contribuire a remare nella stessa direzione per mantenerla sulla rotta stabilita, prendendo così coscienza di far parte di un gruppo e di poter fornire un contributo fattivo alla costruzione di un futuro condivisibile. Da lì sono partite altre iniziative, avviate con la determinata e testarda volontà che ormai mi caratterizza: da un lavoro incessante svolto fra queste vigne, questi olivi e le mura di questo borgo, per arrivare all’organizzazione della prima scuola fissa di potatura in Toscana - dove si formano figure professionali da mettere a disposizione delle aziende del Chianti e dell’intera regione - e adoperandomi affinché San Felice diventi un centro della cultura e dell’intellighenzia del Chianti e del mondo del vino toscano. I nostri progetti potranno essere raggiunti solo attraverso l’impegno e la dedizione, caratteristiche distintive dell’imprinting gestionale degli uomini che ricoprono ruoli importanti e di responsabilità nell’azienda; la stessa dedizione che pose Enzo Morganti, il quale, con la sua gestione, incise profondamente sulla visione scientifica e sperimentale del comparto viticolo che San Felice avrebbe dovuto osservare nella sua evoluzione enologica. Tale sperimentazione permise nel 1968, di produrre il primo Supertuscan della storia (il Vigorello) e poco più tardi, nel ‘78, insieme a pochi sparuti sperimentatori, San Felice fu una delle prime aziende a vinificare, all'interno del Chianti Classico, un vino come il Poggio Rosso Riserva, prodotto con uve Sangiovese in purezza. Menti eccelse quelle che dettero vita a quei risultati, alla stregua delle altre che si sono alternate e vedono oggi Leonardo Bellaccini continuare nella sperimentazione e nella valorizzazione dei vitigni autoctoni - in colla-


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borazione con le Università di Firenze e di Milano - il cui maggiore ed eclatante risultato è stata la riscoperta e la promozione del Pugnitello, un vitigno a rischio di estinzione. Fra le altre cose, il ritrovamento di alcune tombe etrusche in mezzo ad alcuni nostri vigneti, ci ha spinto ad attivare un piano di recupero archeologico dei reperti, in stretta collaborazione con la Soprintendenza Archeologica di Firenze ed il comune di Castelnuovo Berardenga, pensando anche alla futura creazione di un museo all’interno del borgo con i reperti di questi scavi. Dal mio arrivo non mi sono ancora fermato, poiché metto sempre più in gioco la mia capacità di negoziare, organizzare, presentare e comunicare questo territorio e questo borgo. Spesso, quando pensieroso lo attraverso, mi sembra di percepire il vocìo delle persone. Così mi arresto e mi domando come doveva essere animato San Felice solo qualche decennio fa, quando i bambini delle famiglie dei dipendenti, che abitavano nella case dell’azienda, andavano a scuola e incontravano quelli dei poderi vicini. I panni stesi alle finestre, le donne sull’uscio di casa a sgusciare i piselli o a pulire le verdure, distratte dalle chiacchiere, in attesa che gli uomini tornassero a casa dalle vigne, così da poter togliere definitivamente dal fuoco quella pentola dove cuoceva ormai da ore la cena. Una visione che brulica spesso nella mia mente e che mi piacerebbe far rivivere, sebbene mi renda conto che i tempi sono cambiati e ciò che era si è perso o si è trasformato in qualcosa di nuovo, segnando i confini di una tradizione che fra cent’anni sarà storia.


AGRICOLA SAN FELICE

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA POGGIO ROSSO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Colorino provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, situato in località Poggio Rosso, nel comune di Castelnuovo Berardenga, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 15 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di medio impasto ricchi di scheletro, con prevalenza di argille di origine calcareo-marnosa provenienti dalla disgregazione di Alberese e Galestro, ad un’altitudine di 390 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Colorino 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 6.250 e 8.400 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae, ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C, per circa 25 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese da 500 lt, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui sosta per 20 mesi; durante questo periodo si effettuano 3 travasi il primo anno e 2 il secondo. Terminata la maturazione si procede all’assemblaggio, e dopo un breve riposo, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 15 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino profondo con riflessi brillanti, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi intensi, pieni, ricchi, direi quasi opulenti, che spaziano da complesse percezioni fruttate tra cui fragola matura e ciliegia in confettura, per poi aprirsi a note floreali e proseguire con nuances speziate di muschio e rosmarino e minerali di grafite; in bocca è molto equilibrato, elegante, ricco di una morbida fibra tannica, ancora un po’ nervosa, ma lineare; pulito e corposo, chiude sorretto da una bella sapidità e da richiami fruttati e torbati. Prima annata: 1978 Le migliori annate: 1982, 1985, 1988, 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dalla località su cui si trova il vigneto, raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà del Gruppo Allianz Spa dal 1978, l’azienda agricola si estende su una superficie di 650 Ha, di cui 140 vitati, 150 occupati da 17.000 piante di olivo ed il restante a bosco. La produzione è curata dall’enologo Leonardo Bellaccini affiancato dagli agronomi Roberta Pugliese e Carlo Salvinelli.

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ALTESINO Elisabetta Gnudi Angelini


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Ho sempre creduto che le cose non succedono mai per caso Non ho mai creduto fosse necessario compiere gesti eclatanti o fare grandi opere per essere ricordati.

Forse perché sono sempre stata convinta che solo poche persone sono capaci di tanto, mentre la maggior parte delle altre, compresa me, è bene che si adoperino su piccole azioni, pur se significative, in grado di segnare il cammino della loro esistenza. Non si tratta di quantificare le dimensioni di un oggetto o di un gesto, ma di attribuire agli stessi un significato che ripaghi degli sforzi compiuti per realizzarlo ed è questa la soddisfazione che provo quando guardo le mie aziende vitivinicole per le quali mi sono sacrificata. Sono riuscita a salvaguardarne la storia e a contribuire ad una nuova valorizzazione per farle riappropriare del ruolo che avevano sempre avuto sul territorio in cui sono collocate, per la cui integrità e promozione mi sono strenuamente battuta, sia nel caso del Chianti Classico, con Borgo Scopeto, sia di Montalcino, per le tenute di Caparzo e Altesino, o della Maremma con l’azienda La Doga. Un grosso impegno affrontato con entusiasmo a partire dal 1998, quando decisi di entrare nel mondo del vino pur non avendo nessuna esperienza vitivinicola o conoscenza del settore, certa come ero sempre stata di voler fare, da grande, la vignaiola in Toscana, una regione che amavo tanto. Ho sempre creduto che le cose non succedono mai per caso. Da qualche parte era già scritto che tutto ciò doveva accadere, come forse era scritto quanto mi sarei sentita toscana di fatto già dal momento in cui comprai la mia prima azienda a Vagliagli. Ho avuto l’idea di appartenere a questa terra fin dagli inizi, come se anch’io facessi parte di quella schiera di persone che non nascono là dove dovrebbero, per cui si portano dentro la consapevolezza di essere parte di una terra che ancora non conoscono. Allo stesso modo sono sicura di essere stata predestinata a questo lavoro, certa del fatto che tutti gli altri precedentemente svolti erano provvisori o capitati un po’ per caso, solo per consentirmi di scommettere su me stessa. Ebbi questa sensazione anche quando iniziai a lavorare nel mondo del cinema, trascinata dall’amico Luca Barbareschi. Ricordo con gioia ed affetto quegli anni bellissimi, nel corso dei quali riuscimmo a portare un ventata d’innovazione, ma, nonostante le soddisfazioni e le gratificazioni economiche, mi rendevo conto di volere un’altra cosa dalla vita. Era questo il mio sogno, nel quale sentivo di dover investire tutta me stessa, senza timori, sapendo che solo seguendo quel sano principio del lavoro, trasmessomi dalla mia famiglia di origine emiliana, sarei riuscita a realizzarlo. Decisi caparbiamente di tuffarmi in questo mestiere di vignaiola e di imparare, sperimentandomi e adoperandomi attraverso una pratica giornaliera a soddisfare ogni necessità delle aziende, divenendo abile in vigna, in cantina e nelle relazioni commerciali. In questi anni non credo di aver commesso tanti errori, poiché ho sempre

voluto dare a queste aziende, dove sono occupate più di duecento famiglie, quanto di meglio fosse nelle mie possibilità. Non ho nulla da rimproverarmi, avendo investito nelle cantine - modernizzandole tecnologicamente e mantenendo viva la tradizione delle botti, utilizzando sempre meno la barrique - e nei vigneti, dove conduco un’agricoltura tradizionale che mi ha spinto ad eliminare quasi del tutto qualunque intervento chimico che possa alterare le peculiarità insite nel terroir dove essi sono collocati. Interventi programmati che mi hanno portato a realizzare, con la collaborazione di giovani enologi a cui ho offerto la possibilità di misurarsi e crescere all’interno di queste aziende, vini sempre più apprezzati dai mercati. Ogni tanto mi domando come mai invece di investire in tutto questo, non abbia preferito vivere di rendita. Se ciò fosse accaduto, non avrei potuto dar corso a quanto era già stato scritto nel libro del mio destino e sarei andata contro quel carattere di donna irruenta, creativa, battagliera e generosa che riconosco di avere. Avrei potuto vivere soltanto qui, a stretto contatto con la perfezione di questa campagna toscana ridente e mai inquietante, capace di unire la bellezza della natura a una visione di speranza, confrontandomi con questi toscani rimasti integri, nel carattere e nella personalità, a difesa del loro territorio. Ho sempre creduto che le cose non accadono mai per caso. E infatti una mia foto posta sul volume i Supertuscans è stata capace di ricondurmi a riscoprire l’amore con il quale oggi condivido questo sogno già scritto.


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Da qualche parte era già scritto che tutto ciò

doveva accadere


ALTESINO

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG MONTOSOLI Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese grosso provenienti dal vigneto omonimo di 5 ettari, di proprietà dell’azienda, posto nella zona nord-est del comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 22 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni calcareomarnosi e silicei riferibili all’Alberese, ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a nordovest. Uve impiegate: Sangiovese grosso (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla quarta settimana di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 8 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 5 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura e la fermentazione malolattica, il vino è posto in botti di rovere di Slavonia in cui resta per 24 mesi. Durante questo periodo si effettuano travasi ogni 4-6 mesi. In seguito viene spostato in barriques di rovere francese di Allier di media tostatura dove sosta per 3-4 mesi. Terminata la maturazione e dopo un breve periodo di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 15.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino intenso con riflessi granati, il vino si presenta al naso complesso, articolato ed elegante, proponendo mature note fruttate di ciliegia, mora, ribes e mirtillo, floreali di macchia mediterranea, speziate di chiodi di garofano e cannella, per finire con percezioni di cardamomo, muschio e un tocco di senape in grani. All’esame gustativo offre un’entratura elegante, pulita, lineare, ma per niente banale; con fibra tannica equilibrata e setosa, rivela buona armonia con le sensazioni olfattive e chiude con nuances vellutate di tabacco dolce da pipa e vaniglia. Ottime l’acidità e la sapidità che sorreggono tutta la degustazione e rendono il vino pieno, piacevole e di lunga beva. Prima annata: 1975 Le migliori annate: 1985, 1988, 1990, 1995, 1997, 1998, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 7-8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 30 anni. L’azienda: Di proprietà di Elisabetta Gnudi Angelini dal 2002, l’azienda agricola si estende su una superficie di 80 Ha, di cui 42,5 vitati, 2 occupati da oliveto e 20 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Mirando Pellegrini e gli enologi Pietro Rivella e Paolo Caciorgna.

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AmERIGHI Stefano Amerighi


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ASCOLTARE IL RICHIAMO DELLA TERRA Non c’è terra a sé e pianta a sé, così come nella realtà non ci sono capelli a sé e uomini a sé.

Sono parte di un tutto. Rudolf Steiner Che cosa ne sarà di mio figlio? Non ne ho ancora uno, ma già mi pongo questa domanda che, spesso, sopraggiunge testarda nella mia mente e, incessante, mi arrovella. Quando nascerà, vorrei trovasse un mondo un po’ diverso da quello in cui ho vissuto io, dove gli uomini abbiano almeno iniziato a preoccuparsi un po’ di più di quanto facciano oggi, di questa terra, con la quale confrontarsi per comprendere dove migliorarla, elevarla e condurla più lontano di quanto non avverrebbe senza di loro, divenendo artefici responsabili e co-creatori del destino delle generazioni future. Idee e pensieri che si sono accavallati e confusi con altri, diventando però, via via, sempre più chiari in me; mi hanno spinto, infatti, a ritornare a quella terra dove ero cresciuto come figlio di contadini, rivedendo completamente, dopo gli studi in Scienze Politiche all’Università di Siena, il mio approccio all’agricoltura. Avrei potuto fare altro nella vita, ma il fascino di trovare un dialogo più costruttivo con la campagna dove ero nato, mi entusiasmava più d’ogni altra cosa. Con titubanza e molte remore ho imparato a svolgere il lavoro di viticoltore, acquisendo cognizioni utili a conversare con la natura, arrivando ad apprezzare, sempre più, il dialogo avviato quotidianamente fra quelle viti e la mia anima, scoprendo come l’armonia che vado cercando è lì, ad un passo da me. Questa prossimità mi consente di saldare il legame con la terra, sempre pronta a nutrirmi e a pormi di fronte agli imperscrutabili misteri che regolano la procreazione dei frutti che essa è in grado di regalarmi in base al corso delle stagioni. Così mi specchio, osservandomi in maniera sempre nuova, in quell’arte contadina che una volta sapeva, con paziente e antica volontà, ascoltare il richiamo della terra. Non so se riuscirò a vinificare un vino in grado di poter far parlare di sé il mondo, ma sono certo, invece, di voler imparare a fare il “mio” vino, nato dallo scambio, schietto e sincero, attivato giornalmente con questo terroir, trasformandomi in un semplice traghettatore, capace di accompagnare la vita dentro una bottiglia di vino. In questo percorso di crescita personale mi sono accorto di quanto sia stato falsato il senso di quel viaggio umano che, invece di portarci ad avere più rispetto dell’ambiente in cui viviamo, ci ha fatto perdere quel sapere antico che ci aveva sempre guidato. Prendendo coscienza di ciò, ho voluto riscoprirlo per poi, scevro dagli stereotipi e da quelle moderne e false interpretazioni che hanno regolato il mondo del vino degli ultimi quarant’anni, contribuire alla creazione di una nuova viticoltura in terra di Cortona. Obbediente alla terra, ho ritrovato il piacere di sommuovere le zolle di Poggiobello di Farneta, entrando in contatto con il sottosuolo

per ricostruire l’habitat ideale in cui piantare le mie viti, in linea con quella biodinamica che avevo intenzione di applicare, cercando di rinsaldare il cordone ombelicale che mi lega ad essa. Mi affascinavano le idee nate nell’estate del 1924 da Rudolf Steiner, il quale riteneva che l’agricoltura biodinamica non cerca di favorire la crescita delle piante secondo il principio del rendimento, ma intende restituire al mondo la sua salute originale, affinché l’uomo possa perseguire la sua evoluzione su una terra umanizzata. Una pratica mediante la quale un accumulo di forze dalla terra si trasferisce alle piante, facendo loro esprimere maggiormente l’archetipo originale. Mi piaceva anche quel semplice ed elementare concetto secondo il quale il non fare è migliore del fare male e ogni scelta e decisione devono essere ponderate in funzione dello stato dell’arte del vigneto. Seguendo queste regole ho scoperto quanto questa Toscana si sia allontanata da quei valori unici con i quali aveva posto in armonia lo straordinario saper fare dei propri contadini con la terra, dando l’immagine di una regione che nell’immaginario collettivo era stata capace di costruire e proteggere un paesaggio agricolo unico nel panorama mondiale. Oggi, tutto mi sembra essersi banalizzato, specialmente nel settore in cui mi trovo ad operare, dove, in contrapposizione allo sviluppo delle aree vitivinicole, si è verificato un graduale allontanamento dal lavoro della terra. Osservando tutto questo con l’esperienza di un ragazzo di trentasei anni, scopro quanto quei vi-


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Non so se riuscirò a vinificare un vino in grado di poter far parlare di sé il mondo, ma sono certo, invece, di voler imparare a fare il “mio” vino gnaioli siano diversi da come sono io, troppo moderni e troppo condizionati nel loro lavoro al soddisfacimento delle esigenze dei mercati, a differenza di chi si nutre di quei colloqui silenziosi e intimi che riesce a costruire con i filari delle sue viti.


AMERIGHI

CORTONA DOC SYRAH Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori selezioni di Syrah provenienti dai vigneti Capanna e Vignatorta, di proprietà dell’azienda, situati in località Poggiobello di Farneta, nel comune di Cortona, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 7 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine pleistocenica, ad un’altitudine compresa tra i 270 e i 305 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-sud/ovest. Uve impiegate: Syrah 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato monolaterale e bilaterale Densità di impianto: 7.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla quarta settimana di settembre, l’uva raccolta in cassette viene selezionata nel tavolo di cernita e fatta fermentare in parte a chicco e grappolo intero, in parte con una soffice pressatura con i piedi in piccoli tinelli di cemento riempiti a mano, senza aggiunta di lieviti, solfiti e coadiuvanti chimici o fisici. La fermentazione si protrae per circa 15 giorni senza controllo di temperatura con leggere follature. Dopo la svinatura, i chicchi e i grappoli ancora interi, resi ormai croccanti dall’alcol durante i 20 giorni di fermentazione, vengono pressati in maniera soffice e riuniti al vino fiore, contribuendone ad ampliare lo spettro e la profondità olfattiva. La fermentazione malolattica e l’affinamento si svolgono sulle fecce fini sia in legni di piccola e media grandezza, sia in cemento senza solforosa, con alcuni bâtonnages per 19 mesi. Tutti i travasi avvengono senza l’utilizzo di pompe; dopo l’imbottigliamento, senza filtrazione o chiarifiche, con l'aggiunta di pochi grammi di So2, il vino resta 1 ulteriore anno ad affinarsi in bottiglia. Quantità prodotta: 9.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino impenetrabile, con uno spettro cromatico che fa solo intuire un’intensa profondità, il vino si propone al naso con sensazioni fumé e di tabacco conciato da pipa, marmellata di more e tamarindo, chinotto, liquirizia nera, radice di ginseng, fave, senape in grani, note di papavero e un bel pot-pourri di fiori appassiti. In bocca ha un’entratura dolce di crostata di more che si mescola a nuances fruttate e speziate, articolandosi fra una sapidità e un’acidità ben percepibili e tannini affascinanti; chiude con ricordi di chinotto e crosta di pane appena sfornato. Prima annata: 2005 Le migliori annate: 2006 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Stefano Amerighi dal 2002, l’azienda agricola si estende su una superficie di circa 14 Ha, di cui 8,5 vitati e 4 occupati da seminativi e bosco. Collaborano in azienda Federico Staderini per la parte enologica e Vincenzo Tommasi per quella parte agronomica; per la biodinamica, nel corso degli anni, François Bouchet, Pierre Masson, Michele Lorenzetti, Luca Pedrini e Adriano Zago.

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L’animo, se nutrito bene, ha piÚ forza per affrontare

futuro

il


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ANTINORI

TENUTA GUADO AL TASSO

Piero Antinori


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QUESTA FAmIGLIA RAPPRESENTA L’ANIMA PASSATA, PRESENTE E FUTURA DEL MOVIMENTO ENOLOGICO TOSCANO consiDero piero antinori l’iDentità stessa Del vino in toscana. non creDo mi sarebbe possibile scrivere, Discorrere e argomentare Del vino Di questa regione senza citare gli antinori, Da sempre granDi protagonisti Del valore ancestrale Della viticoltura in toscana, tramite la quale sono riusciti a Diventare ambasciatori Del tuscaN lifestYle.

È una radice profonda quella che li lega a questa terra, coniugando con essa, dal 1385, la loro signorile ruralità e diventando non solo interpreti della tradizione viticola, ma fonte stessa della sua creazione. Questa famiglia rappresenta l’anima passata, presente e futura del movimento enologico toscano e ha saputo, con lungimiranza e intùito, germogliare e rinascere ad ogni stagione, in un continuo divenire, incarnando l’immagine, la reputazione e il prestigio di quell’aristocrazia agraria che, in molti casi, ha protetto e valorizzato i territori, riversando su di essi i valori più antichi e nobili che le appartengono. Non incontravo Piero da qualche anno, ma è stato subito come se, dopo esserci salutati la sera prima, riavviassimo una piacevole conversazione da poco interrotta; questo mi succede spesso con chi ha una visione globale del mondo del vino. Schietto, sincero, scevro da banali formalismi e ricco di quella sana toscanità che lo contraddistingue - comune denominatore di molti gentiluomini di campagna - si racconta non facendomi pesare la sua importante eredità storica, dietro la quale potrebbe trincerarsi, per aprirsi invece e narrarmi di sé e di come il passato sia la base sulla quale poter costruire il futuro. Un sognatore cui piace senz’altro far sì che le cose accadano e che i propri sogni si trasformino in realtà, trovando nella loro realizzazione una gratifica al proprio agire. Mi parla della Toscana e dell’incredibile e straordinaria varietà morfologica in cui si incastonano i paesaggi e l’identità specifica delle sue tenute di Pèppoli, di Tignanello, di Badia a Passignano, di Guado al Tasso - dove ci troviamo - della Fattoria Aldobrandesca, della Braccesca, di Pian delle Vigne: tutte capaci di produrre vini che, in molti casi, hanno marcato prepotentemente l’indirizzo del Rinascimento vitivinicolo toscano e travolgendo, talvolta, la stessa cultura enologica o anticipando i gusti dei consumatori, come fu per il Rosé di Bolgheri, di leggendaria memoria, o per il Tignanello. Esemplare il caso del Cabernet Sauvignon che

proprio a Bolgheri fu messo a dimora da suo padre Niccolò alla fine degli anni ’20 del Novecento, dopo aver acquistato le barbatelle da un famoso vivaista dell’epoca, un certo Giulio Ferrari, lo stesso che, per scherzo, si era messo, nel frattempo, a produrre un po’ di spumante! Mille e duecento ettari di terre, uniche, inimitabili nelle quali ha saputo coniugare la tradizione con l’innovazione, una metodologia insita in lui più di quanto immaginassi, tanto da riuscire a percepire nelle sue parole come sia connaturato in lui il rapporto fra vino e uomo, fra territorio e vitigno, fra il soddisfacimento della domanda e la tipicità dell’offerta, fra la salvaguardia del territorio e la sua valorizzazione economica, fra il globalismo dei mercati e la difesa del terroir, riportando tutto questo in una visione più ampia quasi di business to business, in cui si dà per avere. Una visione completa, costruita utilizzando con intelligenza quell’autenticità tipica del toscano, capace sempre di avviare una “rivoluzione moderna” che garantisce quel vantaggio competitivo di cui godono le sue aziende. Sono state scelte non facili da attuare e, a volte, contrastate; contribuiscono, di fatto, a costruire un preciso indirizzo enologico, che per alcuni è diventato un must da seguire, per altri un esempio da interpretare, per altri ancora uno strumento sul quale fondare il proprio crudo e asettico business, sentendosi liberi di “annacquare” tutto quanto la Toscana rappresenta. Anche Piero, come me, ha il timore che vada smarrendosi la fiducia in questa terra di Toscana dove - come diceva il grande scrittore Curzio Malaparte - ogni albero o pianta ha il suo posto non assegnato dalle sole leggi della natura, ma dalle leggi dell’uomo che hanno saputo porsi in equilibrio fra la terra e il cielo, per costruire quel senso del bello che qui sembra innato e quasi spontaneo, spirituale eppure profondamente laico, ma che, per mantenersi, necessita del rispetto di tutti. In questa prospettiva, l’azione attenta e sapiente di Piero Antinori, svolta fino ad oggi, acquista ai miei


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Una visione completa, costruita

utilizzando con intelligenza quell’autenticità

tipica del toscano , capace sempre di avviare una “rivoluzione moderna”

occhi un valore enorme rispetto alla qualità dei vini che sto degustando e mi aiuta, ancora una volta, a ricollocare quale sia il valore dell’uomo rispetto al vino che egli produce. Parliamo ancora e mi racconta delle sue esperienze con l’enologo Tachis e del suo grande maestro, il professor Emile Peynaud dell’Università di Enologia di Bordeaux, delle novità apprese nei suoi ripetuti viaggi in Francia, delle sperimentazioni, dell’esperienza californiana e di come si sia mosso, in Italia, il settore vitivinicolo negli ultimi quarant’anni. Lo ascolto sfogliando, con le sue parole, quell’enciclopedia vivente che egli, oggi, rappresenta; e ciò mi dà l’opportunità di approfondire la realtà di un tempo e come essa si sia evoluta, costruendo il presente di questo mondo del vino italiano nel quale entrambi ci troviamo a operare.


ANTINORI - TENUTA GUADO AL TASSO

BOLGHERI DOC SUPERIORE GUADO AL TASSO Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle uve Cabernet Sauvignon, Merlot e Syrah provenienti dai migliori vigneti di proprietà della Tenuta Guado al Tasso, situati in tre corpi differenti e ben distinti fra Bolgheri e Castagneto Carducci, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: Il terroir è piuttosto variegato. Si trovano terreni alluvionali, di origine fluviale, ricchi di scheletro e terreni di origine marina, con sabbie eoliche e una presenza più o meno elevata di argilla. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 65%, Merlot 30%, Syrah 5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: ai 5.400 agli 8.250 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla diraspatura delle uve e alla successiva cernita manuale prima della pigiatura. Fermentazione e macerazione avvengono in serbatoi di acciaio inox a temperatura controllata (25-30°C) per un periodo variabile dai 15 ai 20 giorni, durante i quali si compiono rimontaggi e ossigenazioni, di intensità variabile in funzione delle necessità di ogni singola varietà. I vini alla svinatura vengono messi in barriques nuove, dove, entro la fine dell’anno, terminano anche la fermentazione malolattica. Durante il periodo di affinamento vengono eseguiti periodicamente dei travasi con separazione delle fecce e con ossigenazione, quando necessario. Al termine dei 18 mesi di affinamento, dopo un accurato controllo di ogni singola barrique, viene eseguito il blend fra le diverse varietà. A ciò fa sèguito l’imbottigliamento ed un affinamento di 10 mesi prima dell’uscita sul mercato. Quantità prodotta: 110.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino intenso con riflessi granati, il vino propone all’esame olfattivo profumi di frutti rossi e neri maturi, tra cui marasche e ribes, un pot-pourri di fiori appassiti e note speziate di liquirizia dolce, foglie di alloro, ginepro e sentori di terra. In bocca è caldo, pieno, sapido, armonico, con tannini morbidi e ben evoluti; ottimo l’equilibro fra sapidità e acidità, chiude molto lungo e persistente su accenni minerali e fumé. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1998, 2001 Note: Il nome della tenuta e del vino derivano dal fatto che capita spesso di vedere in zona i tassi, animali molto schivi, attraversare i guadi dei corsi d’acqua; il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Antinori dagli anni ’30 del Novecento, l’azienda agricola si estende su una superficie di 1.000 Ha, di cui 300 vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Claudio Palchetti, il responsabile viticolo Andrea Bencini e l’enologo Marco Ferrarese.

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AVIGNONESI

Virginie Saverys


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Questi luoghi sono abitati da chi sa mangiare e dormire con la terra Non so come sia possibile, ma devi sapere che ho sempre pensato di venire, prima o poi, a vivere definitivamente in

Ho sempre sentito dentro di me che, in un’altra vita, ero già stata italiana ed è forse per questo che ho avuto sempre voglia di tornare alle mie presunte radici. In Belgio ho una bellissima casa; insieme alla mia famiglia ho condotto per anni la maggiore e più importante compagnia di navigazione mercantile del Paese, con decine e decine di navi che trasportano per il mondo materie prime (petrolio, gas, carbone, minerale di ferro); nonostante ciò, ho sempre considerato quell’habitat come non mio o forse solo quello dove non avrei voluto stare per sempre. Era un lavoro che richiedeva un grande impegno, dovendo quotidianamente operare con una managerialità sempre più incompatibile con la mia indole di eterna bambina alla ricerca del semplice e naturale divertimento offerto dalla gioia di vivere, come se avessi ancora vent’anni e pensassi di essere sempre su un gozzo a Capri, dove andavo fin da ragazzina con gli amici. È troppo breve il tempo che abbiamo da vivere ed è sciocco sprecarlo solo con cose noiose e ripetitive; lo stava diventando per me il comprare e vendere navi, definire accordi commerciali, stipulare contratti internazionali e gestire le quotazioni delle nostre società sulla borsa mondiale. Stanca di quella mole di responsabilità, quando Alberto Falvo mi propose, prima di entrare in società con lui - per rilevare le quote del fratello Ettore - e poi di acquistare definitivamente Avignonesi e, con essa, la società di distribuzione Classica, non mi lasciai scappare l’occasione di mettere radici in questa terra. Non fu un’operazione semplice quella che mi condusse a rilevare completamente quest’azienda - che conoscevo da tempo e che ritenevo una delle più belle della zona - ma con il sostegno di Max, il mio compagno, e dei miei due figli Basile e Eline, e basandomi sull’esperienza acquisita negli anni trascorsi svolgendo il ruolo di responsabile legale nelle aziende di famiglia, divenni all’inizio socia e, poi, dopo un anno, proprietaria di Avignonesi. Alla base di tutto vi era comunque il desiderio di relazionarmi, in modo più profondo e diretto, con questa terra, poiché, per quanto avessi viaggiato alla ricerca del bello, ogni volta che ritornavo da queste parti, mi accorgevo di trovare qui ciò che andavo cercando in giro per il mondo; questa Toscana la portavo sempre dentro e la consideravo, ogni giorno di più, la mia terra. È qui che ho scoperto il segreto del bello che mi circonda: sono le persone. Questi luoghi sono abitati da chi vive all’aria aperta e sa mangiare e dormire con la terra, come dice Walt Whitman (Now I see the secret of the making of the best persons. It is to grow in the open air and to eat and sleep with the earth). Non c’è affermazione più vera da abbinare a ciò che penso dei toscani; lo scopro giornalmente

Toscana.

e ne rimango affascinata. Penso, entusiasticamente, al valore dell’infinito che vedo affacciandomi dalla veranda di casa mia e osservando lo splendore del morbido paesaggio che essi hanno saputo disegnare su queste terre; oppure rifletto su come in ogni borgo o piccola frazione, sparsa in mezzo alla campagna, abbiano saputo mantenere intatte le decine di piccole chiesette romaniche, ognuna delle quali custodisce mirabili tesori; allo stesso tempo adoro vedere quelle “motorette” con a bordo una coppia di vecchi contadini, mentre percorrono le strade bianche di cui questa provincia è tappezzata un po’ ovunque; mi affascina la sensazione di amicizia e socializzazione regalatami dagli abbracci scambiati con il macellaio del paese o l’idea di vedere ancora le chiavi lasciate nella serratura dell’uscio di casa con l’intento di comunicare che la porta è sempre aperta per gli amici e i vicini, esprimendo la libertà da pregiudizi e paure e allo stesso tempo la disponibilità ad un’amichevole apertura verso gli altri. Sono queste e mille altre splendide percezioni che hanno determinato la mia voglia di mettere radici in Toscana. Sono emozioni vissute quotidianamente come un regalo della vita e mi rendono felice di aver ancora un animo da bambina, predisposto a gioire della vita. Anche fare vino è, per me, un’emozione di cui voglio godere; mi interessa percepirne le sfumature e gli artifici che si intrecciano con queste vigne e con il divenire delle stagioni che le influenzano. Emozioni che mi servono come stimolo non solo per rendere quest’azienda capace di gratificare tutti quelli che vi lavorano, ma per farla crescere e porla in armonia con questo ambiente che ritengo unico, inimitabile e adesso anche un po’ mio.


Anche fare vino è, per me, un’emozione di cui voglio godere; mi interessa percepirne le sfumature e gli artifici che si intrecciano con queste vigne e con il divenire delle stagioni che le influenzano.

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VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO DOCG RISERVA GRANDI ANNATE Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese (Prugnolo gentile) e Cabernet Sauvignon provenienti dal vigneti di proprietà dell’azienda, posti in località Argiano e Capezzine, nel comune di Montepulciano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di medio impasto con riaffioramenti argillosi, ad un’altitudine di 300 metri s.l.m., con esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese (Prugnolo gentile) 85%, Cabernet Sauvignon 15% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato ed Alberello impiantato a settonce Densità di impianto: 2.500 ceppi/Ha per la spalliera e 7.158 ceppi/Ha per l’alberello Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini di legno, si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28 °C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae, a seconda delle annate, per altri 15 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in botti di legno, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere francese di primo passaggio in cui rimane per 30 mesi; durante questo periodo si effettuano periodici travasi. Terminata la maturazione in legno il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 9 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 30.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino impenetrabile con riflessi granati, il vino si presenta all’esame olfattivo con un bouquet di percezioni complesse che attingono a profumi di frutta del sottobosco, spezie dolci, cioccolato amaro, tabacco e cuoio, per passare a note di fiori appassiti e a nuances balsamiche di eucalipto e tamarindo. In bocca ha un’entratura austera, elegante, sapida, con tannini setosi e ben evoluti che si amalgamano alle percezioni fruttate e speziate percepite al naso rendendo il vino decisamente piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1997, 1999, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà di Virginie Saverys dal 2008, l’azienda agricola si estende su una superficie di 235 Ha, di cui 110 vitati, 8 occupati da oliveto e 117 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Giovanni Bianchi e l’enologo Paolo Trappolini.

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BADIA A

COLTIBUONO

Emanuela Stucchi Prinetti


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Il vino e l’olio sono per me come un passepartout Produco vino per passione nella speranza che chi lo degusta possa cogliere l’entusiasmo che cerco di instillarvi, lo stesso con cui mi relaziono con il bello, il buono e il bene e gli altri valori della mia esistenza.

Coltivare la terra di Badia a Coltibuono ha un fascino tutto suo e questo mi ha consentito di addolcire il mio carattere altero, arricchendolo di più gioiose ed esuberanti sensazioni, spingendomi a creare splendidi rapporti con gli altri, nei quali trovo la voglia di confrontarmi e di crescere. Questo era un luogo di culto e di meditazione, di pace e di cordialità dei monaci Vallombrosani e, nonostante siano passati più di mille anni, ancora oggi riesce a raccontare la sua incredibile storia, comunicandola a quanti si aggirano fra le sue mura, rinnovando costantemente quella sua forte identità, forse la sua più grande ed inesauribile ricchezza. Un posto magico, il mio trait d’union con il mondo, che mi offre un rapporto particolare con la vita e le sue splendide e infinite sorprese. Produco il vino e l’olio esclusivamente da agricoltura biologica e ciò mi pone in armonia con questo ambiente, con la sua storia e con il saper fare della mia famiglia che, da oltre 150 anni, si adopera per valorizzarlo. Il vino e l’olio sono per me come un passepartout e mi permettono di portare, anche in terre lontane da noi per distanza e cultura, una più ampia visione di questo angolo del Chianti Classico e far capire cosa significa esser viticoltori in terra di Toscana. Un’armonia cresciuta negli anni, insieme al mio graduale divenire vignaiola, donna e madre, che mi ha fatto prendere coscienza del valore intrinseco di questa terra chiantigiana che, essendo ormai riconosciuta da molti come un patrimonio universale, sento di dover proteggere affinché possa essere trasferita alle generazioni future; in tutta onestà, considero la gestione rigorosamente biologica di questo vasto patrimonio una pratica insostituibile, anzi la sola veramente valida. Così queste mie vigne, questi secolari olivi e questi boschi che disegnano i confini dell’azienda non rappresentano soltanto i beni dell’impresa e non sono stati allevati e salvaguardati solo allo scopo di dare profitto, ma soprattutto per consentire, a chi decide di arricchirsi l’animo, di nutrirsi della loro bellezza, lasciandosi penetrare dalle splendide sensazioni che io stessa sperimento e che mi legano indissolubilmente a questo territorio. Questa è una terra generosa, difficile ma fruibile da tutti, sia da chi vi è nato e vi lavora sopra, sia dal turista

frettoloso o dall’appassionato viaggiatore che in questo territorio “globale” può trovare il modo di approfondire la propria cultura enologica, ma anche le sue conoscenze storiche. Forse è per questo che da vent’anni mi adopero nella valorizzazione del Chianti Classico, impegnandomi attivamente nel Consorzio - all’interno del quale, per lungo tempo, ho ricoperto anche l’incarico di Presidente - nella Pro Loco di Gaiole in Chianti e in tutte le altre attività utili alla promozione di questa zona geografica importante ed unica, relazionandomi sempre con questa terra e con l’imprescindibile legame che la lega a Badia a Coltibuono e a questa Toscana del vino. È un modo di operare con cui cerco di raffigurare l’insieme delle innumerevoli e peculiari caratteristiche che compongono l’anima di questo terroir, così da confrontarmi costruttivamente con gli altri nelle mille occasioni nelle quali mi ritrovo a promuovere il mio vino o il Chianti Classico. Sono moltissime le iniziative fin qui intraprese verso l’esterno, ma anche nei confronti dell’innumerevole schiera di visitatori che, ogni anno, varcano la soglia della nostra cantina. Iniziative mirate a fornire loro l’accoglienza adeguata alla storia e all’antica ospitalità che ha sempre caratterizzato questo luogo, nella speranza che, dopo aver degustato i nostri vini, osservato i giardini, le mura e gli affreschi che le abbelliscono, tutti possano tornarsene nelle loro case portandosi via ciò che anima ancora, dopo secoli, Badia a Coltibuono. Si tratta di persone appartenenti a ceti sociali e culture diverse, che parlano lingue differenti, ma tutte sono desiderose di comprendere la genuina franchezza e la generosa toscanità di queste terre chiantigiane, ricche di quella cultura, costruitasi attraverso i secoli, il cui maggior pregio è quello di non essere mai statica, ma sempre in divenire. Viaggiatori che apprezzano la particolarità, l’arguzia, lo spirito della parola antica che ci lega, con un rapporto diretto, alla lingua madre con la quale sappiamo comunicare, più di altri, quei ragionamenti popolari prestati alla filosofia, gli aneddoti, i proverbi, l’arte stessa che ha reso unico questo paesaggio e quelle immagini lontane, eleganti, aperte su illuminati spaccati di vita.


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Questo era un luogo di culto e di meditazione


BADIA A COLTIBUONO

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Canaiolo, ottenute con tecniche rigorosamente biologiche, provenienti dai vigneti Montebello e Argenina, di proprietà dell’azienda, situati in località Monti in Chianti, nel comune di Gaiole in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni pliocenici, sabbioso-argillosi, ricchi di calcare con buon equilibrio globale, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Canaiolo 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot bilaterale Densità di impianto: 5.500-6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dai primi di ottobre, si procede alla selezione manuale e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, con lieviti autoctoni è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini di acciaio, dura per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che va avanti, a seconda dell’annata, per altri 20 giorni circa, durante i quali si effettuano frequenti follature e délestages. Dopo la svinatura, il vino è posto in serbatoi inox termocondizionati, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in botti di rovere in cui rimane per 18-24 mesi. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di un minimo di 4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 50.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino offre all’esame olfattivo belle note di frutta matura, tra cui prugne, marasche e more, che si mescolano a sentori di spezie dolci come cannella e senape in grani e a percezioni di tabacco e cuoio. In bocca si percepiscono buon equilibrio e piacevole freschezza; tannini fini e ben evoluti conferiscono lunghezza ed eleganza al vino che chiude morbido con delicate nuances di viola appassita e mandorla. Prima annata: 1937 Le migliori annate: 1959, 1964, 1966, 1971, 1975, 1983, 1985, 1988, 1990, 1993, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dall’azienda, fondata nell’XI secolo dai frati vallombrosani con il nome di Abbatia Cultus Boni, ovvero del “Buon raccolto”, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 30 anni. È prodotto con uve provenienti da agricoltura biologica. L’azienda: Di proprietà della famiglia Stucchi Prinetti dal 1846, l’azienda agricola si estende su una superficie di 905 Ha, di cui 54 vitati, 19 occupati da oliveto e 832 da seminativi e bosco. Collabora in azienda l’enologo Maurizio Castelli.

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Il vino non si fa ovunque, per fortuna. E non viene fatto neanche da chiunque.


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BANFI

Enrico Viglierchio


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mantenere intatti i valori che da sempre ci hanno contraddistinto Non sono certo io a dover tessere le lodi di questa azienda, ma tu, che da vent’anni frequenti il mondo del vino. Sono sicuro che come tanti altri consideri Banfi una delle realtà vitivinicole più importanti del territorio montalcinese.

Non voglio prolungarmi nel raccontarti la storia di quest’azienda, ma vorrei, invece, descriverti come essa sia riuscita a distinguersi, ad evolversi e a consolidarsi nel tempo, diventando un importante punto di riferimento e riuscendo, contemporaneamente, a costruire un brand capace di valorizzare la sua produzione vitivinicola e l’intero comparto enologico di questa zona, catapultandolo all’attenzione internazionale. Un’azienda unica, secondo il mio personale giudizio, sicuramente la prima in Italia costruita con capitali stranieri, in grado di far fronte, nell’arco degli ultimi trent’anni, a tutte le sfide, importanti ed innovative, lanciate da un mercato sempre in continuo cambiamento. Un modus operandi diventato ormai una vera e propria filosofia aziendale con la quale Banfi sta affrontando anche l’attuale momento di recessione dei consumi e di riflessione dell’intero comparto produttivo mondiale. Quando si verificano momenti di grandi cambiamenti economici, sociali e culturali, che spronano le persone a vivere nel presente con una sempre maggiore “cultura dell’adesso”, diventa estremamente difficile programmare un futuro. In questa “modernità liquida” - come l’ha definita Zygmunt Bauman - che travolge e mette in dubbio lo stesso concetto del tempo, parlare di viticoltura e di quali siano i vini del prossimo futuro, risulta difficilissimo. In quest’ottica, le sicurezze radicate e acquisite negli anni diventano colonne granitiche dalle quali è possibile osservare meglio l’evolversi delle cose. Sono le stesse colonne costruite da John e Harry Mariani nel 1978, quando fondarono quest’azienda e sono le stesse che rappresentano oggi la nostra mission, indirizzata verso un profondo rispetto per il territorio e un’attenta valorizzazione dello stesso. Con i molteplici strumenti di cui disponiamo, siamo orientati ad una continua modernizzazione dello stabilimento di vinificazione e della nursery dove maturano i nostri grandi vini e al lavoro scientifico, attento e scrupoloso, di selezione e studio di tutti i vitigni messi a dimora. Senza dimenticare poi la completa ristrutturazione del castello, dove è stato allestito un Museo del Vetro e della Bottiglia che presenta una delle più grandi collezioni al mondo di vetri romani di età imperiale, oltre ad un Relais di altissimo livello, una Taverna e un’enoteca. Sono le stesse

colonne da cui fin dagli inizi i Mariani avevano intravisto la possibilità di realizzare vini eccezionali solo se fossero stati in grado di interpretare quel terroir, coperto, 40 milioni di anni fa, da un oceano preistorico ricco di fossili naturali, argilla e minerali. Sono le stesse colonne dalle quali iniziarono un’attenta riconversione dell’architettura del paesaggio di queste colline, avviando cure minuziose e attente per ogni singolo appezzamento di terreno, per ogni singolo vigneto, stimolando, di fatto, sia un radicale cambiamento di mentalità del comparto viticolo montalcinese, sia una radicale modifica della percezione che i mercati internazionali avevano nei confronti del vino DOCG toscano, soprattutto negli Stati Uniti, dove spadroneggiavano i vini francesi e qualche Barolo. Idee progressiste per quegli anni ’80, quando era molto arduo vendere il Brunello, che esisteva per la sola volontà di non più di una trentina di aziende ed era noto per il marchio di quattro o cinque di esse, le più famose, presenti con i loro prodotti solo su pochi e selezionati scaffali. Di lì a poco divennero ostici anche i discorsi sul territorio e sulle modalità da attuare per il suo sviluppo, ponendo in contrapposizione chi, come noi, affrontava l’argomento con taglio sovranazionale e cosmopolita e chi, invece, spingeva non solo verso un ampliamento della superficie vitata montalcinese, ma anche verso un utilizzo indiscriminato del marchio Brunello, sottovalutando il valore rappresentato dal suo territorio. Banfi ha sempre osservato questo principio e sono orgoglioso di questo, perché ciò significa procedere, senza esitazioni, su una linea tracciata, aderendo incondizionatamente a quel concetto di “toscanità” che tu stai cercando di descrivere in questo tuo libro, sviluppatosi, nel nostro caso, attraverso un imponente e quotidiano lavoro che ci ha condotti a dare, ormai da quasi trent’anni, un ininterrotto contributo a quel “Rinascimento del Brunello” nel quale la famiglia Mariani, forse per prima, ha creduto. Un impegno che ci vede adesso già proiettati verso nuovi traguardi e non ci interessa se, per raggiungerli, dovremo percorrere nuove strade o se gli stessi richiederanno maggiori risorse, perché sono sicuro che, mantenendo intatti i valori fondanti che da sempre hanno contraddistinto il nostro impegno, affronteremo con successo tutte le nuove sfide del futuro.


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BANFI

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG POGGIO ALLE MURA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Poggio alle Mura, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età che si aggira intorno ai 15 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di tessitura franco-argillosa, calcarea, con abbondante scheletro, ad un’altitudine di 210-220 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 100% (da selezione clonale Banfi) Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito da metà settembre a metà ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte. La fermentazione alcolica è avviata con l’inoculo di lieviti selezionati in tini di acciaio, ad una temperatura controllata compresa tra i 27 e i 29°C; contemporaneamente si effettua anche la macerazione sulle bucce per un periodo di 12-13 giorni, durante il quale vengono svolti délestages e rimontaggi giornalieri. Quindi il vino è posto in barriques di rovere francese (Allier, Nevers, Tronçais, Fontainebleau) - di cui circa il 30% di primo passaggio ed il restante di secondo - dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale il 90% rimane in barriques e il 10% viene spostato in botti di rovere di Slavonia e rovere francese da 60, 90 e 120 Hl in cui sosta per 24 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima di essere messo in commercio. Quantità prodotta: 60.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino profondo con riflessi violacei, al naso sprigiona profumi ricchi ed intensi di gelsi neri e mirtilli, sensazioni speziate di cannella e noce moscata a cui fanno da sfondo nuances di cuoio, tabacco dolce e cioccolato. In bocca lascia spazio ad un lungo fruttato di mora e marasca e risulta corposo, di grande struttura ed evidenzia tannini decisi, ma eleganti. Grande persistenza nel finale; al retrogusto evidenzia morbide percezioni di vaniglia e caffè e un tocco balsamico. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 30 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Mariani dal 1978, l’azienda agricola si estende su una superficie di 2830 Ha, di cui 850 vitati, 39 occupati da oliveto, 80 da susini e il resto da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Maurizio Marmugi e l’enologo Rudy Buratti.

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BARONE RICASOLI

CASTELLO DI BROLIO

Francesco Ricasoli


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QUESTA è UNA TERRA UNICA basta guarDarsi intorno per comprenDere cosa sia oggi il meraviglioso territorio Del chianti classico, ma l’armonia e lo stesso valore relazionale assunto nel tempo Da questo terroir, si Devono principalmente al granDe bettino ricasoli che, con una visione moDerna e iDee progressiste, sviluppatesi ai tempi Di pasteur, e DeciDenDo Di affrontare la sfiDa per la ricerca Del “vino perfetto”, rivolse la sua attenzione all’agricoltura e alla coltura arborea Della vite. Con spirito e azione tenace si gettò nell’impresa di produrre vini di qualità, fini come quelli francesi dal carattere sublime che lui amava tanto. Scriveva così il “Barone di ferro” in una delle lettere di quella fitta corrispondenza che ebbe fra il 1860 e il 1870 con Cesare Studiati, dopo aver visitato, a Bordeaux, gli Chateaux e alcune cantine dove apprese le pratiche per la potatura corta, i modi che là si attuavano per la fermentazione dei grand crus a tino chiuso e altre tecniche che avrebbe poi sperimentato su questo territorio. Era un uomo schivo, autoritario, determinato, uno che non amava compromessi e, disinteressatamente, nelle sue lettere raccontava le virtù dell’uomo e quelle del contadino, desideroso di intraprendere l’arte della viticoltura, la più vicina - secondo lui - alla natura e alla scienza. Con tanta storia alle spalle, come avrei potuto esimermi dal cercare, almeno in parte, di ripercorrere le orme e l’azione illuminata del mio antenato? Si colloca nella storia il desiderio di rinnovare il mio slancio contemporaneo, adoperandomi per costruire un nuovo progetto, il mio life project realizzabile solo sul territorio chiantigiano, sapendo che, per conoscere e creare armonia con questo terroir non mi basterà neanche la vita che mi è stato dato di vivere. Questa è una terra unica. Per comprendere cosa ti sto dicendo basta affacciarsi dalle mura del castello e guardare la valle sottostante oppure, per rimanere affascinati da sensazioni antiche, è sufficiente percorrere silenziosamente una delle tante strade bianche non asfaltate sulle quali si respira un’atmosfera di tempi ormai lontani; allo stesso modo basta rivolgere lo sguardo verso i vigneti o i muri a secco che li delimitano per comprendere come qui si sia sempre fatto vino con criterio e direi anche con un importante senso civico. Questa è una terra dove il lavoro agricolo ha sempre impegnato e gratificato l’opera dell’uomo ed è grazie a quest’arte, antica e moderna, valida allora come adesso, che ogni generazione di viticoltori si è confrontata con l’ambiente, “disegnandolo” e valorizzandolo. In questa visione si colloca il nostro desiderio di

crescita, alimentato dal seme della dinamicità e dell’innovazione, lo stesso che animò, tanto tempo fa, Bettino Ricasoli e che, germogliando ancora, ho fatto mio, cercando quella toscanità vitivinicola capace di creare nel vino uno stile tutto mio. Non credo di poter essere smentito quando affermo che in questo ultimo decennio il connubio fra stile e vino è andato di pari passo, aumentando con il mutamento della cultura vitivinicola dei vignaioli chiantigiani, capaci di rinnovarsi e differenziare la loro produzione enologica da quella del recente passato. Vini che, pur tenendo conto del modo diverso con il quale vengono consumati, pur non essendo uguali a quelli di venti o cento anni fa e pur guardando al futuro e sembrando avulsi dall’esperienza del passato, sono figli di quella stessa storicità da cui traggono origine. La stessa storicità che mi fa andare oltre e, abbattendo le barriere, mi spinge nella valorizzazione delle microzone di questo mio pezzo di Toscana, accettando la sfida lanciatami da questa splendida terra, dalle grandi potenzialità in parte ancora inespresse. Anche per me la strada che mi dovrebbe condurre al “vino perfetto” è lunga e tortuosa e forse per questo mi adopero in modo scientifico, con un continuo monitoraggio dell’azienda, sviluppando una sinergia di ricerca con le Università di Agraria di Firenze, Siena e Atlanta, negli Stati Uniti, con cui abbiamo avviato un progetto di analisi, in chimica e in biochimica, delle fasi di fermentazione e vinificazione in collaborazione con il nostro laboratorio interno, il quale, di anno in anno, progredisce, si evolve e si arricchisce di ulteriori esperienze; un processo lungo, come quello con cui stiamo testando in modo analitico il Sangiovese. Tutto si evolve continuamente, mi appassiona e mi porta ad affermare di essere a capo di una delle più belle aziende del Chianti Classico, il mio “personale” Chateau Lafite di Toscana, con cui mi onoro di offrire il mio contributo a questo territorio, affinché qui, e in nessun’altro luogo, si possa produrre un grande vino italiano, quel vino a cui aspirava anche Bettino.


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barone ricasoli - castello di brolio

CASTELLO DI BROLIO CHIANTI CLASSICO DOCG Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese, con piccole aggiunte di Cabernet Sauvignon e Merlot, provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Brolio, nel comune di Gaiole in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra gli 8 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di medio impasto, in prevalenza rocce calcaree e ciottolame, ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 80%, Cabernet Sauvignon 10%, Merlot 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 5.500 ai 6.600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dai primi di settembre per il Merlot e dal 20 dello stesso mese per il Sangiovese e il Cabernet Sauvignon, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 21 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 31°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Poi il vino viene messo in barriques di rovere francese, per due terzi nuove, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano 2 travasi. Terminata la maturazione e dopo 2 mesi di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 65.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rubino assai scuro con riflessi violacei, si presenta all’esame olfattivo con ricchi profumi di mora, ciliegia e sottobosco cui si aggiungono via via note vanigliate e nuances balsamiche. Al gusto è caldo, morbido, di bella struttura; evidenzia un contenuto tannico di rilievo e un corpo vigoroso; lungo e di grande persistenza, conferma in bocca le piacevoli sensazioni offerte al naso, con in più anche percezioni di cacao e nocciola e delicate nuances di menta. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997, 1999, 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 25 anni. L’azienda: La tenuta del Castello di Brolio, di proprietà della famiglia Ricasoli dal 1141 e condotta da Francesco Ricasoli dal 1993, si estende nei comuni di Gaiole in Chianti e Castelnuovo Berardenga su una superficie complessiva di circa 1200 Ha, di cui 250 vitati (un unico blocco attorno al castello), 26 occupati da oliveto, mentre il restante territorio vede la presenza di seminativi e bosco ceduo (da cui si producono i pali di castagno utilizzati nei vigneti). Collaborano in azienda come consulenti l’agronomo Massimiliano Biagi e gli enologi Marco Cerqua e Carlo Ferrini.

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BIONDI SANTI Franco Biondi Santi


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L’ANIMA E LO SPIRITO SONO ANCORA SFAVILLANTI Avrei voglia di lasciare queste pagine vuote o, tutt’al più, accennare sulla carta bianca solo una frase, con la quale scusarmi con il lettore, non tanto per un gesto così plateale, ma per l’incapacità di scrivere cose nuove, non banali, sui Biondi Santi, gli inventori del Brunello.

Su di loro è stato già scritto di tutto. Anche il maestro Mario Soldati, nel suo libro Vino al vino, in cui racconta il suo meraviglioso girovagare per l’Italia vitivinicola, già nel ’68, folgorato dal loro prodigioso Brunello di Montalcino, si poneva la mia stessa domanda senza dare risposta. Ho ancora negli occhi l’immagine di quella foto che immortala l’amicizia tra Franco Biondi Santi, guardiano del suo Brunello, Mario, cultore - come me del gargarozzo e della scrittura, e Veronelli, il maestro pensatore, tutti e tre seduti intorno ad una tavola imbandita di vini. Ripensando a quanta cultura vi fosse intorno a quel tavolo conviviale, la mia parola si perde in cerca dei giusti lemmi per raccontare. Cerco di scrollarmi di dosso questi pensieri e, dopo aver attraversato San Quirico d’Orcia, lasciandomi sulla sinistra l’imponente mole dell’Amiata, m’inerpico, all’altezza della rocca di Radicofani, verso la cittadina di Montalcino, che da una parte domina la Val d’Orcia e dall’altra la piana che corre fino a Siena. Poi vado in direzione di Sant’Antimo, dove avrei voluto giungere molto prima, così da poter assistere magari alla funzione religiosa dei frati Premostratensi, dell’ordine degli Agostiniani, arrivati qui dalla Francia, i quali - mi hanno raccontato - alle prime ore dell’alba, con preghiere e canti gregoriani, ravvivano l’atmosfera mistica della millenaria abbazia. Ma ormai è tardi, quindi, con calma, uscito dal paese, mi tuffo in uno splendido percorso lungo una strada, al fianco della quale fanno bella mostra di sé ettari ed ettari di vigneti che mi fanno riflettere su come questo paesaggio sia cambiato e come il Brunello, a differenza del Nobile di Montepulciano, della Vernaccia di San Gimignano e del Chianti, non sia nato dal frutto del saper fare di una popolazione vitivinicola di un certo e determinato luogo, ma sia frutto dell’ingegno di un uomo che ha creduto in questo territorio e nel Sangiovese, cercando di interpretare e valorizzare questo vitigno e il vino che da esso scaturisce, andando contro corrente rispetto a quel “… leggiadretto sì divino Moscadelletto di Montalcino…” che era stato cantato dal Redi nel suo Ditirambo e che costituiva, a partire dal XVII secolo fino a cinquant’anni or sono, un importante punto di riferimento per la viticoltura montalcinese e per l’enologia del territorio. Prima Ferruccio, poi Tancredi e ora Franco - con il quale ho appuntamento - hanno sempre creduto in queste terre e nel Sangiovese, tanto che Ferruccio, già a partire dal 1860, iniziò a vinificarlo in purezza, dando origine a vini unici, potenti, longevi e di grande qualità che, stappati anche dopo 40, 50 o 100 anni, fanno gridare al miracolo. Raggiungo la Tenuta del Greppo, percorrendo lentamente il lungo viale fiancheggiato di cipressi, i quali, dritti come soldati, comandati da due grandi pini, lasciano filtrare la luce calda del mattino, componendo un’insieme di cromìe tali da rendere più affascinante la villa che intravedo in lontananza.

Ad accogliermi trovo l’ottantaseienne Franco Biondi Santi, figlio di quel Tancredi che ha partecipato alla stesura del disciplinare dell’allora DOC e nipote del geniale Ferruccio. Alto, magro, roseo, dal portamento elegante, mi viene incontro, facendosi sostenere da un vecchio bastone di cui farebbe volentieri a meno, tanto è il desiderio di essere ancora quello di qualche anno addietro, quando gli acciacchi della vecchiaia erano solo nei racconti degli altri suoi contemporanei. L’animo e lo spirito, quelli sì, sono ancora sfavillanti, come lo sguardo e il suo complice sorriso, che accompagnano le argute battute; infatti, offrendomi un caffè, mi presenta sorridendo il maggiordomo laotiano che si chiama Chian-ti, il quale, già nel suo nome, comprende il segno del suo destino in terra toscana. Che paradosso non conoscere nulla di cosa sia una vite o un vino e ritrovarsi maggiordomo a 16 anni nella casa di un produttore fra i più importanti del mondo! Sorrido anch’io, contento di trovarmi, anche solo per un giorno, di fronte a questo patriarca e ringrazio Dio che abbia ancora la voglia e la forza di conversare piacevolmente in compagnia di chi lo viene a trovare. Mi trovo al cospetto di una leggenda vivente che ha contribuito a scrivere alcune delle pagine più importanti della storia vitivinicola d’Italia, avendo avuto il coraggio di rispettare e reggere cocciutamente inalterati nel tempo i valori di quella tradizione della terra che gli era stata trasmessa, confidando ciecamente negli insegnamenti avuti, che gli indicavano il valore del lavorar bene la terra e del rispetto dovuto alla vite e ai suoi frutti. Un’azione meticolosa e scrupolosa tramandatasi da generazioni e fatta propria anche da chi ne viene in contatto, come il suo cantiniere di fiducia che, con maniacale precisione, ribadisce, con gesti che sembrano ripetitivi, i rituali insegnatigli dalla storia. È la semplicità del suo rigore che più mi disarma e leggo nei suoi occhi quanto sia onesto e tranquillo nel valutare il futuro di questo Brunello, a lui tanto caro, non dubitando che apparterrà solo a chi saprà mantenere fede alla strada maestra, tracciata dalla sua famiglia, che ha reso grande questo vino, e non a quelli, che, appartenendo alla genìa degli inventori della polvere da sparo, sono arrivati di recente a Montalcino, arrogandosi il compito d’insegnare a fare il vino, ma, in realtà, solo con la fretta di far soldi, depredando questo territorio della sua storia, che appartiene solo alla stessa Montalcino e al Sangiovese. La sua foga si ferma un attimo, come se volesse prendere aria e ricomporre il pensiero che, labile, ogni tanto lo abbandona. Ma è solo un attimo, sufficiente per riempirmi il cuore di un’immensa tenerezza, poi rimarca il tiro e la voce diventa ferma, sollevando un po’ il bastone, parlando di altri viticoltori montalcinesi, quelli che lui chiama i manipolatori della carta stampata, un’altra gènia, quasi più pericolosa della prima, capaci d’impadronirsi dello stato di grazia del Brunello, inficiando la sua tradizione, la cultura e la


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stessa umanità che è sempre appartenuta a questo territorio, manipolandola a proprio uso e consumo. Una babilonia - penso - che non ha attaccato comunque le convinzioni di Franco Biondi Santi, che si erge a custode del suo Brunello, bagnando le polveri di chi preferirebbe far esplodere, per interessi personali, questo terroir nella banalizzazione di un’omologazione globale che, ormai, contraddistingue tante altre aree vitivinicole. Si placa quel suo irruento dire e, con la sicurezza di chi sa di appartenere alla storia, si scrolla di dosso, come polvere, quei pensieri, sapendo d’essere “avveduto come sono i serpenti, ma libero e chiaro come una colomba”, innamorato di questo territorio come di sua moglie, con la quale ha festeggiato già 60 anni di matrimonio. Lo saluto, avendo la certezza che forse non troverò mai le parole giuste per raccontarlo, né saprò descrivere la sincera gratitudine che gli devo per avermi mostrato come si costruisce un mito.


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BIONDI SANTI TENUTA GREPPO BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG “ANNATA” Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti da vigneti di proprietà della Tenuta Greppo di Franco Biondi Santi, nel comune di Montalcino, da viti con un’età compresa tra i 10 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine eocenica, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 500 metri s.l.m., con un’esposizione a sud, est e sud-est, nord, nord-est. Uve impiegate: Sangiovese grosso (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Controspalliera a cordone speronato orizzontale Densità di impianto: 5.900 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda settimana di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte a mano e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vasche di cemento, si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 31°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati 2 rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in vasche di cemento, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in botti grandi di rovere di Slavonia da 15, 50 e 80 Hl in cui rimane per 36 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione e dopo 23 mesi di decantazione in vasche di cemento, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 70.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino con brillanti riflessi purpurei, il vino si offre al naso intenso e profondo, proponendo un bouquet ampio che spazia dalle note speziate di vaniglia e di sandalo ad un pot-pourri di fiori appassiti, da percezioni di corteccia di quercia ad altre di grande mineralità oltre che di pietra focaia e muschio. Uno spettro olfattivo che si conclude con sentori di frutti rossi del sottobosco e una vena di liquirizia. In bocca ha un’entratura austera, importante, con una fibra tannica vigorosa e ben presente, ma che si armonizza con la grande sapidità e l’acidità; molto lungo e persistente, con un ricordo di amarena e viola sul finale, è destinato ad una grande longevità. Prima annata: 1888 Le migliori annate: 1888, 1891, 1925, 1945, 1946, 1951, 1955, 1957, 1958, 1961, 1963, 1964, 1966, 1968, 1969, 1970, 1971, 1973, 1974, 1975, 1977, 1979, 1980, 1981, 1982, 1983, 1985, 1986, 1987, 1990, 1991, 1993, 1994, 1995, 1996, 1997, 1998, 2000, 2001, 2003, 2004

1947, 1967, 1978, 1988, 1999,

Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e gli 80 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Biondi Santi dal 1726, l’azienda agricola si estende su una superficie di 150 Ha, di cui 24 vitati, 30 occupati da oliveto e 40 da seminativi e bosco. Franco Biondi Santi è sia l’enologo che l’agronomo dell’azienda.


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Paola, Nicolò, Luca De Ferrari


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COSTANTE FEDELTÀ NELL’APPROCCIO AL TERRITORIO Siamo genovesi tipici, e come tutti i genovesi profondamente legati alle radici della famiglia.

Leggo questo ai primi righi di alcuni fogli che trovo nella cartella dei Marchesi De Ferrari Corradi, titolari dell’azienda Boscarelli, un’azienda di dieci ettari a Montepulciano che sto andando a visitare. Conosco diversi genovesi viticoltori in Toscana, fra i quali i signori Gambaro e Gaslini Alberti, solo per fare un paio di esempi, e ogni qualvolta ne incontro uno, mi interrogo sempre su quali siano le vere ragioni che spingono questa gente di mare a trasformarsi in vignaioli, ma, pur conoscendo in anticipo la loro risposta, insisto in quella domanda come se non avessi ben chiaro quanto sia grande il richiamo esercitato su ogni essere umano dalla terra, e, in particolare, da questa terra di Toscana che si mischia con le nuvole del cielo e lievita, diventando leggera, profumata e buona compagna della tavola e del buon vivere, di cui nessuna bocca, “unta d’olio e rinfrescata di vino”, osò mai parlar male. Terra opulenta, ricca di vigne, oliveti e campi di grano che usa, come vezzo, qualche volta, abbellire le sue colline con un diadema di cipressi. Terra colorata, variopinta, dalle cromìe che fecero scuola agli artisti rinascimentali, come quella rossa dei Poderi Boscarelli. Chissà - mi domando - se anche la famiglia De Ferrari si è innamorata di questo lembo di Toscana per gli stessi miei motivi? Non so, però, se si saranno appassionati anche all’arguzia e alla scanzonata irriverenza del dialetto toscano, arricchito di allusioni e sagaci doppi sensi, oltre a certe declinazioni in cui anche la bestemmia appare come uno slang popolare di cui già Dante si fece interprete nella Divina Commedia. Al mio arrivo trovo ad accogliermi la signora Paola e i suoi due figli, Nicolò e Luca. Come se mi avesse letto nel pensiero, Donna Paola inizia a descrivermi di come questa terra di Toscana sia stata, e sia tutt’oggi, il suo lavoro e quanto essa rappresenti l’emblema della sua stessa realizzazione di figlia, moglie e madre. Una costruzione personale, impervia, difficile, vissuta senza il sostegno né di suo padre Egidio, morto solo cinque anni dopo aver coronato il sogno di ritornare a Montepulciano - il suo paese natìo, dal quale se n’era partito giovanissimo per diventare uno dei più importanti broker di granaglie del porto di Genova - né di suo marito Ippolito che, per seguire la sua impresa di filati, dovette rimanere nel capoluogo ligure, né dei suoi figli, i quali, essendo troppo piccoli, andavano ancora a scuola. Mi racconta come abbia trovato il coraggio e la forza di andare avanti e affrontare quelle difficoltà iniziali, nel ricordo del padre e nella gioia che lo stesso le aveva manifestato quando, per ritornare in possesso di quelle radici, aveva comprato due case coloniche

abbandonate. Case prive di luce e acqua che avevano intorno un po’ di terra sulla quale, ancor prima di provvedere alla ristrutturazione degli immobili, aveva piantato una vigna, così da prodursi autonomamente il vino, anche se questo aveva significato interrompere quel piacevole rito familiare che lo vedeva, tutti gli anni, per Pasqua, andare dal contadino a comprare i vini che imbottigliava poi a Genova. Con il solo aiuto di un vecchio contadino, un certo Egisto Carletti, scoprì di avere una grande passione per questo lavoro di vignaiola; una passione forse iniziata già molti anni addietro, quando suo padre stappava quelle bottiglie di vino Nobile di Montepulciano del Fanetti e del Contucci, fornitori di casa De Ferrari, intorno alle quali intavolava disquisizioni sul gusto da loro emanato e su quel profumo di viola mammola che a lei piaceva tanto. Seguirono anni duri, ma entusiasmanti - affrontati con una cultura da vignaiola e non da imprenditrice - durante i quali incominciò a comprare le prime botti e a trasformare, piano piano, la cantina. Un lavoro silenzioso con rare partecipazioni a fiere o a manifestazioni enologiche; perciò non si immaginava certo che da lì a poco, nel 1969, il grande Luigi Veronelli avrebbe segnalato, in un articolo, i suoi vini, dopo averli degustati da Paracucchi, alla Locanda dell’Angelo di Ameglia. Fu un piacevolissimo evento, oltre ad un positivo preludio con il quale Paola riuscì a costruire un sempre più roseo futuro, cominciando a trovare un suo equilibrio aziendale e una propria identità produttiva, che si sarebbe concretizzata poi con l’ingresso dei figli nella conduzione della cantina, divenendo, di fatto, un banco di prova con cui riscoprire quanto fosse forte e profondo il loro legame familiare. Uniti, regolarono il loro impegno, scevro da speculazioni o da quello sfrenato desiderio di apparire che sembrava aver contagiato il mondo del vino, continuando, per anni, nella ferrea volontà di migliorare cosa avessero appena fatto, rivedendo di continuo il loro approccio a quel vitigno principe, quale è il Sangiovese, con il quale costruire vini diversi, unici, caratteriali e legati alla vera tradizione vitivinicola di questa terra di Toscana. La loro aristocratica semplicità mi stimola a raccontarne la costante fedeltà con la quale si sono approcciati a questo territorio, alle sue tradizioni e ai suoi nobili e rurali valori, esaltandoli e innamorandosi di quanto avevano trovato, constatando, ancora una volta, che chi, davvero, ha la bocca “unta d’olio e rinfrescata di vino”, non può che parlar bene di questa Toscana.


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... questa terra di Toscana che si mischia con le nuvole del profumata e buona compagna della tavola e del buon vivere...

cielo e lievita, diventando leggera,


BOSCARELLI

VINO NOBILE DI mONTEPULCIANO DOCG NOCIO DEI BOSCARELLI Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (Prugnolo gentile) provenienti dal Vigneto del Nocio - 3,2 Ha di proprietà dell’azienda - situato in località Cervognano, nel comune di Montepulciano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su un terreno calcareo di origine alluvionale, sabbioso con buona percentuale di limo e argilla, ad un’altitudine compresa tra i 290 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Sangiovese (Prugnolo gentile) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot Densità di impianto: dai 6.000 ai 7.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla quarta settimana di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti autoctoni, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in piccoli tini di rovere riempiti a non più di due terzi della loro capacità, si protrae per circa 8-10 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 31°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati brevi rimontaggi nella fase iniziale e soprattutto follature manuali. Il vino svolge la fermentazione malolattica in fusti da 5 e 10 Hl di rovere francese di Allier e di Slavonia (25% di primo passaggio, il resto di secondo e terzo) nei quali rimane 18-24 mesi; durante questo periodo si effettuano 2-3 travasi. Terminata la maturazione, e dopo una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 3-4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 8.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino con toni tendenti al granato, il vino si presenta all’esame olfattivo in maniera un po’ ermetica, ma, concedendogli il giusto tempo per esprimersi, si apre ad un bouquet molto complesso ed articolato che spazia dalle note fruttate di mirtilli e ribes a quelle floreali di viola e lavanda, ad altre speziate che ricordano la cannella, l’alloro, il ginepro e il tamarindo. Un profilo olfattivo in evoluzione, ma già molto armonico, che mette in evidenza anche accenni di tabacco dolce da pipa. In bocca ha una bella trama tannica e si dimostra in questa fase ancora più ricco e maturo. Di grande struttura, ricco di verve e intensità, pone in perfetto equilibrio la vena alcolica con la piacevolezza gustativa, risultando armonico, caldo, lungo e persistente e chiudendo con percezioni di piccoli frutti del sottobosco neri e una delicata spina minerale. Prima annata: 1991 Le migliori annate: 1991, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2005, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, caratterizzato da sempre dall’esistenza di un grosso albero di noci, raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà dei Marchesi De Ferrari Corradi dal 1960, l’azienda agricola si estende su una superficie di 18 Ha, di cui 14 vitati, 2 occupati da oliveto e 2 da seminativi e bosco. Nicolò De Ferrari si occupa della parte agronomica insieme a Meri Ferrara, Luca De Ferrari di quella enologica con la collaborazione di Maurizio Castelli.

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CANTINA VIGNAIOLI DEL

mORELLINO DI SCANSANO Santino Ceccarell, iBenedetto Grechi


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per quanto voglia sforzarmi Di essere neutrale e osservare le cose con professionale Distacco, sento qualcosa battere in me quanDo attraverso la mia terra.

Sono battiti soffici e delicati che scuotono il cuore e mi riportano alla mente personaggi legati a vicende lontane, vissute spesso in compagnia di amici, nelle piazze dei paesi, quando non era difficile trovare qualcuno con cui trascorrere piacevoli serate, condividendo i racconti e i piccoli fatti che scandiscono la vita di questa provincia, che spesso magari tarpa le ali ai sogni e ti riporta sempre e comunque alla terra, dalla quale, peraltro, non sono mai riuscito a distaccarmi. Sensazioni che scatenano in me la continua dialettica di un confronto fra il passato e il presente di questa Maremma, che sembra immutabile e, dovunque vada, mi porto dentro. Sono le stesse percezioni che mi accompagnano mentre percorro la strada che da Grosseto mi conduce a Scansano, dove ho appuntamento con Benedetto Grechi, il Presidente della Cantina Vignaioli del Morellino di Scansano, e Santino Ceccarelli, l’infaticabile direttore della stessa, entrambi maremmani e figli di questo territorio. Da molti anni seguo il loro impegno, proiettato allo sviluppo della cantina in cui operano, ripromettendomi di inserire, alla prima occasione, il loro saper fare in un mio progetto editoriale, non tanto per l’indiscussa e genuina qualità dei vini che producono, ma proprio per il loro impegno profuso negli ultimi vent’anni nella promozione del territorio del Morellino di Scansano, riuscendo a ritagliarsi un ruolo non secondario di veri trascinatori del movimento vitivinicolo provinciale. Sono soddisfatto di questa mia scelta con la quale cercherò di gratificarli e, pensando all’incontro, mi inoltro nelle curve che mi portano al paese di Scansano. Molte cose sono cambiate da quando, neo patentato, salivo quassù. Quei trenta chilometri e poco meno che lo separano da Grosseto, un tempo avevano il sapore di un vero e proprio viaggio e rammento come il paesaggio, lungo la strada, fosse costellato da greggi, campi di grano e oliveti e, qua e là, da qualche vigneto; un paesaggio molto diverso da quello attuale, nel quale, ovunque, si incontrano filari di viti. Ricordo che venivo a Scansano perché, ogni tanto, si ballava nel vecchio teatro del paese; quelle serate spesso iniziavano e finivano con un bicchiere di vino in mano, condiviso con qualche vecchio del paese che non faceva niente per nascondere le radici di quella maremmanità che - allora - era ancora intatta e in essa si percepiva l’autentico sapore rurale che contraddistingueva i gesti e le pa-

role. Nessuno supponeva, nemmeno lontanamente, che, in poco tempo, tutto ciò sarebbe svanito e che il territorio e l’economia dello stesso si sarebbero radicalmente trasformati a causa di quel gran cavallo di razza che è il Morellino, vino la cui grandezza in quel periodo dormiva nelle piccole cantine possedute da quasi tutte le famiglie del paese. La situazione doveva essere più o meno questa anche quando, nel 1985, Benedetto Grechi assunse la presidenza della cantina sociale, la cui situazione economica - mi racconta - negli anni si era appesantita per via di alcune gestioni poco oculate che avevano provocato perdite per oltre 500 milioni delle vecchie lire. Egli si trovò così costretto ad operare un profondo cambiamento tecnico e culturale all’interno dell’azienda che avvenne in vari step, partendo proprio dall’obbligare le aziende agricole che costituivano la base sociale a conferire alla cantina tutte le uve prodotte, evitando così la vinificazione delle migliori per proprio conto o la vendita a terzi. Una decisione che, in breve tempo, portò importanti risultati, modificando la conduzione strategica dell’azienda anche negli anni a venire; vi fu una drastica diminuzione della base sociale che passò da 286 a 152 conferitori - un miglioramento della qualità delle uve conferite - con conseguente innalzamento di quella dei vini prodotti - costruendo, di fatto, una maggiore fidelizzazione verso l’azienda da parte dei soci che incominciarono, nel tempo, a sentirla sempre più loro. Seguì anche una radicale trasformazione interna che interessò il personale della cantina, l’amministrazione e tutte quelle figure professionali che interagivano direttamente con gli obiettivi che il Grechi si era prefissato di raggiungere in pochi anni. Una rivoluzione che lo ha condotto a trasformare il capannone dove operavano un tempo in una efficiente cantina, dotata delle più moderne attrezzature di vinificazione e imbottigliamento, nella quale si producono adesso 1.800.000 bottiglie che danno origine ad un fatturato superiore agli 8 milioni di euro. Per arrivare a simili risultati sono state applicate regole ferree che disciplinano, con precisi controlli sulla tracciabilità, ogni momento della filiera produttiva. Una rigidità che, nel tempo, ha consentito di garantire reddito alle singole aziende componenti la base sociale della cantina, permettendo loro di continuare ad investire sul territorio, a tutto vantaggio del mantenimento della tipicità. Una serie di azioni impegna-


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tive che hanno portato al grande risultato di costruire un equilibrio interno alla cooperativa e di consolidare l’immagine dei vini prodotti sul mercato nazionale: tutto ciò ha convinto molti viticoltori della zona ad avanzare richiesta d’ingresso nella struttura sociale della cantina, ma, fino adesso, ha limitato lo sviluppo del marchio aziendale sui mercati internazionali. Li ascolto, mentre mi raccontano la loro storia, e penso che questo territorio - forse - non sarebbe ciò che è senza la lucida lungimiranza, l’accorta gestione commerciale e la costante presenza di Benedetto e Santino e se l’immagine del Morellino e dello stesso paese di Scansano è diffusa e nota si deve indubbiamente al concreto lavoro di questi due uomini, uniti e coordinati tra loro: due amici che condividono la passione per la cantina e per questa terra che dovrebbe riconoscere loro il merito - come ho fatto io - di considerarli maremmani DOC al cento per cento.

...rammento come il paesaggio, lungo la strada, fosse costellato da greggi, campi di grano e oliveti e, qua e là, da qualche

vigneto


CANTINA VIGNAIOLI DEL MORELLINO DI SCANSANO

MORELLINO DI SCANSANO DOCG SICOMORO Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione della selezione delle uve Sangiovese provenienti dai migliori vigneti dei soci che conferiscono la loro produzione alla cooperativa e che sono posti nel comune di Scansano. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni di origine argillosa calcarea, ad un’altitudine compresa tra i 60 e i 90 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese (clone Morellino) 100% Sistema di allevamento: Spalliera a cordone speronato Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 7 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 32°C; contemporaneamente, si procede alla macerazione durante la quale vengono praticate frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in vasche di acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere francese di primo passaggio in cui rimane per 15 mesi; durante questo periodo si effettuano 3 travasi. Terminata la maturazione e dopo 2-3 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 13.500 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino profondo, quasi impenetrabile, con un’unghia leggermente granata, il vino propone al naso un ampio ed intenso spettro olfattivo con note di frutti rossi e neri maturi, tra cui mirtilli, more e prugne che gradualmente si aprono a sentori di erbe officinali (mentuccia, timo, salvia, alloro) e percezioni di tabacco da pipa, pepe bianco e cioccolato bianco. Passando all’esame gustativo, denotiamo una bocca tonda, calda, aromatica, ricca ed equilibrata, sorretta da una fibra tannica ben strutturata e potente, oltre che da bella sapidità e discreta acidità; lungo e persistente, chiude con delicate nuances balsamiche. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dall’albero di Giuda, raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e gli 8 anni. L’azienda: La Cantina Cooperativa Vignaioli del Morellino di Scansano, fondata nel 1972, è operativa dal 1977 e in essa conferiscono le uve di 152 soci che operano sul territorio di Scansano, distribuiti su un’area complessiva di poco meno di 400 ettari. La Cantina imbottiglia oltre il 20% della totalità del Morellino prodotto nel territorio definito dal Disciplinare di Produzione della DOCG Morellino di Scansano. Il presidente è Benedetto Grechi, il direttore Santino Ceccarelli. La Cantina si avvale della collaborazione dell’agronomo Alessandro Fiorini, dell’enologo Paolo Caciorgna e del cantiniere Massimo Moscatelli.

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CASANOVA DI NERI

Giacomo Neri


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L’AMORE E IL RISPETTO VERSO LA TERRA Sono un contadino fortunato. Per capirlo mi basta uscire di casa e guardarmi intorno, lasciandomi coccolare da questo paesaggio oppure camminando fra i filari delle mie vigne, in mezzo alle quali ritrovo la mia serenità interiore, domandandomi, spesso, cosa abbia fatto di così straordinario per meritarmi tutto questo. Una domanda alla quale non trovo una risposta precisa, in grado di giustificare questo stato d’animo, poiché la cosa più straordinaria che possa aver fatto nella mia vita è stata quella di lavorare e, cocciutamente, continuare a fare il vignaiolo nel modo in cui mi ha insegnato mio padre, cercando, in tutti questi anni, di produrre il miglior vino possibile con ciò che avevo a disposizione. Perciò sono sicuro che, se ho ottenuto delle soddisfazioni, un minimo di notorietà e qualche successo, non è certamente merito mio, ma del vino prodotto dalle viti poste su questo territorio con il quale mi relaziono. Un rapporto iniziato nel 1971, quando, appena fanciullo, seguivo mio padre Giovanni, trasferitosi da Montevarchi qui a Montalcino dove aveva acquistato una vasta tenuta. Egli mi insegnava non solo quale fosse il rispetto meritato dalla terra, ma anche i lavori che essa avrebbe richiesto, per poter poi ricevere, dalla stessa, un’analoga ricompensa, ma solo attraverso impegno quotidiano e dedizione completa. Un’esperienza didattica che mi ha temprato il carattere e ha stimolato la passione di allevare le vigne, poste in cinque diverse zone del territorio, alcune delle quali collocate in mezzo alla macchia mediterranea, altre fra i castagni, rendendomi consapevole di quanto esse siano le attrici principali delle mie soddisfazioni. In tutto questo tempo non ho fatto altro che assecondarle, cosciente di come la più piccola, scrupolosa e meticolosa attenzione riposta su ogni singola vite, foglia o frutto, incida sul lavoro finale e sul futuro dell’azienda. Un lavoro svolto senza sentire la fatica con cui riesco a porre in equilibrio l’antico mestiere del vignaiolo con i moderni meccanismi di business management che occorre oggi conoscere per promuovere, rafforzare e vendere il proprio brand e i propri vini. Un artificio difficile e sempre più complesso, che spesso conduce molti produttori a sottovalutare gli aspetti ancestrali della viticoltura per concentrarsi, invece, su quelli puramente economici, perdendo di vista non solo la tradizione agricola e il valore in essa

contenuto, ma il contesto stesso del territorio in cui operano, il quale già racchiude in sé requisiti storici, paesaggistici e ampelografici sufficienti a promuoverlo, se giustamente valorizzati. Nel caso di Montalcino, se si venisse a creare una coscienza solidale e strategica nei confronti di quest’area vitivinicola, essa sarebbe in grado di trainare non solo il Brunello, inteso come marchio collettivo, ma anche il valore intrinseco del lavoro di ciascuno dei 250 produttori presenti; una sfida decisiva con la quale, credo, si giocherà il futuro di questo territorio. Se forse ho un merito è stato quello di aiutare la fortuna a trovarmi, con la mia naturale propensione ad ascoltare e a leggere, cercando sempre di formarmi ed informarmi sull’evoluzione del mondo del vino, imparando da tutti quelli che potevano insegnarmi qualcosa, siano stati essi il grande enologo, l’anziano viticoltore o mio padre, persona lungimirante e carismatica, capace di infondermi le sicurezze materiali e morali per creare Casanova di Neri, trasmettendomi la passione, l’amore e il rispetto verso la terra, sentimento ancora oggi vivo nel mio lavoro che cerco di trasferire ai miei tre figli, il più grande dei quali studia Agraria. Un sentiero tracciato, seguendo il quale potranno anche loro constatare quanto sia meraviglioso fare il più bel mestiere del mondo e quanto possa ripagare il contatto con la natura, non dimenticando mai l’umiltà di riconoscere il reale valore di fare vino, il cui scopo principale è regalare momenti di piacere e convivialità alle persone. Un concetto fatto mio già all’inizio degli anni ’90, prendendo coscienza delle potenzialità della materia prima che avevo fra le mani, la quale dava origine a vini straordinari, coniugando ad essi i 200 anni di storia vitivinicola di questo territorio e la ruralità da essa scaturita, riuscendo a valorizzare ciò che stavo facendo, arrivando ad emozionare chiunque aprisse una bottiglia dei miei vini e guidandolo così verso un viaggio sensoriale capace di trasmettere ciò che racchiudo nella bottiglia.


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... domandandomi, spesso, cosa abbia fatto di cosĂŹ straordinario per meritarmi tutto questo...


CASANOVA DI NERI

BRUNELLO DI mONTALCINO DOCG CERRETALTO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese grosso provenienti dal vigneto Cerretalto, di proprietà dell’azienda, situato nella località omonima, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 22 e i 58 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni che hanno avuto origine da una frattura tettonica, ricchi di ferro, sedimenti vulcanici e roccia, ad un’altitudine compresa tra i 270 e i 310 metri s.l.m., con esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Sangiovese grosso 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 4.000 ai 6.600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti autoctoni, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tank di acciaio troncoconici aperti, si protrae per circa 12 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 12 giorni, durante i quali vengono effettuate frequenti follature giornaliere. Dopo la svinatura, il vino è posto in tonneaux di rovere da 600 lt, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 27 mesi. Terminata la maturazione e dopo 1 mese di decantazione in botti da 72 Hl, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 30 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino con brillanti riflessi granati, il vino si presenta al naso profondo, intenso e complesso fino a divenire più che intrigante, in un bouquet ampio, con percezioni olfattive che toccano, inizialmente, note balsamiche, di marasca sotto spirito e speziate di macchia mediterranea, ginepro e alloro, per proseguire con profumi di stecca di cannella, mandorla e bacca di vaniglia e integrarsi poi con accenni di pepe nero e tabacco da pipa. In bocca è avvolgente, sensuale, con una fibra tannica evoluta in modo armonioso. Di grande equilibrio, riesce a legare le note olfattive con quelle gustative chiudendo lungo e persistente con un finale che riporta alla mente nuances di amarena e cioccolato. Prima annata: 1986 Le migliori annate: 1986, 1988, 1990, 1993, 1995, 1997, 1999, 2000, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 40 anni. L’azienda: Di proprietà di Giacomo Neri dal 1991, l’azienda agricola si estende su una superficie di 400 Ha, di cui 55 vitati, 12 occupati da oliveto e il resto dedicati a seminativi e bosco. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Giacomo Neri.

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Il vino, come ultimo atto, deve essere bevuto per dare emozioni e il massimo piacere


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CASTELL’IN

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Coralìa Pignatelli della Leonessa


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IL DESIDERIO DI RICERCARE LA FORMA PERFETTA IN OGNI COSA Scrivere di Coralìa Ghertsos Pignatelli della Leonessa non è semplice, intraprendente com’è nel creare il suo vino con una passione che la sospinge e non le dà tregua, anche quando disinvolta e giovanile scende dal trattore manovrato fino a pochi secondi prima.

Ho ancora impresso quel suo batter di suole con il quale intendeva scrollarsi la terra dalle scarpe, mentre osservavo il suo puntiglioso fare da vignaiolo consumato. Com’è garbata questa nobildonna greca, la cui esistenza contadina, vissuta nel territorio di Castelnuovo Berardenga, nel pieno del Chianti Classico, ha plasmato con arte la sua vita, racchiudendo nel suo divenire l’esperienza della terra, il sogno romantico e il suo spirito indomito. Così, per quanto l’inchiostro non attardi a prestarmi suggerimenti, ad un tratto, un’immagine improvvisa raggiunge il mio fantasticare, disegnando nella mia mente una kylix attica del V secolo, posta al centro di un tavolo intorno al quale Donna Coralìa conversa con suo marito Riccardo Pignatelli. Una visione che si configura come un affresco e mi spinge a ricercare quale sia il significato di quell’immagine; mentre mi arrovello, ecco mi sembra di udire la sua voce recitare alcuni versi di un sonetto di Ugo Foscolo (…Zacinto mia, che te specchi nell’onde del greco mar, da cui vergine nacque Venere, e fea quell’isole feconde col suo primo sorriso, onde non tacque...). Così mi accorgo che la mano disegna il foglio con le mie parole cercando di descrivere quando ella mi raccontava della sua Toscana, di quando in quella sua terrazza, affacciata verso Siena, sfarfallavano le lucciole che spiovevano in cerchi e d’improvviso scomparivano e di quanto fossero luminose le stelle in Chianti quando luccicavano dentro l’olimpico cielo, mentre nella campagna buia poche luci, in fondo all’orizzonte, sembravano puntellare alcuni sentieri, sospese nell’aria come pescherecci che amoreggiano con il mare. Percepii in quelle sue parole un velo di tristezza per ciò che era e non è più, per l’immagine di quella terra di Toscana di cui si era innamorata e che non aveva saputo continuare la sua rinascimentale costruzione, abbandonando la retta via tracciata dalla tradizione di quei vecchi contadini che sapevano aggiungere con armonia e criterio ogni particolare a questo paesaggio. “È un’Arcadia perduta” - mi confessò mostrandomi la fotografia di Castell’in Villa con una visione di Siena in lontananza posta fra due cipressi dell’azienda. Concordai con lei che questa è ormai una terra improvvisamente invecchiata e, pur cercando di abbellirsi con mille e sfavillanti luci che illuminano ogni dove, ha perso quel fascino signorile di una volta. Rifletto ancora oggi sul suo pensiero con il quale classifica gli abitanti di que-

sta provincia senese in chi ama e in chi non ama la terra, i quali, secondo il suo giudizio, si dividono poi in chi è fuori o dentro le mura di Siena. Dai suoi racconti vengo a sapere che, una volta, chi viveva questa campagna condivideva con lei i frutti della terra, mentre il tempo stesso era scandito dal ritmo delle stagioni, si rispettava l’ambiente e ogni momento era buono per far festa. Anch’io mi accorgo che non c’è più voglia di far festa e quel mondo agricolo è scomparso: gli stessi viticoltori o i proprietari terrieri vivono in città, lontano dai luoghi in cui operano, imitando l’impiegato, il manager, senza però capire che, così facendo, hanno perduto le proprie radici e dimenticato i luoghi della propria infanzia. Ecco che allora il mio pensiero vola a quale sarà la fine dei loro figli nati in queste moderne città e vissuti solo a contatto con il cemento. Come potranno comprendere il valore della terra o la bellezza di una vigna o quella di un animale da cortile, di un cavallo o di un agnellino? Mentre sono immerso in questi pensieri, un silenzio mi tocca il cuore e smetto di scrivere, poi ripenso a Donna Coralìa e alla sua meravigliosa Villa, dove è stata rapita, come in una favola, dal suo principe con il quale ha deciso di vivere il resto della sua vita, su questa collina lontana dalla sua Atene e da Napoli, la città natale del marito. Quando nel 1985 rimase sola in questo luogo che era stato la culla del suo amore, non si perse d’animo e continuando ad essere innamorata della vita non smise di creare vini belli, unici e irripetibili. Le sollecitazioni degli amici e l’incontro casuale con Giacomo Tachis la spinsero ad imbottigliare quel poco vino che produceva al tempo, dal momento che conferiva la maggior parte della produzione alla cantina cooperativa del Chianti Geografico la quale - rammenta - le pagava le uve una miseria. Erano i tempi in cui lei non sapeva quale fosse il vino che avrebbe dovuto produrre: di certo sapeva, però, quale era il vino che non voleva produrre. Da quel momento iniziò un cammino operoso, minuzioso, mirato a costruire l’arte di fare il vino, dialogare con la natura e modellare il paesaggio. Sono questi i fattori del successo di quest’azienda e di questa donna che si riconosce greca, toscana e cittadina del mondo. Ripenso spesso a Donna Coralìa e al suo desiderio di ricercare la forma perfetta in ogni cosa, accorgendomi oggi d’aver incontrato chi è ormai in armonia con la sua mente sconfinata.


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un cammino operoso, minuzioso, mirato a costruire l’arte di fare il vino,

dialogare con la natura e modellare il paesaggio


CASTEL’IN VILLA

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Castell’in Villa, nel comune di Castelnuovo Berarardenga, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 37 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di medio impasto ricchi di scheletro, con prevalenza di argille di origine calcareo-marnosa provenienti dalla disgregazione di Alberese e Galestro, ad un’altitudine di circa 390 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e doppio Guyot Densità di impianto: 3.000-5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, rigorosamente manuale, che avviene di solito a partire dalla quarta settimana di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase avviene in tini di acciaio inox ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C per circa 10-12 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la fermentazione malolattica il vino matura in grandi botti di rovere da 53-79 Hl, in cui rimane per circa 36 mesi. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 14.600 bottiglie circa Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino dai brillanti riflessi granati, al naso il vino offre un complesso bouquet di profumi che vanno dalle note floreali di viola mammola a quelle di macchia mediterranea, dalle percezioni speziate di semi di senape e finocchietto selvatico a quelle minerali e di grafite. In bocca risulta caldo, sapido e conferma la complessità e l’eleganza delle “riserve” che caratterizzano l’azienda, con tannini ben equilibrati, netti, decisi ed evidenti che conferiscono grande personalità, eleganza e lunghezza al vino. Prima annata: 1971 Le migliori annate: 1971, 1975, 1977, 1983, 1985, 1995, 2000, 2001, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia, ha un significativo potenziale evolutivo e una longevità certa di 38 anni, come dimostra la prima bottiglia commercializzata dall’azienda. L’azienda: Di proprietà della Principessa Coralìa Ghertsos Pignatelli della Leonessa dal 1968, l’azienda agricola si estende su una superficie di 298 Ha, di cui 54 vitati, 32 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Oltre a svolgere in prima persona le attività in campagna, la Principessa Coralìa si avvale della collaborazione dell’enologo Federico Staderini.

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CASTELLO

DI AmA

Lorenza Sebasti Pallanti , Marco Pallanti


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UN LUOGO EMOTIVO ED EMOZIONALE Il rione di Sanfrediano è “di là d’Arno”, è quel grosso mucchio di case tra la riva sinistra del fiume, la Chiesa del Carmine e le pendici di Bellosguardo; dall’alto, simili a contrafforti, lo circondano Palazzo Pitti e i bastioni medicei; l’Arno vi scorre nel suo letto più disteso, vi trova la curva dolce, ampia e meravigliosa che lambisce le Cascine. Quanto v’è di perfetto, in una civiltà diventata essa stessa natura, l’immobilità terribile e affascinante del sorriso di Dio, avvolge Sanfrediano, e lo esalta. Vasco Pratolini, Le ragazze di San Frediano

Firenze è stata il mio primo terroir d’elezione, quello che ha fatto sì che, oggi, sia quel che sono. È camminando in quelle strade, fra quegli umori e crescendo nell’umanità varia e pittoresca di San Frediano, dove sono nato, che mi sono costruito, acquisendo una schietta e autentica cultura popolare ricca di un dialetto un po’ insolente e scanzonato in cui le terzine della Divina Commedia si mischiano alla prosa del Pratolini e al vocìo dei trippai, degli artigiani e alle urla, rudi e maschie, dei calcianti in Piazza Santa Croce. Calcare quelle pietre su cui hanno passeggiato Dante, Leonardo o Michelangelo e assaporare l’humus narrato nelle prose o nei versi dei poeti, ha contribuito a edificare il mio senso d’appartenenza a quella storia che sentivo scorrermi dentro e con la quale ho trovato la forza e i convincimenti per realizzarmi e avvicinarmi al “bello”, ricercato, più tardi, nel vino e nell’arte con la quale ho arricchito il mio spirito e la mia vita di vigneron nel Chianti Classico. Quanti ricordi in questa città, dove ho frequentato l’Istituto Tecnico Agrario e la facoltà di Agraria, laureandomi nel 1979. Così intrisa di cultura da travalicare l’Arno e, come una piena, bagnare, con le sue acque benefiche, tutta la campagna circostante, creando con la stessa un filo diretto tanto forte da insegnare, al più umile contadino, l’arte di modellare il territorio come oggi ci appare. Tutta quella bellezza intorno a me stimolava il desiderio di riuscire un giorno a incidere, anche con un microscopico segno, il mio personale passaggio in questa vita, al pari di chi era ricordato per aver costruito un palazzo o progettato una piazza della mia città. Debolezze umane, mi ripetevo, quando quei pensieri venivano a galla, scacciandoli o riponendoli in un angolo della mente, poiché non era giunto il tempo di pensare a quelle cose, ma di costruire la mia vita. Fu nel 1982 che incominciai a muovere i primi passi nel mondo vitivinicolo entrando al Castello di Ama, piccolo e antico borgo nel cuore del Chianti Classico, che ha rappresentato per me l’essenza e il significato più intrinseco della parola vino, aprendomi ad un’esperienza unica contrassegnata dalla fortuna di poterla condividere con mia moglie, Lorenza Sebasti, con la quale mi completo: insieme siamo riusciti a dare corpo e carattere a questa azienda. Un’esperienza meravigliosa che ha attraversato questi ultimi venticinque anni, durante i quali ho rivisto e cesellato le mie idee, certe volte addolcendo o indurendo la mia intransigenza e il fiero carattere, scoprendo poi, con il tempo, quanto fosse più proficuo e armonioso accostarsi a questa terra accondiscendendo ai suoi bisogni e rifiutando l’innovazione e il cambiamento fini a se stessi. Consapevole di dove mi trovassi e di quanto la storia, la cultura e l’arte del saper fare avessero contribuito a costruire il territorio circostante, ho cercato di regolare il mio agire eliminando via via ogni velleità creativa che non fosse un fertile ed espressivo contributo all’accrescimento di quella tradizione vitivinicola che

qui avevo trovato. Fu per questo, forse, che non mi sfiorò nemmeno per un attimo l’idea di dovermi conformare ai diktat del mercato; anzi, consapevole delle grandi potenzialità di quest’area e dopo anni di duro lavoro di ricerca e sperimentazione, finalizzato alla zonizzazione dei terreni, lasciai che a parlare fossero solo le mie vigne e quelle uve che mi limitavo, con modestia, a vinificare. Ama è così divenuto il secondo terroir della mia vita, l’altro luogo dell’anima che, in comune con il primo, possiede lo spirito rinascimentale che pone al suo centro l’uomo con la sua storia, la sue passioni, la sua morale e il suo intrinseco desiderio di misurarsi, elementi che nessun disciplinare di produzione, nessuna strategia di marketing e nessun enologo possono emulare. Un luogo emotivo ed emozionale dove l’estetica si coniuga all’etica, il sacro al profano, l’equilibrio all’armonia, realizzando una fertile alchimia, laica e insieme spirituale. Come gli uomini del Rinascimento fiorentino costruirono e abbellirono il loro spazio, per goderlo e tramandare ai posteri l’idea civile di quella loro urbanitas, così anch’io provo ad arricchire questo mio contenitore agreste con l’unicità dei vini prodotti e con le opere artistiche di Michelangelo Pistoletto, Daniel Buren, Giulio Paolini, Kendell Geers, Anish Kapoor, Chen Zhen, Marcella Vanzo, Carlos Garaicoa, Nedko Solakov, Cristina Iglesias, Giovanni Ozzola, Louise Bourgeois ed altri ancora che verranno. Maestri che, dal 2000 ad oggi, hanno messo in comunione con Ama la loro visione degli spazi, coniugandosi con quel gesto artistico che ha compiuto la natura prima di loro, regalando a questo luogo quel messaggio d’immortalità da me ricercato che è capace di arrivare tanto più lontano quanto più è radicato nel contemporaneo. È il presente, con il suo particolare esprit, che si sovrappone e si miscela a questo posto antico, colmandolo di suggestioni inedite, illuminazioni improvvise, rivelazioni che arrivano fino alla porta della cantina, facendo del ristretto spazio di un bicchiere un immenso mare. Queste terre, le vigne, il borgo, la cantina e le opere d’arte sono solo la corona perfetta di questo Re Chianti, simbolo sovrano dell’idea, del progetto e del sogno che qui sto realizzando. È con questo spirito, ampio e rispettoso che svolgo il mio ruolo di Presidente del Consorzio del Chianti Classico, cercando di dare sempre più un valore relazionale alla bellezza e all’antica storia di questo territorio, affinché riacquisti il ruolo che gli compete. Non so se basterà lucidare lo specchio e guardarci dentro per riconoscere quale sia la sua vera immagine, offuscata in questi anni da investimenti sbagliati e filosofie produttive errate, come non so quanto sia ripagante lo sforzo che insieme a molti altri produttori chiantigiani stiamo effettuando, da anni, nel miglioramento di ogni singolo elemento che compone la nostra filiera produttiva: so solo che il meglio ha ancora da venire per questo Chianti, il cui futuro, sono certo, sarà migliore di ciò che è stato.


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CASTELLO DI AMA

CHIANTI CLASSICO DOCG CASTELLO DI AmA Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese, Merlot, Canaiolo, Pinot nero, Cabernet Franc e Malvasia nera provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, posti in località Ama, nel comune di Gaiole in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni argilloso-calcarei molto ricchi di scheletro, ad un’altitudine compresa tra i 390 e 530 metri s.l.m., con un’esposizione a sud/ sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 80%, Merlot 9%, Canaiolo 5%, Pinot nero, Cabernet Franc e Malvasia nera 6% Sistema di allevamento: Spalliera verticale e Lira aperta con taglio a Guyot Densità di impianto: 3.000-5.300 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima metà di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, con lieviti autoctoni è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 4 giorni (durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi e solo occasionalmente délestages) ad una temperatura compresa tra i 30 e i 33°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 25 giorni. Dopo la svinatura, il vino svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere francese da 225 lt (il 20% nuove ed il resto usate da 1 a 3 anni) in cui rimane per 12 mesi; durante questo periodo si effettuano 2 travasi. Terminata la maturazione e dopo 3 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 160.000 bottiglie circa Note organolettiche: Colore rubino dai riflessi granati; al naso il vino offre profumi di frutti di bosco e semi di melograno, alloro e muschio, percezioni di sottobosco e spezie dolci che nel corso dell’invecchiamento si aprono a note di nocciola, mandorla, fiori appassiti e anche a nuances iodate, di tabacco, eucalipto e mentuccia. In bocca risulta caldo, sapido, equilibrato, elegante, con una vena fruttata che ricorda le percezioni olfattive e una buona acidità che sorregge la degustazione rendendola lunga e persistente. Prima annata: 1982 Le migliori annate: 1997, 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Carini, Sebasti, Tradico dal 1976, l’azienda agricola si estende su una superficie di 250 Ha, di cui 90 vitati, 40 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Marco Pallanti ha la gestione tecnica ed enologica dell’azienda.

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CASTELLO DI

BOLGHERI

Franca Spalletti Trivelli, Clemente Zileri Dal Verme


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LUOGHI RICCHI DI ENERGIA Poscia che fummo al quarto dì venuti Gaddo mi si gettò disteso a’ piedi, e disse: “Padre mio, ché non m’aiuti?”. Quivi morì; e come tu mi vedi, vid’io cascar li tre ad uno ad uno tra il quinto dì e ‘l sesto; ond’io mi diedi, già cieco, a brancolar sovra ciascuno, e due dì li chiamai, poi che fur morti Poscia, più che il dolor, poté il digiuno. (Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, Canto XXXIII, 67-75) Ho avuto la netta sensazione, entrando a Bolgheri, di oltrepassare la soglia che divide il presente dalla storia e tuffarmi in un passato remoto di cui conosco appena i confini. Ogni volta rimango affascinato da questi piccoli angoli d’Italia che rappresentano perfettamente l’essenza del tempo che vi è trascorso. Sono piccole perle giunte fino a noi grazie alla cocciutaggine e all’illuminata coscienza di chi ha saputo proteggere le loro sfumature architettoniche, tipiche del territorio al quale appartengono. Sono luoghi ricchi di energia e di un magnetismo sottile, percepibile ovunque: nelle mura, lungo le piccole strade - silenziosamente deserte non solo a notte fonda - o nei portoni che si aprono su ambienti interni, dove si sono consumate le vite di contadini e di conti; elementi che, solo all’apparenza, sembrano immutabili, mentre invece, avendo attraversato il tempo come osservatori attenti e silenziosi delle virtù e dei difetti degli uomini che lì hanno vissuto, si sono caricati di una vitalità propria, attraverso la quale sanno raccontare, agli attenti uditori, storie uniche e meravigliose. È forse per questo che stamani rimango attonito ad osservare la folla che riempie il piccolo borgo, venuto alla ribalta non tanto per la sua grande storia, ma per il vino che qui si produce. Sebbene non ritenga che il tempo passato sia migliore di quello presente, desidererei, per un attimo, tornare a quella Bolgheri rurale e silenziosa di una cinquantina di anni fa, quando le strade erano bianche, non arrivavano tutti questi turisti e si udivano le voci di chi lavorava nelle due grandi aziende, comprendenti la totalità dei terreni che, dalle colline, per chilometri, scendevano fino al mare: una appartenente a Ugolino Della Gherardesca - omonimo del famoso Conte Ugolino di dantesca memoria - e l’altra a

suo fratello Giuseppe. Chiudo gli occhi e penso alle strade del paese, nelle quali, oltre al quotidiano rumore delle botteghe dove si adoperavano gli artigiani dediti a mantenere integri gli strumenti per lavorare la terra, immagino di sentire ancora il vocìo dei cacciatori - i cinghialai - i quali, riuniti a capannello nella piazzetta del borgo al termine della giornata di caccia, sono desiderosi di dividersi i capi abbattuti e di continuare l’eccitazione e il fervore che aveva accompagnato tutta la “braccata”, con i suoi lenti appostamenti, l’inizio della “seguìta”, l’abbattimento degli animali o gli sfottò riservati a chi li aveva “padellati”. Un rituale che ha sempre avuto un grande significato sociale in questa Maremma antica. Me li immagino separarsi dopo quelle lunghe chiacchierate, dandosi appuntamento alla prossima cacciata, e salutandosi, avviarsi lungo il viale di cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar, lasciando dietro le nuvole di polvere sollevate delle canizze. Sono queste le sensazioni che mi accompagnano quando entro nelle cantine del castello di Bolgheri, oggi di proprietà di Donna Franca Spalletti Trivelli, erede per via femminile, del Conte Ugolino della Gherardesca. Ella, assieme al marito Clemente Zileri Dal Verme, ha saputo far rinascere l’antica tradizione enologica della famiglia che sin dal 1200 affonda le radici in questo territorio. Racconto a loro questi miei pensieri e nel parlare appare evidente l’amore di tutta la famiglia per queste terre e per questa magnifica azienda. Anche i figli, in particolar modo Federico, anch’egli come il padre laureato in Scienze Agrarie ed enologo, hanno partecipato e partecipano alla crescita e alla gestione aziendale. A partire dall 1997 sono stati impiantati 50 ettari di vigneto, ristrutturando successivamente le antiche


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cantine risalenti al 1796. Li osservo mentre mi parlano accoratamente di ciò che era ed è oggi questo territorio, accorgendomi che anch’essi appartengono a quella nutrita schiera di “storie private” caratterizzanti quest’Italia del vino che vado raccontando, scoprendo così che Bolgheri e l’ambiente circostante sono parte integrante del loro essere e rappresentano l’indiscutibile traino che li ha condotti a salvaguardare e a tramandare il senso della storia, consolidatasi nelle 30 generazioni che li hanno preceduti.

...nel parlare appare evidente l’amore di tutta la famiglia per queste terre e per questa magnifica azienda...


CASTELLO DI BOLGHERI

BOLGHERI ROSSO DOC SUPERIORE Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot provenienti dai vigneti Aiuccia, Cipressi e Podere Ugo, di proprietà dell’azienda, situati in località Bolgheri, nel comune di Castagneto Carducci, le cui viti hanno un’età compresa tra i 9 e i 12 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni prevalentemente calcarei, franco-argillosi, sabbiosi, ricchi di scheletro, ad un’altitudine compresa tra i 60 e i 90 metri s.l.m., con un’esposizione a ovest / sud-ovest. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 60%, Cabernet Franc 20%, Merlot 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito nei primi 15 giorni di settembre per il Merlot, nella seconda metà di settembre per il Cabernet Franc e nei primi 15 giorni di ottobre per il Cabernet Sauvignon, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte; 2/3 vengono inoculate con lieviti selezionati, 1/3 con lieviti spontanei e sono avviate alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 12-14 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 33°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che si svolge, a seconda dell’annata, per altri 14 giorni, durante i quali vengono effettuati rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese (nuove per un 25-30%), in cui rimane per 16-18 mesi; durante questo periodo si effettuano 3 travasi. Terminata la maturazione e dopo 3 mesi di decantazione in contenitori in cemento, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 28.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino compatto, il vino offre all’esame olfattivo profumi di confettura di prugna, ciliegia nera, rabarbaro e tostatura di caffè a cui si aggiungono altre sensazioni speziate di china, rosa canina appassita, macchia mediterranea e cacao amaro in polvere. In bocca è caldo, equilibrato, con tannini rotondi e ben armonizzati; lungo e di grande persistenza, nel finale riporta alla mente delicate nuances balsamiche di eucalipto. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2005, 2006 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Il Castello di Bolgheri ha origini che risalgono al 1200, da allora patrimonio dei Conti della Gherardesca. Nel 1984 la Tenuta, per successione, è stata ereditata dalla figlia della Contessa Alessandra della Gherardesca, la Contessa Franca Spalletti Trivelli, sposata con il Conte Clemente Zileri Dal Verme ed è proprietà della famiglia da trenta generazioni. L’azienda agricola si estende su una superficie di 130 Ha, di cui 50 vitati e altri occupati da 7000 piante di olivo e bosco di noci da legno. Svolgono le funzioni di agronomo e di enologo i titolari, Clemente Zileri Dal Verme e suo figlio Federico Zileri Dal Verme. Collabora in azienda l’enologo Alessandro Dondi.

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CASTELLO DI

CACCHIANO

Giovanni Ricasoli -Firidolfi


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SONO COLLINE INCISE DALLA STORIA E DAL LAVORO DELL’UOMO mi

piace inoltrarmi nel territorio Del

chianti

e perDermi fra queste colline

che si rincorrono e non si ripetono mai.

In questo altalenante divenire lascio che il mio sguardo si addentri all’interno di questi paesaggi letterari che hanno dato e daranno spunto, per chissà quanto tempo ancora, a tutti coloro che, come me, cercano di raccontarli con la difficile arte della parola scritta. Sono colline incise dalla storia e dal lavoro dell’uomo, il quale, con il suo intervento, è riuscito non solo a creare un distinguo fra l’una e l’altra, ma, addirittura, ad umanizzarle. Non sono certamente da meno quelle che si aprono per indicarmi la strada verso Monti in Chianti e il Castello di Cacchiano, dove ho appuntamento con Giovanni Ricasoli-Firidolfi, un altro dei componenti di questa storica e nobile famiglia toscana che, per diritto di nascita, produce vino sin dal XII secolo. Sono diversi anni che lo conosco, pur non avendo mai avuto modo di dar sèguito ai nostri formali incontri con proficue frequentazioni. Pur non conoscendone il passato, di lui avevo sempre avuto l’idea del colto gentleman di campagna che si era avventurato nella produzione del vino basandosi sulla tradizione e sulla storia di famiglia, sviluppatasi negli ultimi mille anni su questo territorio e nel Castello di Cacchiano, avamposto fiorentino, che nel Medioevo aveva rivestito un ruolo strategico nella lotta contro la Repubblica di Siena e dove si è sempre prodotto vino. Dopo averlo conosciuto, ho scoperto che Giovanni incarna non solo la solarità, l’opulenza, la schiettezza e la trasparenza di queste colline chiantigiane, ma anche la serena obbedienza a quel severo e costante impegno profuso dai suoi avi nel millenario rapporto con la propria terra, nella consapevolezza di essere un semplice interprete e custode che, responsabilmente, ha l’incarico di trasferire alle generazioni future l’eredità dei saperi di chi lo ha preceduto. Il Castello di Cacchiano cominciava ad imbottigliare, dal 1974, piccole quantità di vino col proprio brand, avendo conferito fino a quel momento la quasi totalità della produzione alla Casa Vinicola Barone Ricasoli, la cantina di riferimento della famiglia. Non aveva, quindi, fino ad allora provveduto a crearsi una propria immagine, né una sua rete commerciale, né aveva strutturato la cantina in modo tale da renderla sufficientemente idonea per affrontare uno specifico percorso autonomo,

che la rendesse visibile nel già complesso panorama produttivo chiantigiano. Vengo così a sapere che Giovanni ha iniziato fattivamente ad interloquire con la sua realtà produttiva dal novembre 1983; mentre dal 1998 avviava con entusiasmo un progetto di più ampio respiro, in grado di poter rendere autonoma sul mercato l’azienda che sua madre, Elisabetta Balbi Valier, dopo la morte del marito Alberto, gli aveva affidato. Molte erano le cose da fare, ma Giovanni non si scoraggiò e, dividendosi fra le mille iniziative a cui aveva dato corso e la parte amministrativa, si adoperò nel settore enologico e commerciale della cantina, mentre la madre continuava a seguire la parte agronomica con l’intuito e l’intelligenza che l’avevano sempre contraddistinta, essendo stata una delle prime “Donne del Vino” ad attivare processi operativi nei vigneti, quali, ad esempio, la vendemmia verde, che in principio aveva incontrato non poche resistenze da parte delle maestranze agricole. Lo ascolto mentre mi racconta, con disarmante sincerità, i suoi errori e le crepe che si aprirono in quel progetto che a lui sembrava così perfetto. Errori di gioventù, come quelli che si commettono per l’entusiasmo di voler bruciare le tappe e voler dimostrare, a se stessi e agli altri, che tanto affanno non era né inferiore, né peggiore di quello di chi, da più anni, si cimentava prima di lui nell’arte di fare il vino. Giovanni non si nasconde neanche quando nelle sue parole noto un velo di incertezza accompagnare quelle sicurezze che, sorrette da numeri, strategie, piani e obiettivi aziendali, lo hanno proiettato in questo mondo vitivinicolo. È vino - mi risponde. È solo vino. Cogliendo il significato della sua affermazione, mi sento sollevato nel trovare qualcuno con il quale poter condividere il mio pensiero e che ricolloca nella sua giusta importanza il significato delle infinite - e a volte astruse - parole con le quali si definisce quale universo ruoti intorno a quel vino che insieme stiamo degustando. Mi piace il pensiero libero di questo giovane gentiluomo di campagna toscano, legato al vino non con un filo di ferro, ma con un elastico che si allunga fino al punto di dargli una visione più ampia del “bello” rappresentato da queste terre e dal suo vino, al quale, dopo aver appagato le sue passioni, torna sempre vo-


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lentieri. Se non fosse stato così, non avrebbe potuto dar vita a ciò che ha costruito, né contribuire a quel cambio generazionale in atto in azienda, né tanto meno apportare nuove idee alla cantina senza stravolgere la filosofia produttiva, né ricercare infine, per ogni diversa base geologica dei terreni, il suo “genio”, creando, di fatto, un sistema attivo di microzone che sappiano valorizzare il proprio terroir. Un lavoro importante, complesso ed impegnativo al quale, però, ogni tanto deve alternare altri piacevoli momenti e, tirando quell’elastico che lo tiene legato al Castello di Cacchiano, perdersi nel bello che regola la Toscana, nell’arte degli antichi maestri e delle loro meraviglie pittoriche che arricchiscono l’animo, il quale, se nutrito bene, ha più forza per affrontare il futuro.

È vino - mi risponde. È solo vino.


CASTELLO DI CACCHIANO

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA Zona di produzione: Il vino nasce dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Canaiolo provenienti esclusivamente dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Cacchiano (Monti in Chianti), nel comune di Gaiole in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di matrice alberese, di medio impasto e con buona presenza di scheletro, ad un’altitudine compresa tra i 380 e i 420 metri s.l.m., con un’esposizione prevalente a sud. Uve impiegate: Sangiovese 95%, Canaiolo 5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone orizzontale speronato Densità di impianto: dai 3.300 ai 5.880 ceppi per ettaro Tecniche di produzione: La vendemmia di solito è svolta durante la prima quindicina di ottobre, dopo di che il pigiadiraspato è immesso in vari contenitori termocondizionati di cemento, acciaio e legno dove si avvia, spontaneamente, la fermentazione alcolica, la quale si protrae, in genere, da 8-9 giorni a 15-20 giorni ed è svolta a temperatura controllata; questa varia fra i 16-18°C nella prima fase e fra i 26-28°C alla fine, effettuando prima rimontaggi di omogeneizzazione, senza aria, e poi altri, sempre più frequenti, nei giorni successivi. Contemporaneamente si avvia anche la macerazione sulle bucce, la cui durata varia di anno in anno. Terminata questa fase si unisce il vino fiore, travasato all’aria, a quello della prima pressatura, distinto per lotto di provenienza, dando avvio alla fermentazione malolattica. Conclusa questa fase, il vino è collocato in botti da 13 a 27 Hl e in barriques e tonneaux da 5 Hl per un periodo di maturazione che nei piccoli fusti va dai 12 ai 18 mesi e nelle botti dai 20 ai 24 mesi; durante questa fase avvengono 2-3 travasi. Dopo l’assemblaggio delle partite, segue un affinamento in bottiglia di circa 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 12.600 bottiglie Note organolettiche: Di colore rosso rubino con brillanti riflessi purpurei, al naso il vino risulta essere intenso e, a seconda delle annate, con percezioni olfattive dove spiccano in prevalenza note sanguigne e minerali, di pietra focaia e terra, che si aprono ad altre di corteccia, macchia mediterranea e tabacco. Un bouquet complesso, dove il legno è sagaciamente integrato e distribuito sugli strati dei livelli olfattivi, i quali si arricchiscono inoltre di delicate note di frutta rossa matura e nuances speziate di senape in grani. In bocca è caldo, sapido, di corpo e propone equilibrati ed eleganti tannini, sorretti anche da una bella acidità; lungo e persistente, chiude con un finale fruttato di lamponi e ricordi di mentuccia. Prima annata: La famiglia Ricasoli è nota per aver coniato la “formula” del Chianti ed è stata fra i fondatori del marchio Gallo Nero (nel 1924, ossia ben prima della nascita delle attuali denominazioni). Le migliori annate: 1985, 1988, 1990, 1997, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo circa 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Da secoli proprietà della famiglia Ricasoli-Firidolfi ed attualmente guidata da Giovanni Ricasoli-Firidolfi, l’azienda agricola si estende su una superficie di 200 Ha, di cui 31 vitati e il resto occupato da oliveto (4.700 piante), seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Raffaello Biagi e l’enologo Stefano Chioccioli.

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CASTELLO DI

FONTERUTOLI

Filippo, Francesco Mazzei


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se è cosa difficile essere italiano difficilissima cosa è l’esser toscano All men are created equal. Tutti gli uomini sono creati uguali.

Trovo fantastico come questa frase, posta come principio basilare della Costituzione Americana, riesca ancora a sorprendermi e mi meraviglia ancora di più il fatto che fu ispirata a Thomas Jefferson da Filippo Mazzei (1730-1816), chiamato in Virginia a verificare le possibilità enologiche di quella terra. Un viaggiatore intellettuale ed esperto viticoltore, omonimo di quel Filippo Mazzei che, insieme a suo fratello Francesco, dirige oggi il Castello di Fonterutoli. Al mio arrivo in azienda, scopro subito, come piacevole sorpresa mattutina, in quale modo lo spirito indomito e innovativo caratterizzante questa famiglia abbia consentito loro di realizzare una modernissima struttura di vinificazione, maturazione e stoccaggio dei vini, prodotti nelle diverse tenute di proprietà, adottando soluzioni tecniche estremamente interessanti e all’avanguardia. È il nuovo che avanza - penso mentre mi aggiro negli enormi e funzionali stanzoni, ben mimetizzati nel paesaggio chiantigiano, a poche centinaia di metri dall’antica struttura del piccolo borgo di Fonterutoli. Il borgo, di proprietà della famiglia dal 1435, rappresenta il cuore pulsante e la matrice storica di questa azienda che da 600 anni e attraverso 24 generazioni si è snodata in stretta comunanza con il territorio del Chianti Classico. Terra dalle grandi potenzialità viticole, che ha conquistato un posto di assoluto rilievo sui mercati internazionali grazie alla qualità dei suoi prodotti enologici, capaci di promuovere la Toscana e quel legame forte e indissolubile delle sue storiche e nobili famiglie del vino. Terra unica e madre dell’arte di fare vino, i cui interpreti sembra abbiano smarrito un po’ di quella toscanità di un tempo che, altezzosa, arrogante, presuntuosa, brontolona, polemica, arguta, dritta, geniale e unica, si portavano addosso come un vestito. Non so quali siano le cause di quello smarrimento, anche se, parlando con Filippo e Francesco potrei convincermi del contrario, poiché sono fra i pochi, fin qui incontrati, incapaci di mascherare la loro schietta ed esuberante toscanità di nobiluomini di campagna, colloquiando con un linguaggio diretto, colorito - fruibile anche dai sordi - con il quale mi fanno comprendere il loro pensiero sull’argomento. Li ascolto e mi domando se ancora abbiano un senso contemporaneo le parole di Curzio Malaparte il quale sosteneva che “se è cosa difficile essere italiano, difficilissima cosa è l'esser toscano: molto più che abruzzese, lombardo, romano, piemontese, napoletano, o francese, tedesco, spagnolo, inglese. E non già perché noi toscani siamo migliori o peggiori degli

altri, italiani o stranieri, ma perché, grazie a Dio, siamo diversi da ogni altra nazione: per qualcosa che è in noi, nella nostra profonda natura, qualcosa di diverso da quel che gli altri hanno dentro. O forse perché, quando si tratta d'esser migliori o peggiori degli altri, ci basta di non essere come gli altri, ben sapendo quanto sia cosa facile, e senza gloria, esser migliore o peggiore di un altro”. Oggi tutto si è annacquato e anche quella toscanità che vado cercando si è un po’ diluita; allo stesso modo è cambiata la stessa percezione della Toscana e, pur avendo questi due elementi un filo conduttore capace di delinearne i confini, diventano impercettibili e difficili da scoprire o da interpretare. Una Toscana che, senza adagiarsi sul suo glorioso passato, sembra essere ancora viva e capace di trovare energia in quel Rinascimento che l’ha contrassegnata o in quella settecentesca e attiva dinamicità dei “lumi”, essendo stata percorsa dalle idee liberali e progressiste di Cesare Beccaria e diffuse dal Mazzei negli Stati Uniti. Idee più che mai contemporanee e vitali nell’operato di Filippo e Francesco, poiché, se nel nome c’è il destino di un uomo, incarnare quella tradizione illuminista è diventato un progetto di vita per i “moderni” Mazzei. Per loro muoversi nell’assoluto rispetto di quelle linee guida portate avanti dalla famiglia nei secoli è un obbligo morale a cui sentono di dover rispondere, come sentono la necessità di interpretarle e farle evolvere affinché ciò che è stato sia sempre più conforme a ciò che è, in un continuo divenire, così da costruire un nuovo punto di arrivo. Idee che hanno dato a questa famiglia la forza di andare spesso contro corrente, con azioni importanti, capaci sia di inserirla nell’aristocrazia enologica di questo territorio, sia di perseguire radicali cambiamenti. Cambiamenti orientati anche verso il tessuto sociale con il quale essa si trova ad interagire: non a caso nel 1953 Fonterutoli è stata la prima azienda del Chianti Classico ad affrancarsi dalla mezzadria come preludio a quella graduale trasformazione mediante la quale sarebbe diventata presto una moderna impresa agricola. Una famiglia proiettata sempre verso il futuro, come dimostrano la nuova cantina o anche l’impegno profuso non solo in un ampliamento delle superfici vitate che oggi li vede artefici dell’evoluzione di altre aree viticole in Maremma e in Sicilia. Un viaggio che dal 1435 non si è mai interrotto, in una continua evoluzione tecnologica e scientifica dell’intera filiera produttiva. Lapo Mazzei, Presidente della Società, nominato Cavaliere del Lavoro nel 1958, sosteneva che un bicchiere di Chianti


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Classico dei Mazzei contiene per metà vino e per l’altra metà, storia. Questa è stata la chiave di lettura con la quale sono stati superati i momenti difficili, come quando, alla metà degli anni Novanta del secolo passato, si era diffusa l’idea che fare vino fosse solo un business e, in un mondo sempre più globalizzato, ogni cosa fosse lecita, in cantina e in vigna, pur di soddisfare la richiesta dei mercati, “americanizzando” il gusto dei prodotti e la stessa cultura e tradizione chiantigiana. Non condividere quella filosofia commerciale, che snatura e sterilizza ogni cosa, voleva dire rischiare di essere fagocitati ed esclusi dai mercati. Attingendo all’incredibile forza dell’inesauribile background di cui dispongono, i Mazzei hanno tenuto duro sui valori che da secoli contraddistinguono la tipicità e la caratterialità dei vini da loro realizzati, continuando a produrre quel “vino dei sassi” - come veniva chiamato un tempo il vino di Fonterutoli - e andando dritti per la loro strada, convinti che la storia è dalla loro parte.


CASTELLO DI FONTERUTOLI

CHIANTI CLASSICO DOCG CASTELLO DI FONTERUTOLI Zona di produzione: Il vino è il risultato della vinificazione dei migliori cloni di Sangiovese (con una piccola aggiunta di Cabernet Sauvignon) provenienti dai vigneti Siepi, Fonterutoli e Belvedere, di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Castellina in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 12 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni con prevalenza di alberese ad un’altitudine compresa tra i 260 e i 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Cabernet Sauvignon 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: dai 4.500 ai 7.600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in serbatoi d’acciaio si protrae per circa 10-12 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 3-6 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in tini di acciaio in cui svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere francese da 2,25 Hl (per il 70% nuovi) in cui rimane per 16-18 mesi; durante questo periodo si effettuano alcuni travasi. Terminata la maturazione, e dopo 1 mese di decantazione in acciaio inox, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 80.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso purpureo quasi impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con mature note fruttate di marasca, prugne nere, more e ciliegia in confettura, floreali di viola mammola, speziate dolci di alloro, ginepro e altre erbe officinali. In bocca ha un’entratura calda, sapida, di corpo, con una discreta acidità che conferisce alla beva lunghezza e persistenza. Dai tannini eleganti e fini, offre una punta di dolcezza in un finale dai toni minerali e fumé. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1997, 2001, 2004, 2006 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà dei Marchesi Mazzei dal 1435, l’azienda agricola si estende su una superficie di 670 Ha, di cui 117 vitati, 18 occupati da oliveto e 535 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Gionata Pulignani e l’enologo Luca Biffi con la collaborazione di Carlo Ferrini.

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CASTELLO DI

GABBIANO

Francesco Caselli, Ivano Reali, Giancarlo Roman


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LA TOSCANA UNA TERRA UNICA AL MONDO franc. soderinus senat. gasp. f. ruris huius in famiglia restitutor sub. a mdclii

(Iscrizione

che sormonta la porta di accesso al

Castello di Gabbiano e Soderini nel 1652)

ne testimonia la rinascita ad

opera della famiglia

La Toscana è sempre stata una Regione in cui sono venuto volentieri. Tante volte ho allungato il tempo dei miei soggiorni di lavoro e, lasciandomi trasportare dal fascino opulento di questa terra, me ne sono andato alla scoperta delle eccellenze, neanche troppo nascoste, che la contraddistinguono e che è possibile trovare in ogni dove. Dopo svariati viaggi, ero ormai sicuro che per me la Toscana non avesse più né un tesoro, né un segreto da scoprire. Per anni sono andato avanti in questa convinzione, fino a quando, avendo ricevuto l’incarico di dirigere una nuova azienda vitivinicola acquisita proprio in Toscana dal gruppo con cui collaboravo, mi sono ritrovato di fronte al Castello di Gabbiano, a Mercatale Val di Pesa, nel Chianti Classico; e qui sono rimasto affascinato non solo dalla straordinaria bellezza delle antiche mura delineanti il maniero, ma anche da quella “toscanità” percepita intorno, che non conoscevo veramente. Conservo ancora dentro di me, a distanza di anni, quella forte emozione, ormai trasformata in grande passione per questo territorio; un sentimento che, comunque, non mi ha fatto perdere di vista il fattore strategico del mio ruolo, né il valore dell’investimento effettuato, responsabilità che mi spingono a semestrali meeting results con i quali poter verificare la crescita di quest’azienda e controllare se vi siano degli scostamenti rispetto agli obiettivi prefissati. La Foster’s, proprietaria dell’azienda, è comunque consapevole che, in questa importante, nobile e antica tenuta esiste un valore, non quantificabile economicamente, costituito dalla sua storia condivisa con questo territorio. Tutto questo è osservabile da chiunque si aggiri per i saloni o intorno a questa “turrita casa signorile” costruita dai Bardi nel XII secolo e appartenuta, poi, dal XIV secolo, alla famiglia Soderini, ad un membro della quale, il Gonfaloniere a vita Pier Soderini, proprio quí il grande navigatore Amerigo Vespucci fece pervenire la sua prima lettera al ritorno dal viaggio nelle Americhe. Caratteristiche percepibili anche visitando le cantine, con la loro peculiare struttura a volta, da sempre odorose di mosto, come risulta già nella “Portata catastale” presentata da Tommaso Soderini, nel 1464, agli Uffiziali del Catasto della Repubblica Fiorentina, dove si menzionava come il vino qui prodotto fosse tra le derrate di maggior pregio; oppure osservando i paesaggi che ci circondano, nei quali oggi la

forza della natura e l’intervento dell’uomo si combinano in perfetta armonia. Dal primo momento in cui ho messo piede al Castello di Gabbiano ho sempre pensato che qui avremmo potuto costruire un percorso unico ed inimitabile con il quale vendere non solo il vino, ma la cultura che intorno ad esso si è costruita nei secoli. È per questo che la nostra opera va avanti da anni in questa direzione, con la precisa volontà di salvaguardare tutto quanto è in relazione con questa splendida struttura, a partire proprio dalla tradizione e da ciò che essa rappresenta, per arrivare alla qualità della vita che qui è possibile godere e che rende la Toscana unica al mondo. Nel perseguire questo scopo abbiamo creato un’offerta di ospitalità di altissimo livello a cui sono state aggiunte una proposta gastronomica territoriale e un’oculata progettazione del paesaggio (testimoni di una grande eredità artistica che fece considerare a Georges Duby, il più grande storico del Medioevo, l’architettura toscana come “la più civile del mondo”, visto che incarnava più di ogni altra, nelle sue linee semplici e rigorose, i concetti di armonia, equilibrio, sobrietà e misura). Dall’anno 2000, inoltre, abbiamo avviato un’opera di grande e profonda ristrutturazione di tutta la filiera produttiva, con interventi nella cantina e nei vigneti, che sono stati già reimpiantati per un buon 50% con nuovi cloni di Sangiovese, oltre ad essere stati ampliati, permettendoci di avere oggi una superficie vitata a Chianti Classico DOCG di oltre 90 ettari e un’estensione complessiva che sfiora i 130 ettari, rendendoci, di fatto, una delle realtà produttive più importanti di questo territorio, come è stato confermato dalla stessa Provincia di Firenze, la quale ci ha premiato, per ben tre anni consecutivi, per il nostro impegno nella sua promozione. Ritenendo che ciò non fosse ancora sufficiente, ho avviato un ulteriore processo di trasformazione nel quale ho coinvolto ogni componente della struttura, facendolo diventare un “promotore” della stessa, in modo da accogliere tutti coloro che giungono al Castello di Gabbiano non come semplici turisti, ma come amici con i quali assaggiare un buon bicchiere di vino e dialogare a lungo, per far sì che, portandosi a casa una bottiglia, possano non solo apprezzarne il contenuto, ma ricordarsi realmente di questo luogo magico e del nostro Tuscan lifestyle.


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“Dal primo momento in cui ho messo piede al Castello di Gabbiano ho sempre pensato che qui avremmo potuto costruire un percorso unico ed ini-

mitabile...�


CASTELLO DI GABBIANO

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Mercatale Val di Pesa, nel comune di San Casciano Val di Pesa, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine calcarea ricchi di Galestro, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con esposizioni varie. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato prevalentemente singolo e a Guyot Densità di impianto: dai 3.500 ai 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio ad una temperatura controllata di 26-28°C, si protrae per circa 12-14 giorni, durante i quali vengono ancora effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri; si procede quindi alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 8-10 giorni, durante i quali si effettua ancora qualche rimontaggio. Dopo la svinatura, il vino è posto in vasche d’acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in parte (circa il 50%) in botti di rovere da 15, 35 o 50 Hl e il resto in barriques di rovere francese di media tostatura, di primo e secondo passaggio, in cui rimane per 16-18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi o micro-ossigenazioni, se necessario. Terminata la maturazione, avviene l’assemblaggio delle partite e dopo circa 1 mese di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di circa 4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 120.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino intenso con riflessi granati, al naso presenta nei primi anni di maturazione profumi di frutta rossa fresca come fragola e ciliegia e percezioni floreali di viola mammola, mentre, con il passare degli anni e l’invecchiamento, le sensazioni abbracciano note più mature di amarena, pepe nero, muschio, fiori appassiti e certe nuances di legno di abete. Caldo, sapido, di corpo, con una buona vena acida e tannini ampi ed omogenei, in bocca, rispetto all’esame olfattivo, si arricchisce di aromi terziari di tabacco dolce e pelliccia. Prima annata: 1967 Le migliori annate: 1997, 2001, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Unica proprietà italiana della Foster’s Wine Estates (dal 2000), l’azienda agricola si estende su una superficie di oltre 100 Ha, di cui 55 vitati. L’estensione dei vigneti di proprietà è stata incrementata a 68 Ha, nel 2004, con l’acquisizione della Fattoria Cerbaiola a San Donato in Poggio. Un ulteriore ampliamento dei vigneti direttamente coltivati dall’azienda è avvenuta nel 2008, con l’accordo di affitto dei 59 Ha di vigneti della confinante proprietà. Castello di Gabbiano, ad oggi, dispone quindi di 127 Ha di vigneti. Collaborano in azienda l’agronomo Francesco Caselli e l’enologo Giancarlo Roman.

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... ogni albero o pianta ha il suo posto non assegnato dalle sole leggi della natura, ma dalle leggi dell’uomo che hanno saputo porsi in equilibrio fra la terra e il cielo, per costruire quel senso del bello che qui sembra innato e quasi spontaneo ...


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CASTELLO DI

mONSANTO

Laura Bianchi


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Un luogo alla cui forza attingo a piene mani per andare avanti Non riesco a distaccarmi da questo luogo e dal vento che, chiaro e civile, spira tra le colline che digradano verso Poggibonsi e, da amico, crea spazio nel mio cuore, riportandomi, con la mente, alle vacanze estive della gioventù trascorse al Castello di Monsanto.

Ancora oggi il sentirlo soffiare mi predispone a ravvivare il dialogo con questo luogo della memoria, dove ho deciso di vivere. Gli antichi greci consideravano Mnemosyne - la memoria - come la madre di tutte le arti, che dava forma e senso alla vita, proteggendola dall’oblìo; allo stesso modo io, spesso, mi crogiolo nell’atto del ricordo. È solo qui che ho ritrovato la mia antica libertà e costruito il mio essere, in un altalenante andirivieni di sentimenti che mi hanno condotto verso l’amore, il bello e le piccole cose che rendono unica e viva la vita. Come sfondo ho queste mura benevoli, fonti di quel gene che mi spinge ad esplorare l’universo del vino, il quale, per la sua indole versatile, è continuamente in fieri, ma al tempo stesso mi lega, come il vento, a questo luogo. Qui sono cresciuta, divenendo donna, madre e vignaiola e ho riscoperto il valore di essere figlia di genitori, i quali, pur con mille incomprensioni, amorevolmente sono stati sempre al mio fianco, anche nei momenti difficili. Un luogo alla cui forza attingo a piene mani per andare avanti, ripensando a quell’angolo segreto, dove nascondermi per incontrare me stessa e agli albori dell’avventura enologica con la quale, negli anni Sessanta, mio padre si volle cimentare, con idee innovative, nel microcosmo di questo Chianti Classico. In questo suo divenire vignaiolo in terra di Toscana, Monsanto è stato con lui generoso, accondiscendendo al suo recondito desiderio di costruire vini unici, longevi, capaci di reggere il confronto con i francesi di Borgogna che lui ama tanto. La sua rigorosa e determinata volontà è stata un valido esempio da seguire e di grande aiuto nell’apprezzare quanto egli abbia fatto e stia ancora oggi facendo per il Castello di Monsanto, quasi come se volesse contraccambiare l’amorevole attenzione che queste mura gli hanno sempre dimostrato, fin dal primo momento in cui le oltrepassò, quasi cinquant’anni fa. Mura in grado di farsi amare ancor prima che io potessi diventare loro amica e riuscissi a scacciare dalla mente le remore che, senza una plausibile ragione, cocciutamente, mi spingevano a non prendere in considerazione l’azienda tessile di famiglia a Varese e neppure questa vitivinicola di Monsanto, verso la quale, però, sentivo un forte attaccamento, attratta come ero dal suo grande fascino. Attingo spesso alla memoria delle mie prime vendemmie, quando gli operai non approvavano che, da donna,

lavorassi in vigna, e al ricordo di Tonino, il vecchio fattore, fra tutti quello che più avversava quella mia presenza, curiosa, in cantina. Passarono anni prima che cominciassero ad apprezzare quella fierezza con la quale mi stavo mettendo in gioco, ma subito dopo iniziarono a trasferirmi la loro esperienza e quell’umanità rurale, fatta di piccoli e precisi gesti mai casuali, che li accompagnavano sempre, durante il loro lavoro in campagna. Visi e sorrisi incisi nella mia mente come gli scatti di una Polaroid; insieme ad essi sono cresciuta e alcuni li ho ritrovati, ancora oggi, dopo tutti questi anni, al mio fianco a Monsanto. Sono uomini e donne appartenuti ad una generazione per la quale ogni cosa e ogni persona rivestivano un proprio ruolo e un precisa collocazione e le regole erano indiscutibili e tutti dovevano risponderne poiché, come diceva Cesare Pavese, l’uomo sa queste cose contemplando la sua vigna. Ci sono cieli e piante, e stagioni di ritorni, ritrovamenti e dolcezze, ma questo è soltanto il passato che la vita riplasma come giochi di nubi. La vigna è fatta anche di questo, un miele dell’anima, e qualcosa nel suo orizzonte apre plausibili vedute di nostalgia e speranza. Ricordi leggeri, che si sollevano e si ripresentano quando ne ho bisogno, arricchendosi di quelle parole che hanno scandito il tempo della mia giovinezza in un Chianti che forse non c’è più. Tutto oggi è cambiato e quel mondo del vino, che ho avuto la fortuna di conoscere e potrò raccontare, un giorno, ai miei figli, è solo un ricordo. Tutto è diverso e molte cose si sono dissolte, trasformandosi nel “nuovo che avanza” e che non mi piace, perché scarno, crudo e privo di poesia: ha abbandonato i ritmi che ne regolavano l’evoluzione e ne ha presi altri, capaci solo di riempire una bottiglia di vino di cose effimere, appiattendolo su se stesso e allontanandolo da quel saper fare che ha reso unica questa terra di Toscana. Tutto è accaduto così rapidamente per cui io stessa, ancorata a quei valori che mi avevano trascinato a Monsanto, mi trovo “antica”. Ma come è possibile - mi domando? Eppure il vento soffia ancora e come sempre rinnova la mia memoria che si arricchisce, ogni giorno di più, del sorriso dei miei figli, dell’amore, del bello che vado cercando e delle piccole cose che rendono unica e viva la vita.


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...Tutto oggi è cambiato e quel mondo del vino, che ho avuto la fortuna di conoscere e potrò raccontare,

un giorno, ai miei figli, è

solo un ricordo.


CASTELLO DI MONSANTO

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA IL POGGIO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con piccole aggiunte di Canaiolo e Colorino) provenienti dal vigneto Il Poggio, situato nel comune di Barberino Val d’Elsa, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine galestrosa, ad un’altitudine di circa 310 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Canaiolo e Colorino 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura di 28-29°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 15-18 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in tonneaux di rovere, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 3 mesi. Terminata la maturazione e dopo 3 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 18 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie circa Note organolettiche: Bel colore rosso rubino intenso; il naso offre originali e complessi profumi di frutti neri di sottobosco, viola, spezie, erbe aromatiche, liquirizia, cacao a cui si aggiungono poi note balsamiche. All’esame gustativo è prepotente e risulta caldo, morbido, evidenziando tannini nobili e suadenti e uno stile deciso e personale che lo contraddistingue; di grande struttura, chiude con nuances minerali e di lampone. Lunghissima la persistenza della beva. Prima annata: 1962 Le migliori annate: 1971, 1975, 1977, 1982, 1985, 1988, 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 30 anni. L’azienda: Di proprietà di Fabrizio Bianchi dal 1961, l’azienda agricola si estende su una superficie di 210 Ha, di cui 72 vitati, 20 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collabora in azienda svolgendo funzioni di agronomo e di enologo Andrea Giovannini.

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CASTELLO DI

QUERCETO

Alessandro Franรงois


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FARE IL VIGNAIOLO È DIVENTATA LA RAGIONE DELLA MIA VITA ...ma querceto viNse e la magia della qualità della vita risorse... ...alessaNdro NoN iNveNtava Nulla, se NoN la sua vita e del suo gruppo familiare... ...Nuovi viNi si staNNo preparaNdo: carlo, lia e simoNe, giovaNi figli, li guardaNo: testimoNiaNza della loro vita futura... luigi veronelli, i vigNaioli storici, 1986

Tornare al Castello di Querceto, storica residenza d’origine longobarda, acquistata da mio nonno Carlo François nel 1897, per me ha significato ricominciare a guardare il cielo con l’intento di capire, dallo spostamento delle nuvole, se sarebbe arrivata la pioggia o, di lì a poco, spuntato di nuovo il sole, riassaporando il gusto di vivere, quotidianamente, le emozioni che avevo già provato da ragazzo quando su queste colline trascorrevo le mie vacanze estive. Emozioni che avevo dimenticato lavorando a Milano come ingegnere in una grande azienda, anche se, davanti a quei tecnigrafi, la mia mente volava spesso verso questo luogo dell’infanzia, sentendo riaffiorare nella bocca e nel naso i sapori e i profumi del mosto e della terra, percependo, sempre più forte, il richiamo della Toscana, non accettando l’idea di perdere quel mondo a me così caro. Un mondo antico, abitato da gente semplice, umile, ma di grande umanità; un luogo in cui i contadini si levavano il cappello quando incontravano mio nonno in paese e lo facevano in segno di grande rispetto per chi portava un cognome straniero e veniva da lontano a confondersi in mezzo al loro. Sono ormai 25 anni che sono tornato qui e molte cose da allora sono cambiate, compresa la qualità della mia vita, ma ricordo, come fosse oggi, la titubanza e l’esitazione con la quale io e mia moglie Maria Antonietta ci consultammo prima di decidere se impegnarci nella ristrutturazione di quest’azienda, che gravava, alla fine degli anni Settanta, in una situazione di completo abbandono dopo che mio padre, disinteressato alla campagna, l’aveva affidata ad un fattore; una situazione totalmente in contrasto con lo stato dell’arte posseduto da quest’azienda nei primi decenni del ‘900, quando, sotto l’abile guida di mio nonno Carlo, aveva raggiunto importanti risultati in termini di apprezzamento e riconoscimento, essendo già stata, nel 1911, vincitrice di un premio enologico internazionale e protagonista attiva, sul territorio, del movimento enologico che dette vita, nel 1924, al Consorzio del Vino Chianti Classico. Non credevo che quei pensieri, espressi intorno ad un tavolino in lunghe chiacchie-

rate con mia moglie, mi avrebbero condotto a dar corso ad una seconda vita, soddisfacendo il mio carattere, attivo ed intraprendente, intollerante all’idea di una tranquilla e inattiva vecchiaia trascorsa lontana da quest’azienda, che sentivo mia e che racchiudeva in sé meravigliose opportunità ancora tutte da scoprire; come non credevo che il diventare vignaiolo mi avrebbe spinto, a 53 anni, a frequentare di nuovo i banchi di scuola per intraprendere nuovi e più impegnativi studi, al fine di comprendere ogni aspetto di quello sconosciuto comparto vitivinicolo che mi avrebbe stregato e fatto innamorare di questa terra. Furono molte le situazioni precarie che dovetti risolvere prima di iniziare un’opera di profonda ristrutturazione e riconversione dell’azienda; fra queste rinnovare ed ampliare la superficie vitata, eliminando le colture promiscue presenti su gran parte della proprietà, costruire una nuova cantina e avviando in ogni settore operativo un importante programma di investimenti riguardante sia l’attività viticola che quella enologica, affidandomi a collaboratori esperti come Giovanni Cappelli e Giacomo Grassi, rispettivamente enologo ed agronomo aziendali. Un programma che dette risultati tanto buoni al punto che alla fine degli anni Novanta si è ulteriormente ampliato, come è avvenuto, quasi sistematicamente, ogni dieci anni, ottenendo, ogni volta, una migliore razionalizzazione dell’intera attività produttiva. Investimenti importanti che, sicuramente, graveranno per molti anni sull’economia aziendale, ma che non mi spaventano, perché chi non ha debiti non ha sogni e il mio più grande sogno è quello di far risaltare sempre più nei miei vini l’equilibrio e l’armonia di queste terre. Anche se i momenti non sono dei migliori, non mi demoralizzo e se anche venissero ad offrirmi una quantità di soldi inimmaginabile, non venderei mai questa proprietà, perché fare il vignaiolo è diventata la ragione della mia vita, rappresenta il segno tangibile del mio passaggio su questa terra ed è il miglior biglietto d’augurio da regalare ai miei figli e ai nipoti, perché possano costruire il loro futuro fra queste mura del Castello di Querceto e questi vigneti chiantigiani.


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...rappresenta il segno tangibile del mio passaggio su questa terra ed è il miglior biglietto d’augurio da regalare ai miei figli e ai nipoti...


CASTELLO DI QUERCETO

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA IL PICCHIO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con una piccola aggiunta di Canaiolo) provenienti dal vigneto Il Picchio, di proprietà dell’azienda, situato in località Querceto, nel comune di Greve in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 26 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni collinari di origine cretaceo-eocenica, ad un’altitudine compresa tra i 420 e i 450 metri s.l.m., con un’esposizione a est / sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 92%, Canaiolo 8% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 7.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla fine di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in fermentatori brevettati con controllo automatico, si protrae per circa 7 giorni ad una temperatura di 28-30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 7-10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in serbatoi a temperatura controllata, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale un periodo di circa 2 mesi a bassa temperatura favorisce la chiarifica per decantazione. Successivamante il vino viene spostato in barriques di rovere proveniente dalle foreste di Allier e Limousin da 2,28 Hl (per il 20% nuove e per l’80% di età compresa fra i 2 e i 4 anni) in cui rimane per 12 mesi. Terminata la maturazione e dopo 2-3 mesi di omogeneizzazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima di essere messo in commercio. Quantità prodotta: 30.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino offre all’esame olfattivo profumi di marasca e frutti rossi del sottobosco maturi, oltre a note di viola, legno di cedro e sandalo e percezioni di erbe officinali e ginepro. In bocca è caldo, corposo, pieno, morbido, di ottima bevibilità, con decisa sapidità e un buon equilibrio fra tannini e acidità. Chiude lungo e persistente con note speziate e ricordi chinati e di tabacco dolce. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1990, 1997, 2000, 2005, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dalla particella di terreno dove è ubicata la vigna, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia François dal 1897, l’azienda agricola si estende su una superficie di 190 Ha, di cui 60 vitati, 6 occupati da oliveto e 124 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Giacomo Grassi e l’enologo Giovanni Cappelli.

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CIACCI PICCOLOmINI

D’ARAGONA

Paolo, Lucia, Alex Bianchini


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PROIETTATI VERSO UN NUOVO DIVENIRE Sarebbe bello tu potessi scrivere un libro su mio padre. È tanto che io, mia sorella Lucia e nostra mamma ne parliamo. Lui stesso aveva suggerito il titolo: Il toro, il gallo e il fattore.

Bisognerebbe proprio prepararlo, magari nei prossimi tre o quattro anni, facendolo uscire in occasione dell’anniversario della sua morte. Siamo sempre stati convinti che potresti scriverlo soltanto tu che lo conoscevi molto bene; con te, infatti, si era aperto, raccontandosi in maniera chiara e schietta come non aveva fatto con nessun’altro, con quell’impeto tipico del suo carattere, sentendosi dentro la forza di un toro e la simpatica arroganza che gli coronava la testa e lo faceva pavoneggiare come un gallo, unito a quell’acquisita e spontanea disciplina che lo aveva portato a ricoprire, per più di vent’anni insieme a sua moglie Anna, il ruolo di fattore di quest’azienda di proprietà della contessa Donna Elda Ciacci Piccolomini d’Aragona. Ti confesso che con me, pur essendo suo figlio, non si è mai confidato molto; perciò, quando ti prendeva a braccetto e sottovoce ti raccontava i suoi piccoli segreti, ti guardavo con un po’ d’invidia. Con lui, abbiamo incominciato a conoscerci e a comprenderci solo quando ormai il male che aveva scandito il tempo della sua dipartita, lo aveva spinto ad aprirsi con me in modo viscerale. Mio padre mi manca proprio e il vuoto lasciato da lui ha cambiato tanto quel ragazzo spensierato che conoscesti molto tempo fa; un cambiamento costruito sul bordo di un letto d’ospedale non pensando minimamente che potessero nascere momenti speciali di relazione e confidenza tali da unire in maniera indissolubile un figlio e un padre durante l’ultimo mese della sua vita. Adesso, con amarezza, ammetto di essermi trattenuto troppe volte dal dirgli molte cose, non trovando il coraggio di raccontarmi, anche quando mi apprestavo a ritardare quell’addio che mi pulsava dentro. Da quel momento la vita mia e di Lucia è cambiata: si sono rafforzate le nostre responsabilità - affrontate con l’entusiasmo e la passione proprie di mio padre Giuseppe - e, proseguendo sul solco da lui tracciato, entrambi abbiamo abbandonato le nostre attività. Io ho abbandonato la bicicletta e l’ho attaccata ad un chiodo; da lì, ogni giorno mi rammenta non solo i tempi dei successi e della mia spensierata gioventù, ma anche la caparbietà, il sacrificio e lo spirito di abnegazione alla fatica che ho sempre dimostrato di avere e ora più che mai, sento animare in me. L’esperienza di quello sport mi ha fortificato ed è stata di grande aiuto per decidere le azioni con le quali percorrere, nel modo più giusto, le strade che mi avrebbero condotto verso i miei obiettivi. Non posso più contare sull’ombra delle amorevoli ali protettive di mio padre, né crogiolarmi all’idea della sua onnipresenza che lo spingeva a prodigarsi e a risolvere ogni situazione, ottenendo, spesso, audaci risultati. Adesso possiamo contare solo sulle nostre forze. Dal 2004 ad oggi abbiamo costruito una nuova cantina, ristrutturando gran parte dell’intera filiera produttiva dell’azienda e affrontando con serenità anche il momento di crisi sopraggiunto nel frattempo, non demordendo mai, convinti come siamo dell’importanza e della necessità di promuovere non solo il carisma del vino che produciamo, ma anche l’immagine

di un territorio unico come quello di Montalcino. Certezze che, ahimé, qualche volta sono attaccate da fattori esterni difficili da controllare e vacillano un po’; in quelle occasioni ripensiamo a nostro padre, nella speranza che Giuseppe ci stia ancora guardando e approvi le nostre scelte. Purtroppo la realtà mi riporta subito ai mille problemi della quotidianità e quel velo di tristezza che appare nei miei occhi, scompare, per lasciare spazio all’ottimismo con il quale vivo la vita. Così mi rigetto ora in mezzo ai vigneti - impreziositi da nuovi e più moderni impianti collocati nei terreni più vocati - ora in cantina, dove condivido le scelte con mio cognato Mauro, che si occupa della commercializzazione. Nel nostro piccolo stiamo cercando di ridare una nuova identità a Montalcino, ormai sviluppatasi a dismisura, ricercando il battito del cuore che, neanche tanti anni fa, regolava il divenire di questo territorio. Un impegno costante, condiviso felicemente oggi con mio figlio Alex, il quale, da giovane puledro di vent’anni, ha cominciato a camminare al nostro fianco in quest’azienda, rimboccandosi le maniche e impegnandosi anche nei lavori più umili. Spesso mi fermo ad osservarlo e constato quanto sia grande la sua determinazione nell’ascoltare per imparare i miei insegnamenti - cosa che forse io non ho fatto con mio padre - e mi emoziono quando mi racconta dei suoi sogni o di cosa potrà essere in futuro il lavoro per il quale si sta prodigando molto, come mi riempie il cuore sentirlo parlare, con disinvolta padronanza della lingua inglese, nelle degustazioni in giro per il mondo. È in quei momenti che vorrei fosse presente mio padre, perché potesse sentirsi anche lui orgoglioso, come me, di vedere quanto la storia della nostra famiglia sia proiettata verso un nuovo divenire.


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CIACCI PICCOLOMINI D’ARAGONA

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG VIGNA DI PIANROSSO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese Grosso provenienti dal vigneto Pianrosso, di proprietà dell’azienda, situato in località Castelnuovo dell’Abate, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine eocenica, di medio impasto e galestro, ad un’altitudine compresa tra i 240 e i 360 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Sangiovese Grosso (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vasche di acciaio termocondizionate, si protrae per circa 14 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 32°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda delle annate, per altri 6-7 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino rimane ancora in acciaio, a svolgere la fermentazione malolattica; in seguito viene spostato in botti da 20 a 62 Hl di età diverse in cui rimane per 36 mesi; durante questo periodo si effettuano alcuni travasi. Terminata la maturazione e dopo alcuni mesi di decantazione in vasche di vetro-cemento, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 53.000 bottiglie circa Note organolettiche: Il vino si presenta all’esame visivo con un colore rosso rubino intenso, quasi impenetrabile, con un’unghia bordeaux e riflessi purpurei vivi e lucidi. Al naso, profondo, intenso ed estremamente ampio, propone note floreaali di pot-pourri di fiori appassiti, percezioni balsamiche che si mescolano a ricche note di macchia mediterranea, alloro, ginepro, salvia e corteccia di quercia da sughero. In bocca è sapido, caldo, morbido, di grande intensità; decisamente persistente, con tannini eleganti e buona acidità, chiude con una lunga scia di confettura di frutti di bosco e nuances speziate di cannella. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Bianchini dal 1985, l’azienda agricola si estende su una superficie di 200 Ha, di cui 40 vitati, 40 occupati da oliveto e il resto a seminativi e bosco. Svolge le funzioni di agronomo Paolo Bianchini. Collabora in azienda l’enologo Paolo Vagaggini.

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COL

D’ORCIA

Francesco Marone Cinzano


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UN IMPEGNO CHE VIVO COME UN DOVERE Amo dirlo a tutti quelli che vengono qui a trovarmi: non c’è altro luogo al mondo dove si produca un vino come il Brunello di Montalcino, realizzato in purezza, con l’utilizzo delle uve di un vitigno straordinario come il Sangiovese.

È stata questa considerazione il punto di partenza con cui dirigo Col d’Orcia da oltre 20 anni, impegnandomi, con regole quasi monacali, a dare continuità alla storia di quest’azienda, contribuendo a valorizzare, con serietà ed etica, lo stesso comparto vitivinicolo del territorio ilcinese, convinto come sono che il futuro stia nell’unicità, nell’irripetibilità e nell’identità di quest’area e di questo straordinario prodotto. Un impegno vissuto basandomi sul secolare rapporto che la mia famiglia ha con il vino e produrlo è diventata una scelta di vita che mi ha portato a girare il mondo e a percorrere nuove strade, nell’ottica di migliorare l’esistente, sperimentando nuove frontiere, nella certezza che qualsiasi vino io facessi sarebbe dovuto essere figlio solo della terra - che è madre - e mio - che ne sono il padre: figli sempre diversi fra loro, a seconda della latitudine dove sono stati procreati. È di questa diversità che mi sono innamorato ed è nell’accettazione delle singole peculiarità e in quelle importanti e basilari differenze, capaci di creare il distinguo fra vino e vino, che io mi perdo. Un impegno che vivo come un dovere, assolto anche grazie a questo paesaggio, nel quale scopro, giornalmente, il piacere di accostarmi alla bellezza assoluta, non dissimile, e forse anche più intensa, di quella che mi offre l’arte che amo tanto, simbolo emozionale di un sentimento irrazionale vissuto come un percorso dell’anima, al quale m’approccio con lo stesso pathos con cui mi avvicino ad un quadro, ad una scultura, ad un’opera d’arte, delle quali mi divertivo un tempo, come battitore, a raccontare le meraviglie per conto della casa d’aste Christie’s. Queste dolci colline che digradano verso il fiume Orcia sono una ricchezza artistica che cerco di salvaguardare, attivandomi per consolidare il ruolo relazionale che esse hanno con questo terroir, esaltandone tutti gli elementi che con loro interagiscono e le rendono magiche e che spaziano dal vino alla genuina semplicità delle persone che le abitano, dal fascino rurale e architettonico del paesaggio che esse compongono alla qualità della vita che qui diventa poesia. Un territorio dove molti vorrebbero venire ad abitare, così da provare il lusso di de-urbanizzarsi, mentre moltissimi altri vorrebbero avere almeno una volta nella vita l’occasione di poter venire a conoscerlo, scoprendo così, come ho fatto io, da buon piemontese quale sono, il fascino che esso racchiude. Tutto questo rappresenta il punto di forza con cui ho definito le strategie commerciali necessarie a supportare l’economicità di quest’azienda, ritenendo che, in un mercato globale ingolfato da una vastissima offerta di vini e da tanti nuovi, giovani e agguerriti paesi vitivinicoli emergenti, la sola possibilità per renderci visibili, in una miriade d’etichette, era produrre vini che fossero l’espressione, universalmente riconosciuta, della tradizione enologica

della terra irripetibile alla quale appartengono. Ricordo che quando nel 1977 entrai in azienda, il nome del Brunello e quello di Montalcino incominciavano ad apparire timidamente sui mercati, riuscendo a porsi quasi in antitesi con la curiosità che suscitavano, a quei tempi, i Supertuscans e altre nuove tipologie di prodotti enologici di questo tipo. Avendo preso coscienza immediatamente di dove mi trovassi e dell’importanza del movimento enologico avviato sul territorio da poche menti lungimiranti, decisi di affacciarmi a quei tempi “moderni” investendo nella ricerca e nello sviluppo dei vigneti di Sangiovese, focalizzando l’attenzione sulla selezione clonale, sui sistemi d’impianto e d’allevamento e su tutto il comparto agronomico aziendale, avviando una zonizzazione di tutti i terreni. Fu un grande e importante lavoro che portai a termine con l’aiuto di Edoardo Virano e di una squadra di collaboratori, motivati e appassionati, con i quali siamo riusciti a dare un senso al vino che produciamo, dalle grandi potenzialità, non del tutto espresse e che, in un futuro prossimo, ci riserverà delle sorprese ancora più stupefacenti, soprattutto quando avremo l’esito del grande lavoro di ricerca avviato su alcuni cloni di Sangiovese di grande pregio, messi a dimora già da molti anni. Un impegno che ha comportato grossi investimenti, ma anche risultati gratificanti per Col d’Orcia, la cui esperienza ho cercato di esportare anche in un’altra mia avventura vitivinicola effettuata oltreoceano, a Caliboro, in Cile, in una zona rurale estremamente vocata che mi ricorda molto la Montalcino del mio arrivo vent’anni fa, quando ancora c’era l’entusiasmo di ampliare gli orizzonti e la capacità di confrontarsi con il mercato per espandere la notorietà e la visibilità di questo territorio. Quell’entusiasmo apparteneva ad un mondo rurale che è andato via via annacquandosi, impegnato sempre più a rincorrere facili guadagni, cercando di tirare il collo a quella gallina dalle uova d’oro che potrebbe essere, ancora per lungo tempo, questo territorio.


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... in questo paesaggio, scopro, giornalmente, il piacere di accostarmi alla bellezza assoluta, non dissimile, e forse anche piÚ intensa, di quella che mi offre l’arte che amo tanto...


COL D’ORCIA

Brunello di Montalcino DOCG Riserva Poggio al Vento Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Poggio al Vento, di proprietà dell’azienda, posto in località S. Angelo in Colle, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine eocenica, ad un’altitudine compresa tra i 320 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese grosso (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza/quarta decade di settembre, si procede alla selezione manuale e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica, ad una temperatura controllata inferiore a 30°C. La macerazione dura 25 giorni in vasche di acciaio inox basse e larghe in modo da avere un più ampio contatto tra le bucce ed il mosto per una maggiore estrazione polifenolica. Follature giornaliere al mattino, rimontaggio alla sera. In seguito il vino viene messo per la maturazione in botti di rovere di Allier e di Slavonia dove sosta 4 anni; seguono oltre 2 anni di affinamento in bottiglia, il tutto in ambienti termocondizionati. Quantità prodotta: 22.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino con riflessi purpurei, il vino si presenta all’esame olfattivo con un bouquet importante e complesso che spazia da profumi leggermente balsamici che si aprono a note di frutta matura tra cui prugne e ciliegie sotto spirito, macchia mediterranea ricca di finocchietto selvatico, mentuccia e ginepro, per finire con percezioni di caffè, orzo, foglie di tabacco e liquirizia dolce. In bocca ha una struttura lineare, sapida, con una fibra tannica pulita, equilibrata e vellutata. Densità tannica e lunga scia sapida per un vino che chiude su note minerali mescolate a ricordi di ciliegia. Prima annata: 1982 Le migliori annate: 1985, 1988, 1990, 1995, 1997, 1999, 2001 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 7-8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 30 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Marone Cinzano dal 1973, l’azienda agricola si estende su una superficie di 540 Ha, di cui 142 vitati, 30 occupati da oliveto e 250 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’amministratore delegato Edoardo Virano, l’agronomo Giuliano Dragoni e l’enologo Antonino Tranchida.

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COLLEmASSARI

Maria, Claudio, Maria Iris Tipa


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il mio grande amore per il mare e per il vino Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte de l’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir fra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei.

Così tra questa

immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare.

Giacomo Leopardi, L’infinito

Era tanto che non salivi a Poggi del Sasso e sono contento che tu lo abbia fatto, così potrai renderti conto dei risultati ottenuti dal lavoro svolto in questi anni insieme a mia sorella Maria Iris - che mi ha consentito di fare un investimento così importante - e a mia moglie Maria. Ti ricordi cosa c’era qui dieci anni fa? Non credo tu possa aver dimenticato lo stato di abbandono in cui gravava questa proprietà che acquistai nel 1999. Oggi tutto è molto diverso da allora. Sarai stupito dall’armonia delle ordinate geometrie degli 80 ettari di vigneti, ritagliati a triangolo o a trapezio, che intarsiano i fianchi delle colline, e dell’oliveto, posto in cerchio intorno al castello, completamente restaurato, e di come abbiamo sistemato la viabilità delle strade poderali, una volta impraticabili. Non c’è più nessuna gru ad intralciare la vista di questo paesaggio e quel cantiere con il quale ho condiviso, per anni, i ritmi della mia quotidianità, e mi ha consentito di realizzare le innumerevoli opere che avevo in mente e che sono ora qui davanti ai tuoi occhi, è sparito. Non ti nascondo di essere felice e soddisfatto, poiché ogni cosa è il risultato della grande passione profusa in quest’azienda da ogni membro della mia famiglia. In fondo, non poteva essere diversamente, dato che Collemassari è stato un amore a prima vista, quasi irragionevole: un colpo di fulmine che mi spinse ad andare avanti senza pormi troppe domande, senza verificare quale fosse la reale qualità dei terreni, senza calcolare i risvolti economici dell’operazione intrapresa, né quali potessero essere le potenzialità e le possibilità future di un’azienda vitivinicola situata a Poggi del Sasso, in una zona completamente sconosciuta come era, allora, questa del Montecucco. Un amore travolgente senza un attimo di esitazione, ripensamenti o titubanze. Da anni volevo cimentarmi nel mondo del vino, poiché, nonostante i miei molteplici impegni imprenditoriali, non avevo mai smesso di mantenere viva in me la memoria del vino di nonno Giovanbattista, da lui prodotto in Tunisia, dove sono nato. Con quella passione dentro, mi spin-

gevo annualmente a Montalcino, dove acquistavo vino, divertendomi poi ad imbottigliarlo ed etichettando ogni bottiglia in una sorta di gioco rituale atto a continuare quella sana tradizione familiare. Con questa idea mi misi alla ricerca di una proprietà da acquistare. Doveva essere in Toscana, vicino a Roma, dove abitavo, e a due passi dal mare, la mia più grande passione. Non avrei mai potuto stare lontano da quell’habitat naturale, ma soprattutto non avrei saputo separarmi dal vento e dall’emozionante fruscìo di una vela che si gonfia e ti spinge ad infrangere le onde del mare. Ma come avrei potuto coniugare il mare e il vino? Quando “approdai” a Collemassari, compresi che qui tutto era esattamente come andavo disegnando e immaginando da tempo nella mia mente. Mi bastò poco per capire, dopo il primo impatto, cosa vi fosse al di là delle mura diroccate del castello o oltre l’incuria e lo stato di abbandono dei terreni. Non mi preoccupavano i mille lavori che sarebbero stati necessari per restituire a questo luogo la sua armonia naturale: mi bastò vedere in lontananza una striscia di mare delinearsi all’orizzonte, oltre le mura, per lasciarmi conquistare. Tutto mi sembrò splendido, magico e sufficiente per farmi sentire a casa. Oltre queste motivazioni ve ne erano altre, forse più importanti, che interagiscono con il recondito desiderio che ogni uomo ha di tracciare un proprio solco nella vita, lasciando un ricordo tangibile del proprio passaggio su questa terra. Ma oltre questa profonda aspirazione, vi era anche la consapevolezza che non possiamo darci valore da soli, ma, realizzandoci in ciò che facciamo, abbiamo sempre bisogno di veder riconosciuta la nostra opera dagli altri: è forse questo che mi ha condotto a profondere così tanto impegno in questo luogo. Avevo appena compiuto cinquant’anni quando arrivai a Collemassari, con la piena coscienza di essere nel “mezzo del cammin” e di aver compiuto ormai il primo giro di boa della mia vita: davanti a me solo il secondo tratto di lasco prima di arrivare al traguardo.


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Considerazioni che espressi a me stesso con quella franchezza, anche un po’ rude, che mi ha insegnato il mare; mi dettero un ulteriore stimolo e mi spinsero ad agire con maggiore determinazione e pragmatismo in questa avventura. Se mi guardo intorno, mi sembra incredibile di essere riuscito a realizzare tutto questo in un tempo, tutto sommato, così breve. Ma c’è ancora molto da fare per realizzare quei piccoli sogni che ho ancora chiusi nel cassetto; spero di concretizzarli presto, così da poterli condividere con la mia famiglia e i miei nipoti, ai quali cerco di insegnare l’amore per la terra e per le vigne, attraverso dei piccoli gesti, come quello di piantare insieme a loro una barbatella di vite o un olivo e consolidare, sempre più, il loro legame con questo territorio. Un legame vivo, forte, capace di condurmi ad ulteriori sforzi fra i quali anche quello che mi vede impegnato, per oltre metà della mia giornata, come Presidente del Consorzio della DOC Montecucco, un incarico svolto con passione e con quello spirito “militante”, intriso di un forte senso di responsabilità, con il quale espleto mille incombenze quotidiane, oltre a quelle pertinenti un’azienda di oltre 450 ettari. Un dovere che mi spinge a fare tutto il possibile, poiché ho la certezza della bontà degli obiettivi da raggiungere per valorizzare questo territorio, pur avendo la sensazione, certe volte, di sentirmi isolato e senza un adeguato supporto che dovrebbe venire spontaneo da una base associativa, la quale, invece, ancora stenta a convincersi di quanto l’unità di intenti sia la forza per questa piccola denominazione. Avrei voluto si venisse a creare un gruppo, affiatato e nutrito, in grado di lavorare insieme, ma constato che ancora c’è bisogno di tempo perché le cose cambino. Non mollo e vado avanti, deciso, come sempre, cercando di immaginare come sarà qui tra dieci o vent’anni anni, quando, forse, ci incontreremo di nuovo e potrò mostrarti chissà quali altre nuove cose, facendoti degustare l’evoluzione dei nostri vini e parlandoti, ancora, di dove sarò stato condotto dal mio amore per il mare e per il vino.


COLLEMASSARI

MONTECUCCO DOC SANGIOVESE RISERVA LOMBRONE Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti Vigna Vecchia e Diga, di proprietà dell’azienda, situati in località Poggi del Sasso, nel comune di Cinigiano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trova su terreni argillosotufacei e calcareo-marnosi, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 340 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Le vigne sono condotte con metodo biologico. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla fine di settembre, si procede alla selezione manuale e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti autoctoni, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tinelli di rovere troncoconici aperti da 12 Hl, si protrae per circa 15-20 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti follature manuali (3 al giorno; una ogni 8 ore). Dopo la svinatura, il vino è posto in botti di rovere da 40 Hl dove svolge la fermentazione malolattica, e qui, dopo la sfecciatura, prosegue l’invecchiamento per 24 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi circa. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 24 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6.000 bottiglie circa Note organolettiche: All’esame visivo offre tratti cromatici di un bel rosso rubino; il bouquet olfattivo è intenso e piuttosto maturo con intriganti note di frutti rossi di sottobosco, viola, spezie e cacao a cui si aggiungono poi ricordi balsamici e di liquirizia per un naso di austera morbidezza e di personalità certa. All’esame gustativo risulta validamente complesso, caldo, morbido, sapido, evidenziando tannini nobili e un carattere deciso che lo contraddistingue; di ottima struttura, lunghezza e persistenza, offre un finale con sensazioni avvolgenti di vaniglia e marasca. Prima annata: 2004 Le migliori annate: 2004, 2005 Note: Il vino, che prende il nome dal fiume Ombrone che attraversa la DOC di provenienza, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Claudio e Maria Iris Tipa dal 1999, l’azienda agricola si estende su una superficie di 450 Ha, di cui 80 vitati, 25 occupati da oliveto, 120 da seminativi e la restante parte da bosco; inoltre la tenuta è attorniata da boschi demaniali per ulteriori 1200 Ha. Collaborano in azienda l’agronomo Giuliano Guerrini e l’enologo Luca Marrone con la consulenza dell’enologo Maurizio Castelli.

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COLOGNOLE Cesare Coda Nunziante, , Gabriella Spalletti Trivelli , Mario Coda Nunziante


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MANTENERE L’IDENTITÁ, LA TRADIZIONE E I VALORI ETICI Noi non siamo soltanto vignaioli, ma cultori di una tradizione agricola sviluppatasi su questo territorio situato ad est di Firenze, tra i 250 e i 980 metri s.l.m., dal quale si gode uno splendido paesaggio che si distende dai rilievi degli Appennini, lungo il fiume Sieve, fin giù all’Arno.

Terre difficili, morfologicamente aspre, che solo la mano dell’uomo ha reso fruttifere, dando loro dignità e fruibilità, fin da quando, nel 1716, furono inserite nel Bando del vino, voluto da Cosimo III de’ Medici, fra le più importanti zone vitivinicole del Granducato insieme a Greve in Chianti, Carmignano e alle colline dell’alto aretino. A quest’opera ha contribuito anche la nostra famiglia, di origini emiliane, a partire dalla fine del XIX secolo, quando la Contessa Gabriella Spalletti Trivelli, nonna ed omonima di nostra madre, e suo marito Venceslao, Senatore del Regno d’Italia, decisero di acquistare la settecentesca Villa di Colognole e i suoi 700 ettari di terreni. Una proprietà abbastanza vicina alla Capitale, dove si era appena trasferito il Governo da Torino, con il preciso obiettivo di valorizzarla in termini produttivi, qualitativi ed economici, facendola diventare presto un punto di riferimento nell’àmbito enologico e arrivando ad ottenere, nel 1899 e nel 1901, riconoscimenti prestigiosi a livello nazionale con i vini prodotti. Presto questo luogo divenne un punto di aggregazione per tutta la famiglia - anche per le generazioni successive, compresa la nostra - intorno al quale rinsaldare l’importante legame che ci congiunge alla nostra storia e dove sentirci uniti; ci accadeva per esempio quando ci recavamo qui in vacanza, partendo per un certo periodo dalla Calabria - dove abitavamo ed eravamo proprietari di una bella proprietà lungo la costa - e dopo da Roma, dove andammo a vivere, negli anni Settanta, quando quelle terre calabresi ci furono espropriate. Quella notorietà enologica si affermò soprattutto a partire dagli anni ’30 con l’arrivo in azienda dei figli di Venceslao, nostro nonno Cesare e suo fratello Giambattista, fino al punto di attrarre l’attenzione del gruppo Cinzano il quale, intorno agli anni ‘70, rilevò inizialmente le quote azionarie di nostro zio e successivamente quelle di nostra madre, diventando così proprietario dell’azienda e, con essa, del marchio Spalletti, ormai conosciuto un po’ ovunque nel mondo. Rimanendo proprietaria della terra, la nostra famiglia ebbe la fortuna di non seguire il processo di internazionalizzazione degli anni Ottanta, avviato da quel gruppo divenuto una multinazionale; infatti nostra madre, dopo alcuni anni necessari a riorganizzare l’azienda e l’attività produttiva, ha avuto nel 1990 la possibilità di iniziare nuovamente a imbottigliare ed etichettare il vino che avevamo sempre prodotto, commercializzandolo, però, con il nome della Fattoria: Colognole. Dopo qualche tempo e diversi momenti di riflessione, seguendo strade differenti che ci condussero ad acquisire esperienze eterogenee, mio fratello Mario ed io decidemmo di affiancare nostra madre nella conduzione di quest’azienda, scoprendo immediatamente quanto fosse

faticoso mantenere l’identità, la tradizione e i valori etici sui quali si era fondata la storia di questa tenuta. Difficoltà che ci spingevano a ricercare delle soluzioni, convenendo, nelle nostre lunghe chiacchierate, che un’azienda con una superficie così estesa e con solo 27 ettari di vigneto e 22 di oliveto, era di difficile gestione, avendo dei costi vivi talmente onerosi da risultare quasi insostenibili. Comprendemmo che era indispensabile far fronte agli stessi con una maggiore dinamicità a cui abbinare una visione strategica più idonea ai tempi che stavamo vivendo. Così, puntando proprio sul valore offerto dalla dimensione aziendale e dal bellissimo e variegato sistema paesaggistico all’interno della proprietà, decidemmo di far risaltare e sfruttare quella naturale potenzialità, operando al meglio per rendere eco-sostenibili tutti gli investimenti da approntare per preservare lo splendido territorio che avevamo ricevuto in custodia. Con quest’idea in testa, Mario ed io, condividendo qualsiasi decisione e analizzando le reali capacità di questo territorio, abbiamo puntato alla valorizzazione delle singole produzioni come espressione fedele di questo terroir, a partire dal vino, innalzandone la qualità attraverso la ricostituzione, negli anni, del parco vigneti e la ristrutturazione della cantina, per poi passare all’incremento dell’area olivicola e al conseguente perfezionamento qualitativo del nostro olio extravergine di oliva, all’avvio del programma di restauro degli immobili, grazie al quale oggi siamo in grado di offrire una buona ricettività e un’offerta ristorativa di grande soddisfazione, arrivando, di fatto, a riorganizzare tutta l’azienda, dove sono in corso anche progetti sperimentali, che daranno i loro frutti nel prossimo futuro, come quello dell’allevamento del bestiame allo stato brado - negli oltre 100 ettari di pascolo sparsi nella proprietà - e quello della coltivazione dei castagneti, con relativa lavorazione dei frutti. Senza dimenticare il nostro maggiore investimento in termini di tempo, dedizione e denaro, vale a dire il lungo percorso per affermare un brand, quello di Colognole, che sia sinonimo di un format di qualità, dall’ospitalità al vino, dall’olio alla caccia, dall’ambiente al patrimonio immobiliare. Un impegno costante, attento, qualificato, manageriale, che ci ha portato a ricostituire l’immagine e il fascino dell’azienda di un tempo, seguendo un programma ben preciso ancora di là dall’essersi concluso, nel quale non ci siamo dimenticati di tutelare le relazioni con la gente del luogo, connotate da estrema vicinanza umana, solidarietà e apertura: quei valori che sono sempre stati per noi una ricchezza enorme e a cui spesso attingiamo.


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... quei

valori che sono sempre stati per noi una ricchezza enorme e a cui spesso attingiamo.


COLOGNOLE

CHIANTI RUFINA DOCG RISERVA DEL DON Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione di uve Sangiovese provenienti dai migliori vigneti di proprietà dell’azienda, posti in località Colognole, nel comune di Pontassieve, le cui viti hanno un’età compresa tra gli 8 e i 14 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di medio impasto, tendenzialmente limoso-argillosi e ricchi di scheletro proveniente dalla disgregazione dell’Alberese, ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 520 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est, sud e sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 4.000 ceppi per Ha nei vigneti re-impiantati negli anni 1995-97 fino ai 5.700 ceppi per Ha negli ultimi vigneti re-impiantati dal 2006 al 2009 Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase si protrae per circa 7-10 giorni ad una temperatura compresa tra i 19 e i 26°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino viene mantenuto in acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale è spostato parte in barriques di rovere francese di Allier da 225 e 500 litri di primo e secondo passaggio, parte in botti di rovere di Slavonia da 25-30 Hl in cui rimane per 15-18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 2-3 mesi. Terminata la maturazione e dopo 2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 18 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 15.000 bottiglie circa Note organolettiche: Il vino si presenta con un colore rosso rubino dai riflessi granati; l’esame olfattivo parte con profumi di piante officinali come alloro e timo, oltre ad una forte note di corteccia di quercia; piano piano vengono poi in evidenza percezioni di viola e fiori di campo che si mescolano a nuances di spezie dolci e tabacco mentolato. In bocca è molto elegante ed equilibrato, con una struttura tannica ben presente, ma morbida e sorretta da bella acidità e discreta sapidità; la beva, lunga e persistente, si chiude con ricordi di sottobosco. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1994, 1995, 1999, 2001, 2004, 2006 (non prodotto nel 2002 e nel 2005) Note: Il vino, che prende il nome dalle usanze della mezzadria, quando i mezzadri a fine raccolto destinavano al proprietario della terra (il “Don” appunto) - oltre alla quota di sua spettanza - quella piccola porzione di raccolto considerata migliore, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Spalletti Trivelli dal 1892, l’azienda agricola si estende su una superficie di 650 Ha, di cui 55 vitati, circa 22 occupati da oliveto specializzato, 200 da seminativi e quasi 400 da bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Massimo Achilli e l’enologo Andrea Giovannini.

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CONTUCCI

Alamanno, Ginevra, Andrea Contucci


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Un viaggio in simbiosi con l’arte e con il “saper fare” Vado sempre volentieri a Montepulciano e ogni occasione è buona per lasciarmi coccolare dagli amici (che qui ho numerosi), dalla sua gastronomia (che mi ha spinto a scrivere anche un libro sull’argomento) e dal Sangiovese, che qui acquista peculiari caratteristiche capaci di renderlo nobile per chi nobile abbia l’animo, come certamente aveva il Poliziano declamando le sue rime alla corte del Magnifico Lorenzo dei Medici.

Mi piace camminare per le sue strade, sulla pietra antica di travertino con i colori sfumati dal bianco al noce, entrare nelle viuzze di segno medioevale, fiorite nel Rinascimento, segnate da piccoli archi, stretti e alti, che conducono a Piazza Grande e al suo pozzo - il pozzo dei Grifi e dei Leoni - intorno al quale, spesso, trovo gruppi di turisti intenti ad ammirare la bellezza del luogo. Una nuova occasione di venire in questa cittadina che domina la Val di Chiana mi è stata data dalla cantina Contucci, presso la quale oggi ho appuntamento. Ad attendermi nella cantina posta proprio sul lato destro di Piazza Grande trovo Alamanno Contucci, erede di un’antichissima famiglia di Montepulciano. Cortesemente, lo seguo al secondo piano del palazzo, opera mirabile di Antonio da Sangallo, e mi ritrovo al centro di un salone affrescato da Andrea Pozzo agli inizi del Settecento. Non nascondo il mio stupore e, in silenzio, rimango attonito davanti alla bellezza di questa stanza, dove sono raffigurate, nella volta, il Trionfo della Virtù sui Vizi e, nelle pareti, altre figure allegoriche che costituiscono il patrimonio spirituale della famiglia. È il “bello” che si concretizza e mi emoziono ad osservare i trompe l’oeil sconfinanti in un paesaggio e in vedute di archi e colonne classiche, che sembrano sorreggere la volta, sospesa fra nuvole, cieli infiniti e angeli con le loro trombe - posti accanto allo stemma di famiglia, su cui spicca un unicorno - che mi ricordano quale sia il suono della storia che arricchisce questo luogo. Infatti non basterebbe forse un libro per raccontare la storia di questa famiglia, che vive qui a Montepulciano da un migliaio di anni e di cui Alamanno è il gioviale interprete, ricevendo nelle sue antiche cantine i numerosi turisti che contraccambiano quel suo sorriso con un: “Oh... Great Vino Nobile!”. I Contucci commercializzano vini da secoli, vantando forse, ma senza pretese, il titolo di “padri putativi” di questa “Nobile” arte enologica come risulta dall’Oenologia Toscana del Villafranchi del 1773 - o come attestano vari documenti notarili, alcuni dei quali notificano il loro ingresso nell’elenco ufficiale delle famiglie nobili di Montepulciano (Decreto del 28 gennaio 1762). Così, senza fretta e senza sosta, come sostiene Alamanno riprendendo una frase di Goethe, l’azienda ha operato, con un attivo sincretismo di elementi, con la storia che l’accompagna, con la spinta di quella distintiva unità familiare, con il proseguimento delle virtù e dei valori trasmessi all’uomo e dettati dal buon vivere e dal buon gusto. Un viaggio in simbiosi con l’arte e con il “saper fare” ha consentito il raggiungimento di brillanti risultati, fra i quali - forse il più importante - quello di non aver mai abbandonato l’antica strada che,

da secoli, li identifica con la stessa Montepulciano. Fiero, Alamanno mi mostra, tra gli affreschi, il suo nome parzialmente scritto, Alam, che spunta da un’epigrafe coperta da un tendaggio vellutato. Lo osservo raccontarsi, mentre gli sottopongo molteplici e contraddittori appunti, che non gli fanno mai perdere il filo del suo discorso. Con savoir faire e sorridente, mi illustra cosa la sua famiglia ha realizzato a livello enologico e come non si sia mai adagiata sui successi ottenuti con i propri vini dal taglio antico e poco inclini al soddisfacimento dei palati internazionali, ma forse più appaganti per chi, invece, cerca in essi la tradizione e la vera tipicità di un territorio. Un indirizzo che non è mai venuto meno, anche quando altri, in zona, prendevano più comode strade “commerciali”, legittime quanto mai, ma distanti da quella storia alla quale lui sente di appartenere, imponendosi un’etica che non applica solo ai suoi vini, ma anche ai suoi figli e al nipote, sui quali punta per continuare quest’attività familiare e verso quella stessa comunità di Montepulciano, ricevendo, dalla stessa, l’opportunità di ricoprire ruoli di primissimo piano nelle associazioni, nei consorzi e in altri organi cittadini, avendo così l’occasione di trasferire agli altri la sua cultura rivolta alla ricerca del “bello” dovunque esso si manifesti. Attraversiamo stanze e salotti prima di approdare in cantina e in quel suo raccontarsi mi accorgo quanto ancora tenga in mano le redini di quest’azienda e sebbene confessi come sia sua intenzione mettersi da parte per agevolare sua figlia Ginevra - occupata nella parte amministrativa - e Damiano, l’altro figlio - che già si interessa dell’aspetto agronomico dei vigneti - e il nipote Andrea - impegnato nel settore commerciale - sono ben lungi dal venire i tempi in cui si metterà in pensione a riposo, vista la sua abitudine a solcare il palcoscenico della vita. Ma è bene che sia così, in quanto ancora sprigiona l’energia di un giovane ed è il punto di forza dell’azienda: prova ne è che è ancora lui, col suo fidato cantiniere Adamo, a presentarmi i suoi vini. E mi racconta e parla, scendendo nei particolari, delle vigne e della cantina in un susseguirsi incantevole che suggella il dictat del Contucci docet, che lo induce, con signorile buon gusto, a produrre vino senza prendersi troppo sul serio e sorridendo, poiché chi sorride - come dice lui - non è mai pericoloso. Lo saluto soddisfatto, non solo per aver avuto l’occasione di conoscere una bella persona - che fra l’altro mi ha dato l’opportunità di tornare in questa splendida città - ma anche per aver compreso quanto ancora io debba essere riconoscente a questa Toscana del vino, dalla quale, in questo mio viaggio, traggo spunti meravigliosi per raccontare sempre nuove storie.


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... vini dal taglio antico e poco inclini al soddisfacimento dei palati internazionali, ma forse piĂš appaganti per chi, invece, cerca in essi la tradizione e la vera tipicitĂ di un territorio


CONTUCCI

VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO DOCG RISERVA Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione della selezione delle migliori uve provenienti dai vigneti dell’azienda, posizionati nelle zone più alte e meglio esposte, in località Salarco-Pietrose-Mulinvecchio nel comune di Montepulciano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni argillosi di origine Pliocenica, ad un’altitudine compresa tra i 400 e 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese (Prugnolo Gentile) 80%, Canaiolo nero e Colorino 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini d’acciaio, si protrae per circa 20-25 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura per lo stesso numero di giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in tini d’acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in botti di rovere (francese e di Slavonia) da 10-15 Hl, in cui rimane per un minimo di 36 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione, e dopo 3 mesi di decantazione in tini d’acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10-12.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino con riflessi granati, il vino offre al naso una ricca sequenza di sensazioni olfattive che spaziano dalle percezioni fruttate di ribes neri, mirtilli e more a note più complesse di tamarindo, radice di liquirizia, foglie di alloro e bacche di ginepro. In bocca risulta elegante ed esprime una solida struttura, armonioso tra tannini solidi ed equilibrati e delicata morbidezza; lungo e decisamente persistente, chiude con un ricco finale di spezie dolci, tabacco e cioccolato. Prima annata: Prodotto da sempre, è il vino “storico” dell’azienda. Le migliori annate: (ultimi 10 anni): 1999, 2001, 2004, 2005 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 6-7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 35 anni. L’azienda: Di proprietà della Famiglia Contucci dal IX secolo, l’azienda agricola si estende su una superficie di 170 Ha, di cui 22 vitati, 7 occupati da oliveto e 141 da seminativi e bosco. Gli aspetti agronomici ed enologici sono curati direttamente dai proprietari.

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Andrea Costanti


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costruire vini in grado DI esprimere IL VALORE del territorio in cui nascono Ci sono amicizie che nascono così, spontanee. Non c’è un motivo speciale o un evento che, in qualche modo, ne abbia determinato i natali, né una complicità specifica o una quotidianità capace di spingere due persone ad una fraterna convivenza.

Nascono inspiegabilmente, forse perché si ha solo voglia che fioriscano e rimangano vive, fregandosene del tempo e dei lunghi periodi di silenzio, poiché sono amicizie capaci di rinvigorirsi ad ogni occasione. È così anche quella nata fra me e Andrea Costanti, consolidatasi piano piano, basata sul rispetto reciproco per il lavoro svolto da entrambi intorno al mondo del vino e che ci consente, ogni tanto, di incrociare le nostre strade. Anche questa volta è così e trovo straordinario il fatto di sentir vivo in noi il desiderio e la capacità di rapportarsi con la stessa semplice e trasparente schiettezza che ha caratterizzato tutti i nostri precedenti incontri. Nulla è cambiato, come non è mutata la pianta del glicine posta al fianco della porta della cantina, dove è da oltre cento anni, come l’armoniosa struttura del caseggiato e lo stesso ufficio, disposto nello stesso modo in cui lo avevo trovato anni addietro: è come se il tempo si fosse fermato e il presente di questa cantina non appartenesse all’oggi, ma a quel trapassato remoto nel quale si è disegnata la storia del Brunello, che ha visto i suoi primi vagiti proprio fra queste botti. Un passato difeso con coerenza, senza proclami o comunicati stampa, con la classe e la signorilità di chi non ha bisogno di gridare per affermarsi, né di sventolare gli stendardi di una nobiltà vissuta più come stato d’animo che come aristocrazia. Segni incisi nel passato di questa famiglia senese presente a Montalcino a partire dal 1555, la cui storica traccia vitivinicola inizia molto prima di quel documento, datato 1870, che trovo appeso alle pareti dell’ufficio di Andrea, in cui si attesta come Tito Costanti presentasse, ad un’esibizione sui vini della Provincia Senese, vini con il nome di Brunello. Un parallelismo temporale confermatomi anche da Franco Biondi Santi - incontrato anch’egli di recente - evidenzia come questa casata possa essere annoverata fra quelle tre o quattro aziende che hanno dato origine a un movimento vitivinicolo che solo un secolo dopo prenderà coscienza delle sue antiche origini. Mi affascina quella figura di uomo, il quale, pur professionalmente impegnato nell’avvocatura, riuscì

ad iniziare tutto questo e mi lascio trasportare nella sua conoscenza dal racconto di Andrea, intriso di simbolismi e di particolari con i quali potrei scrivere un libro. Un susseguirsi di parole, scandite da chi ha la sensibilità e la consapevolezza di essere entrato in punta di piedi, venticinque vendemmie or sono, in questo mondo vitivinicolo montalcinese a lui estraneo fino al momento in cui lo zio di suo padre, nel 1983, non gli propose di prendersi cura dell’azienda. L’intelligenza deve poi aver fatto il resto, impedendogli di essere condizionato da facili entusiasmi e dalle mode, che, come una malattia, hanno purtroppo colpito molti vignaioli di quest’area, preservando la tradizione e lasciando che la stessa mutasse con la lentezza con la quale invecchia il suo Brunello. Una lentezza dovuta e rispettosa anche del tempo necessario affinché ogni chicco d’uva maturi, accettando, attraverso il vino, anche la forza dell’imperfezione che potrebbe essere insita in quell’acino, salvaguardandone la sua unicità e il dialogo che esso instaura con la natura. Da tempo so che Andrea non è mai stato interessato a costruire vini perfetti, ma soltanto a quelli in grado di esprimere il valore del territorio in cui nascono, modellato dall’opera laboriosa di chi, come lui, è capace di plasmare la materia di questo paesaggio e far parlare le pietre con le quali costruisce l’arte di fare vino. Con questo pensiero programma il suo presente, ponendolo in sintonia con l’alternarsi delle stagioni che regolano il lavoro in campagna, non rinunciando però a godere di tutte le cose belle che la vita gli propone, convinto che il suo calice sia sempre “mezzo pieno”. Così come non è mai stato interessato all’aspetto economico di questo lavoro di vignaiolo, ma piuttosto alla qualità della vita che lo stesso offre per raggiungere soddisfazioni personali e governare quello spirito libero che lo anima, con il quale affronta la sua quotidianità senza timore alcuno, consapevole di pagare di persona il prezzo di un errore, essendo vivo in lui il pensiero di Oscar Wilde “vivi come se morissi domani e pensa come se dovessi vivere in eterno”.


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BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine calcarea (Galestro), ad un’altitudine compresa tra i 310 e i 440 metri s.l.m., alcuni con un’esposizione a sudovest, altri alla sommità della collina. Uve impiegate: Sangiovese (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 4.000 ai 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito tra la fine di settembre e gli inizi di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 14 giorni ad una temperatura compresa tra i 22 e i 30°C, con délestages e rimontaggi giornalieri. Successivamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, dalle 2 alle 3 settimane. Dopo la svinatura, il vino viene mantenuto in acciaio per la fermentazione malolattica, alla fine della quale viene travasato e sfecciato, poi passa in tonneaux, in cui sosta 18 mesi; dopo viene spostato in botti di rovere di Slavonia in cui rimane per altri 18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione e dopo 2-3 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 30.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino profondo con riflessi granati, al naso il vino si propone con ampia ed intensa impressione olfattiva articolata su immediate note di corteccia, sottobosco, foglia di tabacco e percezioni di frutta matura in confettura. All’esame gustativo è caldo, avvolgente, austero, elegante, con tannini fitti, setosi e nobili; lunga la persistenza, con una chiusura che riporta alla mente nuances di spezie e tabacco. Prima annata: 1964 (esistente in cantina; testimonianze datano fine ‘800) Le migliori annate: 1964, 1967, 1970, 1975, 1983, 1985, 1988, 1990, 1995, 1997, 2001, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 8-10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 25 anni. L’azienda: Di proprietà di Andrea Costanti dal 1983, l’azienda agricola si estende su una superficie di 25 Ha, di cui 10 vitati, 2 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Lucio Maruotti e l’enologo Vittorio Fiore.

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LA TERRA AMICA A CUI DEDICARE LA VITA Maria Caterina si era chinata sfiorando con la mano l’erba umida di rugiada, forse per comprendere quanto si riconoscesse in quel gesto di confidenza con la terra e quanto quel contatto epidermico le arricchisse ancora l’anima.

Un gesto consapevole, prezioso, utile per capire, forse e ancora una volta, quanto davvero fosse indispensabile vivere con l’opportunità di ripeterlo quotidianamente. Un atto semplice che la disponeva benevolmente verso quella terra amica cui aveva deciso di dedicare la vita, non solo per continuare a valorizzare l’azienda di famiglia creata da suo nonno e perfezionata da suo padre, ma anche per quel valore antico in essa racchiuso che l’arricchiva di un’infinita bellezza, prossima all’universo e a quel Dio, tanto pregato, per portarla ad addolcire quel suo rigido carattere, vincendo i timori e i dubbi che l’avevano assalita quando aveva dovuto abbandonare la musica, l’arte e le sue passioni giovanili, nella speranza di riuscire, un giorno, a coniugarle con la nuova professione intrapresa nell’azienda vitivinicola. Accarezzando i verdi capelli di quel prato, si domandava cosa ne fosse stato di quella giovane donna esuberante che, con risoluta fermezza, tanti anni fa, aveva abbandonato il canto per dedicarsi al vino. Si sentiva diversa, migliore e armoniosamente in equilibrio con il mondo circostante e quel pensiero la fece sorridere, addolcendole i lineamenti del viso. I momenti difficili del suo ingresso in azienda e più in generale nel mondo del vino, così distante dagli studi che aveva intrapreso e da quella passione che l’aveva spinta a calcare i palcoscenici dei teatri, sembravano ora lontani; le incomprensioni, le paure e le incognite erano state riposte in un angolo lontano del suo cuore, dove, all’occorrenza, poteva attingere per ricordarle. Momenti passati, che avevano lasciato spazio ad altri, più luminosi, nei quali la conoscenza aveva scacciato l’ignoranza del suo “non saper fare”, dandole la possibilità di comprendere le reali potenzialità della professione di vignaiola e spronandola a misurarsi, crescere e riscoprire se stessa, colmando, consapevolmente, la distanza che lei stessa aveva costruito fra l’arte del canto e il vino: due mondi che le sembravano contrapposti e vissuti interiormente come se uno fosse il diavolo e l’altro l’acqua santa. Tutto le sembrava essersi svolto in un attimo, come se le cose avessero seguìto il ritmo di quella melodia cantata abitualmente accompagnandosi con il suono del suo pianoforte. Si rialzò e annusandosi istintivamente il palmo della sua mano, profumato di buono, sentì riecheggiare una canzone nella testa e le sue labbra iniziarono a muoversi intonando un dolce e silenzioso canto che l’accompagnò fino a casa. Fra quei filari le ritornarono in mente gli amici con i quali poteva trascorrere solo sporadici, sebbene intensi, momenti di relax; insieme le tornarono alla memoria alcuni volti tra quelli delle molte migliaia di persone conosciute in giro per il mondo per promuovere la sua Montepulcia-

no, ai quali trovò il piacere di sorridere. Un sorriso spontaneo, nato dalla certezza che il suo lavoro era ormai diventato la sua vita: anche il vino, insieme alla musica, l’aveva aiutata a costruire un ponte per unirsi agli altri, spingendola a rifiutare l’essenzialismo che sa porre regole ferree al proprio mondo e la filosofia della contrapposizione, mai costruttiva, abbracciando invece quella della comunione, sposando il nuovo che in lei avanzava. Pensieri che attingono alla sua fede cristiana e a quella Santa Caterina da Siena di cui porta il nome. Anche il tempo che trascorreva spedito, sebbene ancora inesorabile, non aveva più un grande significato e quel frenetico inseguire gli appuntamenti, che le riempivano la giornata, diventava sempre meno gravoso e non aveva il peso di qualche anno addietro. Tutto ora sembrava rispondere ad una piacevole e più lineare normalità, costruita forse da un disegno divino che aveva tracciato il suo destino e, pur spingendola a vivere in modo ragionato, con gli anni era diventata meno prepotente e più rassicurante e la aiutava a scoprire il “bello” in ogni singolo particolare e in ogni momento del suo vivere quotidiano. Ogni cosa, dai filari di viti alla sua terra, all’uva, a quell’erba appena sfiorata con quel suo gesto rituale, fino alle sue passioni, che ritornavano ad esserle compagne, diventava qualcosa di straordinario, linfa vitale di un più sobrio cammino. Ora tutto le sembrava più chiaro e tutto pareva appartenerle, dissolvendo definitivamente quel mistero che, con un viaggio a ritroso, l’aveva portata alle sue radici, facendole ritrovare il coraggio di essere se stessa.


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Un sorriso spontaneo, nato dalla certezza che il suo lavoro era ormai diventato la sua vita...


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VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO DOCG RISERVA BOSSONA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Bossona, di proprietà dell’azienda, situato nella località omonima, nel comune di Montepulciano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 16 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni tufacei di origine arenaria, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Controspalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.700 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti indigeni, è avviato alla fermentazione alcolica, che avviene in acciaio inox ad una temperatura controllata compresa tra i 26 e i 28°C; segue la macerazione sulle bucce per 28 giorni. Al termine della vinificazione il vino viene spostato in tonneaux da 7,5 Hl in cui rimane per 36 mesi. Terminata la fase di maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie circa Note organolettiche: Il vino veste il bicchiere di un colore rosso rubino con riflessi caldi, vivi e scintillanti che tendono al granato. Al naso si apre lentamente, proponendo prima note di humus e foglie macerate, fiori di campo secchi, garofano, mandorla e mallo di noce, per poi offrire altre percezioni floreali di mammola, viola e più sottili nuances di petali di rosa. Con il passare del tempo lo spettro olfattivo si amplia su profumi fruttati del sottobosco, tra cui fragole selvatiche e more, e ricordi speziati di cannella e caffè. Armonico, elegante, di buona complessità alla beva, risulta, in ingresso, più austero, ravvivato da una gradevole verve sapida di calibrato calore alcolico. Elegante e severo, si presenta lungo e persistente, con un finale in cui spiccano aromi di ginepro e pepe nero. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999, 2001, 2004 (il vino è prodotto solo nelle migliori annate) Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto da cui provengono le uve, raggiunge la maturità dopo 6-7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Dei dagli anni ‘70, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, di cui 55 vitati, 5 occupati da oliveto e 45 da seminativi e bosco. Collabora in azienda svolgendo le funzioni di agronomo e di enologo Nicolò D’Afflitto.

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Lavinia, Alessandra, Niccolò, Isotta, Fabrizio Dionisio


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UmILTÀ ED INFINITO RISPETTO PER LA TERRA caro anDrea, grazie. grazie Di essermi venuto a trovare, Di aver apprezzato il mio sYrah e Di aver selezionato la mia azienDa per questo tuo ultimo lavoro eDitoriale.

Ti scrivo, poiché, quando sei venuto, ho avuto il timore di apparire ruffiano nel dirti che, da molto tempo, seguo con passione il tuo modo di narrare, dentro e intorno al mondo del vino. Ho sfogliato e letto gran parte delle tue opere che sono in bella mostra nella mia biblioteca, all’inizio comprimendo dentro di me il moto d’invidia suscitato da quei grandi viticoltori che tu descrivi, sognando, in cuor mio, di avere anch’io, un giorno, la possibilità di essere annoverato in una di quelle prestigiose selezioni che effettui in giro per l’Italia. So per esperienza che dietro ad ogni cosa e a qualsiasi lavoro - sia quello di realizzare un libro o un vino - ci sono sempre delle persone e, dopo averti conosciuto, ho potuto appurare quanto sia vera questa definizione, comprendendo la filosofia e la qualità della tua opera, generata dall’immediatezza, dalla sensibilità, dal talento e dalla passione; sensazioni che nascono spontanee in chi, come te, ha deciso, osato e scelto di fare il lavoro che ama. Ti ammiro per questo, perché anch’io vorrei arrivare, un giorno, a svolgere a tempo pieno il lavoro di vignaiolo, abbandonando definitivamente le scartoffie legate al sistema forense romano che, pur consentendomi di vivere in modo agiato, ti posso assicurare, in tutta franchezza, non potrò mai dire di amare. Come avrai capito, per essere un avvocato sono insolitamente timido, riservato e sensibile e queste doti non mi agevolano molto nel mondo crudo e cinico in cui mi trovo ad agire: amo la campagna, la Toscana e questa mia terra di Cortona, dove mi rifugio appena posso per dialogare con la natura. La nostra casa - “Il Castagno” - e la mia piccola cantina sono per me i luoghi dello spirito ed è forse per questa ragione che ho cominciato a fare vino: per aggiungere al bello qualcos’altro che sapesse di buono e raccontasse la dolcezza di questo luogo e quella del mio cuore, in modo da rendere ancora più vivo, vitale e prezioso ciò che amo. Non ti nascondo quanto mi piace l’idea di riuscire a proteggere quel fazzoletto di terra dal “brutto” che avanza, di coccolare i miei vigneti affinché diano un vino onesto, pulito, sincero e possibilmente che susciti emozioni. Mi esalta l’opportunità di produrre vini che siano l’espressione di un territorio, evidenziando la bellezza del luogo da cui provengono, fissando in quei “flaconi” le caratteristiche di ogni singola vendemmia nella quale mi adopero per una sua sempre migliore interpretazione. Odio i vini scontati e che ogni anno possiedono gli stessi parametri analitici, la stessa acidità e lo stesso grado alcolico. Amo, invece, i vini caratteriali, territoriali, mai uguali a se stessi.

Come hai potuto appurare, i miei vini sono così. Veri. Cercano di esaltare questo splendido terroir di Cortona, forse più delle stesse caratteristiche varietali, a partire dal Syrah fino al Merlot e al Cabernet Sauvignon che produco in quantità sperimentali. So bene che in giro per il mondo ci sono produttori più bravi di me, con maggiori possibilità e risorse economiche; però mi sento fiero, perché loro non sono a Cortona e non possiedono un luogo mistico come Il Castagno - o le vigne che lo circondano - e neanche Poggio del Sole, l’altro appezzamento dove ho il resto dei vigneti; quindi non potranno mai fare un vino come il mio, ed è questa la mia maggiore sicurezza. Ricordo ancora quando Gino Veronelli diceva che “un vino viene meglio... se proviene da un vigneto dove qualcuno ha fatto l’amore”; ebbene io credo, veramente, che la forza dei miei vigneti provenga dal “guardare” un panorama bello come quello di Cortona. Mi riesce difficile pensare ad un grande vino che non provenga da un vigneto situato in un luogo “bello”, così come mi rimane difficile pensare di poter fare un grande vino senza assecondare, con umiltà ed infinito rispetto, la terra, seguendo quel concetto di “obbedienza” a cui ti riferivi quando ci siamo incontrati. Non mi voglio prolungare oltre e rubarti del tempo, ma spero che tu abbia compreso quale sia l’emozione che provo facendo il vignaiolo a Cortona e in questa Toscana che non è una regione, ma uno “stato dell’animo”, una filosofia, un pensiero che si rinnova continuamente, dove si mescolano gli odori, i sapori, i rumori, il frinire dei grilli nelle notti d’estate, il bagliore delle lucciole e il chiarore della Via Lattea vista dal giardino di casa mia. Viverci è una benedizione e ancor di più l’esserci nati; e questo è un debito di gratitudine che tutti i toscani dovrebbero sentire verso la loro terra, impegnandosi a preservarla per le generazioni future. Ed è per questo che io, pur non essendo toscano, credo di potere percepire, meglio di chi a tanta bellezza si è forse assuefatto, quanto sia bella questa regione; non è un caso, quindi, che anelo di poter un giorno arrivare a viverci e riposarvi per sempre, cercando di restituirle, se mi sarà data la possibilità, ciò che mi ha regalato e ciò che continua a regalarmi. Se ci riuscirò, svolgendo il lavoro di vignaiolo con dedizione, sincerità, onestà ed onore, potrò dire di avere condiviso e fedelmente declinato, per quanto avrò potuto, nel mio infinitesimamente piccolo, l’anima della Toscana. Un forte abbraccio e buon lavoro. Fabrizio


... Ed è per questo che io, pur non essendo toscano, credo di potere percepire, meglio di chi a tanta bellezza si è forse assuefatto, quanto sia bella questa regione...

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DIONISIO FABRIZIO - IL CASTAGNO

CORTONA DOC SYRAH PODERE IL CASTAGNO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Syrah provenienti dal vigneto Il Castagno, di proprietà dell’azienda, situato in località omonima, nel comune di Cortona, le cui viti hanno un’età di circa 8 anni, con il contributo integrativo (ove ritenuto opportuno e/o necessario) delle uve Syrah provenienti dal vigneto Poggio del Sole, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 9 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni (terrazzi fluviali) di origine miocenica e pliocenica, caratterizzati da arenarie, marne e scisti, ad un’altitudine compresa tra i 280 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione varia (nord-sud/ est-ovest). Uve impiegate: Syrah (minimo 85% come da disciplinare DOC Cortona); finora 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati - solo qualora non parta spontaneamente la fermentazione con i lieviti indigeni - è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vasche di acciaio, si protrae per circa 15-20 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 5-10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in vasche di acciaio e/o cemento, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere francese da 2,25 Hl di primo e secondo passaggio, in cui rimane per almeno 12 mesi; durante questo periodo si effettuano periodici travasi. Terminata la maturazione e dopo opportuna decantazione in vasche di acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 3-6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino quasi impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con un bouquet estremamente piacevole, ricco e abbondante, che si apre a percezioni di frutti neri e rossi maturi tra cui marasche, mirtilli, prugne e confettura di more, per poi lasciare spazio a note balsamiche di tamarindo; completano lo spettro olfattivo bacche di ginepro e spezie dolci come cioccolato amaro, tabacco da pipa e cannella, dando l’idea di un equilibrato insieme e di un uso attento del legno. In bocca ha un’entratura piacevole, decisa, con una buona acidità, tannini ben armonizzati e di delicata morbidezza; caldo e corposo, nella lunga chiusura riporta alla mente i ricordi di frutti neri. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal toponimo in cui si trovano parte dei vigneti, le cantine e la casa, raggiunge la maturità dopo 2-3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Dionisio dal 1970, l’azienda agricola si estende su una superficie di circa 20 Ha, di cui 15 vitati, 3 occupati da oliveto e 2 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Federico Curtaz e l’enologo Attilio Pagli.

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EREDI

FULIGNI

Maria Flora Fuligni


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PROFONDO LEGAME D’AFFETTO CHE LEGA ALLA TERRA Dopo tanti anni, mi scopro ancora giovane dentro. Una percezione splendida, con la quale trovo la forza e il piacere, ancora oggi, di occuparmi attivamente di questa cantina.

Una sensazione acquisita negli ultimi anni, che trova la sua ragion d’essere in quel continuo dinamismo della mia vita, caratterizzata per trent’anni dall’essermi divisa fra l’insegnamento alle scuole elementari di Sant’Angelo e quest’azienda, che mio padre, Giovanni Maria Fuligni, acquistò nel 1923, subito dopo la Prima Guerra Mondiale. Dopo aver ricevuto in eredità vasti appezzamenti di terreno nella Maremma grossetana, concessi al mio antenato Luigi dal Granduca Pietro Leopoldo di Lorena, e dopo essersi innamorato di questo meraviglioso territorio di Montalcino, mio padre decise di comprare delle proprietà su queste colline, forse anche per allontanarsi da quelle terre malsane dove, a quei tempi, regnava la malaria. Alla sua morte, avvenuta nel 1971, con le mie quattro sorelle e mio fratello ci trovammo nella necessità di dover decidere cosa fare di questa proprietà, sulla quale gravava l’onere di una pesante conduzione mezzadrile dimostratasi incapace, fino a quel momento, di dare un sicuro contributo di sviluppo economico. Sarebbe stato facile vendere questa terra, come sarebbe stato facile perdere la speranza, legata all’impazienza, di aspettare che le cose maturassero e si evolvessero nella giusta direzione. Ciò che ci ha trattenuto e mi ha fatto poi diventare principale guida dell’azienda, è stato qualcosa di più importante delle difficoltà e dei problemi. È stato il profondo legame d’affetto che ci lega a questa terra. Un sentimento cavalcato con un’insospettabile determinazione, senza cedere il passo alle mode o a quel desiderio di affermazione che spesso coinvolge le nobili famiglie come la nostra quando devono decidere del loro patrimonio; ci siamo pertanto ritrovati uniti nel difendere ciò che ci era stato trasmesso, compreso quell’amore paterno verso il territorio di Montalcino, da conservare integro a tutti i costi, prevedendo già in quegli anni, con lungimiranza, il valore in effetti poi raggiunto nel panorama enologico mondiale. Con risoluta chiarezza, d’accordo con gli altri eredi, presi la direzione della proprietà. Per prima cosa affrontai l’annoso problema della mezzadria che vincolava qualsiasi progetto di sviluppo. Facendo affidamento sulla mia tempra e sulla mia capacità di risoluzione dei problemi ne arrivai a capo, anche se soltanto dopo lunghi anni di contrastate udienze nei tribunali. Sulle ali di quel successo e sull’entusiasmo che mi trasmettevano le innumerevoli cose da portare avanti in quest’azienda, iniziai ad agire, progettando il futuro e coniugando alla volontà di produrre vino, una mirata, attenta, oculata e rispettosa azione di valorizzazione e conoscenza del territorio a nostra disposizione. Un lavoro lungo e meticoloso, basato non tanto su specifiche strategie di marketing o di pubbliche relazioni, ma condotto in modo familiare, silenzioso, che spesso mi faceva sentire quasi come se fossi a capo di

una compagnia di ventura, retaggio, forse, di quando i miei avi, i visconti Fuligni, esperti in fatto di conquiste, scorrazzavano davvero per queste terre di Toscana. Per anni, uscita da scuola, dove trascorrevo le ore mattutine cercando di seminare pazientemente in quei bambini ancora acerbi il seme della responsabilità, del dovere, dell’etica e il piacere di sorridere alla vita, correvo in azienda, dedicando ad essa l’altra mezza giornata, al fine di risolvere le problematiche quotidiane e farla progredire, consolidando la sua immagine sui mercati. Sono passati quasi quarant’anni e sono ancora qui, a correre con lo stesso entusiasmo di un tempo, sorridendo quando le mie sorelle o mio fratello mi riconoscono delle virtù da leader - perché non so quanto sia vero - oppure quando in me trovano invece quella che, per esperienza o per virtù, riesce a decidere in tempi brevi e rapidi, percependo i bisogni di questa campagna e le cose necessarie da fare, affrontate con la stessa grinta di quel leone che troneggia nel nostro stemma di famiglia. Un’altra dote, posseduta e utilizzata, è stata la pazienza, la stessa applicata all’insegnamento e alle mie vigne, aspettando, in entrambi i casi, che ne maturassero i frutti. Sono fiera della scelta fatta da noi Eredi Fuligni di rimanere ad operare tra queste terre, nobili e antiche, sulle quali continuare a tramandare la vocazione della famiglia, perpetuando quei valori di ospitalità che hanno sempre caratterizzato quest’azienda, intraprendente ed operosa - in cantina come nelle vigne del Ginestreto, del Piano, della Bandita e di San Giovanni - in attesa che la vendemmia giunga ogni anno, come premio, a rallegrare non solo i tini, ma l’impegno di tutta una vita.


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EREDI FULIGNI

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG RISERVA Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese grosso provenienti dai vigneti dell’azienda, di proprietà della famiglia Fuligni, situati in località Cottimelli, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 12 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni del Pliocene ricchi di galestro, fossili e minerali, ferro e carbonato di calcio, ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a est. Uve impiegate: Sangiovese grosso (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato mono e bilaterale Densità di impianto: Varia a seconda dell’età dei vigneti fino a 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tank di acciaio, si protrae per circa 18 giorni ad una temperatura compresa tra i 18 e i 20°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che invece è limitata e svolta solo per i primi 10-12 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino rimane in acciaio e qui svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in tonneaux di rovere francese e in botti di rovere di Slavonia da 35 Hl in cui rimane per 36 mesi; durante questo periodo si effettuano almeno 6 travasi. Terminata la maturazione e dopo l’assemblaggio delle partite, il vino sosta 2 mesi in acciaio per un’ulteriore decantazione; poi è messo in bottiglia per un affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un bel rosso rubino con riflessi purpurei, il vino si presenta al naso con un bouquet ampio, profondo e minerale, con profumi eterei, di pietra focaia e spezie, cuoio, foglia di tabacco verde e senape che si vanno a sommare a piacevoli percezioni di macchia mediterranea, ginestra, alloro, timo, finocchietto selvatico, mentuccia e chiodi di garofano. Un percorso affascinante che si completa con lievi nuances di marasca sotto spirito per finire con note marcate di corteccia di legni pregiati e radice di liquirizia. In bocca ha un’entratura calda, morbida, elegante e di grande equilibrio, con una fibra tannica setosa che si appoggia ad una bella acidità: una struttura complessa e di grande armonia che in chiusura offre delicati rimandi balsamici. Prima annata: 1975 Le migliori annate: 1977, 1980, 1982, 1983, 1985, 1988, 1990, 1993, 1995 1997, 1999, 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 30 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Fuligni dal 1923, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, di cui 11 vitati e il resto occupati da 10 Ha di oliveto e da seminativi. Collaborano in azienda gli agronomi Federico Ricci e Lucio Moruotti e l’enologo Paolo Vagaggini.

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FATTORIA

COLLEVERDE

Piero Tartagni


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UN rapporto di reciproco scambio con IL territoriO Dopo tanti anni non riesco ancora a considerare questa mia attività come un lavoro. Basta fermarsi ad osservare queste colline, che delineano la morfologia dei 7 ettari di vigneti di Colleverde, per comprendere cosa stia dicendo.

Come posso identificare tutto questo con il lavoro? Le viti, gli alberi e le altre piante, educate e messe in ordine, compongono un ambiente figurativo di grande bellezza dove vivo questa parentesi lunghissima e straordinaria della mia vita, riuscendo a comprendere sempre meglio me stesso. Un luogo unico capace di trasformarmi e farmi vestire i panni del contadino-vignaiolo. Un processo evolutivo graduale, educativo, didattico, mai invasivo ma equilibrato, attraverso il quale si è instaurato un rapporto di reciproco scambio con questo territorio; attraverso un costante e quotidiano contatto epidermico con la natura e con la terra, sono arrivato a fondermi con esso e ad amare ogni giorno di più le sue prerogative artistiche e paesaggistiche, uniche per qualità e valore. Affacciandomi dalla cima di questa collina che ci sovrasta e guardando questa campagna, non pensavo che di lì a poco la mia vita sarebbe cambiata. Se non fosse stato per un collega regista che aveva girato un documentario sui ragazzi-padri, alcuni dei quali vivevano, ritirati, in questo luogo, oggi non sarei qui e, forse, con mia moglie Francesca saremmo rimasti entrambi a Roma a lavorare in Rai. Invece, incuriositi dal progetto di vita di quei giovani, ci spingemmo fin quassù per conoscerli, scoprendo non solo dei ragazzi meravigliosi, ma anche un ambiente straordinario che Francesca - pur conoscendo bene, dal momento che è nata e ha vissuto in questi luoghi fino al 1965 - non ricordava così bello. La tranquillità e la serenità percepite ci spinsero a comprare una casa - la stessa dove ora abitiamo. Decidemmo, da quel momento, di vivere i nostri futuri week-end in questo luogo, dando di fatto avvio a quello che, di lì a poco, sarebbe divenuto il nostro progetto di vita. Dopo neanche un anno, seguendo l’idea di Francesca, che in un primo momento mi sembrò folle, lasciammo entrambi il nostro lavoro e cominciammo una nuova vita a Colleverde, ponendoci in un’incondizionata simbiosi con questo ambiente, arrivando a pensare che, forse, era stato proprio lui a sceglierci come suoi proprietari e non il contrario. Poco dopo si instaurò un’interdipendenza anche con il vino: riconoscemmo il fascino e il misticismo in esso racchiuso, il quale si legava perfettamente all’idea di vita che avevamo deciso di vivere in questo luogo. Decidemmo quindi di provare a produrlo, tentando di rimettere in ordine quei pochi vigneti che avevamo trovato, constatando, subito dopo, quanto la realizzazione di

quell’idea iniziale dovesse essere suffragata da una maggiore conoscenza delle reali problematiche che interagivano nella sua filiera produttiva. Se è vero che la fortuna aiuta gli audaci, penso che a noi abbia strizzato l’occhio, dandoci la possibilità di incontrare, dopo un paio di anni, attraverso l’amico giornalista Cesare Pillon, l’enologo Donato Lanati. Con lui iniziò un lavoro straordinario; ci facemmo prendere per mano e ci lasciammo condurre nell’apprendimento e nella conoscenza dell’arte viticola, convinti fin dal primo momento di impostare la nostra avventura con un indirizzo biodinamico, in modo tale che le vigne trovassero da sole il loro equilibrio vegetativo e produttivo, al fine di ottenere, dai frutti donati da quelle piante, un vino buono e il più possibile salubre. Un’impostazione che, a distanza di anni, ha dato dei buoni risultati, ma che non ho mai vissuto in modo intransigente, bensì scientifico; a prescindere dalle indicazioni teosofiche della biodinamica, mi sono sempre messo nell’ottica di capire l’evoluzione del mio agire e la causa-effetto di certe pratiche e di ogni gesto o singolo elemento con il quale interagivo nel vigneto o in cantina. Tutto questo ha contribuito a realizzare un inimmaginabile processo di crescita, tecnico e umano, conducendomi a riconoscere quale sia il vero significato dell’obbedienza alla terra, spingendomi, ieri come oggi, a plasmarmi e adattarmi alle necessità delle mie viti, del terreno in cui sono allocate, in una continua, affascinante e coinvolgente evoluzione, dandomi sempre nuovi stimoli per proseguire su quel progetto di vita avviato con Francesca. Un viaggio iniziato una ventina di anni fa che mi ha condotto prima ad uscire dal mondo dell’etere e della comunicazione a cui, forse, non avevo più niente da chiedere e poi, attraverso questa piccola azienda, a rientrare in un altro universo, molto più complesso: quello del vino, al quale mi propongo, non disdegnando di sporcarmi le mani di terra nella vigna, con una ritrovata umiltà e un’originale produzione enologica interpretata in modo artigianale. Un progetto figlio dell’amore che mi unisce a Francesca e realizzato grazie ad una piccola comunità di persone le quali hanno deciso, volendosi bene e legandosi tra loro con rapporti leali, schietti e sinceri, di condividere questo nostro percorso di vita, al pari delle nostre vigne e della civiltà contadina che ha disegnato queste colline lucchesi, consentendoci di godere di questo meraviglioso paesaggio e diventandone amici.


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simbiosi con questo

... ponendoci in un’incondizionata , arrivando a pensare che, forse, era stato proprio lui a sceglierci come suoi proprietari e non il contrario

ambiente


FATTORIA COLLEVERDE

BRANIA DEL CANCELLO TREBBIANO DI TOSCANA IGT Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Trebbiano provenienti dal vigneto “al cancello” della Fattoria Colleverde, in località Matraia, nel comune di Capannori, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare, su terreni argilloso-calcarei, è situato ad un’altitudine compresa tra i 60 e i 90 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Trebbiano 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: La vendemmia avviene di solito a partire dalla quarta settimana di settembre. Dopo il raffreddamento delle uve in cella frigorifera alla temperatura di 3°C, si procede alla loro diraspatura, con ammostamento in vasca inox di almeno 12 ore ad una temperatura compresa tra 8 e 12°C. Seguono la svinatura, la pressatura soffice delle uve e il trasferimento del mosto in vasca di decantazione. Dopo 1216 ore di débourbage, una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 16°C, senza l’utilizzazione di enzimi, lo stesso è inserito in botti di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura da 225 lt; qui, svolge la fermentazione alcolica a temperatura ambiente per circa 6 giorni e il vino rimane nelle botti per i successivi 7 mesi, periodo durante il quale di solito svolge una fermentazione malolattica parziale e vengono effettuati periodici roulages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione. . Quantità prodotta: 3.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore giallo paglierino con riflessi dorati, il vino propone al naso note complesse, ampie e profonde di frutta matura a pasta gialla, fiori di sambuco e acacia, percezioni di camomilla, miele e semi di girasole. In bocca è fresco, sapido, ben strutturato, con un finale ricco e brioso che riporta alla mente le note fruttate alle quali, insieme alla lunga scia sapida, si aggiungono nuances burrose e accenni minerali. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1995, 2000, 2003, 2005 Note: “Brania” è un antico toponimo tardo-latino ancora molto usato a Lucca, che indica i terrazzamenti creati dall’uomo per l’allevamento di viti e olivi. Il vino raggiunge la maturità dopo 1-2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 6 anni. L’azienda: Di proprietà di Francesca Pardini e Piero Tartagni dal 1989, l’azienda agricola si estende su una superficie di 27 Ha, di cui 7 vitati, 12 occupati da oliveto e 8 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Mirko Andreucci e l’enologo Donato Lanati.

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fattoria

deL cerro

Guido Sodano


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identificarci con i territori contando sulle loro tradizioni e sui nobili princìpi dell’agricolturA Saiagricola è un gruppo leader nel settore agroalimentare. È un’idea, un modo di essere e una filosofia con la quale realizza prodotti che accentrano il valore del territorio in cui sono originati, così da farli apprezzare come valore relazionale di quell’italian style che le è proprio.

Una vera mission venutasi a concretizzare nel 1978, per gestire l’intero patrimonio del gruppo SAI, avviata per intuizione, volontà, passione e lungimiranza dall’ingegner Salvatore Ligresti, che ha unito, in un’unica realtà, più di 5000 ettari di territorio agricolo italiano, scelti nelle regioni da sempre vocate all’eccellenza. Una realtà unica nella quale entrai subito dopo essermi laureato in Scienze Agrarie nei primissimi anni ’90, per poi diventarne nel 1998 direttore commerciale e, nel 2000, a soli 33 anni, direttore generale; in Saiagricola sono quindi cresciuto come professionista in compagnia di “mamma Sai”, riuscendo ad diventare un po’ “uomo-azienda”, partecipando attivamente ad un’esperienza che mi riserva ancora interessanti e nuove pagine di storia da scrivere. Un crescente sviluppo che, nel tempo, ha consentito l’acquisizione di competenze sempre più specifiche nei vari settori: vitivinicoli, cerealicoli, passando dal tabacco ai frutteti, agli oliveti, fino all’enoturismo. Un excursus partito negli anni ’70 con l’acquisto, da parte dell’ingegner Ligresti, di SAI Assicurazioni e di tutte le aziende agricole a corollario della Capogruppo, come la Cascina Venerìa in Piemonte e Montecorona in Umbria - ex possedimenti per migliaia di ettari della famiglia Agnelli. Montecorona è la più estesa di Saiagricola, con oltre 2.000 ettari di superficie, mentre la Cascina Venerìa resta la più grande azienda risicola monocorpo in Europa. Dopo la Venerìa, contemporaneamente all’ideazione di un nome per questo gruppo di fattorie-modello degli Agnelli già negli anni ’30 e quindi la nascita della ragione sociale Saiagricola SpA, scatta l’acquisizione della Fattoria del Cerro a Montepulciano; fanno sèguito l’inserimento nel gruppo, nell’arco dei successivi trent’anni, di La Poderina a Montalcino, di Monterufoli nelle splendide colline pisane e di Còlpetrone, nella zona di Montefalco, in Umbria, avviando proficue collaborazioni commerciali anche con la tenuta dell’Arbiola, nella zona di Nizza Monferrato, in Piemonte. Aziende che, ogni volta, hanno rappresentato una nuova sfida, richiedendo l’avvio di un nuovo e articolato capitolo di ricerca e sviluppo in cui tener conto sia dell’impossibilità di applicare una ricetta prestampata uguale per tutte, sia della valorizzazione degli elementi di ogni specifico sistema

rurale e della cultura agricola che anima quei territori, così da esaltare le loro singole identità, caratterizzando di tipicità e territorialità ogni prodotto lì realizzato. Pertanto, abbiamo fatto sì che la Cascina Venerìa diventasse l’unica azienda risicola italiana di queste dimensioni in grado di controllare a pieno tutta la filiera produttiva, dalla conservazione e riproduzione in purezza delle sementi fino al confezionamento e alla vendita del riso raccolto, utilizzando, nei suoi 743 ettari, solo tecniche ecocompatibili per l’ottenimento del miglior riso possibile. La stessa qualità assoluta e autentica è stata ricercata nei 171 ettari di vigneto della Fattoria del Cerro, nei 63 ettari vitati di Còlpetrone, nei 16 di Monterufoli e nei 35 de La Poderina, ponendo la solita attenzione e salvaguardia dell’ambiente anche su tutti gli altri terreni che vanno a comporre il patrimonio agricolo aziendale, destinati a pascoli, boschi e seminativi. Un modo di operare mediante il quale non solo l’azienda ha acquisito un’ampia visione dello stato dell’arte del settore agricolo nazionale, ma ha consentito anche a me di ampliare la mia forse un po’ reticente e chiusa cultura piemontese, aprendomi ad una migliore comprensione delle innumerevoli sfaccettature che diversificano ogni singola area dove vado ad operare e della necessità di dovermi “lucidare le scarpe, bussare e chiedere permesso” prima di entrare in contatto con le stesse. Una forma di rispetto che mi trasmise mio nonno Giovanni, parlamentare in diverse legislature, co-fondatore della Coldiretti e vitivinicoltore nelle terre astigiane, al cui fianco ho imparato quale fosse il valore di quella artigianalità che lo identificava, capace di trasmettermi sempre un distinguo netto fra le varie aziende vitivinicole, importante in quell’epoca pre-metanolo; la stessa artigianalità che ho ritenuto doveroso riportare, anche se un po’ più in grande, come unico cliché utilizzabile in tutte le aziende del gruppo. Così, senza usare strumenti ricercati, né sofisticate strategie di marketing, né falsificate azioni di comunicazione, ci siamo sempre posti l’obiettivo di identificarci con i territori, contando sulle loro tradizioni e sui nobili princìpi dell’agricoltura, creando un brand che fosse sinonimo di qualità costruita con la testa e con il cuore, puntando alla qualità sul vino come sul riso, sull’olio extravergine d’oliva come sulla frutta fresca da varietà autoctone: tutti pro-


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dotti simbolo di quest’italia che cerchiamo, umilmente, di rappresentare, prodotti naturali, in grado di promuovere con semplicità il nostro saper fare, il nostro rispetto per l’ambiente. un messaggio chiaro, molto trasparente e, devo dire, molto apprezzato dai mercati esteri, più di quanto gli italiani credano. prodotti che necessitano di una supervisione continua in una realtà poliedrica, per cui, andando contro corrente rispetto a quanto fanno molte altre aziende, ci affidiamo ai giovani, a quelle risorse professionali emergenti che hanno la voglia e le capacità di guardare con occhi diversi il futuro, nel quale spero la Saiagricola possa avere sempre un ruolo di primo piano.


FATTOriA del CerrO

vino nobiLe di montePuLciano docG antica cHiusina zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (prugnolo gentile) e Colorino, provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Montepulciano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 25 anni. tipologia dei terreni: il vigneto si trova su terreni di medio impasto con presenza di conchiglie e sassi, ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. uve impiegate: Sangiovese (prugnolo gentile) 90%, Colorino 10% sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato densità di impianto: dai 3.300 ai 5.000 ceppi per ha tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 24 e i 26°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 15 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. dopo la svinatura, il vino svolge la fermentazione malolattica in acciaio e poi è posto in barriques di rovere francese da 225 lt di primo, secondo e terzo passaggio, dove sosta per 12 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 3-4 mesi. Terminata la maturazione e dopo 6 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 24 mesi prima della commercializzazione. quantità prodotta: dalle 10.000 alle 24.000 bottiglie circa, a seconda dell’annata note organolettiche: di colore rosso rubino di grande intensità, offre all’esame olfattivo profumi di frutti rossi maturi tra cui ciliegie, ribes, lampone, mirtilli e fragole di bosco che si aprono poi a percezioni di fiori appassiti, piante officinali di macchia mediterranea e melograno, per confluire in aromi di foglie di alloro e timo. in bocca ha un’entratura elegante, equilibrata, una struttura importante e tannini fini e compatti; nel lungo e persistente finale emergono piacevoli note balsamiche e di cioccolato. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1995, 1997, 1998, 1999, 2001, 2004, 2005 note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà di Saiagricola dal 1978, l’azienda agricola si estende su una superficie di 601 ha, di cui 171 vitati (93 iscritti all’Albo del Vino Nobile di Montepulciano), 13 occupati da oliveto, 241 a seminativi e 180 a bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Franco Fierli e l’enologo lorenzo landi.

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fattoria di

maGLiano Agostino Lenci


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La ricerca verso quella “bellezza” che arricchisce il mio animo

Non ho mai voluto vivere soltanto per amore della vita, né ho voluto amare solo per il gusto di voler bene a una donna,

“bellezza”, per essere soddisfatto della vita e riuscire a sopportarla.

ma ho cercato di crescere coniugando la ricerca alla

Questo è il mio genere di vita ed l’unico che io sappia vivere, come è l’unico che riesco a rappresentare e con il quale interpreto ciò che mi circonda. Il fatto di essere stato capace di razionalizzare questo pensiero applicandolo ad ogni cosa e ad ogni gesto compiuto, non mi ha reso fragile, anzi mi ha rafforzato nel perseguire le mie passioni. Così mi sono prodigato sia nel settore calzaturiero, dove sono stato impegnato per quasi trent’anni, sia in quello del vino, dove opero da non più di dieci. L’esperienza imprenditoriale dell’uno mi ha aiutato a costruire l’esperienza dell’altro, con una capacità non istintiva, ma ragionata, seguendo i princìpi cardine intorno ai quali ho edificato la mia esistenza, quali la coerenza, la rettitudine morale, la schiettezza e la severità, applicati prima su me stesso e poi sugli altri. Due attività ben distinte, ma unite da molteplici elementi, fra i quali un individualismo esasperato, lo stesso che segna un po’ tutta l’imprenditoria italiana. Se mi era stato facile comprenderne le ragioni dell’esistenza nel mondo della moda, mi è sempre stato difficile accettarlo nel mondo del vino, dove la capacità di interpretare gli aspetti pedoclimatci di un territorio e di trasformare i frutti che la natura stagionalmente dona, crea, già di per sé, un distinguo talmente forte, fra cantina e cantina, da dissolvere qualsiasi problematica legata alla concorrenza, quella che invece sorge abitualmente tra produttori. Una peculiare attitudine che marca anche questo macro territorio del Morellino di Scansano, dove solo ora si incominciano a percepire i primi bagliori di una maggiore coesione fra le aziende, con alcune delle quali ho avviato, di recente, delle politiche di promozione del territorio e alcune strategie commerciali, condividendo l’idea di spingere tutti insieme verso una maggiore valorizzazione delle grandi potenzialità di questa Maremma. Un’aggregazione, utile e indispensabile per progredire, impensabile solo fino a qualche anno addietro e la cui mancanza è da annoverare, forse, fra le principali cause del limitato sviluppo di quest’area vitivinicola dove approdai, quasi per caso nel 1998. Un’area scelta dopo essermi messo, qualche anno prima, alla ricerca di un’azienda nella quale poter dar sfogo alla mia passione per il

vino, sviluppatasi piano piano durante le innumerevoli serate trascorse nei ristoranti dei cinque continenti, quasi come compiacimento per quei continui spostamenti che l’impegno per l’industria calzaturiera, di cui ero titolare, mi costringeva a compiere per competere su un mercato sempre più globale. Ero stanco di viaggiare e stare in giro per il mondo per più di duecento giorni all’anno con un campionario di scarpe in valigia e un paio di tacchi in mano; come ero stanco di starmene lontano dalla mia famiglia, scoprendo, dopo ogni viaggio, che i miei figli diventavano sempre più grandi. Un impegno costante che incominciava a pesarmi e dubitavo anche delle ragioni che mi spingevano a compiere quei sacrifici. Dubbi sempre più presenti nella mia mente, nati soprattutto dopo un brutto incidente automobilistico in cui avevo rischiato di morire; quell’evento catartico era stato capace di modificare radicalmente le mie prospettive di vita e di riordinare le stesse priorità che fino a qual momento mi ero prefissato. Dopo aver venduto l’industria calzaturiera ad una multinazionale inglese, proprietaria di alcuni centri commerciali a Londra, mi misi alla ricerca di un’attività con cui vivere più tranquillamente rispetto a quel passato dal quale avevo appena preso le distanze, con l’idea di non dover rincorrere un nuovo business, ma di trovare nuovi stimoli, dando forza al desiderio di volermi misurare nel mondo del vino; ho scoperto solo successivamente quanto esso fosse non solo esaltante, ma anche impegnativo. Senza accorgermene, mi sono trovato nuovamente coinvolto nella risoluzione di mille altre difficoltà che in qualche modo hanno un po’ smorzato i miei iniziali entusiasmi, spingendomi, con il tempo e la maturità, a governare e a non farmi condizionare dalle mie passioni, arrivando a misurare le scelte e scoprendo come anche il vino non era altro che un nuovo strumento con il quale continuare la ricerca verso quella “bellezza” che arricchisce il mio animo; bellezza che trovo anche nel territorio di Magliano in Toscana e in tutta questa splendida terra di Maremma, dove ho la netta sensazione che non solo sia possibile raggiungere quel mio obiettivo, ma che io possa trovare sempre più amici con i quali condividere questo viaggio.


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...spingere tutti insieme verso una maggiore valorizzazione delle grandi potenzialitĂ di questa Maremma


FATTOriA di MAgliANO

moreLLino di scansano docG Heba zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Syrah provenienti dai vigneti Sterpeti e poggio bestiale, di proprietà dell’azienda, situati nelle omonime località, nel comune di Magliano in Toscana, le cui viti hanno un’età compresa tra gli 8 e i 10 anni. tipologia dei terreni: i vigneti si trovano su terreni di medio impasto con grossa presenza di scheletro, ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-sud. uve impiegate: Sangiovese 85%, Syrah 15% sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato bilaterale densità di impianto: 6.200 ceppi per ha tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tank di acciaio, si protrae per circa 12 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 7-10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. dopo la svinatura, il vino è posto in vasche di cemento, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale rimane per 6 mesi a maturare negli stessi contenitori. dopo di che il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. quantità prodotta: 130.000 bottiglie circa note organolettiche: di colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei, il vino si manifesta all’esame olfattivo complesso, ampio, strutturato, con percezioni caratterizzate da una stagionalità che in alcune annate propone piacevoli note fruttate di frutti neri e rossi maturi sorretti da una nota minerale di base che rimane sempre evidente e percettibile, la quale poi si apre o a nuances speziate o di macchia mediterranea in cui l’alloro, il ginepro e il rosmarino sono ben evidenti. in bocca è piacevole, elegante, equilibrato, con tannini morbidi che anche in bocca si accoppiano, come del resto le note olfattive, a una vena sapida e minerale; si dimostra lungo e persistente, confermando in chiusura le note fruttate. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001, 2002, 2006, 2007 note: il vino, che prende il nome dalla mai ritrovata città etrusca di heba, in cui sembra si trovassero tesori enormi, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Agostino lenci dal 1998, l’azienda agricola si estende su una superficie di 90 ha, di cui 47 vitati e il resto occupato da oliveto e bosco. Collabora in azienda l’enologo graziana grassini.

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fattoria

LavaccHio

Nathalie Lottero, Dimitri Sidorinko, Faye Lottero Sidorinko


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LA RICERCA DELLA TRADIZIONE CONTADINA PRESENTE SUL TERRITORIO Sono molteplici le motivazioni per le quali oggi mi trovo qui e, raccontandoti le stesse, potrei disegnarti, su un foglio, una serie di punti che hanno scandito il corso della mia vita, seguendo i quali mi sono mossa in questa tappa di avvicinamento che mi ha condotto su queste colline della

Rufina, alle spalle di Firenze.

Punti segnati con la forza dell’amore per mio marito Dimitri, per le mie figlie Charlotte e Sasha, per mio padre Marino, per la natura e per la campagna tutta, unendo i quali ho tracciato una mappa, che, ogni tanto, mi piace riprendere tra le mani, per capire dove ero e dove sono oggi, come donna e come imprenditrice. Una cartografia precisa del mio personale viaggio che mi ha condotto da Genova, dove sono nata, a Montecarlo, dove sono cresciuta con i miei genitori, mio fratello e mia sorella, poi a Chambéry, in Savoia, raggiungendo mio marito, ritornato alle sue terre natìe dopo aver abbandonato il calcio professionistico, fino ad arrivare qui in Toscana. Un viaggio lungo il quale si sono mossi gli ingranaggi del mio agire, spingendomi ad andare e venire da quel Principato che mi ero accorta - ancor prima d’iniziare l’Università e laurearmi in Giurisprudenza - di non apprezzare, poiché la frenetica mondanità della cittadina monegasca era lontana dal mio modo d’essere, semplice, schietto e sincero. C’era un motore implacabile dentro di me che mi spingeva a muovermi alla ricerca di un luogo nel quale radicarmi e mettermi alla prova per esprimere le potenzialità che sentivo appartenermi; un luogo dove poter far crescere i miei figli e, magari, costruire un futuro diverso da quello che mi offriva la mia precedente situazione. Se alla fine quel movimentato e altalenante susseguirsi dei punti sulla mappa si è arrestato, il merito è di mio padre, amante da sempre della Toscana: lui mi ha offerto l’opportunità di seguire quest’azienda agricola. Quando l’acquistò, nel 1978, dalla famiglia Strozzi, aveva come idea di rimetterla a posto, dato che gravava in uno stato di completo abbandono, al fine di ridarle un’economia di scala sufficiente per il suo sostentamento, cosa che avvenne nell’arco di qualche anno; essa divenne, contemporaneamente, non solo la meta delle nostre vacanze estive, ma anche il luogo dove poter riunire tutta la nostra famiglia, sparsa un po’ in giro per il mondo. L’amore che oggi provo per il mio meraviglioso lavoro, capace di mettermi in contatto con la terra e con questo sublime paesaggio, fu stimolato, però, dal mio lungo soggiorno, durato cinque anni, a Cham-

béry, dove, per la prima volta, compresi il significato delle alpestri atmosfere rurali dell’antica Savoia. Quei luoghi bellissimi mi riportarono alla mente la Toscana, scoprendo quanto certe sensazioni mi appartenessero e fossero radicate in me, avendole già vissute, pur non comprendendone fino in fondo il significato, durante le mie estati trascorse a Lavacchio, ravvisandomi su quale fosse il reale valore di quel principio naturale che avvolge queste colline della Rufina. Capii dove mi stavo orientando e quale scelta avrei dovuto affrontare per decidere dove arrivare. Quando dieci anni fa, nel 1999, mio padre mi chiese di venire in azienda per occuparmi del neonato agriturismo, non mi sembrò vero di dare una svolta al destino e di appagare quel desiderio che avevo covato per tanto tempo fra le scartoffie di uno sportello bancario così lontano dalla terra, dal cielo, dalle stelle, dalla pace e dalla rassicurante forza di quel cedro che, da oltre duecento anni, domina dal bordo della collina di Lavacchio la vallata sottostante. Una decisione presa tenendomi per mano con Dimitri, con il quale, per quattro anni, ci dedicammo all’attività ricettiva fino al punto di prendere, insieme a mia sorella Nathalie, che, nel frattempo, mi ha raggiunto, la direzione dell’intera fattoria. Con l’allegra e spensierata visione della vita che mi contraddistingue - in grado di scacciare qualsiasi ombroso pensiero - abbiamo cominciato un lento lavoro capace di muovere ogni ingranaggio di questa nostra società agricola, secondo un ordine ben definito che ci ha portato a modernizzare la cantina, a riqualificare il ristorante, a restaurare il mulino a vento, ad ampliare la ricettività agrituristica e i servizi connessi, fino ad arrivare a riconvertire la filosofia con la quale conducevamo i nostri terreni, pervenendo, oggi, a produrre vini e olio extra vergine di oliva biologici che sentiamo sempre più nostri e in crescente simbiosi con questo territorio. Una fattoria dove ogni atto è guidato dalla ricerca della tradizione contadina presente sul territorio e dall’unità che questa domus rappresenta per ogni operaio e per la nostra famiglia.


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Un viaggio lungo il quale si sono mossi gli ingranaggi del mio agire


FATTORIA LAVACCHIO

CHIANTI RUFINA DOCG RISERVA CEDRO Zona di produzione: Il vino é prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con una piccola aggiunta di Merlot) provenienti da un vigneto di proprietà dell’azienda, condotto in regime di agricoltura biologica, posto in località Montefiesole, nel comune di Pontassieve, le cui viti hanno un’età di circa 40 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni collinari ricchi di scheletro a matrice alberese, ad un’altitudine compresa tra i 400 e i 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sudest. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Merlot 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot Densità di impianto: dai 3.400 ai 6.800 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Durante la vendemmia, che avviene di solito nella prima metà di ottobre, si procede alla selezione delle uve in campo. Al riempimento del serbatoio vengono aggiunti lieviti selezionati. La fermentazione alcolica, svolta in tini tronco-conici di rovere francese, si protrae per circa 8 giorni ad una temperatura controllata compresa tra i 18 e i 30°C; dopo la fermentazione, si effettua anche la macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 18-20 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese, solo in parte nuove, dove svolge la fermentazione malolattica. L’affinamento in barrique ha poi una durata di 14-18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi a seconda delle necessità. Terminata la maturazione, e dopo una breve sosta in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 8.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino scuro quasi impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con polpose note di frutti maturi, tra cui prugne, more e mirtilli, che nel corso degli anni, con l’invecchiamento, si trasformano e si integrano con percezioni più intense di erbe officinali, spezie dolci di tabacco da pipa, toni minerali e accenni di china e cacao. In bocca risulta morbido, piacevole, equilibrato, ricco di una vena sapida che sorregge tannini vellutati; nel lungo e persistente finale emergono “pennellate” di confettura, spezie dolci e caffè tostato. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal secolare cedro del Libano di oltre 250 anni, diventato il simbolo della fattoria, raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Lottero dal 1978, l’azienda agricola si estende su una superficie di 110 Ha, di cui 21 vitati, 44 occupati da oliveto e 15 da seminativi e bosco. Ristorante e agriturismo completano l’offerta ricettiva dell’azienda. Collaborano in azienda l’agronomo Giovanni Cerretelli e l’enologo Stefano di Blasi.

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fattoria Le

PuPiLLe

Elisabetta Geppetti


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Da grande sognatrice come sono, vorrei poter avere una bacchetta magica È un sentimento forte quello che mi lega alla Maremma. Una terra ricca di contrasti, disegnata a tinte forti dall’uomo che sembra essersi divertito ad intingere il pennello nella terra, nella macchia, nei campi di grano e nelle vigne e a tratteggiare il paesaggio appena sotto l’azzurro del cielo.

Mi piace navigare con lo sguardo sulle colline che digradano verso il mare, luoghi che sento profondamente amici e nei quali mi ritrovo a sfogliare quel registro dove appunto la mia vita. Un quaderno con ancora molte pagine bianche, ma sul quale annoto le gioie, le delusioni, le paure e le speranze del mio passato, trasformatosi da quello agile e spensierato di un tempo in un più sicuro, risoluto e intraprendente divenire. Un percorso interiore che mi ha messo molte volte di fronte a me stessa, spingendomi a trovare decine di aggettivi con i quali descrivere i miei difetti e i miei pregi. Il tempo, poi, mi ha condotto verso una visione più serena e tranquilla del mio passato, e sono arrivata alla conclusione di ritenermi fortunata, poiché, in definitiva, ho sempre fatto ciò che mi piace fare e questa considerazione ha reso il tratto della mia scrittura sul mio quaderno più morbida e meno incisiva. Ora non mi interessa più quanto abbia dovuto combattere per affermarmi come imprenditrice e non mi interessa elencare le infinite battaglie che ho dovuto sostenere per far valere la mia dignità di donna libera e indipendente capace di affrontare il domani senza remore. Del resto, mi sono sempre messa in gioco, forse quanto e più degli uomini, e questo l’ho fatto a viso aperto, senza nascondermi. Una vita che si è dipanata fra il mondo del vino e chi ha provato a disegnarmi il destino, cercando di colorarmi o bruciarmi i sogni, ma non gliel’ho concesso, per cui tutto è avvenuto così come volevo accadesse e, forse, non poteva essere diversamente, essendo stata io stessa l’artefice ultima delle mie decisioni. Non nascondo di aver provato rabbia, amore e un’altra infinità di sentimenti che ho lasciato andar via senza rimpianti. Ora mi ritrovo a godere solo il presente e a concentrami principalmente sulle cose belle, sulle mie splendide figlie e su quest’azienda vitivinicola, lasciando che da sotto la pelle esca quella gioiosa e amabile donna etrusca, che c’è in me. Non so se sia stata la malattia o l’incombere degli anni: sta di fatto che i miei orizzonti si sono ampliati e mi hanno permesso di avere una visione diversa delle problematiche, delle aspettative e dei valori che fanno

parte della mia vita. Tutto mi sembra più chiaro e anche il mio sguardo è diventato più sereno, ma anche più critico, mentre il linguaggio è sempre più schietto e sincero. Un’evoluzione con i connotati di una vera e propria rivoluzione interiore che mi appaga pienamente, accorgendomi però che questo stato d’animo presenta delle controindicazioni capaci di mettermi in disaccordo con la negativa staticità di questo territorio e la stupidità di chi cerca di rovinarlo, certa, come sono, di aver fatto invece di tutto per proteggerlo. Quando vedo nascere nuovi vigneti là dove vi sono stati per secoli campi di grano o assisto al taglio di una quercia secolare o al fiorire di un’infinità di villette a schiera dove fino a poco tempo fa c’era un oliveto, mi rattristo e mi domando come questo sia possibile. Da grande sognatrice come sono, vorrei poter avere una bacchetta magica con la quale rimettere le cose a posto e riportare in auge quei colori a tinte forti con i quali uomini saggi e volenterosi hanno disegnato questo paesaggio. Troppi silenzi hanno accompagnato questo inarrestabile degrado architettonico e culturale; silenzi fra i quali, colpevolmente, inserisco il mio, essendo stata solo capace, per troppo tempo, di pormi un passo indietro e tacere, pensando che quel mio stare in disparte avesse il significato di una protesta silenziosa degna di attenzione. Mi sbagliavo, ma ora non voglio più tacere, né far finta di niente, poiché annesso al futuro di questo territorio c’è anche quello della mia azienda e non consentirò a nessuno di umiliarlo o far scomparire il mio passato, dove non ci sono solo delle colline che digradano verso il mare, ma anche la storia e la cultura di quei contadini impegnati nelle vigne, diventati ormai i miei amici e parte della mia famiglia. È anche grazie a loro che ho imparato a muovermi nel mondo vitivinicolo e ho ripreso in mano le sorti del mio vino, comprendendo profondamente di doverlo fare a modo mio, mettendoci la mia personalità e quelle idee sviluppate con il tempo, durante il quale l’azienda è cresciuta e, con essa, la mia consapevolezza di donna, fino a scoprirmi, nella trasparenza del mio animo, più serena e conscia di quali siano i risultati che intendo ottenere.


godere solomie il presente splendide figlie

Ora mi ritrovo a e a concentrami e su principalmente sulle cose belle, sulle quest’azienda vitivinicola, lasciando che da sotto la pelle esca quella gioiosa e amabile donna etrusca, che c’è in me.

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FATTORIA LE PUPILLE

MORELLINO DI SCANSANO DOCG RISERVA POGGIO VALENTE Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Poggio Valente, di proprietà dell’azienda, posto in località Pereta, nel comune di Magliano in Toscana, le cui viti hanno un’età compresa tra i 12 e i 38 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine arenario-limosa, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 330 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 95%, Alicante 3%, Merlot 2% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.500-5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 30 e i 32°C; segue la macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 15-20 giorni. Dopo la svinatura, il vino svolge, sempre in acciaio, la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere francese da 2,25 Hl (di cui un minimo del 40% nuove) in cui rimane per 15 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi e un taglio completo ogni 3 mesi. Terminata la maturazione e dopo 2-3 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 10-12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 54.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino intenso con brillanti riflessi purpurei, il vino si presenta al naso intenso e vinoso proponendo sentori di frutti rossi maturi, tra cui ribes e mirtilli, che “sterzano” poi su note di erbe officinali di macchia mediterranea, alloro, salvia ed eucalipto. Bocca sapida, piacevole, fresca; bella l’acidità e tannini morbidi e vellutati; il finale gioca su note fruttate di more e nuances di tabacco dolce. Prima annata:1997 Le migliori annate: 1998, 2001, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 12 anni. L’azienda: Di proprietà di Elisabetta Geppetti dal 1985, l’azienda agricola si estende su una superficie di 280 Ha, di cui 65 vitati e il resto occupati da oliveto, seminativi e bosco. Collabora in azienda l’enologo Sergio Bucci. Consulente esterno è Christian Le Sommer.

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fattoria

nittardi

Peter Femfert


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UN LUOGO MAGICO PER CHI VIVE CON E PER L’ARTE Felice spirto, che con zelo ardente, Vecchio alla morte, in vita il mio cor tieni, E fra mill’ altri tuo’ diletti e beni Me sol saluti fra più nobil gente; Come mi fusti agli occhi, or alla mente, Per l’ altru’ liate, a consolar mi vieni: Onde la speme il duol par che raffreni, Che non men che ‘1 disio l’ anima sente. Dunche trovando in te chi per me parla, Grazia di te per me fra tante cure, Tal grazia ne ringrazia chi ti scrive. Che sconcia e grand’ usur saria a farla. Donandoti turpissime pitture Per riaver persone belle e vive. Michelangelo Buonarroti, Le Rime - Sonetto a Vittoria Colonna

Forse nessuno meglio di uno “straniero” come me può comprendere quale sia l’anima profonda di questo paesaggio che sfugge, talvolta, alla visione degli stessi toscani, avvezzi come sono al bello, al punto da esserne quasi “insensibili”. Troppo abituati alla bontà del clima, del cibo e alla nobile semplicità della vita che questa terra magnanima regala loro, tanto da diventare rustici e di troppa genuinità; per dirla in una parola: sazi. Per me non è così. Dopo tanti anni, ancora sento lo stomaco e l’animo languire, tanta è la fame e il desiderio di nutrirmi, ieri come oggi, dello splendore che la Toscana sa regalarmi. Sono l’attrazione, il magnetismo e la riconoscenza a legarmi a questo Chianti: tutti sentimenti con i quali soddisfo la mia anima d’esteta. Non è un caso, quindi, che sia qui, dopo aver esplorato a piedi i deserti dell’Africa, solcato in barca a vela il Pacifico e l’Atlantico e visitato gran parte del mondo. La mia presenza non è dovuta al capriccio del destino, ma ad una ponderata scelta imposta dall’amore per l’arte e per Stefania, mia moglie, una splendida veneziana incontrata in un bel giorno del 1980; poco dopo l’ho sposata e lei non solo ha arricchito la mia vita - come tutte le cose belle - ma ha contribuito a farmi innamorare di questa terra, verso la quale ci sentivamo entrambi già predisposti, forse stimolati dall’inconsapevolezza della gioventù che ci spingeva a non aver paura di camminare su pietre appuntite e navigare in acque turbolente. Con lei condivido le passioni, i sogni, le gallerie d’arte moderna e contemporanea DIE GALERIE a Francoforte e a Seoul, l’amore per i nostri figli, Leon e Damiano, ormai cresciuti e diventati adulti, e la tenuta di Nittardi, il nostro Nectar Dei, il nettare degli Dei. Questo luogo rappresenta per noi non solo un’azienda vitivinicola di 29 ettari di vigneto tra il Chianti Classico e la Maremma - dove produciamo il Casanuova di Nittardi, il Nittardi Riserva selezionata, il Nectar Dei e l’Ad Astra IGT - e 120 di bosco - in cui trovano protezione alcuni ettari di oliveto - distribuiti armonicamente sul territorio, ma anche il luogo fisico in cui si è svolta parte della vita di uno dei più importanti artisti di quel Rinascimento che ha dato forma alla moderna cultura europea. Un luogo magico per chi, come me, vive con e per l’arte; qui è vissuto Michelangelo Buonarroti, proprietario della vallata e di gran parte dei terreni

che arrivano fino alla Piazza di Castellina in Chianti; egli aveva demandato al nipote, figlio del fratello, la cura della vasta tenuta, circondata da olivi vetusti e querce secolari, in posizione dominante tra le colline di San Donato in Poggio, Castellina in Chianti e Panzano. “Preferirei due botti di vino piuttosto che 8 camice” scrisse il Maestro, nel 1549, al nipote Lionardo, allo scopo di farsi inviare a Roma il vino di Nittardi per farne “un dono genuino al Papa”; un dono che, cinque secoli dopo, abbiamo voluto fare anche Stefania ed io a Papa Benedetto XVI, il quale ci ha ringraziato con uno scritto di suo pugno. Questa è una terra unica, vocata fin dal XII secolo alla viticoltura, ricca di cultura e di arte, che a Nittardi si arricchisce ancora, nelle sue più svariate forme, di nuovi tasselli, andando a comporre il mosaico di una storia artistica e pittorica protagonista del luogo al pari del paesaggio; un paesaggio oggi impreziosito da sculture che è possibile ammirare camminando per la proprietà, come in una galleria d’arte a cielo aperto arricchitasi nel corso degli anni con un paziente e appassionato lavoro di ricerca e che comprende opere di Berrocal, Roman, Waydelich, Hundertwasser, Antes e Klinge, oltre ad un’inconsueta raccolta di leoni di varie epoche, simbolo stesso dello stemma di Nittardi. Arte che si trova anche sulle etichette dei nostri vini, le quali, riprendendo un’idea utilizzata per la prima volta dal Barone Philippe De Rothschild nel 1923, sono state realizzate, a partire dal 1981, da celebri artisti contemporanei come Tadini, Adami, Corneille, Janssen, Mitoraj, AR Penck, Arroyo, Combas, Yoko Ono, Ghelli, Paladino e Ungerer: tutti prodigatisi con fantasia per vestire il nostro Chianti Classico Casanuova di Nittardi con etichette e carta seta, ad avvolgere le bottiglie d’autore. Questo in Toscana è il mio viaggio più vero, con il quale mi sono voluto far toscano, cercando di valorizzare questo territorio, sentendomi così vicino a chi l’ha creato con fatica e tenacia nel corso dei secoli. Sono qui, ancora oggi affascinato da questa luminosità celebrata e amata da Winckelmann. Cammino sulla terra di Nittardi, su cui Stefania ed io abbiamo piantato centinaia di querce, olivi, persino alcune araucarie, e continueremo a farlo, con la volontà e la passione di sempre.


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Questo in Toscana è il mio

viaggio più vero


FATTORIA NITTARDI

CHIANTI CLASSICO DOCG NITTARDI RISERVA SELEZIONATA Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con una piccola aggiunta di Merlot) provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati a Nittardi, nel comune di Castellina in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 12 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di medio impasto, strutturati, con forte presenza di galestro, ad un’altitudine media di 450 metri s.l.m. Uve impiegate: Sangiovese 95%, Merlot 5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 4.700 ai 6.700 ceppi per ettaro Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene solitamente tra la terza decade di settembre e i primi di ottobre, si procede alla selezione e alla pigiadiraspatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica, fatta svolgere in acciaio inox per circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 24 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, mentre vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri, soprattutto nella prima fase. Dopo la svinatura, il vino svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di primo, secondo e terzo passaggio in cui rimane per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione, e dopo 2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 8.000 bottiglie Note organolettiche: Di colore rubino scuro, il vino si presenta al naso profondamente fruttato con nette sensazioni di piccoli frutti del sottobosco come more e ribes, che si aprono a note floreali di viola e ad altre speziate di cassis, foglia di tabacco e corteccia d’albero. Bocca elegante e di grande equilibrio, con tannini dolci ben amalgamati e maturi che si sposano ad una bella sapidità, prolungando la fase gustativa con aromi tostati, di spezie dolci e cioccolato. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1990, 1993, 1996, 1997, 1998, 2001, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Peter Femfert e Stefania Canali dal 1981, l’azienda agricola si estende su una superficie di 120 ettari di bosco, 29 vitati e un piccolo oliveto. Fiore all’occhiello dell’azienda sono il Chianti Classico Nittardi Riserva selezionata ed il Nectar Dei IGT Maremma Toscana Rosso. Responsabile della produzione è l’agronomo Antonio Spurio in collaborazione con l’enologo Carlo Ferrini.

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PoGGio di sotto

Piero Palmucci


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era un soGno PiccoLo iMpOSTATO priNCipAlMeNTe Sull’AMbiziONe di prOdurre il ViNO per gli AMiCi quando Si arriva a un punto in cui rimane più Semplice guardarSi indietro che proiettarSi nel futuro, il preSente diventa facilmente comprenSibile e tutto ci Sembra più chiaro, riuScendo a dare ad ogni coSa il Suo giuSto valore.

una capacità che nasce e cresce, forse, sulla base dell’esperienza e della memoria alla quale attingiamo, consapevoli di come essa abbia contribuito a farci diventare ciò che siamo. un percorso lungo, come nel mio caso, che mi ha condotto lontano da quella Maremma dove ero nato e dalla quale ero partito, nei primi anni Cinquanta, all’indomani del conseguimento della licenza liceale, ritrovandomi però, dovunque andassi, ad avere in valigia il ricordo della mia terra e il sogno di ritornarvi. una malinconia che mi ha scaldato come una coperta durante il mio soggiorno in inghilterra, dove mi sono laureato in economia e Commercio e specializzato in Shipping and Foreign Trade, o nei lunghi anni passati in Svezia dove, arrivato nel 1958, mi trovai a dirigere, prima un’azienda di trasporti internazionali, poi quella da me fondata, riuscendo, nell’arco di trent’anni, a porla in una posizione di primissimo piano nel settore, con terminal riscaldati e un sistema di gestione delle merci del tutto innovativo, all’avanguardia per quei tempi, tanto che quel metodo informatico, da me brevettato, fu acquistato dalla stessa ibM Computers. Ma qualunque cosa facessi e qualsiasi soddisfazione ottenessi, dovevo condividerla sempre e comunque con la nostalgia che non mi abbandonava mai, la stessa che mi spinse a ritornare sui miei passi alla fine degli anni Ottanta, scoprendo un’italia molto diversa e migliore di quella che avevo lasciato, appagando così quel bisogno interiore di ritornare a casa, su questo territorio toscano. dopo aver cercato un posto dove stabilirmi e volendo dare ancora un sèguito costruttivo alla mia vita, mi fermai a Castelnuovo dell’Abate, una frazione di Montalcino, dove avevo vissuto da bambino durante il periodo bellico della Seconda guerra Mondiale, convinto non solo di potermi riappropriare di una parte delle mie memorie e di quel contatto epidermico con la terra che mi era tanto mancato, ma di appagare quella passione per il vino, costruitasi in tutti quegli anni trascorsi in giro per il mondo. Non fu una scelta passionale quella che mi condusse a trovare casa a due passi dalla meravigliosa abbazia di Sant’Antimo, ma la conseguenza logica di un ragionamento orientato alla ricerca di quale fosse il reale valore qualitativo del territorio in cui avrei investito. dopo due anni di ricerche e verifiche sul campo, avviate fra la Maremma e il Chianti insieme ad alcuni consulenti, mi convinsi che i terreni di questa

vallata erano i migliori che avrei mai potuto acquistare e quelli, forse, dove avrei potuto realizzare quel sogno tenuto in cuor mio per tanto tempo. era un sogno piccolo, impostato principalmente sull’ambizione di produrre il vino per gli amici, ma che mi spinse, comunque, ad imparare un nuovo mestiere per comprendere quali fossero i meccanismi che ne regolano la produzione. Senza scoraggiarmi, a quasi sessant’anni, mi sono reinventato vignaiolo; una nuova professione costruita attraverso un contatto diretto, sul campo, andando anche a fare l’operaio da altri vignaioli e “rubando” loro il mestiere, per scoprire come si conduce una vigna o si produce un ottimo brunello: il tutto affrontato con la stessa determinazione e professionalità che avevano accompagnato la mia vita lavorativa, durante la quale ho sempre cercato di fare qualcosa d’importante. le cose ben presto cambiarono, anche grazie alla capacità che ritengo di aver sempre avuto nello scegliere dei collaboratori eccezionali, di alto livello, come ad esempio giulio gambelli, ammirevole non solo per le capacità professionali, ma anche per le doti morali, caratteriali e di serietà che mi ha sempre dimostrato in tutti questi anni di collaborazione. Sono ormai passati quasi vent’anni e sono convinto, pur comprendendo quanto sia diventato complicato per una piccola impresa artigianale come la mia sopravvivere in italia, che non potrei stare in nessun’altra parte del mondo se non qui, dove, ieri come oggi, è ancora viva in me la passione iniziale, per la terra e il vino, che con il tempo si è trasformata in amore. un sentimento che alcune volte si pone in contrasto con questo territorio non esente da un certo more italicum, capace di assegnare il controllo a chi ha più ettari, più denari e più peso politico: una consorteria capace solo di privilegiare il business più che la nobiltà qualitativa del saper fare. Voglio pensare che il futuro prossimo sia diverso e che Montalcino non si trasformi in un discount del tuscan lifestyle, né che l’antico e nobile brunello diventi un qualunque vino, né che vi siano persone capaci di speculare sulle tradizioni senza avere la capacità di rinnovarle. Se così fosse, allora, mi sentirei straniero in patria e, forse, ancora più lontano di quando ero in inghilterra o in Svezia, ma, a differenza di allora, non avrei davvero alcun posto in cui ritornare.


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... è ancora viva in me la passione iniziale, per la terra e il vino, che con il tempo si è trasformata in amore.


FATTORIA Poggio di sotto

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, posti in località Castelnuovo dell’Abate, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni sciolti, ricchi di scheletro, poveri e con elevata presenza di galestro, ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 3.000 ai 4.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito nella seconda metà di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, non inoculato, bensì fatto fermentare spontaneamente, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta sia in tini di rovere di Slavonia che in acciaio, vede numerosi rimontaggi durante le 24 ore, che gradualmente si riducono fino alla fine della fermentazione, la quale si protrae per circa 20-25 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 35°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce. Dopo la svinatura, la fermentazione malolattica avviene in tini di rovere e al suo completamento il vino viene spostato in botti da 30 Hl di un’età compresa tra 0 e 15 anni in cui rimane per 58 mesi; durante questo periodo si effettua 1 travaso ogni 2 anni. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia senza essere filtrato e vi rimane per un ulteriore affinamento di 6-8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 45.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino con riflessi granati, il vino offre al naso profumi complessi, profondi, ben strutturati, con un percorso olfattivo che parte da certe note balsamiche per passare attraverso un piacevole bouquet di fiori appassiti, macchia mediterranea, rosmarino e alloro e confluire in leggeri e suadenti ricordi di prugna matura e ciliegia in confettura. In bocca ha un’entratura elegante, decisa, ma equilibrata, dove ben si armonizzano l’importante sapidità e un’acidità non evidentissima, ma presente: un connubio che rende il vino lungo e persistente con una chiusura su accenni fruttati e nuances di liquirizia e radici. Prima annata: 1991 Le migliori annate: 1995, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 10-15 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 15 e i 20 anni. L’azienda: Fondata da Piero Palmucci nel 1989, l’azienda agricola si estende su una superficie di 32 Ha, di cui 12 vitati e i restanti occupati da oliveto, seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Lucio Brancadoro e l’enologo Giulio Gambelli.

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san feLo Federico Vanni


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SENTIRMI MAREMMANO E FIGLIO DI QUESTA TERRA Forse un giorno anch’io sarò capace di poter affrontare con più risolutezza gli aspetti che regolano il mestiere del vignaiolo, acquisendo la necessaria conoscenza di ogni aspetto dell’intera filiera produttiva vitivinicola, avendo così la possibilità di misurarmi, con sempre maggior determinazione e convincimento, con quel mondo del vino in cui sono appena entrato.

Per adesso ascolto, guardo e rubo il mestiere con gli occhi, sostenuto da una sfrenata voglia e un’infinita curiosità di imparare, certo che anch’io, un giorno, riuscirò ad arrivare a tanto. Ho solo bisogno di tempo e di far mia quella pazienza indispensabile per la maturazione delle mie uve e dei miei vini in cantina, che, sicuramente, mi consentirà di crescere e acquisire, vendemmia dopo vendemmia, l’esperienza necessaria non solo in questo settore agricolo, ma anche nella vita, dandomi la possibilità di misurarmi sempre meglio con la terra, con le viti e con chi ne saprà sempre più di me, scartando, via via, la mia attuale e giovanile indole di voler bruciare i tempi per arrivare, subito, a dei grandi risultati. So di potercela fare, anche se per ottenere grandi soddisfazioni c’è bisogno di sacrificio e di un impegno continuativo in quest’azienda, nella quale mi sto mettendo in gioco, ricercando un’identità viticola nel valore che la tradizione ha costruito intorno ad un vitigno come il Sangiovese e nella mia personale realizzazione, come uomo e nuovo contadino del terzo millennio. È stato questo attaccamento alla tradizione e il fatto di sentirmi maremmano e figlio di questa terra, l’elemento fondamentale che mi ha spinto ad accettare la sfida lanciatami da mio padre Roberto, grande appassionato di vino, di condurre, con il sostegno di tutta la famiglia e appena maggiorenne, quest’azienda vitivinicola, nella quale ho creduto per costruire il mio futuro, realizzando una cantina, tecnica-

mente all’avanguardia, impiantando circa 20 ettari di vigneti, dai quali ottengo dei vini dalle impareggiabili caratteristiche. Nonostante abbia fatto già tanto, mi rendo conto di avere ancora moltissimo da imparare e non sono certo le quattro vendemmie fin qui svolte a farmi sentire grande, né i piccoli, ma importanti riconoscimenti già ottenuti con i miei vini a farmi sentire pago di ciò che ho fatto. Ne ho di strada davanti a me, soprattutto ora che incomincio a comprendere quale sia uno dei postulati basilari più importanti di questo mestiere di vignaiolo: quello di saper dialogare con le vigne, mai uguali all’anno precedente e, come me, in continuo divenire. Solo quando riuscirò ad essere in armonia con quelle piante mi sentirò soddisfatto e saprò fare il mio vino, quello di San Felo. Forse è per questo che sto puntando verso una sempre maggiore e accurata sperimentazione in questa direzione, cercando di capire quali siano le parcelle dei terreni più vocate e quali viti diano le uve migliori, così da arrivare ad esaltare questa terra in cui sono nato, dove ho trascorso gli anni felici dell’infanzia e che mi ha trasmesso i valori che le sono propri e che mi fanno sentire orgoglioso di appartenerle. È proprio quest’appartenenza che vorrei fosse percepita da chi degusta i miei vini; una riconoscibilità figlia di quella loro radicata territorialità e di quella tradizione con la quale regolo, senza paura di sbagliare, il mio saper fare, connotando questo rapporto indissolubile con la Maremma anche nei nomi scelti per i miei vini: a uno di essi ho attribuito il nome “Balla la vecchia” - quel modo di dire un po’ arcaico con cui i vecchi maremmani indicavano il tremolìo dell’aria nelle giornate di calura estiva - mentre all’altro “Le stoppie”, il termine con il quale, qui, si identifica la paglia rimasta sul campo dopo la raccolta del grano. Non ho dubbi che ogni aspetto di questo territorio sia meritevole di attenzione e di cura, come dimostrano i molti imprenditori vitivinicoli che negli ultimi anni sono venuti ad investire sul territorio, credendo fortemente, come me, nelle qualità e nelle potenzialità di questa terra. Tutta questa grande considerazione di cui la Maremma oggi è oggetto, mi riempie di gioia e d’entusiasmo, motivandomi ancora di più a lavorare per darle una maggiore visibilità, omaggiandola con il mio lavoro e ponendo come valore relazionale ai miei vini tutto quanto essa esprime da un punto di vista storico, artistico, naturalistico e gastronomico.


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Non ho dubbi che ogni aspetto di questo territorio sia meritevole di attenzione e di cura...


FATTORIA SAN FELO

MORELLINO DI SCANSANO DOCG SAN FELO Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese, Merlot e Cabernet Sauvignon provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Pagliatelli di Sotto, nel comune di Magliano in Toscana, le cui viti hanno un’età di 5-6 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni franco-sabbiosi, ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 180 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 85%, Merlot e Cabernet Sauvignon 15% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.700 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio inox, si protrae per circa 8 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 12 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino svolge la fermentazione malolattica sempre in acciaio e vi rimane per 6 mesi; durante questo periodo si effettuano 3 travasi. Il vino è messo poi in bottiglia per un ulteriore affinamento di 2 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 100.000 bottiglie circa Note organolettiche: Il vino colora il bicchiere di un rosso rubino vivace ricco di brillanti riflessi purpurei; al naso si presenta giovane, “tipico” ed intenso, proponendo un fresco bouquet ricco di note fruttate di ciliegie e mirtilli, sentori di erbe e fiori di campo appassiti e un finale minerale di pietra focaia e roccia bagnata. La bocca, calda, morbida ed equilibrata, si riempie delle note fruttate avvertite all’esame olfattivo; sorretto da una bella sapidità e da una fibra tannica non aggressiva, chiude quasi dolce con piacevoli percezioni di mora matura. Prima annata: 2004 Le migliori annate: 2006 Note: Il vino, che prende il nome dall’acronimo dei fratelli Vanni (Federico e Lorenzo), raggiunge la maturità dopo 2-3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 6 anni. L’azienda: Di proprietà di Federico Vanni dal 2001, l’azienda agricola si estende su una superficie di 50 Ha, di cui 20 vitati, 2 occupati da oliveto e 28 da seminativi e bosco. Collabora in azienda, svolgendo le funzioni di agronomo e di enologo, Fabrizio Moltard.

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Silvia, Federico Giuntini Masseti, Francesco Giuntini-Antinori


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adoperarsi con onestà, intelligenza e senso del dovere Per noi Selvapiana non è soltanto un’impresa vitivinicola da gestire e da amministrare, ma è casa, è infanzia, è il luogo dei ricordi in cui si è rivelata la Provvidenza, uno dei più grandi privilegi dell’uomo, capace di sottrarlo alla concatenazione dell’universo.

Un luogo dove, da sempre, vige la ferrea regola del rispetto con il quale gestisco i rapporti con mia sorella Silvia e con Francesco Giuntini Antinori, proprietario di Selvapiana, il nostro genitore adottivo che, dopo la morte di nostro padre, volle testimoniare con un gesto d’amore la sua riconoscenza al suo fattore. Una regola che hanno fatto propria anche tutti gli altri nostri collaboratori, compresi quelli che vivono nella case coloniche di quest’azienda, i quali si prodigano, insieme a noi, non solo nella gestione dei 240 ettari di proprietà e nelle cure riservate ai 45 ettari di vigneti e ai 31 di oliveto, ma anche nella costruzione di quel senso di famiglia che, da decenni, caratterizza lo spirito di questa tenuta. Un modo di operare insegnatoci da nostro padre Franco, il quale, nel 1953, divenne il fattore di Selvapiana e da Francesco, la cui famiglia è presente su queste terre fin dal 1827. Tra di loro andarono lentamente stratificandosi una grande affinità e una sincera amicizia, sfociate talvolta in qualche incomprensione e in piccole divergenze, ricomposte subito dopo in virtù della profonda stima che li univa, a dispetto delle età e delle diverse posizioni sociali. In comune essi avevano non solo gli obiettivi aziendali, ma anche il grande attaccamento per Selvapiana - dalla quale difficilmente si allontanavano - e per questo territorio, che Francesco avrebbe voluto riportare alla notorietà di un tempo. Infatti già nel 1716, con un suo Bando, Cosimo III De’ Medici, aveva annoverato la denominazione di Rufina tra le più importanti zone vitivinicole della Toscana. Due grandi persone, unite da un’affinità caratteriale e intellettiva nata da quella sana e genuina cultura contadina caratterizzata dal rispetto della parola data, dall’onore, dall’onestà e da una profonda fede religiosa, come noi avremmo avuto poi modo di apprendere. Ricordo che spesso, si trattasse di lavoro o di commemorare qualche festività, non perdevano occasione per pranzare insieme, aprendo quelle loro riunioni conviviali anche a me e a mia sorella; in questi pranzi imparavamo a scoprire quale fosse la mentalità di Francesco, i progetti a cui teneva molto e i sogni che si auspicava di poter, un giorno, realizzare; non nascondeva neppure i suoi timori e nostro padre, pur condividendoli, cercava di affrontarli immediatamente e risolverli con considerazioni pratiche e pragmatiche, degne di un concreto uomo della terra. Di fatto, eravamo già una famiglia, ma, nonostante questo, ci stupì molto l’inaspettato gesto con il quale Francesco, nel 1994, ci ha formalmente e legalmente adottato, rendendoci non solo eredi del suo nome e di Selvapiana, ma successori corresponsabili del suo progetto più ambizioso, quello di poter restituire a questo territorio di Rufina l’importanza storica avuta in passato e di veder riconosciuto il valore delle peculiari caratteristiche pedoclimatiche e paesaggistiche che rendono unica la produzione enologica di quest’azien-

da: un’azienda costituita nel Medioevo da due torri d’avvistamento inserite, forse, in un piccolo maniero situato lungo la strada che conduceva ai luoghi di villeggiatura dei Vescovi fiorentini. È facile comprendere come quest’investitura inaspettata abbia cambiato il corso del nostro destino, ponendoci davanti, in egual misura, ai diritti e ai doveri di quel nobile cognome. La nuova realtà non ha modificato né il nostro naturale modo di essere, né il valore del rispetto condiviso fino a quel momento con gli altri, consapevoli del fatto che non è un bene regalato, ma una conquista quotidiana, frutto dell’adoperarsi con onestà, intelligenza e senso del dovere. Convinti di ciò, in questi anni abbiamo lavorato senza prendere mai vie facili o più brevi, misurandoci e confrontandoci con gli altri, con questo territorio e con la filosofia produttiva di quest’azienda, che già era stata tracciata da nostro padre. Dopo tutto, quest’azienda è la nostra casa, la nostra unica attività ed è giusto dedicarle la massima attenzione, misurando e riflettendo sulle decisioni e sulle azioni da intraprendere, cercando di non lasciare mai la via maestra, capace di condurci verso il futuro, così da consegnare alle generazioni future un’azienda sana, non solo sotto l’aspetto economico, ma anche sotto l’aspetto territoriale, avendo indirizzato la stessa, da tempo, verso una conduzione biologica che ci consente di produrre senza inquinare, ottenendo prodotti salubri e salvaguardando la natura. Un modo semplice - e forse un po’ scontato - che ci permette però di mantenere vivo il rispetto per le cose donate, convinti del fatto di dover condividere con gli altri, gli uomini di oggi e di domani, quanto abbiamo avuto la fortuna di possedere.


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FATTOriA SelVApiANA

cHianti rufina docG riserva viGneto bucercHiaLe zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal Vigneto bucerchiale, di proprietà dell’azienda, situato in località Selvapiana, nel comune di pontassieve, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 20 anni. tipologia dei terreni: il vigneto si trova su terreni di medio impasto, tendenzialmente limoso-argillosi ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m. uve impiegate: Sangiovese 100% sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato densità di impianto: 5.500 ceppi per ha nell’impianto più recente tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, senza l’inoculo di lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 25 giorni ad una temperatura controllata di 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 4-5 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese da 225 lt, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 15 mesi; durante questo periodo si effettuano 3-4 travasi. Terminata la maturazione e dopo una decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 9 mesi prima della commercializzazione. quantità prodotta: 35.000 bottiglie circa note organolettiche: di un colore rosso rubino quasi impenetrabile, il vino si presenta al naso in modo opulento, ricco di sensazioni olfattive che vanno da profumi di frutti rossi maturi a percezioni di terra, da note di piante officinali come alloro e eucalipto a spunti balsamici. in bocca conferma le percezioni avute al naso, risultando caldo, pieno, morbido e ben equilibrato, con armoniosi tannini vellutati che sorreggono la degustazione e rendono il vino lungo e persistente; chiude su un finale di tabacco dolce e torba. Prima annata: 1979 Le migliori annate: 1985, 1990, 1997, 2001, 2004 note: il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 25 anni. L’azienda: di proprietà della famiglia giuntini Antinori dal 1827 e condotta da Silvia e Federico giuntini Masseti rispettivamente dal 1992 e 1988, l’azienda agricola si estende su una superficie di 240 ha, di cui 45 vitati, 31 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collabora in azienda dal 1978 l’enologo Franco bernabei.

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sorbaiano

Grazia Picciolini


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Ho dovuto imParare A FAr pArlAre QueSTO TerriTOriO Sono legata a queSta terra, intriSa di aneddoti, Storie e favole e, Soprattutto, alla fattoria di Sorbaiano, compoSta da 270 ettari, di cui 27 vitati, che è Stata un antico appoderamento romano, divenuto SucceSSivamente feudo della nobile famiglia volterrana degli inghirami.

Mio padre Febo l’acquistò, 50 anni or sono, come piacevole residenza di campagna per la mia famiglia e dove ho trascorso ogni estate della mia adolescenza, giocando o ascoltando ciò che avevano da raccontarmi i dipendenti di mio padre, dei quali ricordo, uno ad uno, i volti, noti e familiari. Contadini con i quali trovavo il gusto di lasciarmi coccolare, crescendo in mezzo a loro, ricordandomi, ancora oggi, quello della tata Marfisa che mi preparava le donzelle di cui andavo ghiotta, quello del fattore Albano, che si è dedicato per molti anni a quest’azienda, con attaccamento e passione, con lo stesso impegno che avrebbe posto in qualcosa di suo, o i volti dei membri della sua famiglia. Questo è il luogo dove ho compreso il significato del valore emozionale della famiglia, insegnatomi da mio padre, ed è il luogo dove ho acquisito quel senso di appartenenza che nutre e difende e dà l’energia all’animo per affrontare le difficoltà e i dolori elargiti gratuitamente dalla vita e che sono stati più forti del mio desiderio di dirle: “no, grazie!”. Così, quando si è presentata la necessità familiare che qualcuno si dovesse occupare della direzione di quest’azienda, non mi sono tirata indietro, nonostante non avessi una professionalità specifica, avendo studiato per fini ben diversi da quelli agronomici e non avendo vissuto assiduamente questa campagna, visto che mi dividevo tra San gimignano e Siena - dove tutt’ora vivo immersa più in un paesaggio di torri e bandiere che fra le balze severe di Volterra. Senza esitare mi sono riciclata, imparando il mestiere di imprenditrice vitivinicola; mi sono ritrovata coinvolta più di quanto pensassi e ho scoperto presto che, per lavorare nel mondo del vino, non bisogna solo disconoscere i sabati e le domeniche, ma c’è la necessità di acquisire una nuova cognizione del tempo, che fra questi filari assume un altro significato e non segue più il calendario ordinario, ma quello delle stagioni e nel quale ogni anno inizia a settembre, con la vendemmia, e si conclude l’anno dopo sempre a settembre, mentre in mezzo ci sono un’infinità d’impegni che coinvolgono

ogni singolo aspetto produttivo e commerciale di questa piccola industria a cielo aperto. Nel frattempo, ho dovuto imparare anche a far parlare questo territorio, dando visibilità alla dOC Montescudaio nella quale sono inseriti i miei vigneti. un obiettivo non facile da raggiungere, dato che, dopo trent’anni, è ancora una delle “cenerentole” fra le denominazioni vitivinicole della Toscana, nonostante i molteplici sforzi del Consorzio - di cui sono stata anche presidente - e della mia stessa azienda. Certe volte mi soffermo a riflettere, cercando di capire dove io stia sbagliando, se siano le strategie o le azioni fin qui intraprese ad essere errate o se, invece, sia il linguaggio utilizzato. Così mi viene voglia di mettermi da parte e lasciare che sia questo luogo a parlare, sicura che troverebbe le parole giuste per raccontarsi, e sarebbero quelle più idonee, capaci di attingere il loro slancio emozionale da quella tradizione rurale alla quale sono intimamente legata e che intendo ad ogni costo salvaguardare. Andando in giro per il mondo, conosco bene quali siano le difficoltà di far passare un messaggio come questo, poiché, di solito, trovandomi davanti ad un potenziale cliente, mi limito a raccontare la storia di quest’azienda, della mia famiglia, aggiungendo, di volta in volta, o il particolare di mia sorella e degli altri miei fratelli con i quali decido le strategie aziendali, o di come io abbia scoperto questo lavoro così coinvolgente ed emozionante, per poi scivolare nel merito dei miei vini, descrivendone i colori e gli aromi, dando implicita visibilità alla terra da cui nascono. Forse dovrei invece far parlare il mio cuore, lasciando che sia esso a comunicare questa terra, disegnata dal tempo e dalla mano dell’uomo, poiché è l’unico in grado di far comprendere come la qualità dei vini che qui produco sono frutto di uno sforzo enorme, proiettato alla valorizzazione di un terroir molto particolare e di un lavoro nel quale, qui più che da altre parti, bisogna mettersi in gioco, proporre la propria faccia e trasmettere il senso del proprio agire.


Forse dovrei invece far parlare il mio cuore, lasciando che sia esso a comunicare questa terra, disegnata dal tempo e dalla mano dell’uomo, poiché è l’unico in grado di far comprendere come la qualità dei vini che qui produco sono frutto di uno sforzo enorme...

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FATTORIA SORBAIANO

MONTESCUDAIO DOC ROSSO DELLE MINIERE Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese, Cabernet Franc e Malvasia Nera provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, posti in località Sorbaiano, nel comune di Montecatini Val di Cecina, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di medio impasto a reazione sub-alcalina, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 60%, Cabernet Franc 30%, Malvasia Nera 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in serbatoi di acciaio inox a temperatura controllata, si protrae per circa 5 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 8-10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo in barriques di rovere francese da 225 lt, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 15-18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 4 mesi. Terminata la maturazione, e dopo 1 mese di decantazione in cemento, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie circa Note organolettiche: Il vino si presenta all’esame visivo di un bel colore rosso rubino con riflessi violacei, mentre al naso risulta intrigante, con profumi di rosa e ciliegia, a cui seguono note balsamiche ed erbacee che lasciano via via il posto a sensazioni di frutti di bosco rossi come ribes e mirtilli e a nuances speziate di pepe e liquirizia nera. Al palato ricorda le peculiari caratteristiche percepite al naso, con tannini equilibrati, morbidi ed eleganti; di buona struttura e freschezza, risulta lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1987 Le migliori annate: 1987, 1992, 1994, 1996, 2000, 2001, 2003, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dalle miniere di rame anticamente presenti a Montecatini Val di Cecina, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà di Marisa Salvadori in Picciolini dal 1958, l’azienda agricola si estende su una superficie di 270 Ha, di cui 27 vitati, 15 occupati da oliveto e 228 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda, come consulenti sia per la parte agronomica che enologica, Giampaolo Chiettini e Andrea Di Maio. L’enologo interno è Francesco Berti.

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fèLsina

Giuseppe Mazzocolin


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La tecnica Al SerViziO del TERROIR non ci Siamo allontanati di un millimetro dalla noStra filoSofia produttiva centrata Sul SangioveSe, da quando abbiamo dato inizio nel 1983, con il noStro enologo franco bernabei, alla produzione di rancia e fontalloro e del berardenga chianti claSSico, tutti dallo SteSSo vitigno. Anche quando si avvertiva una certa omologazione delle tendenze produttive in ambito locale e internazionale non veniva meno la consapevolezza di appartenere alla storia vitivinicola di un importante territorio come quello del Chianti, di incomparabile bellezza e vocazione qualitativa, e di un vitigno di tradizione come il Sangiovese. Ci interessavano vini che sapessero di territorio e che per questo motivo rappresentassero un valore aggiunto che ci avrebbe ripagato di tutti gli sforzi sostenuti. È stata la presa di coscienza di ciò che eravamo e che potevamo diventare ad aprirci ad un confronto vivace e sereno con i protagonisti di un dibattito che dava voce ad opinioni contrapposte, ma sempre di forte stimolo per coloro che ritenevano giusto continuare, senza tentennamenti, sulla strada intrapresa. una viticoltura praticata dunque, non ideologica. il Sangiovese oggi è sempre più apprezzato e compreso per la sua spiccata personalità e schiettezza, a livello nazionale ed internazionale. È un vitigno che richiede tempi dilatati di relazione e di confronto tecnico sul campo, in vigna ed in cantina: un incessante dialogo critico. Sono i tempi della vita, quella di tanti vignaioli chiantigiani; uno spazio temporale in cui le cose si evolvono e modificano il loro aspetto iniziale, come accade agli uomini stessi che lo mettono a dimora, i quali cambiano anche loro e si trasformano nella continua ricerca di un qualcosa di non rilevabile e di nascosto che dà forza alle loro passioni e determina il motivo stesso del loro agire. Abbiamo visto evolvere concetti e parole del nostro vocabolario vitivinicolo alla ricerca non tanto di una crescita illimitata, ma piuttosto di quel semplice desiderio di accompagnare ciò che si trasforma nell’ambito della natura, tenendo sempre vivo lo sguardo verso tutti gli elementi che interagiscono nella filiera produttiva. pensiamo a tutti coloro che, donne e uomini, hanno saputo modellare il paesaggio e ne sono divenuti interpreti, lavorando per tutta una vita in mezzo alle vigne di cui sono custodi. Vignaioli che abbiamo avuto l’onore di conoscere personalmente nei poderi stessi della fattoria, alcuni dei quali ancora attivi, come ad esempio i fratelli buracchi, da sempre l’anima stessa di Fèlsina. proprio loro hanno visto tutti i passaggi evolutivi vissuti dalla viticoltura negli ultimi quarant’anni e contribuiscono a tramandare quella tradizione orale che le nuove generazioni hanno ancora la possibilità di ereditare.

Sono uomini e donne che hanno percezione dei propri limiti; basta osservare come si muovono, il loro modo di camminare, un incedere con un passo che aderisce alla terra, un passo calmo, ponderato, di chi si sente in comunione con ciò che lo circonda e non ha bisogno di dimostrarlo. Sono vignaioli che non pretendono di soddisfare il proprio ego - il quale non crea mai un’autentica e schietta relazione con gli altri - ma che vivono in un rapporto quotidiano con la natura tale da renderli più uniti e pronti ad una solidarietà sincera e costruttiva. un valore umano - la parola in questo caso è credibile su cui è possibile investire, in quanto presupposto di ogni “ragione” economica. e qui la sintassi obbliga chi scrive all’uso della prima persona, per passare da un sentire condiviso ad un altro più personale e soggettivo, come richiesto dal curatore del libro. È stato domenico poggiali, geniale imprenditore ravennate e di forte umanità, padre di mia moglie gloria, ad offrirmi - sono passati più di trent’anni - l’opportunità di lavorare per Fèlsina. il più bel dono della mia vita. una formazione umanistica all’università di Firenze, alla scuola di alcuni indimenticabili maestri, mi ha dato gli “strumenti” per entrare, in silenzio, nell’atto di ascoltare per capire, in un mondo che non avrei mai immaginato di conoscere così da vicino. È stata una rivelazione! la città più bella del mondo, Siena, ed il territorio circostante, le Crete Senesi, il Chianti, l’ampia prospettiva verso il monte Amiata, il mare. Nello sguardo affettuoso e riconoscente, toccato profondamente dalla bellezza di una campagna meravigliosa, connotata come un’opera d’arte, cominciavo un apprendistato e una formazione sul campo che mi avrebbero aiutato nel mio lavoro. Si profilava la possibilità di una più visibile intesa tra terra e cultura, tra economia e mercato, tra lavoro e vita, occorreva superare il concetto di utopia per affermare un principio di realtà. la tecnica al servizio del terroir, certo. Ma non poteva bastare. le regole economiche e produttive si potevano davvero porre al servizio del lavoro e della persona. Sic et simpliciter. Se alcuni di questi semi daranno frutto vuol dire che la mia presenza a Fèlsina non è stata vana.


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È stata una rivelazione! La città più bella del mondo, Siena, ed il territorio circostante, le Crete Senesi, il Chianti, l’ampia prospettiva verso il monte Amiata, il mare.


FÈLSINA

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA RÁNCIA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Rància (6,25 Ha), di proprietà dell’azienda, situato presso un antico podere in corrispondenza di un preesistente monastero benedettino, nel comune di Castelnuovo Berardenga, le cui viti hanno un’età compresa tra i 27 e i 50 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine calcarea (macigno di arenarie quarzose, prevalentemente alberese misto a pillola alluvionale; sulla parte più alta evidente presenza di Galestro), ad un’altitudine compresa tra i 400 e i 425 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato o Guyot semplice Densità di impianto: 5.400 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene abitualmente tra l’ultima decade di settembre e la prima di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspatura (e pigiatura) delle uve, utilizzando lieviti autoctoni selezionati. La fermentazione alcolica si protrae per circa 7-10 giorni ad una temperatura compresa tra i 22 e i 28°C. La macerazione sulle bucce si svolge, a seconda dell’annata, per altri 10-15 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura e la fermentazione malolattica, il vino viene trasferito in barriques da 225 lt nuove o di primo e secondo utilizzo dove rimane per circa 18-20 mesi. Sono previsti dei travasi durante l’affinamento in legno, a cui segue quello in bottiglia di 10-12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 45.000-50.000 bottiglie circa Note organolettiche: Colore rosso rubino intenso e profondo. Sprigiona all’olfatto un bouquet di profumi complessi che vanno da frutti maturi del sottobosco, marasche e prugne, ad un pot-pourri di mammola e fiori appassiti e percezioni di foglie di tabacco, spezie e muschio. Al palato si dimostra elegante, sapido, con tannini consistenti, armoniosi e vellutati; equilibrato, con grande struttura e acidità, in un insieme ben armonizzato e di lunga persistenza. Chiude con nuances minerali e di spezie dolci. Vino di razza. Prima annata: 1983 Le migliori annate: 1985, 1986, 1988, 1990, 1994, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto di provenienza, raggiunge la maturità dopo 6-8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà di Giuseppe Poggiali e curata dal cognato Giuseppe Mazzocolin dal 1966, l’azienda agricola si estende su una superficie di 485 Ha, di cui 87 vitati (72 in produzione), 25 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. L’enologo da più di 25 anni è Franco Bernabei.

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fontodi

Giovanni Manetti


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ESSERE IN SIMBIOSI CON IL TERRITORIO “Non si nasce imparati”. C’è voluto tempo per avere piena coscienza di questo territorio, dei vigneti e degli innumerevoli fattori con i quali essi interagiscono, come ce n’è voluto molto per acquisire le competenze con cui definire i processi produttivi utili per realizzare i nostri vini.

Anni di impegno, passione e costanza per condurre Fontodi a questo livello. Ciò che tu vedi non è casuale, ma è l’applicazione di una continua ricerca messa in atto per condurci a dare un ordine prestabilito ad ogni cosa, gestendo, con una costante verifica, il valore della tradizione costruita giornalmente e figlia di quell’innovazione da noi applicata: l’unica in grado di tramandare le cose positive e quelle di successo, facendo anche tesoro degli errori commessi. Un ordine molto diverso da quello esistente nel 1968 - quando mio padre Dino acquistò la proprietà - e che è andato via via modificandosi proprio tramite l’amore da lui riversato in quest’azienda. Egli aveva infatti un’innata passione per la terra e per la campagna in generale e in questo anfiteatro naturale di Panzano, di cui era da sempre stato innamorato, aveva scoperto la voglia di dar sfogo al suo grande sogno di fare vino. Del resto Fontodi aveva già avuto un’illustre storia enologica, poiché, per lungo tempo, era stata un’importante azienda vitivinicola chiantigiana, ricevendo premi e attestazioni di merito per i vini prodotti; un glorioso passato che non l’aveva salvata dalle vicissitudini del territorio a cavallo tra le due Guerre Mondiali, né dalla famosa gelata del 1956, che colpì tutta la Toscana, provocando danni incalcolabili. Fontodi era arrivata nelle mani della nostra famiglia in uno stato di completo abbandono. Seguì un lungo lavoro di recupero degli immobili, della cantina, di tutti i terreni e del patrimonio viticolo; un ripristino graduale, avvenuto nell’arco di un decennio e svolto da mio padre nei momenti liberi dall’attività principale della famiglia, impegnata fin dal 1600 nella conduzione di una delle più importanti fornaci per la produzione di “cotto fiorentino” nella zona dell’Impruneta. L’impegno divenne in seguito sempre più coinvolgente, fino al punto di spingerlo, nel 1979, prima a trasferire tutta la famiglia a Panzano, in modo da poter stare il più vicino possibile all’azienda e poi a condividerne la gestione con me e mio fratello Marco: insomma, poco più che maggiorenni ci ritrovammo ad affiancarlo nella conduzione della cantina, mentre lui continuava a dividersi fra la fornace e la terra. Non passò molto tempo che anche noi fummo coinvolti in quel mondo del vino tanto amato da nostro padre, constatando che incominciava a nascere una nuova attenzione intorno al pro-

dotto e sembravano lontani i momenti in cui - negli anni Sessanta - avevamo assistito all’abbandono delle campagne a causa dell’industrializzazione delle aree limitrofe; allo stesso tempo ci pareva superata la fase di quella massificazione produttiva, con la quale vini di scarsa qualità avevano invaso i mercati alla fine degli anni Settanta e nel primo quinquennio degli anni Ottanta. Intorno respiravamo un’aria nuova, capace di cambiare radicalmente lo stesso concetto produttivo del vino, premessa di quell’incipiente rinascimento enologico che, di lì a poco, avrebbe emesso i suoi primi vagiti. Tutto sembrava essere caratterizzato da un grande entusiasmo e tutti eravamo contagiati da una grande voglia di fare e desiderio di guardarci intorno per migliorare. Proprio per questo, allo scopo di costruirci un’esperienza in grado di farci progredire, iniziammo un viaggio formativo che ci condusse nelle zone vitivinicole più belle del mondo, da Bordeaux alla Borgogna fino alla California, dove rubammo con gli occhi le altrui esperienze positive, soprattutto quelle in grado di essere applicate alla nostra realtà. In questi viaggi abbiamo compreso il reale significato della parola terroir e quanto gli elementi ampelografici, climatici e culturali interagissero sull’ottenimento di quei risultati che ci prefiggevamo di raggiungere. Una comprensione cresciuta nel tempo, capace di metterci in simbiosi con il nostro territorio e nella condizione di porlo in equilibrio con i vitigni a nostra disposizione, così da produrre vini sempre migliori e in grado di avere una loro spiccata caratterialità, bevibilità e salubrità. Una conoscenza con la quale abbiamo superato anche i momenti di crisi che si sono manifestati in questi anni, traendo da essi l’opportunità di misurarci, analizzare e ridiscutere tutti i processi operativi messi in atto, scoprendo nell’identità e nel valore relazionale di questa terra chiantigiana la forza per uscirne fuori. Siamo cresciuti dopo un processo lungo e complesso, durato più di trent’anni, durante i quali sono cambiate tantissime cose nell’ambito vitivinicolo ed enotecnico di quest’azienda, ma, posso assicurare, non si è mai modificato il rispetto verso questo territorio, così amato da nostro padre, il quale ci ha insegnato a proteggerlo e a valorizzarlo come se fosse un dovere morale a cui non ci è dato di transigere.


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In questi viaggi abbiamo compreso il reale significato della parola terroir e quanto gli elementi ampelografici, climatici e culturali interagissero

sull’ottenimento di quei risultati che ci prefiggevamo di raggiungere.


FONTOdi

cHianti cLassico docG riserva viGna deL sorbo zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con una piccola aggiunta di Cabernet Sauvignon) provenienti dal vigneto Vigna del Sorbo, di proprietà dell’azienda, posto nella località omonima, nel comune di greve in Chianti, le cui viti hanno un’età di oltre 30 anni. tipologia dei terreni: il vigneto si trova su terreni collinari di origine galestrosa, ad un’altitudine di circa 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. uve impiegate: Sangiovese 90%, Cabernet Sauvignon 10% sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot densità di impianto: 3.500 ceppi per ha tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima metà di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per 16-18 giorni ad una temperatura controllata compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature giornaliere. dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese da 225 lt (di primo e secondo passaggio), dove svolge la fermentazione malolattica e in cui sosta poi per 24 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione e dopo 3 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. quantità prodotta: 30.000 bottiglie circa note organolettiche: Vino dal colore rosso rubino quasi impenetrabile, si presenta al naso con un bouquet di percezioni intense e complesse che abbracciano note di frutti neri e rossi maturi - come prugne marasche, more e mirtilli - profumi floreali di garofano e altri un po’ più speziati che si inoltrano in un percorso olfattivo composito di macchia mediterranea e affascinante mineralità. in bocca è elegante, equilibrato, armonioso, ben strutturato, con sapidità e acidità in ottimo equilibrio fra loro; tannini ben evoluti e di notevole spessore sorreggono il vino durante la degustazione e lo rendono lungo e persistente per un’ottima beva che chiude su accenni balsamici e minerali. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1985, 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006 note: il vino che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: il nome Fontodi trae origine dal latino Fons Odi, idioma presente nella storia di questo territorio e che identifica una zona dove si praticava fin dall’antichità la coltivazione della vite. di proprietà della famiglia Manetti dal 1968, l’azienda agricola si estende su una superficie di 120 ha, di cui 70 vitati, 20 dedicati all’olivicoltura e il resto occupato da seminativi e bosco. Collabora in azienda dal 1979 l’enologo Franco bernabei.

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frescobaLdi

casteLLo di niPozzano

Lamberto, Ferdinando, Vittorio, Leonardo Frescobaldi


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uomini di veccHio stamPo legATi AllA NObilTà dellA TerrA mentre che Fosti, Firenze, adornata di buoni antichi cari cittadini, i lontani e’ Vicini adorarno el

lione e’ tuoi Figliuoli: ora se’ meretrice pubblicata in ogni parte, in Fin tra saracini. oimè! che tu ruini pe’ tuo’ peccati in troppi eterni duoli. deh! raVVediti ancor; chè puoi, se Vuoli; e Fa’ che tu sia intera e non diVisa e muterai di pianto in dolci risa. matteo freScobaldi, le rime

Nell’attesa di incontrare, al Castello di Nipozzano, Ferdinando, Vittorio, leonardo e lamberto Frescobaldi, mi soffermo sulle parole del poeta, frugando nelle memorie storiche di quella Firenze sempre divisa, ieri come oggi, fra guelfi e ghibellini, dove anche l’arte si accompagna alla polemica debordante, che ancora contraddistingue il carattere dei suoi abitanti, poco inclini a ragionare uniti. una divisione che non sembra aver contagiato la storia di questa antica e nobile famiglia, rimasta sempre coesa: fin dall’anno Mille, infatti, ogni suo componente ha contribuito a costruire il futuro della successiva generazione. da quando dalla Val di pesa si trasferirono a Firenze è trascorso un millennio, un tempo enorme che, solo a menzionarlo, spaventa anche un po’... Mi emoziona trovarmi al cospetto degli attuali interpreti di un così glorioso passato, vogliosi di raccontarsi affinché io possa riferire come loro intendono ampliare quell’importante e profondo solco segnato dalle trenta generazioni che li hanno preceduti, a partire da quel berto de’ Frescobaldi, con il quale, nel 1300, prese avvio la storia vitivinicola della casata, svolta nelle vaste tenute di proprietà, come testimonia il suo lascito di “case, mulini, vigne, arboreti, poderi e terre spezzate”. il susseguirsi di uomini ed eventi ha evidenziato come la fonte storica, alla quale essi si dissetavano, fosse l’elemento principe del loro saper fare, un elemento fondamentale su cui si sono innestate le varie trasformazioni, come testimonia l’antenato Marchese Vittorio degli Albizi che, nel 1855, teorizzò, primo in italia, la coltivazione specializzata e monovarietale della vite o come confermano gli stessi leonardo, lamberto e Vittorio Frescobaldi quando mi raccontano in che modo, negli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, abbiano impresso una svolta decisiva nella modernizzazione delle loro tenute agricole. uomini di vecchio stampo, di valori e virtù tenaci, aristocraticamente legati alla nobiltà della terra, capaci di costruire e consolidare quella dignità vitivinicola, trasmessa loro dalla famiglia, difendendo, valorizzando e coniugando, di fatto, il nome dei Frescobaldi a quello dell’intera Toscana, in una simbiosi imprescindibile e indivisibile con la quale si identificano, unendovi la loro immagine, universalmente nota, riconosciuta e apprez-

zata in tutto il mondo. una responsabilità tanto viva in loro da riuscire a trasmetterla alle nuove generazioni, affinché anche diana, Tiziana e Stefano si possano adoperare per mantenere integra la storia e il valore della famiglia nel gotha dei maggiori produttori italiani di vino. in tutti questi secoli non hanno mai smarrito il senso dell’originaria vocazione rurale della casata, né quello del dovere di rappresentarla, promuovendo le arti, custodendo la cultura, difendendo i valori e tramandando l’orgogliosa tradizione di essere e sentirsi fiorentini e toscani, come testimoniano i loro vini tutti provenienti da territori fra i più vocati: la Tenuta Castiglioni, luogo di origine della produzione vitivinicola della famiglia nel Chianti dei Colli Fiorentini, il Castello di Nipozzano, con i suoi 300 ettari di vigneto nel Chianti rufina; il pomino nei 100 ettari del Castello omonimo oppure il brunello di Castel giocondo, prodotto dei 152 ettari di vigneto a Montalcino o il Morellino di Scansano proveniente dalla Tenuta di Santa Maria in Maremma. Tutte queste aziende, come anche Costa di Nugola a livorno, sono entità autonome, con un proprio staff operativo e amministrativo orientato a valorizzare la tipicità di quei macro e micro territori in cui sono inserite, così da far esprimere ai loro vini l’originale terroir. Come il david di Michelangelo, la Cupola del brunelleschi o le morbide colline ondulate della Val d’Orcia, i loro vini sono da sempre ambasciatori nel mondo dello stile di vita nobile e rurale della Toscana, fin da quando nel Medioevo figuravano sulle mense dei più importanti artisti e dal rinascimento su quelle di re, nobili, papi e imperatori, fino a giungere in tutti i paesi europei e alla lontana Cina; vini che oggi incontro nei duty free dei più importanti aeroporti internazionali e non nascondo la gioia e l’orgoglio nel veder così ben rappresentata la toscanità. passione, impegno e costanza lo hanno reso possibile; la continuità familiare ha consentito loro di tramandare con tenacia e stabilità i valori insiti nel dNA genealogico, approfondendo, però, anche gli aspetti di ricerca, sperimentazione e innovazione utili alla crescita aziendale: progressi affrontati con lungimiranza, “traguardando” i confini e allargando gli orizzonti.


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Passione, impegno e costanza lo hanno reso possibile...


FreSCObAldi - CASTellO di NipOzzANO

cHianti rufina docG riserva montesodi zona di produzione: il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dall’omonimo vigneto di 20 ettari al Castello di Nipozzano, nel comune di pelago, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 30 anni. tipologia dei terreni: il vigneto Montesodi si trova su terreni collinari aridi e sassosi, di alberese, argilloso-calcarei, ben drenati, poco ricchi di sostanza organica, ad un’altitudine di circa 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. uve impiegate: Sangiovese 100% sistema di allevamento: guyot densità di impianto: 5.850 piante per ettaro tecniche di produzione: dopo la raccolta, che avviene a mano e in piccole cassette, si procede alla diraspatura e alla selezione degli acini su un tavolo di cernita. le uve per caduta sono inviate in tini d’acciaio, ove avviene la fermentazione alcolica, condotta con lieviti autoctoni per circa 10 giorni ad una temperatura inferiore ai 35°C; la macerazione sulle bucce si protrae complessivamente per circa 30 giorni con frequenti rimontaggi. dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese spaccato, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui matura per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano 4 travasi. Terminato l’affinamento, il vino è messo in bottiglia dove riposa per altri 6 mesi prima della commercializzazione. quantità prodotta: 70.000 bottiglie circa note organolettiche: di colore rosso rubino intenso, è caratterizzato da spiccati sentori di frutta matura, in particolare mirtillo, ribes e ciliegia a cui si aggiungono note floreali di viola mammola e dolci di vaniglia, tabacco e cacao. È speziato, con note di pepe verde e nero, che si armonizzano con percezioni di clorofilla. in bocca è complesso, intenso, morbido ed equilibrato, con tannini larghi e potenti. lungo e armonico il finale. Prima annata: 1974 Le migliori annate: 1985, 1990, 1997, 1999, 2001, 2006 note: il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: di proprietà dei Marchesi de’ Frescobaldi dalla metà dell’Ottocento, il Castello di Nipozzano si estende su una superficie di 626 ha, di cui 300 vitati, 258 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. l’agronomo è lamberto Frescobaldi; collabora in azienda l’enologo Nicolò d’Afflitto.

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Grattamacco

Claudio Tipa


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L’ OBIETTIVO DI COSTRUIRE UN FUTURO DIVERSO Ricordo che quando l’enologo Maurizio Castelli mi parlò per la prima volta di Grattamacco, ero immerso in alcuni pensieri che, da giorni, catturavano la mia attenzione e mi vedevano impegnato nella ricerca della migliore soluzione possibile per garantire all’azienda vitivinicola di Collemassari una distribuzione e una programmazione commerciale adeguate.

Quel mondo del vino, che tanto mi entusiasmava e nel quale ero entrato solo da qualche anno, presentava per me ancora delle incognite che sentivo la necessità di approfondire. Pur conoscendo bene, in termini imprenditoriali, quali fossero le dinamiche utili a determinare il successo di un’impresa vitivinicola e quali iniziative fossero necessarie per attivarle, così da sopperire agli enormi sforzi economici intrapresi, mi trovavo ad avere davanti a me diverse problematiche da risolvere, ognuna delle quali poteva essere affrontata con svariate soluzioni che aprivano nuovi scenari, in termini di opportunità, con le relative incognite. Pur avendo stilato un’adeguata strategia di sviluppo dell’azienda Collemassari, mi ritrovavo, da una parte a risolvere alcune questioni oggettive che la riguardavano - come il non avere ancora né un’adeguata produzione, né una vera e propria cantina - e dall’altra ero costretto a dover tenere conto di alcuni aspetti soggettivi dovuti all’inesperienza e che riguardavano la conoscenza delle infinite sfumature che regolano il mercato del vino o le problematiche che sussistono nella gestione di una rete commerciale in questo specifico settore. Per trovare la soluzione a quelle tematiche potevo contare solo sull’esperienza da me precedentemente acquisita in altri settori imprenditoriali, sapendo che per far funzionare le cose ci vuole tempo; e perciò ce ne sarebbe voluto anche per produrre vini di alta qualità e creare una rete di vendita che funzionasse come desideravo. Di tempo, tuttavia, ne avevo a disposizione molto poco e il più grande rischio che correvo era quello di sprecarlo nell’attesa di trovarmi in cantina vini invenduti. Riflettendo su questo pericolo mi ero messo in cerca di un’azienda che possedesse già una rete distributiva funzionante e ben inserita sul mercato. Intrapresi varie ricerche, inizialmente nella provincia di Siena, ma nessuna azienda sembrava possedere i requisiti che ritenevo indispensabili per attuare i miei progetti. Fu appunto Maurizio Castelli a darmi l’indirizzo giusto, informandomi del fatto che Piermario Meletti Cavallari, allora proprietario di Grattamacco, desiderava fare un passo indietro rispetto all’impegno assunto nella sua azienda, ed era in cerca di chi, con una maggiore e costante presenza, prendesse a cuore le sorti dell’attività alla quale aveva dedicato gran parte della

sua vita. L’idea di avere delle vigne a Bolgheri, vicino al mare, mi piacque molto e inoltre ero anche ben predisposto verso i vini di Piermario, i quali avevano allietato le mie nozze con Maria. Quando vidi l’azienda, pensai che quel piccolo gioiello vitivinicolo avrebbe potuto rappresentare una sorta di modello in miniatura di ciò che stavo realizzando a Collemassari, un banco di prova con il quale relazionarmi non solo sul mercato, ma anche con i media, verificando quelle strategie di pubbliche relazioni che avevo in mente di attuare: un campo di regata che mi avrebbe consentito di allenarmi, mettendo a punto performances significative attraverso le quali movimentare quel comparto vitivinicolo nel quale intendevo inserirmi, apportandovi la mia personale interpretazione del vino e adoperandomi per la creazione di una perfetta filiera produttiva. Fra me e Piermario si concluse tutto in modo rapido, con una semplice stretta di mano, come si usa tra gentiluomini, concordando, inizialmente, che avrei preso l’azienda in affitto con un’opzione d’acquisto, da verificare in seguito, ma che, puntualmente, dopo qualche anno, accettai. Collemassari diventò così proprietaria di Grattamacco a tutti gli effetti. Il resto è storia recente nella quale si inserisce la bella amicizia che mi lega a Piermario e anche quella costante progressione con la quale sto costruendo il mio puzzle vitivinicolo in cui si inserisce quest’azienda che, da quando ne ho preso le redini, è riuscita ad ampliare il suo spettro operativo, qualificando ancora di più la sua produzione e consolidando la propria immagine all’interno di quella grande tradizione vitivinicola toscana che tuttavia, ultimamente, non esercita più quella funzione trainante come, invece, il peso della sua storia e della sua cultura potrebbero far supporre. Forse è la mia specifica impostazione imprenditoriale, con la quale sono riuscito ad acquisire una visione globale del mondo del vino, a farmi confutare l’immobilismo di questa regione, rimasta troppo a lungo seduta: vivere di rendita non è più sufficiente a promuovere le eccellenze che i suoi territori sanno esprimere. Non so se il confronto con un passato tanto importante può aver prodotto diffidenza verso il nuovo, ma è inconfutabile il fatto che non è più capace di dare nessun aiuto a chi si è posto l’obiettivo di costruire, come azienda, un diverso futuro per i territori in cui opera.


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GRATTAMACCO

BOLGHERI ROSSO DOC SUPERIORE GRATTAMACCO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Merlot e Sangiovese provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, situato nel comune di Castagneto Carducci, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I 10 ettari del vigneto, coltivati secondo i dettami dell’agricoltura biologica, sono suddivisi in 7 microzone e posti su terreni con 3 tipologie di suoli: arenarie calcaree, argille miste a flysch calcareo marnoso ed argille calcaree. L’altitudine media è di 100 metri s.l.m., con un’esposizione a sud/ sud-ovest. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 65%, Merlot 20%, Sangiovese 15% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 5600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda settimana di settembre, si procede alla selezione delle uve e alla diraspapigiatura delle uve raccolte interamente a mano; il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica con lieviti autoctoni. Questa fase, svolta in tinelli troncoconici aperti in legno di rovere da 8 Hl, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che, a seconda dell’annata, continua per altri 10-15 giorni, durante i quali vengono effettuate frequenti follature manuali; la fermentazione malolattica è svolta totalmente da batteri indigeni e viene effettuata in barriques di rovere francese da 225 lt di 1°, 2° e 3° passaggio, mantenendo separate le varietà; il prodotto vi rimane per 12 mesi, poi viene eseguito il taglio, successivamente torna in barriques per ulteriori 6 mesi di maturazione; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 5-6 mesi; poi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso di grande luminosità, il vino al naso si presenta con profumi intriganti di piccoli frutti neri di bosco maturi e amarena che vanno ad intrecciarsi con ampie note sapide, di macchia mediterranea e minerali, poi in evoluzione verso percezioni vegetali e floreali di petali di viola appassiti, spezie dolci, liquirizia, vaniglia in polvere e cioccolato. In bocca è ricco, pieno, intrigante, “territoriale”, equilibrato, con tannini di grande eleganza. Nel lunghissimo e persistente finale emergono ampie nuances di tabacco e cuoio. Prima annata: 1982 Le migliori annate: 1985, 1988, 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2005, 2006 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: Fondata nel 1977 da Piermario Meletti Cavallari, è di proprietà di Claudio e Maria Iris Tipa dal 2007, dopo 4 anni di affitto agrario. L’azienda si estende su una superficie di 34 Ha, di cui 12 vitati, 5 occupati da oliveto e il resto da bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Giuliano Guerrini, l’enologo Luca Marrone con la consulenza dell’enologo Maurizio Castelli.

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GuaLdo

deL re

Nico, Maria Teresa, Federico Rossi


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ALLORA ERA AMORE E LO È ANCORA ADESSO Seguendo la vecchia Aurelia, attraverso Riotorto e mi addentro in quella terra opulenta che oggi è diventata la Val di Cornia, fra campi di grano, olivi, viti e coltivazioni di carciofi.

Per districarmi, in quel dedalo di piccole strade di campagna tutte eguali, ho come punto di riferimento il medioevale paese di Suvereto, che si erge in lontananza, incorniciato da colline boscose dove si divertono i cinghiali e i fungaioli della zona. Un territorio ricco di un passato glorioso; fu concesso nell’anno Mille da Papa Gregorio VII agli imperatori longobardi, i quali nominarono questi luoghi, lussureggianti di vegetazione, con la parola Wald (Gualdo), che in tedesco significa bosco e anche “ciò che di più bello si trovi su queste colline” che guardano l’etrusco mare. Qui, in contrada Notri, Nico Rossi e sua moglie Maria Teresa hanno costruito Gualdo del Re. Un sogno portato dentro da Nico fin da bambino, quando giocava nella vigna del nonno, imparando, da quel saggio contadino, a potare la vite e a vendemmiare, allargando così i suoi orizzonti verso quel mondo del vino che, più tardi, lo avrebbe coinvolto a tal punto da orientare le sue future scelte di vita. Un sogno fatto suo anche da Maria Teresa, che ha colorato di una solare positività quello di entrambi, difendendolo come potrebbe fare una madre con il figlio che tiene in grembo. Parole misurate e dolci con le quali mi ritrovo a dialogare con chi non fa mistero né dei sacrifici affrontati per realizzare ciò che oggi li circonda, né di quanto l’amore che li unisce abbia contribuito, più delle passioni, a dar loro la forza per superarli. Fermo un attimo il mio incedere incalzante di domande e mi soffermo a pensare a quanto siano vere le parole di Dante quando scriveva “Amor che move il sole e le altre stelle”. È il sentimento più grande dell’uomo e il motore stesso che anima l’universo e determina i cicli della vita. Vorrei saperne di più, ma lascio che le parole seguano il loro corso, poiché noto come per loro non è facile parlare di quest’azienda senza nascondere quale sia stata la causa prima, imperscrutabile, della loro vita che ha teso le trame di questa passione per il vino. Li ascolto attentamente e scopro, in quel loro semplice modo di raccontarsi, come parlino solo d’amore anche quando mi narrano di vigna, cantina e vino; una parola che, come un’ombra, segue tutte le altre, senza la quale non crescerebbero i grappoli nelle loro vigne, non si riempirebbe di mosto odoroso la cantina, né loro stessi avrebbero la forza di fare i vignaioli.

Una storia semplice, di una coppia felice che ha dato corso al proprio destino grazie a quell’amore che percepisco mentre li guardo negli occhi e che da essi si diffonde in tutte le cose che li circondano; un sentimento che li tiene uniti, che li ha spinti a lasciare le sicurezze dei rispettivi lavori per ricominciare tutto da capo, pur di poter realizzare il loro grande sogno. Tutto è riconducibile ai primi 5 ettari di vigneti esistenti nell’azienda del nonno e a dell’uva acquistata dai contadini confinanti con la liquidazione riscossa dai precedenti “posti fissi” di elettricista e ragioniera. A chi sarebbe venuto in mente di investire in agricoltura proprio a Suvereto, nel 1983? Tutti li prendevano per matti, ma loro, decisi, cominciarono a disegnare quell’affinità elettiva rurale e familiare che, con coraggio, determinazione e pazzia, mattone dopo mattone, li ha spinti a costruire le fondamenta dell’avventura in cui si ritrovano ancora oggi, continuando a consigliarsi come sempre. Hanno gli occhi luminosi, Nico e Maria Teresa, mentre si raccontano, consapevoli di essere entrati a far parte, anche loro, della grande storia vitivinicola di questa regione, uniti in coppia in questo viaggio enologico ancora tutto da scrivere, applicando quella tradizione trasmessa loro dalle generazioni precedenti, l’ultima delle quali, negli anni ‘60, impiantò, in collaborazione con l’Università di Pisa, il primo vigneto allevato a cordone speronato della Val di Cornia e mezzo ettaro di Vermentino con il quale, nel 1986, Nico realizzò il primo bianco in purezza dell’azienda. Lo assaggio, trovandolo di gusto deciso nel suo sapore e rivedendo, nella limpidezza di quel vino, l’amore tra Nico e Maria Teresa, lo stesso che tiene unita la famiglia, semplice e spontanea come è raro incontrare. Sorridiamo ripensando ai tempi “militanti” del primo Vinitaly del 1984, quando entusiasti partirono con un furgone “mitico” sulla cui carrozzeria era stampato il nome della città di Livorno, sentendosi protagonisti di una kermesse nella quale promuovevano, per la prima volta, Suvereto e la Val di Cornia. Allora era amore e lo è ancora adesso, quando giocano a rincorrersi tra le vigne con il loro nipotino Davide, cercando le lucciole.


Hanno gli occhi luminosi, Nico e Maria Teresa, mentre si raccontano, consapevoli di essere entrati a far parte, anche loro, della grande storia vitivinicola di questa regione...

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GUALDO DEL RE

VAL DI CORNIA SUVERETO DOC MERLOT I’RENNERO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Merlot provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Notri, nel comune di Suvereto, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 15 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine argilloso-sabbiosa, ad un’altitudine compresa tra gli 80 e i 100 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-ovest / sud-est. Uve impiegate: Merlot 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima-seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio inox, si protrae per 1 giorno ad una temperatura di circa 25°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che si protrae, a seconda dell’annata, per altri 10-15 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese da 2,25 Hl, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 15 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 3-4 mesi. Terminata la maturazione e dopo 4 mesi di decantazione in acciaio inox, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino quasi impenetrabile con riflessi violacei, al naso il vino offre uno spettro olfattivo decisamente complesso ed intenso con profumi di ribes, mirtillo e frutta rossa in confettura, percezioni di cioccolato, tabacco, liquirizia, a cui si sommano note vanigliate e di cannella. All’esame gustativo è pieno, di corpo, con tannini levigati e suadenti e con ottima corrispondenza naso-bocca. Nel lungo e persistente finale emergono ricordi di amarena, ribes e prugna. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001, 2005 Note: I’Rennero è la trascrizione di “Il Re Nero” in dialetto livornese. Il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Rossi dal 1953, l’azienda agricola si estende su una superficie di 43 Ha, di cui 22 vitati, 3,5 occupati da oliveto e 13,5 da seminativi. L’azienda si completa con un agriturismo aperto tutto l’anno composto da 9 appartamenti e dal ristorante. Collaborano in azienda l’agronomo Ugo Damerini e l’enologo Barbara Tamburini.

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Guicciardini strozzi

fattoria di cusona

Girolamo Guicciardini Strozzi


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mi sono aPPassionato Al ViNO e nella nobil terra alta e turrita del bel san gimignan Facemmo gita. lunghe e larghe le strade a quella terra, sta soVra un colle che più colli abbraccia e ha più torri altissime da terra, e un campanil ch’è Forse cento braccia… ma i terrazzani altrui sempre Fan guerra con una traditoria lor Vernaccia che danno a bere a chiunque Vi giunge che bacia, lecca, morde e picca e punge. michelangelo buonarroti Sono un principe ormai attempato a cui non fa paura esserlo; anzi sono sereno, poiché ho trascorso gran parte della mia esistenza a fare ciò che amavo, dividendomi fra i giovani dell’università, dove insegno ormai da quasi quarant’anni, e la campagna, compiacendomi del reciproco scambio che sono riuscito ad instaurare con questi due mondi, a contatto dei quali mi sono sentito sempre gratificato, trovando la forza, inoltre, di non recidere il filo che unisce la storia della mia famiglia alla terra di Toscana. Quanti ricordi mi legano ai volti di bruno Ciari, Natale Olivieri o gino Ceccherini, il capo operaio di quest’azienda di Cusona, forte come una roccia e magro come un’acciuga. Operai, coltivatori, mezzadri che avevano voglia di fare sempre bene tutto quello in cui si impegnavano. Avevano il piacere di confrontarsi con la terra alla quale dimostravano fiducia, oltre che un attaccamento e un rispetto inconsueti per chiunque altro, avevano membra legnose e dita come tralci di viti, nodose e magre, sempre attenti a osservare il cielo con quell’ironica coscienza dettata dalla loro naturale soggezione alle leggi della natura. erano vogliosi di far nascere sano il grano, di potare il pioppo, la quercia, l’acero o la vite con una dedizione che oggi sembra scomparsa nei giovani dediti a questo lavoro che affrontano più con lo spirito del metalmeccanico che con quello del contadino. Al giorno d’oggi sono quasi del tutto scomparsi il coinvolgimento, la passione, il sentirsi parte integrante di un sistema che ha come punto di riferimento la terra, il lavoro, il risultato. Ciò che manca è la purezza d’animo, la semplicità e quel candore che distingueva uomini come bruno, Natale e gino, simili a molti altri che hanno modellato questo territorio; uomini che nel tempo hanno piantato questi cipressi, tracciato la strada bianca che sale a Cusona o quella che corre in mezzo alle vigne e agli olivi, costruito le mura di cinta di questa dimora di campagna nella nostra famiglia fin dal 1400, e pur dovendo accettare la loro mancanza, non posso transigere sull’assoluto rigore di voler preservare ciò che essi hanno contribuito a tramandare cucendolo a doppio filo al vino. Volti di cui ricordo i nomi, come ricordo quelli di tanti altri che in que-

sti cinquant’anni si sono alternati al mio fianco. Sono loro i veri eroi che mi hanno permesso di prolungare la storia di quest’azienda, punto di riferimento della mia famiglia per sei secoli, facendomi dimenticare quelle iniziali titubanze che mi assalirono nel 1961, dopo la morte di mio padre, quando, appena laureato, mi ritrovai doverosamente a dirigere la fattoria. Al loro fianco ho abbandonato le remore e le perplessità e ho riconvertito l’azienda rendendola più moderna, espiantando i vigneti di pianura e collocandoli in collina, ristrutturando la cantine secondo le più moderne tecnologie per la vinificazione e l’imbottigliamento, avviando i primi tentativi di commercializzazione dei vini prodotti che, prima di allora, erano venduti sfusi o in damigiane. insieme a loro mi sono appassionato al vino e l’obbligo iniziale si è trasformato in piacere, in soddisfazione, in entusiasmo, sentimenti che ancora mi coinvolgono, poiché sono ancora vivi in me forse più di allora, visto che riesco a comprenderne ora le sottili sfumature che lo regolano e lo pongono in relazione a quelle stesse colline, ai cipressi, ai vigneti e al territorio disegnato da quegli uomini. per questo, quando produrre vino ha assunto connotati sempre più imprenditoriali, orientando le strategie all’incremento degli utili per quest’azienda, non ho dimenticato quei volti e non ho banalizzato il passato facendolo apparire folclore, come non ho mai sminuito quella loro passione che mi ha consentito di creare tutto questo, né, tanto meno, quella toscanità che ad essi apparteneva facendola assomigliare ad una cartolina per turisti. ed è a loro che dico grazie e a loro devo un doveroso riconoscimento insieme alla riconoscenza per i miei avi, che hanno saputo preservare e trasmettere intatta Cusona e la sua continuità storica e fisica. Spero che anche le mie due figlie, irina, che si occupa della parte amministrativa, e Natalia, che si adopera nelle pubbliche relazioni, sappiano cogliere il valore di questa storica tradizione legata con un lucchetto alla passione imprenditoriale e agricola della mia famiglia, ma anche alla vita di quegli uomini.


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la terra alla quale dimostravano ďŹ ducia...


FATTORIA CUSONA

VERNACCIA DI SAN GIMIGNANO DOCG CUSONA 1933 Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Vernaccia provenienti da vigneti selezionati, situati nel comune di San Gimignano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni alluvionali di medio impasto, sono situati ad un’altitudine di circa 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Vernaccia di San Gimignano 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: media di 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione pellicolare in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 10°C. Dopo 12 ore di decantazione statica del mosto, effettuata alla temperatura di 10°C, lo stesso è messo in acciaio, dove, una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura controllata di 18°C per circa 20 giorni; poi il vino, senza svolgere la fermentazione malolattica, sosta parte in acciaio e parte in barriques di rovere francese di Allier nuove, in cui rimane per circa 6 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: circa 30.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Dal colore giallo paglierino intenso con riflessi dorati, al naso il vino si presenta con note floreali di sambuco e acacia, percezioni di susine gialle e frutti tropicali maturi come ananas e mango, a cui seguono nuances ammandorlate e vanigliate. In bocca ha un’entratura fresca, sapida, equilibrata, con una bella acidità; asciutto, pulito, lungo e persistente, propone un finale in cui emergono ricordi di glicine e pesca bianca. Prima annata: 2006 Le migliori annate: 2007-2008 Note: Il vino, il cui packaging trae spunto dall’etichetta originale del 1933, raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e gli 8 anni. L’azienda: La Fattoria di Cusona, di proprietà della famiglia Guicciardini Strozzi dal 1400, si estende su una superficie di 530 Ha, di cui 75 vitati, 10 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco, riserva di caccia. L’enologo è Ivaldo Volpini. Collabora come consulente esterno Vittorio Fiore.

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...nel vino le cose piĂš complesse sensazioni piĂš belle...

e sfaccettate danno le


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icario

Alessandra , Andrea Cecchetti


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Un percorso che si è trasformato in un vero viaggio L’anfiteatro di queste terre baciate dal sole, con le creste delle vigne così intrise di bellezza, tanto eleganti da far sbocciare quanto di più “nobile” si possa immaginare, sono state la causa scatenante dell’innamoramento di nostro padre per questo luogo, spingendoci, di fatto, ad avviare un cammino quanto mai difficile all’interno del mondo del vino.

All’inizio tutto ci appariva fantastico, pur essendo a conoscenza che, se volevamo porci all’attenzione dei mercati, già in crisi alla fine di quegli anni Novanta, dovevamo prima di tutto ristrutturare gli immobili a disposizione, costruire una cantina e, soprattutto, sistemare i vigneti. Muoversi in un contesto storico del genere e in mercati sempre più competitivi, necessitava da parte nostra un’enorme chiarezza strategica, con la quale non solo delineare cosa veramente volessimo raggiungere e con quali strumenti ottenere i risultati, ma anche capire dove e come posizionare i vini che avremmo prodotto nell’azienda vitivinicola in costruzione. Seguendo la filosofia familiare, applicata a tutte le altre nostre imprese, con la quale abbiamo perseguito sempre l’idea di scegliere la via più diretta per raggiungere i risultati, ci siamo prefissati, ancor prima di entrare nel settore vitivinicolo, di analizzare ogni suo singolo aspetto e ogni metodologia operativa, nel breve, medio e lungo periodo, così da valutarne il contenuto, l’efficacia e il valore relazionale in grado di arricchire il risultato finale. Non è stato semplice congegnare ogni obiettivo e, anche se sono passati poco più di dieci anni, siamo soddisfatti del percorso fin qui avviato, poiché, nel frattempo, ci siamo evoluti e consolidati e non siamo più quell’azienda giovane e sconosciuta di qualche tempo fa. Quello che ci ha consentito di crescere è stato il decidere, fin dai primi momenti, di non lasciarci intimorire dai segnali provenienti dall’esterno, ma di proseguire per la nostra strada, spianando ogni ostacolo e tappando ogni buca posta davanti a noi, avviando ponderati e mirati investimenti sia all’interno dell’azienda, sia nell’ambito del marketing e della comunicazione, dando di fatto un imprinting a tutta la nostra azione, con la quale, oggi, Icario può vantare una sua visibilità e una specifica riconoscibilità in termini aziendali, essendo stati capaci di offrire vini piacevoli, unici e caratteriali. Un percorso che si è trasformato in un vero viaggio, in un’epopea entusiasmante dove ogni cosa, piano piano, sta andando al suo posto e magicamente, una volta collocata là dove deve stare, si va evolvendo, stimolandoci a dare sempre più vigore a ciò che avevamo definito a tavolino in un

continuo divenire che è ancora tutto da verificare. Un ottimismo che non ci ha fatto mai perdere di vista, però, il fine del nostro agire, alla cui base c’è la costruzione di un sincretismo perfetto fra il terroir a disposizione e i vini che andiamo a realizzare, impegnandoci a sviluppare e ad accondiscendere ai bisogni dei nostri vigneti, ricercando in essi la perfezione, così da raccogliere uve in grado di diventare poi grandi vini. Con sicurezza ci muoviamo in una viticoltura intraprendente, supportati da una ricerca scientifica mediante la quale abbiamo dato corso ad una selezione puntigliosa dei migliori cloni di Sangiovese, alle migliori potature e alla maniacale attenzione verso ogni fase della filiera produttiva, in modo da dare origine ad un Vino Nobile di Montepulciano di qualità. Bisogna dire che alla base di questo c’è una squadra compatta, dove tutti i componenti della mia famiglia si sentono coinvolti, da mio padre Giancarlo a mia sorella Alessandra, riuscendo insieme, a realizzare tutto quello che avevamo in mente, coerenti nel voler concretizzare i progetti passati e quelli futuri, uno dei quali è quello di arrivare presto a produrre le 160.000 bottiglie; un traguardo raggiungibile quando tutti gli impianti vitati saranno a pieno regime ed in linea con la fase di crescita che abbiamo avviato da anni, per cui, andando contro corrente, in questo momento ci pone fra i produttori della zona che hanno un trend di crescita più originale e moderno. Consolidata la produzione, non ci rimane da affrontare che uno degli ultimi step operativi per far conquistare ai nostri vini il giusto riconoscimento. E ci affidiamo a “Icario”, quale incaricato di Dioniso, per diffondere tra gli uomini la cultura del vino. Certi che questo si realizzi, continuiamo a migliorarci in ogni settore, a partire dalla cantina, moderna e creativa, ricca non solo di ogni strumento tecnologico e all’avanguardia, ma di architetture uniche dove coesistono l’arte, il paesaggio e il vino; una struttura moderna, trasparente, luminosa, colorata di quella terra di Siena che avvolge queste scatole di pietra posate sulle nostre colline come esempio visivo di quell’unico senso del bello che ricerchiamo.


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...E ci affidiamo a “Icario”, quale incaricato di Dioniso, per diffondere tra gli uomini del la cultura vino . Certi che questo si realizzi, continuiamo a migliorarci in ogni settore ...


ICARIO

VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO DOCG VITAROCCIA Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai migliori vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel Podere Fucile, in località Le Pietrose, nel comune di Montepulciano, le cui viti hanno un’età di circa 10 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine Pliocenica, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-ovest / sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini di acciaio a temperatura controllata, si protrae per circa 8 giorni ad una temperatura compresa tra i 24 e i 27°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 12 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri automatici. Dopo la svinatura, il vino rimane in acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques e tonneaux di rovere francese da 2,25 e 5 Hl in cui rimane per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione e dopo 1 mese di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie circa Note organolettiche: Colore rosso rubino quasi impenetrabile con riflessi purpurei tendenti al granato. Il naso, deciso e di lunga persistenza, propone una trama complessa oltre ad un bouquet di frutti neri e rossi maturi. Vino ancora giovane, ma già morbido e armonico. Con il prosieguo della degustazione l’olfatto sfuma su ricordi dolci di un pot-pourri di fiori appassiti, spezie, torroncino, tabacco da pipa e cannella, senza mai far emergere troppo il legno. Un vino con una grande storia davanti a sé che è stata appena tracciata. In bocca è un po’ più austero e la beva si mantiene su toni caldi, snelli, più varietali e meno rotondi che al naso; la progressione gustativa è decisa e sorretta da una sapidità ancora nascosta dietro la dolcezza; nel finale ripropone note di frutti neri, ricordi balsamici e accenni di liquirizia e caffè d’orzo. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2004, 2005, 2006 Note: Il vino, che prende il nome da un piccolo fiume che attraversa la proprietà, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Cecchetti dal 1999, l’azienda agricola si estende su una superficie di 35 Ha, di cui 20 vitati, 3,5 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Claudio Bressan e l’enologo Paolo Vagaggini.

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Alessandro Mori


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UN LUOGO DIVENUTO LO SPECCHIO DEI MIEI SOGNI Sono felice che tu sia venuto a trovarmi e possa osservare ciò che faccio, questa cantina e la vallata che si apre sotto i nostri occhi.

È splendida e personalmente la trovo unica per l’ampiezza e lo spettacolo che offre. Guarda laggiù: quella è Siena, dietro queste colline c’è il Casentino e in lontananza puoi vedere le cime degli Appennini. Non ti nego quante volte, con un bicchiere di vino in mano, mi fermo qui, sorseggiando seduto sotto questa pergola, ad osservare l’infinito di questo paesaggio. Questa che hai davanti è una delle tre microzone vitivinicole di Montalcino, è la vallata nord, molto differente sia da quella che guarda verso il monte Amiata - di Sant’Antimo e della Val d’Orcia per intenderci - sia da quella orientata verso il mare, cioè di Sant’Angelo, tanto per darti un punto di riferimento con il quale comprendere dove ci troviamo. In questa zona ci sono una gran parte delle aziende di Montalcino che tu senz’altro conosci. Vedi, quello lì è Casale del Bosco, questa sotto di noi è la collina di Montosoli di Altesino, là c’è Caparzo, mentre sulla destra c’è la Valdicava di Vincenzo Abbruzzese, quella un po’ più giù è la cantina di Giancarlo Pacenti e quelli lassù sono alcuni dei vigneti di Giacomo Neri. Sulla destra, dopo quei cipressi, ci sono alcune vigne di Biondi Santi e quelle, invece, un po’ più rade, sono di Maurizio Lombardi. Questa, a ridosso della cantina, circa 1,6 ettari, è la mia vigna storica alla quale ho dato il nome di Madonna delle Grazie, come la chiesa che ci sovrasta, davanti alla quale sarai sicuramente passato, uscendo da porta Burelli, per arrivare fino qui da Montalcino. Pensa che 15 o 20 milioni di anni fa tutta questa vallata era in fondo al mare e poco più sotto rispetto a dove ci troviamo adesso, c’era una spiaggia! Questo ha fatto sì che le terre siano ricche di fossili, di sabbie e anche di sasso, nella parte alta: non c’è traccia di argilla e creta; la sabbia fa da filtro, trattiene i minerali delle piogge, tiene umide le ramificate radici del Sangiovese e ci consente di non concimare mai la terra, nell’ottica, per quanto ci è possibile, di dare longevità alle nostre vigne. Vedi quella chiesa laggiù, nelle cui vicinanze ci sono quei filari di viti? Non mi ricordo il nome, ma sono sicuro che lì c’è la Via Francigena e in quel luogo si fermò anche il Papa... ma non mi chiedere quale però! In compenso ricordo perfettamente il momento dell’acquisto di quest’azienda. Eravamo a pranzo con mio padre da Vincenzo Abbruzzese e con noi c’erano anche Don Remo, un prete di Montalcino, e Martino Bramante, a cui mio padre domandò se conosceva qualcuno che avesse nella zona un pezzettino di terra. Poco dopo salivamo per questa strada, ripida come un’ipotenu-

sa, con quella Ford Anglia che tutti dovemmo spingere per far arrivare fin quassù. Mio padre s’innamorò perdutamente di questo panorama e dell’azienda composta soltanto dalla piccola casa alle nostre spalle, da qualche olivo e dalle viti sparse un po’ ovunque intorno ad essa. Non passò neanche una settimana e il Marroneto fu nostro. Questa collina divenne, per me e mio fratello Andrea, il nostro avamposto, il luogo dove abbiamo trascorso la nostra adolescenza e dove, invece di andare al mare nei fine settimana, ci divertivamo a fare i vignaioli e il vino, sviluppando, anche in quelle notti trascorse insieme dentro le botti mentre le pulivamo, con il casco integrale in testa e la pompa che spruzzava acqua bollente in mano, la nostra passione per questo meraviglioso mestiere. Giochi che lasciarono poi il posto agli impegni, quando mio fratello, seguendo la carriera paterna, diventò avvocato penalista ed io, dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza, entrai all’ufficio legale di una sede della banca MPS, a Roma; perciò tutto si fermò e questo luogo cadde nell’oblìo. Passarono otto anni, finché un giorno, portando quassù una bellissima fanciulla - in seguito divenuta mia moglie - mi ritrovai davanti ad uno spettacolo che lacerò la memoria che avevo di questo luogo. Rammento come quella piccola vigna intorno casa era completamente avvolta dai rovi ed entrando in cantina mi sembrò di varcare la soglia dell’antro delle streghe, con ragnatele che invadevano ogni cosa, mentre la porta, forzandola, emise un sinistro cigolìo di dolore quando provai ad aprirla. Ricordo ancora che era il settembre del 1993 e solo dopo dieci giorni avevo già presentato le mie dimissioni dalla banca, effettuando, di fatto, una radicale scelta di vita con la quale mi ricongiungevo a quest’azienda che sentivo fortemente mia. Da quel momento, il Marroneto divenne lo specchio dei miei sogni, della mia creatività e della mia stessa personalità con la quale ho deciso di vivere questo mestiere di vignaiolo, tenendo però sempre fede alla tradizione insegnatami fin dal momento del mio arrivo a Montalcino. Una tradizione che ho posto in equilibrio con quel mio modo d’essere un po’ irruento, ma vero, con l’onestà che contraddistingue il mio animo, rendendomi trasparente e sincero, e con quella semplicità con la quale riesco a non sottovalutare nessun particolare della filiera produttiva, così da ottenere questo meraviglioso Brunello che è ora di assaggiare, lasciando perdere tutte queste chiacchiere che, come sai, le porta via il vento.


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Una tradizione che ho posto in equilibrio con quel mio modo d’essere un po’ irruento, ma vero, con l’onestà che contraddistingue il mio animo, rendendomi

trasparente e sincero...


IL MARRONETO

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG MADONNA DELLE GRAZIE Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Madonna delle Grazie, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine pliocenica, ricchi di sabbie marine, fossili e minerali, zolfo e ferro, ad un’altitudine di 400 metri s.l.m., con un’esposizione a nord. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato a doppio arco Densità di impianto: 3.400 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, è avviato naturalmente alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini di legno troncoconico aperti, si protrae per circa 17-21 giorni ad una temperatura non controllata; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce. Durante queste fasi vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo in botti di rovere francese di Allier da 26 Hl, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 41 mesi; durante questo periodo si effettuano frequenti travasi, almeno 1 ogni 4 mesi. Terminata la maturazione e dopo 1 mese di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino con riflessi purpurei, il vino si propone al naso in modo profondo e complesso, con profumi netti di frutta matura nera e rossa che si mescolano ad altri di macchia mediterranea ricca di alloro, ginepro, rosmarino e salvia. Un vino di grande intensità olfattiva, dove successive percezioni di corteccia di quercia e di humus si uniscono ad un bouquet di note minerali, pietra focaia, foglia di tabacco e senape in chicchi. In bocca ha un’entratura elegante, con grande armonia, rispondenza ed equilibrio fra le percezioni olfattive e quelle gustative. Lungo e persistente, chiude con nuances sapide e piacevoli ricordi minerali. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2000, 2001, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dalla chiesa del Quattrocento che sovrasta i vigneti, raggiunge la maturità dopo 8-10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 40 anni. L’azienda: Di proprietà di Alessandro Mori dal 1974, l’azienda agricola si estende su una superficie di 9 Ha, di cui 5,5 vitati e il resto occupato da oliveto e castagneto. Svolge funzione di enologo e di agronomo lo stesso Alessandro Mori.

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Paolo De Marchi


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Un lavoro difficile, ingegnoso, creativo, che mi mette in relazione con tutto ciò che mi circonda Isole e Olena è entrata nella vita della mia famiglia nel 1956 ed io personalmente mi ci sono trasferito nel 1976: sono così più di trent’anni che vivo nel Chianti, trascorrendo la mia vita fra viti e olivi, cercando nel frattempo di diventar vecchio.

Un tempo infinito, durante il quale molte cose sono cambiate, contribuendo a ridisegnare quella tradizione vitivinicola che qui è sempre stata viva e con la quale mi sono confrontato, per comprenderla ed interpretarla, al fine di aver sempre chiaro cosa, intorno a me, stesse accadendo. Una disamina partita da lontano, da quella civiltà mezzadrile che ho avuto la fortuna di incontrare ancora viva quando, da ragazzo, trascorrevo le estati ad Isole ancora prima di trasferirmi qui in Toscana dal Piemonte, da Lessona, vicino Gattinara. Una cultura contadina e un mondo rurale che non esistono più, ma senza un’attenta lettura delle cause che ne determinarono la fine, creando una spaccatura e un black out di continuità fra le generazioni passate e quelle odierne, non mi sarebbe stato possibile capire il passaggio epocale che avvenne da quell’agricoltura “medioevale” alla più moderna economia imprenditoriale e di mercato che caratterizza, oggi, le aziende di questo territorio, né avrei ben chiaro cosa sia diventato poi il Chianti, come non sarei stato in grado di analizzare tutti gli altri eventi che hanno scandito la storia viticola di questi ultimi anni, i quali hanno dato origine non solo ai cosiddetti Supertuscans, ma alla stessa evoluzione della DOCG. Questo è stato un territorio che in poco meno di vent’anni, fra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta dovette coprire un gap temporale di seicento anni e in questa inevitabile ma frenetica e smaniosa rincorsa, molte cose furono distorte, mentre altre, per fortuna, centrate; di sicuro furono perse per strada importanti opportunità, con le quali, forse, non sarebbero stati commessi certi errori macroscopici. Per capire basta soffermarsi sul disciplinare con il quale fu data vita alla DOC Chianti Classico, la cui stesura, avvenuta nel 1967, fu affrontata senza lungimiranza, cristallizzando, per così dire, una situazione antecedente e tutto ciò che fino a quel momento era stato fatto, disconoscendo la realtà che andava via via evolvendosi. Furono anni in cui gli impianti dei vigneti e le stesse tecniche di vinificazione si modellarono ad un passato prossimo che, non avendo più ragione di esistere rispetto all’evoluzione sociale e dei mercati, diveniva sempre più un trapassato remoto. Per anni la tradizione è stata cementificata dentro schemi rigidi, disconoscendo come la stessa, essendo entità culturale di una popolazione, è in continuo divenire ed è parte integrante dell’innovazione. Per dare delle risposte più moderne e concrete nacquero i Supertuscans, con i quali si avviò un vero e proprio Rinascimento culturale ed enologico. Alcuni, ciecamente,

si spinsero a sollevare timori sul fatto che quei vini sottraevano visibilità al Chianti, accondiscendendo però, solo dopo una decina d’anni, al fatto che alcuni Supertuscans fossero trasmigrati, così com’erano, all’interno della stessa DOCG, rimodellata nel frattempo con modifiche estemporanee avviate in corso d’opera, cercando di tamponare - in quel regolamento già obsoleto quarant’anni fa - falle e crepe che facevano acqua da ogni parte. Una trasmigrazione foriera di più subdole conseguenze, cioè di una sempre maggiore omologazione dei vini prodotti sul territorio e di una nuova e quanto mai destabilizzante percezione della reale identità del Chianti Classico che dovrebbe essere, invece, valorizzata prendendo spunto proprio dalle specifiche e peculiari diversità che caratterizzano i suoi territori. Una confusione che non aiuta a fare chiarezza sui mercati di qualità, i quali sono a mio parere più interessati al più profondo concetto di origine dei vini che non a quello della semplice provenienza certificata del territorio dal quale arrivano o a quello della loro tracciabilità documentale, di cui molti si vanno riempiendo la bocca, ma che nulla in realtà garantisce sull’intrinseca “originalità” di un vino. In questi lunghi anni ho sviluppato una personale visione di quali siano gli elementi con i quali interagire, per capire, rispettare, esprimere e proteggere l’origine che vado cercando in un vino. Dopo 33 vendemmie ho compreso che per produrre vini d’origine è necessario possedere la conoscenza della scienza genetica e di quella ampelografica, della tecnica produttiva ed è necessario, inoltre, sapere quali siano le radici della propria cultura vitivinicola e imprenditoriale costruitasi attingendo a quella tradizione alla quale si appartiene, ponendo la priorità nella potenzialità della terra che si ha a disposizione, verso la quale è bene porre rispetto, fiducia e obbedienza. Un artifizio quasi algebrico, in cui è difficile districarsi e che comporta la costruzione di un pentagono dai cinque lati uguali, i quali, non essendo mai statici, devono essere ogni anno posti in equilibrio fra loro. Un lavoro difficile, ingegnoso, creativo, mai ripetitivo e senza fine che mi mette in relazione con tutto ciò che mi circonda oltre che al primo gradino di quella scala, la quale è necessario io salga per ricercare la qualità assoluta di un vino d’origine.


In questi lunghi anni ho sviluppato una personale visione di quali siano gli elementi con i quali interagire, per capire, rispettare, esprimere e proteggere l’origine che vado cercando in un vino.

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ISOLE E OLENA

CHIANTI CLASSICO DOCG Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione di uve selezionate di Sangiovese e Canaiolo (con piccola aggiunta di altre varietà), provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Olena, nel comune di Barberino Val d’Elsa, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 50 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni con tessitura di galestro e alberese ben drenati, ad un’altitudine di circa 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 80%, Canaiolo 15%, altre (Syrah) 5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot e cordone speronato Densità di impianto: 3.000-7.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 12-15 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per alcuni altri giorni, durante i quali vengono effettuati follature, délestages o rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è mantenuto in serbatoi fino a completo svolgimento della fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato parte in botti da 40 Hl, parte in barriques di 3-5 anni, in cui rimane per circa 12 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi secondo necessità. Terminata la maturazione, si procede all’assemblaggio definitivo e, dopo un breve periodo di riposo, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di alcuni mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 130.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino brillante, il vino si presenta all’esame olfattivo con percezioni fruttate di amarena e piccoli frutti rossi del sottobosco come ribes e fragoline selvatiche che si mescolano a note di cassis e di alloro. La bocca risulta piacevole, calda, con tannini ben evoluti; molto interessante l’acidità al cospetto di una sapidità non molto accentuata: elementi che contribuiscono a rendere il vino immediato e di buona persistenza. Chiude con nuances minerali e ricordi di rosa. Prima annata: 1969 Le migliori annate: 1982, 1988, 1990, 1993, 1996, 1999, 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Paolo De Marchi e della sua famiglia, l’azienda agricola si estende su una superficie di 290 Ha, di cui 50 vitati, 10 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Paolo De Marchi svolge in azienda le funzioni di agronomo ed enologo, coadiuvato dai suoi validi collaboratori.

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Laura Fabiani


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L’AMORE E LA PASSIONE PER QUESTA TERRA DI MAREMMA La vita è semplicemente un mauvais quart d’heure composto di attimi squisiti

Oscar Wilde

Mi sono innamorata della Toscana in un battibaleno. È bastato soltanto un attimo fatale, come scrive in un suo aforisma Oscar Wilde. Semplicemente un quarto d’ora. Un attimo squisito per decidere di smettere di fare e disfare le valigie che, di regola, da Bergamo mi accompagnavano spesso, come una studentessa pendolare, a Castagneto Carducci, nell’azienda vinicola di famiglia, acquistata nel 1975 da nonno Otello che, essendo nato a Piombino, da buon toscanaccio amava moltissimo la sua Maremma toscana. Ero quasi prossima; mancava un quarto d’ora al mio arrivo in quella località dove di solito trascorrevo le vacanze estive, con l’idea di dare soltanto una mano, ma niente più. Non pensavo che, di lì a poco, avrei deciso di rimanervi, cambiando improvvisamente la mia vita e facendo di questo paesaggio di cipressi, colline, vigne e oliveti - così diverso dal paesaggio del nord a cui ero abituata - il mio compagno di ogni giorno, capace di dilettare e addolcire la mia vista. Un viaggio a ritroso, alle origini della mia famiglia toscana, vicino a quella Piombino dove era nato nonno Otello, il quale, condividendo la passione di questa terra con l’altro nonno Albino, decise di affidargli la gestione dell’azienda; infatti il nonno Albino fino a pochi anni fa lavorava ancora a tempo pieno in quest’azienda e con lui, fin da ragazzina, aiutavo nel tempo delle vacanze scolastiche a raccogliere le pesche e le prime uve bianche secondo l’antica tradizione. A nonno Albino si erano poi sostituiti mio padre e mio zio, con i quali ho condiviso - e condivido tuttora - la passione per questa terra, la stessa che mi ha portato ad appendere le chiavi della macchina ad un chiodo in cantina. L’amore e la passione per questa terra di Maremma hanno scelto per me e sono stati questi i due alleati grazie ai quali ho trovato il coraggio di fermarmi qui, da sola, nei lunghi inverni: mi hanno spinto ad affrontare questo lavoro di vignaiola, da sempre interpretato, in questo luogo, al maschile, superando le difficoltà e sentendolo di giorno in giorno più mio. Un percorso di crescita professionale con cui mi sono arricchita e che mi ha dato grande soddisfazione, arrivando a farmi davvero comprendere il valore di questo territorio, della natura, delle stagioni, di una vita passata in simbiosi com-

pleta con questo paesaggio che, dolcemente, è entrato dentro di me. Certe volte ho l’impressione di trovarmi davanti ad un grande quadro, dipinto ad olio, con colori forti, che si lascia contemplare, facendo nascere in me un moto interiore capace di migliorare il mio carattere semplice e scherzoso con il quale affronto la quotidianità. In questi anni l’azienda è cresciuta, ed io con lei; si è ampliata, sono aumentati i collaboratori - con un bravo enologo come Francesco Venerini, un nuovo cantiniere e un nuovo trattorista - sono state innovate la cantina e tutta la linea d’imbottigliamento, al fine di restituire prestigio e valore alla proprietà che, per un periodo, non era riuscita a stare al passo della crescente attenzione che Bolgheri richiamava su di sé. In questo processo evolutivo non sono mancati i momenti difficili e impegnativi che mi hanno fatto mettere in dubbio le strategie produttive e la filosofia aziendale da me delineata; momenti fortunatamente superati e dimostratisi utili per affinare i miei obiettivi, promossi e condivisi soprattutto dal nostro enologo, orientati verso la qualità assoluta dei vini prodotti e l’ampliamento dei mercati, così da far conoscere come essi fossero capaci di esprimere la genuinità di quest’area che mi sforzo di tutelare, difendere, salvaguardare e valorizzare. Sono passati diversi anni e, in tutto questo tempo, ho fatto sì che le chiavi rimanessero ancora lì, in cantina, appese al chiodo, a simboleggiare come l’amore e la passione - sentimenti ancora intatti in me - possano trasformare un’esistenza. Qui arriva il vento di mare e la Cipriana è il mio porto sicuro, dove posso liberamente esprimere questa mia passione per il vino, facendomi apprezzare tutto ciò che sta dietro ad esso, dalle viti al grappolo, dalla campagna alla cantina, dalla comunicazione alla vendita, all’ospitalità offerta nell’agriturismo, raccontando, ai miei ospiti, come, anno dopo anno, io mi sia trasformata, diventando un tutt’uno con queste vigne, dove mi ritrovo padrona del mio tempo; un tempo da condividere con gli amici produttori, ristoratori o enotecari di Castagneto Carducci, tutti impegnati, come me, nella promozione di questo bellissimo angolo di Toscana.


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...Sono passati diversi anni e, in tutto questo tempo, ho fatto sì che le chiavi rimanessero ancora lì, in cantina , appese al chiodo, a simboleggiare come l’amore e la passione - sentimenti ancora intatti in me - possano trasformare un’esistenza...


LA CIPRIANA

BOLGHERI SUPERIORE DOC SAN MARTINO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon e Petit Verdot provenienti dal vigneto Scopaio-Campastrello, di proprietà dell’azienda, situato in località Campastrello, nel comune di Castagneto Carducci, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 15 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine alluvionale, ad un’altitudine compresa tra i 40 e i 60 metri s.l.m., con un’esposizione a ovest / sud-ovest. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 80%, Petit Verdot 20% Sistema di allevamento: Controspalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vasche di cemento, si protrae per circa 4 giorni ad una temperatura di 26-28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, altri 15-18 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in tonneaux e in vasche di cemento, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere francese da 2,25 Hl e in tonneaux da 5,0 Hl, di primo e secondo passaggio, in cui rimane per 12-18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 3 mesi. Terminata la maturazione e dopo 3 mesi di decantazione in vasca, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 3.000 bottiglie circa Note organolettiche: Il vino si presenta di un colore rosso rubino quasi impenetrabile, maturo e nel suo insieme luminoso; al naso, complesso, ampio e articolato, propone spiccati profumi di frutti neri tra cui more e prugne che vanno via via ad aprirsi su un bouquet di fiori appassiti, spezie dolci, note balsamiche iodate e minerali di pietra focaia. Bocca di spessore, centrata su freschezza e mineralità; caldo e di buon corpo, con tannini fini e sottili, chiude elegante su nuances di cuoio e cannella. Prima annata: 1978 Le migliori annate: 2001, 2004, 2006 Note: Il vino prende il nome da San Martino, la famosa poesia di Giosuè Carducci che descrive odori e sensazioni nella nebbia sottile di Castagneto durante il giorno della svinatura. La maturità è raggiunta dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà dei fratelli Fabiani dal 1975, l’azienda agricola si estende su una superficie di 12,5 Ha, di cui 8,5 vitati, 3 occupati da oliveto e 1 da infrastrutture agrituristiche. Collaborano in azienda l’agronomo Francesco Venerini e l’enologo Alberto Antonini.

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LamoLe

di LamoLe Ettore Nicoletto


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luogo distinto, differenziato, caratterizzato da un topos unico So benissimo che si fa molta fatica ad arrivare fin quassù, inoltrandosi per questa tortuosa stradina che, da Gaiole in Chianti, si inerpica fino a Lamole, la reggia senza corona, come amorevolmente mi piace definirla.

Una volta arrivati, però, non si può far altro che rimanere a bocca aperta guardando il panorama che si apre davanti agli occhi, tanto ampio da ripagare qualsiasi viaggio intrapreso. Un paesaggio selvaggio, duro, addolcito solo dalle viti, a cornice del quale ci sono queste quattro case e una decina di anziani che le abitano e che ti guardano curiosi, come solo i vecchi sanno essere, di capire la ragione per cui uno si spinga fino a Lamole. Sono contadini o vecchi mezzadri che hanno ammorbidito, con la fatica e il sudore, ciò che ora colpisce il cuore. Incrociando i loro sguardi, è facile comprendere quante siano le domande e le cose che avrebbero da chiedere e quante le storie da raccontare. Storie uniche, antiche, tutte diverse, per ascoltare le quali non basterebbero le poche ore a mia disposizione. La loro è l’attenzione riservata al forestiero che, come me, arriva da lontano; dura poco, però, e lascia spazio al silenzio e ai profumi delle piante e delle essenze che crescono a fianco di questi vigneti; effluvi che si diffondono nell’aria pizzicando il naso. Lamole è un posto unico, non contrassegnato nelle mappe turistiche, ed è raggiungibile solo da chi abbia voglia di perdersi fra le mille vie di questo Chianti Classico. Colline di Toscana poste a quasi 600 metri sul livello del mare, dove mi ritrovo a venir sempre volentieri per dirigere un progetto vitivinicolo ambizioso che, come amministratore delegato del Gruppo Vinicolo Santa Margherita, sto portando avanti da qualche anno, attivando un importante programma di investimenti, con l’idea di realizzare, su queste alture, vini unici, non contaminati, differenti da qualsiasi altro Chianti, in grado di valorizzare le caratteristiche pedoclimatiche di questo terroir e il binomio creatosi fra l’uomo e il territorio; vini con uno loro stile, riconoscibili e in grado di avere visibilità sui mercati. Un obiettivo aziendale forse comune a tante altre aziende, ma che, nel nostro caso, prende spunto da una rigorosa filosofia con la quale viene posto al centro di ogni nostra azione il fatto che il vino deve essere il frutto del lavoro svolto in vigna e che il vigneto deve essere rispettato. Per far questo ho delineato un programma il più scientifico possibile, attivando sperimentazioni, analisi e mappature dei terreni, così da ottenere dai nostri

vigneti ogni elemento con cui codificare dati che il nostro laboratorio enologico interno elabora poi in modo virtuoso. Una metodologia operativa, applicata ad ogni fase, che interagisce con la filiera produttiva, assimilata da tutti coloro che fanno parte dello staff di Lamole, ognuno dei quali, responsabile del proprio ruolo, crea un equilibrio costruttivo e propositivo. Un progetto in divenire per il quale ho dovuto effettuare delle scelte che, in alcuni casi, mi sono sembrate delle vere e proprie sfide lanciatemi da questo luogo, inerpicato quassù su queste colline; una di queste, ad esempio, è stata quella che ha coinvolto i dieci ettari del vigneto Campolungo, il nostro cru aziendale di Sangiovese, posto proprio sotto Lamole, un anfiteatro naturale unico, per la cui realizzazione è stata avviata un’operazione quasi eroica, sia per le difficoltà incontrate nella sistemazione dei terreni, sia per il dispendio di risorse economiche impegnate che non potranno mai essere ammortizzate. Certe volte ho la sensazione che le cose sulle quali mi sono attivato, le scelte effettuate e le sfide, fin qui vinte, vadano a comporre le parti mancanti di quel puzzle i cui confini coincidono con quelli di Lamole, rendendomi più chiaro quale sia il risultato finale che qui voglio ottenere; pur non essendo volumetricamente importante, rispetto a quello delle altre aziende di nostra proprietà, poste in Veneto, Sicilia, Lombardia e Alto Adige, esso si differenzia e crea un distinguo già all’interno del nostro Gruppo, non solo per il rigore con il quale qui si è costretti a produrre i vini, ma per il valore elettivo di questo territorio che, come nessun’altra area vitivinicola italiana, può vantare storia, tradizione e cultura enologica così pregnanti. Un progetto che vive anche un momento di visibilità con l’iniziativa “Profumi di Lamole” - giunta ormai all’ottava edizione - che rappresenta un formale invito per le istituzioni, i giornalisti e gli stessi produttori locali, a cui mostrare quanto sia grande il nostro impegno per costruire l’eccellenza intorno al Chianti Classico e intorno a Lamole, a questo luogo distinto, differenziato, caratterizzato da un topos unico, recuperato attraverso l’ambizione di voler ottenere risultati spendibili sui mercati di tutto il mondo.


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LAMOLE DI LAMOLE

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA VIGNETO CAMPOLUNGO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Cabernet Sauvignon provenienti dal vigneto Campolungo, di proprietà dell’azienda, posto in località Lamole, nel comune di Greve in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine eocenica, ad un’altitudine compresa tra i 370 e i 550 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 85%, Cabernet Sauvignon 15% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 3.300 ai 5.100 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vasche in acciaio di piccole dimensioni (50 Hl) a temperatura controllata, si protrae per circa 7-9 giorni ad una temperatura compresa tra i 22 e i 24 °C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 5-7 giorni, durante i quali vengono effettuati délestages e rimontaggi. Dopo la svinatura, il vino è posto parte in acciaio e parte in tonneaux, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in piccole botti di legno da 22 Hl, mentre una parte rimane in tonneaux di secondo e terzo passaggio per 12-18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 4 mesi. Terminata la maturazione, il vino viene assemblato in vasche in acciaio e dopo 2-3 mesi è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 13.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino quasi impenetrabile, il vino si presenta al naso corposo ed esuberante, nonché profondo e complesso, proponendo note alcoliche armonizzate ad un bouquet vario e articolato che spazia da percezioni olfattive di frutti rossi maturi - come ribes, lamponi e ciliegie - ad altre di spezie dolci “arabeggianti” e mentolate, dai profumi suadenti e floreali di un bel pot-pourri di viola e rose rosse appassite ad accenni balsamici e di tamarindo che riportano alla mente anche ricordi di terra, foglie di alloro e timo. Il legno, sagaciamente distribuito, accompagna tutte le fasi della degustazione e si pone in equilibrio con nuances di lamponi e ciliegie mature. In bocca è coerente con le note olfattive e anche al gusto si fa quindi notare per i tannini eleganti e l’accattivante ed equilibrata rotondità; sul finale, lungo, ampio e persistente, sprigiona un bel gusto fruttato. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1985, 1988, 1990, 1993, 1997, 2000, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà del Gruppo Vinicolo Santa Margherita, l’azienda si estende su una superficie di 141 Ha, di cui 50 vitati e 4,15 occupati da oliveto. Collaborano in azienda l’enologo Andrea Daldin e il direttore tecnico del Gruppo, Loris Vazzoler.

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Le casaLte

Chiara BariofďŹ


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QUESTO È PER ME UN POSTO MAGICO Vorrei che fra cent’anni tutto rimanesse così e nulla mutasse, anche questa piccola pianta grassa, cresciuta sorprendentemente dentro un foro tra i mattoni delle scale di casa mia; allo stesso modo vorrei che continuassero a diffondersi le note delle canzoni trasmesse da questa radio, raggiungendo i contadini impegnati nei campi.

Desidererei che ogni cosa rimanesse viva in eterno qui, intorno a Le Casalte, e nulla alterasse questo splendido paesaggio o la fiducia ancora viva per questo lavoro agricolo capace di nobilitare e trasformare le persone, rendendole compagne infaticabili delle stagioni. Vorrei che le emozioni e le passioni vissute in tutti questi anni potessero arricchire l’animo delle future generazioni, le quali, come me, spero sappiano perdersi nella semplicità di questo luogo e nell’osservazione di coloro che sono dediti al lavoro nei campi, apprendendo i segreti del mestiere di vignaiolo. Sono stati i miei maestri, figure pazienti di un’epoca passata, sempre affaccendati a dialogare, con cipiglio e risoluta fermezza, con gli elementi della natura, la quale ha inciso loro rughe profonde sui volti, temprandone il carattere e facendoli diventare persone perbene. Una caratteristica diffusa fra la gente di questa Toscana, capace di indossare con signorile semplicità il vestito del contadino, lo stesso che metto quando lavoro nella mia azienda, riconciliandomi con la terra e con questo luogo. Questo è per me un posto magico. Attraverso un personale viaggio, qui sono riuscita ad affrontare le sfide - intraprese secondo la mia visione della vita - e a conciliarle con il mio carattere fiero e risoluto e con la normalità di cui sono circondata, rendendomi più dolce. Così mi ritrovo a proteggere la piccola pianta grassa che ha deciso di vivere cocciutamente fra i mattoni di questa vecchia casa colonica e al tempo stesso a compiacermi mentre mi perdo nei tramonti o a passeggio fra i filari dei miei vigneti, così distanti dal caotico vivere di una città come Roma - dove sono nata - e da quella mondanità, anche un po’ folle, dei foyer, dei teatri e dello shopping nelle strade alla moda, da cui mi sono allontanata, ma che sempre mi attrae. Una scelta di vita effettuata fra due poli opposti, ritrovandomi calamitata in quest’azienda - acquistata da mio padre e mia madre nel 1975

- che ho sempre considerato un piccolo scrigno capace di custodire un’infinità di cose, alcune materiali - come il vino e gli attrezzi utili alla sua produzione - e altre immateriali, che scendono nel profondo del mio animo e contribuiscono a rasserenarmi. Un luogo dove riesco a conservare le memorie della mia infanzia, l’immagine di quei contadini che ho visto diventar vecchi al mio fianco e quelle dei miei genitori, affascinati dalla Toscana dove si fermavano, tornando a Roma da Torino, lasciandomi libera di “radicarmi” fra queste viti delle Casalte ed esternare, con semplicità e schiettezza, i valori essenziali con i quali ho plasmato la mia esistenza. Sono estremamente orgogliosa di cimentarmi in questo lavoro di vignaiola, affrontato con la loro stessa onestà e con un impegno e una determinazione che non pensavo di possedere, doti nate in me, forse, per non deluderli, trovando il modo di ringraziarli della loro lungimiranza nell’avermi dato l’opportunità di mettermi alla prova in quest’impresa. Un lavoro svolto al fianco dei miei collaboratori, nelle vigne e in cantina, nella quale trascorro in solitudine intere mattinate, ad assaggiare i campioni dalle botti, imparando a distinguere le mille sfumature di gusto e colore dei miei vini, scoprendo quanto quelle molteplici distinzioni e tonalità siano lo specchio delle differenze offerte dalla vita. Mi piacerebbe che fra cent’anni, chiunque si trovasse ad arrivare alle Casalte, potesse ritrovare il piacere di riappropriarsi del suo tempo, scoprendolo nuovamente amico, come ho fatto io, e dialogare con esso senza affanno per scoprire se stesso. Vorrei che settembre continuasse ad essere ancora il settembre che conosco, la vendemmia fosse la solita vendemmia di sempre e ogni cosa contribuisse a dare, a quel viaggiatore, l’augurio di benvenuto in questo luogo di brava gente e di quiete che sa toccare il cuore.


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Vorrei che

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continuasse ad essere ancora il settembre che conosco, la

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fosse la solita vendemmia di sempre e ogni cosa contribuisse a dare, a quel

viaggiatore, l’augurio di benvenuto in

questo luogo di brava gente e di quiete che sa toccare il cuore.


LE CASALTE

VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO DOCG QUERCETONDA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (Prugnolo gentile) provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, situato in località Sant’Albino, nel comune di Montepulciano, le cui viti hanno un’età compresa tra gli 8 e i 17 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni collinari limoso-argillosi con presenza di scheletro, ad un’altitudine di circa 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sudest. Uve impiegate: Sangiovese (Prugnolo gentile) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e alberello Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha (il filare); 9.000 ceppi per Ha (l’alberello) Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla quarta settimana di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 11-13 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per alcuni altri giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino rimane nei tini di acciaio a temperatura controllata dove svolge la fermentazione malolattica e in cui poi rimane per 2 mesi. Da dicembre entra in botti grandi di rovere francese di Allier da 30 Hl, barriques e tonneaux nuovi e usati. Terminata la maturazione e dopo 1-2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6-12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 7.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino intenso quasi impenetrabile con un’unghia purpurea, al naso il vino offre profumi di frutti rossi e neri maturi tra cui mirtilli, more, marasche e prugne, che si amalgamano a note di macchia mediterranea, corbezzolo, alloro, ginepro, ad accenni balsamici, floreali di garofano e a percezioni di fieno e terra. In bocca ha un’entratura calda, potente, con bei tannini fitti e ben presenti che si abbinano ad una decisa mineralità; ricco, lungo e persistente il piacevole finale di sottobosco e cuoio. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001, 2003, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Barioffi dal 1975, l’azienda agricola si estende su una superficie di 39 Ha, di cui 13 vitati, 1,5 occupato da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collabora in azienda l’enologo Paolo Salvi con la consulenza di Giulio Gambelli.

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CinziaMerli Campolmi


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il mio ruolo di donna e di vignaiola toscana È vero che il tempo muta le cose, poiché posso assicurare di essere cambiata con lui, scoprendo come, giorno dopo giorno, in me si andava disegnando un’altra Cinzia, diversa da quella che pensavo di essere, molto più consapevole ed esigente, capace di non sentirsi mai arrivata né sconfitta, per quanto le difficoltà, talvolta, sembrassero ai miei occhi insormontabili.

Un cambiamento graduale, fatto di varie fasi, in alcune delle quali mi sono trovata persa, spaesata, in altre a galleggiare in attesa che gli eventi facessero il loro corso e in altre ancora ad acquisire la capacità di un dialogo più franco con me stessa per comprendere, sempre meglio, cosa volessi realmente essere e quali fossero i cardini sui quali, nei momenti di difficoltà, trovare la forza per tirare avanti e non sedermi sugli allori dei risultati ottenuti. Un percorso complesso, come tutti quelli che interessano la sfera personale, durante il quale sono riuscita a superare l’idea di dovermi misurare con il passato, scoprendo il coraggio di portare avanti in modo personale il progetto avviato, nel 1983, da mio marito, il quale si prefiggeva di costruire un’azienda in grado di interpretare in modo innovativo il territorio. Quando lui è scomparso, nel 2002, mi sono aggrappata a tutto ciò che mi era rimasto per colmare questa mia grande perdita, replicando anche il suo metodo di conduzione, senza rendermi conto dell’impossibilità del mio progetto dal momento che caratterialmente ero diversa da lui. Un errore umano, forse dovuto al fatto di avere due figli da far crescere e non voler mostrare, a loro e agli altri, di non sentirmi all’altezza di condurre un’azienda vitivinicola tutta da sola. Del resto, fino a quel momento mi ero sempre messa in secondo piano rispetto a mio marito, non intervenendo mai nel merito e nell’operatività di questa cantina e nella gestione dei 22 ettari di vigneti ad essa annessi. Ho scoperto, così, quanto il tempo mi fosse amico e quanto fosse capace, lentamente ma inesorabilmente, di porre una giusta distanza tra me e il mio dolore. Ho acquisito via via maggiori sicurezze, per cui anche la cura meticolosa dell’azienda si è fatta, giorno dopo giorno, sempre meno meccanica; partecipando sempre più ai piccoli e ai grandi problemi quotidiani, ho imparato a districarmi, a decidere e a trovare le soluzioni più giuste, coerenti con la mia personalità. Mi accorgevo che stava nascendo una nuova Cinzia, forgiata dal calore della sofferenza e che una nuova consapevolezza prendeva forma, sostituendo quell’immagine di persona dolce, carina e disponibile quale ero stata considerata fin dall’infanzia, in un’altra più severa, rigida e inflessibile che trovava nell’amore materno il sentimento sublime con il quale nutrire i sentimenti, poiché l’altro, quello che esiste fra una donna e un uomo, se l’era portato via Eugenio, mio marito. Con gli anni mi sono sentita sempre più serena e in questa terra, in queste vigne, in questo mondo del vino, vissuto fino ad allora da non protagonista, mi sono sciolta, ritrovando, per quanto possa sembrare paradossale, una mia morbida femminilità. Una femminilità ritrovata

che si è trasmessa ai miei vini, provando un piacere quasi sensuale nel progettarli. A volte mi chiedo cosa sarei adesso se le cose fossero andate diversamente. Sappiamo bene che la vita riserva sempre delle sorprese alle quali dobbiamo sottostare e forse tutto ciò era già scritto nel mio destino che, pur non essendo stato clemente, mi ha dato l’opportunità di misurarmi e di mettermi alla prova, avviando un percorso di crescita che sicuramente non avrei mai compiuto. Stando con i piedi ben saldi sulla terra, progetto, dirigo e programmo il futuro di quest’azienda in modo concreto, senza troppe illusioni o voli pindarici, scoprendo di non aver più paura della solitudine che, come un’amica, oggi mi dà conforto e mi consente di vivere momenti interiori unici, piacevoli, nei quali mi sembra di pensare con più calma alle mie cose, di posizionarmi in modo migliore nel mondo. Così facendo, mi predispongo al dialogo e concedo una maggiore disponibilità verso gli altri, vivendo sempre più positivamente il mio ruolo di donna e di vignaiola toscana.


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Una femminilità ritrovata che si è trasmessa ai miei vini, provando un piacere quasi sensuale nel progettarli.


LE MACCHIOLE

PALEO ROSSO IGT TOSCANA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Franc provenienti dai vigneti Casa Vecchia, Casa Nuova, Puntone, Vignone e Madonnina, di proprietà dell’azienda, situati in località Bolgheri, nel comune di Castagneto Carducci, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine alluvionale composti da argilla, limo e sabbia con presenza di scheletro, ad un’altitudine di 35-50 metri s.l.m., con un’esposizione nord-sud / est-ovest. Uve impiegate: Cabernet Franc 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 5.000-7.500-10.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito tra la seconda e la terza settimana di settembre, si procede alla selezione e alla diraspatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto svolge la fermentazione alcolica spontanea. Questa fase, svolta in acciaio e in cemento, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 32°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per circa 20 giorni, durante i quali vengono effettuati délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino svolge la fermentazione malolattica in barriques ad una temperatura di circa 20°C, al termine della quale viene sfecciato e messo in barriques nuove da 225 lt in cui rimane dai 12 ai 14 mesi; durante questo periodo si effettuano circa 3 travasi. Terminata la maturazione e l’assemblaggio delle barriques, il vino ha una stabilizzazione naturale in tini d’acciaio e dopo circa 2 mesi si procede all’imbottigliamento. L’affinamento in bottiglia prima della commercializzazione ha una durata di circa 12 mesi. Quantità prodotta: circa 25.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di colore rosso rubino con sfumate venature granato, al naso, profondo, intenso ed estremamente complesso, propone fini note vegetali di sottobosco e macchia mediterranea ricca di corbezzoli e alloro. Tali percezioni si aprono poi ad altre più complesse di foglia di tabacco essiccato e fieno, a ricordi fruttati di ciliegia e prugna e a nuances speziate di vaniglia e cannella, caffè, cacao in polvere e liquirizia amara. In bocca ha un’entratura elegante, fresca, equilibrata, con una spiccata acidità che lo rende piacevole e sostiene tannini setosi e ben amalgamati a una bella sapidità; lungo e persistente, chiude con accenni balsamici. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006 Note: Paleo è un termine dialettale che indica un’erba spontanea, simile alla gramigna, molto presente in vigna nel 1989, la prima annata di produzione. Fino all’annata 2000 il vino è stato prodotto come blend di Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc in percentuali variabili di anno in anno. Dall’annata 2001 viene utilizzato Cabernet Franc in purezza. Il vino raggiunge la maturità dopo circa 6-8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 15 anni. L’azienda: Fondata nel 1975, di proprietà di Cinzia Merli Campolmi, l’azienda agricola si estende su una superficie di 22 Ha, tutti vitati. Collabora in azienda l’enologo Luca D’Attoma.

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massa

veccHia Fabrizio Niccolaini


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Racconti nati dal grembo della terra e portatori di una grande forza educativa Mi è sempre piaciuto scoprire l’armonia che si crea fra la terra, le piante e gli altri elementi della natura che mi circondano e capire come essi, inspiegabilmente, riescono a porsi in equilibrio, in modo semplice, secondo delle regole precostituite, alcune delle quali ai miei occhi sembrano inspiegabili.

Allo stesso modo mi è sempre piaciuto osservare il comportamento umano davanti a quei piccoli eventi che certe volte sembrano insignificanti, e farmi raccontare, da chi ne ha capito il significato, il fascino subìto proprio nell’osservare quegli ancestrali meccanismi che scandiscono il corso della vita in campagna. Oggi poi, che si fa un gran parlare di natura e ambiente e cresce una maggior coscienza anche nel settore vitivinicolo, mi sono ricordato di Fabrizio Niccolaini, uno dei primi vignaioli da me conosciuti, che già venticinque anni fa, giovanissimo, aveva questa sensibilità che applicava nel rapporto con le sue vigne nella sua piccola azienda di Massa Marittima. Era passato un po’ di tempo dal nostro ultimo incontro. Ma non è cambiato e, come una decina di anni fa, è sempre in ritardo, perso come al solito nella sua campagna, dietro ai suoi animali, da qualche parte, ma non qui in cantina, dove abbiamo appuntamento e in cui trovo, come d’abitudine, le chiavi nell’uscio. Ah... che testa! Del resto, non poteva essere cambiato e mi sarei meravigliato se lo fosse stato; quando arriva con un mozzicone di sigaro toscano in bocca, asciutto come un’acciuga - come è sempre stato - è come se ci fossimo salutati ieri sera. Dopo una bevuta, inizia a raccontarmi, “liscio come l’olio”, della sua passione per la terra, nata molto tempo fa, fin da quando ascoltava suo nonno che, per addormentarlo, gli spiegava cosa volesse dire lavorare in campagna, gli raccontava le sue avventurose “cacciate” al cinghiale o le storie degli incontri che facevano i boscaioli indaffarati a tagliar alberi o quelle più buie che prendevano corpo nella miniera dove lui lavorava. Erano storie fantastiche, intense, che anziché addormentarlo lo tenevano sveglio. Erano favole che si animavano nei suoi pensieri di bambino e ripercorrevano le gesta di personaggi che seguivano le prede nella macchia, caricavano la pirite, si perdevano nei boschi o, frugando nella loro storia contadina, gli parlavano di una Maremma antica che, giovane com’è, non ha mai conosciuto. Forse nei nostri discorsi è stato toccato un tasto molto particolare, perché quelle memorie devono essere ancora vive in lui e, da come me ne parla, non si è mai voluto allontanare da esse, e non solo per il gusto di ricordare, ma per aver sempre presente come un tempo ci fossero persone che come regola del proprio saper vivere e stare al mondo avevano la capacità di accontentarsi di ciò che elargiva la divina provvidenza, felici di quel poco donato loro dal lavoro nei campi. Racconti nati dal grembo della terra e portatori di una grande forza educativa e di valori immensi, pratici, semplici e soprattutto rispettosi delle piante, degli animali e anche nei confronti del vicino, quello del podere accanto, per il quale si teneva la porta di casa sempre aperta, caso mai avesse avuto bisogno, come ho trovato io, arrivando. Per capire quanto sia forte il suo legame con il passato e con questo suo mestiere di contadino, devo interpretare i messaggi chiari

e forti che mi manda Fabrizio, uno dei quali è quello di esser diventato un mandriano, disinvolto nell’accompagnare al pascolo i buoi maremmani - quelli dalle ampie corna - mettendo nel cassetto quelle formule matematiche che lo avrebbero condotto a diventare, forse, un discreto professore. Ma quella cattedra e il dover dar lezioni agli altri, non gli si confacevano; erano troppo distanti dalla sua indole agreste, più vicina alle storie del nonno, alla campagna e agli animali da accudire o da portare in transumanza, non avendo peraltro sdegno alcuno per quello sterco che, dal 1986, divenne il concime fertile per la terra del podere di suo nonno, con il quale dette vita all’azienda agricola Massa Vecchia, situata proprio ai piedi del colle su cui si erge Massa Marittima. Lì iniziò a fare il contadino-viticoltore e senza proiettarsi di getto verso il futuro, lavorò in compagnia della memoria di quel passato, tramite la quale ha imparato ad avere pazienza e ad attendere che ciò che deve accadere, accada. Un passato che ha trovato sempre ricco di quella dignità antica che nobilita il lavoro del contadino, rendendolo libero di agire in comunione con gli elementi della natura. Non gli ha mai dato fastidio trovare che i suoi vestiti odorino di terra. Quello è un profumo che sa di lavoro, svolto in mezzo ai campi, in compagnia dei suoi olivi, dei filari che compongono il suo vigneto, trascorrendo il tempo a dialogare con quelle foglie e quei tralci che hanno la pazienza di ascoltarlo, impegnandosi per rispettarli e agendo solo se necessario. Ascoltandolo, trovo più profondo e sentito quel “pensiero rurale” che ora gli è diventato amico, che si evoluto secondo una volontà inarrestabile, incontaminata, docile e forte come solo la terra sa trasmettere. Una filosofia di vita che lo ha spinto a realizzare solo dei vini che fossero veramente l’espressione di questa terra, difendendo la loro identità da qualsiasi logica basata sul profitto, rifiutando da sempre ogni ipotesi di ampliamento della produttività aziendale - anche quando ne ha avuto ripetutamente l’occasione - fermandosi, invece, a produrre il sufficiente per vivere dignitosamente. In questi anni il mondo del vino è cambiato, ma Fabrizio no. Convinto com’è che business e sviluppo portino solo a rinunce e a compromessi che non ha mai voluto accettare, si tiene stretto alle sue memorie e alle storie di quella Maremma antica fedele alla terra, augurandosi di morire povero e ignorante, trovando una dimensione di equilibrio fra il bisogno economico e la sua etica, rifiutando quell’innovazione e quella sperimentazione che dovrebbero costituire l’idea di fare impresa con il vino. Lo ascolto, mentre si accende quel mozzicone di sigaro toscano che dalla bocca scivola più spesso fra l’indice e il medio della mano, e mi accorgo che mi ha voluto raccontare un’altra storia, più contemporanea di quelle che gli narrava il nonno, una storia in cui ha usato il vino per raggiungere il suo equilibrio e per farmi scoprire chi sia veramente Fabrizio Niccolaini.


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Una filosofia di vita che lo ha spinto a realizzare solo dei vini che fossero veramente l’espressione di questa terra...


MASSA VeCChiA

massa veccHia bianco iGt maremma toscana zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Vermentino, Malvasia di Candia, Ansonica provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel comune di Massa Marittima, le cui viti hanno un’età compresa tra i 14 e i 37 anni. tipologia dei terreni: i vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni ricchi di argille scagliose, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 200 metri s.l.m., con un’esposizione a ovest. uve impiegate: Vermentino 80%, Malvasia di Candia 10%, Ansonica 10% sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato densità di impianto: dai 2.200 a 4.160 ceppi per ha a seconda dei vigneti tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla fine di settembre ai primi di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione pellicolare che accompagna tutta la fase della fermentazione alcolica che si protrae per quasi 3 settimane ed è svolta a temperatura non controllata, durante la quale vengono effettuate diverse follature manuali. Al termine di questa fase, il vino è posto in legno dove rimane per i successivi 18 mesi, periodo durante il quale è lasciato libero di svolgere la fermentazione malolattica e vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno di 6 mesi prima della commercializzazione. quantità prodotta: circa 3.000 bottiglie l’anno note organolettiche: di colore giallo intenso, il vino si presenta al naso con uno spettro olfattivo complesso con sentori di scorsa d’arancio candita, nespole, fiori di camomilla e lavanda, in un piacevole contrasto con le note gustative dove la mineralità si amalgama ad una piacevole ampiezza e armonia, ricordando comunque le note fruttate percepite al naso. il lungo e persistente finale fa emergere percezioni di albicocca. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 2004, 2006 note: il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: di proprietà di Fabrizio Niccolaini dal 1985, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 ha, di cui 4 vitati, mentre gli altri sono occupati da oliveto e bosco. Svolge funzione di enologo e agronomo lo stesso Fabrizio Niccolaini.

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mastroJanni Andrea Machetti


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PROFONDE RADICI SU QUESTA TERRA Sono passati circa 18 anni da quando Maurizio Castelli, forse l’enologo che più di altri può essere accreditato nel ruolo di pioniere della tradizione vitivinicola montalcinese, fondatasi su un vitigno come il Sangiovese, mi invitò a prendere in considerazione l’ipotesi di entrare come direttore all’interno di quest’azienda, di proprietà dell’avvocato Mastrojanni, acquistata dallo stesso nel 1975.

Accettai volentieri e non mi spaventò dover gestire questa piccola realtà, nella quale applicai non solo quanto avevo appreso nel passato, con l’esperienza acquisita prima a Villa Banfi, fra il 1983 e il 1989, e poi nell’azienda Castiglion del Bosco, ma anche ciò che di più profondo aveva sempre caratterizzato il mio agire e che consisteva nella semplice, schietta e onesta forza d’animo di cui è ricca la cultura contadina di questa terra montalcinese nella quale sono cresciuto. Valori dai quali non mi sono mai discostato, impegnandomi come se questa campagna, queste viti e il vino che qui si produce fossero i miei e non di qualcun altro, sentendomi sempre più partecipe e responsabile delle sorti di quest’azienda, situata in uno degli angoli più belli di Montalcino: da qui si gode un panorama mozzafiato, con l’Amiata di fronte e i dirupi che scendono fino a valle dove scorre l’Orcia, sui quali si aggrappano viti, olivi e boschi. Ventisei anni trascorsi nell’impegno e nella dedizione di fare solo bene, valorizzando e facendo crescere ciò che mi è stato affidato, fino a contribuire ad ampliare i 10 ettari vitati che qui avevo trovato, portandoli agli attuali 24. Ho cercato di dare continuità alla storia enologica di quest’azienda, mantenendola in vita anche nei momenti difficili che in questi anni sono sopraggiunti inevitabilmente; infatti, scomparso l’avvocato e non avendo nei suoi eredi degli interlocutori convinti, come me, delle grandi potenzialità di questa cantina, mi sono ritrovato, spesso, a prendere le decisioni da solo; poi, in seguito, grazie all’amicizia con Francesco Illy, nostro estimatore e vicino di casa con l’azienda Le Ripi, abbiamo coinvolto gli altri componenti della famiglia Illy e si è potuto concretizzare il passaggio della proprietà dalla famiglia Mastrojanni al gruppo Illy. Riccardo e Francesco Illy infatti non si son voluti far scappare l’opportunità di tornare alle origini contadine e alla tradizione enologica della loro famiglia, quando il nonno, intorno al 1930, oltre all’impresa di torrefazione di caffè, possedeva anche un’azienda agricola in Istria.Per me niente è cambiato e con le stesse motivazioni di allora mi ritrovo, oggi, a coadiuvare la famiglia Illy nella gestione vitivinicola di quest’attività, felice di poter condividere con loro il rispetto, al quale è necessario ottemperare, nei confronti di questo territorio e del Brunello di Montalcino. Un impegno che loro non hanno voluto disattendere, fiduciosi come sono

che il valore di questo terroir sia l’arma più strategica per combattere e superare questo momento, forse il più difficile attraversato, negli ultimi vent’anni, dal mondo del vino. Perciò non si sono risparmiati nel mettermi a disposizione gli strumenti con cui, nella massima libertà decisionale, strategica, enologica e commerciale, affrontare questo momento storico, raggiungendo, possibilmente, l’obiettivo di innalzare l’apprezzamento e la qualità dei vini prodotti, rendendoli più visibili e identificabili dai mercati. Avendo profonde radici su questa terra e conoscendo bene quanto sia antico e nobile il suo passato vitivinicolo, ho ritenuto che mantenersi ancorati alla tradizione fosse il miglior modo per crescere, rimanendo fedeli interpreti di quella produttività che ci ha sempre contraddistinto e che mi ha spinto a non mettere una sola barrique in cantina. Risultati e decisioni che, comunque, ho sempre voluto condividere con il gruppo dei miei collaboratori, ai quali mi unisce, da sempre, un profondo affetto che va oltre i termini del puro e semplice lavoro, ma entra nella sfera della vera e rispettosa amicizia, contraddistinta dall’immediata e sincera schiettezza nei rapporti che si sono venuti a costituire fra noi in tutti questi anni, caratteristiche simili a quelle che possiedono i nostri vini. Non mi interessa quando sento qualcuno apostrofarmi con il termine “tradizionalista”, utilizzato quasi con una leggera sfumatura di rimprovero, poiché ritengo d’esserlo se per tradizionalista s’intende chi, come me, vuole tutelare la biodiversità e la storia qui esistente, mettendosi inoltre in guardia da quelle speculazioni o investimenti che non abbiano come fine ultimo un profondo amore per questo territorio; lo sono anche se, per tradizionalista, s’intende ancora una persona che rimane fedele a quel Brunello che ha reso unica la terra di Montalcino, la quale, mi rendo conto, in questi ultimi anni si è, talvolta, dimostrata troppo accondiscendente con certi trasformismi e, forse, appagata da un maggior benessere piovuto troppo rapidamente, si è lasciata portar via alcuni valori che l’avevano caratterizzata, come la tipicità e la forza della cultura rurale che le appartengono. Un equilibrio che deve essere assolutamente recuperato con uno sforzo collettivo di tutti i produttori, soprattutto se vorremo traghettare questa nostra meravigliosa realtà nel futuro.


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ancorati alla tradizione

... ho ritenuto che mantenersi fosse il miglior modo per crescer e, rimanendo fedeli interpreti di quella produttivitĂ che ci ha sempre contraddistinto e che mi ha spinto a non mettere una sola barrique in cantina...


MASTROJANNI

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG VIGNA SCHIENA D’ASINO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto “Schiena d’Asino” di Ha 1,1, di proprietà dell’azienda, posto in località Castelnuovo dell’Abate, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 35 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine sasso-argillosa, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vasche di cemento, si protrae per circa 12-13 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10-12 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino rimane in vasche di cemento, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in botti grandi da 16 Hl in cui rimane per 42 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione e dopo 1 mese di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 9-12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 8.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino molto intenso, al naso il vino offre profumi complessi di frutti neri di sottobosco, spezie, liquirizia, cacao a cui si aggiungono poi note floreali e risvolti minerali e balsamici. All’esame gustativo risulta caldo, morbido, elegante, con tannini veramente di spessore e un carattere deciso che lo contraddistingue; di grande ed equilibrata struttura, lunghezza e persistenza, chiude con un bel finale sapido e con un’eco di liquirizia. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990, 1993, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dalla vigna storica dell’azienda, così denominata per la sua caratteristica conformazione, raggiunge la maturità dopo 8-10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 25 anni. L’azienda: Di proprietà del Gruppo Illy S.P.A. dal 2008, l’azienda agricola si estende su una superficie di 90 Ha, di cui 25 vitati e il resto occupati da seminativi e bosco. Dirige l’azienda Andrea Machetti, agronomo ed enologo, con la collaborazione esterna di Maurizio Castelli.

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Carlo Vittori


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giorno dopo giorno mi sono impegnato su questa terra Era il tempo in cui giocavo ancora, nelle giornate autunnali, lungo le vie del paese intafate di mosto e di quell’odore acre e crudo che covava in quelle cantine chiuse da più di un anno, rimaste troppo a lungo senz’aria e senza luce, intorno alle quali si consumavano i giorni della vendemmia.

Era l’odore del vino, un effluvio che mi sembrava connaturato a questo territorio e tanto pervadente da marcare, in egual misura, la mia infanzia, le mura, le vie del paese e le stesse “giubbe” dei contadini. Un’acuta percezione sensoriale al pari di quella, pungente, delle olive appena frante o di quella, più gioiosa, della terra arsa dal sole estivo che, bagnata dal primo temporale di fine agosto, profumava di buono. Memorie che mi hanno accompagnato silenziose per lungo tempo, non facendomi supporre che, un giorno, sarebbero state così forti da indirizzare la mia vita, spingendomi a lasciare l’attività di geometra. Professione che, fortunatamente, ebbi la possibilità di svolgere intorno a quelle mura e a quegli odori in mezzo ai quali ero nato, di cui era intrisa questa zona rurale di Montalcino, caratterizzata da una radicata cultura contadina con la quale mi ritrovavo a dialogare, sempre più spesso, con una committenza che richiedeva ora la ristrutturazione del podere o la progettazione di una nuova e più spaziosa cantina. Così mi ritrovai a dover interpretare correttamente i vari contenitori destinati agli usi enologici, fatto che mi spinse ad approfondire la conoscenza e lo studio dell’intera filiera produttiva vitivinicola. Mi rapiva l’idea di entrare nel merito di quelle “alchemiche” faccende, ma, con il passare degli anni, mi rendevo conto che, pur essendo gratificato del fatto che quelle cantine, che ideavo e costruivo, facessero nascere nei miei committenti nuovi entusiasmi, a me non rimaneva altro in mano che un’infinità d’incartamenti, scartoffie e di richieste, come solo la rigogliosa giungla burocratica italiana sa costruire. Ero stanco di andare e venire dagli uffici e non avevo più voglia di far entusiasmare solo gli altri, ma sentivo la necessità di realizzare qualcosa di mio, d’importante, capace di raffrontarmi con quel mondo del vino ormai conosciuto e con il quale dialogavo giornalmente. Erano appena iniziati gli anni ‘80 quando decisi di cambiare il corso della mia vita e, dopo aver chiuso definitivamente lo studio professionale, indirizzai il mio destino verso la terra e quell’arte ancestrale che regola il mestiere del vignaiolo, con cui avrei non solo appagato la mia creatività, ma migliorato notevolmente la qualità della vita vissuta fino a quel momento, scoprendo, subito dopo, quanto fosse gratificante quell’abbraccio

con la natura e quanto fosse forte in me la memoria di quei profumi che sentivo appartenermi profondamente. Una volta effettuata quella scelta, ricordo che provai prima come un sollievo, una grande leggerezza d’animo, e poi un senso di profondo appagamento in grado di spingermi impetuosamente nell’impresa di creare un’azienda vitivinicola tutta mia, credendo che solo il lavoro e l’impegno mi avrebbero condotto, prima o poi, a realizzare il mio vino. Così, giorno dopo giorno, mi sono impegnato su questa terra, rimasta abbandonata per più di cinquant’anni, divertendomi, allo stesso tempo, a restaurare gli immobili, conservando il loro vissuto storico, a impiantare nuovi vigneti e a fare le prime sperimentazioni sulle viti e in cantina. Riscoprivo giornalmente la gioia nel lavoro, svolto all’aria aperta, imparando ad assaporare la qualità e il valore di ciò che facevo. A distanza di anni mi rendo conto che quello fu un cambiamento radicale e di non facile attuazione, ma di grande soddisfazione, che mi consentì di esprimermi, di acquisire più coscienza delle mie possibilità e di decidere i valori con i quali intendevo gestire la mia esistenza; fra questi, non secondario agli altri, quel senso innato che ho nei confronti dell’ospitalità e dell’apertura verso la gente. Un concetto forse atavico per gli abitanti di questa zona e della Toscana tutta, e anche per me, avvezzo a lasciar la porta di casa aperta per far entrare chi s’inoltra per questa strada bianca, accogliendolo con calore, cordialità, amicizia, facendolo partecipe della mia vita e condividendo la cucina di casa e i miei vini che, posso assicurare, bevuti fra queste quattro mura domestiche, ritrovano il giusto valore per il quale li ho realizzati, che è quello di far socializzare le persone, di farle stare bene insieme, di far loro sperimentare quelle dimensioni di pace e serenità che a me sono state infuse dall’esser contadino. Devo ringraziare la mia forza d’animo nell’affrontare i problemi se sono riuscito, in tutti questi anni, ad apprendere questo appassionante mestiere con il quale ho imparato a rendere più forti e vividi i miei ricordi, a far mia la tradizione, a capire l’odore del mosto, ad approfondire la mia confidenza con le vigne, con la terra e la cantina, fino al punto che non posso nemmeno chiamare più tutto questo un lavoro.


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Riscoprivo giornalmente la gioia nel lavoro, svolto all’aria aperta, imparando ad assaporare la qualità e il valore di ciò che facevo.


MOLINO DI SANT’ANTIMO

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG PAOLUS Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese grosso provenienti dal vigneto Varco Colonna, di proprietà dell’azienda, posto in località Podernuovo dei Campi (Castelnuovo dell’Abate), nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età di 20-22 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni collinari di origine galestrosa con alternanze tufacee, ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m., a sud-ovest del comprensorio montalcinese. Uve impiegate: Sangiovese grosso (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Cordone speronato Densità d’impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 32°C; contemporaneamente, si procede alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10-15 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo in botti di rovere dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in botti da 40 Hl in cui rimane per 2-3 anni; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione e dopo 6 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di un minimo di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino dai riflessi granati, il vino si presenta all’esame olfattivo in modo progressivo, ampliando la gamma delle percezioni in modo sempre più profondo: all’inizio offre note floreali (come viola e mammola appassite) e fruttate di ciliegia in confettura che si inoltrano poi in piacevoli nuances di crema di mirto e cioccolato al latte. Dopo qualche minuto queste note si arricchiscono di un bouquet di macchia mediterranea ricca di finocchietto selvatico, rosmarino e timo. In bocca ha un’entratura piacevole, morbida, di grande equilibrio e anche se la sapidità non è così spiccata, è ben sorretto da un’acidità che gli conferisce buona lunghezza e persistenza. Chiude con un finale in cui emergono ricordi di tabacco macerato. Prima annata: 1987 Migliori annate: 1997, 1999, 2004 Note: Il vino, che prende il nome da un clone selezionato, raggiunge la maturità dopo 6-7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso tra i 7 e i 35 anni. L’azienda: Di proprietà di Carlo Vittori dal 1980, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 10 vitati, 5 occupati da oliveto e 15 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Alessandro Spatafora e l’enologo Luca D’Attoma.

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farms

Adolfo Parentini


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fiducia in queste terre e nella qualità delle LORO uve E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: “I tuoi semi vivranno nel mio corpo, E i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, La loro fragranza sarà il mio respiro, E insieme gioiremo in tutte le stagioni”. Kahlil Gibran Sono ormai trent’anni che in me sento forte e risoluta la fiducia per questa Maremma grossetana. È una sensazione vigorosa quanto riconoscente con la quale ho affrontato la difficile, e ancora impervia, evoluzione enologica che l’ha coinvolta e che ha spinto molti altri vignaioli, soprattutto negli ultimi anni, a prendere visione delle sue enormi potenzialità, in gran parte ancora inespresse, inserendosi di fatto in un progresso vitivinicolo al quale, dal 1979, penso di aver contribuito, diventandone fautore ed interprete, oltre che capace, come “straniero”, di porre uno sguardo equo e distaccato su queste colline, scevro da quel coinvolgimento che frena e condiziona l’agire. Facendomi forza delle difficoltà iniziali, incontrate quando mi trasferii da Firenze e con le quali ho arricchito enormemente le mie esperienze, ho cercato sempre di perseguire l’obiettivo di apportare fertili e importanti mutamenti, utili alla crescita del territorio e a quella stessa cultura che ogni area vitivinicola deve possedere se vuole riuscire ad emergere sui mercati, puntando non solo sulla promozione della mia azienda, ma sulla valorizzazione di queste uve di Maremma che ho sempre ritenuto essere un grande vantaggio e un’enorme fortuna lavorare; uve che raccolgo, sui miei 70 ettari di vigneti situati a Massa Marittima e a Poggio la Mozza, vicino Grosseto, a cui dedico le migliori risorse disponibili, fra le quali la passione tramandatami dalla mia famiglia che, da generazioni, trova nella vinificazione la sua attività principale e le sue maggiori soddisfazioni. Sono state queste uve a farmi conoscere e farmi apprezzare come vignaiolo, a livello nazionale ed internazionale, ed è stata la determinazione con la quale sono riuscito a valorizzarle ad essere di esempio e stimolo per cercare di demolire, lentamente, quei pregiudizi che, per anni, hanno bloccato lo sviluppo di questa terra, per alcuni troppo vicina al mare e troppo calda per poter esprimere vini di qualità, mentre, per altri, priva di quei requisiti storici, vitivinicoli ed enologici su cui puntare per avviare dei processi evolutivi. Sono state queste uve il passepartout che mi ha aperto al mondo e messo in contatto con altre grandi aree vitivinicole, visitate, come nel caso della regione francese del Bordeaux, non da turista, ma da vigneron, confrontandomi con esse senza alcun complesso di

inferiorità, al fine di apprendere e verificare le altrui esperienze con le mie, conscio di quali fossero le differenze esistenti con questa mia terra di Maremma. Utili viaggi didattici, con i quali ho investigato il reale valore di quei vini e le potenzialità dei territori in cui sono prodotti, cercando di capire il distinguo che li poneva all’attenzione internazionale. Una bella esperienza con la quale appresi, già vent’anni fa, come dietro a quei vini vi fosse un territorio capace di esprimersi, non solo in termini qualitativi, ma di aggregazione, utilizzata come forza dirompente per veicolare l’insieme produttivo e l’economia stessa di quell’area, a differenza di ciò che accadeva, e accade ancora oggi, in Maremma, dove, per lo specifico carattere locale, per retaggio storico e per modus vivendi si impone una miope politica di promozione individuale, senza una visione generale capace di arricchire il comparto enologico. È per questo che, laddove mi è stato possibile, ho lavorato affinché i produttori maremmani prendessero coscienza di questa necessità e l’ho fatto ricoprendo la carica di Presidente della sezione vitivinicola di Confagricoltura, nel Consorzio di Tutela del Morellino di Scansano e in quello del Monteregio di Massa Marittima - di cui facciamo parte - e dando il mio appoggio al neonato Consorzio Maremma Wine and Food. In questo convincimento ho messo tutto l’impegno e la passione che avevo a disposizione, al fine di poter progettare strategie ed eventi che non fossero i soliti fuochi d’artificio che, di volta in volta, hanno illuminato il cielo della Maremma enologica, ma che si potessero dimostrare, invece, più duraturi nel tempo. A me non piace guardare indietro, ma se lo faccio, devo dire di aver vissuto un’esperienza eccezionale con la quale ho assistito all’evoluzione dei vini maremmani che sempre più rispecchiano, come quelli dell’azienda Morisfarms, la franchezza di questo territorio, convincendomi, se avessi ancora qualche dubbio, che solo lavorando seriamente con tenacia, spirito di gruppo e fiducia negli obiettivi programmati, si riescono ad ottenere risultati inimmaginabili, gli stessi conseguiti da quest’azienda che non ha mai abbandonato la strada maestra, ininterrottamente tracciata all’inizio, di avere una forte e risoluta fiducia in queste terre e nella qualità delle loro uve.


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MOriS FArMS

moreLLino di scansano docG riserva zona di produzione: il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con piccole aggiunte di Merlot e Cabernet Sauvignon) provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, posti in località poggio la Mozza, nel comune di grosseto, le cui viti hanno un’età di 14 anni. tipologia dei terreni: i vigneti si trovano su arenarie di origine marina con un ph leggermente acido, ad un’altitudine di circa 90 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-ovest. uve impiegate: Sangiovese 90%, Merlot e Cabernet Sauvignon 10% sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato densità di impianto: 5.128 ceppi per ha tecniche di produzione: dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla seconda decade di settembre alla prima di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vasche di cemento vetrificate, si protrae per circa 8-10 giorni ad una temperatura controllata in modo da non superare i 27°C; successivamente si passa alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10-15 giorni, durante i quali vengono effettuati 2 rimontaggi giornalieri. dopo la svinatura, il vino viene posto in barriques di rovere francese di secondo e terzo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui sosta poi per 12 mesi; durante questo periodo si effettua 1 travaso. Terminata la maturazione e dopo 6 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione. quantità prodotta: 30.000 bottiglie circa note organolettiche: di colore rosso rubino con vivi riflessi purpurei, il vino offre al naso delicate percezioni eteree che in alcune annate lasciano spazio a spiccate note di erbe officinali che introducono a sentori di macchia mediterranea; in altre annate il bouquet si regge più a lungo aprendosi a sobrie note di frutti rossi e neri maturi e di piccoli frutti del sottobosco come more, fragoline selvatiche e mirtilli. l’esame olfattivo si chiude con percezioni caratterizzanti un po’ più speziate di tamarindo, polvere di caffè e un finale di radice di liquirizia. in bocca ha un’entratura calda, sapida, minerale, che avvolge e sorregge i tannini, i quali sono ben evoluti e setosi; si dischiude lungo e persistente con calde ed avvolgenti nuances di mirtilli freschi. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1988, 1990, 1991, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006 note: il vino raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: le terre di proprietà della Morisfarms si estendono su una superficie di 476 ha, suddivise in due gruppi operativi: uno a poggio la Mozza, di 56 ha complessivi, di cui 33 dedicati alla viticoltura e l’altro a Massa Marittima (Fattoria poggetti), di 420 ha, di cui 37 dedicati alla viticoltura, 10 all’olivicoltura, mentre il restante territorio vede la presenza di colture promiscue e boschi. Collaborano in azienda l’agronomo Andrea paoletti e l’enologo Attilio pagli, coadiuvato da emiliano Falsini.

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ormanni

Paolo, Paola, Bice Brini Batacchi, Lucrezia Daddi, SoďŹ a Daddi,


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UNA STORIA COLLEGATA DIRETTAMENTE A QUELLA DEL TERRITORIO Io vidi li Ughi e vidi i Catellini, Filippi, Greci, Ormanni e Alberichi, già nel calare, illustri cittadini. Dante, Divina Commedia, Paradiso, Canto XVI, vv. 88-90

Non so quante volte sono passato davanti a questa Villa e alle vigne che la circondano, percorrendo la strada provinciale 429 che da Poggibonsi sale fino a Castellina e poi a Radda in Chianti, senza mai, per fretta o per distrazione, aver voglia di suonare a quel cancello e appagare così la mia innata curiosità, che spesso sazio andando a bussare alle porte delle aziende vitivinicole della zona. Non sapevo né a chi appartenesse, né la sua storia, ma durante un pranzo di lavoro consumato l’inverno scorso insieme al mio editore di Poggibonsi, Carlo Cambi, in uno dei ristoranti sparsi su queste colline chiantigiane, trovai piacevole il “vino della casa” offertomi da quel ristoratore: un vino di un rosso rubino vivo e intenso, fruttato al punto giusto, setoso, morbido, elegante e piacevole da bere, un Chianti Classico perfetto per accompagnare quel filetto di Chianina che stavo gustando. Non persi l’occasione di appuntarmi la sua provenienza. Fu una piacevole scoperta e quella bella sensazione mi ritornò in mente qualche mese dopo, quando stilai l’elenco delle aziende che avrei dovuto visitare per raccogliere i dati relativi alla migliore produzione vitivinicola toscana; la stessa impressione che provo anche oggi, nel momento in cui oltrepasso questo cancello di Villa Ormanni, sulla facciata della quale campeggia ancora lo stemma dei Medici, da cui la famiglia Brini Batacchi acquistò la proprietà nel 1818 “a cancello chiuso”, come mi ricordano Paolo e sua figlia Paola, agli inizi del nostro colloquio. L’incontro con quell’ottantenne ingegnere, è fra i più cordiali e piacevoli che io ricordi, poiché non mi limito con lui a parlare di vino, ma, ascoltando il vissuto che racchiude in sé quest’uomo, seduto di fronte a me, mi lascio trasportare dalla sua storia, collegata direttamente a quella del territorio. Così rivivo, seguendo le sue parole, i tempi in cui la provinciale 429 era ancora una strada bianca percorsa da calessi e carri trainati da cavalli, oltre che da qualche bicicletta, mentre intorno ad essa si animava una ruralità agreste in gran parte vissuta dalle famiglie dei mezzadri che abitavano nei poderi sparsi su queste colline, come nel piccolo borgo prospiciente alla villa padronale, e, per lui, andarli a trovare aveva il sapore delle buone cose familiari, fossero esse una fetta di salame o un pezzetto di pecorino e, soprattutto il gusto e il piacere di un tranquillo conversare a proposito del tempo o dei raccolti. Agli anni del Fascismo seguirono quelli della guerra, che si accompagna

sempre al lutto e alla distruzione; non furono risparmiate neppure queste terre, purtroppo sulla linea del fronte, né la Villa, colpita dai ripetuti bombardamenti “alleati”, visto che qui si era insediato un comando tedesco. Erano gli anni dell’adolescenza di Paolo, quelli della scuola e, successivamente, dell’impegno nelle attività della famiglia della madre, compresa un’azienda agricola a Bagno a Ripoli, che, in qualche modo, ritardò la data della sua laurea in Ingegneria Elettrotecnica che egli conseguì all’Università di Bologna. Ormanni si trovava in condizioni abbastanza precarie, essendo organizzata per una conduzione mezzadrile, che andava rapidamente e inevitabilmente scomparendo. Tutto ciò spinse Paolo ad aprire gli occhi, ricercando quelle soluzioni che potessero allineare l’azienda con gli epocali mutamenti in corso. Egli iniziò così una rapida revisione della produttività aziendale, eliminando tutte quelle colture promiscue che avevano caratterizzato, per secoli, l’economia della tenuta, riconvertendola verso una produzione vitivinicola monovarietale. Lo osservo quando, con voce tranquilla, mi descrive quali e quanti interventi dovette fare per dare un nuovo impulso alla sua proprietà, reimpiantando tutti i vigneti e restaurando, contemporaneamente, la villa e gli immobili annessi, scoprendo che, miracolosamente, si era salvata dalle devastazioni e dalle ruberie una collezione completa di stampe di ritratti della famiglia dei Medici, elemento questo che gli sembrò di buon auspicio. Con l’asfalto che colorò di grigio la provinciale 429, alla fine degli anni Sessanta del Novecento, il Chianti cambiò definitivamente. Aumentò il traffico, sparirono le biciclette e, insieme ad esse, anche molti contadini lasciarono la terra seguendo il richiamo delle fabbriche che, giù a valle, cercavano braccia con le quali crescere. Sono gli anni in cui inizia, piano piano, lo sgretolamento di quel piccolo microcosmo che era stato il Chianti fino a quel momento. In quel marasma, dove c’era chi riteneva queste terre adatte solo al pascolo e chi invece continuava a credere nella tradizione enologica che le aveva sempre contraddistinte, Paolo percepì nuove ed inaspettate opportunità per la sua azienda, certezze con le quali superò altre innumerevoli difficoltà prima di riuscire a traghettarla fino ai nostri giorni. Man mano che i ricordi si avvicinano al presente, noto che Paolo allenta la presa di quelle sue memorie storiche, come se cercasse ora una maggiore complicità nei presenti e un loro coin-


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volgimento più diretto per ricordare date ed eventi che hanno segnato il percorso di crescita di questo territorio chiantigiano e della sua azienda in quest’ultimo quarto di secolo. Sua figlia paola, in rispettoso silenzio, ha seguito con me quel racconto, magari sentito narrare da suo padre decine di altre volte. Ora collabora all’attività dell’Azienda con particolare riguardo alla commercializzazione, dividendosi fra la conduzione di un albergo a Firenze e l’attività di educatrice delle sue splendide bambine che, rumorosamente, ci hanno giocato attorno per tutto il tempo. ha poco da aggiungere alla storia narrata da suo padre, tranne lo spendere due parole per farsi garante della passione che c’è sempre stata dietro i loro vini. li saluto, ringraziandoli della premurosa ospitalità concessami e mentre esco, ripenso a quel Chianti di cui mi parlava paolo, che forse non c’è più o che è solo diverso da quello odierno, sul quale, ieri come oggi, incombe sempre il cambiamento.


ORMANNI

CHIANTI CLASSICO RISERVA DOCG BORRO DEL DIAVOLO Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti per la maggior parte dal vigneto Borro del Diavolo, di proprietà dell’azienda, situato in località Montignano, nel comune di Barberino Val d’Elsa, le cui viti hanno un’età compresa tra i 30 e i 32 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine argilloso-calcarea e galestro, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Alberello Densità di impianto: 3.800-4.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 10-15 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 28°C e contemporaneamente procede anche la macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, 15-20 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in vasche di cemento, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere da 2,25 Hl, di primo e secondo passaggio, in cui rimane per circa 18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi secondo le necessità. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino quasi impenetrabile con riflessi purpurei, il vino si presenta all’esame olfattivo con sentori pieni e ricchi di frutti maturi come more, marasche, mirtilli e prugne che si mescolano a note speziate di cuoio, tabacco e corteccia di quercia, con un finale che ricorda molto il sottobosco di macchia mediterranea. In bocca la ricchezza olfattiva trova giusta conferma e i tannini, sorretti da buona sapidità e ottima acidità, sono ben evoluti e setosi e conferiscono sl vino eleganza, linearità gustativa e persistenza. Chiude la lunghissima beva con ricordi minerali e di fiori appassiti. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1999, 2000, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome da un piccolo torrente (in toscano detto “borro”) che corre sotto i vigneti raccogliendone le acque di pioggia, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Brini Batacchi dal 1818, l’azienda agricola si estende su una superficie di 242 Ha, di cui 68 vitati, 40 occupati da oliveto e 134 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda gli agronomi Rocco Giorgio e Niccolò Brandini, il maestro assaggiatore Giulio Gambelli e l’enologo Paolo Salvi.

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siro

Giancarlo Pacenti


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UNO spirito attento all’evoluzione dei tempi Non credo ci siano delle regole scritte o un libro da leggere che indichi come si diventa imprenditore vitivinicolo. Ci sono libri che insegnano a fare il vino, altri che danno nozioni su come si conduce un vigneto, ma nessuno descrive minuziosamente quell’infinità di argomenti, regole, strategie e princìpi con cui praticare questo mestiere.

Lo impari con il tempo, con l’impegno quotidiano, cercando di capire quali meccanismi interagiscono fra le viti e il terreno dove sono posizionate, fra te e loro, fra la tua azienda e il mondo del vino. Un mestiere difficile, acquisito con l’esperienza che, varia e mutevole, è cresciuta e mi ha spinto a rimettere in discussione ad ogni vendemmia le certezze e gli equilibri che avevo appena trovato. Così, quando mi sembra di dover rimettere tutto in gioco, mi rincuoro guardando l’armonia che esiste in un mio vecchio vigneto di oltre cinquant’anni e, osservandolo, penso che forse anch’io, prima o poi, riuscirò a trovare il giusto equilibrio con questo territorio. Non m’interessa se le rese sono molto più basse degli standard produttivi o se quel vecchio vigneto non ha una bella e “moderna” immagine, l’importante è che sia lì a farmi coraggio e che io abbia ancora oggi la voglia di proteggerlo, poiché in quelle viti e in quelle due piccole vasche di vino che da esse ottengo, trovo quella perfezione che vado cercando e con la quale intendo avviare un nuovo percorso viticolo della mia azienda, effettuando una selezione clonale di quel patrimonio genetico che esso possiede. Fu mio nonno a porlo a dimora poco dopo essere giunto qui dalla Maremma. Ricordo bene quell’uomo, un vero personaggio d’altri tempi, uno “tosto” che partiva da solo, a piedi, da Sant’Angelo Scalo conducendo una mandria di 30 capi di bestiame al mercato di Montalto di Castro, dove, dopo aver venduto quelle giumente, ne ricomprava altrettante, molto più giovani, ritornandosene a casa, senza alcun timore. Un uomo che non sentiva la fatica, duro come una quercia, come del resto lo è mio padre, proprietario di alcune terre nella zona nord di Montalcino dove era stato mezzadro per vent’anni; senza il loro aiuto certamente non sarei qui e forse non avrei avuto la possibilità di valorizzare l’unicità di questo territorio, né di produrre i vini che oggi realizzo. Sono stati loro ad insegnarmi a guardare avanti, a mettermi sempre in discussione e ad avere uno spirito attento all’evoluzione dei tempi, con il quale mi adopero ad allargare le conoscenze - con cui capire il fine ultimo di ciò che faccio - a sviluppare la ricerca, indispensabile per il futuro di quest’azienda, ad accrescere le competenze tecniche, per eliminare qualsiasi interferenza esterna che possa influire sul risultato finale dei miei vini che voglio siano l’espressione di questo terroir. Sono il bagaglio di quell’esperienza personale non riportata da nessun libro e acquisita nell’arco di una vita, poiché già a otto anni, l’età che oggi ha mio figlio, iniziai questo lavoro, contribuendo nel mio piccolo all’economia della famiglia e poi, man mano che crescevo, quando tornavo da scuola, passavo gran parte

dei miei pomeriggi nell’azienda, scoprendo come ogni cosa ed ogni elemento di questa ruralità diventasse sempre più importante per me, fino al punto che, dopo aver studiato matematica per alcuni anni, rinunciai all’insegnamento per dedicarmi completamente al vino. In questi anni sono cambiate molte cose, compresa quella che ci portò ad unire gli sforzi produttivi della famiglia, per iniziare, nel 1988, ad imbottigliare i vini che producevamo, mettendo insieme le uve dell’azienda di mio padre, posta nel versante Nord di Montalcino, che, essendo più fresca, dà di solito vini più fini ed eleganti, con quelle di mio nonno, nella zona sud di Castelnuovo dell’Abate, che danno vini più corposi, caratterizzando così la nostra produzione aziendale. Anche se molto è cambiato e il mondo del vino si è messo improvvisamente a correre, non si è modificata di una sola virgola la mia impostazione intellettuale, di estremo rigore e rispetto nei confronti di questo territorio, del Sangiovese - il vitigno principe che lo rappresenta - e della grande tradizione viticola insita nella cultura contadina montalcinese. È per questo che mi sento responsabile di ogni mia azione e non lascio niente al caso. In quest’azienda nulla nasce sul momento, ma tutto è frutto di un pensiero logico e razionale, scevro, forse, da quella poesia con cui si riempiono la bocca molti miei colleghi e lontano dall’improvvisazione creativa delle mode che colpisce altri. Consapevole delle difficoltà, analizzo i dati, mi pongo l’obiettivo e provo a trovare la strada per raggiungerlo. Ciò che mi guida è la “coerenza dubitativa” applicata alle parole e ai fatti, poiché non sarei capace di praticare cose che non sento e delle quali non sono profondamente convinto, ma con intelligenza sono sempre pronto a metterle in dubbio per migliorare ciò che è migliorabile. Guardandomi indietro mi rendo conto di aver fatto tanta strada, ma osservando avanti mi accorgo di averne altra da percorrere, molto più tortuosa, disconoscendo, purtroppo, quali siano le sorprese e gli ostacoli che essa mi pone innanzi. Personalmente non so cosa mi attende, ma sono sicuro che quelle difficoltà richiederanno altre e nuove capacità, nuove conoscenze e ricerche che andranno ad aggiungere un ulteriore anello a quella spirale senza fine con la quale, da oltre cinquant’anni, modifico e adatto il mio personale approccio al mondo del vino. Sono felice di svolgere questo mestiere fantastico, unico e personalissimo che nessuno scrittore riuscirebbe mai a descrivere e per questo non trasmissibile attraverso documenti, ma solo mediante quella tradizione orale perpetuata di padre in figlio.


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...guardandomi indietro mi rendo conto di aver fatto tanta strada, ma osservando avanti mi accorgo di averne altra da percorrere...


PACENTI SIRO

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG SIRO PACENTI Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Pelagrilli e Piancornello, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni argillosi con netta presenza di sabbia e limo (a Pelagrilli) e su terreni sassosi ricchi di elementi minerali (a Piancornello), ad un’altitudine compresa tra i 150 ed i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est (a Piancornello) e sud / sud-ovest (a Pelagrilli). Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: Vigne vecchie 3.300 ceppi/Ha; vigne nuove 7.000 ceppi/Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza settimana di settembre, le uve raccolte vengono selezionate sui tavoli di scelta per poi procedere alla diraspapigiatura; il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio inox, si protrae per circa 10-12 giorni ad una temperatura compresa tra i 27°C e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 8-10 giorni, durante i quali vengono effettuati 2-3 rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques da 2,25 Hl, di 1° e 2° passaggio, in cui rimane per 24 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 3 mesi. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 18-24 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 35.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino profondo, al naso si presenta complesso e armonico, proponendo un grande accumulo di profumi che si arricchisce man mano che lo spettro olfattivo si ossigena: si parte da piacevoli sensazioni di mandorle per passare ad altre di cioccolato al latte, caffè, tabacco da pipa e chinotto, il tutto integrato in un perfetto mix che si addolcisce di note di vaniglia, fiori appassiti, fruttato di ciliegie e prugne in confettura per finire con nuances balsamiche e di grafite. La bocca è piacevolissima, complessa, armoniosa, con tannini morbidi, buona sapidità e acidità. Dalla perfetta corrispondenza con le sensazioni avvertite al naso, chiude lungo con ricordi di pot-pourri di macchia mediterranea. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1988, 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal proprietario dei vigneti, Siro Pacenti, raggiunge la maturità dopo 7-8 anni dalla vendemmia. L’azienda: Di proprietà di Siro Pacenti dal 1970, l’azienda agricola si estende su una superficie di 60 Ha, di cui 22 vitati (tutti a Sangiovese), 20 destinati a cereali e 4 ad oliveto.

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Giovanni Panizzi


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l’amore che nutro per questa toscana umanità …Forse quella spèra di cielo sul tetto, quell’ombra lucente in fondo al pozzo, il delicato bagliore delle “viole di Santa Fina” nelle crepe delle torri, forse tutto questo è San Gimignano? Curzio Malaparte, Maledetti Toscani

Ero ancora un citto, come si usa dire qui nel senese per indicare un ragazzo, quando me ne venni a San Gimignano con i miei genitori. Avevo 13 anni e vivevo a Vimercate, in provincia di Milano, ma già allora mal sopportavo le umide e fredde giornate di quei lunghi inverni durante i quali si alternavano sia la nebbia - che offuscava le case, le campagne e m’ingrigiva l’umore - sia i fragorosi e scroscianti temporali che mi relegavano in casa per l’intera giornata. Spesso pensavo alla Toscana, dove tornai più tardi per svolgere il servizio militare. Ancora oggi ho un splendido ricordo di quel goliardico momento della mia vita trascorso a Firenze, durante il quale non persi l’occasione per scoprire le bellezze artistiche della città e trovare il tempo per visitare il territorio circostante, rimanendo affascinato dal lavoro oculato e attento con il quale i contadini toscani avevano disegnato il territorio, disponendo i vigneti, gli oliveti ed ogni altra cosa, proprio là dove doveva stare. D’ogni luogo, quello che preferivo era sempre San Gimignano; qui ritornai qualche anno dopo, nel 1978, per acquistare il piccolo podere di Santa Margherita, con un ettaro di vigna, un po’ di campi e una vecchia casa le cui finestre si spalancavano - e si aprono ancora - sull’ocra delle torri del paese, sui campi e le colline della Val d’Elsa coperta di viti e olivi, avendo l’impressione che tutta la campagna senese si cacciasse a forza nella mia stanza. Un’immagine che mi entrò dentro e mi convinse, ancora di più di quanto non lo fossi già, che era questo il posto ideale dove avrei voluto trascorrere il resto dei miei giorni. Quest’aria buona, questi cieli tersi, questo clima mite e questa gente, affabile e schietta, erano in contrapposizione al grigiore milanese che, come un macigno, mi affaticava l’animo, al pari, o forse più, di quel lavoro da commercialista svolto in quella frenetica, caotica, impersonale e chiusa città dove è raro scambiare soltanto due parole di cortesia con una persona, una battuta col vicino di casa o un sorriso, oppure sentirsi augurare “buona giornata” da un commerciante prima di aver comprato qualcosa da lui. Man mano che passava il tempo, notavo come dentro di me era sempre più presente la volontà di ricercare una migliore qualità della vita, rispetto a quella che stavo vivendo e di costruire qualcosa di mio, d’importante, capace di gratificarmi maggiormente e con il quale rimettermi di nuovo in gioco. Divenendo artefice della mia vita, emigrai in queste terre senesi con la voglia, soprattutto, di scoprire quale fosse la mia parte migliore che, certamente, sarebbe venuta fuori stando a contatto con un ambiente rurale come questo, intriso del profumo della campagna, dell’odore del vino, del grano mietuto ancora con la falce e raccolto col forcone per comporre i balzi, e da quello delle viole, che nascono a marzo

ai piedi dei cipressi, convincendomi che a 50 anni, avevo ancora da inventarmi una nuova vita. Da allora sono rimasto qui, ammirando quel senso di bellezza che circonda questo luogo, compiacendomi della convivialità riguardosa concessa da questa gente a chi, come me, è e rimane pur sempre un “forestiero”, cercando, nel frattempo, di produrre vino. Un’esperienza avviata - dopo i primi tentativi in cui ero riuscito solo a fare aceto - in compagnia dell’amico Salvatore Maule, con il quale, dopo dieci anni di sperimentazioni, prove e studi sul campo, stabilimmo, con azioni chiare e in simbiosi perfettibile con questa terra di San Gimignano, di produrre vini bianchi, proponendo sul mercato, nel 1989, la nostra prima Vernaccia di San Gimignano. Il resto è storia recente, ma se ripenso agli albori della mia attività e a com’era tutto naturale e difficile, mi accorgo, adesso, di aver superato, attraverso quest’esperienza toscana, belle e grandi sfide: tutte quelle che mi si sono presentate, da quelle personali, di una grave malattia, a quelle che hanno interessato il comparto vitivinicolo della mia azienda. Questi eventi hanno cambiato, ulteriormente, il mio modo di affrontare la vita, ma non hanno modificato di una sola virgola l’amore che nutro per questa toscana umanità.


Divenendo arteďŹ ce della mia vita, emigrai in queste terre senesi con la voglia, soprattutto, di scoprire quale fosse la mia parte migliore che, certamente, sarebbe venuta fuori stando a contatto con un ambiente rurale come questo, intriso del profumo della campagna, dell’odore del vino...

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PANIZZI

VERNACCIA DI SAN GIMIGNANO DOCG VIGNA SANTA MARGHERITA Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle uve Vernaccia provenienti dal vigneto omonimo situato in località Santa Margherita, nel comune di San Gimignano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni argillosi di origine pliocenica, sono situati ad un’altitudine di circa 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Vernaccia di San Gimignano 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.000-5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione pellicolare in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 6-7°C. Dopo 24 ore di decantazione statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 12-14°C, lo stesso è messo in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura da 228 lt; una volta inseriti i lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica che si svolge alla temperatura di 16°C per circa 7-10 giorni; qui il vino sosta poi per i successivi 6 mesi, periodo durante il quale di solito non svolge la fermentazione malolattica e vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 2 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: circa 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore giallo paglierino con riflessi brillanti e luminosi, il vino offre all’esame olfattivo eleganti toni floreali di ginestra, fruttati maturi di ananas e susina e percezioni caratteristiche di bergamotto e cera d’api. In bocca è fresco, sapido, di ottima persistenza gustativa. Sorretto inoltre da una bella acidità, chiude lungo con nuances ammandorlate e di gelsomino. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2005, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dalla vigna omonima, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 6 anni. L’azienda: Di proprietà di Rimorimmobiliare srl dal 13/06/2008, l’azienda agricola si estende su una superficie di 82 Ha, di cui 67 vitati e 15 occupati da oliveto. Collabora in azienda l’enologo Salvatore Maule.

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Petra Francesca Moretti


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Al centro di tutto c’è L’OBBEDIENZA ALLA TERRA Solo adesso inizio a capire Petra e le cose che questa terra ha da dirmi.

Ci sono voluti 12 lunghi anni perché imparassi il suo linguaggio; un lungo ed ininterrotto momento in cui, senza pause, sono rimasta in ascolto delle sue narrazioni, per capire le trame sottili delle sue incredibili potenzialità produttive, poterne finalmente apprezzare l’impronta caratteriale e l’interazione con quella stupefacente mineralità - fatta di frammenti di mare, salsedine, erbe aromatiche e rosmarino - che ora confluisce nei vini che produco, nei quali incomincio a scoprire l’aroma stesso del Mediterraneo. Il suo è stato un lungo silenzio, durante il quale ho cercato di assimilare l’intima sua natura, usando, come passepartout, le viti che avevo piantato. Esse mi hanno istruito su quale fosse il miglior modo per accudire, vivere e lavorare questa terra, rimanendole accanto, attenta e vigile nell’indagare e nel verificare la corrispondenza delle attenzioni che le riservavo, ritrovandomi, ogni volta, mai paga di ciò che avevo ottenuto: una continua ricerca e sperimentazione nell’obiettivo di pormi in sintonia con Petra e far sì che il suo silenzio si tramutasse, prima in un brusìo e poi in canto. Un impegno didattico che come discente ho seguito in maniera attenta, scoprendo come esso andava via via ampliandosi e modificandosi negli anni, fino a divenire, nel momento in cui ho trovato la giusta sintonia, un vero e proprio scambio interattivo tale da agevolarmi nel lavoro svolto intorno a quelle stesse vigne; vigne che per anni sono state le mie compagne di scuola, con le quali ho compreso la necessità di avere più polso per domare la loro indole selvaggia, rispettare il loro equilibrio naturale, arrivare a riconoscere la differenza che esiste fra una e l’altra, educandole affinché mi potessero ripagare dell’attaccamento, della pazienza, dell’umiltà e dell’amore profuso loro in tutti questi anni. Sapevo bene che non bastava lo stimolo che, fin dall’inizio, ha sostenuto questo sogno enologico toscano, condiviso da tutta la mia famiglia, a far sì che arrivassero certi e sicuri risultati; i vini rossi che avevo deciso di produrre a Suvereto non sarebbero diventati per forza tipici ed eleganti soltanto trasferendo qui tutta la mia esperienza franciacortina. Sapevo bene che questa Maremma, dura e selvaggia, aveva bisogno d’altro. Forse erano necessarie solo più attenzioni o forse più passione e sentimenti o, magari, che mi sentisse più vicina e meno straniera. C’è voluta tanta umiltà e convinzione per comunicare con questa terra, iniziando a costruire, su questo dialogo, capace di dare un’identità e un forte connubio con questo meraviglioso territorio, lo spirito che oggi

anima l’azienda. Un’azienda agricola moderna, ma con il cuore simile a quello di un antico laboratorio artigianale, nel quale ogni operazione è regolata dal principio cardine che determina la ricerca di quella qualità enologica scaturita dal rispetto di ogni singolo elemento della filiera produttiva, compreso il contributo fornito da ogni collaboratore, parte integrante di un progetto comune. Al centro di tutto, c’è, in ogni caso, l’obbedienza alla terra. In questi 12 anni ho imparato tantissime cose, molte più di quelle che avrei avuto la possibilità di apprendere rimanendo in Franciacorta e sicuramente molte meno di quelle che ancora devo acquisire per ampliare l’esperienza e capire il ventaglio di possibilità che Petra ha da offrirmi. Sono poche le vendemmie di Maremma che posso inserire nel mio personale carnet de voyage, ma, nonostante ciò, incomincio a percepire che stiamo segnando un importante punto d’arrivo per quest’azienda che coincide non solo con la definizione di una specifica personalità della nostra produzione vitivinicola, ma anche con un sempre maggiore coinvolgimento della stessa sul territorio: un territorio sul quale ho appreso un diverso modo di consolidare i rapporti umani, accostandomi positivamente alla particolare qualità delle persone di questo luogo, le quali hanno un modo più naturale e vero di rapportarsi con gli altri e con questo lavoro; sono persone vere, che lavorano perché amano ciò che fanno e lo vogliono fare bene. Qui tutto parla il linguaggio di un’antica e nobile tradizione che si è preservata, superando i danni della globalizzazione, grazie alla forza della profonda vocazione rurale di quest’ambiente, al quale sento di dover apportare fertili e stimolanti contributi per costruire maggiore notorietà e visibilità. Un dovere che si aggiunge agli altri che caratterizzano chi lavora a Petra, dove non si è mai affievolita la voglia di crescere e di misurarsi e non per sentirci dire quanto siamo bravi, né quanto siamo belli, ma solo per continuare a camminare e a progredire con la stessa umiltà e tenacia di sempre, senza avere la presunzione di affermare che la strada da noi tracciata sia la migliore.


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Qui tutto parla il linguaggio di un’antica e nobile tradizione che si è preservata


PETRA

EBO VAL DI CORNIA DOC SUVERETO ROSSO Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Sangiovese e Merlot provenienti da vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località San Lorenzo e Riotorto, nei comuni di Suvereto e Piombino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 12 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di matrice argilloso-calcarea, ad un’altitudine di 25-35 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 50%, Sangiovese 30%, Merlot 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 6.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla fine di agosto, si procede alla selezione e alla pigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 12 giorni ad una temperatura compresa tra i 15 e i 29°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 8-10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino svolge in acciaio la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere da 225 lt di 3° passaggio e in botti da 30 e 50 Hl in cui rimane per 15 mesi; durante questo periodo si effettuano diversi travasi. Terminata la maturazione e dopo 2 mesi di assemblaggio in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6-8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 95.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino con riflessi brillanti, il vino offre all’esame olfattivo intensi profumi fruttati di ciliegia, amarena e ribes, aromatiche percezioni vegetali e di fiori appassiti, note di tabacco dolce e nuances balsamiche. In bocca risulta caldo, pieno, di corpo; è morbido e di buona persistenza, con ottima armonia tra acidità e tannini, setosi e arrotondati. Il lungo finale chiude con accenni di cacao e delicati ricordi ammandorlati. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2001, 2004, 2005, 2006 Note: Il nome deriva da un insediamento etrusco di antichissima origine in prossimità di Suvereto. L’etichetta rappresenta una volta celeste attraversata da dodici linee (i mesi dell’anno) costellata da otto sfere (le fasi lunari) e da sette anelli concentrici (i giorni della settimana). Il vino raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e gli 8 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Moretti dal 1997, l’azienda agricola si estende su una superficie di 300 Ha, di cui 98 vitati, 12 occupati da oliveto e i rimanenti da seminativi e bosco. L’azienda consta di un team interno di enologi e di un “responsabile di campagna” che fanno capo a Francesca Moretti, enologa. Si avvale inoltre della collaborazione dell’consulente ed agronomo francese Pascal Chatonnet.

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PiaGGia Silvia, Mauro Vannucci


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l’armonia creata da un sorriso sincero Sorrido perché mi piace farlo e perché credo sia il linguaggio in assoluto più efficace di tutti, proprio per la sua semplicità e per il fatto che è unico, meraviglioso, tenero, amorevolmente rassicurante, positivo e coinvolgente.

Ho scoperto che nel nostro interagire, raffrontandoci con gli altri, usiamo sempre dei linguaggi, quelli più familiari e consoni alla nostra personalità o altri appresi dal variegato mondo circostante, alcuni dei quali ci incuriosiscono, altri ci risultano incomprensibili, didattici, informativi, altri ancora simbolici, tecnici, popolari, aristocratici, poetici o sensuali: ma fra tutti, ciò che mi riesce meglio e il più spontaneo è sorridere. È inconfutabile l’armonia creata da un sorriso sincero nato dal cuore e offerto a un padre, a un amico o gratuitamente a un cliente o a un curioso visitatore arrivato improvvisamente in cantina a cui lo doni con la stessa semplicità con cui gli versi un bicchiere di vino. Così sorrido per il piacere di farlo, sapendo di far piacere a chi lo riceve; sorrido quando mi fanno dei complimenti personali, quando apprezzano il nostro vino, quando elogiano il lavoro svolto da mio padre in quest’azienda e sono sorrisi che raccontano di me, dell’anima di questa cantina, della familiarità che regna in essa e della Piaggia molto di più di quanto potrebbe fare una brochure, un dépliant o un sito internet, perché il sorriso è veramente capace di fare la differenza, in ogni parte del mondo in cui mi sia recata a promuovere i miei vini. Sorrido quando ripenso a quanti anni sono occorsi per capire a pieno la bellezza e l’importanza del lavoro svolto intorno a quel vino in cui mio padre Mauro credeva tanto e quanti ne sono passati prima di comprendere i mille aspetti che regolano il settore viticolo; attraverso passaggi graduali,

ho affrontato, con più consapevolezza, tutto ciò che questo affascinante e impegnativo lavoro comporta, facendomi apparire molto lontana da quella diciottenne, impacciata e timida, quale ero un tempo, nell’interloquire con quanti, al Vinitaly del 1994, si fermavano a dialogare con me e mio padre, essendo incuriositi da quella prima produzione aziendale, che eravamo andati, con pochissime bottiglie, a promuovere. Un percorso enologico iniziato per caso prima della mia nascita, quando, negli anni ’70, mio padre acquistò una casa - che divenne la nostra dimora di campagna - e dei vigneti sulle colline di Carmignano. In seguito mio padre pensò di iniziare a produrre del vino, solo per gli amici e per soddisfare il fabbisogno familiare, scoprendo, vendemmia dopo vendemmia, quanto lo intrigasse e lo coinvolgesse quel contatto naturale con la terra e con quel prodotto che riusciva a realizzare sempre meglio, il quale aveva il merito non solo di distoglierlo dagli impegni dell’impresa tessile, ma anche di stimolare, con ulteriori gratificazioni, quella cocciuta ricerca di perfezione che ha sempre caratterizzato ogni altra azione o progetto della sua vita. Con una “professionale” etichetta incominciò ad imbottigliare il suo vino, pur non destinandolo alla commercializzazione che iniziò solo a partire dal 1995, anno in cui entrò a collaborare con noi Alberto Antonini, l’attuale enologo aziendale. Sorrido ripensando con quale testarda determinazione perseguivo l’obiettivo di inserirmi nell’attività aziendale vitivinicola di famiglia, avendo ben chiaro, fin da quando frequentavo il Liceo e poi l’Università, che nel mio futuro non ci sarebbero stati né i telai dell’azienda tessile, né i codici di quel mestiere di avvocato che mio padre desiderava facessi. Comprendevo come lavorare nel mondo del vino mi offrisse l’opportunità di realizzare la mia vera vocazione, legata all’incontro, alla socializzazione, al dialogo, al poter sorridere alle persone, attivando uno scambio culturale quanto mai affascinante e costruttivo. Inoltre, la possibilità di viaggiare e conoscere il mondo avrebbe soddisfatto totalmente la mia natura curiosa e mi avrebbe costretto a raffrontarmi anche con quel carattere un po’ chiuso che, molto probabilmente, non avrei mai potuto modificare se avessi scelto altre strade. Da buoni pratesi, i miei genitori, fin da piccola, mi hanno insegnato l’importanza del lavoro ed è proprio facendo affidamento su questa filosofia di vita che mi impegno nella commercializzazione dei nostri vini, affrontando le fatiche di saltare da un aereo a un altro, superando tutte le difficoltà che, oggi, comporta il promuovere un prodotto enologico in mercati globali dove la concorrenza è agguerritissima; non scoraggiandomi né abbattendomi, ma, al contrario, affidandomi alla mia testardaggine, affino le armi dell’intelligenza e della mia femminilità, doti che, abbinate alla mia grande gioia di vivere, mi fanno sorridere al mondo.


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Sorrido quando ripenso a quanti anni sono occorsi per capire a pieno la bellezza e l’importanza del lavoro svolto intorno a quel vino in cui mio padre Mauro credeva tanto...


PIAGGIA

CARMIGNANO DOCG RISERVA PIAGGIA Zona di produzione: Il vino deriva dalla vinificazione di una selezione di uve provenienti dal vigneto Piaggia, di proprietà dell’azienda, situato in località Poggetto, nel comune di Poggio a Caiano. Il vigneto, le cui viti hanno un’età media di 40 anni, è costituito principalmente da Sangiovese e in misura inferiore da vecchi cloni di Cabernet Sauvignon; completano il vigneto piccole percentuali di Merlot e Cabernet Franc. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine alluvionale, ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 250 metri s.l.m., con un’esposizione est-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 70%, Cabernet Sauvignon 15%, Merlot 10%, Cabernet Franc 5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot e cordone speronato Densità di impianto: circa 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica che viene effettuata usufruendo dei propri lieviti naturali. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 12-15 giorni, durante i quali vengono effettuati rimontaggi giornalieri molto brevi. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese, in parte nuove e per il 70% usate di 2° e 3° passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per circa 24 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi secondo necessità. Terminata la maturazione e dopo 3 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di un minimo di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 30.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino intenso con brillanti riflessi purpurei, al naso il vino propone profonde e complesse note molto minerali, tipiche dei vini della zona, le quali si spalancano a un grande bouquet olfattivo che da note speziate di foglie di tabacco, caucciù, cuoio, senape in chicchi e foglie di eucalipto si completa con frutti rossi e neri maturi e con un finale che ricorda i lamponi. In bocca ha un’entratura calda, molto piacevole, con tannini morbidi e setosi; equilibrato, lungo e persistente, chiude con percezioni di terra e humus. Prima annata: 1991 Le migliori annate: 1997, 1999, 2001, 2004, 2005, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dall’omonimo vigneto, raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Mauro e Silvia Vannucci dalla sua fondazione, l’azienda agricola si estende su una superficie di circa 30 Ha, di cui 15 vitati e il resto occupati da oliveto e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Stefano Dini e gli enologi Alberto Antonini e Emiliano Falsini.

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Pieve

de’ Pitti

Caterina Gargari


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Vino e architettura parlano lo stesso linguaggio Ad un tratto, ho sentito la necessità di starmene un po’ da sola, per ultimare la tesi di laurea in Architettura e ho deciso che non poteva esserci posto migliore di questa nostra casa di campagna, a Pieve de’ Pitti, per raccogliere le idee e raggiungere l’obiettivo.

Una fattoria di 198 ettari, con alcuni casali e una villa padronale dove ero solita trascorrere con la famiglia lunghi week-end di caccia e che era appartenuta, fino al XVII secolo, alla nobile famiglia fiorentina dei Pitti, dalla quale deriva in parte il nome, assieme a quello della Pieve di San Giovanni di Pava, sorta sulle rovine di un antico luogo di culto etrusco. Ho trascorso quei mesi dividendo il mio tempo fra la vigna, al mattino, e lo studio nel pomeriggio, scoprendo che la serenità della campagna riusciva a ricaricarmi molto più di quanto avessi mai potuto pensare e che la vita in vigna, in queste terre pisane, mi appassionava sempre di più. Quella quotidiana frequentazione ha stravolto il punto di vista con il quale avevo guardato, fino ad allora, a questo luogo che, nonostante appartenesse alla mia famiglia da oltre trent’anni e nonostante qui avessi trascorso parte della mia infanzia, mai aveva avuto per me un’importanza “vitale”. Ad un tratto, tutto è stato diverso, più armonioso e semplice e anche l’atmosfera che vi respiravo mi si confaceva, dando un nuovo senso alla qualità della mia vita. E così, dopo la laurea sono tornata alla Pieve - come tutti sono soliti chiamare questo posto - continuando a dividere la mia giornata fra quelle che sono oggi le mie due grandi passioni: il vino e l’architettura. Passioni che hanno molte cose in comune. Sicuramente l’amore per la natura, il desiderio di adoperarsi per rispettare il territorio, un legame forte con ogni elemento che contribuisce a costruire questo fantastico habitat e a dare forma a quell’armonia di linee che disegnano i tratti di queste colline. Vino e architettura parlano lo stesso linguaggio, testimoniando la cura, l’attenzione al dettaglio, la qualità dei processi e dei metodi con i quali entrambi vengono realizzati, nonché la volontà di stabilire e rafforzare il legame col territorio che li ospita attraverso la ricerca di una precisa identità personale. Se a questo si aggiunge che nel recente passato molti grandi produttori vitivinicoli hanno dovuto incrementare la capacità produttiva e adeguarsi all’evoluzione tecnologica, ecco spiegato il motivo per cui, in così pochi anni, l’architettura delle cantine abbia radicalmente cambiato faccia, perdendo i suoi tradizionali connotati storici o agricoli per acquisire caratteristiche più industriali e, talvolta, teatrali. Ma io credo che la cantina, proprio per il forte legame storico che quest’attività ha sempre avuto con il contesto sociale, debba necessariamente continuare a mantenere un legame molto forte con la tipicità del proprio territorio. Il paesaggio rurale vitato richiede e persegue, infatti, per sua natura, uno svi-

luppo anche edilizio che potremmo definire “radicato” al luogo attraverso la tutela del patrimonio naturale, la valorizzazione delle “cultivar autoctone” e della complessità biologica, ma soprattutto la ricerca primaria della qualità ambientale e la salvaguardia dell’identità dei luoghi. Funzioni che un certo tipo di architettura contemporanea non ha salvaguardato, né valorizzato, preferendo, per mere ragioni d’immagine, costruire delle cattedrali nel deserto e far diventare le cantine una sorta di museo di rappresentanza con annesse opere d’arte e gran sfoggio di tecnologia, spesso fine a se stessa; cantine lontane dalla quotidiana realtà e necessità operativa e, purtroppo, anche dalla stessa cultura dei vignerons per i quali sono state progettate. L’uso di materiali naturali, l’attenzione alla salvaguardia dell’ecosistema, il recupero del patrimonio storico locale e il desiderio di armonizzarsi con la scenografia naturale sono le qualità che rendono una cantina meritevole di essere visitata. Più o meno le stesse qualità che rendono un vino meritevole di essere bevuto. E di questo mi sono accorta nel tempo, acquisendo man mano una maggiore esperienza in materia vitivinicola. Quando ho iniziato quest’attività ero, inutile negarlo, “ignorante”. Visto che però non mi è mai mancata la curiosità, con il tempo ho cercato di imparare, facendo domande a chi prima di me aveva affrontato gli stessi dubbi e le stesse esperienze, studiando, viaggiando, e, soprattutto, assaggiando vini diversi, fatto, quest’ultimo, che ha sicuramente accresciuto non soltanto le mie competenze, ma la consapevolezza di ciò che dovrebbe esprimere il mio vino ideale. Oggi so bene che cosa mi piace bere e quali vini vorrei produrre, augurandomi di riuscire ad esprimere al meglio quella vocazione al Sangiovese e al Trebbiano che queste nostre terre sembrano avere da tempo. Ed è proprio su questi due vitigni - che rappresentano la sintesi della breve esperienza vitivinicola della mia famiglia - e su questo territorio che vogliamo puntare: gli strumenti naturali con i quali abbiamo stabilito un sincero e fertile dialogo. Potrei definirla un’amicizia, che mi sostiene nella scelta delle uve, dei tempi della vendemmia, dei legni migliori per ogni cru, entusiasta come una ragazzina per ogni nuova idea e per la possibilità di metterla in pratica, pur sapendo che tutto questo non è che l’inizio di una storia che sto ancora scrivendo assieme alla mia famiglia e che, anzi, ora si è arricchita di nuova vitalità e mirata progettualità, con l’adesione al progetto della Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti, per la promozione della qualità e dell’autenticità dei vini italiani.


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Ad un tratto, tutto è stato diverso, più armonioso e semplice e anche l’atmosfera che vi respiravo mi si confaceva, dando

un nuovo senso alla qualità della mia vita.


PIEVE DE’ PITTI

CHIANTI SUPERIORE DOCG CERRETELLO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese, Canaiolo e Malvasia Nera provenienti dai vigneti Il Cerretello e La Selva, le cui viti hanno un’età compresa tra i 36 e i 38 anni, e dal vigneto 950, le cui viti hanno 8 anni di età. Sono situati in località Pieve de’ Pitti, nel comune di Terricciola. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine pliocenica, con matrice prevalentemente argillosa ricca di scheletro, ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 120 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-est e sud. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Canaiolo e Malvasia Nera 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura ad archetto o a cordone speronato Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha nei vecchi impianti, 5.500 ceppi nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in cemento, si protrae per circa 12 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 32°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per alcuni altri giorni, durante i quali vengono effettuati délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in cemento, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 5 mesi; durante questo periodo si effettua 1 travaso ogni mese. Terminata la maturazione e dopo 1 mese di decantazione sempre in cemento, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 2 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 12.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino con riflessi purpurei, il vino offre al naso profumi di foglie e terriccio di sottobosco, humus, fieno e macchia mediterranea, percezioni di lampone, ciliegia e fragoline e un pot-pourri di nuances floreali. In bocca è fresco, piacevole, minerale, rispondente all’esame olfattivo, con una gradevole fibra tannica vellutata. Chiude lungo con delicati ricordi di liquirizia. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001, 2004, 2005, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dall’omonimo vigneto, raggiunge la maturità dopo 2-3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: Di proprietà di Pieve de’ Pitti srl dal 2000, l’azienda agricola si estende su una superficie di 198 Ha, di cui 16 vitati, 3 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Stefano Falchi e l’enologo Paolo Vagaggini.

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Pieve di santa

restituta

Angelo Gaja


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PROSEGUO SULLA STRADA TRACCIATA DA MIO PADRE Sono solo centocinquant’anni che i Gaja sono nel mondo del vino e di questo devo ringraziare le tre generazioni che mi hanno preceduto, capaci di costruire la storia vitivinicola della mia famiglia, fonte inesauribile di conoscenza, forza e sostegno con cui affronto questo mio presente,cercando, per quanto mi è possibile, di ampliarla e renderla più moderna, senza però allontanarmi da quei princìpi che ne hanno determinato il divenire.

Una storia che parte nel lontano 1859 con Giovanni Gaja, e prosegue poi con suo figlio Angelo, mio nonno, e si consolida con mio padre, Giovanni, il più grande e straordinario artigiano del vino che io abbia mai conosciuto, che non solo ha “seminato” per i figli, ma è riuscito a dare corpo e anima ad un vitigno come il Nebbiolo, affidandosi al gusto, alla fede e alle grandi capacità che lo sorreggevano. Un uomo dalle grandi doti umane, ma anche con un palato unico, il quale seppe assecondarlo nella valutazione di quali fossero le migliori zone produttive di Nebbiolo esistenti nelle Langhe piemontesi; un vitigno sul quale riponeva una fede incommensurabile, essendo ciecamente convinto delle sue grandi potenzialità che, secondo lui, si esprimevano al meglio proprio in quel meraviglioso territorio intorno a Barbaresco, dove prima comprò, dal beneficio parrocchiale di Alba, il podere San Lorenzo, e poi continuò ad acquistare anche altri cru della zona. Un personaggio con un’ampia visione del mondo del vino, tanto vasta da essere uno dei primi alla fine degli anni Sessanta ad innovare, in chiave moderna, le tecniche di conduzione dei vigneti e di vinificazione della sua cantina. Così iniziò quella sua lunga avventura enologica - di cui oggi ancora fruisco - alla quale abbinò una filosofia produttiva proiettata alla ricerca della qualità assoluta di quel Barbaresco, che all’epoca era una sorta di fratello illegittimo del “Re” Barolo, ma che egli nobilitò con un’etichetta su cui campeggiava, a caratteri cubitali, il nome Gaja, così da far comprendere che quello era il “suo” vino e che dietro a quella bottiglia vi erano la volontà, l’impegno e il sacrificio per produrlo. Era il 1937 e nasceva, in quell’anno, il brand Gaja. Sono passati più di settant’anni e non posso che dirmi fiero di essere un altro interprete di questa straordinaria avventura familiare, giocata sul filo dell’ambizione e su una straordinaria capacità d’osservazione dei meccanismi che regolano l’arte di fare vino, che mi spinge a continuare a produrre vini senza compromessi. In questi anni molte cose sono cambiate. Ciò che non è cambiato, invece, è il modus operandi con il quale proseguo sulla strada tracciata da mio padre, imponendomi, come lui, di imbottigliare solo i vini degni di portare il nome Gaja in etichetta e spingendomi ad investire in Toscana, in aree che hanno un appeal particolare, come è per le aziende di Bolgheri e Montalcino, entrambe a misura di artigiano, gestibili nel modo che ci ha sempre contraddistinto; aziende a dimensione umana, dove, affidandomi ad abili e professionali collaboratori, posso tenere sotto controllo ogni

singolo aspetto della filiera produttiva. Aziende “didattiche” che hanno colpito la mia curiosità e con le quali ho avviato un nuovo e stimolante percorso di apprendimento con il quale mi relaziono con una nuova cultura enologica e con nuovi territori, ritrovando il gusto di scommettere sul mio saper fare e avendo la possibilità di realizzarmi con vini originali che sono, come nel caso del Brunello, l’espressione di un fantastico terroir con notevoli parallelismi con quello del Barbaresco. Non nego di aver goduto nell’usufruire del “portato evocativo” di Montalcino, una delle rarissime zone vitivinicole, universalmente note, in grado di avvalersi, contemporaneamente, di una promozione unica, attuata da due grandissimi leader: Biondi Santi - la storia - e Banfi - l’azienda con la maggiore penetrazione commerciale del Brunello al mondo - che hanno consentito a questo territorio di acquisire un’incredibile notorietà, a tutto vantaggio dell’intera compagine vitivinicola locale. Pur sapendo che la mia personale storia familiare poteva reggere il confronto con quest’altissimo discrimine rappresentato da Montalcino, ho preferito entrare in questa zona in punta di piedi, studiando, analizzando, approfondendo l’antichità, l’importanza e il pregio del luogo in cui andavo a collocarmi, consapevole di aver bisogno della Toscana per ampliare ancora di più i miei orizzonti, non rimanendo chiuso soltanto nella mia piemontesità.


...Sono passati più di settant’anni e non posso che dirmi fiero di essere un altro interprete di questa straordinaria avventura familiare, giocata sul filo dell’ambizione e su una straordinaria capacità d’osservazione dei meccanismi che regolano l’arte di fare vino...

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PIEVE DI SANTA RESTITUTA

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG SUGARILLE Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Sugarille, di proprietà dell’azienda, situato in località Pieve S. Restituta, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine argilloso-calcarea, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 330 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Sangiovese grosso (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla quarta settimana di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, senza inoculo di lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica svolta in acciaio. La fermentazione alcolica e la macerazione sulle bucce si protraggono per circa 3 settimane. La maturazione si sviluppa per 18 mesi in barriques e per 1 anno in grandi botti. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 24 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 21.000 bottiglie circa Note organolettiche: Dal colore rosso rubino con intensi riflessi granati, il vino offre al naso note complesse che vanno dallo speziato alla liquirizia, al caffè, alla senape in chicchi, alle erbe officinali di macchia mediterranea come alloro e ginepro, per finire su percezioni di fiori appassiti e di viola mammola; all’esame gustativo è elegante, equilibrato, di bella struttura, con tannini importanti, sapido lungo e persistente. Chiude con ricordi di lampone e susina e nuances tostate. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1995, 1999, 2001, 2004 Note: Sugarille era il nome attribuito ad un vigneto di proprietà della Pieve, così come risulta dall’inventario compilato nel 1547 dal canonico Giovanni Sampieri. Il vino raggiunge la maturità dopo 7-8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Gaja dal 1994, l’azienda agricola si estende su una superficie di 27 Ha, interamente vitati. Collaborano in azienda Oriano Scheggi e Francesca Arquint.

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La forza della natura e l’intervento dell’uomo si combinano in perfetta armonia


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Podere

forte

Pasquale Forte


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ricercare la sintesi e l’essenza della bellezza che la natura sa donarE Analisi, conoscenza, azione sono da sempre le parole che mi hanno consentito di fare strada nella vita e di dar forza a quel pragmatismo con il quale ho cercato di confrontarmi per realizzare i miei sogni.

Parole che spesso si sono aggiunte ad un istinto innato nel comprendere l’evoluzione dei tempi, conducendomi verso nuove e sempre affascinanti direzioni e consentendomi di mettermi in gioco e dare prova del mio saper fare. Una visione specifica che mi ha spinto nel 1972, a 24 anni, dopo diploma tecnico, ad aprire la Eldor, un’attività - che a quel tempo vantava un unico dipendente - con la quale iniziai a fare delle piccole radio per poi passare alla componentistica per i televisori, fino a farla diventare, in una crescita continua, l’odierna Elettronica di Orsenigo: un’azienda da oltre 1.500 dipendenti, punto di riferimento importante a livello mondiale per l’elettronica automobilistica, annoverando fra suoi clienti industrie come Ferrari, Volkswagen, BMW e tante altre. Le parole di cui parlavo sono quelle con le quali mi muovo anche nell’ambito, ben più delicato, dei rapporti umani, dove l’intuito mi aiuta a scoprire le giuste risorse umane da posizionare nei punti chiave delle mie imprese; persone verso le quali ho avuto un’istintiva e subitanea fiducia, come Luciano Guidotti, che incontrai quando decisi di dar vita a Castiglione d’Orcia, qui in Toscana, a Podere Forte: il sogno di creare un piccolo e nuovo mondo, autosufficiente, pulito, naturalmente libero, dove bandire furbizie, egoismi e violenze di ogni genere soprattutto nei confronti di questa terra magica. Una fiducia che mi è stata ripagata non solo con anni di attenta e accurata collaborazione, ma con la stessa condivisione degli obiettivi attraverso i quali costruire un’azienda capace di sopravvivere e andare oltre la mia stessa esistenza e di comunicare la passione e l’amore che gli ha dato la vita; sentimenti che provai immediatamente quando giunsi qui per la prima volta, rimanendo estasiato da questo meraviglioso anfiteatro collinare appoggiato con grazia alle pendici dell’Amiata e digradante verso il fiume Orcia, abbellito da secolari olivi avvolti dall’abbraccio dei rovi e da un campo di grano, sufficienti per farmi apprezzare quella nudità così ricca di stupefacente bellezza. Ammirando la luce, l’apertura e gli spazi di questo paesaggio, compresi come fosse proprio questo il posto dove avrei potuto accostarmi di nuovo a quella campagna che avevo vissuto da bambino, a Limbadi, un paesino della Calabria, insieme a mio padre Giuseppe, il quale, fino alla fine degli anni Cinquanta, possedeva terre che in seguito dovette abbandonare per emigrare al nord, in provincia di Como. Sempre, negli anni successivi,

egli, non avendo mai dimenticato la bellezza del suo antico lavoro, raccontava del vino, dell’olio d’oliva, del frantoio, dei profumi e dei sapori della sua terra che non aveva mai dimenticato. In quel suo esilio si era messo addirittura a comperare e imbottigliare vino e io lo aiutavo a lavare le bottiglie e così i profumi intensi di quella cantina mi sono rimasti dentro e li ho risentiti poi di nuovo a Podere Forte, insieme agli altri profumi, quelli delle cose antiche, del miele estratto dalle nostre arnie, dell’olio appena franto, dei salumi dei nostri maiali di Cinta Senese, delle farine ricavate dalle diverse tipologie di grani che qui mietiamo, delle verdure che coltiviamo e, in primis, dei vini rossi ottenuti dalle nostre uve biologiche: gli stessi odori che scaturivano dai discorsi di mio padre. Un progetto che è andato poi evolvendosi, ma alla cui base c’è sempre stata un’attenta analisi, una profonda conoscenza e una precisa azione; parole che ho applicato al vino e al suo mondo, a me quasi del tutto sconosciuto, affrontato attraverso un approfondito periodo di studio, chiedendo consiglio ai massimi luminari della scienza enologica, quali Attilio Scienza, Donato Lanati e l’australiano Richard Smart, uno dei più famosi scienziati sulla fotosintesi delle piante, impegnandomi nell’apprendimento degli elementi scientifici che regolano la viticoltura, e infine avvalendomi di due altri scienziati del suolo, i coniugi Claude e Lydia Bourguignon ho svolto ricerche e una dettagliatissima classificazione dei terreni di tutta la proprietà - come usavano fare i monaci cistercensi in Borgogna nel Seicento - al fine di piantare, nei migliori terreni, i migliori vitigni, per i quali è stato fatto un lavoro scientifico sui portainnesti. Un lavoro durato diversi anni, durante i quali abbiamo drenato i terreni eliminando le infiltrazioni d’acqua, arginato e sistemato con canali e muretti a secco molti appezzamenti dei nostri 140 ettari, di cui 14 vitati, ossigenando il sottosuolo, movimentando e rivoltando la terra e ricostruendo in essa l’humus, la vita, senza l’aiuto della chimica di sintesi, impedendo così erosioni e dilavamenti. Analisi, conoscenza e azione: ora posso dire con sicurezza che sono parole applicabili anche in agricoltura da chi ha voglia, non solo di far bene le cose - come mi consiglia quell’anima contadina che sento prepotente dentro di me - ma anche di ricercare la sintesi e l’essenza della bellezza che la natura sa donare, l’ordine che la regola, il buon gusto di ricercare la tradizione e di renderla moderna


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da parte di chi crede nel valore della terra e nell’energia di cui si animano le cose che ti circondano; questo mi succede qui a Podere Forte. La stessa cosa la avverto in Cappadocia, in Turchia dove, guardando e rimanendo stregato da viti di 400 anni, grandi come alberi, sto acquistando alcuni ettari per salvare questo importantissimo patrimonio genetico mondiale. Pur avendo un approccio ragionato alle cose e pur possedendo un pensiero di stampo illuministico, lo stesso non mi ha impedito di ascoltare il mio cuore che è stato, forse, quello che, più di ogni altra cosa, mi ha reso possibile il raggiungimento di traguardi importanti con i quali arricchire la mia esperienza di uomo, rendendo la mia vita migliore e più ricca di quei valori capaci di costruire un ponte fra me e gli altri.

Un progetto che è andato poi evolvendosi, ma alla cui base c’è sempre stata un’attenta analisi, una profonda conoscenza e una precisa azione...


PODERE FORTE

ORCIA ROSSO DOC PETRUCCI Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Petrucci, nel comune di Castiglione d’Orcia, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e gli 11 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine calcarea con scisto fessurabile, ricchi di scheletro e profondi, ad un’altitudine compresa tra i 420 e i 480 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot Densità di impianto: 10.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspatura delle uve raccolte senza pigiatura e senza alcun inoculo di lieviti; le fermentazioni si avviano infatti spontaneamente. Questa fase, svolta in tini di legno di rovere da 20 a 50 Hl, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 32°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 14-20 giorni, durante i quali vengono effettuate follature naturali. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese di primo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 16 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi solo se necessari. Terminata la maturazione e dopo 1 mese di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 15 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 5.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino brillante, quasi impenetrabile, il vino offre al naso profumi intriganti di ciliegia, lampone, rose rosse, glicine, per proseguire con percezioni di vaniglia, pepe nero, cannella e accenni di cuoio; la bocca è complessa e ampia, con tannini fini ed equilibrati; succoso, sapido e minerale, chiude lungo e persistente con nuances di liquirizia e di lavanda. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dalla località dove sono coltivate le vigne, raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Pasquale Forte dal 1997, l’azienda agricola si estende su una superficie di 140 Ha, di cui 14 vitati, 18 ad oliveto, 8 a seminativi, 10 per l’allevamento di maiali di Cinta Senese, boschi e pascoli. Agronomo è Pasquale Forte, enologo è Cristian Cattaneo con la consulenza di Donato Lanati.

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le Bèrne

Andrea Natalini


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CON QUESTO SPIRITO LIBERO SONO DIVENTATO VIGNAIOLO Mia madre mi partorì nella camera da letto di questa casa, mentre l’odore del vino saliva inebriante dalla cantina dove mio nonno Egisto e mio padre Giuliano stavano svinando.

Non so se quel primo soffio d’aria che contribuì a darmi la vita, così intriso di profumi, mi abbia influenzato o se invece sia stato l’esser nato in questa campagna a spingermi ad affondare qui le mie radici e a diventare un contadino vignaiolo; come non so se sia stato il crescere fra le viti e l’orto a farmi acquisire quel senso di libertà e di rispetto che sa trasmettere il lavorare la terra. Sta di fatto che ora sono qui e mi adopero per costruire un futuro a quest’azienda, forte della memoria e degli insegnamenti di quel silenzioso e meraviglioso uomo che era mio nonno, il quale dopo una grave malattia che lo colpì alla gola, comunicava o in modo rauco o con gesti o con il battito delle mani. Un battito modulato secondo le circostanze: provocava un suono secco se voleva che io lo raggiungessi nella vigna, o due suoni vigorosi, tanto da sembrarmi il rintocco di un orologio, per ricordarmi l’ora del desinare. Quel rumore si propagava per tutta la campagna, raggiungendomi anche quando stavo nell’orto a vangare gli ortaggi, mentre lui era fra i filari della vigna. Allora lasciavo ogni cosa per tornare insieme a lui a casa. Ricordo che lo seguivo ovunque, perché mi piaceva vederlo come si adoperava per condurre i suoi vigneti e, ripetendo ogni sua azione, cercavo di assomigliargli per diventare anch’io, come lui, un buon contadino. Con quelle sue dita, tanto nodose e secche da assomigliare alla corteccia di una vite, m’indicava il punto dove potare, quello ove porre l’innesto, il grappolo da eliminare o quello da vendemmiare. Tra noi c’era intesa, affinità elettiva e quella profonda passione per questo lavoro che lui mi aveva trasmesso; erano in molti a domandarsi come un ragazzo e un uomo così ruvido e silenzioso si potessero capire all’istante. Trascorrevamo intere giornate insieme e, anche se mi rimaneva difficile comprendere le sue rare frasi gutturali, passavamo il tempo in lunghi silenzi, durante i quali mi bastava guardarlo negli occhi per capire cosa avesse voglia d’insegnarmi. Osservando quei suoi modi semplici di fare e la paziente volontà che applicava in ogni singolo lavoro agricolo, imparai molto più di quanto mi avrebbe poi insegnato la scuola che frequentai, con profitto, negli anni della mia adolescenza, diplomandomi all’Istituto Tecnico Agrario “Angelo Vegni” delle Capezzine a Cortona. Una scuola che, comunque, ebbe il merito di convincermi delle grandi potenzialità viticole dei terreni posseduti dalla mia famiglia, sui quali producevamo già degli ottimi vini. Mi emozionava l’idea di avere una mia etichetta, anche se attesi altri anni prima che in me maturassero i giusti convincimenti e trovassi la forza per motivare mio padre a seguirmi nell’avventura enologica che avevo in mente. Mio

padre, infatti, di noi due era colui che aveva più remore, essendo lui a doversi accollare uno sforzo economico non indifferente, scoprendo solo più tardi che “un uomo senza debiti è un uomo senza sogni”. È stato l’orgoglio a farmi diventare ciò che sono ed è stato quello che mi ha dato la forza di insistere per avviarmi in questa strada, vissuta non solo come personale realizzazione, ma anche come un senso di riscatto nei confronti di mio padre che per una vita, come bracciante agricolo, aveva lavorato alle dipendenze di altri. Chi non ha provato a vivere le vigne e la terra non può capire cosa significhi sentirsi libero di avere il cielo dentro di sé e godere del rumore del vento, del fruscìo degli alberi, del canto di un uccello o fermarsi ad osservare il volo improvviso di una poiana sopra la propria testa; non può capire quali emozioni trasmette un’alba o un tramonto in mezzo alle vigne, osservare una lucertola appisolata al sole, tagliare un bel grappolo di Sangiovese o raccogliere le olive nelle terse e fredde giornate autunnali. Con questo spirito libero sono diventato vignaiolo, rubando i segreti a mio nonno, la modestia e la rusticità a mio padre, la dolcezza d’animo a mia madre; ed è con il solito spirito libero che mi auguro di poter trasmettere tutto ciò a mia figlia, appena nata, nella certezza che presto possa giocare anche lei con suo nonno e, una volta grande, costruire la propria storia a Cervognano di Montepulciano.


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...chi non ha provato a vivere le vigne e la terra non può capire cosa signiďŹ chi sentirsi libero di avere il cielo dentro di sĂŠ e godere del rumore del vento...


podere LE bÈrne

vino nobile di montepulciano docg riserva Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con una piccola aggiunta di Colorino) provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Cervognano, nel comune di Montepulciano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni collinari di origine pliocenica, con presenza di conchiglie e sassi, ad un’altitudine di 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Sangiovese (Prugnolo gentile) 90%, Colorino 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot doppio Densità di impianto: 3.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, senza inoculo di lieviti selezionati, ma solo con i lieviti indigeni, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in legno, si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura controllata che non supera i 33°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto per il 40% in botti di rovere di Slavonia da 25 Hl e per il 60% in piccoli fusti di rovere francese, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui sosta per 36 mesi; durante questo periodo si effettuano 5-6 travasi. Terminata la maturazione e dopo 1 mese di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino profondo con riflessi purpurei, il vino offre al naso un ampio spettro olfattivo che va dalle note di liquirizia a quelle di frutta (marasche, more e mirtilli) e alle spezie dolci, da sentori di macchia mediterranea a percezioni di piante officinali e tamarindo, per finire con una nuance balsamica e di eucalipto. In bocca ha un’entratura morbida, calda, piacevole, con sapidità e acidità che conferiscono freschezza all’insieme, oltre a fornire al vino una bella struttura degustativa, rendendolo lungo e persistente; chiude con ricordi di liquirizia. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1999, 2001, 2004, 2006 Note: Il nome dell’azienda Le Bèrne deriva da un vocabolo tardo etrusco - “Verna” o “Verena” - che ha il significato di poggio dove “svernare”. Il vino raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Natalini dalla fine degli anni Sessanta, l’azienda agricola si estende su una superficie di 21 Ha, di cui 10 vitati, 2 occupati da oliveto e il resto da seminativi. Andrea Natalini si occupa della parte agronomica; collabora in azienda l’enologo Paolo Vagaggini.

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le BOncie

Giovanna Morganti


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DARE DIGNITÀ E VALORE AL LAVORO DEL CONTADINO Lascio che i miei ricordi si allontanino e si nascondano per trovare il piacere poi di ritrovarli, nitidi e intatti, quando ho voglia di riscaldarmi l’animo, così da annusarli come se fossero una fragranza,

simile a quella di questo traboccante caffè, di questa Moka che sfiata e borbotta, che ho il piacere di bere in tua compagnia, mentre ti racconto un po’ di me e di come sia nata questa passione con la quale oggi faccio la contadina nel Chianti o del rapporto avuto con mio padre Enzo, direttore per anni dell’azienda San Felice a noi confinante, e di quanto abbia insistito con lui perché acquistasse un pezzo di terra tutto per me. Ricordi che mi riportano alla mia infanzia, ai tempi - neanche tanto lontani - in cui il Chianti era popolato da contadini che sapevano vangare, zappare, arare, seminare, potare, mietere e vendemmiare e farsi un tutt’uno con la terra; uomini con lo sguardo pulito, specchio di un’anima semplice, limpida, trasparente e di un cuore ricco di una grande solidarietà che si è persa insieme a loro. Con loro è scomparsa anche quella cultura agreste in cui sono cresciuta e dove ho imparato, frequentando la scuola pluriclasse della piccola comunità di San Felice, a socializzare nel cortile di quella fattoria, in una familiarità, un po’ allargata, dove ogni bambino era “l’altro figlio” da tener d’occhio, come se fosse il proprio e dove un piatto di minestra era sempre disponibile per chiunque bussasse alla porta di casa, che era sempre aperta. Sono esperienze indimenticabili che ho avuto la fortuna di poter vivere e con le quali sono diventata grande, sentendo nascere in me un sentimento forte di appartenenza a questa campagna chiantigiana, concretatosi proprio con l’acquisto da parte di mio padre, nel 1990, di questi quattro ettari, che desideravo tanto avere per soddisfare il mio desiderio di fare vino e non discostarmi troppo da quel mondo rurale così amato, capace, come aveva sempre dimostrato, di creare un’armonia e un’affezione fra i vari elementi che lo animano, dando dignità e valore al lavoro del contadino. Ed era proprio quel sapere antico che cercavo quando, svolgendo la libera professione di consulente, avviata dopo essermi diplomata enotecnico all’istituto tecnico agrario di Siena, me ne andavo in giro per le vigne mischiandomi ai contadini per imparare quella loro sapienza e riuscendo a dare, con la visione

concreta di una viticoltura vissuta in diretta, delle risposte a tutto ciò che aveva arricchito le mie letture scolastiche. Il loro era un universo di saggezza e conoscenza costruitosi in una vita trascorsa fra i filari a visionare germogli, tralci e foglie sfiorate con le mani. Forte di quell’esperienza e nella consapevolezza di cosa significasse lavorare la vigna, mi ripromisi di compiere un giuramento di fiducia e di obbedienza verso questa campagna sulla quale intraprendere quella pratica, ancora novella, che mi condusse a divenire contadina. Così, come primo passo volli realizzare il miglior vigneto che potessi fare, allevando quel burbero, scontroso e maschio Sangiovese ad alberello, come nessuno in Chianti aveva mai provato a fare, seguendo quelle tecniche ancestrali, precise e rigorose, dettatemi da quei saggi, pazienti, religiosi e bestemmiatori patriarchi che avevo ascoltato per tanto tempo, imparando, come loro, a guardare il cielo e, soprattutto, a camminare con i piedi ben piantati per terra. Vendemmia dopo vendemmia, ho compreso quanta correlazione vi sia fra la mia terra, le vigne e questo lavoro che, ogni giorno, mi appresto ad intraprendere, nella continua ricerca di riuscire a pormi in armonia con tutto ciò che mi circonda, scoprendo come in esso vi sia un “Ordine” a cui devo far riferimento. Un lavoro non facile, ma affascinante che mi costringe a confrontarmi con una materia viva, in precario e variabile equilibrio, con la quale devo interagire costantemente e che mi permette di misurarmi, crescere ed apprendere di continuo. È forse per questo che ho sempre la sensazione che ogni giorno sia il primo giorno in cui metto piede alle Boncie, ed ogni vite di questo mio vigneto sia sempre nuova, diversa da quella lasciata il giorno prima, come del resto lo sono i miei vini che, schietti e veri, si modificano con il tempo. Un ininterrotto divenire affrontato senza filtri in questo ruolo testardo di contadina, difendendo ciò che è stato, ma, al contempo, consapevole di appartenere a questo secolo, interprete di una nuova tradizione che va evolvendosi, vissuta con più intimità di quanto facessi in un recente passato.


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...sono

esperienze indimenticabili che ho avuto la

fortuna di poter vivere e con le quali sono diventata grande, sentendo nascere in me un

sentimento forte di appartenenza

a questa campagna chiantigiana...


PODERE LE BONCIE

CHIANTI CLASSICO DOCG LE TRAME Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con l’aggiunta di piccole percentuali di Colorino, Mammolo e Foglia tonda) provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località San Felice, nel comune di Castelnuovo Berardenga, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 13 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di medio impasto ricchi di scheletro, con prevalenza di argille di origine calcareo-marnosa provenienti dalla disgregazione di Alberese e Galestro, ad un’altitudine di 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Colorino, Mammolo e Foglia tonda 10% Sistema di allevamento: Alberello Densità di impianto: 7.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Solitamente la vendemmia inizia nella terza decade di settembre. Le uve diraspate e leggermente pigiate fermentano in piccoli tini di legno aperti. Si fanno follature manuali e la fermentazione spontanea e senza controllo di temperatura ha una durata di circa 15 giorni. Dopo la svinatura, il vino va a maturare in botti di rovere francese da 700 a 1500 lt dove solitamente termina la fermentazione malolattica. Rimane in legno per almeno 20 mesi. L’imbottigliamento è a settembre e il vino rimane in bottiglia per 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 13.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino intenso con riflessi violacei, il vino offre al naso sensazioni suadenti e accattivanti di ciliegia, mandorla, erbe aromatiche e pepe per poi sfumare su note di sottobosco e terriccio e nuances minerali. All’esame gustativo conferma le percezioni avvertite all’olfatto e si dimostra equilibrato, armonico, di bella e compatta struttura, lungo e persistente. Chiude con ricordi di frutta rossa e accenni di fiori secchi. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990, 1999, 2001, 2004, 2006 Note: Le trame è un nome di fantasia. Il vino è il racconto di un luogo e delle vite che si intrecciano con lui. L’etichetta è stata disegnata da un’amica di Giovanna Morganti e rappresenta il suo ritratto. Il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà di Giovanna Morganti dal 1990, l’azienda agricola si estende su una superficie di 7 Ha, di cui 3,5 vitati, 1,5 occupato da oliveto, 2 da bosco e il resto da giardino. La stessa Giovanna Morganti e il suo compagno Giorgio, che è agronomo, si occupano della conduzione dell’azienda in prima persona.

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POggiO

argentiera

Gianpaolo Paglia


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Con senso critico e occhio vigile continuo nella mia ricerca Qual è il senso di un luogo? Forse quel sense of place con cui viene identificata la capacità di riconoscere i segni antropici e naturali del paesaggio, collocandoli in una cornice temporale e in una dimensione territoriale, sviluppando con esso quel sense of past, quel sentimento cioè di appartenenza ad un luogo e il riconoscimento dell’importanza di conservarlo.

È di questo senso del luogo che disquisivo tempo fa con mia moglie Justine, per capire, essendo lei inglese, quanta affinità vi fosse fra quel mio sentirmi figlio di questa Maremma e parte integrante del territorio e l’idea che avevo approfondito nella sua cultura anglosassone, cercando di comprendere quali e quante fossero le connotazioni valoriali che si modificano, secondo i filtri individuali e sociali in cui una persona vive, contribuendo ad acuire la percezione di sentirsi coscienti del proprio passato, sia come esperienza collettiva, sia divenendo parte del tessuto intellettuale che mi accomuna a ciò che mi circonda. Più pensavo questo e più mi accorgevo di quanto la mia coscienza fosse fortemente predisposta a reperire ogni singolo segnale arrivato dall’esterno e quanto la mia esperienza fosse impregnata di quel senso del luogo che andavo cercando e quanto ogni mia scelta di vita, azione imprenditoriale o ragionamento, appartenessero alla mia terra, fin da quando, nel 1997, acquistai con la mia famiglia l’azienda Poggio Argentiera, un vetusto rudere abbandonato degli inizi del Novecento, posto lungo la SS1 Aurelia, nella zona adiacente al parco Naturale della Maremma, a pochi chilometri dal mare. Fu proprio lì l’inizio della mia avventura vitivinicola e della ricerca, del tutto personale, avviata fra quei vecchi vigneti trovati nei 6 ettari aziendali, che mi avrebbe condotto a conoscere e poi ad interpretare i segni di quel paesaggio per supportare il mio lavoro di vignaiolo, acquisendo quel senso d’appartenenza territoriale che poi non ho più abbandonato. Una ricerca continua, mai statica, che da Poggio Argentiera - dove iniziammo a produrre il primo Morellino di Scansano - si è sviluppata in altre zone della provincia grossetana, arrivando fino al podere Keeling, situato nella zona collinare a nord di Scansano, acquistato nel 2001 portando la nostra superficie vitata a 22 ettari. Così, per prima cosa iniziai a dialogare con le mie vigne, ritenendole capaci di unificare i molteplici fattori con cui interagivo, anche quelli che, certe volte, mi sembravano distanti e indistinguibili, cominciando, ad ogni vendemmia, a produrre vini sempre più in grado di trasmettere l’origine del territorio dal quale provengono, ritenendo che non fosse sufficiente realizzare prodotti originali e fatti con i crismi della sapienza enologica, ma vini, che, pur supportati da una grande conoscenza tecnica, fossero, anche loro, non solo figli della Maremma, ma possedessero quel sense of place che era dentro di me. Era stata questa testarda ricerca di dare un significato al mio saper fare a caratterizzare il lavoro e ad accompagnare

i miei vigneti lungo la loro naturale evoluzione, adattando una coltura biologica sempre più rispettosa dell’ambiente, non lasciandomi ancora coinvolgere dagli aspetti biodinamici ed esoterici professati da certi viticoltori, che, pur incuriosendomi, dovevo riuscire a far conciliare con la mia formazione scientifica. Una formazione strutturata in lunghi anni di Dottorato di Ricerca rivolti, dopo la laurea in agricoltura tropicale, alla genetica delle vigne e al sequenziamento del genoma della vite, migrando tra sedi accademiche e universitarie, da un polo all’altro del mondo, da Montpellier, in Francia, a Firenze e Viterbo, da Milano al Giappone, dagli Stati Uniti alla Tunisia. Nonostante questo, devo riconoscere che mi sento più vicino alla filosofia produttiva di quei vignaioli biodinamici, lontana dal pressappochismo di chi pianta vigne ovunque o di chi avvia sperimentazioni su vitigni che non hanno nessun riferimento con il territorio, dissipando in modo scellerato ciò che la tradizione ha costruito. Questi sono vignaioli che hanno dimenticato il valore della storia viticola di questa terra e hanno sciupato l’esperienza di uomini come Landeschi, Ridolfi, Testaferrata o Ricasoli, non ricordandosi di come si sia formata la Maremma e di quanto abbia inciso la sua bonifica. Non do mai niente per scontato o per acquisito, perché così fan tutti; come uomo di scienza ricerco le ragioni che giustificano e danno valore alla tradizione e al lavoro svolto da quei vecchi contadini, forse i più sapienti interpreti di quel sense of past. Con senso critico e occhio vigile continuo nella mia ricerca, confrontandomi con altri viticoltori miei amici, al fine di avviare una nuova rinascita del vigneto Maremma, convinto che, facendo squadra e contribuendo ad acuire la percezione di sentirsi coscienti dell’esperienza collettiva che ci accomuna e divenendo parte di quel tessuto intellettuale che anima la stessa, saremo in grado di dare un valore al nostro lavoro in quanto parte attiva di questo territorio.


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...non do mai niente per scontato o per acquisito, perchĂŠ cosĂŹ fan tutti...


poggio argentiera

MORELLINO DI SCANSANO DOCG RISERVA CAPATOSTA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con l’aggiunta di una piccola percentuale di Alicante) provenienti dai vigneti Adua e Keeling, di proprietà dell’azienda, situati nelle località Banditella di Alberese e Ceppicheta, nei comuni di Grosseto e Scansano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di matrice sabbioso-limosa con argilla alluvionale, ad un’altitudine compresa tra i 50 e i 250 metri s.l.m. Uve impiegate: Sangiovese 95%, Alicante 5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.680 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 29°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 7 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere di 1°, 2° e 3° passaggio dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 2-3 mesi. Terminata la maturazione e dopo 2-3 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 25.000 bottiglie circa Note organolettiche: Colore rosso rubino con brillanti riflessi purpurei che si esaltano di una forte luminosità sull’unghia. Al naso, molto intenso ed equilibrato, propone note fruttate di mirtilli, more e ciliegie ben mature che si aprono a fresche percezioni di fiori e nuances di terriccio. In bocca è caldo, morbido e di corpo, e ripropone le piacevoli note fruttate percepite al naso, con una fibra tannica ben evoluta. Sorretto da buona sapidità e bella freschezza, chiude lungo e persistente con un retrogusto di ciliegia matura e lampone e ricordi di cuoio. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1999, 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Capatosta indica il soprannome del padre del titolare. Il vino, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e gli 8 anni. L’azienda: Di proprietà di Gianpaolo Paglia dal 1997, l’azienda agricola si estende su una superficie di 66 Ha, di cui 22 vitati, 1 occupato da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Lo stesso Gianpaolo Paglia si occupa della parte agronomica. Collabora in azienda l’enologo Luca D’Attoma.

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POlizianO

Federico Carletti


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UNA VISIONE AUTENTICA LEGATA A QUESTA TERRA Ci sono eventi che in qualche modo cambiano la prospettiva con la quale guardi la vita ed è ciò che mi è accaduto con la nascita del secondo figlio, una bambina che ha ormai dieci anni.

Essere padre a più di cinquant’anni è un’esperienza stupenda, colma di ricchezza, piena di nuovi stimoli, con la quale mi trovo a scostare quella corteccia costruitasi nell’animo, ridando vigore e fiato ai sogni e a un futuro diverso da quello che avevo disegnato, nella speranza che diventi anche il suo, riuscendo nel frattempo a trasferirle le passioni per questo mestiere di vignaiolo. In questa fase di mutamenti personali, sono entrati altri cambiamenti, più “terreni”, ma non meno importanti, alcuni dei quali strategici per quest’azienda, con i quali ho dato vita, a partire dal 2001, alla costruzione di una nuova e più funzionale ala della cantina dove poter inserire la barriccaia e gli uffici, creando più spazio nella zona di vinificazione e di stoccaggio dei vini ormai imbottigliati e avendo così l’opportunità di avviare un’efficace strategia di comunicazione rivolta soprattutto all’accoglienza a Poliziano. Sono ormai lontani i tempi in cui mio padre, saggia e stimata persona, mi consigliava di lasciar perdere il mondo del vino, in cui lui era inserito, per dedicarmi all’insegnamento universitario; allo stesso tempo sono lontani i momenti goliardici in cui partivo per la Francia, in compagnia degli amici Carlo Ferrini e Maurizio Castelli, con l’intento di capire i segreti celati dietro a quelle meravigliose bottiglie di Bordeaux; e mi sembra lontanissimo il tempo in cui cedetti alle sirene, quanto mai affascinanti e “didattiche”, che mi spinsero a vinificare quei vitigni internazionali più disponibili e malleabili rispetto al rude Sangiovese che avevo fra le mani. Spazi temporali che ho l’impressione di aver attraversato con lunghe falcate, rivedendo le idee iniziali, modificando lo stesso mio modo di essere e la stessa visione di quel mondo del vino dove entrai nel 1980, convincendomi sempre più che fermarmi in questo luogo sia stata la più grande fortuna che mi potesse capitare, poiché ogni giorno è un giorno diverso dall’altro e non finisco mai di imparare, progettare, costruire nuove opportunità,

sapendo di dover lottare con problematiche e difficoltà, anch’esse sempre nuove e diverse. Una quotidianità che ho imparato a gestire, quasi ad assecondare più che ad affrontare di petto, trovando il gusto delle cose genuine, quelle più familiari, radicate nella storia che mi appartiene. Una visione che, paradossalmente, sembra più modesta, e invece è sicuramente più vera, autentica e legata maggiormente a questa terra. È come se dentro di me si fosse accesa una lucerna, quella cantata da Dante nel proemio del Paradiso (surge ai mortali per diverse foci la lucerna del mondo) che mi guida in un cammino diverso, dove il vino diventa complementare a questo territorio ricco di bellezza, storia e cultura, in cui mi trovo coinvolto e orgoglioso di appartenervi. Un territorio che ha coniato l’opera di artisti come Vasari, Piero della Francesca, Michelangelo Buonarroti, Simone Martini, Duccio di Buoninsegna e quella, più vicina a me, dell’architetto Antonio da Sangallo il Vecchio, autore della chiesa di San Biagio a Montepulciano. Una lucerna che oggi illumina anche la strada che conduce alla mia cantina, scoprendo come essa stia diventando un punto di riferimento importante per il comprensorio turistico, per chi arriva dalla Val d’Orcia, dalla Valdichiana o dall’etrusca Cortona e per tutti coloro che arrivano a Montepulciano, culla di quella letteratura di corte che il sommo poeta Angelo Ambrogini, detto il Poliziano, cantò. Un punto di vista nuovo con il quale osservo come il mio animo, introverso e scalpitante, sia più disposto a vivere con maggior trasporto quell’innato senso d’appartenenza che mi lega a questo luogo, trovando la voglia di esternarlo e renderne partecipi anche gli altri. Una consapevolezza applicata ai miei vini che sento figli di questo territorio, come lo sono io, e per questo, muovendomi all’interno di un’etica coerente e praticabile, mi adopero per rispettare le regole che mi sono imposto come vignaiolo e imprenditore.


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Un punto di vista nuovo con il quale osservo

come il mio animo, introverso e scalpitante, sia più disposto a vivere

con maggior trasporto quell’innato senso d’appartenenza

che mi lega a questo luogo...


POLIZIANO

VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO DOCG ASINONE Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, posto in località Pietrose, nel comune di Montepulciano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 12 e i 48 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine pliocenica, franco-argillosi, frammisti a zone tufacee, con scheletro di pietrisco rosso, ad un’altitudine compresa tra i 380 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese (Prugnolo gentile) dal 90 al 100% (a seconda dell’annata può intervenire nella percentuale un 10% di uve toscane a bacca rossa) Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 3.000 ai 5.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito tra la seconda metà di settembre e la fine di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini troncoconici di acciaio, si protrae per circa 16-18 giorni ad una temperatura controllata inferiore ai 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 7-8 giorni, durante i quali vengono effettuati follature e rimontaggi. Dopo la svinatura, il vino è posto parte in barriques e parte in tonneaux di rovere francese, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 16-18 mesi; durante questo periodo si effettuano regolarmente dei travasi. Terminata la maturazione e dopo 2 mesi per filtrazione e chiarifiche, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000-40.000 bottiglie a seconda dell’annata Note organolettiche: Di un colore rosso rubino intenso con riflessi granati, il vino si presenta al naso con sentori di frutti rossi maturi, ciliegie e prugne che con l’invecchiamento si trasformano in note di confettura e in percezioni speziate dolci, di erbe aromatiche e balsamiche. In bocca è asciutto, con tannini “decisi” nella giovinezza che si vanno modificando nel tempo e si trasformano in suadenti e morbidi ad amalgamarsi con la struttura sapida e acida che sorregge la degustazione e rende il vino piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1983 (nasce come Riserva) Le migliori annate: 1985, 1988, 1990, 1993, 1995, 1997, 1998, 2001, 2004, 2006 Note: Il toponimo Asinone deriva dalla caratteristica forma a schiena d’asino del vigneto. Il vino raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Carletti dal 1961, l’azienda agricola si estende su una superficie di 120 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’enologo Fabio Marchi e il consulente Carlo Ferrini.

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QUerciaBella

Marco Torriti, Guido De Santi, Dales D’alessandro


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Un coinvolgimento passionale, emotivo e di grande rigorosità Mi raccontava Sebastiano Cossia Castiglioni, quando ci incontrammo l’ultima volta, che il vino, per lui, non era altro che l’evoluzione del pensiero artistico di ogni viticoltore, trasformatosi, vendemmia dopo vendemmia, grazie al rapporto creato tra il proprio saper fare e la terra, le vigne e l’ambiente; il risultato, in definitiva, di quel dialogo interattivo esistente fra lui e il proprio terroir.

Ho sempre concordato con lui nel sostenere come le vigne, la cantina e i gesti antichi, accompagnati da rituali millenari, che si sommano al nuovo e alla tecnologia, sono solo anelli di una lunghissima catena che interagisce e si materializza in quel bicchiere di vino. Basta guardarci dentro, osservarne il colore e annusarne i profumi per percepire le sfumature, i segreti, le fantasie e la filosofia del vignaiolo, accorgendosi, così, che anche nel mondo del vino esistono artisti, poeti e scrittori. Con questi pensieri, a distanza di anni, oltrepasso il cancello aziendale, constatando come tutto, all’apparenza, sia rimasto invariato da allora, avendo la netta sensazione che quell’amore per le cose belle, caratteristico dell’impegno di Sebastiano, non è venuto meno, anzi è vivo più che mai ed è stato assimilato, ormai, anche da tutti i suoi collaboratori, che seguono l’imprinting con il quale egli marchia, da sempre, lo stato dell’arte di questa azienda, anche se è costretto, per ragioni lavorative, a seguirla da lontano e a diradare sempre più le sue visite a Querciabella. Conoscere questi uomini è per me un’ennesima dimostrazione delle grandissime capacità, umane e imprenditoriali, di Sebastiano, che ha saputo scegliere collaboratori di tale spessore da delegare loro la gestione dell’azienda attraverso un rapporto fiduciario totale e incondizionato, basandosi su una grande stima e sulla fiducia nelle loro capacità e competenze, acquisite, oltre che attraverso studi specifici, direttamente sul campo. Dunque non mi sorprendo quando, trovandomi al cospetto dell’enologo Guido De Santi e degli agronomi Dales D’Alessandro e Marco Torriti, mi accorgo che i fiduciari del Sebastiano pensiero formano un vero e proprio team aziendale, affiatato, efficiente e soprattutto efficace, capace di dirigere, pianificare, elaborare politiche e programmi in modo autonomo e responsabile dando impulso e vigore a quest’azienda di 270 ettari, di cui 75 vita-

ti, situata in uno dei più bei luoghi del Chianti Classico, a pochi chilometri da Greve in Chianti. Sentendo raccontare le loro storie di vita e contando gli anni che hanno già trascorso a Querciabella - chi dieci, chi quindici, chi addirittura venti - comprendo che il loro è un coinvolgimento totale, che ognuno ha sviluppato attraverso un cambiamento graduale del proprio sincronismo con la filosofia aziendale, prima condivisa e poi migliorata, approfondendo quel legame che lega Querciabella al suo territorio. Un percorso di crescita affascinante che non ha coinvolto soltanto loro, ma, da ciò che mi raccontano, tutti i livelli operativi, da quello tecnico fino all’ultimo operaio: ciascuno di essi si sente parte integrante di un progetto nel quale trasferire le proprie professionalità arrivando a comporre un puzzle d’intellighenzie che, personalmente, ho trovato estremamente originale e quanto mai didattico. Mentre parlano con me non mi nascondono il loro orgoglio di lavorare in questa azienda, sentendosi artefici del suo successo e gratificati del fatto che, svolgendo il proprio lavoro responsabilmente, sentono ciò che li circonda non di Sebastiano Castiglioni, ma proprio. Un coinvolgimento non solo tecnico, ma passionale, emotivo e di grande rigorosità, attraverso il quale, dal 2000, hanno dato corso ad una riconversione biodinamica di tutto il comparto viticolo dell’azienda - già biologica dal 1988 - con la volontà di porre naturalmente in equilibrio tutti gli elementi che interagiscono nella filiera produttiva, realizzando un ulteriore miglioramento del livello qualitativo dei vini prodotti. Un programma che li ha portati a riacquistare fiducia nel valore del lavoro del contadino, quello al quale tutti e tre si accostano con grande semplicità, per effettuare sempre le migliori scelte aziendali, avendo i piedi ben saldi per terra e l’anima di chi ha imparato a dialogare con queste zolle chiantigiane e ha il cuore per rispettarle.


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QUERCIABELLA

CHIANTI CLASSICO DOCG QUERCIABELLA Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con una piccola aggiunta di Cabernet Sauvignon) provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Ruffoli, nel comune di Greve in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 25 anni, e da altri vigneti a Radda in Chianti. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni ricchi di scheletro scistoso, ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 500 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 95%, Cabernet Sauvignon 5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito nella prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspatura delle uve raccolte; il pigiato ottenuto non viene inoculato con lieviti selezionati e la fermentazione alcolica avviene spontaneamente con i lieviti presenti naturalmente sull’uva. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 6-7 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 6 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in acciaio o cemento dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques di rovere da 225 lt di 2° e 3° passaggio in cui rimane per 10-12 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 4 mesi. Terminata la maturazione e dopo 2 mesi di decantazione in cemento, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 220.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino con riflessi purpurei molto brillanti, al naso il vino è profondo, ricco, complesso e propone un bouquet di frutti maturi dolci come more, marasche e lampone che si integra su un letto di fiori appassiti, erbe officinali, rosmarino e mentuccia con percezioni minerali e di pietra bagnata. In bocca ha un’entratura sapida, è caldo, morbido, con una fibra tannica ben equilibrata e una componente acida che lo rende lungo e persistente al palato. Chiude con una caratterista nuance di castagna e ricordi di corteccia di quercia da sughero. Prima annata: 1974 Le migliori annate: 1985, 1988, 1990, 1995, 1999, 2000, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal monte che sovrasta le vigne dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Castiglioni dal 1974, l’azienda agricola si estende su una superficie di 270 Ha, di cui 75 vitati, 10 occupati da oliveto e il resto da bosco. Dales D’Alessandro e Marco Torriti si occupano della parte agronomica. L’enologo è Guido De Santi.

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rOcca Di

mOntegrOssi

Marco Ricasoli FiridolďŹ


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in armonia con questo territorio e con la sua tradizione Assaggia questo Vin Santo e dimmi cosa ne pensi. Sono appena sei mesi che è imbottigliato e, sicuramente, fra un po’ sarà migliore di quanto non sia già oggi, poiché questo è un vino che, invecchiando, saprà vestirsi di ulteriori pregi.

Sono esterrefatto del risultato, perché non ho memoria di aver mai prodotto un Vin Santo come questo, che, pur avendo un elevato residuo zuccherino, in bocca non ti stucca e lo sorseggi che è un piacere. Non ho mai amato produrre vini egocentrici, spessi e muscolosi, architettati in cantina; prediligo, invece, da sempre vini eleganti di cui posso riuscire a godere le sottili sfumature che li caratterizzano, anche perché il vino “calcolato” spezza ogni premessa e non riproduce quel rapporto intenso e virtuoso che esiste con il territorio, come non fa risaltare la prerogativa, desiderabile, del berlo e del riberlo ancora un’altra volta. Questo Vin Santo è regale e il suo colore ambrato ricorda quei tramonti che si vedono qui da Montegrossi; è prezioso perché nasce da quel dialogo temporale che stabilisco fra le uve di Malvasia del Chianti, messe ad appassire, e la lenta maturazione svolta nei caratelli, costruendo quest’armonia che senti. È questa l’identità e la differenza che esiste fra i miei vini e quelli nonsense; sono figli della mia passione, del mio perfezionismo, del mio modo maniacale di non lasciare niente al caso e di controllare, minuziosamente, ogni singola fase della filiera produttiva, per puntare dritto in alto, al massimo risultato, facendo nascere in loro quell’espressione riconoscibile, particolare e unica che li contraddistingue. Non ti vorrei apparire un po’ esagerato, ma non sono capace di parlare di vino e allo stesso tempo vivere in modo diverso questo mio lavoro. E invece, quand’ero ragazzino, non avevo un’indole vocata alla campagna. Tutto è maturato e cresciuto, insieme alla sicurezza di cui oggi mi senti interprete, negli anni, man mano che mi rendevo conto di quanto fosse importante e bello questo luogo. Crescevo, e mentre dentro di me i ricordi si facevano sempre più forti, contemporaneamente diventava più profondo l’attaccamento per queste terre che osservavo cambiare e modificarsi; mi accorgevo che quelle tradizioni nelle quali io ero cresciuto e alle quali mi aggrappavo sempre più, si andavano dissolvendo di anno in anno, annacquate dalla cultura contemporanea incipiente. Sono cresciuto in un tempo in cui la vendemmia era una festa; ho ancora impressi nella mente

i volti di quei vecchi contadini che mi insegnavano a riconoscere i grappoli da raccogliere e quelli da lasciare, contraccambiando quella loro saggia pazienza con un grande rispetto pari a quello che ho sempre nutrito per la parola “contadino”. Oggi le campagne si sono spopolate e molta gente non ha più voglia di lavorare la terra, non comprendendo quanto sia sano, utile e gratificante questo lavoro e quanto sia fondamentale per il risultato che produce e per il suo valore sociale, poiché se la terra è abbandonata, muore e, lasciata a se stessa, dà origine a dissesti idrogeologici e paesaggistici inimmaginabili. Guardati intorno. Ciò che vedi è il frutto dell’impegno di quegli uomini che con il loro lavoro hanno reso queste terre così belle. Non è stato certo il buon Dio a farle così armoniose. Questa è un’architettura costruita da chi odora di terra e ha saputo adoperarsi per proteggerla e renderla fruibile ai suoi bisogni, senza imporre mai azioni prepotenti, mettendo a dimora la vite là dove doveva andare e l’olivo al proprio posto. Non come viene fatto oggi. Conosco molto bene quale sia il rispetto che è doveroso osservare nei confronti della terra e l’importanza dell’etica con la quale si avviano le azioni su di essa, poiché la mia famiglia è l’esempio di questa coerenza, annoverando fra i suoi antenati quel Barone Bettino Ricasoli che seppe contribuire alla nascita della moderna viticoltura del Chianti Classico. È da nove secoli che noi Ricasoli produciamo vino e lo facciamo in armonia con questo territorio e con la sua tradizione, di cui siamo parte integrante, avendo deciso di abbandonare spade, scudi e speroni, lasciandoci rappresentare dall’identità dei vini che produciamo più che dal drappo rosso, ormai inchiodato al muro. Sono discorsi che ci portano lontano da questo Vin Santo che invece è “poesia da versare”. È l’immagine di questo paesaggio che corre delineando quel concetto del bello che scolpisce e identifica il Chianti Classico. È magnifico, così come queste colline di Monti in Chianti e i sassi che ne caratterizzano i terreni, i quali, pur facendomi penare, partecipano a costruire l’equilibrio tra quell’argilla e quella sabbia, rendendo queste terre insuperabili per produrre grandi


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vini. Sono le caratteristiche precipue ed intrinseche del mio territorio che mi spingono a confrontarle con altre terre di questa Toscana del vino; terre che si tuffano nel mare, terre morbide che si accompagnano agli olivi, terre argillose che si uniscono all’oro del grano, sabbiose, calde, fredde, granitiche e austere come le nostre, terre difficili da raccontare e sintetizzare in poche parole, poiché totalmente diverse fra loro; comunque non ti annoiano mai, ti aprono la mente e ti ricordano, dovunque tu volga lo sguardo, di essere in Toscana, dove ho deciso di fermarmi e fare il vignaiolo, cercando di produrre vini come questo Vin Santo che, più di ogni altro, racchiude in sé il calore e l’armonia di tutte quelle terre di cui ti ho parlato.

Guardati intorno. Ciò che vedi è il frutto dell’impegno di quegli uomini che con il loro lavoro hanno reso queste

terrebelle. così


ROCCA DI MONTEGROSSI

Vin Santo del Chianti Classico DOC Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Malvasia del Chianti provenienti dal vigneto San Marcellino, di proprietà dell’azienda, posto in località Monti in Chianti, nel comune di Gaiole in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 42 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni collinari con tessitura di medio impasto di origine calcarea, ricchi di alberese, ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 380 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Malvasia del Chianti 100% (dall’annata 2001 sarà inserito nell’uvaggio un 5% di Canaiolo nero) Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 3.300 ai 5.208 ceppi per Ha Tecniche di produzione: La vendemmia è svolta di solito a partire dalla seconda decade di settembre, poi si procede all’appassimento delle uve che si svolge al chiuso su reti poste in locali a tetto naturalmente ventilati. Durante questa fase l’uva viene attaccata dalla muffa nobile (Botrytis Cynerea) e ogni 10 giorni circa si effettua un’attenta selezione dell’uva per togliere via via quella deteriorata. Il momento della spremitura avviene di solito nel febbraio dell’anno successivo alla vendemmia, quando la Malvasia ha raggiunto la giusta (ed elevata) gradazione zuccherina. Dopo una pigiatura estremamente soffice, il mosto ottenuto viene immesso in piccoli caratelli (da 50 e 100 lt) di legni diversi (ciliegio, rovere, moro) e qui è fatto fermentare e matura per circa 6-7 anni. Poi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 2.000 bottiglie circa (da 0,375 ml) Note organolettiche: Di un bellissimo colore ambrato intenso con sfumature che ricordano certi legni scuri laccati, offre all’esame visivo anche riflessi dorati brillanti; all’olfatto è un’esplosione di sensazioni vellutate con intense note di albicocche, fichi, arancio e cedro candito, frutta secca, mandorle, fiori appassiti, camomilla e sambuco; in bocca avvolge il palato, lo accarezza e lo scalda con affascinanti note dolci, con percezioni di caramella al mou, cioccolata, caffè e altre nuances di tabacco da pipa e nocciola, che ampliano le sensazioni avute al naso, lasciando la bocca fresca e vogliosa di un nuovo assaggio. Grandissima lunghezza e persistenza. Da vera meditazione. Prima annata: 1981 Le migliori annate: 1994, 1995, 1998, 2000, 2001, 2002 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 25 anni. L’azienda: Di proprietà di Marco Ricasoli Firidolfi dal 1998, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, di cui 19 vitati, 10 occupati da oliveto e i restanti da seminativi e bosco. Collabora in azienda l’enologo Attilio Pagli, mentre il settore agronomico è curato dallo stesso Marco Ricasoli Firidolfi con la collaborazione di Roberto Bandinelli e l’aiuto in vigna di Slavko Grabovac.

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rOccaPesta Alberto , Margareta Tanzini


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un SOGNO CHE HA MODIFICATO LE NOSTRE ESISTENZE CEMENTANDO IL NOSTRO AMORE CON LA TERRA Certe volte le nostre radici non hanno la necessità di sprofondare nel buio storico delle origini, ma si allargano in superficie, come i rami di una pianta vogliosa di incontrare altre radici alle quali stringere la mano.

È stato così che i miei rami hanno incontrato quelli di Maggie, mia moglie, ed è così che le ho stretto la mano; entrambi eravamo desiderosi di dar sèguito all’istinto naturale dell’amore che ci univa e, per niente impauriti, a quello più vitale dell’erranza, per il quale abbiamo abbandonato le nostre origini per crescere insieme, in un sistema di proposizione e di relazione l’uno con l’altro, dovunque il destino avesse scelto di portarci e lì far crescere i nostri figli e costruire, con essi e per essi, nuove storie capaci di intrecciarsi alle nostre. Storie, ognuna delle quali ha una propria e personale sorgente d’acqua: la mia si trova a Brescia, quella di Maggie in Slovacchia e quelle più piccole di Luca, Leonardo e Francesco scaturiscono da queste colline di Scansano, in Maremma - dove essi sono nati - per ritrovarsi unite in questo mare di vigneti dove realizziamo sogni e progetti da veri vignaioli toscani. Chi l’avrebbe mai detto che tutto si sarebbe concretizzato in questo luogo ameno e che la condivisione di quell’erranza ci avrebbe portato così lontani non solo dai luoghi natii, ma anche dalle nostre reciproche attività professionali, abbandonando, io il mestiere di consulente finanziario e lei quell’indirizzo diplomatico nel quale stava appena incominciando a muovere i primi passi. Erano anni che io e mio padre Leonardo avevamo in mente l’idea di trovare una casa in campagna dove poter trascorrere tranquilli e ricaricanti week end; per questo avevo avviato una ricerca che mi spinse un po’ ovunque, dalla Valpolicella al Chianti, fino alla Val d’Orcia, senza però mai trovare il luogo o l’immobile adatto, arrivando a pensare che ciò che stavo cercando non fosse altro che l’isola che non c’è. In me non era ancora nata la passione per il vino, anche se non mi dispiaceva l’idea di misurarmi con quel sistema vitivinicolo quanto mai sconosciuto, cosa che invece capitò subito dopo l’acquisto, nel settembre del 2003, di Roccapesta, una splendida azienda, i cui 72 ettari sono disposti lungo il crinale di una collina

dove da una parte lo sguardo arriva oltre Saturnia e dall’altro fino al mare. Un’estensione impegnativa che necessitava di una presenza attiva e continua e comportava una nuova scelta di vita, l’acquisizione di responsabilità e di una nuova e quanto mai diversa cognizione del futuro. Lo spirito errante di entrambi non tardò ad arrivare, facendo diventare reale quel mio vecchio sogno, modificando così le nostre precedenti esistenze, le nostre abitudini, stimolando nuove e diverse passioni, cementando il nostro amore con una terra, diversa da quella in cui eravamo cresciuti e diventati adulti; un sogno che univa ad un’indiscutibile fascino la paura di intraprendere nuove strade, a noi sconosciute. Un mondo nuovo ci si apriva davanti e io lo affrontavo con la gioia di un bambino e la risoluta consapevolezza di dover trovare dei validi, attenti e scrupolosi collaboratori in grado di fornirmi quella “sapienza” che non possedevo e che trovai nell’agronomo Laura Bernini, nell’enologo Andrea Paoletti e in Domenico Monellini, per 40 anni cantiniere della Fattoria Le Pupille. Persone che non finirò mai di ringraziare per la pazienza, la dedizione e l’esperienza che hanno voluto travasare in questa nuova realtà scansanese, insegnandomi ogni aspetto tecnico e pratico del mestiere a cui ho deciso di dedicarmi. Collaboratori con i quali sono riuscito a dare, fin da subito, una forte identità ai vini che produciamo, soprattutto a quel Morellino legato al territorio, nel quale alla netta percezione di base di un vitigno come il Sangiovese unimmo un tocco di Ciliegiolo, per aggiungere una personalità e differenziarsi dagli altri prodotti in questa zona. Il resto, come i nuovi vigneti e la nuova cantina, è storia recente e non potrebbe essere diversamente; una storia breve, troppo breve, che quasi trovo difficoltà a raccontare, sapendo benissimo che sono ancora lontani i tempi in cui con Maggie potremmo permetterci di godere di ciò che stiamo costruendo insieme.


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ROCCAPESTA

MORELLINO DI SCANSANO DOCG RISERVA CALESTAIA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dalla vigna più vecchia di proprietà dell’azienda, situata in località Macereto, nel comune di Scansano, le cui viti hanno un’età di oltre 25 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine vulcanica ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in legno, si protrae per circa 14 giorni ad una temperatura compresa tra i 18 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino torna in legno dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene travasato in botti di legno da 5-10-25 Hl di 2° e 3° passaggio; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 3-4 mesi. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 8.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, luminoso e brillante, al naso il vino si propone complesso, armonico, profondo, con percezioni che spaziano da erbe officinali, radice di liquirizia, cioccolato di menta a piacevoli note di corteccia di sughera e carruba per finire con più lievi accenni minerali e floreali di violetta, ribes neri e mirtilli maturi. In bocca ha un’entratura sapida, minerale, con una struttura acida di alto profilo che gli conferisce eleganza e sobrietà e una lunghezza considerevole. Chiude persistente con ricordi speziati di senape in grani e nuances di pietra bagnata. Prima annata: 2004 Le migliori annate: 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal “galestro”, il tipico terreno adatto per la viticoltura di qualità, raggiunge la maturità dopo 5-7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Alberto e Leonardo Tanzini dal 2003, l’azienda agricola si estende su una superficie di 72 Ha, di cui 15 vitati, 1 occupato da oliveto e 55 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda Margareta, la moglie di Alberto, come responsabile per le relazioni pubbliche, l’agronomo Laura Bernini e l’enologo Andrea Paoletti.

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salUstri

Leonardo Salustri


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SEMPLICITÁ E DEVOTA OBBEDIENZA ALLA TERRA Semplice, simple, simplex, einfach. È un aggettivo indicante lo stesso significato in ogni lingua del mondo: quello di sincero, indivisibile, immediato, facile, comprensibile da tutti.

Una parola, un universo, una filosofia che mi piace abbinare all’amico Leonardo Salustri, che mi ha dato, fin da quando lo conosco, la sensazione di essere vignaiolo da sempre, essendo stato “impastato” con la serenità e la fiducia tipiche dei contadini toscani, capaci di non perdere mai di vista la misura del mondo che li circonda e il rapporto segreto e palese che li lega alla natura. Basta guardarlo negli occhi per capirne i sentimenti e gli umori. Basta guardare come costruisce le cose per capire che sono poste lì, tutte alla sua altezza, conoscendo bene quali siano i suoi limiti, e le sistema, in ogni dove, con l’intelligenza delle proporzioni, muovendosi con passo deciso, con gesti equilibrati e con parole mai banali, pur avendo in cuor suo la consapevolezza di esser andato oltre a ciò che lui stesso si aspettava dalla vita. È qui che ha sempre vissuto e so che è qui che desidera vivere, poiché per lui questa terra vale molto più d’ogni altra cosa, anche più del valore in soldi che avrebbe potuto ottenere lasciandosela portar via. È fra questi vigneti, precisi e dritti come binari, fra le vecchie viti, accudite come un figlio farebbe con una madre anziana, nella cantina, funzionale e senza fronzoli, che ritrova quell’artigianalità tutta contadina di saper ponderare ogni azione, coniugando tradizione e conoscenze con gli elementi con cui ha a che fare. Così si accompagna all’evoluzione della sua vigna, dalla potatura al diradamento e anche nella maniacale passione con cui svolge la vendemmia che, per lui, non ha limiti di tempo, ma solo quello dettato dall’uva giunta a giusta maturazione. Sono anni che lo conosco e so che questa terra lui ce l’ha dentro, poiché è l’elemento che infonde bellezza, luminosità e agilità al suo animo; una leggerezza che accompagna anche i venti che spirano su queste alture di Poggi del Sasso, dalla tramontana proveniente dal Monte Amiata - che gli è di fronte - al maestrale che arriva dal mare in lontananza. Lo osservo con quanta passione mi mostra come siano attecchiti i suoi innesti o come quelle viti abbiano ripreso vigore o come il finocchietto selvatico cresca accanto a loro, fermandosi per farmi annusare l’odore forte di quella sua terra a cui dedica dedizione, cura e passione, calibrata alla sua moderazione di far

solo le cose per bene. Ogni volta che ho il piacere d’incontrarlo rimango colpito dal fatto che Leonardo rappresenti, in questo mondo del vino, l’emblema di quella semplicità che vado cercando, la quale, senza troppi artifizi o strategie e solo attraverso una devota obbedienza alla terra, sa comunicare l’origine e il valore del vino. Chiunque, seguendolo mentre mostra ciò che ha saputo realizzare in questi anni, diventa suo amico, poiché egli è capace di ammorbidire gli spigoli di quel suo lento disquisire, eliminando qualsiasi enfasi o parole ridondanti, che potrebbero indurre, chi l’ascolta, a pensare che voglia in qualche modo competere con qualcun altro, mettendo i suoi ospiti a loro agio e riuscendo, senza timore alcuno, ad esser, sempre e in ogni caso, solo se stesso. Tanto che gli dettero anche del pazzo, quando, dall’oggi al domani, vendette una delle più belle mandrie della Maremma per puntare tutto sulla produzione del vino, dell’olio biologico e sull’agriturismo, avendo capito, prima di altri, quanto queste sue terre potevano agevolare quelle sue radicali scelte che richiedevano un lavoro enorme di riconversione e di ristrutturazione dell’azienda che, per come lo interpreta lui, non avrà mai fine; un processo evolutivo iniziato una ventina d’anni fa che lo ha condotto ad essere inserito nell’elenco dei padri putativi del movimento vitivinicolo che ha creato la denominazione del Montecucco DOC. Non so, in fondo, quale sia il segreto che induce quest’uomo ad essere così semplice e buono nello stesso tempo, come non so se scrivere ciò potrebbe apparire un modo sciocco per adularlo, ma non m’interessa, anche perché è quello che penso di lui e non sono il solo a farlo, dato che ci sono molti altri, o almeno tutti quelli che lo conoscono bene e lo incontrano, a pensarla come me, cercandolo e chiedendogli consigli. Forse non vi è nessun segreto da scoprire, poiché credo che tutto dipenda dal fatto che lui è figlio di questa Maremma, tanto forte e dura, impossibile da affrontare con spavalderia e tracotanza, ma solo in modo semplice e umile, come ha imparato a fare Leonardo.


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...basta guardarlo negli occhi per capirne i sentimenti e gli umori...


SALUSTRI

MONTECUCCO SANGIOVESE DOC GROTTE ROSSE Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti da tre piccoli vigneti posti nella zona di Grotte Rosse, in località Poggi del Sasso, nel comune di Cinigiano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 50 e i 60 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di matrice calcarea, molto profondi e fortemente drenanti, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 380 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest e nord. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a Guyot Densità di impianto: 4.800 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti propri, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in contenitori troncoconici di rovere da 22 Hl, si protrae per circa 12-15 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 5-15 giorni, durante i quali vengono effettuate 3 follature manuali al giorno. Dopo la svinatura, il vino è riposto nei contenitori troncoconici, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi, al termine dei quali si procede all’assemblaggio e al riposizionamento del vino in botti di rovere da 50 Hl. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 12.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino intenso quasi impenetrabile con brillanti riflessi purpurei; al naso, intenso e profondo, il vino si manifesta con profumi varietali in cui si ritrovano percezioni olfattive minerali e fruttate di ciliegia, mora e confettura di mirtilli; seguono note speziate di macchia mediterranea, cacao amaro in polvere, radice di liquirizia e finocchio selvatico. In bocca ha un’entratura calda, suadente, ben equilibrata e sapida che sorregge in modo splendido una fibra tannica morbida e setosa. Nel lungo e persistente finale chiude con un fresco tocco di finocchietto selvatico. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1999, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dalla località in cui sono posizionati i vigneti, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. È prodotto con uve provenienti da agricoltura biologica. L’azienda: Di proprietà della famiglia Salustri da tre generazioni, l’azienda agricola si estende su una superficie di 160 Ha, di cui 20 vitati, 20 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collabora in azienda l’enologo Maurizio Castelli.

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impegnarsi a preservare la terra per le generazioni future


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la cerBaiOla

Giulio Salvioni


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UN DIALOGO con il vino, le vigne e questo territorio Mi sono messo a fare vino a quarant’anni, non gratificato dal lavoro che svolgevo alla Usl - prima a Milano e poi a Montalcino i cui uffici erano posti ad appena dieci metri da casa mia.

Avevamo una piccola azienda agricola in una delle zone vitivinicole più vocate di Montalcino, ed è forse per questo, che già da diversi anni, gli amici e gli stessi produttori confinanti si domandavano il motivo per il quale, essendo stati baciati dalla fortuna, non producessimo un nostro Brunello, come ai loro occhi appariva ovvio dovessimo fare. Del resto, come dar loro torto... Avevamo delle terre in una posizione eccezionale e anche il recondito desiderio, con cui mio padre era diventato vecchio, di vedere un giorno sugli scaffali un’etichetta con su scritto Salvioni; inoltre, dalla mia parte c’era un profondo legame con quella terra, avendo voluto sempre alimentare quel sentimento, trasmessomi dal mio vecchio genitore, frequentando volentieri e più assiduamente di quanto facessero gli altri miei fratelli quella campagna che lui amava tanto. Era la fine degli anni Ottanta e nell’area si percepiva il germogliare di un nuovo rinascimento vitivinicolo e con esso un fiorire di nuove aziende enologiche, figlie di quelle che fino a poco tempo addietro, conducevano un’economia promiscua, tipica della zona, sostituita da una viticola più specializzata. Erano anni in cui proliferava anche la cultura del posto fisso, nelle cui sicurezze io sguazzavo ormai da molto tempo. Un dilemma che mi attanagliava, rendendomi titubante nel decidere se dar retta alla ragione, che mi spingeva a prolungare il mio rapporto impiegatizio, o alla passione, con la quale incominciare a dedicarmi al vino. Con misurata pazienza e con quell’indole razionale che mi caratterizza, temendo di non essere all’altezza dell’impresa, presi tempo. Del resto avevo sviluppato anche altre mille passioni, come quella per i rally, per le auto d’epoca, o quella per i viaggi, migrando con il camper, con mia moglie Mirella e i nostri figli, da un fronte all’altro di paesi sconosciuti, scoprendo insieme nuovi paesaggi e prendendo spunti ogni volta diversi nei quali riconoscersi, soltanto per brevi istanti, per poi ripartire in cerca di altre emozioni. Più passava il tempo e maggiore sentivo crescere in me la voglia

di dar corso a una personale rinascita che mi gratificasse e mi ponesse in equilibrio, come figlio di contadini, con quella tradizione agricola che mi apparteneva e con questo territorio, che guardavo trasformare da spettatore e con il risveglio di quei ricordi della mia crescita di uomo, di giovane e di piccolo montalcinese; come quando a 5 anni, non potendo seguire i grandi nelle cacciate al cinghiale, me andavo per queste campagne a petterare, a prendere le pettiere, i pettirossi, portandomi dietro due canne sulle quali stendevo la pania, una resina d’origine vegetale molto adesiva, e infilzavo su di esse un pomodoro rosso di cui sono golosi quegli uccelli, avendo come unico scopo, dopo averli catturati e aver fatto molta attenzione nel liberarli da quell’inganno, pulendoli con della cenere, di metterli dentro alla gabbietta di cui mi ero dotato, così da sentir fischiettare quegli stupendi animali. Da neofita e con lo spirito spavaldo con il quale mi sono sempre accostato ad ogni nuova avventura, decisi così di dare sfogo alla passione di fare vino. La interpreto ormai da 25 anni a questa parte, con l’intenzione di far sempre bene ciò che è possibile fare, seguendo crismi e regole precise, riuscendo a divenire anch’io un interprete di questo Brunello, con il quale uscii come prima annata nel 1990, poco prima che mio padre morisse, concedendogli la soddisfazione di vedere una bottiglia con un’etichetta che riportava il nome di noi Salvioni. Sono passati molti anni e, insieme all’età che avanza, alcuni degli entusiasmi giovanili sono venuti meno e sempre più mi ritrovo a dialogare con il vino, con le vigne e con questo territorio che sento sempre più mio, trovando una grande soddisfazione in ciò che faccio e nel constatare come questo mio impegno sia riconosciuto da tanti consumatori, i quali mi confermano, ogni volta che li incontro, come un contadino vignaiolo possa ancora dialogare con il mondo.


PiĂš passava il tempo e maggiore sentivo crescere in me la voglia di dar corso a una personale rinascita che mi gratiďŹ casse e mi ponesse in equilibrio, come ďŹ glio di contadini, con quella tradizione agricola che mi apparteneva e con questo territorio...

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SALVIONI - LA CERBAIOLA

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Cerbaiola, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra gli 8 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di galestro, ad un’altitudine di 420 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Sangiovese grosso (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 3.000 ai 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti autoctoni, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tank di acciaio, si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 15 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è rimesso nei contenitori in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in botti da 20 Hl di rovere di Slavonia in cui rimane minimo per 36 mesi; durante questo periodo si effettuano almeno 2 o 3 travasi l’anno. Terminata la maturazione e dopo 2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 5-6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino con riflessi di uno splendido rosso purpureo, al naso, intenso, vivo e fresco, il vino propone note di macchia mediterranea ricca di erbe officinali (come alloro, ginepro e timo) che si vanno ad integrare all’interno di un buon bouquet che da un fondo minerale si eleva con percezioni floreali e delicate nuances fruttate per lasciare poi spazio ad accenni speziati di senape in grani, sottobosco e muschio. In bocca ha un’entratura sapida, ben equilibrata con la ricca acidità. I tannini sono morbidi e vellutati. Elegante, fine, lungo e persistente, chiude la degustazione con un finale che riporta alla mente sapori di visciole mature. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1985, 1989, 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 40 anni. L’azienda: Di proprietà di Giulio Salvioni dal 1979 (ereditata dalla famiglia che si trova sul territorio montalcinese dai primi del ‘900), l’azienda agricola si estende su una superficie di 18 Ha, di cui 4 vitati, 4 occupati da oliveto e il resto da bosco. Svolge funzione di agronomo David Salvioni. Collabora in azienda l’enologo Attilio Pagli.

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san giUstO a

rentennanO

Luca, Elisabetta, Francesco Martini di Cigala


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CONSAPEVOLI CHE LA TRADIZIONE SI DIFENDE CON PICCOLI E GESTI E MINUSCOLI DETTAGLI Non nascondo che varcare gli antichi limiti di questa tenuta, che rappresentò, nel 1204, il confine tra i contadi di Siena e Firenze è come compiere un salto indietro nel tempo, tornando alle atmosfere perdute di quella Toscana antica e rurale ormai scomparsa,

ma che sembra rivivere in questo paesaggio testardamente salvaguardato e tutelato, a dispetto di tutto, da Elisabetta, Francesco e Luca Martini di Cigala che dirigono quest’antichissima e prestigiosa azienda, che si affaccia sull’alto corso del fiume Arbia, nella parte più meridionale del Chianti Classico. Convento cistercense dal X secolo, fu in seguito trasformato in fortilizio dai Baroni Ricasoli nel XIII secolo. Il discendente Barone Giovanni, alla fine dell’Ottocento, ristrutturando le cantine, costruendo la tinaia e il granaio, rese autonoma la fattoria dal Castello di Brolio, a cui, prima di allora, veniva conferita tutta la produzione agricola. Con questa nuova impostazione strutturale, molto simile all’attuale, fu ereditata da Enrico, il padre degli odierni proprietari. Un luogo al quale Elisabetta, Francesco e Luca sono profondamente legati, avendo trascorso qui parte della loro infanzia, a contatto con la natura e la terra, giocando nel creare con la stessa dei piccoli manufatti che il freddo inverno coceva e il caldo estivo spezzava. Nell’incontrarli, come ogni volta ho la sensazione di trovarmi davanti a chi, ponendo in un angolo il suo blasone aristocratico, ha preferito diventare contadino e dialogare con quelle zolle amiche, non preoccupandosi se, a forza di parlarci, gli sono venuti i calli sulle mani. Come ogni terra si riconosce dal modo in cui respira e da come il suo alito schiarisce le foglie degli ulivi, scurisce quelle delle viti, gonfia la chioma della quercia, liscia le pietre dei muri e pulisce il cielo, così anche loro sono riconoscibili per come camminano, per come si muovono e per come sono riusciti a divenire, essi stessi, respiro, pietra, quercia, olivo, vigna e alito per questo Chianti. Come mai, mi domando, dovrei limitarmi a parlare di vino con chi si apre e sfoglia, insieme a me, le pagine della sua memoria, privata e collettiva di questo lembo di Toscana? Ricordi che mescolano il sacro e il profano di una Madonna portata in processione su quelle strade bianche, seguita da contadini noncuranti del canto delle loro donne o delle vendemmie che diventavano un’occasione per far festa; piccoli ricordi di vita quotidiana, del lavoro svolto su queste colline, all’ombra delle quali sta-

vano i signori, mentre al sole d’estate e ai venti gelati d’inverno, i contadini. È anche in virtù di questi ricordi che Elisabetta, Francesco e Luca, sono rimasti a Rentennano e sono rimasti per fare ciò che riesce meglio loro: i vignaioli, riportando in quel lavoro ciò che hanno appreso, ma, soprattutto, l’educazione e il rispetto per le loro vigne, per le uve di Sangiovese e per il vino, interpretato in modo antico, ma sempre originale, come figlio del tempo e della stagione. Mi piace il modo semplice che hanno di raccontarsi, con il quale mostrano i loro pensieri e la filosofia con cui, ormai da vent’anni, conducono quest’azienda, di come abbiano aderito alla FIVI - la Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti - ai suoi scopi e ai suoi obiettivi e di come non abbiano mai voluto banalizzare un luogo così bello com’è San Giusto a Rentennano, con nessuna ipotesi di attività parallela come quella ricettiva agrituristica, tanto di moda da queste parti, che ha contribuito spesso a spersonalizzare e falsificare la natura e la vocazione di questo territorio, trasformandolo in un parco dei divertimenti, una “Disneyland chiantigiana” per turisti distratti e poco inclini a comprendere l’originale ruralità di queste terre antiche. Approvo le loro scelte, che mi sembrano tanto più coraggiose quanto meno si nutrono delle illusioni di poter rivedere il Chianti della loro infanzia, ma consapevoli che la tradizione si difende con piccoli gesti e minuscoli dettagli, per accenni, per frammenti di ciò che è rimasto della grandezza di un tempo. Non seguendo tendenze e mode, vanno avanti, dritti per la loro strada, con nobile e aristocratico riserbo, lontani dalla massa vociante di chi, con meno storia o tradizione di loro, è costretto a urlare per farsi sentire; il silenzio nel quale maturano le loro uve e i loro vini, parla per loro. Risultati che si ottengono con impegno e dedizione, non lasciandosi distrarre neanche dal meraviglioso territorio in cui vivono, passando la maggior parte del tempo con la testa china, ora verso la terra, ora verso le viti o fra le mille scartoffie dei molti impicci burocratici, scoprendo, molto spesso, che il colore del cielo è quello riflesso in qualche larga pozza d’acqua, tra le vigne.


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...non seguendo tendenze e mode, vanno avanti,

dritti per la loro strada, con nobile e aristocratico riserbo...


SAN GIUSTO A RENTENNANO

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA LE BARÒNCOLE Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località San Giusto a Rentennano, nel comune di Gaiole in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano per la maggior parte su terreni di origine pliocenica, caratterizzati da strati di sabbie e ciottoli sovrastanti banchi di argilla e, in minor misura, di medio impasto con presenza di Galestro e Alberese, ad un’altitudine compresa tra i 260 e i 320 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est, sud, sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 97%, Canaiolo 3% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e in parte Guyot semplice Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha nei vecchi impianti, 5.000 nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla seconda selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, con lieviti autoctoni, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in vasche di cemento e acciaio, si protrae per circa 10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi giornalieri, ad una temperatura compresa tra i 24 e i 33°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 8-10 giorni, Dopo la svinatura, il vino è posto in vasche di cemento e acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques da 2,25 Hl di 3° passaggio e in tonneaux da 5 Hl di 1° e 2° passaggio in cui rimane per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi secondo necessità. Terminata la maturazione e dopo 1 mese di decantazione e assemblaggio in vasca, il vino è messo in bottiglia, senza filtrazione, per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 12.000 bottiglie circa Note organolettiche: Colore rosso rubino profondo, il vino al naso si presenta con profumi intensi: percezioni di alloro, erbe aromatiche e muschio si spostano su note fruttate di marasca e prugne e poi su altre floreali di mammola. In bocca ha un’entratura fresca, lineare, con tannini morbidi, puliti, ben maturi e setosi, accompagnati da una buona sapidità che sorregge il vino lungo tutta la degustazione. Lungo e persistente, chiude con nuances di terra e delicati accenni minerali. Prima annata: 1975 Le migliori annate: 1985, 1988, 1990, 1991, 1995, 1997, 1998, 1999, 2001, 2004, 2005, 2006 Note: A partire dalla vendemmia 2000, il vino prende il nome dal toponimo del viale di accesso alla fattoria (Le Baròncole). Raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Martini di Cigala dal 1914, l’azienda agricola si estende su una superficie di 160 Ha, di cui 31,5 vitati, 11 occupati da oliveto e 115 da seminativi, bosco e prati. Collaborano in azienda l’agronomo Ruggero Mazzilli e l’enologo Attilio Pagli.

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Michele Satta


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Un amore complesso capace di interagire con ogni cosa Mi piace parlare con chi, come te, è capace di ascoltare le profonde e recondite sensazioni che mi porto dentro e che, con fatica, esterno. Ma prima di entrare nel merito di ciò che ho da dirti, avrei il desiderio di farti una piccola premessa, utile a comprendere meglio le mie parole.

Quando mi guardo intorno e osservo questa cantina, le mie vigne e ripenso ai sacrifici e al tempo dedicato loro, mi rendo conto di quanto ogni cosa sia il frutto dell’amore che ho nutrito e nutro per questo lavoro di vignaiolo: esso mi tende, mi inquieta e mi nutre. Un amore complesso, difficile, contrastato, forte e risoluto, capace di interagire con ogni cosa, dal desiderio di voler far sempre meglio, all’impegno che mi richiede farlo: tutto per inseguire il sogno della perfezione. In questi anni mi sono costruito come uomo e come imprenditore, realizzandomi come vignaiolo attraverso il vino che, forse, più di ogni altra cosa, soddisfa le mie aspettative per la vita materiale. Non era così quando, tanti anni fa, producevo le pesche e le fragole o gli altri prodotti che, ciclicamente, raccoglievo, ricavando, come gratificazione, ciò che economicamente mi imponeva il mercato. Erano tempi in cui con la mano destra vendevo un frutto e con la sinistra contavo i soldi, in un trasformismo dove tutto, in un breve lasso di tempo, si riduceva a un semplice valore economico che non esercitava in me nessun entusiasmo. Con il vino tutto è diverso. Produrlo, per me, ha voluto dire disegnare una strada e poi seguirla per scoprire, dopo una vita, che la stessa mi ha condotto ai risultati che mi ero prefissato. Fare vino ha voluto dire realizzare un progetto, personalizzarlo, renderlo unico, espandibile e in grado di arricchirsi con la mia stessa storia di vignaiolo; mi ha dimostrato di essere in grado di determinare le sorti e il valore di quel vino che ho deciso di produrre. È stato come aprire una porta e tenerla spalancata, per anni, verso il futuro e farvi passare i sogni che alimentano le mie speranze e le passioni le quali, a loro volta, si trasformano, arricchite di una sempre maggiore conoscenza dell’habitat in cui si sviluppano e dell’esperienza che si modifica, tramite il mio saper fare, in amore. Un amore che, ahimé, è contrastato ed è costretto - per non vedersi spuntare le ali nel suo candido volo da un mondo esterno ottuso che si diverte con leggi vassalle applicate da squallidi e burocratici personaggi - a decuplicare l’esternazione della propria dinamicità, di quell’energia e di quell’impegno straordinario in cui trova la sua stessa ragione di esistere. Non mi chiedere i motivi dei mille balzelli a cui siamo costretti come vignaioli, e non saprei darti spiegazioni del processo di ghettizzazione a cui oggi viene sottoposto il vino, poiché, difficilmente, si potrebbe trovare una motivazione plausibile alle molte scorrettezze che, ogni giorno, si sentono pronunciare nei confronti del comparto vitivinicolo, ora poste a tutela di una maggiore trasparenza produttiva, ora a difesa del consumatore o

del sistema sociale. Non so quali siano le cause, ma è così e sono sicuro che in questo tuo viaggio troverai sicuramente decine di produttori che, con scoramento, ti racconteranno quale incresciosa realtà oggi si stia vivendo. Non è facile lavorare ponendo in equilibrio le passioni che mi animano con le ostilità del mondo esterno, le quali rischiano di vanificare il lavoro fin qui svolto, finalizzato a dare un valore di relazione ai vini prodotti. Secondo te, come faccio a relazionare la mia storia, il mio territorio, la mia tradizione e il mio background con chi si affida biecamente alla materialità del semplice profitto? Come faccio a far apprezzare i valori di quelle mille, sottili, minuziose alchimie, dentro le quali sono costretto a muovermi per ottenere un prodotto salubre e genuino come quello che tu hai degustato, se mi ritrovo, legislativamente, sul solito piano di chi produce vini di basso profilo organolettico e, peggio ancora, sul banco degli imputati al pari di chi produce alcool? Capisci che, in questo quadro generale, tutto si complica e gli sforzi profusi e i sogni realizzati - e quelli ancora da realizzare, che mi danno la forza di proseguire sulla strada che avevo tracciato - rischiano di svanire o di diventare inutili. Ma io non ci sto. Non mi voglio arrendere e non voglio assistere passivamente alla disgregazione del mondo a cui ho dato la mia vita. No, non voglio accettare questa eclatante dinamica con la quale il mio lavoro e il mio vino vengono equiparati a quelli di una produzione massificata, di dubbia provenienza, che presto riempirà i mercati mondiali. La realtà è che provano a toglierci il gusto di sognare, di amare un lavoro sviluppatosi intorno al territorio che abbiamo difeso e protetto da qualsiasi speculazione. Se ciò accadesse avremmo perso la nostra identità. Il mio non è un discorso retorico, ma strategico e vitale per la sopravvivenza delle imprese come la mia, nella quale ho riposto il futuro dei miei figli. Come vedi, ne avevo di cose dentro da raccontarti e mi piace parlarti così, con la stessa passione cresciuta in me in questi 30 anni di confidenza con la vigna, in modo naturale, con generosità, senza mai perdere di vista la semplicità con la quale produco il vino. Non esiste un vino “vero” e uno “falso”; per un agricoltore come me il vino è l’espressione intensa del rapporto con la terra, con la vigna, con la cultura e con la civiltà; è un punto di gloria e non di divisione o di ostilità. È un prodotto irripetibile, una preziosità, frutto dell’interpretazione di quelle mutevoli variabili che interagiscono, annualmente, sul risultato finale. È un tesoro


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che mi commuove e che voglio tutelare da qualsiasi speculazione. Ma il punto critico sul quale stiamo disquisendo non è ciò che penso io, ma l’eventualità che, in questo terzo millennio, i valori sui quali si è basata la costruzione del terroir siano cancellati, espulsi e centrifugati al di fuori dalla coscienza sociale che per millenni ha caratterizzato la buona viticoltura. Tutto rischia di diventare virtuale ed incontrollabile e anche quell’obbedienza alla terra che mi rende toscano pur non essendolo - potrebbe non avere più quel valore con cui mi sentivo interprete del sistema agricolo di questa sublime regione, ma un semplice stereotipo da raccontare a chi non ha mai saputo cosa significhi vivere da vignaiolo, come ancora oggi faccio io cocciutamente.


SATTA MICHELE

cavaliere igt toscana rosso Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Bolgheri, nel comune di Castagneto Carducci, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 14 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di medio impasto di origine sedimentaria ad un’altitudine di 60 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Potatura ad archetto capovolto Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica (solo con l’utilizzo di lieviti naturali) che si protrae per circa 10-15 giorni in botti di legno aperte da 30 Hl, ad una temperatura compresa tra i 28 e i 35°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che, a seconda delle annate, dura per altri 7 giorni; nei primi giorni vengono effettuate frequenti follature, poi délestages e rimontaggi giornalieri periodici. Dopo la svinatura, il vino è posto per l’80% in barriques di rovere francese di secondo e terzo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi; durante questo periodo si effettuano almeno 2 travasi. Terminata la maturazione, e dopo 4-5 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 36 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10-13.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Bel colore rosso rubino intenso, il vino sprigiona profumi ricchi e complessi che spaziano dalla frutta rossa matura alle spezie, dalle erbe aromatiche al caffè, per finire con delicate nuances balsamiche. All’esame gustativo risulta ben strutturato, con tannini eleganti e morbidi; decisamente lungo e persistente, chiude con piacevoli percezioni di tabacco e cuoio. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990, 1997, 1998, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto “Vigna al Cavaliere”, raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà di Michele Satta dal 1987, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 28 vitati e 2 occupati da oliveto, casa e cantina. Svolge le funzioni di agronomo lo stesso Michele Satta. Collabora in azienda l’enologo Attilio Pagli.

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LA volontà di inseguire i sogni e le passioni Ci sono domande senza risposta, e non possono averla per il semplice fatto che interessano la sfera personale, quella più recondita di ognuno di noi, nella quale interagiscono le passioni, l’amore, la ricerca delle proprie gratificazioni e la stessa sublimazione del concetto del proprio essere e del suo divenire.

Certe volte mi domando cos’è che spinge l’uomo ad avventurarsi per strade sconosciute, impegnandosi e logorandosi per percorrerle tutte fino in fondo, senza conoscere, a priori, dove esse lo condurranno; un cammino molte volte lungo, faticoso, avviato per il semplice piacere di farlo o con il solo intento di costruire un qualcosa di diverso da ciò che già gli appartiene. È la stessa domanda che mi pongo quando mi chiedo il motivo per il quale mi sia messo a scrivere e lo abbia voluto fare in questo modo e nel settore vitivinicolo. È una domanda alla quale, dopo anni, ancora non so dare una risposta; allo stesso modo non credo sia possibile rispondere cosa abbia spinto un professore come Massimo d’Alessandro, docente di Architettura all’Università La Sapienza di Roma, a spendere gran parte del suo tempo, al di fuori dell’insegnamento, nel mondo del vino, ideando e realizzando, a partire dalla metà degli anni ’80, un’azienda vitivinicola impostata tutta intorno ad un vitigno come il Syrah, in una terra sulla quale, fino al suo arrivo, si producevano solo grano, girasoli e vini da taglio da uve Sangiovese o Trebbiano. Ho provato a domandarglielo nel nostro ultimo incontro, come ho fatto, del resto, anche tutte le altre volte in cui ci siamo trovati davanti ai suoi vini, che scopro ogni volta sempre più complessi. Non ho mai, però, ricevuto una risposta esaustiva, se non quella che riesco a estrapolare dal suo racconto, fra le righe del quale percepisco la volontà di inseguire i sogni e le passioni con cui quella fervida mente creativa alimenta progetti capaci di andare oltre le proprie conoscenze e scoprire cosa vi sia al di là delle opportunità offerte dalla vita, misurandosi con se stesso e con ciò che lo circonda, contribuendo a cambiare il corso stesso della storia vitivinicola di un’intera area, come quella di Cortona. Uno sforzo notevole, nel quale ha investito gran parte del suo patrimonio e tutte le sue risorse intellettuali, andando dritto, perdendo per strada anche i fratelli che l’avevano affiancato in questo suo viaggio, i quali, stanchi di camminargli al fianco, l’hanno lasciato solo a proseguire verso il suo obiettivo. Dopo venticinque anni di duro lavoro, oggi lo sento orgoglioso di aver contribuito in modo diretto all’innalzamento del livello economico della viticoltura di questo territorio, fondando su di esso una nuova cultura e un nuovo sapere enologico: quello del Syrah. Un patrimonio di conoscenze venutosi a costituire in anni di sperimentazioni condotte

dal professor Attilio Scienza e dal suo gruppo dell’Università di Milano in varie direzioni, fra cui la ricerca di quale fosse il vitigno che, meglio di altri, si poteva esprimere a pieno in questo territorio che, per caratteristiche pedoclimatiche e morfologiche, è diverso da qualsiasi altro presente in Toscana, essendo caratterizzato sia da una forte e profonda presenza di strati di argilla nel sottosuolo, sia da scarsissime precipitazioni, rendendo, di fatto, impossibile applicare l’equazione Toscana = Sangiovese. Studi e ricerche hanno fatto sì che il Syrah risultasse essere il vitigno più adatto alla terra cortonese, convincendo d’Alessandro a dar corso a quel quanto mai bizzarro progetto, non solo per il territorio, ma per l’intera regione, piantando, dal 1993 al 2002, ben 40 ettari di Syrah, con una densità altissima di 8000 piante per ettaro, costringendolo non solo ad acquistare le prime macchine scavallatrici che si vedevano lavorare fra le vigne, ma anche ad imparare a gestire gli aspetti vegetativi e fruttiferi di quei fittissimi vigneti senza avere nessun punto di riferimento, avviando anche in questo campo un lunghissimo lavoro di studi e indagini ancora ben al di là dall’essersi concluso. Senza fretta, certo del fatto che per raggiungere i risultati prefissati non gli sarà sufficiente l’intera vita che gli è stato concesso di vivere, si adopera, ogni giorno, per porre un altro piccolo e nuovo tassello a quel puzzle che sta contribuendo a costruire con il suo Syrah, sul territorio dove altri provvederanno ad innalzare l’edificio enologico di questa zona nella quale hanno creduto molti altri viticoltori, come Antinori e Ricasoli, tanto da investire e ampliare la superficie vitata complessiva di questo vitigno che oggi conta in zona circa 270 ettari, indubbiamente la più grande concentrazione presente in Italia. Osservando i suoi vigneti e trovandoli bellissimi, sono certo che lo stanno ripagando e si avviano a restituirgli, in termini di eccellenza, tutte le cure e le attenzioni loro riservate. Per 20 anni sono stati la sua preoccupazione quotidiana; gli hanno però permesso di costruire questa realtà vitivinicola, connotata dalla ricerca della qualità, dell’etica, della bellezza, con la sicurezza che ogni segnale avviato potesse contribuire a valorizzare questo territorio che si sta sempre più identificando con il vitigno a cui egli ha dedicato tutta la sua vita, percorrendola con gradualità, generosità, sistematicità e creatività, fedele soltanto alla sua esagerata passione di fare vino a Cortona.


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bellissimi

Osservando i suoi e trovandoli , sono certo che lo stanno ripagando e si avviano a restituirgli, in termini di eccellenza, tutte le cure e le attenzioni loro riservate.


TENIMENTI D’ALESSANDRO

cortona doc syrah migliara Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Syrah provenienti dal vigneto Migliara, situato in località Manzano, nel comune di Cortona, le cui viti hanno un’età di 6 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine medio impasto argilloso, ad un’altitudine di circa 300 metri s.l.m., con esposizioni a ovest e nord-ovest. Uve impiegate: Syrah 96%, Viognier 4% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 7.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini tronco conici di legno, si protrae per circa 12 giorni ad una temperatura compresa tra i 25 e i 27°C; durante questa fase vengono fatte follature e délestages, e a seconda dell’annata, la macerazione delle bucce continua pr altri 6-8 giorni. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques per 1/3 nuove, 1/3 di 2° passaggio e 1/3 di 3° passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica, durante la quale si effettuano bâtonnages periodici per riportare in sospensione la feccia. Terminata la malolattica, i vini vengono travasati e riposti in barriques da 2,25 Hl, tenendo sempre separati i lotti di vinificazione; qui rimangono per circa 20 mesi e durante questo periodo avvengono 3 travasi circa, secondo necessità. Terminata la maturazione e dopo 8 mesi di decantazione in vasca di cemento, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6.500 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino quasi impenetrabile con una punta purpurea, il vino si presenta all’esame olfattivo con note piene e ricche di liquirizia, tamarindo, frutta candita, frutti rossi e neri maturi in confettura, percezioni di spezie (cannella, cardamomo, senape in grani) e un pot-pourri di fiori appassiti. In bocca risulta caldo, morbido, equilibrato, con una vena sapida importante e una solida fibra tannica che, sorretta da una bella sapidità, rende il vino piacevole ed elegante; lungo e persistente, chiude con un finale dai ricordi erbacei. Prima annata: 2006 Le migliori annate: 2006 Note: Il vino, che prende il nome dall’omonimo vigneto, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà di Massimo d’Alessandro e Giuseppe Calabresi, l’azienda agricola si estende su una superficie di 104 Ha, di cui 50 vitati. Da circa 2 anni, per tutti gli aspetti agronomici ed enologici, collaborano con l’azienda Christine Vernay e Luca Currado Vietti.

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Ludovica Fratini


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un connubio perfetto fra territorio e vigneto Entrando dal cancello che immette nella Tenuta Argentiera, situata lungo la vecchia Aurelia, poco dopo il paese di Donoratico, trovo ad attendermi una fila di pini marittimi che fiancheggiano la strada verso la cantina.

Alberi dalle chiome larghe e ben curate da chi conosce bene il valore di queste piante, che incarnano l’immagine stessa di questa Maremma; le loro fronde, poste come un cappello sopra gli alti tronchi che svettano verso il cielo, trafitte dal sole ormai alto, creano uno spettacolo unico e un effetto di chiaroscuro da lasciare senza fiato. Quale meraviglia e sublime esibizione della sensibilità umana! La stessa che ha reso magico un po’ tutto il paesaggio toscano che continua a stupirmi e mi conferma di come in questa terra vi sia, più che da ogni altra parte, chi ha saputo dialogare e porsi in armonia con la natura circostante. Lentamente mi inoltro, provando a contare quanti siano quei pini, ma perdo il conto dopo essere arrivato ad oltre cento, distratto dai vigneti di questa proprietà che rappresenta, sicuramente, uno dei progetti vitivinicoli più interessanti nati nella zona negli ultimi dieci anni. Man mano che la strada sale, si apre sopra la chioma degli alberi un altro fantastico paesaggio che spazia dai filari di viti sottostanti fin giù al mare, disegnando la costa fino a Baratti e Piombino e intorno all’Elba e a tutte le altre isole che compongono l’Arcipelago Toscano, fino ad arrivare, sullo sfondo, a delineare la sagome delle montagne della Corsica. Ma non è certo per il paesaggio - meritevole comunque di un viaggio - che sono venuto all’Argentiera, ma per conoscere la filosofia produttiva di questa nuova e stimolante realtà enologica, avendo, tra l’altro, già fissato un incontro con il direttore, Federico Zileri, e Ludovica Fratini, figlia di Corrado Fratini, proprietario, insieme al fratello Marcello, di questa Tenuta, acquisita nel 1999, che copre una superficie complessiva di 80 ettari, di cui circa 60 vitati, messi a dimora fra il 2000 e il 2002. Sono anni che conosco Federico, agronomo ed enologo aziendale, e so bene quanto egli sia addentro alla storia e all’evoluzione di quest’area e quanto merito abbia nella valorizzazione di questa tenuta, adoperandosi per inserirla ed integrarla, da protagonista, in quella nutrita schiera di aziende, più o meno famose e importanti, che compongono il variegato mosaico di questo splendido territorio viticolo. Aziende che rappresentano, per lui, delle splendide compagne di viaggio, alle quali si deve tanto più rispetto quanto più si comprendono gli sforzi e i sacrifici personali che ogni singolo proprietario ha messo in atto per preservare e tutelare questo ecosistema unico, impedendo speculazioni o modifiche che ne potessero alterare le meravigliose caratteristiche naturali. Condivido con Federico

la necessità di riconoscere un plauso a quanti hanno avuto la lungimiranza di credere nella vocazione enologica di questo terroir, movente, del resto, fondamentale anche per il padre di Ludovica, che - come lei stessa mi racconta - conosceva bene le potenzialità di queste terre e poter acquistare Argentiera fu il coronamento del sogno di una vita, essendo stato da sempre innamorato di questa tenuta, fin da quando veniva su queste colline con il fratello e gli amici per delle indimenticabili cacciate al cinghiale. La osservo mentre mi racconta del suo recente coinvolgimento, avvenuto quando ha preferito alla routine delle solite estati “mondane”, la pace e la serenità di questo luogo, decidendo di sperimentarsi, come donna e imprenditrice, nel mondo del vino che tanta passione stimolava in seno alla famiglia, rimanendone anch’essa stregata, al punto di abbandonare qualsiasi altra ipotesi di lavoro e opportunità che la laurea in Giurisprudenza le avrebbe potuto offrire, per dedicarsi completamente alla Tenuta Argentiera. Come darle torto? Basta affacciarsi dal terrazzo della cantina e guardare questo piccolo altopiano, posto a 200 metri sul livello del mare, per comprendere come non sia stato un grande sacrificio rimanere ammaliati da questo luogo, in cui si crea un connubio perfetto fra territorio e vigneto, tanto stretto e forte da caratterizzare e differenziare ogni singola produzione enologica che, in una zona così piccola, assume il valore di un patrimonio ampelografico inestimabile. Terreni che hanno prerogative uniche e con il tempo contribuiscono a dare sempre più valore alla produzione viticola, portando nei frutti raccolti quell’eleganza e quella complessità che si riscontrano poi nei vini prodotti. Per chi, come Federico, ama il lavoro di vignaiolo, questi sono terreni di cui rimane difficile non innamorarsi. Egli ha avuto il grande merito di apprendere la saggezza pratica che viene dall’esperienza, acquisita e messa a disposizione di quest’azienda, proiettata, come credo, verso un grande futuro. Ridiscendo lungo quel filare di pini portandomi via la quieta e serena considerazione che vi è qualcun’altro che, oltre a produrre vini, si adopererà per valorizzare e proteggere questa meraviglioso territorio che oggi sembra essersi ancor più unificato, diventando un tutt’uno, con le proprietà di Incisa della Rocchetta a Nord, la Tenuta Guado al Tasso di Antinori al centro e l’Argentiera a sud, costruendo un’identità specifica tanto particolare difficilmente riscontrabile in qualsiasi altra parte del mondo.


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Man mano che la strada sale, si apre sopra la chioma degli alberi un altro fantastico paesaggio che spazia dai ďŹ lari di viti sottostanti ďŹ n giĂš al mare...


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BOLGHERI SUPERIORE DOC ARGENTIERA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Merlot e Cabernet Franc provenienti dal vigneto Argentiera, di proprietà dell’azienda, posto in località Pianali, nel comune di Castagneto Carducci, le cui viti hanno un’età di 10-11 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine calcarea, argilloso-limosi, ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 50%, Merlot 40%, Cabernet Franc 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 7.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che inizia di solito a metà settembre per il Merlot e alla fine dello stesso mese per il Cabernet Franc e il Cabernet Sauvignon, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e le varietà vengono vinificate separatamente. La fase della fermentazione alcolica si protrae in acciaio per circa 25-30 giorni ad una temperatura controllata non superiore ai 28-30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce con frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è trasferito in barriques di rovere francese da 225 lt (Allier e Tronçais) dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 14 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi secondo necessità. Terminata la maturazione, dopo l’assemblaggio delle partite e 2 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 18 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 60.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino, denso e quasi impenetrabile, il vino si propone al naso intenso e profondo, con un bouquet di frutti maturi come more prugne e marasche che danno avvio ad un percorso olfattivo di spezie che dalla liquirizia arrivano al caffè passando per il tamarindo e il chinotto; in chiusura offre delicate percezioni floreali. In bocca, ricco e avvolgente, passa da iniziali note calde, rotonde ed esuberanti di frutta in confettura ad una sempre maggiore eleganza, con una fibra tannica molto morbida e piacevole e un’acidità non eccessiva e ben equilibrata; nel lungo e persistente finale riporta alla mente accenni minerali. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2004, 2006 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Corrado e Marcello Fratini dal 1999, l’azienda agricola si estende su una superficie di 80 Ha, di cui 60 vitati e 20 a seminativi e bosco. Collabora in azienda come agronomo ed enologo Federico Zileri, oltre a Stéphane Derenoncourt come consulente tecnico.

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Eugenio, Alessia Fontana


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ENTUSIASMO E COMPETENZA PER COSTRUIRE UN POSITIVO FUTURO Sono in pochi a conoscere i vini di Montecarlo di Lucca e ancor meno quelli che si ricordano di quando, negli anni ‘30, su queste terre si produceva uno dei migliori vini bianchi d’Italia, tanto buono da essere paragonato, per fama e importanza, allo Chablis francese.

Una notorietà che il tempo, inesorabilmente, ha cancellato e che difficilmente le sue muse riusciranno a far risorgere dall’oblìo, anche se è bene rimanere fiduciosi, soprattutto dopo che ho avuto la possibilità di aggirarmi su queste colline, visitando diverse cantine e notando come in esse vi siano piacevoli segnali di riscossa e un fervore enologico che fa ben sperare per il futuro. Un’animazione che ha coinvolto diversi produttori, uno dei quali mi ha particolarmente colpito. Un po’ per interesse, un po’ per intuito, ma soprattutto per merito della grande passione, si sta adoperando, più di altri, per riscoprire i segni di quel passato vitivinicolo a cui sente di appartenere, rivalutando proprio quei vitigni autoctoni a bacca bianca che tanto lustro portarono a questo territorio lucchese. Un obiettivo importante quello che Eugenio Fontana e sua sorella Alessia si sono prefissati; come lo sono i progetti aziendali a cui hanno dato corso in questi anni e con i quali si prodigano per far conoscere il loro lavoro, ponendosi il traguardo di diventare, nei prossimi anni, una delle più importanti aziende toscane di vini bianchi. Una precisa e ben definitiva strategia commerciale, alla quale hanno abbinato altre numerose iniziative con l’intento di annullare, prima possibile, l’handicap con cui sono stati costretti, fino ad oggi, a gareggiare in questo mondo del vino, trovandosi ad operare in un territorio che, purtroppo per loro, è rimasto statico per anni rispetto al movimento innovativo che ha sconvolto, modificato e modellato quasi ogni area viticola toscana. Mi piacciono questi due giovani ragazzi, perché con piglio e determinazione non si sono minimamente spaventati, né davanti alla crisi, né davanti alla sfida che li attende; anzi, ho la sensazione che, puntando sui valori trasmessi loro dalla famiglia, su quella tradizione imprenditoriale forgiatasi in anni di lavoro nel settore oleario e sulle loro competenze formative di altissimo livello, riusciranno non solo nel loro intento, ma anche a fare cose molto interessanti, avendo dalla loro parte, quella giusta e sapiente tradizione contadina trasmessa dalle precedenti generazioni. Ascoltandoli, percepisco che il fatto di aver vissuto a stretto contatto con il mondo agricolo li ha forgiati e spinti ad accettare questa nuova sfida iniziata nel luglio 2008, d’accordo con il padre e con tutta la famiglia. Proprio dal padre Dino hanno cercato di trarre spunti importanti e preziosi per affrontare

questa nuova avventura in un mondo nuovo e difficile come quello del vino. Nonostante le ovvie discussioni che scaturiscono da mentalità e da generazioni diverse, la sua esperienza di una vita intera dedicata al lavoro è stata per loro fondamentale e la sua presenza in azienda li aiuterà a crescere e ad imparare un’importante lezione che potrà essere trasmessa alla futura generazione, nella continuità di quel circolo virtuoso di trasferimento del sapere tra padri e figli. La Tenuta del Buonamico consta di trentotto ettari, di cui ventiquattro dedicati a vigneti specializzati, tutti da valorizzare e sui quali avviare un lavoro attento, scrupoloso e innovativo, che ha interessato, all’interno dell’azienda l’analisi e il miglioramento degli standard qualitativi della filiera produttiva e all’esterno una migliore visibilità da parte del mercato; infatti, seguendo la loro filosofia, l’immagine aziendale doveva essere percepita in modo diverso, più dinamico e professionale, sul territorio circostante, partendo proprio da quella stessa Lucca in cui vivono e alla quale sono legati, tanto da non aver mai pensato, per un solo secondo, di poter avviare quest’esperienza enologica in un altro luogo della Toscana, anche se più noto e blasonato, ma sicuramente privo di quel legame che li unisce a quest’area. Una questione sentimentale, pratica e tecnica che indubbiamente li agevola nello svolgimento della loro attività, alla quale dedicano ogni momento della giornata, convinti come sono che solo attraverso un impegno costante e continuativo potranno aspirare a diventare, presto, un punto di riferimento viticolo per questa lucchesia, da dove poi, una volta consolidati sul territorio, partire per aggredire e farsi conoscere anche in altri e nuovi mercati. È per questo che hanno ideato una metodologia distributiva capillare che, per tutto l’anno, assiste ogni singolo loro cliente con consegne rapide e giornaliere. Grazie alla competenza e alla gestione moderna, Eugenio e Alessia si scoprono giorno dopo giorno sempre più vignaioli in questo luogo che ha la necessità di riscoprire l’identità vitivinicola perduta. Una frugale colazione di lavoro conclude il nostro incontro e, salutandoli, comprendo di portarmi via parte dell’entusiasmo che li anima e la consapevolezza di aver bussato alla porta di chi sta costruendo un positivo e roseo futuro, non nascondendo il piacere che avrò in seguito, di scoprirmi un buon profeta.


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Mi piacciono questi due giovani ragazzi, perché con piglio e determinazione non si sono minimamente spaventati, né davanti alla crisi, né davanti alla sfida

che li attende...


TENUTA DEL BUONAMICO

MONTECARLO DOC BIANCO Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Trebbiano, Pinot Bianco, Sauvignon, Semillon e Roussanne provenienti da vigneti dell’azienda Buonamico, situati in zona collinare nella località Cercatoia del comune di Montecarlo. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano in una zona collinare a grande vocazione viticola su terreni di medio impasto, ad un’altitudine compresa tra i 60 e gli 80 metri s.l.m., con esposizioni a est, ovest, sud, nord. Uve impiegate: Trebbiano 40%, Pinot Bianco 20%, Sauvignon 20%, Semillon 10%, Roussanne 10% Sistema di allevamento: Potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 5.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito nel mese di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve con conseguente macerazione carbonica in pressa per alcune ore ad una temperatura di circa 12°C. Dopo la pressatura, il mosto viene portato a 6°C per circa 12 ore per favorirne la pulizia statica. Il liquido viene messo poi a fermentare, tramite l’inoculo di lieviti selezionati, in acciaio inox alla temperatura controllata di 16°C. La fermentazione alcolica ha la durata di circa 20 giorni. Successivamente si effettua un travaso per separare la feccia grossolana e il vino svolge la fermentazione malolattica, durante la quale vengono effettuati periodici rimontaggi al fine di movimentare le fecce nobili per accrescerne struttura e longevità. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 2 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: circa 45.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di colore giallo paglierino con riflessi verdognoli, al naso il vino si offre intenso e fresco, proponendo note di frutta a pasta gialla e bianca che si aprono poi a percezioni floreali e a piacevoli nuances agrumate. In bocca ha un’entratura sapida, vivace e piacevolmente equilibrata, riuscendo ad armonizzare le note olfattive con quelle percepite al palato. Chiude con un piacevole retrogusto fruttato di buona lunghezza e persistenza. Prima annata: 1968 Le migliori annate: 2005, 2006, 2008 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso tra 1 e 2 anni. L’azienda: Di proprietà di Eugenio e Dino Fontana dal luglio 2008, l’azienda agricola si estende su una superficie di 40 Ha, di cui 22 vitati in produzione, 8 piantati nel 2008 e 2009, 3 occupati da oliveto e 7 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Stefano Dini e l’enologo Alberto Antonini.

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tenUta Dell’

Ornellaia Leonardo Raspini


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FARE VITICOLTURA NELLA SUA ACCEZIONE PIÙ VERA, QUELLA UNITA ALLA TERRA E ALLE SUE STAGIONI Ci sono aziende vitivinicole che riescono a unire perfettamente la loro immagine a quella del territorio cui appartengono.

Una di queste è sicuramente Tenuta Ornellaia che, insieme a poche altre, nell’immaginario dei numerosi appassionati di vino sa identificare e identificarsi con il territorio di Bolgheri. Dopo aver compreso quali fossero le sue reali potenzialità, Lodovico Antinori dette vita, fin dal 1981, ad un progetto ambizioso con il quale avviare in quest’azienda una produzione enologica d’eccellenza, dando, di fatto, non solo un contributo alla valorizzazione e alla qualificazione della vocazionalità di quest’area, ma anche l’inizio, insieme a Incisa della Rocchetta, Piero Antinori e alcuni altri e ancor più temerari pionieri di questa nuova “frontiera” enologica, alla storia viticola di questa terra. Una storia innovativa consolidata dagli attuali proprietari, i Marchesi de’ Frescobaldi, arricchitasi via via di altri grandi interpreti e che ho cercato di scoprire in questo mio viaggio, facendo tappa proprio in questa splendida cantina, all’ingresso della quale trovo, a differenza dell’ultima mia visita, quattro piccole e splendide fontane in ceramica, raffiguranti le stagioni, opera dello scultore Luigi Ontani, dalle quali rimango affascinato per bellezza e originalità. Di questa mia sorpresa rimane piacevolmente colpito il direttore, l’agronomo e amico Leonardo Raspini, il quale mi spiega come quelle opere d’arte non siano altro che l’inizio di un nuovo percorso con cui l’azienda, dopo aver espresso e consolidato le sue grandi potenzialità enologiche, sta ora puntando a una diversa e più complessa interpretazione della propria comunicazione, non più proiettata solo verso i mercati o all’esterno del nucleo aziendale, ma anche al suo interno. Arte intesa come cultura del saper fare e con la quale accogliere chi viene ospitato, per far comprendere meglio la perizia produttiva e cosa significhi a Ornellaia fare viticoltura, nella sua accezione più vera, quella unita alla terra e alle stagioni, per attuare la quale è necessaria una complessità di azioni che hanno costruito e guidato una crescente esperienza, che qui, avendo avuto successo, è divenuta tradizione. Se oggi quest’azienda è legata indissolubilmente a Bolgheri, ciò non è avvenuto per caso, ma grazie all’effetto di una grande operosità che ha reso, in ter-

mini di visibilità e di apprezzamento, famoso nel mondo questo territorio, tanto da invogliare un numero sempre maggiore di imprenditori ad investire su questa DOC che in pochi anni ha visto la superficie vitata passare dai 300 ettari iniziali agli attuali 1200, mentre il numero dei produttori è passato dai 12 del 2001, anno in cui Leonardo divenne direttore, ai 40 odierni. Un exploit eccezionale nel panorama nazionale, che inorgoglisce soprattutto per i risultati raggiunti da Ornellaia, rendendo positiva testimonianza della bontà delle scelte strategiche effettuate dalla proprietà in tempi non sospetti e preservate dal team che la dirige in questi anni, durante i quali, non è stata apportata nessuna modifica alla filosofia aziendale, da sempre orientata a creare un legame indissolubile fra i vitigni utilizzati e questo territorio, così da realizzare vini unici nel loro genere. Un cammino lento, di conoscenza, effettuato - come faccio notare - “nel giardino di casa”, sfrondando il pensiero da inutili orpelli per applicarsi e concentrarsi sulle potenzialità di questo terroir, seguendolo, ascoltandolo e assumendosi la responsabilità di capire di cosa esso avesse bisogno e, soprattutto, i doveri di chi volesse essere vignaiolo a Bolgheri. Assaggiando i vini di Ornellaia, ascoltando le parole di Leonardo, guardando il paesaggio, i vigneti e percependo il clima di questo ambiente, sembra quasi semplice produrre vini in una zona così vocata, perché, sebbene qui non sia difficile fare dei buoni vini, rimane complicato produrne altri in grado di dare emozioni, per realizzare i quali c’è bisogno di porre attenzione ai minimi dettagli, alle sfumature delle centinaia di procedure che interagiscono nella filiera produttiva, alla lettura delle suggestioni storiche che le hanno determinate - che qui a Bolgheri sono numerose - e alla definizione dei limiti oltre i quali non è bene andare per ottenere una grande qualità, ponendo sempre una decisa azione di tutela e rispetto verso l’ambiente. Non basta solo la passione: per ottenere questi risultati e far sì che ovunque nel mondo siano apprezzati i vini qui prodotti, c’è bisogno di grande sensibilità e capacità. E questo Leonardo lo sa bene.


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Assaggiando i vini di Ornellaia, ascoltando le parole di Leonardo, guardando il paesaggio, i vigneti e percependo il clima di questo ambiente, sembra quasi semplice produrre vini in una zona

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TENUTA DELL’ORNELLAIA

BOLGHERI DOC SUPERIORE ORNELLAIA Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc e Petit Verdot provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati sui pendii collinari di Bolgheri, nel comune di Castagneto Carducci, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti sono situati su terreni con caratteristiche morfologiche varie, derivanti da antiche sedimentazioni fluviali con intrusioni di origine vulcanica. La tessitura alterna zone più argillose ad altre più sabbiose con presenza di zone calcaree ricche di ciottoli; si trovano ad un’altitudine compresa tra gli 80 e i 150 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 60%, Merlot 25%, Cabernet Franc 12%, Petit Verdot 3% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 5.000-9.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia manuale, che avviene di solito a partire dalla seconda metà di settembre, si procede alla selezione e alla diraspatura delle uve raccolte. Dopo una pigiatura soffice, ogni varietà e parcella viene vinificata separatamente. La fermentazione alcolica, svolta in acciaio, si protrae per circa 7 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 20 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri e délestages. Dopo la svinatura, i vini sono posti in barriques di rovere francese, dove svolgono la fermentazione malolattica e sostano per una maturazione complessiva di 18 mesi in ambiente a temperatura controllata (dopo i primi 12 mesi di affinamento viene effettuato l’assemblaggio, poi il vino viene reintrodotto nelle barriques per ulteriori 6 mesi). Dopo una breve decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 150.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: All’esame visivo si presenta di un colore rosso rubino intenso con riflessi che tendono al granato; al naso propone note assai variegate e complesse per un bouquet che svaria da profumi di confettura di piccoli frutti neri di sottobosco a percezioni di erbe officinali come alloro e ginepro, da eleganti note di fiori appassiti a sfumature di china e idrocarburi. Bocca prepotente e opulenta, quasi imbarazzante per la sua esuberanza che affascina ed entusiasma, ponendo in equilibrio una fibra tannica di grande spessore con sapidità e acidità; lungo e persistente, chiude la degustazione con accenni di amarena e nuances di cacao. Prima annata: 1984 Le migliori annate: 1984, 1986, 1988, 1990, 1995, 1997, 1998, 1999, 2000, 2001, 2004, 2005, 2006 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 6-7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della Holding Tenute di Toscana (Gruppo Marchesi de’ Frescobaldi) dal 2005, l’azienda agricola si estende su una superficie di 192 Ha, di cui 98 vitati, 16 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Il direttore è l’agronomo Leonardo Raspini. Collaborano in azienda l’enologo Axel Heinz e i consulenti Michel Rolland e Andrea Paoletti.

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tenUta Delle

riPalte

Piermario Meletti Cavallari


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Una bella sfida che si rinnova ogni giorno Per un mio personale convincimento ho sempre ritenuto che il senso del “bello” sia sempre collegato a quello del “buono”, soprattutto nel mondo del vino, dove, di solito, alla bellezza di un luogo corrisponde anche l’eccellenza di un prodotto enologico.

Come ogni regola, anche questa prevederà sicuramente delle eccezioni, ma, almeno nel mio caso, è stata proprio l’indiscutibile bellezza di questo lembo di terra delle Ripalte, uno degli angoli più belli dell’Isola d’Elba, a farmi capitolare e rimettere in gioco nel mondo del vino, proprio quando credevo ormai di esserne uscito definitivamente, dopo aver venduto la mia precedente azienda a Bolgheri, che avevo cercato, finché mi era stato possibile, di gestire in modo familiare. Una conduzione che, ad un certo punto, era risultata inadatta rispetto all’evoluzione e alle nuove esigenze del settore vitivinicolo, il quale richiedeva un dinamismo e un impegno operativo sempre più esasperati, tanto da porsi in contrasto con la mia indole tranquilla di uomo di campagna e con l’artigianalità che mi aveva sempre contraddistinto, facendomi ritrovare, se avessi voluto proseguire secondo quei parametri richiesti, davanti alla scelta o di dover modificare l’impostazione imprenditoriale dell’azienda - dando una maggiore managerialità al mio operato - o di vendere la cantina. Felice dei trent’anni dedicati a quelle terre e ritenendomi soddisfatto di quanto realizzato, decisi, pur non escludendo un proseguimento d’interesse in ambito vitivinicolo, di prendermi un meritato periodo di riposo per dedicarmi a ciò che più amavo fare, come ad esempio andare in barca a vela, che in precedenza ero stato costretto a vendere, vista l’impossibilità di salirci a bordo se non un paio di volte all’anno. Non sapevo ancora che il mio destino aveva predisposto un’altra nuova avventura nel mondo del vino, né che quella mia pausa sabbatica sarebbe durata lo spazio di un amen. Fu una telefonata ad alterare i miei buoni propositi. Mi invitavano a visitare un’azienda elbana, di 420 ettari, la cui attività agricola era stata abbandonata da anni. Davanti allo spettacolo naturale che si aprì ai miei occhi e all’incredibile bellezza di questo paesaggio, il demone delle passioni, quello dei sogni e quello degli entusiasmi fecero comunella e strinsero un patto per ledere la mia re-

ticenza e accendere il mio animo, spingendomi ad accettare, a quasi sessant’anni, una nuova sfida, rigettando, nel fondo di quel mare davanti al quale mi trovavo, l’idea di una tranquilla e godereccia vecchiaia, passata magari a dar consigli o a degustare i vini di altri. Un’idea neanche lontana parente di quella che mi ero proposto e che di lì a poco mi avrebbe visto, di nuovo, a dover ricominciare tutto da capo e a impostare, da zero, una nuova azienda vitivinicola - con tutti gli annessi e connessi - andando a identificare nuove strategie produttive e un futuro tutto da costruire, nel quale tener presente la tradizione enologica di quest’isola e il valore di quell’Aleatico, al quale mi ero già appassionato producendolo per gioco anche nella mia vecchia azienda, grazie ad alcune centinaia di viti che avevo a disposizione. Così rinacquero i sogni, le emozioni e gli entusiasmi che ormai credevo di aver acquietato; fui spinto ad impiantare 12 ettari di vigneti, a costruire una nuova cantina, a confrontarmi con il mercato e a dar vigore e nuova energia all’impegno e a quella cocciuta determinazione con la quale, oltre trent’anni fa, avevo lasciato l’enoteca di Bergamo per trasferirmi in Maremma, a Bolgheri, per fare il vignaiolo. Una bella sfida che si rinnova ogni giorno e mi sento fortunato ad affrontarla in quest’azienda delle Ripalte, convinto come sono di aver fatto bene a dar retta al mio intùito che intravedeva come in questo luogo sarebbe stato possibile dare sostanza alla forma. Oggi ringrazio quei demoni per avermi convinto ad accettare quest’ennesima prova, persuadendomi di quali fossero le potenzialità di questo territorio isolano e del valore dei vini che qui si producono, i quali prendono linfa da queste terre ferrose, dai venti sempre presenti, dal clima siccitoso, dalla natura in cui nascono e dal profumo di questo mare di cui si inebriano; un mare dal quale non so stare lontano, anche se continuo ad avere poco tempo per godermelo e raramente vado in spiaggia e ancor meno in barca a vela.


Oggi ringrazio quei demoni per avermi convinto ad accettare quest ‘ennesima prova, persuadendomi di quali fossero le potenzialitĂ di questo territorio isolano e del valore dei vini che qui si producono...

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TENUTA DELLE RIPALTE

Aleatico dell’Elba DOC Alea Ludendo Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Aleatico provenienti dal vigneto Poggio Turco, di proprietà dell’azienda, situato in località Promontorio sul mare di Poggio Turco, nel comune di Capoliveri, le cui viti hanno un’età di 6 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine vulcanica, graniti metamorfici, ad un’altitudine di 170 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Aleatico 100% Sistema di allevamento: Spalliera a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 5.800 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla raccolta delle uve e al posizionamento delle stesse nel fruttaio per l’esposizione al sole durante le ore diurne. Questo processo di appassimento si protrae per 7-10 giorni, quindi si effettuano la diraspapigiatura delle uve e la contemporanea macerazione sulle bucce del pigiato ottenuto. Dopo 5 giorni si inocula il mosto con lieviti autoctoni e si dà avvio alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta tank di acciaio, dura diversi giorni a temperatura controllata e prosegue fino a quando non si arriva ad ottenere un residuo zuccherino di 150 g/l. Durante l’inverno si completano 2 travasi e l’estate successiva alla vendemmia il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 8-11.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino intenso impenetrabile con un’unghia quasi granato, al naso il vino propone un bouquet di frutta matura che spazia dalle pesche gialle alle susine nere, dalle ciliegie alle visciole, per continuare con piacevoli percezioni di albicocca secca e uva passa e concludere con sensazioni complesse di macchia mediterranea in cui nuances di mirto fanno da cornice a più profonde note speziate e di crema alla vaniglia. In bocca è sensuale, armonioso, di grande equilibrio, invitante, avvolgente e piacevole nella beva; sfuma anche in maniera un po’ minerale e con pronunciate nuances di cioccolato. Prima annata: 2005 Le migliori annate: 2005, 2006, 2007 Note: Il vino, che prende il nome dal latino alea (gioco dei dadi) e ludus (divertimento), in poche parole “tiro la sorte divertendomi”, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda: Di proprietà di Tenuta Ripalte S.p.A, l’azienda agricola si estende su una superficie di 420 Ha, di cui 12 vitati e il resto occupati da macchia mediterranea. Collaborano in azienda l’agronomo Luca Capuana e il consulente enologico Maurizio Castelli.

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tenUta Di

caPezzana

Vittorio, Filippo, Beatrice, Benedetta Contini Bonacossi


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Una continuità d’azione che dal passato trasmigra al futuro con altre e nuove generazioni Non finirò mai di ripetere che, per comprendere quale sia stata l’evoluzione del mondo del vino italiano nell’ultimo secolo, è necessario andare alla radice di quella memoria storica sulle basi della quale si è costruito il suo stesso divenire.

Radici racchiuse un po’ ovunque, anche se non facili da trovare, poiché nascoste in piccoli e remoti angoli d’Italia, dove è custodita la memoria orale del tempo che li ha attraversati e quella del territorio al quale appartengono. Sono angoli unici, magici, presenti qui in Toscana più numerosi che in qualsiasi altra parte e non conta se sono rocche, castelli, palazzi rinascimentali, ville settecentesche o semplici poderi: l’importante è che siano fonte inesauribile, per un narratore errante quale io sono, di quelle storie private che vado cercando e alle quali mi accosto con l’animo gentile e il cuore libero di chi ha voglia di ascoltarle. Certe volte basta oltrepassare un cancello, un portone o entrare in un giardino per comprendere quali e quante siano le cose che quei luoghi hanno da narrare e quanto grandi il fascino e l’energia in essi racchiusi. Sono luoghi con un’anima tanto forte da impregnare ogni cosa, dando spesso dignità e valore anche a chi lì vive. Uno di questi luoghi è indubbiamente Capezzana, una villa del tardo Rinascimento, nucleo centrale dell’omonima tenuta, che si estende su 670 ettari, di cui 106 vitati, sulle colline di Carmignano e di proprietà, dal 1920, della famiglia Contini Bonacossi. Una famiglia discendente da quel Conte Alessandro Contini Bonacossi, d’origine mantovana, che all’inizio del secolo scorso, rientrato in Italia dalla Spagna dove, fra le molteplici attività svolte, si era dedicato con grande successo all’antiquariato, divenne uno dei più importanti collezionisti di opere d’arte dell’epoca, creando una delle più grandi collezioni private di quadri, mobili e statue, il cui nucleo centrale costituì la donazione che i Contini Bonacossi fecero agli Uffizi. Mi arrampico lungo una strada stretta, lasciandomi alle spalle il traffico caotico di Prato e Poggio a Caiano e, superando una miriade di villette a schiera che contraddistinguono quelle periferie, man mano che la via sale mi immergo in vigneti e oliveti divenuti ormai argini invalicabili e veri custodi di quella cultura contadina che ha disegnato queste colline, capaci di lanciare un monito a qualsiasi idea di speculazione edilizia su queste terre. Arrivato alla villa mi trovo a godere di un paesaggio splendido che alla sera diventa incantevole, quando il silenzio avvolge tutto e l’oscurità delle colline circostanti contrasta con la vallata sottostante che si illumina come un circo, costruendo una continuità d’insieme fra le città di Prato e Firenze. Guardando questo spettacolo comprendo quale sia stato il motivo per il quale i Contini Bonacossi abbiano scelto questo luogo e perché si siano accostati alla campagna proprio su queste colline, decidendo di produrre qui olio e vino. A ricevermi trovo Vittorio, Beatrice, Benedetta e Filippo Contini Bonacossi, i quattro figli del Conte Ugo, i quali contribuiscono, con

le loro spiccate personalità, a fornire un nuovo e più dinamico slancio a quello che loro padre aveva ben delineato, già dagli anni Sessanta, in tempi non sospetti, per questa tenuta. Ognuno di loro, secondo le peculiari caratteristiche, ha acquisito un compito ben preciso all’interno dell’azienda, per cui Vittorio e Filippo si occupano del settore agronomico, Benedetta del comparto enologico e della cantina, stando a stretto contatto con l’enologo Stefano Chioccioli, mentre Beatrice si occupa della parte commerciale e del marketing aziendale: tutti uniti nel puntare ad una maggiore valorizzazione del ruolo di Carmignano nel comparto vitivinicolo regionale. Un impegno continuativo, fermo e responsabile verso il territorio e le numerose persone che lavorano in azienda, fedele ai princìpi che in questi ultimi cinquant’anni hanno determinato il loro successo e la loro visibilità sui mercati, senza la distrazione delle mode che puntualmente, con cicli storici, inquinano il sistema. Essi vanno dritti per la loro strada, consapevoli che, per onestà ed etica, una direttrice produttiva non può mutare improvvisamente, ma deve essere perseguita e migliorata per molti decenni se si vogliono ottenere prestigiosi risultati. Un impegno vissuto come dovere anche nei confronti del patrimonio ampelografico e genetico che hanno ereditato, salvando dalla scomparsa, nell’area, vitigni come il Trebbiano, il Canaiolo Bianco e molti altri ancora, attivandosi, inoltre, nella salvaguardia e nella tutela di quelle risorse idriche indispensabili, adesso come nel prossimo futuro, per affrontare i cambiamenti climatici in atto. Da semplice narratore, annoto le storie di questi nuovi custodi della tradizione di Capezzana, convincendomi che il crescere in mezzo all’arte e alla cultura li ha resi sensibili alla vita e alle sue bellezze, in grado di apprezzare fino in fondo quanto sia stata grande la fortuna di poter vivere e crescere in un ambiente simile, attingendo a pieni mani dalla storia anche tramite il semplice gesto di stappare una di quelle bottiglie, conservate nella cantina, le quali, dal 1925 ad oggi, scandiscono le migliori vendemmie aziendali. Una continuità d’azione che dal passato trasmigra al futuro con altre e nuove generazioni, che già stanno entrando in azienda e sicuramente contribuiranno ad ampliare questa bella storia. Salutandoli mi rimetto in viaggio alla ricerca di un altro piccolo angolo d’Italia dove poter trovare le radici che vado cercando e da questo spicchio di Toscana mi porto via le immagini della storica cantina, degli olivi, delle viti, della ghiaia del letto dei fiumi, della corteccia del cerro, dei lucidi pavimenti di cotto delle vecchie stanze, delle persiane verdi di una vecchia casa colonica, mentre ho ancora nelle orecchie il vocìo dei contadini e in bocca il sapore di un buon bicchiere di vino.


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Certe volte basta oltrepassare un cancello, un portone o entrare in un giardino per comprendere quali e quante siano le cose che quei luoghi hanno da narrare e quanto grandi il fascino e l’energia in essi racchiusi


TENUTA DI CAPEZZANA

CARMIGNANO DOCG VILLA DI CAPEZZANA Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese e Cabernet Sauvignon provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati nel comune di Carmignano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 25 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni scistoargillosi ricchi di scheletro ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 80%, Cabernet Sauvignon 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla terza decade di settembre per il Sangiovese e continua fino a metà ottobre con il Cabernet Sauvignon, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 7 giorni ad una temperatura compresa tra i 24 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 18 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in tonneaux di legno francese da 350 lt, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale vengono effettuati settimanalmente bâtonnages per tutti i tonneaux. Alla fine di gennaio viene assemblata l’intera massa (il Sangiovese ed il Cabernet fino ad allora avevano fermentato separatamente) ed allontanato il sedimento feccioso, dopo di che il vino continua il suo affinamento per 12-14 mesi in tonneaux da 350 lt. Nella primavera successiva viene messo in bottiglia dove affina per circa 24 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 100.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino quasi impenetrabile, il vino offre all’esame olfattivo profumi fruttati di ribes, mora e marasca, percezioni floreali di rosa appassita e sentori speziati di tabacco dolce. In bocca è compatto, denso, strutturato, con fine e pregevole tessitura tannica. Suadente al palato, presenta buona sapidità e perfetta rispondenza con la fisionomia aromatica; nel lungo finale emergono ricordi di sottobosco e cioccolato. Prima annata: 1925 Le migliori annate: 1931, 1937, 1961, 1968, 1969, 1975, 1983, 1985, 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2005 Note: Il vino, che prende il nome dalla Villa costruita nel tardo Rinascimento e oggi fulcro dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Contini Bonacossi dal 1920, l’azienda agricola si estende su una superficie di 670 Ha, di cui 106 vitati, 140 occupati da oliveto e i restanti da seminativi e bosco. Collabora in azienda come agronomo ed enologo Stefano Chioccioli.

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Il vino è tutta una

questione di stile


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lillianO

Guido Ruspoli


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IL LUOGO DELL’ANIMA La mia vita si è divisa tra Roma, dove sono nato, e la Toscana, dove amministro questa Tenuta di Lilliano, antico complesso medioevale fortificato, un tempo proprietà del Marchese di Toscana, poi della Badia di Poggibonsi e, in seguito, dell’Ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze.

Un’azienda che durante la sua storia millenaria ha conosciuto assedi e distruzioni nel corso delle guerre fra Siena e Firenze, a causa della sua posizione di confine e della vicinanza ad importanti roccaforti come Staggia Senese, Castellina in Chianti e Monteriggioni. Una proprietà acquistata nel 1920 da mio nonno, Arturo Berlingieri, nella quale, mia madre, Eleonora Ruspoli Berlingieri, con incredibile lungimiranza, iniziò, nel 1958, a produrre e imbottigliare i nostri vini a denominazione Chianti Classico. Non avrei mai pensato, quando trascorrevo qui parte delle mie vacanze studentesche, che un giorno mi sarei impegnato così assiduamente e con tanta passione verso queste terre. Questo luogo era troppo ameno e silenzioso, distante anni luce dalla frenetica Roma e da quella turbolenta Facoltà di Architettura di Valle Giulia che frequentavo alla fine degli anni Sessanta, molto più stimolante e attiva, per un giovane quale ero allora, rispetto alla vita che si conduceva in questo borgo chiantigiano. Niente mi faceva supporre che, dopo essermi laureato e aver svolto la professione di architetto per 4 anni a Roma, aver concluso un’esperienza fantastica di 8 anni in Africa, lavorando nel campo delle costruzioni civili tra la Somalia, il Madagascar e il Sudafrica, un giorno, esaurito il giovanile peregrinare, Lilliano mi sarebbe diventato un luogo amico. Un’amicizia che mi spalancò nuove e inedite possibilità di vita, alle quali non rinunciai, scoprendo, con piacevole entusiasmo, come questo territorio mi fosse più vicino di quanto immaginassi, avendo avuto modo di scoprirlo in ogni suo aspetto, durante gli anni, in occasione delle numerose cacciate a cui partecipavo con tutta la famiglia. Così, rientrato dall’Africa, incominciai ad occuparmi delle proprietà di famiglia e, dopo la scomparsa di mia madre, seguendo quella filosofia che qui era stata sempre applicata, ho cercato di mantenere nei vini che produciamo e commercializziamo, l’innata tipicità di questo territorio. Un impegno continuo che mi condusse, inoltre, a prodigarmi come presidente della Federazione delle Unioni degli Agricoltori della Toscana, proprio negli anni in cui in molti incominciavano a scoprire quale fosse il valore della filiera produttiva corta, che stimolava nuove opportunità e uno sviluppo per

questo territorio fino a quel momento impensato, avviando di fatto un periodo splendido nella lunghissima storia enologica toscana. Godevo di questo aperto paesaggio chiantigiano e degli spazi visivi che esso offriva, difficili da contenere in un solo insieme, sui quali risultavano evidenti i segni di un’antico e costante lavoro umano rivelato dalle architetture dei borghi, dai muretti a secco che reggono gli oliveti, dalle opere di contenimento delle acque e da mille altri dettagli che ai miei occhi assumevano, sempre più, un immenso valore di testimonianza storica e culturale. L’esperienza acquisita in Africa mi aiutò molto e senza esitare mi assunsi tutta la responsabilità che Lilliano meritava, trovando la forza di impostare progetti e strategie per rinnovare e rivitalizzare questa tenuta, iniziando a migliorare la filiera produttiva e a ristrutturare i 14 casali della proprietà, inseriti in un ambiente unico tra vigneti, oliveti, campi di grano e boschi: testimonianze, ancora intatte, di una pregevole architettura rurale la cui conservazione, oltre che tutelare il patrimonio aziendale, ha contribuito a salvaguardare gli aspetti culturali, i valori e le tradizioni qui presenti come testimonianza di un passato che andava lentamente, ma inesorabilmente, modificandosi. Quel passato neanche tanto lontano, che componeva il mosaico delle mie memorie giovanili, sembrava fosse stato spazzato via dal rinnovamento; così l’unico piccolo bar del paese, quello del Niccolai, chiuse i battenti e le donne di Castellina in Chianti smisero, all’imbrunire, di sedersi fuori dall’uscio di casa per chiacchierare, raccontandosi i successi dei figlioli, ormai lontani, o le sciagure capitate ad altri. Una nuova economia scalzò, via via, quella cultura contadina, dando nuova linfa al paese, modificando i costumi e le abitudini, senza però intaccare troppo il territorio, che non si modificò eccessivamente, grazie all’azione degli imprenditori agricoli, coscienti del suo valore, e alla costituzione della Fondazione per la Tutela del Territorio, di cui fui uno dei promotori. Nacquero numerose nuove aziende vitivinicole e insieme ad esse quegli agriturismi che consentirono, a un turismo sempre più internazionale, di poter fruire delle bellezze paesaggistiche e storiche di queste terre chiantigiane. Una trasformazione alla


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quale credo di aver dato anch’io un piccolo contributo e, pur non condividendo alcune scelte effettuate su e per questo Chianti, sono contento di ciò che fin qui ho realizzato, al punto di pensare che Lilliano sia diventato il “luogo dell’anima”, quello che, sicuramente, ha dato maggior valore alla qualità della mia vita; il luogo dove ho potuto esprimere la mia idea, un po’ understatement, di lavorare in silenzio, mettendomi al servizio di questa terra e di quanti condividono con me i valori umani e storici di questo territorio, riconosciuti ovunque nel mondo.


TENUTA DI LILLIANO

cHianti classicO DOcg riserva zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con una piccola aggiunta di Merlot e Colorino) provenienti da vari vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Lilliano, nel comune di Castellina in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 20 anni. tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni calcarei con presenza di marne, composti da ghiaie, argille e sabbie, ad un’altitudine compresa tra i 260 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Merlot 5%, Colorino 5% sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 3.500-5.000 ceppi per ha tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in cemento vetrificato e acciaio a temperatura controllata, si protrae per circa 12 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 10-12 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in acciaio dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in botti di rovere di Allier da 28 e 34 hl in cui rimane per 18 mesi, durante i quali si effettuano travasi ogni mese. Terminata la maturazione, e dopo 2 mesi di decantazione in tank di acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie note organolettiche: Di colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con piacevoli note di frutti neri come mirtilli e more, che lasciano spazio a profumi di fieno, terra, muschio e percezioni di alloro e tabacco. L’impatto con la bocca è lineare, pulito, diretto, schietto, sorretto da una vitale struttura tannica, ben equilibrata con l’acidità che lo rende piacevole, lungo e persistente. Chiude la degustazione con delicate nuances di sottobosco e accenni di fiori appassiti. Prima annata: 1958 le migliori annate: 1985, 1990, 1995, 1997, 2000, 2004, 2006 note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4-5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso tra i 5 e i 15 anni. l’azienda: Di proprietà della famiglia Berlingieri Ruspoli dal 1920, l’azienda agricola si estende su una superficie di 460 ha, di cui 45 vitati, 40 occupati da oliveto e il resto da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Stefano Porcinai e l’enologo Lorenzo Landi.

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Moreno Petrini


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Vini rituali

che sanno raccontarE la loro storia Sono anni che conosco Moreno Petrini e ogni volta che l’incontro lo trovo piacevolmente cambiato; migliorato direi.

Penso che a farlo crescere sia stata la consapevolezza, acquisita nel tempo, del suo ruolo di vignaiolo; un ruolo diverso da quello che percepivo fino a qualche anno addietro, quando venivo a Valgiano, in questa villa settecentesca affacciata sulla Lucchesia, dove ci trovavamo, ogni tanto, per parlare di vino. Così, ieri come oggi, siamo seduti sul divano che divide la sua fantastica antica cucina dalla tavola da pranzo, a chiacchierare di quel suo mondo, di quel suo continuo divenire, delle sue speranze e dei suoi convincimenti, oggi più forti nei confronti proprio di quella terra che mi sembra essergli diventata amica. Spogliandosi di un’infinità di inutili e rigidi concetti accademici, ha deciso di proseguire con maggiore risolutezza in questo suo sogno di riuscire a diventare un vignaiolo “vero”, aprendo un nuovo e amabile dialogo con questo luogo e orientando, in maniera diversa, la sua avventura tra queste vigne. Lo trovo cambiato, non solo nel linguaggio, ma anche nello spirito, scoprendolo più sereno e cosciente di ciò che oggi egli vive; una consapevolezza che lo ha indotto non ad un cambiamento di rotta, ma piuttosto di “visione” di questo suo lavoro, con un’osservazione più ampia di ciò che lo circonda e con la quale cerca di plasmarsi, adattando il suo modo d’essere a una nuova e rinnovata percezione dei suoi compiti, dei suoi doveri e dei suoi limiti in questa campagna, costruendo un nuovo rapporto con la natura, al punto di decidere di divenirne un semplice e diretto interprete. Uno stato di leggerezza che gli ha permesso di affrontare scelte importanti nell’àmbito della conduzione agricola delle sue terre, sulle quali, pur praticando concettualmente un proprio panteismo, che lo aiuta a disporsi in armonia con ciò che lo circonda, applica la conoscenza e l’esperienza del proprio saper fare. Lo lascio parlare, sentendo quanto sia forte l’energia che mi trasmette, cosciente del suo rinnovato animo, capace di cucirgli addosso un nuovo vestito, con il quale si è posto in maniera naturocentrica verso queste sue terre, distaccandosi dalla cultura viticola del suo recente passato, in cui ad ogni azione doveva corrispondere una reazione, accorgendosi che alle res naturales - alle cose naturali - rispondono altre regole e che

la natura non crea una mela simile all’altra, né un seme uguale all’altro, né un uomo uguale all’altro. Se ogni frutto è differente, anche ogni singolo lavoro svolto fra quelle vigne - secondo Moreno - deve essere impostato in modo diverso. Per esaltare quella biodiversità che esiste fra vite e vite, ogni operazione deve seguire il flusso delle stagioni e quelle pratiche, con cui concima, inerbisce e svolge, con argilla, rame e zolfo, la lotta ai parassiti, devono rispettare processi temporali ben stabiliti. La sua è una manualità non filosofeggiante, ma pratica, concreta, finalizzata alla ricreazione dello strato fotico del terreno, dopodiché è possibile incominciare a comprendere, sempre meglio, quali siano i segnali che la natura manda, pur sapendo quanto in quelle sue indicazioni vi sia stranezza e imprevedibilità. Una manualità mediante la quale ha compreso la complessità delle cose, che ora comincia a vedere come si concretizzano, scoprendo, all’improvviso, quanta bellezza esse racchiudano. Nelle sue parole non c’è solo entusiasmo, ma una grande conoscenza che ha trasformato quell’antroposofia di cui ha parlato con l’amico australiano Alex Podolinski, in un modo semplice e diretto di gestire le sue vigne e di realizzare i suoi vini che non devono essere solo buoni e salubri, ma il frutto di un’applicazione meticolosa di ogni singola fase produttiva e del rigoroso rispetto della materia. Vini rituali, che sanno raccontarti la loro storia, quella della vendemmia e dei terreni dai quali hanno preso vigore; vini molto diversi da quelli prodotti dai vignaioli che con le loro azioni hanno voluto marchiarli, trasformandoli e adattandoli a proprio uso e consumo. Una visione che sgombra ogni elemento di protagonismo e riporta al centro del disquisire solo ed esclusivamente il vino. Un salto qualitativo estremamente interessante, venutosi a creare, sicuramente, attraverso i molteplici scambi culturali che Moreno ha avuto la fortuna di poter fare, acquisendo da altre esperienze e trovando alla fine il coraggio di fare un passo indietro, solo con la voglia di osservare. Proseguiamo a parlare per ore, fino a tarda notte e rimango affascinato ancora una volta di come il vino sia capace di arricchire l’animo di chi lo produce.


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...rimango affascinato ancora una volta di come il vino sia capace di arricchire l’animo di chi lo produce


TENUTA DI VALGIANO

COLLINE LUCCHESI DOC TENUTA DI VALGIANO Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese, Syrah e Merlot provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Valgiano, nel comune di Capannori, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 55 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine pleistocenica, ricchi di argille e calcare con depositi di silicio, ad un’altitudine compresa tra i 260 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Sangiovese 70%, Syrah 15%, Merlot 15% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e Guyot Densità di impianto: 5.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda metà di settembre, si procede alla selezione e alla diraspatura delle uve raccolte e dopo una pigiatura arcaica con i piedi si attende che parta naturalmente la fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in tini di legno troncoconici aperti, si protrae per circa 10 giorni ad una temperatura non controllata; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti follature e délestages giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in barriques di rovere francese dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane un minimo di 12 mesi; durante questo periodo si effettua quasi sempre 1 travaso. Terminata la maturazione e dopo 6 mesi di decantazione in cemento, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino con brillanti riflessi purpurei, il vino si propone al naso particolare, profondo e intenso, con note di frutta matura quasi esplosive che necessitano di tempo per essere apprezzate nella loro esuberanza. Il bouquet si arricchisce via via di percezioni speziate di pepe e tabacco, mentre il finale richiama alla mente una delicata sensazione di radice legnosa di liquirizia. In bocca è piacevole e dà un vago ricordo di vini d’altri tempi, adatti ad essere messi in tavola; tannini lunghi, setosi, complessi, piacevoli sono sorretti da una bella acidità; chi degusta è invitato nuovamente a riempire il bicchiere. Lungo e persistente, con ottimo equilibrio tra le note olfattive e quelle percepite al palato, chiude con nuances di piccoli frutti di bosco. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999, 2001, 2004, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Moreno Petrini dal 1993, l’azienda agricola si estende su una superficie di 70 Ha, di cui 25 vitati, 15 occupati da oliveto e il resto a seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Eva Volpi e l’enologo Francesco Saverio Petrilli.

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Fanti

Baldassarre Filippo Fanti


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UNA STIRPE CHE HA RADICI PROFONDE IN QUESTA TERRA Mi sembra siano trascorsi secoli da quando, ragazzino, vedevo transitare lungo queste strade, allora bianche, i carri trainati da buoi, i quali, tutti in fila indiana, venivano a frangere le olive al frantoio, qui, a Castelnuovo dell’Abate.

Quel loro lento procedere, il chiacchiericcio dei contadini e la sana e genuina spontaneità che nasceva nell’attesa del proprio turno di frangitura fanno ancora parte dei miei ricordi. Erano gli anni in cui ogni podere della zona era abitato e rappresentava un’azienda, viva e pulsante, intorno alla quale gravava un nucleo familiare che, in qualche modo, ha contribuito a costruire la storia di questo territorio. Anni della fanciullezza, anni belli, che volarono via come un batter di ciglia, giusto il tempo che intercorse fra quello in cui dismisi i pantaloni corti per indossare quelli lunghi, cosa che avvenne quando i miei genitori mi mandarono in collegio a Prato, dove presi la maturità scientifica, scoprendo, ogni qual volta tornavo a casa da quel mio forzato esilio, di come quel mondo, a me amico, andava piano piano scomparendo. Un fenomeno inarrestabile che colpì ogni aspetto di quella società contadina che animava il paese e le campagne in cui ero cresciuto; un evento che proseguì anche negli anni successivi, quando mi trovai a frequentare l’Università: al mio ritorno ritrovavo le strade vuote e le luci spente dei poderi abbandonati. L’industrializzazione degli anni Settanta colpì anche, e inevitabilmente, queste terre montalcinesi, così lontane da qualsiasi ciminiera. Sembrava che tutti, spogliatisi del loro passato, volessero indossare nuovi panni e nessuno avesse più voglia di fare il contadino e qualsiasi altra cosa fosse migliore del dover masticare terra e fatica. In questo modo si costruì un vuoto culturale che, come hanno dimostrato gli anni successivi, sarebbe stato difficile, se non impossibile, colmare. Potevo ritenermi fortunato, non dovendo io seguire quell’esodo, in quanto avevo una grande mole di cose da fare in seno all’azienda di famiglia, poiché, non solo si estendeva per quasi 300 ettari, ma comprendeva nella proprietà ben quattordici case coloniche, abitate da altrettante famiglie di mezzadri, ognuna delle quali rappresentava una piccola azienda da amministrare. Un fattoria creatasi attraverso il lavoro attento e scrupoloso di mio bisnonno Filippo, di nonno Baldassarre e di mio padre Filippo; uomini che non smisero un solo giorno della loro vita di lavorare tenacemente, stando dall’alba al tramonto al fianco degli operai. Altri tempi e altri uomini, appartenuti ad una razza ormai estinta, come del resto le fila di buoi, lungo la strada, o il vociare dei contadini. Erano uomini duri, tenaci, decisi, rispettosi del valore che attribuivano al lavoro altrui, ricchi di una grande e profondamente onesta

umanità: ogni stretta di mano era un contratto e ogni parola spesa un impegno vincolante più di uno scritto. Sono stati loro a trasmettermi il senso di questo lavoro, insegnandomi le ferree regole e gli inderogabili precetti basati sull’attenzione e sull’impegno da attribuire ad ogni azione, dando così continuità alla nostra tradizione vitivinicola familiare che mai - nemmeno con la popolarità e l’exploit del Brunello a partire dalla metà degli anni Ottanta - ha smarrito il suo profondo attaccamento alla terra, nella consapevolezza di quanto sia necessario viverla e toccarla per intuire il carattere di ogni annata e realizzare grandi vini. Anch’io, in quegli anni di grande trasformazione del mondo del vino, mi tramutai, cercando di intraprendere una strada più imprenditoriale, come i tempi richiedevano, non perdendo di vista i valori etici che devono esistere dentro e dietro ad una bottiglia di vino, non lasciandomi condizionare dai notevoli profitti economici che il Brunello regalava. Questo lavoro ha sempre rappresentato una lunga e positiva esperienza personale e un continuo viaggio alla ricerca della qualità, sia nel produrre grandi vini, sia nel valorizzare ciò che mi è stato lasciato; spero un domani facciano lo stesso le mie figlie Elisa e Elena con i loro figli. Saranno loro a vedere i frutti del mio lavoro, nella speranza che si appassionino a quest’azienda e superino, con la mia stessa determinazione, gli ostacoli che avranno davanti. Difficoltà sempre diverse, alle quali troveranno soluzioni diverse: l’importante, comunque, è che riescano a far esprimere, attraverso il tangibile risultato del loro lavoro, la schiettezza, l’onestà e la buona volontà che ha sempre caratterizzato tutti i Fanti. Solo se comprenderanno che siamo una stirpe che ha radici profonde in questa terra e accompagneranno il loro impegno con amore e profonda passione, anche fra cent’anni ci sarà ancora qualcuno della mia famiglia che racconterà le storie che ci sono dietro e dentro ogni bottiglia di Brunello di Montalcino.


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Questo lavoro ha sempre rappresentato una lunga e positiva esperienza personale e un continuo viaggio alla ricerca della qualitĂ ...


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BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dai vigneti Macchiarelle, Lunghe, Poderino, Crocina e Casabandi, di proprietà dell’azienda, situati a Castelnuovo dell’Abate, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 18 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni molto ricchi in scheletro (costituito da “galestro”), generalmente franchi con alcune zone leggermente argillose, ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 400 metri s.l.m., con varie esposizioni, la maggior parte a nord-sud. Uve impiegate: Sangiovese (localmente detto Brunello) 100% Sistema di allevamento: Cordone speronato monolaterale (bilaterale solo in alcuni vecchi vigneti) Densità di impianto: 2.200 ceppi per ettaro nei vecchi vigneti; 6.000 ceppi nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito tra la fine di settembre e la seconda metà di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte. Il mosto ottenuto è avviato alla vinificazione in acciaio; qui si svolge la fermentazione alcolica a temperatura controllata (massimo di 28-30°C), e la macerazione sulle bucce, fasi che hanno una durata complessiva di circa 25-30 giorni. Durante questo periodo vengono effettuati giornalmente dei rimontaggi e, quando necessario, dei délestages. Dopo la svinatura, il vino fiore resta in acciaio per circa 35-40 giorni; in questo periodo si effettuano, a giorni alterni, rimontaggi delle fecce fini e ha luogo la fermentazione malolattica, al termine della quale il vino viene spostato parte in botti da 30 Hl e parte in barriques di rovere francese da 225-300 lt di 1° e 2° passaggio, in cui sosta per 24 mesi. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12-18 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 70.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di colore rosso rubino con riflessi purpurei, il vino offre al naso profumi molto complessi, con note intense di frutti rossi maturi, visciole, prugne, more e un bouquet di fiori appassiti che si mescolano a percezioni speziate di chinotto e tamarindo. Un insieme olfattivo ampio che sfuma su nuances di licheni e alloro. L’ingresso in bocca è deciso, elegante, con una fibra tannica equilibrata e setosa che si amalgama a una bella sapidità. Lungo e persistente, chiude con note fruttate e riporta la mente a ricordi di macchia mediterranea e di un sottobosco profumato. Prima annata: 1980 Le migliori annate: 1995, 1997, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 6-7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso tra i 7 e i 20 anni. L’azienda: La tenuta, di proprietà di Baldassarre Filippo Fanti, appartiene alla famiglia Fanti dal 1800. L’azienda agricola si estende su una superficie di 300 Ha, di cui 50 vitati, 100 occupati da oliveto e 150 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Marco Pierucci e l’enologo Stefano Chioccioli.

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Nicolò Incisa della Rocchetta


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storia di un territorio e patrimonio culturale del vino italiano Arrivato a San Guido, circa a metà del viale di cipressi che tanto ispirò il Carducci, chiedo del Marchese Nicolò. È alle scuderie - mi rispondono. Invece di attendere che arrivi, dopo essermi fatto spiegare la direzione, decido di raggiungerlo.

Percorro una strada sterrata che dalla Bolgherese si inoltra nella campagna e quando ormai penso di essermi perso, intravedo la sua sagoma in lontananza, appoggiato ad una staccionata, intento ad osservare qualche puledro di belle speranze che si sta allenando lungo un piccolo ippodromo, immerso tra alberi e vigneti. È passato qualche anno dall’ultimo nostro incontro, ma non lo trovo cambiato, forse qualche ruga in più su quel suo faccione bonario; per il resto è rimasto uguale a come lo avevo lasciato, intento, come sempre, a dividersi fra le sue due grandi passioni: i cavalli e il vino, trovando il tempo di dedicarsi alla produzione di uno dei più grandi vini al mondo e a una scuderia, quella dell’Olgiata, fra le più importanti d’Italia. Non sono però venuto per parlare di cavalli, animali splendidi che rispetto tantissimo, ma preferisco osservare da lontano, provando sempre un po’ di soggezione davanti a così tanta eleganza e potenza. La stessa sensazione che provo tutte le volte anche nello stappare il Sassicaia di Nicolò, un vino fantastico e non solo perché rappresenta quell’innovazione che ormai più di quarant’anni fa dette avvio al rinascimento enologico, prima dei Supertuscans e poi di un intero territorio come quello di Bolgheri, ma perché è uno di quei vini che quando lo metti in tavola fai una fatica enorme a stapparne una sola bottiglia. È piacevole, fine, elegante e potente come questi cavalli che, trottando, mi passano a pochi metri di distanza. Lo definirei un vino fedele, che non ha seguìto la moda, ma ne ha costruita una sua, propria, personale: è rimasto sempre il Sassicaia, forse più o meno eccezionale a seconda delle annate, ma sempre ligio al cliché di una tradizione enologica. Una tradizione che in questa famiglia è iniziata con Leopoldo, magistrato camerale dell’Imperiale Regio Governo Lombardo-Veneto, ritiratosi nel 1840 nella casa avita degli Incisa, a Rocchetta Tanaro, per dedicarsi completamente alla sua passione per la viticoltura condivisa anche da un suo pronipote, Mario Incisa Della Rocchetta, il quale, quasi un secolo dopo, sperimentò alcune barbatelle bordolesi sia nella proprietà piemontese che a Bolgheri, nella Tenuta San Guido, di cui era divenuto proprietario in seguito al matrimonio, nel 1930, con Clarice della Gherardesca e dove sognava di creare un vino di razza. Taciturno, il Marchese Nicolò osserva il lavoro dei fantini con i suoi cavalli

e anch’io, dimenticandomi che dobbiamo ancora andare nella sua nuova cantina a degustare i vini, mi adeguo piacevolmente ad osservare quegli splendidi animali, mentre provo a farmi un breve promemoria di tutte le cose che ho da chiedere, scartandole tutte, man mano che mi vengono in mente. Del resto, cosa dovrei domandare a chi ha contribuito a costruire la storia del vino italiano? Poco o nulla mi ripeto. Vado così un po’ a ritroso, ripercorrendo le fasi evolutive del Sassicaia e di quando suo padre, il Marchese Mario, piantò la sua prima vigna di Cabernet su quel terreno posto in collina, scelto fra le migliaia di ettari di proprietà proprio per le sue caratteristiche morfologiche, essendo sassoso e difficile da lavorare come può esserlo una “sassicaia” - come egli amava definirlo - simile a quello di Graves, nella regione di Bordeaux, a cui guardava come esempio da seguire. Posso comprendere benissimo, ancora oggi, la trepidazione, la gioia e la soddisfazione nel rendersi conto che il suo potente rosso che aveva tenuto in parte chiuso in cantina, con gli anni migliorava così tanto. Una sorpresa che lo spinse a proseguire le sperimentazioni e a piantare, nel 1965, altri due vigneti di Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc, decidendo che Sassicaia sarebbe stato, da lì in avanti, il nome per il prodotto finale. Con il 1968 egli dette avvio all’imbottigliamento e alla commercializzazione del prodotto, che fu accolto fin da subito con grande entusiasmo dai mercati. È da qui che partiamo con la nostra chiacchierata, seduti al tavolo di uno dei tanti ristoranti di Bolgheri, dove stappiamo diverse annate di Sassicaia, fra le quali una rara bottiglia del 1981, che trovo fantastica. Mentre mi parla, osservo quelle bottiglie e mi concentro sul marchio del marchesato stampato sulle etichette che in questi quarant’anni non sono cambiate, a testimonianza di quanto, anche per Niccolò, sia sentita la tradizione di famiglia, da lui vissuta come un dovere da perseguire, custodire e tramandare, salvaguardando, cosa di non poco conto, il valore di questo territorio. Godranno le generazioni future - forse i suoi figli o i suoi nipoti - dell’impegno che lui ha saputo perseguire in modo corretto, preciso, scrupoloso, con la piena consapevolezza di dover gestire una storia umana che è poi diventata la storia di un territorio e patrimonio culturale del vino italiano.


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TENUTA SAN GUIDO

SASSICAIA BOLGHERI DOC SASSICAIA Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc provenienti dai vigneti dell’azienda, situati sui pendii collinari di Bolgheri, nella zona di produzione del Bolgheri DOC, identificata dal 1994 come sottozona Sassicaia. Le viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 44 anni. Tipologia dei terreni: I terreni su cui insistono i vigneti hanno caratteristiche morfologiche varie e composite con forte presenza di zone calcaree ricche di galestro e di sassi e parzialmente argillosi; si trovano ad un’altitudine compresa fra gli 80 e i 300 metri s.l.m., con esposizione a est / sud-est. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 85%, Cabernet Franc 15% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 3.500 ai 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica, che procede separatamente per i due vitigni e che si protrae per 4-6 giorni in acciaio ad una temperatura non superiore ai 30°C. Contemporaneamente si effettua la macerazione sulle bucce, coadiuvata da leggeri délestages e follature, che dura per altri 15 giorni a temperatura controllata. In seguito, i vini sono messi in barriques di rovere (per un 1/3 nuove), in cui svolgono la fermentazione malolattica. I vini rimangono in legno per un periodo di 24 mesi prima che sia effettuato l’assemblaggio delle partite. Terminata la maturazione e dopo una breve decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 180.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino intenso, quasi impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo con ampie note di frutti maturi come mirtilli, more e prugne e un bouquet dirompente che passa da un pot-pourri di fiori appassiti a percezioni speziate di tamarindo, bacche di ginepro ed eucalipto, per finire con accenni di foglie di tabacco essiccate. In bocca è corposo, caldo, morbido, assai piacevole, elegante ed equilibrato; la degustazione è sorretta da una sapidità ben presente e da una acidità che lo rendono lungo e persistente e adatto all’invecchiamento. Nuances di macchia mediterranea chiudono una beva di grande spessore. Prima annata: 1968 Le migliori annate: 1975, 1979, 1985, 1988, 1990, 1995, 1997, 1998, 2000, 2001, 2004, 2006 Note: La ragione del toponimo Sassicaia è probabilmente da ricercare nell’alta composizione sassosa del terreno. Il vino, che non è stato prodotto nelle annate 1969 e 1973, raggiunge la maturità dopo 6-7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà dei Marchesi Incisa della Rocchetta dal 1940, l’azienda agricola si estende su una superficie di 2500 Ha, di cui 70 vitati, 80 occupati da oliveto e il resto da bosco e campi coltivati a seminativi, foraggio e grano. Collaborano in azienda l’agronomo Alessandro Petri e l’enologo Giacomo Tachis.

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Miriam, Giulio Caporali


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IL VALORE DEI SOGNI Bevete sereni, voi che amate il vino. Non è necessario, per bere, avere sete! Carmina Burana, (xii-xiii secolo)

Girando per queste campagne e constatando come ovunque vengono a nascer nuovi vigneti e cantine, mi domando spesso cosa siano i sogni. Quei filari e quei cartelli che mi indirizzano verso altri filari e nuove cantine, forse non sono altro che la risposta alla mia domanda. Devono essere sogni complessi o semplici, o magari contorti quelli che spingono a diventar vignaiolo. Conosco tanti uomini e donne, ma, ascoltando i loro racconti, tutti mi hanno dato sempre l’idea che quei loro sogni scatenino un gran fervore; sono orgogliosi di possederli e realizzarli, pur essendo entrati di straforo, certe volte per vie strane, ad occhi aperti o dall’uscio morbido delle palpebre socchiuse nella notte, piano piano, senza far rumore, come ombre impercettibili che all’improvviso squarciano e illuminano le loro menti, facendoli trovare vogliosi di colorar la vita e profumarla di vino. Ma quale colore avrà il sogno di diventare vignaiolo? Se mi domandassero i colori dei miei sogni saprei bene quali indicare e non mi basterebbero quelli di un arcobaleno per descriverli. Quali sfumature avrà il sogno di Giulio Caporali? Aspetto di incontrarlo in centro a Montepulciano, nello splendido Caffè Poliziano, in parte di proprietà di sua moglie Marisa. Tranquillo, mi accomodo al tavolino di questo locale storico d’Italia, aperto nel 1868, dove anche Federico Fellini amò sostare. Mentre sorseggio un caffè e sfoglio il giornale, casualmente si pone sfacciato, di fronte ai miei occhi, forse non a caso, un articolo, nella rubrica della cultura del Corriere della Sera, che riporta un pensiero del filosofo Aristotele: il miglior interprete di sogni è colui che riesce meglio a decifrarli, in modo oggettivo, quasi che la psiche consegni a noi in stato di veglia una pergamena con scrittura cifrata, nella quale ogni segno viene tradotto in comprensibili quanto reali risposte. Sul finire del mio pacato leggere, alzo gli occhi e mi ritrovo davanti, in piedi, Giulio e sua figlia Miriam. Fin dalle prime battute, questo settantenne romagnolo, la cui famiglia è originaria di Castiglion del Lago sul Trasi-

meno, fa subito trapelare il suo carattere, schietto e diretto; vista la confidenza venutasi subito a creare, non posso esimermi dal domandargli se anche per lui diventar vignaiolo è stata la realizzazione di un sogno. Così, scopro che per lui è stato davvero un grande sogno, concretizzatosi in età avanzata, quasi alla soglia dei cinquant’anni, ma voluto cocciutamente e inseguito da sempre, tanto che quella visione speranzosa costruita nella sua mente l’avrebbe realizzata in qualsiasi zona viticola d’Italia, pur di avere la possibilità di fare vino. Un impeto appagato dalla casualità o dal fato benevolo che lo pose davanti alla vantaggiosa proposta di un affare che, con uno schiocco di frusta, non si è lasciato sfuggire, trasformando un’azienda ormai abbandonata, di proprietà di un venezuelano, in una moderna e dinamica cantina; me la illustra con una dovizia di particolari e di minuziosi dettagli che potrei anche fare a meno di andare a vederla, descrivendomi la struttura e l’ingresso alla proprietà che conta ben 92 cipressi a bordo strada tutti piantati dopo il suo arrivo. Sono fantastici i sogni, capaci di cose incredibili, anche di trasformare un impiegato delle ferrovie dello Stato in contadino, con una mutazione simile a quelle che avvengono nelle favole, quelle a lieto fine. A tutto ciò ha contribuito il fido Urano, il suo cantiniere, un uomo che Giulio mi descrive essere impastato con la terra e il vino e che ne ha sempre saputo più di qualsiasi enologo; a lui non si è mai vergognato di chiedere per cercar di essere capace di percorrere quella strada che lo avrebbe condotto a esser vignaiolo. Un sogno che ha contagiato poi sua figlia Miriam e sua moglie Marisa, la quale, pur seguendo questo caffè, non disdegna di condividere con il gruppo familiare le sorti della cantina; essi sono diventati, di fatto, partecipi di un territorio in cui credono, animati da coerenza e cercando insieme le radici dell’umanità che attraverso il vino fanno riscoprire quel contatto pulito e semplice con la natura, motivo del sogno con cui Giulio dialoga in ogni momento.


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...essi sono diventati, di fatto, partecipi di un territorio in cui credono, animati da coerenza e cercando insieme le radici dell’umanità che attraverso il vino fanno riscoprire quel contatto pulito e semplice con la natura...


TENUTA VALDIPIATTA

VINO NOBILE DI MONTEPULCIANO DOCG VIGNA D’ALFIERO Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione di una rigorosa selezione di uve Sangiovese provenienti dalla vigna omonima, di proprietà dell’azienda, situata in località Bossona, nel comune di Montepulciano. Tipologia dei terreni: Il vigneto, posizionato sulla parte più alta del poggio antistante il centro aziendale, si trova su terreni di origine pliocenica, ad un’altitudine di 350 metri s.l.m. Uve impiegate: Sangiovese (Prugnolo gentile) 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 2.300 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire da fine settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato ad una iniziale macerazione prefermentativa a freddo, a cui segue la fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in serbatoi d’acciaio termocondizionati, si protrae per circa 10-12 giorni ad una temperatura di circa 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altre 2-3 settimane, durante le quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino viene spostato in barriques di rovere di Allier da 225 lt di 1°, 2° e 3° passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 3-4 mesi. Terminata la maturazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 24 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 6.600 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un rosso profondo vivo, brillante, arricchito da riflessi purpurei, il vino propone uno spettro olfattivo complesso, articolato su più livelli, con note profonde di frutti rossi e neri maturi che si mescolano con la confettura di more e mirtilli, toccando delicate percezioni floreali e poi altre speziate dolci di tabacco e calde nuances di cioccolato bianco, cannella, foglie di tè e camomilla secca. In bocca ha un’entratura lineare, sapida, con una fibra tannica percettibile e ben armonizzata con la sapidità che allunga le percezioni gustative. Il persistente finale si completa con toni di liquirizia e frutti neri. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999, 2001, 2006 Note: Alfiero Carpini è stato il primo operaio dell’azienda. Quando Giulio Caporali acquistò la proprietà alla fine degli anni ‘80, Alfiero già lavorava le vigne di Valdipiatta da quasi 20 anni. Fu lui stesso ad impiantare questa vigna nel 1973, su una superficie di poco più 3 ettari. In etichetta, riprodotta a mano libera, una vecchia fotografia di Alfiero tra i filari vitati. Il figlio di Alfiero, Urano, cantiniere e responsabile dei vigneti della Tenuta, è oggi uno dei pilastri dell’azienda. Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 25 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Caporali dal 1989, l’azienda agricola si estende su una superficie di 40 Ha, di cui 34 vitati, 2 occupati da oliveto e 4 da bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Eros Trabalzini, l’enologo Mauro Monicchi e, come consulente esterno, Yves Glories, preside della facoltà di Enologia di Bordeaux.

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Aurora, Marcello Bidini


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RISPETTARE E CONSERVARE L’AMBIENTE Ho comprato quest’azienda, di quasi cinquecento ettari, con i miei fratelli Stefano e Pasquale Del Tongo, più di trentasei anni fa, nel gennaio del 1973, come riserva di caccia, con l’idea di mantenere attivo principalmente il settore faunistico venatorio e lasciando che delle colture promiscue e dei boschi se ne occupasse un fattore.

Pur essendo figlio di contadini, per anni non mi sono impegnato, con continuità e dedizione, verso le attività agricole, scoprendo, quando decisi di farlo, di ritrovarmi a contatto con un mondo complesso, articolato, difficile, ma quanto mai intrigante, nel quale ogni settore produttivo corrispondeva a delle microaziende che richiedevano strategie e politiche diverse. Era chiaro che se volevo dare un nuovo impulso all’azienda, che negli anni aveva subìto un graduale degrado, implementando le attività già esistenti, avrei dovuto tener presente tutto questo, soprattutto se desideravo ampliare l’allevamento ovino o avviare quello caseario ad esso collegato, sistemare gli oliveti o qualsiasi altra attività che ritenevo possibile praticare su terre così vocate, consapevole che ciò avrebbe comportato enormi difficoltà e un grande impegno. La cosa non mi spaventava. Avevo affrontato la vita con risoluta determinazione, avendo le capacità, la cultura e l’umiltà di non ritenermi mai sufficientemente preparato, né pago dei risultati ottenuti; una caratteristica e un’attitudine - sviluppate nella precedente esperienza lavorativa dove mi ero occupato principalmente di economia e marketing nell’industria mobiliera di famiglia - che mi avevano consentito di acquisire una visione più ampia delle singole problematiche. Anche il settore vitivinicolo non era certamente da meno degli altri, essendo, fra tutti, non solo il più affascinante, ma anche quello che richiedeva maggiore impegno e notevoli e rigorosi investimenti. Analizzando questo mercato, ebbi modo di comprendere l’esistenza di ben tre modelli culturali che regolano il comportamento e gli obiettivi di chi opera nel vino, ai quali, forse, avrei dovuto fare riferimento per costruirmi un abito che mi calzasse immediatamente. Tre modi di pensare molto contrastanti fra loro, con i quali l’imprenditore vitivinicolo agisce e promuove i suoi prodotti enologici. Atteggiamenti diversi da quelli in cui sono cresciuto e con i quali mi sono misurato nell’altra azienda per 30 anni. Nel settore dei mobili le cose sono molto diverse, più dirette, immediate, precise e si basano su uno schietto e quanto mai duro confronto fra la domanda e l’offerta. In questo del vino, invece, dove ho incominciato a muovere i primi passi intorno al 2000, intervengono molteplici altri fattori, alcuni dei quali imponderabili, che coinvolgono gli aspetti pedoclimatici di un territorio e le capacità di chi pratica l’attività vitivinicola. Un universo che certe volte è affrontato con la cultura del contadino-vignaiolo, che, ba-

sandosi sulla tradizione orale e sull’esperienza acquisita, costruisce la sua visibilità e il rapporto con i mercati, altre volte con la cultura del commerciante di vini, che si muove proponendo ciò che producono altri, andando alla ricerca del pieno soddisfacimento delle esigenze mutevoli dei mercati. Vi era poi un’altra cultura, quella dell’imprenditore che, avendo costruito la sua fortuna lontano dal vino, si accosta ad esso per divertimento, ritrovandosi spesso, coinvolto da una travolgente passione, a dialogare con un prodotto non omologabile o schematizzabile come altri. Guardandomi intorno e avendo sotto gli occhi degli esempi di ognuno di quei tre modi di interpretare il mondo del vino, avevo il profondo desiderio di non appartenere a nessuna delle tre “categorie”, né a chi si era convinto che con i soldi era possibile fare il vino, né a quelli che con due ettari di vigna etichettano milioni di bottiglie, né, tanto meno, potevo sentirmi un contadino. Pensai quindi di seguire una mia personale strada, che mi conducesse a concepire l’azienda come una vera fattoria, come una di quelle che esistevano tanti anni fa, dove poter costruire un’economia produttiva d’altissimo livello qualitativo: dal vino all’olio, dalle pecore ai formaggi, dal grano alle farine, ampliandola come un circuito virtuoso a mille altre opportunità, ancora tutte da esplorare. Un’idea antica, ma quanto mai moderna, che mi consentiva di avvicinarmi alla terra e acquisire un rapporto con il territorio e con le sue tradizioni, non tralasciando minimamente l’innovazione con la quale oggi opero, grazie all’aiuto di due ingegneri laureatisi al Politecnico di Torino che mi hanno aiutato a gestire il GIS, un programma mondiale di geografia territoriale, con il quale ho informatizzato e georeferenziato l’azienda, creando e suddividendo le colture secondo i terreni e le caratteristiche di ognuno di essi, direttamente dal mio computer. Nel vino, da alcuni anni, è stata scelta la strada dell’agricoltura biologica, le vigne vengono concimate con sovescio di favino, i trattamenti sono soltanto a base di rame e zolfo e abbiamo deciso di far fermentare i nostri vini in modo naturale, senza aggiunta di lieviti, cercando di instaurare un rapporto diretto con la natura, ed è per questo che mi adopero con tutte le forze per rispettare e conservare l’ambiente nel quale vivo e lavoro, dove ho riscoperto i valori profondi della ruralità, infondendomi un grande senso di libertà che mi appaga come nessun’altra cosa riesce a fare.


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TENUTA VITERETA

VIN SANTO DEL CHIANTI DOC Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Trebbiano Toscano provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Casa Rossa, nel comune di Laterina, le cui viti hanno un’età compresa tra i 7 e i 18 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di origine alluvionale, calcareo-marnosi, ad un’altitudine di 265 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Trebbiano Toscano 100% Sistema di allevamento: Doppio capovolto Densità di impianto: 2.700 ceppi per Ha Tecniche di produzione: La vendemmia è svolta di solito a partire dalla seconda decade di settembre, poi si procede all’appassimento naturale dei grappoli d’uva che vengono appesi a fili d’acciaio nella vecchia tabaccaia per 6-7 mesi. Durante questa fase l’uva viene attaccata dalla muffa nobile (Botrytis Cynerea) e ogni 15 giorni circa si effettua un’attenta selezione dell’uva per togliere via via quella deteriorata. Il momento della spremitura avviene di solito a fine marzo dell’anno successivo alla vendemmia, quando l’uva ha raggiunto la giusta gradazione zuccherina. Dopo una pigiatura estremamente soffice, il mosto ottenuto viene immesso in piccoli caratelli da 56 lt di legno di rovere che vengono accuratamente sigillati; la fermentazione e la maturazione dura almeno 6 anni. Poi il vino, senza filtrazione, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 2.000 bottiglie circa (da 0,375 ml) Note organolettiche: Di un bel colore ambrato intenso e brillante, il vino presenta all’esame olfattivo un ricco bouquet di profumi che vanno dall’uva appassita alla confettura di susine e alla pesca sciroppata, per passare poi a note di farina di castagne, nocciola e tabacco dolce fino ad accenni minerali. In bocca è denso, equilibrato ed elegante; nel lungo e avvolgente finale chiude con delicate percezioni fumé e nuances di frutta caramellata. Da meditazione. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2003 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 7-8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà delle famiglie Bidini e Del Tongo dal 1973, l’azienda agricola si estende su una superficie di 400 Ha, di cui 50 vitati, mentre il resto dei terreni sono occupati da 350 Ha di oliveto e seminativi, pascoli e bosco. Per il riordino delle vigne, l’azienda ha attivato una collaborazione con il Prof. Attilio Scienza dell’Università di Milano e i suoi collaboratori “preparatori d’uva”.

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Giovanni Folonari


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Una filosofia in equilibrio tra tradizione e modernità Sono l’unico della mia famiglia che non parla bresciano, ma quel biascicare toscano, vivo e schietto di chi è nato in queste terre fiorentine: una lingua tanto magra, diretta e veloce da aver perso per strada qualche consonante.

Una terra ospitale che è stata sempre nostra amica, fin da quando noi Folonari arrivammo in Toscana nel 1912, dopo aver comprato l’azienda Ruffino a quel tempo una delle più importanti cantine del Chianti - dando così il via a quella storia vitivinicola che, nell’ultimo secolo, ha caratterizzato la nostra famiglia ed è stata scandita dall’acquisto di proprietà quali le Tenute di Nozzole nel Chianti Classico e del Cabreo e poi di molte altre come quella dei Conti Spalletti, la Tenuta Campo al Mare a Bolgheri, la Tenuta La Fuga a Montalcino, la Tenuta TorCalvano a Gracciano di Montepulciano e la Tenuta Vigne a Porrona nella zona del Montecucco DOC, in provincia di Grosseto: tutte aziende situate nei territori ad alta vocazione vitivinicola della regione; acquisizioni avvenute dopo la divisione che c’è stata, nel 2000, fra mio padre e l’altro ramo familiare e la conseguente costituzione dell’impresa “Ambrogio e Giovanni Folonari Tenute”. Una grande esperienza enologica che ci ha aiutato a distinguere quali fossero le più idonee strategie progettuali per mantenere quel trend operativo in grado di attraversare indenne un secolo di storia e farci identificare, sempre, come viticoltori moderni, come la nostra cultura ci spingeva ad essere. Un processo evolutivo avviato cercando, innanzitutto, di adeguare continuamente le nostre produzioni vitivinicole alle nuove esigenze di un mercato che è molto cambiato in tutto questo tempo, essendo in continuo movimento e sempre più esigente. Un’attività in continuo divenire che ci ha spinto a muoverci sul terreno di una persistente e decisa riorganizzazione del lavoro di ricerca e verifica delle potenzialità di ogni singola realtà produttiva, alle quali abbinare la capacità di costruire, in ognuna di esse, dei terroirs unici, indispensabili per mantenere una forte competitività sui mercati, posizionandoci, come filosofia aziendale, in equilibrio tra coloro che ostinatamente rimangono attaccati alla tradizione e coloro che, invece, pur di costruire una loro visibilità, spingono il piede sull’acceleratore di una forzata sperimentazione piantando, pur di fare il vino in Toscana, le vigne ovunque. Un equilibrio mantenuto anche nel marketing e nei fatturati, che ci ha spinto a far scelte lungimiranti, comprendendo, con largo

anticipo, l’evoluzione dei tempi e dei gusti, arrivando così a vinificare vini sempre moderni, di carattere e carisma, che fossero l’espressione più compiuta e veritiera dei singoli territori in cui ci trovavamo ad operare e nello stesso tempo a produrre vini, scevri dal must dell’innovazione di produrre ad ogni costo; vini che hanno un’anima tradizionale, ma una chiave di lettura moderna. Un risultato reso possibile dalla nostra grandissima passione, affinata in decenni di attento e costante lavoro che ci ha consentito di acquisire un’ampia visione degli elementi peculiari del mondo del vino con il quale ci confrontiamo in modo propositivo. Una presa di coscienza alla quale ho contribuito, anche grazie ai miei numerosi viaggi nei territori enologici più vocati di tutto il mondo, durante i quali ho avuto la possibilità e la fortuna di vivere esperienze operative importanti, come quella avuta nei cinque anni trascorsi in California, dove non solo mi sono laureato, ma ho potuto visionare di persona la realtà della Napa Valley. Fruttuose esperienze che mi hanno permesso di contestualizzare il mio impegno in Toscana, all’interno di un movimento enologico di grandissimo livello internazionale, nel quale mi confronto e mediante il quale arricchisco la mia cultura, prendendo l’energia e sempre maggiore convinzione di quale grande e immensa fortuna ho avuto di poter operare, da vignaiolo, in questa regione. Una “terra da vino” che, tuttavia, non è scevra da difetti, il maggiore dei quali, secondo me, è da individuare proprio in quella mentalità conservatrice, dalla quale spesso prendo le dovute distanze, costruitasi in virtù della sua storia enologica ultra millenaria; per questo sono in molti a ritenere che le produzioni enologiche della Toscana siano immuni da miglioramenti, critiche, adeguamenti; una visione troppo antica e nobile che spesso l’allontana da un certo tipo di consumatori. Un preconcetto, purtroppo, duro a morire, che chiude il mercato del vino in una sua speciale torre d’avorio e impedisce una libera e più fertile comunicazione e visibilità, ostacolando quel dialogo e quello scambio fruttifero e costante che noi, invece, perseguiamo come elemento fondamentale della nostra filosofia produttiva.


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...grandissima passione afďŹ nata in decenni di attento e costante lavoro...


TENUTE FOLONARI

CHIANTI CLASSICO DOCG RISERVA LA FORRA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese (con una piccola aggiunta di Cabernet Sauvignon) provenienti dai vigneti della Tenuta di Nozzole, nel comune di Greve in Chianti, le cui viti hanno un’età compresa tra gli 8 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni argillosi con presenza di molto scheletro, ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 90%, Cabernet Sauvignon 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: dai 1.800 ai 5.000 ceppi per Ha, a seconda dell’età Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, in vasche molto larghe per avere un cappello delle bucce molto sottile, si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 28°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per almeno altri 10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature e rimontaggi. Dopo la svinatura, i vini sono lasciati ancora in acciaio dove svolgono la fermentazione malolattica, al termine della quale, nel mese di gennaio si procede all’assemblaggio delle partite e il vino è posto in barriques e tonneaux di rovere francese di 2° e 3° passaggio in cui rimane per 12-18 mesi; durante questo periodo si effettuano travasi ogni 6 mesi. Terminata la maturazione e dopo una decantazione di circa 1 mese, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 45.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino profondo quasi impenetrabile, il vino si presenta all’esame olfattivo ricco e complesso, con profumi di frutta rossa in confettura e di sottobosco, percezioni di fiori appassiti e nuances mentolate. Con l’ossigenazione tendono ad emergere note boisé. In bocca è caldo, sfaccettato, con tannini morbidi e setosi, Propone un finale dal tocco tostato e accenni minerali che completano una beva lunga e persistente. Prima annata: 1975 Le migliori annate: 1990, 1993, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome da un vigneto che contribuisce alla realizzazione del vino, raggiunge la maturità dopo 5-6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Folonari dal 1971, la Tenuta di Nozzole si estende su una superficie di 385 Ha, di cui 90 vitati, 20 occupati da oliveto e 230 da bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Damiano Arieti e l’enologo Marco Cervellera.

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Emilia Nardi


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UNA MERAVIGLIOSA AVVENTURA A CONTATTO CON LA NATURA La natura non si ferma mai. È una fabbrica che produce a ritmo continuo e chi vive distante dalle sue cadenze non si rende conto di quanto essa sia attiva e infaticabile.

Chi opera in agricoltura e sta a contatto con la terra sa tutto questo; è consapevole che il sole, la pioggia, il vento e il freddo sono i suoi veri datori di lavoro, sono coloro che decidono se, come e quando lavorare e soltanto seguendo i ritmi che essi dettano e assecondando il naturale evolversi delle stagioni si può sperare di ottenere dei risultati. Già da tempo avevo la visione completa della bellezza e della complessità racchiuse in questo mondo contadino, ma ne presi definitivamente coscienza solo dopo essermi dovuta allontanare, per un certo periodo, da questa campagna di Montalcino per tornare in Umbria, a dirigere l’impresa di famiglia, la quale, da quattro generazioni, è attiva nel settore della produzione industriale di attrezzature agricole. Un distacco che mi fece capire quanto fosse radicato in me il richiamo ancestrale della terra e quanto non desiderassi minimamente separarmi dal quel suo duro e faticoso abbraccio che, pur stancandomi, mi inorgoglisce enormemente. Un sentimento difficile da spiegare, come non saprei trovare le parole per raccontare cosa provo nel camminare in mezzo alle mie vigne e appoggiare i piedi su questa terra, poiché è qualcosa di tanto profondo dentro di me, attraverso il quale mi rapporto con gli altri, scoprendo di non aver bisogno di presentazioni per capire se essi siano della mia stessa tempra e condividano la mia stessa passione. Così, oggi mi sto adoperando per trovare il modo di dividermi fra questi due mondi, di cui ho compreso le sostanziali diversità; quelle che possiedo sono due fabbriche, una protetta dai tetti, l’altra sotto la volta del cielo, una vincolata ai numeri, l’altra all’ottimizzazione di ciò che offre la terra, una veloce e interattiva con le esigenze dei mercati, l’altra obbligata a rispettare i tempi. Due mondi con i quali mi confronto giornalmente, consapevole che ognuno di essi necessita di uno specifico approccio, di azioni, strategie e operatività diverse, proiettandomi in direzioni diametralmente opposte lungo le quali mi trovo ad affrontare le sfide che, per carattere, cerco sempre di vincere. Due mestieri contrapposti che, comunque, mi hanno consentito di sperimentarmi e di crescere, attingendo energia dall’uno e dall’altro, trovando la dinamicità necessaria per affrontare la competizione industriale con serenità e naturalezza nei comportamenti, proprio quella insita nel processo produttivo della natura i cui tempi non possono essere né forzati, né dettati da nessuno. Di certo ho compreso che le industrie si aprono e si chiudono per volon-

tà dell’uomo, mentre la terra è lì, dove è sempre stata, unica e fedele compagna del tempo, silenziosa a guardare il passaggio, le gioie e i dolori degli umani. Forse è per questo che mi affascina e mi coinvolge, e trovo sempre più difficoltà a distaccarmi da queste terre di Montalcino, dove cerco di portare avanti un progetto e un obiettivo di vita, condiviso dagli altri componenti della mia famiglia, i quali, sebbene occupati nell’industria, hanno origini contadine e sanno bene quali siano le difficoltà insite nell’agricoltura, insieme alle sofferenze, alle rinunce e all’orgoglio che scaturiscono dal mestiere del vignaiolo; un lavoro meraviglioso, che mi concede la possibilità di vivere a contatto con la cultura agricola e con la natura e, allo stesso tempo, in modo cosmopolita, mi fa trovare, un giorno a calpestare la terra in mezzo alle vigne e il giorno dopo sui marciapiedi di New York o di Tokyo. Un mestiere in bilico tra silenzio e jet set, tra i romantici tramonti e le accecanti luci delle metropoli, fra la tranquillità di una cultura contadina, immersa in questo umano provincialismo toscano, e quella globalizzante e impersonale dei mercati. Un lavoro complesso che condivido piacevolmente con tutti quelli che mi aiutano a massimizzare il potenziale di questo territorio e ad ottenere quei risultati cui aspiro, avendo rispetto della storia viticola di questo luogo e delle tradizioni che su esso persistono, discostandomi da chi non ha tenuto conto della natura e, forzandone i ritmi, si è anteposto alla terra pensando di poterla comandare, innescando processi operativi distorti che hanno prodotto il proliferare di vigneti, investimenti esagerati, cantine faraoniche, oltre a indebitamenti esorbitanti e a un’errata mentalità con la quale tutti, compresi i contadini, sono diventati manager tendenzialmente proiettati verso lo show system. Ho sempre fuggito questa visione del mondo enologico e mi tengo stretta alle mie vigne, alle quali ho dedicato praticamente tutto il mio tempo e tutti i miei sforzi da quando, 20 anni fa, è partita la meravigliosa avventura delle Tenute Silvio Nardi. Ciò che mi spingeva non era l’ambizione di raggiungere, attraverso i miei vini, un’elevata posizione sociale, né altri interessi materialistici, ma, piuttosto, acquisire la certezza che, attraverso il vino, avrei potuto esprimere l’amore che nutro per le cose e le persone, con una positività costruttiva e propositiva che mi mette in armonia con i ritmi della natura e con chi mi ha aiutato a prendere maggiore coscienza di ciò che questo lavoro significava per me.


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...la terra è lì, dove è sempre stata, unica e fedele compagna del tempo, silenziosa a guardare il passaggio, le gioie e i dolori degli umani .


TENUTE SILVIO NARDI

BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG VIGNETO MANACHIARA Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Sangiovese provenienti dal vigneto Manachiara, di proprietà dell’azienda, situato nella zona sud-est del comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova su terreni di origine sedimentaria con sabbie ricche di quarzi e argille plioceniche, ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 6-8 giorni ad una temperatura di 28-30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 20-25 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti follature, délestages e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è messo in acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in barriques da 225-500 lt di 1° e 2° passaggio, in cui rimane per 12 mesi; durante questo periodo si effettuano 2 travasi. Poi il vino è messo in botti di rovere di Slavonia per altri 18 mesi; segue un ulteriore affinamento in bottiglia di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie circa Note organolettiche: Colore rubino intenso profondo con leggeri riflessi granati; il vino al naso offre intensi e complessi profumi di frutta rossa matura accompagnati da note di fiori appassiti e speziate di chiodi di garofano. Percezioni di tabacco e toni balsamici in chiusura. All’esame gustativo si dimostra caldo, di corpo, con un attacco morbido, ma al contempo sapido; i tannini sono dolci, setosi ed equilibrati; lungo e persistente, nell’avvolgente finale vengono richiamate alla mente nuances fruttate ed accenni minerali. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1997, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 6-7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Nardi dal 1950, l’azienda agricola si estende su una superficie di 360 Ha, di cui 80 vitati, 14 occupati da oliveto e 266 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Fabrizio Lazzeri e l’enologo Pasquale Presutto, con la consulenza di Mauro Monicchi.

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Marco Nicolini, Ivan Giuliani


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UNA TERRA DI CONFINE TRA TOSCANA E LIGURIA Sono passati anni e sono successe molte cose che hanno modificato l’idea iniziale con la quale, nel 1995, feci la mia prima vendemmia in questo podere, allora di tre ettari, acquistati nei primi anni ‘30 da mio nonno Luigi Giuliani, di ritorno da New York.

L’azienda Terenzuola è situata in Lunigiana, fra la Liguria e la Toscana. Terra di confine, terra antica, dove i Romani fecero arrivare la loro prima strada - l’Aurelia - lungo la quale far giungere al porto di Luni, costruito dagli Etruschi, le mercanzie che arrivavano un po’ da tutte le colonie con le quali rifornire la Gallia; fra queste le barbatelle di nuovi e “strani” vitigni, molti dei quali furono messi a dimora anche su queste colline preappenniniche. Terra di confine, terra antica, terra strana, dove il mare e le montagne si fondono in uno spettacolare contrasto creato dalla natura con valli e vette altissime e paesaggi forti che hanno visto, come spettatori del tempo, transitare genti che si sono confuse con altre genti, dando vita a caratteri fieri, liberi e schietti, così come volevo fossero i miei vini, in contrapposizione con quelli che qui si producevano, più adatti ad un autoconsumo veloce e che a malapena riuscivano a superare i primi caldi dell’estate successiva alla vendemmia. Quando lasciai l’accademia aeronautica, nel 1994, a poco più di 20 anni, avevo nel cassetto l’idea e il sogno di fare il vignaiolo, accorgendomi, da buon piemontese, che in me era radicato più il fascino della terra che non quello dell’aria. Una passione che si era consolidata anche durante il servizio militare, svolto fra il Friuli e la Slovenia un paio di anni dopo. Un periodo in cui venni a contatto con l’incredibile cultura contadina e vitivinicola di quella zona, ritrovandomi a passare i fine settimana fra quei viticoltori che m’insegnavano, oltre alle loro tecniche di vinificazione e di rispettosa coltivazione, cosa significasse l’attaccamento alla terra. Non so dire quanto quei discorsi abbiano inciso realmente sulla mia volontà di fare il vignaiolo o se siano state le similitudini che riscontravo fra questo e quel territorio o se invece fosse solo il desiderio di mettermi alla prova e costruire qualcosa di realmente mio: sta di fatto che iniziai, con entusiasmo, a lavorare in quest’azienda piantando nuovi vigneti, vinificando Vermentini con maturità importanti, spingendomi alla ricerca di vecchie vigne e di vecchi vitigni nel circondario. Una vendemmia dopo l’altra, ognuna delle quali costituiva un nuovo banco di prova, una continua sperimentazione e un accrescimento di ciò che avevo fatto l’anno prima, acquisendo più sicurezze e convincimenti. Con i risultati ottenuti nel 1999, ottimi e abbondanti, mi convinsi di dar corso a un nuovo progetto con il quale prevedevo di raddoppiare i vigneti a disposizione,

ristrutturare un vecchio fienile adibendolo a cantina e migliorare, quanto più mi fosse possibile, alcuni importanti aspetti della filiera produttiva, arrivando, in pochi anni a più di dieci ettari e a valorizzare i vini prodotti. Un’infinità di piccoli passi, messi uno dietro l’altro, anno dopo anno, con i quali ho potuto dettagliare e puntualizzare sempre più il mio rapporto con questo meraviglioso territorio dalle caratteristiche pedoclimatiche uniche, dove mi è possibile fare, sulla solita collina, bianchi e rossi. Passi sostanziosi con i quali ho allargato il compasso della mia falcata arrivando oggi ad operare in un’azienda in cui si è inserito un nuovo socio, Marco Nicolini, amico storico e noto agricoltore locale, insieme al quale abbiamo ampliato ulteriormente la superficie vitata, arrivando a 18 ettari, tutti predisposti con un’altissima densità d’impianto, con 9.000 piante per ettaro. Sono invece 11-12.000 i ceppi sugli appezzamenti di terreno che ho con l’amico-socio cardiologo Evasio Pasini sulle Cinque Terre tra Riomaggiore e Corniglia passando per Volastra; qui, con impianti ricondotti ad alberello, produciamo vino bianco e Sciacchetrà. Un progetto dopo il quale, in un continuo divenire, se ne apre un altro ancora, con cui ci impegniamo a modificare e migliorare ulteriormente tutte le operazioni viticole, così da far arrivare in cantina uve sempre migliori e nel contempo avviare un programma di miglioramento della struttura ricettiva della cantina e delle attrezzature tecniche della stessa. Una crescita che non solo coinvolge la parte operativa, ma consolida i rapporti di amicizia con Marco; forse l’unico mio cruccio è quello di non aver fatto prima questo passo, contando su chi sta diventando sempre più un valido sostegno e un punto di riferimento, usufruendo di un fertile confronto quotidiano che non può che arricchire questo stupendo e impegnativo mestiere. Dividendoci ruoli e competenze stiamo impostando, inoltre, adeguate strategie di marketing capaci di espandere la visibilità della nostra azienda e con essa la commercializzazione dei nostri vini; da parte mia, non rinuncio a quel contatto quotidiano con le vigne, convinto, da idealista come sono, che il miglior contributo da dare alla promozione aziendale è quello nascosto sotto il tappo, visibile soltanto a chi stappa una nostra bottiglia, assaporando le peculiari caratteristiche di questa terra di confine fra la Liguria e la Toscana.


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...il desiderio di mettermi alla prova e costruire qualcosa di realmente mio...


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MERLA DELLA MINIERA IGT ROSSO TOSCANA Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Merla (biotipo locale del Canaiolo Nero) e Tintoretto (biotipo locale del Colorino) provenienti dai vigneti pedecollinari di proprietà dell’azienda, situati nei comuni di Fosdinovo e Castelnuovo, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni di matrice minerale, ricchi in ferro, ad un’altitudine compresa tra i 70 e i 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Merla 85%, Tintoretto 15% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato o Guyot basso Densità di impianto: 8.600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede in modo gravitazionale alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è avviato alla fermentazione alcolica con lieviti indigeni. Questa fase, svolta in cemento e acciaio, si protrae per circa 21 giorni ad una temperatura compresa tra i 27 e i 30°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 5 giorni, durante i quali vengono effettuati follature e rimontaggi giornalieri. Dopo la svinatura, il vino è posto in botti ovali da 22 Hl, dove svolge la fermentazione malolattica ed il successivo affinamento sui propri lieviti per 1 anno. Terminata la maturazione e dopo 1 anno di decantazione in cemento o inox, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 16.000 bottiglie circa Note organolettiche: Di un colore rosso rubino intenso con riflessi violacei, il vino offre all’esame olfattivo ampi profumi di frutti di bosco, ciliegie, spezie dolci e percezioni di pepe e cannella; in bocca si presenta pieno, caldo, di corpo, morbido e giustamente tannico; intenso e persistente, chiude ancora con delicate nuances speziate e ricordi di mirtilli. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2001, 2006 Note: Il nome locale del vitigno deriva dalla merla, che lo sceglieva per cibarsene in virtù della ricchezza in colore e zucchero degli acini. Il vino raggiunge la maturità dopo 3-4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e gli 8 anni. L’azienda: Di proprietà di Ivan Giuliani dal 1993 ed ora gestita con il socio Marco Nicolini, l’azienda agricola si estende su una superficie di 18,5 Ha, di cui 16,5 vitati, 1 occupato da oliveto e 1 da seminativi e bosco. Collaborano in azienda l’agronomo Stefano Bartolomei e l’enologo Claudio Felisso.

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Andrea Cortonesi


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Il vino è l’espressione dell’anima di un territorio Non ho studiato, ma non me ne faccio un cruccio, perché ciò che ho imparato non è scritto in nessun libro di scuola: è unico, irripetibile, è mio e l’ho appreso fra queste vigne, stando a contatto con questa terra, crescendo, cercando di “fare l’omo”, come mi chiedeva mio padre, in quella sana cultura contadina che mi ha insegnato l’umiltà, la rettitudine, il significato della morale e dell’etica, la fede nella vita e nella provvidenza, ma, soprattutto, l’abitudine al lavoro.

Sono cose che non si studiano, né è possibile comprare, anche se sei l’uomo più ricco del mondo; sono cose che, se ce l’hai, puoi tutt’al più allevarle e farle crescere dentro di te. Quindi mi scuserai se non uso parole scelte, né tanti giri di parole per esprimermi, preferendo la praticità e la semplicità in mezzo alla quale ho sempre vissuto, diventando ciò che sono e con i risultati che vedi, senza però mai dimenticare il mio passato. Ci si è dimenticati troppo in fretta di come si viveva qui neanche quarant’anni fa; ci siamo scordati di essere figli o nipoti di persone che hanno passato una vita a lavorare in campagna, chine su queste terre, faticando e sudando tanto e non le sette camicie, come si usa dire. Nessuno aveva sette camicie! E chi ne aveva un paio a maniche lunghe, magari a una tagliava le maniche per lavorare, non avendo neanche il tempo per arrotolarle! Questi erano gli stessi che andavano nei campi con i pantaloni corti fin sopra gli scarponi; pantaloni che duravano anni, visto che non c’erano i soldi per comprarne di nuovi. Ciò che ti racconto è frutto di una memoria fresca, recente, e, pur essendo ancora giovane, è ancora viva in me e dà forza e valore alle mie radici, profonde e radicate in questo territorio che ha saputo ripagare quanti lo hanno amato e lavorato, accontentandosi, per anni, di ciò che donava. È per questo che ritengo sia necessario mantenere un grande rispetto verso questa campagna montalcinese, anche se la miseria di un tempo sembra un ricordo lontano. Ma non per me. Una fatica che ho sentito entrarmi dentro fin da piccolo, per cui ho il dovere di continuare sulla strada tracciata da mio nonno e da mio padre, uomini che mi hanno fatto apprezzare gli aspetti positivi del vivere in campagna e la testimonianza di cosa voglia dire il lavoro e il sacrificio. Ho iniziato a fare il contadino fin da ragazzo e quando frequentavo le scuole medie di Montalcino - fra il ’76 e il ’78 - non mi è mai pesato sentirmi indicare dagli insegnanti di quel tempo come quello che puzzava di campagna. Gente di poco conto, che non si sforzava di capire e far comprendere ai miei compagni di scuola il motivo e la differenza tra l’odore dei loro vestiti e quello dei miei, che profumavano di terra, di mosto e di quella stalla che rimaneva aperta per poter riscaldare un po’ di più la casa; stalla in cui mi recavo per seguire il parto di una giovenca e veder nascere un vitellino e ogni mattina, prima di andare a scuola, per mungere il latte per la colazione. Nella mia semplicità e ignoranza contadina non riuscivo a capire quali fossero le differenze fra me e loro, non ne ho mai fatto un dramma e non ho avuto nessun “trauma” psicologico; pertanto non ho mai pensato di prendere una rivincita per quella discriminazione subìta, scoprendo come l’importante sia star bene con se stessi. Non potendo proseguire gli studi lontano da casa per problemi economici e non aven-

do voglia di frequentare l’Istituto Magistrale, il solo presente a Montalcino, iniziai a lavorare a tempo pieno in campagna, continuando a fare ciò che avevo fatto fin da bambino, in mezzo alle vigne, all’uva e a quelle “botti nere” di castagno - come le chiamavo io - sulle quali c’era uno sportello per introdurre il mosto con le vinacce, il cui cappello andava affondato con gli ammostatoi di legno d’albatro per 3-4 volte al giorno. Da quelle operazioni e dalla lenta maturazione, che avveniva dopo la sfecciatura del vino, nasceva il Brunello universalmente riconosciuto, quello che ha avuto l’ottenimento della DOCG e che ha fatto la storia di cui godiamo ancora oggi. Vino frutto della capacità di quei vignaioli e che deve oggi proseguire seguendo le vecchie passioni nel produrlo. La forza di questo territorio nasce dal lavoro attento di quegli uomini e credo che ciò debba essere loro riconosciuto e non nascosto, pensando, come succede oggi, che un grande vino si valuti solo dalle capacità intellettuali nel saperlo commercializzare meglio, nello scrivere una bella scheda di degustazione o nell’avere una bottiglia con un’etichetta moderna messa dentro una cassetta di legno pregiato. Il vino è un’altra cosa. Il vino è l’espressione dell’anima di un territorio e della cultura che in esso vive, dalla quale io, da semplice contadino, non mi voglio discostare.


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Vino frutto della capacitĂ di quei vignaioli e che deve oggi proseguire seguendo le vecchie passioni nel produrlo.

La forza di questo territorio nasce dal lavoro attento di quegli uomini e credo che ciò debba essere loro riconosciuto e non nascosto...


UCCELLIERA

Brunello di Montalcino DOCG Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione della migliore selezione delle uve Sangiovese provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, situati in località Castelnuovo dell’Abate, nel comune di Montalcino, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni argillosi e sabbiosi con forte presenza di scheletro sciolto ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 250 metri s.l.m., con un’esposizione a nord-sud / est-ovest. Uve impiegate: Sangiovese 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: da 3.000 a 5.000 ceppi per Ha a seconda dell’età degli impianti Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato ottenuto è mantenuto per 4-5 giorni a bassa temperatura. Trascorso questo tempo si procede ad innalzare la temperatura e a far partire naturalmente la fermentazione alcolica. Questa fase, svolta in acciaio, si protrae per circa 15 giorni ad una temperatura di 27°C; contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura, a seconda dell’annata, per altri 7 giorni. Dopo la svinatura, il vino è mantenuto in acciaio, dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale viene spostato in legno di varie dimensioni, parte in barriques di 1° e 2° passaggio, parte in botti da 30-40 Hl in cui rimane per 36 mesi; durante questo periodo si effettuano alcuni travasi. Terminata la maturazione e dopo 5 mesi di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 8 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie circa Note organolettiche: Si presenta all’esame visivo di un colore rosso rubino con riflessi granati, mentre al naso, profondo, intenso e ampio, propone note fruttate di more, ribes e ciliegie mature che si mescolano a percezioni floreali di lilla e viola appassita. Un percorso sensoriale che si apre a crescenti profumi di erbe officinali (alloro e ginepro) e corteccia di quercia per completarsi con nuances speziate di caffè, liquirizia e tabacco da sigaro dolce. In bocca è caldo, morbido, di corpo; ha un’entratura elegante di buon equilibrio tra la ricca sapidità e una sostenuta acidità; lungo e persistente, chiude la degustazione con piacevoli accenni di cacao. Prima annata: 1991 Le migliori annate: 1995, 1997, 1999, 2001, 2004, 2006, 2007 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Andrea Cortonesi dal 1986, l’azienda agricola si estende su una superficie di 6 Ha, di cui 4 vitati. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Andrea Cortonesi.

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2009 presso Tap Grafiche S.p.A. Poggibonsi (SI) - Italy




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