Il Veneto, noialtri e il vino

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Andrea Zanfi

Carlo Cambi Editore





di Andrea Zanfi fotografie di Giò Martorana

Carlo Cambi Editore


Il Veneto, noialtri e il vino di Andrea Zanfi

Fotografie di Giò Martorana

Coordinamento editoriale e di redazione: Marco Biotti

In redazione: Valentina Sardelli

Progetto grafico: Laura De Biasio

Still-life: Carlo Gianni

Traduzione inglese: An.Se sas - Colle Val d’Elsa (Siena)

Fotolito e stampa: Tap Grafiche S.p.A.

Il volume è stato stampato su carta

Symbol Matt Plus gr. 170

Un vivo ringraziamento per la collaborazione fornita sul territorio viene formulato dalla Casa Editrice al Consorzio Altamarca Colline del Veneto e al Consorzio di Promozione e Commercializzazione Turistica Verona Tutt’intorno

Carlo Cambi Editore Via San Gimignano snc 53036 Poggibonsi (Siena) Tel. 0577 936580 - Fax 0577 974147 www.carlocambieditore.it - info@carlocambieditore.it

Prima edizione: dicembre 2007

Versione italiana: ISBN 978-88-88482-79-8 Versione inglese: ISBN 978-88-88482-80-4

2007 © Copyright Carlo Cambi Editore

Proprietà letteraria riservata - Printed in Italy

I diritti di riproduzione, di traduzione, di memorizzazione elettronica e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi microfilm, copie fotostatiche e cd), nonché l’inserimento in siti internet, sono riservati per tutti i paesi.


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Il Veneto, noialtri e il vino

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Dal Forno Romano

di Andrea Zanfi

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Frozza

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Gini

C’era una volta...

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Guerrieri Rizzardi

di Fabio Piccoli

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Inama

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Iris Vigneti

Briciole di storia

196

La Biancara

di Antonio Calò

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Le Ragose

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Le Salette

Il Veneto: quasi una piccola Italia

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Maculan

di Daniele Accordini

214

Marcato

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Marion

La parola ai produttori e agli enologi:

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Masi

“Il futuro della viticoltura e del vino nel Veneto.

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Moletto

Opportunità e vantaggi, problematiche e incertezze”

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Monte Tondo

238

Nino Franco

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Pieropan

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Piovene Porto Godi

Ritratti di vignaioli veneti 66

Accordini Stefano

252

Prà

70

Adami

256

Quintarelli Giuseppe

74

Aldegheri

262

Roccolo Grassi

80

Allegrini

266

Roeno

84

Anselmi

270

Ruggeri

88

Bertani

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Santa Margherita

94

Bisol

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Santa Sofia

98

Brigaldara

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Santi

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Brunelli

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Serafini & Vidotto

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Bussola Tommaso

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Speri

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Ca’ Orologio

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Suavia

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Ca’ Rugate

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Tamellini

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Cantina del Castello

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Tedeschi

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Castello di Lispida

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Tenuta Sant’Antonio

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Cavalchina

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Tommasi

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Coffele

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Trabucchi

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Col Vetoraz

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Vigneti Villabella

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Collalto

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Villa Sandi

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Conte Emo Capodilista

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Villa Sceriman

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Conte Loredan Gasparini

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Viviani

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Corte Sant’Alda

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Zenato

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Cubi Valentina

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Zonin

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Zymè




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Avrei voglia di prendere un foglio di carta e disegnarci sopra questo Veneto. Ah, se ne fossi capace...! Lo tratteggerei con la levità di un acquerello e con quella chiarità del colore sgocciolato che inumidisce la carta, così da far vedere, a chi non lo sa, cosa io abbia avuto modo di conoscere. Se avessi una mano decisa lo disegnerei stendendo tre pennellate di rosa tenue, pallido, per delineare i contorni degli alti campanili svettanti verso il cielo che, a sua volta, colorerei di un celeste lieve, vitreo, algido. Quanti campanili nel Veneto! Sono gli stessi che segnalano borghi e paesi dai nomi inconsueti, che si aprono al respiro della “piana”, tutta attraversata da corsi d’acqua smeraldini, che farei di un verde pallido ombreggiato da sfumature di un colore più vivo, così da ricordare gli zigomi rossi dei suoi contadini.

Sullo sfondo porrei le stesse colline che delimitano gli argini delle numerose vallate che, come le dita di una mano, dalla pianura si insinuano fino ad arrampicarsi sulle montagne che, in lontananza, osservano orgogliose i filari delle viti che si rincorrono. Usando un po’ di grigio, su alcune di quelle montagne metterei qua e là rocche e castelli che, ormai persa la loro veste austera, renderei, con un tocco magico, come fossero di cartapesta. Poco più in là, immaginerei le piazze di un rosso mattone e, miscelando del bianco con il blu, tratteggerei le storiche cattedrali e poi Venezia, la bella Padova, la dolce Treviso, il “salotto buono” di Vicenza, Verona e la sua Arena e, un po’ più in alto, la silenziosa Belluno. Sì, dovrei proprio disegnare tutto di questo grande Veneto.


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Un tocco da una parte, uno dall’altra e tutto apparirebbe magicamente chiaro e pulito, come del resto lo è nella mia mente, dove ogni cosa è definita e precisa, come in un quadro del Canaletto; però so che al mio pensiero non corrispondono grandi capacità raffigurative. Sono invece sicuro che davanti a quel foglio da disegno, la mia mano, provando ad intingere il pennello nei vari colori per far rivivere sulla pagina bianca ogni particolare che la mia mente ha fotografato, tremerebbe. Sì, tremerebbe, perché non saprei come restituire le mille impressioni provate in questo mio viaggio, né sarei capace di tratteggiare la sobrietà dei volti dei vignaioli veneti che ho incontrato, né quel tenue candore con cui si nascondono prima di riuscire a parlare di se stessi. E ancora non ben capito se sia timidezza o bigottismo. Non saprei disegnare queste cose, come non sarei capace di rappresentare il senso pratico di questo Veneto, dinamico, pragmatico, restìo ad affrontare i cambiamenti e chiuso a protezione dei traguardi ottenuti. E poi, come potrei mai rendere con qualche tratto di pennello quel “noialtri”, con cui identifico la capacità che tutti, qui, si sono costruiti sentendosi parte di un qualcosa che, andando oltre l’aspetto culturale e sociale al quale appartengono, interagisce direttamente con l’idea stessa che hanno del loro Veneto? Con quale colore potrei raffigurare questo “noialtri”? Forse dovrei marcare quel concetto con un colore forte e con una linea di demarcazione netta, da porre fra quel “noialtri” che sta per “noi”, noi famiglia, noi paesani, noi veneti, e “gli altri” che non sono la famiglia, non sono paesani e neanche veneti. Sì, ecco! È proprio con il nero che traccerei una riga tutto intorno e poi… Potrei tratteggiare e sgocciolare il blu della laguna e il verde dei campi e, usando gli altri colori, mettere su quel foglio ancora altre sensazioni; mi accorgerei, però, che qualunque fosse la dimensione di quel pezzo di carta, non sarebbe sufficiente per contenerle tutte. Per fare questo dovrei avere l’abilità di certi artisti che riescono a dare un’anima ai loro disegni o a trasmettere emozioni attraverso la raffigurazione della realtà: un po’ come nel verismo dei Macchiaioli, a me tanto caro. Mi fermo un attimo, dubbioso, ma poi la mia mente ricomincia a pensare con quale colore restituire quel senso di famiglia che qui, in Veneto, ho percepito come fulcro intorno al quale si muove la vita sociale, spartiacque che determina i ruoli all’interno dell’azienda e della famiglia. Ruoli che non sono soltanto utili, ma, come un’eredità che arriva dal passato, devono essere rispettati e indossati come una divisa, con responsabilità ed essere accompagnati dall’impegno che essi richiedono e coinvolgere indistintamente ogni membro della famiglia. No, forse è meglio che lasci perdere tutto. Non servirebbe a niente prendere un foglio più grande, né provare a capire il limite delle mie capacità figurative. Se davvero prendessi un pennello in mano rischierei di fare un acquerello che presenta solo delle risacche umide di colori, che si mischierebbero ad altri colori, i quali, allargandosi oltre la mia capacità di controllo, mi condurrebbero a un disastro espressivo, facendomi ritrovare fra le mani una cosa molto diversa da ciò che invece avrei voluto rappresentare. Con molta consapevolezza e conoscendo i miei limiti, mi arrendo all’ipotesi di utilizzare il pennello. Riconosco che avrei potuto fare un figurone descrivendovi questo viaggio attraverso un acquerello, ma so che la sua realizzazione mi avrebbe fatto arrossire più di quanto ci sia già riuscito il pensiero, sciocco e infantile, di misurarmi con


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Canaletto o con Sironi: loro sì che avrebbero saputo riempire quel foglio da disegno che invece ho lasciato in bianco! Loro avrebbero saputo colorare ogni cantina che ho visitato, schizzando l’impressione che ho ricevuto da ogni vignaiolo con cui ho parlato, in modo ogni volta diverso. Ecco, con grande maestria avrebbero acquerellato su quel foglio la cultura, la storia, la tradizione e - perché no? - anche gli interessi che si celano dietro a questo grande business che oggi coinvolge il vino veneto, una delle voci più importanti nella bilancia economica dell’esportazione di questa regione. Per riuscire nel mio intento mi sono mosso con molta circospezione, cercando di porre attenzione e dare risalto anche ai chiaroscuri delle cose, in modo da acquisire maggiore sicurezza e riuscire a tirare le fila di alcune riflessioni personali, che ad altri potranno sembrare scontate o originali, ovvie o contraddittorie, ma che, comunque, vanno a sommarsi a quelle che ho accumulato negli anni passati percorrendo in lungo e in largo la Toscana, la Sicilia, il Friuli, il Piemonte e le Marche e riportando una visione sempre più completa della realtà culturale del settore vitivinicolo italiano di questo inizio secolo. Durante il viaggio in Veneto, che è stato molto lungo, essendo durato quasi quattro mesi, ho visitato più di cento cantine, passando dalla Valpolicella alla Valdobbiadene, dai Monti Lessini

ai Colli Euganei, imbattendomi in una terra poliedrica, sotto l’aspetto vitivinicolo, rappresentata da due anime, ognuna delle quali, pur se tinteggiabile con colori tenui, sobri, mai forti, mi è sembrata ben distinta dall’altra. Anime che poi ho ritrovato girando un po’ ovunque fra i borghi agricoli delle campagne o passeggiando nei corsi luccicanti dei centri storici, ma che, nel caso specifico del vino, mi hanno indotto a mettere in dubbio quei parametri con i quali ho fin qui operato. Nelle altre regioni, infatti, mi sono sempre imbattuto in un comparto vitivinicolo abbastanza omogeneo e che, pur presentando picchi di contraddizioni, alcune volte anche eccessivi, era sempre rappresentativo di un mondo rurale in via di trasformazione. Qui invece la cosa è diversa. Mi sono ritrovato a dover dialogare con una marcata realtà vitivinicola double face, composta da due identità specifiche, entrambe forti, risolute e importanti, che caratterizzano e condizionano la proposta enologica del Veneto: una, interprete degli interessi degli industriali del vino, degli imbottigliatori e delle grandi cantine sociali, l’altra, dei vignaioli. Nella mia prima settimana di soggiorno sul territorio mi sono domandato spesso se avessi dovuto prendere in considerazione solo i vignaioli, scartando gli industriali, o se invece, evitando qualsiasi discriminazione sull’argomento, nella selezione delle aziende da inserire dentro il libro avessi dovuto proseguire


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come avevo sempre fatto, cioè ricercando quale primo criterio la “qualità” della produzione enologica delle cantine, e solo successivamente passando all’analisi della realtà storico-culturale dell’azienda e del suo rappresentante legale. Non nascondo che, all’inizio, avevo molte perplessità a confrontarmi con due mondi così culturalmente distanti fra loro, essendoci chi si adoperava per innalzare il livello qualitativo e rappresentativo dell’offerta enologica veneta, ma che interessa un piccolo mercato di nicchia, e chi contribuiva, con grandi capacità imprenditoriali, a dare uno sfogo commerciale alla grande potenzialità offerta dalla viticoltura veneta, trasformando l’enorme quantità di uve prodotte annualmente in milioni di bottiglie di vino vendute ad un mercato molto più ampio. Ritenevo che fosse un compito arduo e complesso mettere sullo stesso piano un’anima artigianale e un’anima industriale, pur sapendo che entrambe erano costrette a confrontarsi con le problematiche di un mercato globale sempre più difficile e vasto, una offrendo la qualità, l’altra la quantità. Il rischio che correvo era che una delle due anime prevalesse sull’altra all’interno del libro, dando una visione distorta della realtà che, invece, mi è sembrata in perfetto equilibrio, ma che a posteriori ha richiesto un impegno molto più complesso di quanto io immaginassi, dato che dovevo dare risposte diverse ad esigenze diverse. Ho compreso che entrambe le anime avevano il merito e l’intelligenza di dialogare fra loro, avendo provato almeno a coesistere, basandosi soprattutto sull’unicità dei prodotti enologici che traggono la loro origine da vitigni particolari che li caratterizzano fortemente. Vini che non ho bisogno di “colorare” per voi, viste le loro sottili e naturali sfumature cromatiche; alcuni di essi sono dolci, come le uve che restano ad appassire nei fruttai, e che ricordano le albicocche secche, il miele e la vaniglia, i fiori di arancio o la ciliegia e la viola appassita. Ci sono vini, poi, che sanno di lago, che profumano di ginestra o che sono chiusi e diffidenti, come i grandi rossi che stentano ad aprirsi, ma che quando lo fanno, sono capaci di sprigionare bouquet complessi, fruttati, mai banali, sempre ricchi di spezie o di cioccolato, cardamomo, coriandolo e pepe, tanto da far chiudere gli occhi e far pensare di trovarsi in un caravanserraglio lungo la strada per Samarcanda, scoprendo invece che quelle percezioni olfattive non sono altro che l’interpretazione di un terroir che, dal mare, si è proteso dentro la terraferma, adagiato su vulcani spenti. I vini bianchi sono eleganti, riservati, veri, di un bel colore giallo oro; si aprono a sentori mielosi, piacevoli, che invitano a un percorso fantasioso che va dai profumi di fiori di rosmarino a quelli di terre lontane ed esotiche. Oppure ci si imbatte in un vino come il Prosecco, che racchiude in sé il fascino della semplicità, della piacevolezza e che non costringe mai nessuno ad arrampicarsi su argomentazioni e ragionamenti contorti, tecnici o troppo complessi per definirne le caratteristiche organolettiche. Insomma, vini unici, sui quali mi è bastato soffermarmi un attimo per capire, facendo un piccolo esercizio di traslazione, che non sono altro che l’espressione dell’anima di questi produttori veneti che ho provato a stimolare e a provocare, dando loro l’opportunità di raccontarsi per sentirsi fieri di promuovere il loro territorio; in molti casi, però, mi sono trovato al cospetto di una cultura vitivinicola concreta, orientata più al profitto che a una visione poetica del lavoro di vignaiolo. Confrontando le due anime ho capito che, in ogni caso, non mi sarei trovato davanti ai vignerons piemontesi, né davanti ai contadini friulani, né agli ostinati marchigiani, né avrei dovuto confrontarmi con i baroni e i principi siciliani. Qui, invece, mi dovevo misurare con chi, più di altri, ha compreso che il vino deve essere prima di tutto venduto e se questo basilare e vitale principio economico, che sostiene l’agricoltura e i territori, richiede qualche sacrificio, qualche arguzia

in più e una maggiore concretezza, lasciando poco spazio agli aspetti “bucolici” che al vino si ricollegano, non importa. Anzi, l’importante è rispondere alla crescente domanda che accompagna tutti i principali vini veneti, ed in particolar modo l’Amarone e il Prosecco. Gli imprenditori, comunque, tranne alcuni sporadici casi, sono artefici di una viticoltura molto tradizionalista che si basa principalmente sulla conoscenza della vite, del territorio e del clima che interagisce, non solo nei mesi che interessano il percorso vegetativo e fruttifero della vite, ma anche durante quelli successivi, quando in molte zone si svolge l’appassimento delle uve, il quale necessita di una scrupolosa attenzione e di una conoscenza della stagionalità, oggi sempre più controllata da sofisticate tecnologie, applicate ai fruttai, con il rischio che tutta l’antica conoscenza contadina divenga inutile. Qui, più che da altre parti, è l’uomo che interagisce con i processi che interessano vitigni come la Corvina, la Rondinella, la Croatina, l’Oseleta, il Moscato Giallo o anche l’esuberante Garganega: uve povere che, solo dopo un’attenta selezione in vigna o dopo la loro messa a dimora nel fruttaio, si esaltano e si trasformano nei grandi vini che ho cercato di descrivere in questo libro. Un Veneto che mi è apparso bello più di quanto immaginassi, ricco di forti contrasti come quello fra la prepotente cementificazione e le aree vitate e agricole relegate alla periferia delle maggiori arterie di comunicazione. Una cementificazione che ha trasformato i territori intorno alle grandi città, ma anche quelli intorno ai piccoli comuni, che, in nome dello sviluppo economico e industriale, hanno dato corso ad uno scempio architettonico-ambientale che, in certe zone, non ha eguali. È una terra da vedere e che meriterebbe sicuramente una maggiore valorizzazione nell’ottica di un programmatico sviluppo dell’enoturismo che troverebbe un valido supporto non solo nelle bellezze architettoniche delle sue città d’arte, ma anche nei suoi vignaioli che mi sono apparsi, nel loro insieme, personaggi schietti e rappresentativi di quella “razza veneta” che ha saputo promuovere la viticoltura attraverso una visione d’insieme difficilmente riscontrabile in altre aree italiane. Nelle cantine di ognuno dei produttori che “incontrerete” in questo libro ho trovato una buona enologia sulla quale dei buoni imprenditori hanno costruito l’impianto progettuale delle loro aziende che, in molti casi, si posiziona come trait d’union tra i fattori artigianali e quelli industriali che regolano il settore, contribuendo così a realizzare un mix tale da permettere al vino veneto di porsi, in maniera più moderna e competitiva, sui mercati internazionali. C’è il rischio comunque che il mondo del vino veneto perda di vista il cuore antico che lo ha generato e ha contribuito alla costruzione dello stesso movimento vitivinicolo. L’augurio che io formulo a questi amici produttori è quello di mantenere forti e salde le proprie radici in modo che possano essere trasmesse alle generazioni future. Personalmente credo di aver vissuto una gran bella esperienza, dato che nessuna altra regione mi ha ispirato l’idea di un acquerello sul quale dipingere quella sincera e naturale sensazione di aver sempre conosciuto questa terra e di esserci stato decine di volte ancor prima di affrontare questo lungo viaggio e forse ancor prima di aver bevuto i suoi vini, consapevole di non potermi mai sentire parte di un “noialtri”. Andrea Zanfi


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Ho accettato per molti motivi e con gioia di scrivere la prefazione di questo volume di Andrea Zanfi, dedicato ai vini o meglio ancora alle donne e agli uomini del vino veneto. Il primo dei motivi è già sottinteso nelle righe precedenti. Andrea Zanfi scrive prima di tutto di donne e di uomini. È la sua cifra stilistica. Le sue numerose pubblicazioni lo rendono sicuramente originale e dal mio punto di vista eccellente, poiché fa emergere con forza il fattore umano. Il vino è sì un grande prodotto del territorio, ma troppo spesso ci dimentichiamo degli uomini e delle donne che si prodigano per la sua realizzazione, per la sua comunicazione e per la sua commercializzazione. Andrea non lo dimentica mai. Un altro motivo che mi ha spinto a scrivere questa prefazione è l’amicizia che mi lega ad Andrea: un bene prezioso che custodisco con passione nel mio cuore. Come lui sono toscano, ma se lui si è “fermato” in Maremma, io sono stato portato dai miei genitori, assieme ai miei fratelli, ancora fanciullo, proprio in Veneto. Mi sento perciò di avere anche qualche titolo in più per poter scrivere la prefazione di un libro così importante che altrimenti mi avrebbe probabilmente intimorito ed è forse per questo che continuo con questo elemento autobiografico, non certo per questioni narcisistiche, ma perché mi consente di entrare nel vivo della “questione del vino veneto”. Il racconto che segue è totalmente vero, dal momento che scaturisce dal ricordo dei miei genitori. Avevo solo due anni e vivevo in un piccolo paese del vicentino ed ero considerato un bambino “strano”. O meglio, fu quello che un giorno la pediatra affermò davanti a mia madre. “C’è qualcosa che non va”, le disse. Potete immaginare lei come rimase terrorizzata davanti a quella frase. “Cosa vuole dire?”, fu la logica risposta della mamma. “Non so ancora nulla di preciso, devo aspettare il responso delle analisi, ma ho una sensazione strana, se non la conoscessi direi…” e lasciò cadere la frase. “Direi?”, la riprese subito mamma sempre più preoccupata. “Direi che ha un fegato ingrossato. Molto più grande del normale, per un bambino della sua età”. “Ma come è possibile? È grave? Non me ne ero mai accorta. Ma soprattutto, quale può essere la causa?”, chiese affranta la mamma ad una pediatra sempre più a disagio. “Signora, forse sbaglio a dirlo ora, senza avere i risultati delle analisi in mano. Forse non è proprio professionale, ma dal momento che ci conosciamo da molti anni, mi verrebbe da dire che Fabio ha i classici sintomi di un bambino che beve alcolici…”. Non riuscì a finire la frase che la mamma mi prese in braccio come per volermi difendere dalla pediatra. “Ma sta scherzando? Ma veramente pensa che saremmo genitori screanzati, che danno vino ad un bambino di due anni?”. “Non ho detto questo, semplicemente i sintomi farebbero pensare che…”.

Ma anche questa volta la pediatra rimase con la frase a metà, perché la mamma mi prese di forza e mi portò fuori dallo studio con un frettoloso saluto alla pediatra che rimase immobile dietro la scrivania in formica. Tornati a casa, la mamma iniziò a raccontare a Teresa, una contadina del paese che ci accudiva quando lei era a scuola ad insegnare, l’incredibile diagnosi della pediatra. Ma mentre si stava addentrando nei dettagli, mia madre smise di parlare, come se un pensiero tremendo l’avesse presa d’impeto in quel preciso momento: “Teresa, non è che lei, per caso… per caso ha dato da bere del vino a Fabio?”. Teresa si era ammutolita. La mamma allora le ripeté più volte la stessa domanda: “Ha dato da bere del vino a Fabio?”. Alla quinta volta, Teresa, senza dire niente si avvicinò verso la finestra, dove tra gli scuri e il vetro teneva due bottiglie di vino. “Signora - disse balbettando - sono due bottiglie di Recioto. Ne do a Fabio un bicchiere di tanto in tanto, perché serve ad eliminare i vermi”. Ci mancò poco che la mamma non stramazzasse a terra. Non mi dilungo ulteriormente sul racconto; penso ve ne sia abbastanza per spiegare quello che era ed è oggi il rapporto che esiste tra il vino e la gente veneta e quale connubio vi sia fra me, il vino e questa terra. Tanto per placare la curiosità del lettore, posso dire che Teresa è rimasta a lungo nella nostra famiglia e tutti noi abbiamo nutrito per lei un grande affetto. Ovviamente di quell’ottimo Recioto non me ne diede più nemmeno un’ombra. E sono state proprio le ombre de vin a caratterizzare il Veneto per decenni, potremmo dire per secoli, dal momento che proprio le osterie venete sono state probabilmente tra i più importanti canali di distribuzione e diffusione della cultura del vino. Ma le osterie, quelle di Verona in particolare, sono stati anche centri di confronto e scontro, di scambio tra le genti venete. Le stesse lotte risorgimentali, come le famose Pasque Veronesi, sarebbero state ordite proprio tra le mura delle osterie veronesi. Ma ritorniamo a me, al Recioto e a Teresa. Eravamo nei primi anni Sessanta. Non secoli fa. Eppure, se si guarda al vino veneto, ma anche a quello di numerose altre zone del nostro Paese, sembra passata un’era geologica, o meglio enologica. I consumi nel Veneto superavano i 100 litri pro capite, la “qualità” era concentrata in pochissimi marchi storici ed era la “quantità” a farla da padrona. A questo proposito ricordo che qualche anno dopo, ormai quasi adolescente, andavo ogni anno a vendemmiare con mio fratello in qualche azienda. Dal momento che venivamo pagati a cottimo, cioè a cassette raccolte, tanto per intenderci, andavamo a rubare degli enormi grappoli di Garganega in un vigneto attiguo che non era di proprietà del vitivinicoltore che ci aveva assunto. E questo ci consentiva di riempire in un batti baleno le cassette. Erano anni in cui i tendoni di Garganega, nella zona del Soave, ma anche a Gambellara, arrivavano a produrre oltre 500 quintali ad ettaro. L’uva era uno spettacolo della natura, ma non una delizia del palato quando veniva


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vinificata. In trent’anni è avvenuta una vera e propria rivoluzione, con un’incredibile accelerazione partita dal 1986. Spiegare cosa è successo in quell’anno appare ormai superfluo. Un cambiamento radicale, forse il più straordinario avvenuto nell’Italia del vino. Per certi aspetti quasi inimmaginabile e che ha coinvolto tutto il sistema vitivinicolo veneto, dalle piccole imprese alle grandi realtà cooperative. Sì, proprio così, anche le cantine sociali in Veneto hanno fatto nell’ultimo ventennio progressi straordinari, al punto che alcune di esse oggi sono veri e propri punti di riferimento per l’enologia nazionale, con vini che conseguono premi e gratificazioni da parte della critica enologica nazionale ed estera. Ma soprattutto sono modelli imprenditoriali molto interessanti con capacità di marketing e comunicazione eccellenti. Chi avrebbe mai detto che il Soave, che ad un certo punto veniva additato come una sorta di “defunto dell’enologia nazionale” potesse rinverdire il suo smalto e ritornare ad essere il “Grande bianco d’Italia?”. E chi poteva immaginare che un vino “giovane” come l’Amarone della Valpolicella (molti lo danno nato non prima del 1946 o giù di lì) potesse assurgere in così breve tempo alle alte vette dell’olimpo enologico internazionale? Qui mi fermo. È il racconto di Andrea che vi farà conoscere l’attuale realtà vitivinicola del Veneto. Non è stata una scelta facile la sua. Sicuramente non è mai semplice individuare le storie da raccontare e le eccellenze enologiche che possono meglio rappresentare oggi il Veneto. Per me c’è riuscito e di questo sono felice per lui, ma anche per questo Veneto che oggi sento molto mio. Fabio Piccoli


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Quando si cominciò a coltivare la vite, in questa felice regione, per produrre vino? Andare indietro nel tempo significa affondare nell’abisso della Preistoria e riuscire a interpretare, senza notizie certe, le tracce che sono rimaste. Segni eloquenti come i ritrovamenti fossili in stazioni dell’Eocene, proprio in provincia di Verona, a Bolca, che parlano della presenza di ampeloidee, e anche se ciò non ha niente a che vedere con la coltivazione, sottolinea almeno una predestinazione. Se i terramaricoli che abitarono la Valle Padana nel Villanoviano non avevano ancora conoscenza dello sfruttamento dell’uva per produrre vino, sicuramente è all’età delle palafitte che si deve far risalire la coltivazione della vite, come dimostrano gli scavi di Palada che hanno portato alla luce semi di Vitis vinifera o le falci di vite ritrovate a Isola Vicentina o gli acini di uva, antichissimi ed in buono stato di conservazione, ritrovati a Ca’ Quinta di Sarago sui monti Berici. Probabilmente furono gli Etruschi ad avere responsabilità decisive nel diffondere la vite in questi territori fra il VII e il V secolo a.C., portando quei segreti che già conoscevano, se essi non erano che Fenici. Con essi portarono anche la varietà di una civiltà che veniva dal Mediterraneo, dove l’uomo aveva imparato a fermentare l’uva per ricavarne una bevanda rara, misteriosa, importante, religiosa - sicuramente non consueta - com’è ben dimostrato dagli studi sull’evoluzione dei vasi potori. Si realizzava così, in queste zone, un nuovo centro di domesticazione della vite (dopo quello sirio-anatolico, quello greco-italico, quello etrusco-punico e quello iberico) che portò ad una cultura ben precisa che si rifletterà sui futuri sviluppi delle piantagioni. Da condizioni proprie del bacino del Mediterraneo, tipiche di coltivazioni magre e sofferte, si passava a condizioni ecologiche più adatte allo sviluppo delle piante con viti che iniziavano ad essere allevate sugli alberi o in pergolati. La “scoperta” della possibilità di ottenere abbondanza di prodotto probabilmente colpì e stimolò questi popoli attivi e così l’aumento delle produzioni portò ad una estensione della base di consumo in tutte le classi sociali con una concezione del vino che si divaricava e distingueva fra vini destinati a consumi elitari e popolari. La viticoltura si espandeva, infatti, in vaste aree fino a quelle paludose dell’entroterra veneziano dove i vini assumevano la denominazione di heleos, vale a dire cresciuti in luogo paludoso, come a Ravenna, essendo Elesi il termine che usava Strabone per indicare le paludi attorno a quella città e che è lo stesso usato sempre da Strabone per indicare le paludi di Opitergine (Oderzo), Concordia e Adria. Vi era, di conseguenza, abbondanza di vino nel Veneto nell’età romana e, soprattutto, al tempo di Traiano, quando sia Roma che i paesi del nord Europa consumavano grandi quantità di questo prodotto. Era, per esempio, originario del Pagus Arusnatium (l’attuale Valpolicella) un certo Publio Tinazio Essimnio, negoziator vinarius, del quale esiste monumento funerario a Passau in Germania e ciò dimostra quanta attività muovesse questo prodotto. Se si sottolinea che la qualità di alcuni vini era eccellente (l’Acinatico ed altri sono limpido esempio) non dobbiamo dimenticare che proprio i romani distinguevano anche necrum e vinum: il primo puro, il secondo tagliato con acqua. Ma la crisi dell’Impero romano che si andava via via concretando, ebbe


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ripercussioni negative nelle campagne e soprattutto nella viticoltura che aveva bisogno della costante applicazione dell’uomo. Così la produzione cominciò a contrarsi moltissimo (non dimentichiamo anche l’editto di Domiziano che impediva l’impianto di vigneti) e la domanda delle popolazioni, rimasta per abitudine elevata, continuò ad essere soddisfatta anche con surrogati quali vini di fichi, mele, more, ecc, con ulteriore erosione di quella che oggi chiamiamo “immagine del prodotto”. Nell’Alto Medio Evo troviamo così una coltura fortemente ridimensionata, con le vigne che ricoprivano soprattutto le pendici collinari (vitiferi colles) e con un consumo che conseguentemente riassumeva caratteri elitari con importanti significati qualitativi; ne è un esempio la lettera che Cassiodoro, il grande Ministro di Teodorico, inviava al Canonicario di Venezia per ordinare vini di Verona per il sue re e dove è scritto “bella bianchezza è in esso e chiara purità di modo che… si crederebbe nato di gigli”. La viticoltura diventa quindi coltivazione da curare e preservare; rappresentava il substrato per una ripresa che cominciava e che è documentata dai contratti agrari medioevali dai quali emergono precise impostazioni di pratiche da seguire; è frequente, infatti, l’espressione “ben laborare ed alotare” (letamare). Proprio per alcuni beni del territorio trevigiano vi è esempio di locazioni stipulate nell’anno 894 dall’Abate Austreberto di S. Zeno di Verona, con l’obbligo per il conduttore di arare il terreno almeno ogni anno e di ben letamare le viti almeno ogni tre anni e di piantare dei rasiles (notare che nel Veneto i maglioli sono ancora chiamati rasoli) dove indicato dalla parte padronale. Al di là delle testimonianze di questo e molti altri simili documenti, si evince quale dovesse essere l’abbandono delle terre, se per “ben laborare” si intendeva un’aratura annua e per “ben alotare” una letamazione ogni tre anni! Ma almeno era l’inizio di una maggiore sensibilità. Numerose sono anche le testimonianze per questo periodo relative ai colli Euganei e al padovano, dove, intorno all’anno 1000, esistevano vigneti fin dentro le mura cittadine di Padova. Nel Codice Diplomatico Padovano (anni 853 e 1070) si legge che erano ceduti terreni purché fossero piantate viti nelle zone limitrofe con le paludi di Chioggia e nelle isole di Venezia; è noto che un vigneto esisteva anche nell’attuale piazza San Marco. Vi è poi tutta una serie di documenti, relativi alla coltivazione della vite nel territorio veronese fra il 700 e il 1000 che dimostrano l’estensione che, via via, prendeva la coltura: dal Garda a Sommacampagna, dalla Valpolicella alla Valpantena, fino alla Valle d’Illasi. L’accenno trovato in alcuni contratti sull’obbligo di piantare vigne, si farà in seguito più generale e ciò segna l’inizio di un ulteriore cambiamento nelle produzioni e di conseguenza nei consumi e nella qualità. Con il sorgere dei Comuni e la fine del sistema curtense, la viticoltura continua il suo percorso virtuoso, perché alla viticoltura nobile ed ecclesiastica del Medioevo subentra una viticoltura borghese che mantiene elevato il concetto di qualità. Ne sono esempio e testimonianza gli Statuti Urbani nei quali venivano per la prima volta codificate leggi locali. Ricordiamone alcuni: quelli di Conegliano (1282) con un paragrafo “de vitibus ed olivi plantendis” e con precise regole per salvaguardare la qualità, per preservare la proprietà delle vigne ecc; quelli di Treviso (1313) con regole per la disciplina vendemmiale; quelli di Bassano (il primo del 1259) con molti articoli riguardanti regole di campagna e contro i furti di uva; quelli Ezzeliniani del 1228 (Verona) dove sono previsti risarcimenti per i danni patiti dalle viti; quelli di Alberto I della Scala (Verona) della fine del 1200, con disposizioni riguardanti la custodia delle vigne, la

vendemmia e l’obbligo di impianti nei dintorni della città. All’epoca nasceva anche una terminologia che resta ancora nei dialetti locali, come già visto e alla quale, ora, si può aggiungere per il dialetto veronese quanto trovato in un contratto di mezzadria del 1458 nel quale si parla di stanghe e rangoni (sostegni) e dove torna alotare (per letamare) che resta nell’odierno aloar. Anche la letteratura agricola si interessava della vite, in questo clima di ripresa. Fra tutti gli scriptores Agricolturae va ricordato Pier de’ Crescenzi, bolognese, che illustrò particolarmente la Garganica, importante vitigno delle contrade veronesi e padovane. In questo ambiente, però, sono già presenti quei fattori che porteranno, con l’espansione delle colture della vite, al frazionamento della stessa, all’aumento dei consumi popolari e ad una perdita di qualificazione nel prodotto. Se da un lato la cultura si arricchirà sempre più di opere vitivinicole e le conoscenze miglioreranno sensibilmente, nel 1500-1600-1700 inizierà anche una profonda divaricazione fra questo atteggiamento intellettuale e l’azione di parte della base produttiva che diventerà dominio di classi rurali meno preparate, meno progredite, più povere e bisognose. Le condizioni ambientali favoriranno l’espansione della viticoltura e per la relativa facilità di produzione, l’uva ed il vino diventeranno spesso moneta di scambio per il pagamento di canoni di fitto e materia prima di sostentamento calorico delle classi meno abbienti. Si realizzerà una viticoltura contadina, senza particolari prospettive di commercializzazione dei vini. Ciò prenderà corpo in un modo progressivo, anche se per tutto il 1500 e parte del 1600 molti vini qui prodotti avranno ancora fama e rilevanza. Ma sarà soprattutto nel 1700-1800, quando si intensificheranno i commerci internazionali che i nostri prodotti saranno posti in secondo piano, perché altre nazioni sapranno imporre i loro vini. A fine 1500 il Bacci ricordava ancora le zone del Garda “ricco di ottimi vini” i quali andavano fin nell’interno della Germania; i vini Rezii di Plinio e l’Acinatico di Cassiodoro e poi “la medesima fecondità di vini si estende fino a Padova e Vicenza”; ottimi erano giudicati quelli dei Colli Euganei e delle colline della Marca Trevigiana. Fra’ Leandro Alberti nel libro Descrittione di tutta l’Italia parlava dei “perfettisimi vini del nobile Castello di Conegliano… abbondante delle cose per il vivere dell’Huomo”!


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Una Reformazione del Magnifico Consiglio di Conegliano, del 20 gennaio 1542 affermava: “…di quanta importanza al momento sia il vender li vini di monte di questo territorio, quali per la maggior parte sono allevati et comprati da tedeschi, con utile universale di tutte queste terre…”. Nel 1606 in una Relazione al Senato Veneziano di Zaccaria Contarini, Podestà e Capitano di Conegliano si legge “…cavandosi dalli monti in quantità di vini dolci e di altre sorti eccellentissimi, dei quali se ne vanno in gran parte in Alemagna e fino alla Corte di Polonia…”. Poi con il 1700 e l’Illuminismo arriva soprattutto il momento delle “Accademie”; nella Repubblica di San Marco sorgono in Verona, Padova, Rovigo, Vicenza, Belluno, Treviso, Feltre e Conegliano. A questo fiorire di studi, però, fanno sempre da contrappunto coltivazioni viticole in decadimento, abbandono, ricche di confusione, tanto che emerge, sempre più importante, la richiesta di miglioramento. Il 26 febbraio 1772, in una riunione dell’Accademia di Conegliano, Francesco Maria Malvolti e il Nob. Rev. D. Antonio Del Giudice, attribuivano la colpa della produzione di vini scadenti e la perdita ancora dei mercati esteri all’imperizia nella coltivazione della vite e nella vinificazione e Del Giudice condannava “l’ingordigia dei villici in libertà dalle negligenze de’ Padroni”. Dopo il freddissimo inverno del 1709 che aveva distrutto gran parte delle viti, nell’opera di reimpianto le classi rurali si erano affidate di preferenza a varietà abbondantemente produttive, senza particolare attenzione alla qualità e così si concretava in ogni zona la diffusione di una miriade di vitigni e si realizzava un altro aspetto negativo del sistema. Le Commissioni del Comitato Centrale Ampelografico che il Regno d’Italia istituirà nel 1872, troveranno una situazione davvero degradata e così nel Veneto, dove le spinte allo sviluppo della coltivazione viticola vanno ricercate, dopo la caduta della Serenissima, soprattutto nell’interesse del contadino, spesso fittavolo, a soddisfare da un lato il suo consumo domestico e dall’altro a saldare con il vino il canone di fitto al proprietario terriero. Lo ricorda bene Francesco Rota nel 1801, scrivendo: “ma l’uso che non da molto tempo si è introdotto, di formare il prezzo del vino al tempo della raccolta, per conteggiare la sua porzione colonica, ma che ben presto viene accresciuto sullo esito a solo profitto del proprietario, forma nel colono la maggiore e più svantaggiosa indolenza alla coltivazione delle viti le più feconde e le più scelte”. A questo proposito, un concetto importante esprimeva nel 1843 Pietro Selvatico Estense, il quale indicava due vie per riformare l’agricoltura veneta: separare le coltivazioni e convertire in denaro il canone di locazione, proprio per combattere i già ricordati fitti in vino e frumento, responsabile del diffondersi della viticoltura ovunque ed anche in terreni che oggi definiremmo “non vocati”. Anche se continuavano ad esistere nobili eccezioni, si era, dunque, in presenza di una cattiva viticoltura e di una cattiva enologia, con vini destinati solo al consumo locale, con produzioni di vini piccoli per i contadini, tanto che solo i dazi doganali permettevano un relativo smaltimento nel mercato austriaco. A giudicare negativamente l’enologia veneta erano anche le Autorità Pubbliche, come il Delegato di Vicenza nella sua relazione del 28 dicembre 1822 e la Commissione Governativa il 23 marzo 1844. Il problema quindi si stava imponendo all’attenzione degli esperti che cominciavano ad impegnarsi per risolverlo, tanto che ebbe inizio una stagione ricca di azioni di rilancio. Il dottor Giulio Comuzzoni presentava nel 1866 all’Accademia Agraria di Verona una Memoria “sopra l’opportunità di istituire nella nostra provincia una Società Enologica” che avrebbe dovuto incentrare la propria opera per il miglioramento dei “circondari


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viticoli”. Altra notizia importante e da segnalare come significativa del risveglio che si attuava, si ricava dalle Osservazioni Agrarie del 1873 nelle quali vi è notizia di uno studio di 100 varietà di vini veronesi. Nel 1876 si tenne a Verona il secondo Congresso Enologico Italiano a dimostrazione di una reputazione che si rifaceva strada. Intanto anche a Conegliano nel 1868 veniva fondata una Società Enologica Trevigiana per la fattiva opera di un grande pioniere, Antonio Carpenè, e dell’Abate Felice Benedetti. La Società si poneva scopi di istruzione e di commercializzazione dei prodotti. Tra l’altro nasce di lì l’individuazione di vitigni da valorizzare come il Prosecco, alla cui selezione si andava applicando il Conte Balbi Valier. Venivano intrapresi numerosi ed interessanti studi come la basilare pubblicazione di A. Carpenè e A. Vinello dal titolo La vite e il vino nella provincia di Treviso. Il Comitato Ampelografico per la provincia di Treviso si metteva al lavoro e G. B. Zava definiva nel 1901 l’Elenco descrittivo dei vecchi vitigni coltivati nel Veneto secondo il nome volgare delle uve e scriveva: “… ora che la nostra viticoltura sta segnando un nuovo indirizzo… parmi tanto più necessario di stabilire quali vitigni meriteranno di essere conservati, tenuto conto delle esigenze dei consumatori, del bisogno di avere poche ma buone uve che possano finalmente dar luogo alla confezione di un vino da pasto buono, apprezzato qui e fuori d’Italia…”. Si insisteva sul lavoro di scelta delle varietà e di miglioramento delle tecniche enologiche che venivano seguite e insegnate dalla famosa Scuola di Enologia che intanto (nel 1876) era sorta a Conegliano e che diventerà il centro di ogni positiva futura realizzazione. I vitigni migliori erano così messi in coltivazione: sia quelli tradizionali che una serie di vitigni stranieri che erano stati sottoposti al vaglio di sperimentazioni e di investimenti aziendali. Vanno citate prove del 1898 eseguite presso la Scuola di Conegliano con Cabernet Sauvignon, va ricordata la tenuta Lispida dei Conti Corinaldi presso Padova, dove nel 1870 si provavano Cabernet, Riesling e Pinot nero; le aziende di Bertani in Valpantena dove, oltre ai vitigni locali, si lavorava con Syrah, Cabernet e Sangiovese; l’azienda del Barone Bianchi a Mogliano Veneto, dove su 20 ettari di vigneto, si ottenevano interessanti risultati con Riesling, Silvaner, Pinot nero e Pinot grigio. Era una vera ripresa che si concretava e che trovava, dopo il 1923, azioni ancora più incisive ad opera della Stazione Sperimentale per la Viticoltura che era sorta per volere del Prof. Dalmasso in Conegliano e che istituiva centinaia di campi sperimentali. Si concretava, in definitiva, una linea ben precisa di sviluppo che tutt’ora connota l’enologia veneta: la valorizzazione contemporanea di vecchi vitigni (Corvina, Garganega, Raboso, Prosecco, Refosco, Moscato, Manzoni Bianco…) e di vitigni di altre provenienze (Cabernet Franc e Sauvignon, Chardonnay, Pinot, Riesling…) a dimostrazione sia dell’attaccamento di queste popolazioni alla loro tradizione che di uno spirito attento anche alle innovazioni. Atteggiamento che guiderà, certamente anche in futuro queste produzioni. I vini veneti uscivano dalla crisi e dall’anonimato e si realizzava concretamente quanto già nel 1888 ebbe a dire G. B. Bertani in un Congresso di Viticoltori a Padova: “la qualità che in essi primeggia costantemente è il profumo… ed una certa freschezza di gusto… È appunto sopra queste due qualità che l’enotecnico dovrebbe fissare la sua attenzione, perché esse sono intimamente collegate alla natura dei vitigni, al clima e al terreno…”. Stupendi connubi i cui interpreti sono diventati attenti e numerosi, come dimostrano le pagine di questo volume. Antonio Calò Istituto Sperimentale per la Viticoltura di Conegliano Veneto


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La regione è una, ma le situazioni vitivinicole presenti sul territorio sono così tante che è difficile parlare di “un” Veneto; infatti la sua grande eterogeneità produttiva lo rende lo specchio, fatte le debite proporzioni, della stessa Italia del vino. Una nazione che presenta, accanto a grandi denominazioni, note in tutto il mondo, altre, più piccole e più numerose, che risultano quasi del tutto sconosciute. Realtà vitivinicole che in entrambi i casi, di solito, mostrano accanto a poche grandi aziende, famose ai quattro angoli della terra, un’infinità di piccole e medie aziende la cui notorietà stenta a varcare i confini nazionali. In queste aree convivono situazioni di forte dinamicità e modernità orientate verso una produttività di alta qualità, con altre arroccate su concetti obsoleti e di scarso sviluppo che propongono una viticoltura ancora preoccupata di fare solo quantità. Ma se è difficile parlare di una “situazione Veneto” unica, allo stesso modo rimane complicato parlare di zone viticole più fortunate rispetto ad altre. Quella che possiamo offrire è quindi una chiave di lettura diversa, che indica quali sono gli operatori che determinano certi orientamenti. In un momento in cui il vino assume valori soprattutto edonistici piuttosto che alimentari, è necessario abbinare ad esso i valori e i contenuti dei territori dove essi sono prodotti, anziché limitarsi a soddisfare le esigenze della piccola e grande distribuzione organizzata. Accade così che, accanto a territori che hanno scelto la via della promozione dei fattori industriali, facendo leva sul prezzo dei prodotti e su una buona qualità dei vini, ce ne sono altri che hanno posto in primo piano, come valore aggiunto, il loro sistema produttivo che si basa su princìpi artigianali, agricoli, unici e inimitabili oltre che esclusivi, rendendo più attuale e completa l’offerta del proprio vino. Altri ancora, invece, si sono fossilizzati su interpretazioni stilistiche, ormai divenute obsolete, non riuscendo a sfruttare le innovazioni tecnologiche proposte dall’enologia. Sappiamo bene che uno dei fattori di successo dell’enologia dei nostri giorni è proprio la capacità di interpretare la tradizione e il proprio territorio alla luce dell’evoluzione del gusto del consumatore proponendo di conseguenza modelli di vini più moderni. A tutto ciò vanno aggiunti altri elementi importanti come la capacità e la volontà degli imprenditori vitivinicoli che in alcune aree del Veneto, più che in altre, hanno saputo conciliare i fattori artigianali del vino con quelli industriali, realizzando in tal modo una riduzione dei costi produttivi che ha permesso loro di porsi in maniera più moderna e competitiva sui mercati internazionali. Se pensiamo che il Veneto è una delle regioni più importanti dal punto di vista viticolo, con una superficie vitata di 69.000 ettari, 34 zone Doc e 3 Docg, concentrate nelle province di Treviso e Verona, si potrebbero determinare i suoi punti di forza che sono: Regionalità e riconoscibilità Una delle caratterizzazioni più forti del vino veneto è la regionalità. Non esiste il vino “italiano”, se non come categoria in alcune carte dei vini. La riconoscibilità è soprattutto quindi regionale e questo è un punto di forza straordinario di tutta la nostra produzione, perché in questo modo il consumatore può riconoscere meglio


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il vino veneto, piemontese o toscano. La valorizzazione della propria identità è un altro aspetto vincente dell’enologia italiana, ferma restando la modernità dell’approccio produttivo e del messaggio comunicativo, che a mio avviso il Veneto possiede da sempre, essendo iscritta nel suo DNA. La nostra regione, infatti, può contare su numerose uve originali e importanti, dalla Garganega al Vespaiolo, dal Raboso alla Corvina, dal Prosecco al Verduzzo, ecc… Unicum territoriale Si dice spesso che la competizione sempre più aggressiva dei “nuovi” paesi produttori sta mettendo in difficoltà quelli del Vecchio Continente. È vero. I competitors del Nuovo Mondo hanno costi di produzione molto più bassi a fronte di prodotti di

alta qualità. Ma ad una enologia basata in prevalenza sulla tecnica, noi abbiamo la possibilità di contrapporre una qualità differenziale molto più elevata, perché fondata su una tradizione enologica capace di offrire qualità percepita: abbiamo storia, territorio, tradizione, uve autoctone che fanno effettivamente la differenza. Ovvio: se riuscissimo a contenere i costi di produzione potremmo investire di più anche nella comunicazione e nell’educazione. È infatti importante educare il consumatore a bere bene, spiegando quali sono le caratteristiche della regione di provenienza di un certo vino, che non sono solo di tipo produttivo, ma anche culturali. Nel Veneto esiste una cultura originale e caratteristica che inizia dal dialetto e finisce con il bicchiere di vino e che comporta un’educazione al bello, al semplice, al gusto, all’armonia d’insieme che si crea fra il cibo veneto con il vino veneto. Una ricchezza


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che si manifesta nello stesso territorio; infatti il paesaggio veneto è in grado di offrire le più diverse vedute, fatte di mare, monti, fiumi, laghi, pianura, colline e città d’arte. Un unicum che si riflette anche nel carattere della gente veneta, che è mite, arguta, ospitale, discreta, intelligente, laboriosa. Una popolazione cordiale come i vini che produce. Tipicità Costretto fra l’unità territoriale di base e la dilatazione dei fattori umani, nel concetto qualitativo della tradizione europea il vitigno passa in secondo piano. Infatti la nozione di terroir, intesa come circolo virtuoso che si instaura tra uomo, territorio e vitigno, non funziona solo come riferimento per la qualità, ma anche come suo strumento di difesa; nessuno può appropriarsi del terroir che è appannaggio esclusivo di coloro che lo vivono. Dal punto di vista agronomico, il terroir può essere messo in relazione con il clima e con la composizione geologica del terreno, capace di imprimere al vino caratteristiche organolettiche particolari, tali da giustificare le differenze fra i vari prodotti. Ma allo stesso tempo non va sottovalutato l’apporto dell’uomo nelle fasi di produzione dell’uva e del vino. Alla fine, il vino sarà soprattutto l’espressione del suo territorio, che in senso lato lo renderà inimitabile e incomparabile per definizione, perché organoletticamente specifico, perciò tipico. Anche questa nozione può essere assunta quale punto di forza dell’enologia veneta: non va però dimenticato che essa trova attuazione solo laddove enologi e produttori usano tutte le loro conoscenze e i mezzi tecnici a loro disposizione per enfatizzare l’espressione territoriale dei loro vitigni, ricercando ed esaltando la loro diversità e originalità, anziché tentare di renderli simili a certi modelli di vini internazionali, forse più facili da capire, ma anche più anonimi e banali. Vitigni autoctoni: l’originalità veneta Grazie ad una rivoluzione enologica e viticola tuttora in atto, che ha permesso a moltissime aziende di compiere veri e propri balzi in avanti in termini di qualità dei vini, negli ultimi anni il Veneto ha inanellato una serie di successi commerciali a livello mondiale che non trova facilmente riscontro in altre regioni. È il caso, per esempio, del successo del Pinot grigio, di quello del Prosecco e, più di recente, del successo dell’Amarone della Valpolicella e del Valpolicella Superiore Ripasso. Tutti vini, è bene ricordarlo, tratti da uve autoctone o, come nel caso del Pinot grigio, presenti da così tanto tempo in terra veneta da aver sviluppato un perfetto ambientamento. Per contro, le aree viticole venete che oggi godono di minor fortuna sono quelle in cui prevale la coltivazione dei vitigni internazionali come il Merlot, il Cabernet Sauvignon, lo Chardonnay. Non perché questi vini siano meno buoni, o meno attuali di altri, ma perché devono confrontarsi direttamente con vini analoghi, provenienti da aree dove i costi di produzione sono più competitivi. Viceversa, il Veneto gode di un vantaggio incomparabile: una grande varietà di cultivar bianche e rosse, grazie alle quali è in grado di offrire una gamma pressoché completa di vini: spumanti, fermi, frizzanti, di pronta beva e da invecchiamento, secchi e dolci. L’importanza della tecnica L’originalità del vino veneto viene sottolineata anche dalla diversità delle modalità produttive. È vero. La tecnologia enologica moderna è a disposizione di tutti. Le tecnologie di vinificazione messe a punto dalla ricerca possono essere adottate da chiunque, in Italia come in Australia o in Cile. Tuttavia, un ruolo importante continua a giocarlo anche la tradizione enologica delle singole zone venete: un patrimonio


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come la tecnica dell’appassimento delle uve, per esempio, che già in Veneto avviene con modi e tempi diversi; in fruttaio o all’aperto, assistito o naturale, in cassette o su picai, spaghi appesi al soffitto, affonda le sue radici nella storia, negli usi, nella cultura del popolo veneto, e come tale non è replicabile altrove. Gli enologi: protagonisti del successo Accanto all’indubbio talento imprenditoriale dei produttori veneti, alla loro capacità di intuire le tendenze del mercato e di assecondarle, quando non di precederle, non vanno dimenticati i molti meriti della Scuola Enologica di Conegliano, primo Istituto italiano a specializzazione viticolo-enologica, fondato nel 1876. Non solo la sua presenza contribuì a rifondare quasi ex-novo la viticoltura del Veneto, pressoché azzerata dopo i grandi flagelli che segnarono l’Ottocento viticolo - oidio, peronospora, fillossera - ma ancora oggi è una fucina di nuovi talenti enologici. Da Conegliano infatti sono usciti alcuni dei più brillanti enologi dei nostri giorni, protagonisti di una produzione in grado di bene interpretare le peculiarità del territorio rispondendo alle moderne richieste dei consumatori. I punti di debolezza Massa Critica: quando anche la quantità è importante Per affrontare il mercato globale e fare in modo che una Doc giochi un ruolo di rilievo, occorre avere le spalle molto larghe. Per questo, se guardiamo alle Doc venete, notiamo subito che i vini di maggior successo sono quelli che possono vantare una consistenza produttiva notevole come Prosecco, Soave, Valpolicella. Accanto a queste esiste una galassia di altre produzioni di nicchia, alcune delle quali di un certo pregio, come il Vin Santo di Gambellara. Tutte sono funzionali all’immagine di un Veneto vinicolo di qualità, ma non sono adeguate ad affrontare la concorrenza sui mercati internazionali, perché prive di una massa critica sufficiente. E questo è uno dei punti di debolezza del sistema-vino della nostra regione. Ma non solo. Se si prescinde da poche lodevoli eccezioni, come l’Amarone della Valpolicella, la produzione enologica veneta si compone soprattutto di buoni, onesti vini, con un ottimo rapporto qualità-prezzo, ma probabilmente privi di quel glamour, di quel fascino che viene attribuito ad altre produzioni, cosa quest’ultima che ha fatto la loro fortuna. L’immagine percepita A dispetto della bontà dei suoi vini e del credito di cui godono all’estero alcuni di essi in particolare, non si può dire che quella veneta sia un’immagine regionale particolarmente forte o radicata nell’immaginario collettivo, al pari di altre come la Toscana, il Piemonte o l’emergente Sicilia. La mancanza di una strategia di comunicazione e di marketing unitaria, efficace e duratura è, infatti, una delle carenze strutturali più vistose del sistema-Veneto, un elemento questo di debolezza aggravato anche dall’eterogeneità delle situazioni. Infatti, accanto a piccole aziende fortemente impegnate sul fronte della qualità, sia dei loro vini, sia della propria immagine, e a cantine cooperative lungimiranti che riescono a trainare intere zone di produzione grazie al loro essere market oriented con vini di alta qualità, continuano ad esistere realtà private e cooperative che si limitano alla semplice trasformazione dell’uva e all’imbottigliamento del vino, demandando a terzi la commercializzazione e il rapporto con il consumatore finale, evitandosi l’impegno di elevare l’immagine, che molte volte è anche sostanza, dei loro vini e della loro zona.


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Difficoltà di aggregazione Un altro aspetto problematico del Veneto vitivinicolo è dato dalla sua difficoltà, che in alcuni casi diventa ostilità, a “fare gruppo”. In Veneto, insomma, è difficile parlare di aggregazione, si tratti di fusioni tra cantine cooperative o di iniziative promozionali collettive. Non si tratta di carenza di mezzi economico-finanziari, quanto piuttosto di un problema culturale e psicologico. Ciascun attore della filiera preferisce far da sé a tutti i livelli, ignorando i vantaggi anche economici che derivano dal gioco di squadra. Con il risultato che, alla fine, è il mercato a imporre di compiere certe scelte di aggregazione, con esiti a volte per nulla indolori. Un vigneto poco orientato alla produzione Negli ultimi dieci anni si è fatto molto per rinnovare la viticoltura e i cambiamenti in termini di miglioramento dei vini sono già percepibili; tuttavia resta ancora molto da fare. Troppa parte del vigneto veneto, infatti, è ancora orientato ad una produzione quantitativa, mentre l’obiettivo della qualità finale è affidato semplicemente alle capacità tecnologiche della cantina e a quelle professionali dell’enologo. Viceversa, un reale rinnovamento della produzione deve partire innanzitutto dalle scelte viticole che si compiono nel campo, che devono vedere protagonisti e alleati sia l’agronomo o il tecnico viticolo, sia l’enologo. Per entrambi l’obiettivo deve essere lo stesso: un vino caratteristico del proprio territorio, in grado di trasmettere al consumatore tutto il fascino e l’originalità dell’area di produzione, quando non del vitigno. Marketing, ricerca e sviluppo: le zone d’ombra del Veneto agricolo Ormai non c’è azienda grande o piccola che non abbia vissuto una personale e più o meno grande “rivoluzione tecnologica”. Ci sono apparecchi e strumenti senza i quali è diventato impensabile produrre vino di una certa qualità. Ciononostante, non sempre al miglioramento tecnologico in atto seguono un necessario adattamento ed un orientamento al mercato. La tendenza è ancora quella di dieci o vent’anni fa: prima si produce il vino e poi si cerca di venderlo. Viceversa, il mutato scenario dei mercati mondiali, sempre più affollati di nuove proposte e nuovi paesi produttori, richiede di stabilire quali sono le richieste del consumatore finale e, una volta individuato il corretto posizionamento per il nostro prodotto, sostenerlo attraverso le iniziative commerciali, di comunicazione e di marketing più opportune. Purtroppo, marketing e comunicazione sono un altro punto di debolezza dei produttori veneti; sono poche infatti le aziende strutturate per affrontare i mercati anche da questo punto di vista, scarsi o quasi nulli gli investimenti dedicati. Lo stesso dicasi per il settore ricerca e sviluppo: non può esserci progresso se non c’è sperimentazione, la quale al momento avviene soprattutto per iniziativa di enti pubblici e istituzioni, dai quali si aspettano risultati e novità, mentre l’apporto della base produttiva è sempre molto limitato, quasi timido. Mancanza di cultura imprenditoriale o… di coraggio? Forse di entrambe le cose. Intanto però, queste debolezze cominciano ad influire negativamente sulle performances dei nostri vini all’estero. Il futuro Una più accorta politica dei prezzi, che non veda in essi l’unica arma di competizione, ma solo uno dei molti strumenti a disposizione dei produttori per essere competitivi, una preparazione professionale più in linea con i progressi tecnologici, ma soprattutto con le moderne esigenze manageriali delle aziende,

una maggiore attenzione alle problematiche del marketing e della comunicazione, potrebbero essere i punti principali sui quali, a mio avviso, occorrerà focalizzare l’attenzione nei prossimi anni. Il tutto all’interno di un quadro produttivo dal quale emerga chiaramente l’orgoglio per la nostra regionalità, per il nostro essere Veneti. Possiamo pensare di rispondere alle sfide della globalizzazione solo facendo leva sulle nostre diversità, sulla nostra storicità, sulla nostra tradizione e quindi sulle nostre denominazioni. L’origine è il nostro vero punto di forza. I nuovi consumatori, dotati di un livello culturale più elevato che in passato, ci richiedono prodotti capaci di parlare del territorio e di evocarne la storia. Per questo, sempre più in futuro l’elemento di maggior competitività sarà la nostra capacità di esaltare e comunicare le nostre singole peculiarità territoriali in maniera più efficace e moderna. Sono certo che il Veneto vitivinicolo, noto per la sua laboriosità ed ingegno, saprà ancora una volta leggere le nuove esigenze del mercato ed adottare i necessari cambiamenti per rimanere così protagonista in campo nazionale ed internazionale. Daniele Accordini, Enologo Presidente Assoenologi Veneto Occidentale


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“Il futuro della viticoltura e del vino nel Veneto. Opportunità e vantaggi, problematiche e incertezze” Il Veneto è la seconda regione italiana per produzione di uva da vino, dopo la Puglia per “soli” 100.000 quintali ed ha avuto nel 2006 una produzione di 7.207.587 quintali di uva. Il Veneto è quindi terra da vino, la cui produzione è una pratica tradizionale che si perde negli anni e coinvolge economicamente un numero di famiglie elevatissimo. Con questa considerazione è facile constatare come il vino sia un valore socio-economico importante per questa regione, basti pensare che ancora oggi sono molti i giovani che abbracciano l’agricoltura anche in territori dove praticarla non risulta facile e le colline di Valdobbiadene, ripide, scoscese e di difficile se non impossibile meccanizzazione, ne sono la prova. Il Veneto quindi ha molteplici opportunità di poter soddisfare, in termini di quantità e qualità, con produzioni tipiche e a Denominazione di Origine Controllata con un buon rapporto qualità-prezzo, i mercati: sia quello nazionale che quello internazionale, sia la grande distribuzione che la ristorazione. Il vantaggio di avere produzioni enologiche in grado di soddisfare trasversalmente le esigenze del mercato si traduce in economia ridistribuita sul territorio a garanzia della continuità nella produzione. Il lato debole e criticabile è che il Veneto non ha ancora saputo dare un valore aggiunto al vino attraverso il proprio territorio, “un marchio di area” che potrebbe essere sfruttato meglio e che solo in alcuni casi è stato ben promozionato e tutelato dagli operatori. Se il valore aggiunto legato alla qualità e la capacità di posizionarsi sul mercato sono proporzionali all’imprenditorialità, il valore aggiunto delle varie denominazioni è un bene comune dei produttori che devono trovare una precisa loro riconoscibilità. La capacità imprenditoriale dei produttori veneti non è in discussione ed i successi di mercato lo dimostrano, così come lo dimostrano i vertici qualitativi raggiunti. Molto c’è invece da fare relativamente al valore dei marchi di area: Doc e Igt. I produttori veneti potrebbero organizzarsi meglio ed ottenere migliori risultati se fossero più propensi ad autofinanziarsi per la promozione oltre che a tutelarsi nelle loro produzioni tipiche e a favorire controlli di filiera a garanzia del consumatore. Qualità del vino e promozione adeguata hanno un senso se c’è anche garanzia per il consumatore: è la strada percorsa nelle principali denominazioni fra cui Conegliano e Valdobbiadene. L’unica incertezza è proprio questa: riusciranno i produttori a prendere decisioni a questo riguardo velocemente? Il caso Prosecco è emblematico e può essere vittima del proprio successo, avendo portato, inevitabilmente, all’“esportazione” del vitigno in altre aree del mondo le quali si stanno affacciando sui mercati, anche se il Veneto detiene ancora la totalità della produzione. Mi domando che cosa aspettiamo a legarlo ad un territorio, a promuoverlo e a tutelarlo attraverso una Doc e infine ad identificarlo come autoctono, evitando che con questo nome venga prodotto in Cile o in Nuova Zelanda? Aspettiamo ancora una volta che i produttori si riconoscano nel problema e decidano di lavorare assieme scoprendo quanto è importante il valore del marchio di area, allargando i propri orizzonti ed investendo maggiormente per il futuro. Franco Adami


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Il vino è il documento della vite, espressione del territorio dove cresce e vive. Io penso che la terra del Piave si esprima bene in un’interpretazione enologica dei vini che raccolgono la vicina tradizione delle bollicine charmat di collina che valorizzano anche i vitigni autoctoni di pianura oltre alla tradizione dei vini rossi barriccati. Credo che in particolare gli spumanti rappresentino la chiave vincente sul mercato mondiale perché riescono ad esprimere lo stile veneto recepito dal mercato in quantitativi interessanti per colonizzare le terre lontane e creare un’opinione nei nuovi consumatori che ben poco conoscono del vino e della sua tradizione. Loris Casonato

Il Veneto è senza dubbio una delle regioni italiane a maggiore vocazione viticola ed enologica, e di più antica tradizione in tal senso. Oltre ad essere la mia terra, è una delle aree che conosco meglio dal punto di vista professionale e ho potuto constatare, negli anni, come essa possegga una vasta gamma di terroirs dalle forti e incisive personalità i quali, in alcuni casi, sono ancora non del tutto espressi. Altro elemento di forza riguarda lo straordinario patrimonio di varietà autoctone, in grado di incuriosire e attirare il mercato nazionale e internazionale. Insomma, questa viticoltura veneta ha tutte le carte in regola per continuare a giocare seriamente con il mercato su diversi piani, incuriosendo vecchi e nuovi acquirenti, ma affinché per il futuro l’offerta possa imporsi in maniera forte e definitiva, ritengo sia necessario identificare, al di là delle scelte contingenti di natura agronomica ed enologica, anche altri elementi di cui la regione è altresì ricchissima, come il territorio, con la sua storia e il suo patrimonio artistico che tutto il mondo ci invidia, e la cultura che contraddistingue lo spessore etico delle popolazioni locali. Quello che auspico è che vi sia un linguaggio nuovo di presentazione dei diversi “prodotti-territorio” che non si limiti all’elencazione dei requisiti tecnici, ma stimoli bensì concetti più elevati e poetici per un vino che sempre più possa diventare l’immagine della filosofia che anima il Veneto. Roberto Cipresso

Il Veneto si trova di fronte ad un bivio, dove da una parte ci sono ancora sostenitori più della quantità, anche se esprimono questa loro opinione a bassa voce, e dall’altra ci sono quelli, come me, che si giocano tutto per la qualità e pur avendo voce per gridarlo non sono purtroppo ancora un grande gruppo affiatato. La competizione diventa sempre più un confronto a livello mondiale ed in qualsiasi settore, sia esso industriale che non, i costi di produzione che si hanno nel vecchio continente sono sicuramente più alti che nei nuovi paesi emergenti. Da qui si capisce che il confronto ad armi pari non può esistere con chi possiede estensioni vitate enormi rispetto alle nostre e perciò siamo chiamati a produrre beni sempre più specifici, innovativi e non solo per quanto riguarda il vino. Tutto quello che dobbiamo fare deve essere fatto all’insegna di una rigorosa ricerca della qualità, che deve sfociare in una produzione quantitativamente più ristretta che terrà il mercato con una domanda un po’ più elevata rispetto all’offerta. Per di più i produttori veneti, e in particolare quelli dell’area veronese, devono sfruttare al meglio la tecnica dell’appassimento delle uve che, pur provenienti da vigneti piantati con determinati criteri qualitativi, deve servire ad arricchire il frutto ed il corpo del


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vino. Spesso purtroppo si vede ancora applicare il sistema di appassimento ad uve di media-scarsa qualità; così facendo si ottiene solo un parziale recupero di quella qualità che in altre zone riescono ad avere con un’uva fresca. Il mio punto di vista è quindi chiaro… Parola d’ordine: “Qualità” senza compromessi.

Nell’ottica della sempre maggiore regionalizzazione dei consumi, nella Regione con più presenze turistiche d’Italia bisogna riuscire a comunicare meglio la storia e la qualità dei nostri vini. Un’operazione culturale volta a recuperare l’orgoglio delle nostre migliori tradizioni con l’obiettivo di arrivare ad una “Carta Regionale” che possa contenere la gran parte dei vini veneti di qualità da proporre al turista e anche al Veneto, cercando di dare dignità ad ogni Doc. Bisogna anche rendere coscienti i consumatori delle differenze tra un vino “agricolo”, magari di collina ed uno “commerciale”, perché spesso c’è ancora troppa confusione. Credo che così facendo e perseguendo la politica del miglior rapporto qualità-prezzo si possa guardare avanti con ottimismo.

Premetto che la terra veneta è per natura generosa, grazie ai terreni vocati al buon clima, ai vitigni coltivati e alla gente operosa. Siamo fortunati, quindi, a lavorare in un territorio nel quale le vendemmie per così dire “difficili” sono rare. La “vigna del futuro” richiederà sicuramente più attenzioni, più cure e più premure. C’è bisogno di costruire un legame più profondo tra uomo e natura facendo attenzione alle fasi che interessano la filiera produttiva, a partire dal vigneto fino alla cantina, avendo un atteggiamento più rispettoso nei confronti della natura, attraverso la quale valorizzare i caratteri che creano la differenza tra una vigna e l’altra. Dobbiamo salvaguardare quel patrimonio genetico-varietale tramandatoci da generazioni, evitando, nell’impianto di un vigneto, l’utilizzo soltanto di alcuni cloni. I vini sicuramente ne perderebbero in complessità. È di fondamentale importanza rispettare maggiormente la terra e la vigna orientandosi ad una coltivazione più naturale possibile. Inoltre sarebbe consigliabile prolungare l’età media dei vigneti per avere vendemmie meno abbondanti, ma più pregiate. In cantina poi non dobbiamo “fare” o “costruire” i vini, ma semplicemente “seguirli” nella loro evoluzione, evitando di standardizzarli, ricercando una maggiore purezza ed un’espressione più naturale, arrivando così, quando abbiamo il bicchiere in mano, a “vederci dentro” cosa è stato capace di fare questo nostro territorio.

Giordano Emo Capodilista

Sandro Gini

Il Veneto, oltre ad essere la prima regione d’Italia in termini di quantità di ettolitri prodotti ogni anno, è anche uno dei pochi territori dove è possibile passare dal vino da tavola all’eccellenza qualitativa. È una viticoltura che si espande dalla Pianura Padana al limite della zona delle Alpi; gode dell’influenza di un microclima che, sfruttando l’influenza sul territorio da una parte del Mar Adriatico, dall’altra del Lago di Garda e della catena montuosa delle Dolomiti, crea le basi perché si formino stagioni non molto fredde e grandi escursioni termiche fra il giorno e la notte. Altre peculiari caratteristiche, oltre la diversità dei terreni, alcuni dei quali risalgono all’Eocene e cioè all’epoca delle glaciazioni e al periodo delle eruzioni di vulcani marini, sono la presenza di oltre cento varietà di vitigni autoctoni e una storia viticolo-enologica presente già all’epoca Romana. La Valpolicella è oggi la zona a cui viene attribuito il vino più importante nella proposta italiana, ovvero l’Amarone, il cui metodo di produzione viene ormai da anni copiato a livello mondiale, anche per altri vitigni. Le opportunità e i vantaggi del vino veneto si basano non tanto sulle sue peculiari caratteristiche organolettiche, ma sugli elementi distintivi del suo popolo, che è sempre stato cocciuto, laborioso, instancabile e risoluto nell’ottenimento dei massimi risultati in tutti i campi produttivi in cui si è trovato ad operare. È con questo principio e per questo motivo che forse la Valpolicella, la zona che mi interessa particolarmente, ha risentito meno dell’ultima flessione dei mercati, poiché, nel periodo florido che l’ha preceduta, ha ammodernato le sue strutture aziendali sia per quanto riguarda l’innovazione tecnologica in cantina, sia nei vigneti, innalzando la qualità generale della produzione enologica con punte di eccellenza che hanno contribuito a far porre alla critica internazionale l’attenzione su questo territorio.

Credo da tempo che il Veneto sia una delle “belle addormentate” del vino italiano. Le zone di successo sono 2: Verona e Treviso. In entrambi i casi una serie di fattori ha portato alla ribalta, in ordine di tempo, il Soave, il Valpolicella, l’Amarone e il Prosecco. Queste zone, che hanno oggi una reputazione mondiale, possono e devono crescere ancora molto in termini di viticoltura. Salvo eccezioni, quest’ultima è perlopiù rimasta immutata dai tempi in cui non si producevano ancora vini in bottiglia, salvo effettuare su di essa azioni e stratagemmi per determinare una riduzione delle rese. Ciò non toglie che il territorio sia strepitoso, sia per originalità, sia per varietà, portando il Veneto ad assumere il ruolo di unica regione italiana che può eccellere in tutto, con grandi bianchi, rossi, spumanti e vini dolci, avendo ancora la possibilità di sfruttare aree ancora quasi totalmente inespresse sotto l’aspetto vitivinicolo come i Colli Euganei, le Prealpi e i Colli Berici su cui sto lavorando con risultati che ritengo fortemente motivanti. Altra riflessione, ma non meno importante, riguarda il contributo che dovrebbe essere fornito alla vitivinicoltura in termini di risorse umane con un mix di esperienza, tradizione e innovazione e ricerca; invece al settore viene data soltanto un po’ di manovalanza e scarsa professionalità, visto che un gran numero di addetti ai lavori è stato strappato all’agricoltura dallo sviluppo economico industriale. Il risultato è un cooperativismo bieco nella parte più bassa della produzione ed un’imprenditoria agricola non propriamente “illuminata” dall’altra parte. Le poche eccezioni sono la vera innovazione migliorativa. A mio parere ancora poco seguite.

Romano Dal Forno

Celestino Gaspari

Stefano Inama


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Negli ultimi 20 anni la viticoltura del Veneto ha fatto certamente dei grandissimi progressi, passando da una produzione quantitativa ad una mediamente qualitativa. Il Veneto, però, resta ancora oggi una delle regioni più produttive a livello nazionale e le possibilità di mantenere questo primato credo non possano durare a lungo negli anni. Infatti, con l’avanzare delle produzioni a basso costo dei paesi in via di sviluppo, non ci sarà più lo spazio sufficiente per collocare le grandi quantità di vino veneto che sfruttano ancora un posizionamento di mercato molto basso, quindi, a mio avviso, il Veneto dovrà puntare in modo ancora più deciso verso le produzioni di alta qualità, rassegnandosi sicuramente alla perdita di certi volumi e dell’indotto ad essi legato. Lorenzo Palla

Vino veneto, una rivoluzione vincente È molto difficile fare un’analisi compiuta e corretta sul sistema vitivinicolo veneto. Si tratta, infatti, di un sistema alquanto complesso che presenta, forse in maniera ancor più evidente, l’eterogeneità e la frammentazione che caratterizzano tutto il sistema vino italiano. È molto interessante ed utile, però, approfondire le dinamiche, le evoluzioni del sistema vitivinicolo veneto, in quanto rappresenta la maggiore regione enologica italiana con una quota di produzione superiore al 16%, seguita da regioni del calibro di Puglia (15%), Emilia-Romagna (circa 13%) e Sicilia (di poco superiore all’11%). Il Veneto è anche la maggior regione italiana


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in termini di vino esportato: quasi il 30% del vino italiano esportato proviene da questa regione. Studiare il vino veneto, quindi, consente di capire meglio anche le problematiche del sistema vitivinicolo italiano. Non mi soffermo troppo sugli elementi storici che hanno caratterizzato la vitivinicoltura veneta. Mi limito a sottolineare come vino e Veneto sia diventato nei secoli una sorta di binomio inscindibile a dimostrazione del forte legame che è sempre esistito tra le genti venete e la vigna. Il Veneto ha visto da sempre nell’agricoltura, e nella vitivinicoltura in particolare, un settore economico strategico fondamentale. Non c’è stata provincia, infatti, anche quella meno vocata alle produzioni enologiche, che non abbia avuto nel tempo un suo settore vitivinicolo più o meno sviluppato. La vigna nei secoli ha letteralmente invaso il Veneto, fino a lambire il delta del Po, arrivando fino al mare, al punto che ci si è dovuti addirittura “inventare” il termine di “vini delle sabbie”, a dimostrazione che il vino nella nostra regione era una sorta di prodotto “obbligatorio”, a prescindere dalla qualità ottenibile in certi territori. Per questa ragione non appare un’esagerazione dire che negli ultimi vent’anni in Veneto si è assistito ad una vera e propria rivoluzione enologica. Da grande regione vitivinicola propensa in gran parte a privilegiare la quantità alla qualità, il Veneto è riuscito in un’impresa che probabilmente pochi avrebbero pensato fosse possibile realizzare. Oggi il Veneto è certamente tra le regioni italiane che può vantare alcune delle denominazioni e delle imprese maggiormente premiate sia dal mercato che dalla critica enologica, ma è indubbio che si è trattato di un percorso altamente complesso e difficile che ha richiesto uno sforzo immane sia sul versante della qualificazione del vigneto che dell’attività in cantina. Va sottolineato, inoltre, come risulta difficile parlare di vitivinicoltura veneta in senso generale, in quanto sono molte le differenziazioni. Si va, infatti, da una provincia come Verona con una decina di denominazioni di origine, Valpolicella e Soave in primis, a Vicenza, che oggi sta conoscendo un certo rinascimento qualitativo grazie alla sua buona vocazione per la coltivazione di varietà internazionali, al fenomeno Prosecco nel territorio di Conegliano e Valdobbiadene, ai vini della zona di Lison Pramaggiore tutt’oggi alla ricerca di una precisa identità. Potremmo affermare che la vitivinicoltura veneta ha tutto. Nel senso che si è sviluppata sia attorno ai vitigni autoctoni (Corvina, Garganega, Prosecco, tanto per citare i più noti) che a quelli internazionali (Cabernet Sauvignon, Merlot, ecc). Come pure, se si va ad analizzare la struttura produttiva, ci si accorge che in Veneto sono presenti in maniera alquanto equilibrata sia le grandi strutture produttive (cooperative e private), sia le medie e le piccole aziende vitivinicole. Quest’ultimo aspetto è molto interessante. Spesso, infatti, quando si parla della vitivinicoltura italiana si evidenzia come la frammentazione sia un limite notevole per lo sviluppo della sua competitività. Se si osservano, però, alcune realtà venete, questa problematica appare alquanto ridimensionata. In alcune aree del Veneto, infatti, come Valpolicella, Soave, ma anche l’area del Prosecco, vi è un corretto equilibrio tra piccole e grandi imprese che sono riuscite a sviluppare, nei diversi mercati intercettati, un interessante modello competitivo. In particolare, proprio nella denominazione Valpolicella, abbiamo realizzato in collaborazione con il Dipartimento di economia agraria dell’Università di Napoli Federico II, un’interessante analisi sulla struttura produttiva di tutta la denominazione. Dall’analisi è emerso come vi possa essere una straordinaria convivenza tra le diverse tipologie di aziende. Il sistema Valpolicella è oggi costituito da 1.150 produttori di uve conferenti a

privati, 1.350 produttori di uva soci di cooperative, 285 fruttai per l’appassimento delle uve per Amarone e Recioto, circa 130 aziende vitivinicole integrate, 6 stabilimenti enologici privati che trasformano solo uva acquistata, 6 imprese cooperative con vari livelli di integrazione a valle e 225 imbottigliatori puri. La cooperazione provvede alla trasformazione di circa la metà dell’uva prodotta. Nel 2005 sono stati prodotti circa 370.000 ettolitri di vino, di cui poco meno del 20% rappresentato da Amarone e Recioto; la produzione di questi vini è cresciuta di quasi 5 volte in 14 anni. Vista la grande eterogeneità si potrebbe pensare ad un modello altamente frammentato per poter essere competitivo e invece la realtà è ben diversa ed oggi la Valpolicella, pur operando in un mercato globale sempre più complesso, appare tra le denominazioni italiane più dinamiche del nostro Paese. Il sistema Valpolicella è complesso perché agiscono come propulsori della dinamica soggetti molto numerosi e con caratteristiche dimensionali e di organizzazione dell’offerta molto diverse, ma, a ben vedere, complementari. Vi sono le piccole imprese, caratterizzate da una forte specializzazione nei vini Valpolicella soprattutto di elevatissimo pregio, fortemente caratterizzate dal territorio, con imprenditori di grandissima capacità relazionale, con politiche distributive molto selettive e orientate prevalentemente al mercato interno. Vi sono poi le medie imprese, di grande talento e esperienza nella produzione, che gestiscono una gamma molto ampia, affiancando ai vini Valpolicella, nei quali mantengono una specializzazione, prodotti di altre aree, e che distribuiscono i loro prodotti in Italia, ma anche, per una quota importante, all’estero. Operano, infine, grandi imprese che presentano elevata capacità di innovazione e notevole solidità e che gestiscono una gamma multiregionale e assai differenziata per fasce di prezzo e una molteplicità di canali di distribuzione in Italia e all’estero; queste imprese possono essere facilmente ricondotte a quella categoria delle multinazionali tascabili messa in luce da recenti ricerche e analisi sulle trasformazioni dell’economia in Italia, importante e vitale soprattutto nel Nord-Est, nella quale si riconoscono le imprese che appaiono, a tutti gli effetti, tra le principali protagoniste della tenuta economica del Paese. Per questa ragione, in conclusione, guardando al sistema vitivinicolo veneto, alle sue evoluzioni e alla sua attuale condizione, ci pare di poter esprimere un certo ottimismo anche per il futuro. Un futuro dove ci auguriamo il modello veneto possa essere in qualche modo adottato anche da altre realtà nazionali che oggi sembrano in maggior difficoltà. Emilio Pedron - Presidente Consorzio Tutela Vini Valpolicella


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Dopo quarant’anni di viticoltura veronese non ho ancora perso l’entusiasmo e la volontà di incidere in maniera significativa nella realtà soavese che amo e che, nonostante le difficoltà incontrate, mi ha dato grandi soddisfazioni. Se dovessi rappresentare la viticoltura veneta lo farei pensando a Giano, il Dio bifronte, avendo ben presente la sua immagine che esprime, in maniera inequivocabile, la duplice situazione di una stessa realtà. È innegabile che esiste sul territorio regionale una viticoltura di massa, orientata a produrre vini commerciali, e una viticoltura di qualità, orientata alla produzione di vini di nicchia e di pregio. Le due realtà, pur coesistendo, spesso sono in antitesi, poiché lo sviluppo viticolo realizzato dall’una o dall’altra è diverso. Da una parte si predilige la coltivazione di una viticoltura applicata ai terreni più fertili, meccanizzabili attraverso l’utilizzo di cultivars spesso internazionali, dall’altra si predilige il recupero di terreni di collina, più vocati alla vite, ma più difficili e meno produttivi, terreni che richiedono maggiore impegno sia in termini operativi che economici, ma che permettono la salvaguardia di vitigni tradizionali e la tipicità del prodotto. Questo compito si carica anche di una valenza culturale, dato che l’attività viticola incide nelle tradizioni del luogo e ne consente la conservazione, la conoscenza e la diffusione. Oggi, grazie ad un gruppo di nuove aziende, guidate da giovani preparati, si sta assistendo ad un sostanziale e significativo fermento dell’intero comparto vitivinicolo veneto che ha portato una ventata di novità che ha modificato, gradualmente, l’immagine commerciale dei vini veneti; novità di carattere programmatico e strategico che hanno avuto il merito di offrire a queste nuove aziende una maggiore gratificazione in termini economici e di immagine. È auspicabile quindi che la qualità espressa nei loro vini venga percepita come elemento di valore della zona di produzione, come avviene nel Soave, dove le due realtà coesistono e dove rimane ancora significativa e diffusa la presenza di prodotti standardizzati realizzati dai grandi complessi industriali che appiattiscono il prodotto sui mercati. È mia convinzione che le due realtà resisteranno a lungo, perché credo che il mercato globale, vasto e vario, sia stato condizionato per troppo tempo dalla presenza di entrambe le realtà. Solo l’informazione e la comunicazione potranno dare la giusta dimensione e l’autentico valore di entrambi. La comunicazione onesta e libera metterà in luce la sostanziale diversità del prodotto affinché il consumatore possa scegliere liberamente in base alla propria volontà, preparazione culturale e stile di vita. Sono certo che il territorio veneto ha un’enorme opportunità, perché contiene in sé un grande patrimonio di vini bianchi, delicati e leggeri, rossi complessi, ricchi e importanti, spumanti morbidi e secchi, tutti utili per poter accontentare una molteplice tipologia di clientela. Nella misura in cui le nuove generazioni prenderanno coscienza dell’enorme potenzialità che ha il nostro territorio, ricco di storia e di cultura, e si faranno carico della sua salvaguardia, anche con la fierezza e l’onestà del proprio lavoro agricolo, ci sarà un futuro sereno e di sviluppo. Leonildo Pieropan


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Se il vino ha un futuro, non c’è motivo per cui non lo possa avere quello prodotto nel Veneto. Personalità, identità, particolarità, differenziazione, espressione territoriale e tradizione viticola ne fanno un prodotto unico ed irripetibile, quindi motivo di interesse e comunicazione. La filiera produttiva veneta gode inoltre di vantaggi derivanti sia da fattori di scala e di conoscenza, sia di competenza specifica di gran parte degli addetti al comparto vitivinicolo; tutto questo la pone in una posizione di forte competitività sul mercato mondiale. Purtroppo quanto esposto è da riferirsi solo ad una parte della produzione veneta, mentre il resto dei vini imbottigliati sul territorio regionale, seppure corretti, sono da considerarsi privi di particolari pregi e collocati nei canali distributivi più per il loro prezzo che per il loro valore intrinseco, elemento questo che alla lunga potrebbe nuocere all’immagine del vino veneto. Certo è che la politica dei bassi prezzi non è compatibile con il nostro sistema sociale. Allora, definizione dei profili tipici, tracciabilità, identità, cioè qualità globale, devono essere l’obiettivo urgente e prioritario a cui è chiamata “tutta” la viticoltura veneta e non solo “parte” di essa. Luciano Piona

Nel Veneto come altrove, la civiltà dei campi si è formata in modo spontaneo, dai valori originari di parsimonia e di lavoro. L’Uomo Tecnologico ha oggi bisogno di recuperare la capacità di muoversi all’interno dei cicli naturali e non al di fuori di essi, attraverso i vari sentieri che lo riconducono ad un più intimo contatto con la Terra. L’agricoltura della non azione significa agire per il benessere della pianta, ricercandone l’equilibrio con lo spazio che le è dato di occupare e con le piante vicine. La vite allevata ha un suo immenso mondo costretto però nei pochi centimetri che la separano, a destra e a sinistra, davanti e dietro, dalle altre viti, nella parete fogliare che sviluppa sopra di sé, e nel suolo dove spinge le radici e ricerca il nutrimento e l’acqua. Uno spazio che l’uomo ha circoscritto per lei, nel quale dovrà adattarsi a trascorrere oltre mezzo secolo di vita. Ogni intervento, che a prima vista può sembrare lieve ed innocuo, altera l’equilibrio di quello spazio angusto e provoca un danno alla pianta. Il contadino è il primo custode della terra e della salute delle piante: deve occuparsi innanzitutto di non modificare la naturale fertilità del terreno e la sua capacità di auto-fertilizzarsi. La coltivazione naturale è innanzi tutto una manifestazione ininterrotta di premure e il progressivo perfezionamento della sensibilità di chi accudisce al vigneto. Il contadino naturale non possiede la terra, la custodisce e la protegge per le generazioni future, occupandosi unicamente di aumentarne la fertilità. La prima domanda che si pone è: che cosa è possibile non fare, in che modo posso non intervenire per non disturbare il lavoro della vite? Quando avrà saputo rispondere e avrà imparato ad interpretare le diverse annate lavorando a fianco del vigneto, il vino che trarrà da quelle uve potrà narrare a distanza di decenni l’intensità di quell’atto d’amore per la terra e le inestimabili soddisfazioni ricevute. Nella nostra regione, come in tutte le zone viticole del mondo, l’approccio alla coltivazione e alla vinificazione è basato sull’impiego massiccio della chimica e della tecnologia. Seguendo questa strada abbiamo impoverito il territorio e ci siamo allontanati dalle richieste del mercato, che guarda con sempre maggior interesse ai prodotti realmente naturali. Alessandro Sgaravatti


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È il mercato che spesso condiziona l’indirizzo varietale dei produttori nelle aree viticole. Si dà troppo spesso la precedenza ad alcune varietà di vitigni che quasi sempre sono conformi alle esigenze della domanda del mercato, determinando un appiattimento dell’offerta a scapito di un’adeguata rivalutazione di alcune varietà autoctone o meglio ancora dimenticate che desterebbero nuovi interessi nel consumatore. Anche nel comparto viticolo veneto spero si arrivi ad innescare una simile riflessione auspicando che, contemporaneamente, diminuiscano le produzioni a vantaggio di una maggiore qualità dei vini commercializzati anche attraverso vinificazioni mirate. Considero il vino un prodotto da accompagnare nella sua “crescita” e non solamente un “liquido”. Giovanni Stival

Queste mie riflessioni sul territorio del Soave, sono dettate dalla forte convinzione che ho acquisito in quasi trenta vendemmie da produttore e da un forte spirito critico emerso come Presidente del Consorzio Tutela Vini Soave. II Soave oggi rappresenta la denominazione più significativa nell’importante panorama dei vini bianchi a denominazione di origine controllata italiana e la sua fotografia complessiva è ancora quella di un’area con un comprensorio viticolo tra i più caratterizzati, omogenei e meno compromessi del Veneto. II sistema produttivo del Soave ha, nel corso degli anni, beneficiato di alcuni fattori fondamentali: - l’operatività capillare professionale delle strutture cooperative che hanno valorizzato al meglio le vocazionalità di un territorio che è oggettivamente fortunato e ottimizzato da un variegato patrimonio umano che su questo territorio ha creduto e investito, da sempre; - la presenza di un gruppo di piccole e medie aziende agricole a carattere prevalentemente familiare che da anni stanno valorizzando il vino Soave attraverso proposte sempre più qualificate di “cru” aziendali con vini sorprendenti e molto caratterizzati. Negli ultimi anni, il Soave, che ha rinnovato le regole della denominazione, ha fatto della gestione della denominazione e del corretto rapporto qualità-prezzo una costante del proprio marketing, ha sofferto meno di altri vini, procedendo, anche se lentamente, verso un recupero sia del valore che della qualità percepita dal consumatore. Prudenza nei prezzi e nelle quantità, attenzione alla qualità dei vini e valorizzazione delle produzioni sembrano oggi, quindi, i passaggi chiave per continuare ad essere protagonisti in un mercato sempre più competitivo. Un controllo determinato sulla produzione, il consolidamento del prezzo ed una nuova e forte attenzione del mercato verso i vini bianchi del territorio sono gli elementi più significativi di questa fase congiunturale per il Soave. La denominazione è riuscita infatti a concertare tra i produttori progettualità, tutela e valorizzazione rilanciando con forza il più importante vino bianco italiano da vitigno autoctono puntando, con costanza e determinazione, su un ottimale rapporto qualità-prezzo. E soprattutto ora è sorta la necessità di porre particolare attenzione ai temi della tutela e dei controlli. Il Soave ha quindi raccolto l’opportunità di tracciare tutta la produzione offerta dal decreto del 29/05/2001 relativo al piano dei controlli della Doc. Questo a completamento di una serie di autonome iniziative tese a monitorare i tre momenti produttivi: vigna, vino e bottiglie. L’ormai collaudato piano dei controlli ci ha consentito di conoscere meglio i percorsi commerciali della denominazione evidenziando anche alcuni

punti critici. L’esigenza, inoltre, di seguire con più puntualità il prodotto dal vigneto alla bottiglia e la continua riflessione sulla veloce evoluzione dei mercati nei riguardi del confezionamento e della designazione, ci chiamano ad analizzare continuamente le regole della denominazione per non perdere nuove opportunità di crescita. Le oggettive difficoltà di seguire adeguatamente anche le partite, che oggi rappresentano circa l’8% della denominazione, che vengono confezionate all’estero, hanno stimolato il Consorzio a considerare l’esigenza di chiedere al Ministero l’imbottigliamento in zona di vinificazione. Un obiettivo ambizioso, ma che può effettivamente contribuire a garantire al consumatore la qualità attesa. Pur in un periodo di difficoltà per il bianco, il Soave ha in questi ultimi anni mantenuto comunque una discreta redditività per le aziende. Ed in questo momento abbiamo visto anche le aziende rispondere con grande determinazione alla nuova sfida del mercato. Quasi per tradizione il Soave si trova da sempre all’avanguardia per tecnologie legate alla trasformazione dell’uva in vino. Negli ultimi anni però l’attenzione è stata posta nell’adeguare i sistemi di affinamento dei prodotti e predisporre le aziende all’ospitalità. Oggi questo distretto del vino bianco si presenta con un territorio viticolo tra i più omogenei e meno compromessi da insediamenti di diversa natura, con una rete di cantine tra le più suggestive d’Italia e con una Strada del Vino tra le più attive. Per le zone classiche, vocate alla produzione dei grandi bianchi italiani, il periodo 1998-2004 non è stato certo facile. Alcune aree hanno snaturato la loro vocazione introducendo nel patrimonio ampelografico vitigni a bacca rossa, altre modificando addirittura i disciplinari. Il Soave ha invece chiaramente puntato sulla ricerca, presentando ad oggi la zonazione viticola più completa e più studiata in Italia e rilanciando questa progettualità con un nuovo approfondimento legato alle vigne storiche più significative. Ha rivoluzionato le regole della produzione costruendo una logica piramide produttiva della qualità diversificando le tipologie. Ma è indubbio che i risultati concreti più importanti (a vantaggio di tutti i produttori) sono stati ottenuti lavorando innanzitutto in casa: più ordine nella Doc, più serietà in vigna, più qualità in cantina e grande attenzione ai prezzi. Diventa quindi importante oggi per il Soave fare velocemente e coraggiosamente nuove scelte importanti e strategiche per dare stabilità e continuità al mercato ed un sostegno forte alla denominazione con azioni promozionali adeguate ai tempi e proporzionate all’importanza economica del prodotto. Arturo Stocchetti


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Per quanto ci riguarda, in quanto produttori storici della Valpolicella, noi vorremmo essere in grado di sfruttare sempre più l’unicità delle nostre varietà che sono diverse da tutte le altre, esaltandone le zone di provenienza che possono differenziare e caratterizzare, anche se pochissimo distanti tra loro, i vini di ogni singola azienda. Sarebbe già una buona cosa poter arrivare ad una netta distinzione tra zona collinare, pedemontana e di pianura tramite una zonazione del territorio. Dovremmo, se possibile (ed è possibile!), trovare anche dei parametri che oltre alla zona sappiano interpretare l’annata, visto che alcuni vigneti sono costanti, mentre altri danno risultati veramente variabili tra anno e anno. Penso che uno studio dei terreni possa aiutare a capire la variabilità dei risultati che potrebbero essere utili per tutti i produttori che decidessero di collaborare per il bene comune, avendo però la certezza che alla base di tale ricerca ci sia un processo scientifico ben identificato. Per quanto riguarda le varietà, non si è pensato di introdurre nel nuovo disciplinare varietà storiche come l’Oseleta, la Forselina, la Troelina e altre che sono in minima parte presenti già nei vigneti e che concorrono alla realizzazione di alcuni grandi vini della zona; vitigni che danno già vini di grande struttura e che si possono classificare fra le varietà migliorative. Il disciplinare non prevede Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon, Merlot, permettendo fino ad un massimo del 15% le varietà a bacca rossa non aromatica permesse nella provincia di Verona? Perché queste distinzioni? Non sarebbe opportuno eliminare tutte le varietà internazionali ed estranee alla Valpolicella? Per quanto riguarda i sistemi di impianto, visto che ad oggi la sperimentazione sul numero di piante/ha e su forme di allevamento (e in questo caso, quando sono state fatte, i risultati non hanno dato nette preferenze su alcuna forma, esempio Pergola o Guyot) è ancora limitata, penso che il disciplinare dovrebbe lasciare più liberi i produttori verso forme di allevamento alternative volte alla ricerca di qualità maggiore. Anche in questo è auspicabile una maggior collaborazione tra enti di ricerca, enti e associazioni di produttori. Per quanto riguarda l’aspetto vinicolo, bisogna arrivare ad esaltare il frutto e la complessità aromatica delle nostre varietà, cercando di salvaguardare le stesse caratteristiche in fase di appassimento e/o vinificazione, quindi impostando parametri tecnologici idonei. Sarebbe auspicabile arrivare a produrre vini equilibrati, con una buona acidità, preservando la freschezza del frutto, abbandonando l’eccessiva grassezza e concentrazione e optando quindi per vini sempre più eleganti e piacevoli. L’importante sarebbe anche diversificare la produzione avendo sempre l’Amarone come punto di riferimento d’eccellenza, ma dando, nello stesso tempo, spazio e visibilità anche agli altri vini come il Ripasso, sempre più apprezzato dai mercati e il Valpolicella che, essendo un vino più fruibile e meno strutturato degli altri, risulta facile da abbinare ad una cucina meno impegnativa. È fondamentale comunque che il binomio vino-territorio venga sempre più valorizzato da noi produttori e riconosciuto dai consumatori, così da evitare copiature e omologazioni nel resto del mondo. È importante legare il vino a tutte le attività culturali coinvolgendo in un obiettivo comune tutte le istituzioni, in modo che sappia non solo promuovere le qualità intrinseche del prodotto, ma anche l’insieme dei fattori che rendono unico questo nostro territorio di Verona, come la cultura, la storia e l’ambiente. Purtroppo, negli anni passati le istituzioni hanno agito separatamente e il territorio risulta ora in parte compromesso, soprattutto nella zona classica, dove la cementificazione ha avuto la meglio sulla


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peculiarità produttive. Nella produzione del vino non si inventa nulla. Tutto è frutto di un lavoro scrupoloso, di sperimentazioni e di ricerche che spesso durano per intere generazioni. Quello che invece si deve “inventare” sono nuovi modi di proporre il vino al pubblico, per farlo conoscere, apprezzare ed amare. Anche in questo il Veneto è all’avanguardia: con la partecipazione a numerose rassegne fieristiche, molti produttori si sono imposti su differenti mercati con prodotti di alto valore qualitativo. Credo che il futuro della viticoltura veneta sia affidato ad un ispirato e appassionato gruppo di ora “giovani” produttori, che, forti di una passione viticolo-enologica trasmessa dalle precedenti generazioni, sicuramente potranno affrontare le sfide del nuovo millennio con una “mission” ispirata e convinta: la qualità. Michele Tessari

Mi sento fortunata a lavorare in una terra di grande fascino come quella veneta, ricca di storia e di tradizioni agricole, dove la viticoltura ed il vino hanno da sempre scandito i ritmi della vita contadina, assumendo un importante valore umano. Credo che la gente veneta abbia ereditato le tradizioni, ma anche la passione e l’orgoglio per questo mestiere, riuscendo a produrre vini intimamente legati al territorio e a farli conoscere nel mondo. La sfida per il futuro credo sia rappresentata dalla capacità di rivisitare le tradizioni e gli insegnamenti del passato, nell’ottica di una viticoltura che dovrà essere sempre più di precisione e sempre più attenta al rispetto dell’ambiente e alla salute dei consumatori. Mi auguro che i vini veneti nel futuro sappiano vincere la scommessa di diventare sempre più legati al territorio, di grande personalità e capaci di invecchiare a lungo, a concreta testimonianza della vocazione del Veneto ad essere terra di grandi vini. Valentina Tessari

vitivinicoltura; inoltre è necessario creare maggiori strutture ricettive per i turisti e un museo del vino, dove si possano trovare informazioni chiare e concrete sul territorio, sulle zone vitivinicole e sulle aziende, così da incamminarci a diventare una realtà enoturistica come altre zone viticole italiane. Alcune cose comunque sono state fatte, ma vedo un futuro ricco di impegni per costruire una proficua collaborazione fra le istituzioni e i produttori per un fine unico: rappresentare la Valpolicella e quindi Verona e quindi il Veneto come una perla dell’enologia e del territorio italiano. Riccardo Tedeschi

Credo che nel Veneto vitivinicolo di oggi sia sempre più forte una cultura enologica che interpreta in modo moderno e brillante una gloriosa tradizione. Una delle caratteristiche peculiari che molti produttori veneti hanno condiviso come “mission” è quella di privilegiare le caratteristiche di unicità e di tipicità che le varie zone di produzione hanno saputo delimitare ed affinare nel tempo e ciò rappresenta sicuramente un punto di forza vincente in un momento storico di forte globalizzazione che fatalmente porta anche ad un “appiattimento” di molte

La viticoltura nel Veneto, ed in particolare in Valpolicella, ha subìto molti cambiamenti negli ultimi anni, durante i quali vecchi e nuovi vigneti sono stati reimpiantati con sesti ad alta densità, con cloni e portainnesti meticolosamente scelti dopo uno studio approfondito dei terreni e attivando tutta una serie di metodologie operative che sono intervenute sull’intera filiera produttiva. Questo processo di rinnovamento non è terminato; pertanto i benefici derivanti non sono ancora completamente noti, ma sicuramente ne ha guadagnato e ne guadagnerà la qualità del vino, che deve soddisfare un consumatore sempre più esigente e preparato. I margini di miglioramento sono enormi e ci indirizzano nel continuare a investire per sviluppare il territorio e per farlo conoscere da un punto di vista turistico, enogastronomico e culturale. Le incertezze, o meglio, le preoccupazioni maggiori sono quelle di lasciarsi andare a facili ottimismi o lasciarsi cullare dai risultati fin qui ottenuti, dimenticandosi che solo con un attento lavoro svolto nel vigneto si potranno garantire la qualità e l’unicità che questo territorio ha nel proprio DNA. Giancarlo Tommasi


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L’uva scelta d’autunno nelle vigne dei pergolati domestici viene appesa capovolta e si conserva nei suoi recipienti naturali. Si appassisce, non corrompe per la vecchiaia, e trasudando gli insipidi umori si addolcisce con grande soavità. Si conserva fino al mese di dicembre finché la stagione invernale completa l’essiccazione, e in modo mirabile in cantina si ha un vino nuovo, mentre in tutte le altre si incontra un vino vecchio Cassiodoro

Stefano e Tiziano Accordini

Avrò avuto circa dieci anni quando ascoltavo mio padre Stefano che, seduto davanti alle vigne, raccontava a qualche ospite che era venuto a trovarci, dei tempi in cui mio nonno spediva con il treno a Milano e Torino le botti di vino e di quando venivano quelli delle Ferrovie dello Stato a caricarle su dei possenti cavalli. Erano gli anni Trenta e anche se lui era ancora un ragazzino, sembrava ricordare molto bene quelle cose che descriveva in modo così minuzioso, tanto che mi apparivano come vive, davanti agli occhi. Quella spedizione era un momento importante per la nostra famiglia ed era sicuramente da ricordare, visto che avveniva una volta l’anno e che quella piccola processione di cavalli non portava via solo il vino, prodotto dalle uve della quota-parte che spettava a mio padre secondo il suo contratto da mezzadro, ma anche il frutto di un anno di lavoro di tutta la famiglia Accordini. Ho conosciuto la mezzadria e so bene cosa intendeva dire Stefano quando parlava di come fossero stati duri quegli anni e del lavoro richiesto alla famiglia per riuscire a costruire e consolidare quello che abbiamo oggi. Tanti sacrifici che è stato possibile sostenere grazie all’aiuto della buona sorte e della Provvidenza che non ci hanno mai abbandonato. Pur essendo all’epoca solo un fanciullo, ricordo quasi tutte le storie che lui mi raccontava, come quella del treno a vapore, che passava poco distante da qui e che io immaginavo carico del nostro vino o quella del grande carro con le ruote di ferro trainato dai buoi, che partiva per portare le botti a Verona, città che a me sembrava infinitamente lontana. Sentendolo parlare avevo la sensazione che fosse fiero e orgoglioso di ciò che stava dicendo e non nego che, per molto tempo, fu per me una specie d’eroe che, con il vino, aveva saputo muovere treni, carri e cavalli. Mi chiedevo spesso quale fosse l’arcano segreto racchiuso in quel vino che maturava in cantina e che sembrava essere capace di mettere in movimento e interessare una così nutrita schiera di mezzi e persone. Non ci misi molto per comprendere che, dietro a quel silenzioso maturare nelle botti, non vi era nessun segreto se non quello del pensiero semplice di quella filosofia contadina che aveva la sua ragion d’essere nell’impegno, nell’onestà, nel rispetto, nel lavoro e nella voglia di guardare oltre gli ostacoli per costruire dei sogni, piccoli e realizzabili. Compresi questo da mio padre. Guardandolo mi accorgevo che per lui esisteva solo il lavoro; pur essendo accompagnato da qualche soddisfazione, era ricco ogni giorno solo di molti sacrifici che però Stefano aveva imparato a sopportare, così come gli aveva insegnato suo padre, il quale, a sua volta, l’aveva appreso dal suo e così via, all’indietro, secondo una linea ininterrotta di trasmissione dalle generazioni passate. Quella che si tramandavano in questa casa era un’eredità strana, una sorta di vocazione e di sana abitudine al lavoro che con il tempo diventava una straordinaria passione per questa terra e per questo vino, capace di coinvolgere tutti i membri della famiglia. Devo riconoscere che ciò che ti sto raccontando non mi è sempre stato così chiaro come adesso. Se mi guardo un po’ indietro e ripenso alla mia gioventù e a quelle storie di treni, di carri e di cavalli, mi accorgo che per molto tempo non ho dato a questi ricordi l’importanza che essi avrebbero meritato. Non saprei dirti se ero troppo concentrato a rincorrere la vita o forse, inconsciamente, mi spaventava l’impegno che mi avrebbe richiesto seguire l’orma di quella quotidianità che, senza interruzione di continuità, mio padre viveva nelle vigne o in cantina. Sta di fatto che ci vollero anni prima che io percepissi il reale valore di essere vignaiolo e decidere di dedicarmi a questo lavoro. Allo stesso modo mi occorse molto tempo per comprendere l’importanza dell’acquisto dell’azienda da parte di mio padre, nel 1974, che ci consentì di diventare proprietari di quella terra che, per devozione, ma non per contratto, era sempre stata nostra, affrancandoci da un destino che sembrava segnato e che ci




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Amarone della Valpolicella Classico DOC Vigneto Il Fornetto aveva visto, per decenni, mezzadri. Fu per questo che non seguii le orme paterne. Scelsi un percorso formativo lontano dalla terra e dalla vite e non divenni enotecnico, come invece sarei dovuto diventare. Ci pensò successivamente mio fratello Daniele a specializzarsi in quel settore; io invece mi diplomai come perito meccanico e mi ritrovai a lavorare lontano dall’azienda di famiglia. Quella esperienza mi è servita soprattutto quando insieme a Daniele ho deciso di ripercorrere ciò che nostro padre aveva intrapreso. Ci siamo sperimentati sul campo, adeguandoci all’evoluzione del mercato vitivinicolo e impegnandoci nel miglioramento della produzione, a partire dai sesti d’impianto dei filari fino alla cantina, spinti soprattutto dal desiderio di soddisfare la ricerca e la qualità e poter rendere così il dovuto omaggio a questo territorio al quale, come puoi immaginare, siamo entrambi molto legati. Da quella nostra prima vendemmia sono passati ormai vent’anni e anche se in viticoltura questo è un tempo breve, insufficiente a consolidare esperienze certe, ti assicuro che ne è stata fatta di strada da quelle botti o damigiane che mio nonno e mio padre spedivano con il treno. Insieme abbiamo percorso una lunga strada che personalmente mi ha cambiato molto e durante la quale ho incominciato ad apprezzare quale fosse il reale impegno che richiede oggi l’attività di vignaiolo, più complessa e articolata di quella di una volta, avvicinandomi sempre più a quella dedizione che mio padre ha sempre praticato tutti i giorni di ogni anno dei molti che ha trascorso qui. Oggi ho capito l’importanza di quei tempi lontani che mi vedevano crescere fra i filari e la cantina e le storie che raccontava mio padre si arricchiscono di una nuova storia, la mia, quella di mia moglie Raffaella, di mia cognata Eleonora e forse domani anche quella di mio figlio Giacomo che presto entrerà nello staff dell’azienda. Per questo sento con certezza che tutto è servito a tracciare il solco nel quale vivo la mia vita di vignaiolo e che tutto concorre ad alimentare quel sangue contadino che scorre in me, come scorreva in mio nonno e che ancora oggi, a 83 anni, scorre dentro mio padre che, Dio lo mantenga, può vedere una nuova generazione prendere il suo posto dentro l’azienda Accordini. Non ti dimenticare che noi siamo una razza antica, una razza di contadini veneti dediti alla vite, all’uva e al vino, una razza in via d’estinzione, poiché crediamo nei valori che la terra sa ancora trasmettere.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Corvina e Corvinone provenienti dal vigneto Fornetto di proprietà dell’azienda, posto in località Bessole nel comune di Negrar, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni ricchi di detriti alluvionali, è situato ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 230 metri s.l.m., con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Corvina 75%, Corvinone 25% Sistema di allevamento: Doppia pergola Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima decade di settembre, si procede alla selezione delle uve raccolte che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla metà di febbraio. Raggiunta la maturazione, le uve vengono pigiate e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 30 giorni ad una temperatura che varia dai 12 ai 23°C; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati, nella prima fase, frequenti rimontaggi e almeno due follature giornaliere. Si procede poi alla svinatura e, dopo un breve periodo di decantazione statica, il vino termina la fermentazione malolattica in acciaio, quindi finisce in barriques di rovere francese di Allier e Nevers nuove a grana fine e media tostatura in cui rimane per 36 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e dopo un breve periodo di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso impenetrabile, al naso il vino si presenta intenso con note che risultano complesse, profonde ed eleganti le quali attraversano una vasta gamma di percezioni olfattive che spaziano da quelle di miele a quelle balsamiche per passare successivamente a note fruttate di albicocca secca e frutti rossi maturi con un intreccio di uva passa, nocciole, coriandolo, cumino ed erbe officinali e nuances di tabacco da pipa e vaniglia. In bocca è potente ma equilibrato ed è accompagnato da una piacevole e sensuale morbidezza e da una buona sapidità che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1993, 1995, 1997, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Accordini dal 1900, l’azienda agricola si estende su una superficie di 12 Ha, di cui 8 vitati e 4 occupati da prato. Giacomo Accordini svolge la funzione di agronomo, Daniele Accordini quella di enologo, mentre Tiziano Accordini si occupa della produzione e del commercio. Altri vini I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc Acinatico (Corvina 75%, Rondinella 20%, Molinara 5%) Recioto della Valpolicella Classico Doc Acinatico (Corvina 75%, Rondinella 20%, Molinara 5%) Passo Igt Veneto (Corvina 60%, Rondinella 15%, Cabernet Sauvignon 15%, Merlot 10%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ripasso Acinatico (Corvina 60%, Rondinella 20%, Corvinone 15%, Molinara 5%) Valpolicella Classico Doc (Corvina 65%, Rondinella 30%, Molinara 5%)


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Franco e Armando Adami

Questo è un grande momento di euforia per il nostro vino, che sembra avere un sempre maggiore appeal sia sui mercati nazionali che internazionali. È un vino che ha il fascino della semplicità, quindi di una minore complessità rispetto agli altri; risulta piacevole da sbicchierare anche per il neofita che si accosta sporadicamente al vino; degustandolo, egli non si deve arrampicare troppo su argomentazioni e ragionamenti contorti e tecnici o troppo complessi e di difficile comprensione. Sto parlando del Prosecco, il vino trevigiano più conosciuto al mondo proprio per la sua bevibilità, che ne ha determinato il successo, esaltandone i punti di forza, ma anche sottolineandone quelli di debolezza, défaillances che noi produttori del comprensorio di Valdobbiadene non dovremo assolutamente sottovalutare, per non ritrovarci a navigare in cattive acque in un futuro prossimo venturo. Sono ancora molti, ma sempre meno per fortuna, coloro che considerano il Prosecco “un non vino”, un prodotto costruito in cantina, che niente ha a che vedere con i grandi bianchi o con gli spumanti metodo classico, familiarmente chiamati le “bollicine”, e anche se i numeri parlano del Prosecco come dell’unico prodotto italiano che sia davvero cresciuto, sia come quote di mercato che come produzione, essendo commercializzato nel numero di circa 50 milioni di bottiglie all’anno, esso, ancora oggi, non supera il muro della critica specializzata, dalla quale spesso è ingiustamente trascurato. Prendendo spunto da queste considerazioni, io e mio fratello, insieme anche ad altri amici produttori, come noi, della zona, abbiamo cercato di riflettere, provando a ragionare proprio sui punti di debolezza del nostro vino e scoprendo che, nel corso degli anni, i Prosecchi che producevamo si erano un pò appiattiti, pur su un livello qualitativo molto alto. Buoni, ma molto simili fra loro, tutti con il solito perlage e le stesse percezioni olfattive, derivanti dall’uso dei soliti sistemi e dalle solite procedure operative, le migliori che potevamo applicare a quel prodotto, accorgendoci dopo, alle degustazioni, che ci stavamo facendo tante elucubrazioni mentali sui profumi di macedonia o su quello di miele di acacia o su quello di pera. Abbiamo capito che, se avessimo affrontato il problema da un altro punto di vista, il nostro vino avrebbe potuto avere, se opportunamente ricercati, notevoli margini di miglioramento. Dopo molti tentativi e sperimentazioni, siamo arrivati alla conclusione che il Prosecco, pur essendo interessanti tutte le novità applicate ai sistemi di vinificazione, compresi i tentativi di non chiarificare i vini imbottigliati o quelli di realizzare delle cuvée con vino e mosto, aveva bisogno di essere posto nel suo alveo naturale: quello del “vino”, incominciando a riscoprirlo nella sua completezza di prodotto enologico e viticolo, in modo da poter analizzare tutta la filiera produttiva che lo interessa, partendo proprio dalla vigna. Ci aveva condotto a questa determinazione l’analisi delle differenze produttive esistenti tra un vino e un Prosecco. Nella realizzazione di un vino, qualunque esso sia, è possibile intervenire sulle tecniche di lavorazione delle uve, sui lieviti, sulla fermentazione malolattica, sulla sua maturità e su ogni singolo aspetto della vinificazione, maturazione, invecchiamento e affinamento in bottiglia; quando invece facciamo il Prosecco, il risultato che dobbiamo ottenere ci obbliga ad agire in una gabbia operativa ben precisa e ad un percorso produttivo delimitato, abbastanza stretto, costringendoci a migliorare le cose che sono al di fuori della cantina, dove ci sono, per adesso, pochissimi margini di miglioramento e c’è il rischio di fare danni ricercando l’esasperazione dei profumi con i lieviti aromatici. È proprio partendo da queste riflessioni che abbiamo provato a tracciare un percorso su cui puntare per costruire un futuro che ci deve vedere investire sia nel vigneto che nel mercato. Perché nel vigneto? Perché, secondo noi, è lì che possiamo fare di più di quanto sia stato fatto fino ad ora, che è già molto, dato che siamo riusciti a conservare una viticoltura e una cultura vitata estremamente longeve che hanno saputo mantenere in vita non solo viti di oltre ottanta anni, ma anche una tradizione molto radicata sul territorio. È nella vigna che dobbiamo intervenire per migliorare quei profumi naturali che noi definiamo “tracciatori” e che esistevano già trent’anni fa, magari infittendo i sesti d’impianto o operando con delle selezioni massali che ci diano l’opportunità di avere differenti cloni naturali, i più simili possibile a quelle vecchie vigne, oppure diminuendo le gemme e limitando l’esuberanza produttiva che caratterizza un’uva come il Prosecco o identificando i migliori terreni,


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Prosecco di Valdobbiadene DOC Dry Vigneto Giardino quelli che hanno una “marcia in più”, per classificarli come cru. Perché sul mercato? Perché, secondo me, abbiamo ancora un po’ di confusione nel proporci sia come aziende produttrici di Prosecco sia come territorio di Valdobbiadene, con il rischio che il successo fin qui ottenuto sia vanificato da una politica di promozione qualunquista e da una mancanza di tutela dell’area produttiva. Non è un caso che per le bottiglie di Prosecco commercializzate, soltanto 1 su 3 è contrassegnata come Doc, anche se, per adesso, quasi tutta la produzione proviene da questa regione. Ma cosa succederà quando quelle nazioni vitivinicole che hanno piantato il nostro vitigno incominceranno a presentarsi con i loro Prosecchi sul mercato? Le conseguenze sono immaginabili; basta vedere cosa è successo al Pinot Grigio, il cui prezzo e il conseguente acquisto delle uve, non si discute più nella piazza del paese, ma a Wall Street. Dobbiamo lavorare sulla tipicità delle singole aree e sulle espressioni che ogni singolo territorio sa emanare, ma, soprattutto, dobbiamo credere che il connubio fra questa terra e questo vitigno sia indissolubile e, se sarà necessario, bisogna gridarlo senza stancarsi mai di farlo, ed è necessario farlo tutti insieme, Aziende e Istituzioni. Bisogna ripeterlo fino all’esaurimento della voce che il vero Prosecco si fa in Italia, nel Nord Est dell’Italia, e precisamente nella parte collinare di questa provincia di Treviso, ed il migliore in una piccola, ma meravigliosa zona che si chiama Valdobbiadene. È questa la terra che ha reso famoso questo vino, amato e apprezzato nel mondo, da sempre legato agli umori e alla particolare temperie morfologica di questo territorio.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Prosecco provenienti dal vigneto Giardino, anticamente conosciuto come vigneto Zardin, di proprietà dell’azienda, posto in località Soprapiana nel comune di Vidor, le cui viti hanno un’età compresa tra i 3 e gli 80 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni compositi con morene, arenaree e argille, caratterizzati da zone calcaree, magre, asciutte e poco profonde, è situato ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con esposizione prevalentemente a sud. Uve impiegate: Prosecco 100% Sistema di allevamento: Guyot e cappuccina Densità di impianto: 2.500-3.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla pressatura delle uve raccolte e a una decantazione statica del mosto ottenuto che viene travasato e avviato, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica che è svolta per 10 giorni in tini di acciaio inox ad una temperatura controllata compresa fra i 16 e i 19°C. Al termine di questo periodo vengono effettuati due travasi consecutivi, poi il vino rimane sui propri lieviti per i successivi 3 mesi, al termine dei quali, dopo un illimpidimento, è messo in autoclave dove resta per 6 settimane. Trascorso questo periodo, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di almeno 1 mese prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 27.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un prosecco dal bel colore giallo scarico con una spuma fitta e un perlage fine e persistente; all’esame olfattivo sprigiona sensazioni di frutta a pasta bianca tra cui mela e pesca e un finale che ricorda piacevoli note floreali di glicine e acacia. In bocca è equilibrato, pulito, avvolgente e armonioso; il tutto è accompagnato da una piacevole rotondità con un finale di sentori fruttati che sostengono una bella sapidità e una consistente ampiezza gustativa. Prima annata: 1983 Le migliori annate: 1988, 1990, 1995, 1997, 2000, 2002, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 3 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Adami dal 1920, l’azienda agricola si estende su una superficie di 10 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo e di enologo Franco Adami. Altri vini Gli Spumanti: Prosecco di Valdobbiadene Doc Brut Bosco di Gica (Prosecco 95%, Chardonnay 5%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Dry Superiore di Cartizze (Prosecco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Extra Dry dei Casel (Prosecco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Tranquillo Giardino (Prosecco 90%, Chardonnay 10%)


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Adriano e Vincenzo Aldegheri

Aldegheri, Aldegheri… Mi sono sempre sentito chiamare per cognome e così anch’io, alla fine, difficilmente pronuncio il mio nome. È come se non avessi un nome e quando lo sento ho come la sensazione che appartenga a qualcun altro. Mi ha sempre fatto sorridere questo vezzo, soprattutto quando mi arrabbio e mi rivolgo al mal capitato di turno minacciandolo di chiamare Aldegheri, dicendogli: “Guarda che lo dico ad Aldegheri! Poi lui si arrabbia e allora…”. È un modo per sdrammatizzare; infatti è una cosa rara che io mi alteri e anche se qualche volta alzo la voce, non riesco a portare rancore: dopo cinque minuti è tutto finito. In fondo sono un “buono” e ho un carattere aperto, gioviale, sorridente; sono un gran chiacchierone e un buon commerciante, sincero e, soprattutto, onesto. Perché, vedi, qui in Veneto l’onestà conta ancora molto, soprattutto per la gente della mia età che tante volte ha comprato l’uva o venduto il vino soltanto con una semplice stretta di mano. La parola è parola e vedi questa faccia? È pulita, rugosa, ma pulita e quando vado in piazza, in paese, dove ancora si ricordano di mio fratello, mi piace sapere che hanno un buon giudizio di me e in particolare, cosa a cui tengo molto, che mi considerano una persona onesta. Così, per essere più sincero e onesto, ho deciso di raccontarti questa storia, come se Aldegheri fosse qualcun altro, tralasciando, per pudore, di entrare in merito alla sua vita privata, quella che lo riguarda da vicino, che sente più intima e che gli rimane più difficile tirar fuori. Sappi che, quando ci riesce, lo fa prestando attenzione che non ci sia nessuna persona ad ascoltarlo, poiché non vuole rattristare nessuno con vicissitudini che coinvolgono i sentimenti più profondi e intensi del suo animo, segnato della perdita di una figlia e di tanti amici che non ci sono più. È l’altra faccia della sua storia, forse quella più vera, quella silenziosa e privata che non gli piace esternare, anche perché molte volte non ci sono parole per raccontarla. Quindi, se vorrai ascoltarla, ti narrerò un piccolo pezzo della vita di quel settantenne di Aldegheri che, a fronte di una mente strapiena di ricordi, ha invece una memoria che stenta a ricercare i loro contenuti. Sì, è vero, certe volte Aldegheri è un po’ confuso e rischia di mettere dentro in un unico calderone tutti i suoi racconti: quelli riguardanti i suoi cinquant’anni passati a produrre vino, quelli attinenti alla sua famiglia e quelli inerenti a questa terra, con un tourbillon di parole che, quando finisce di parlare ti lascia stordito, senza che tu abbia veramente compreso chi sia veramente. Da dove vuoi che inizi? Dal raccontarti del suo rapporto con il mondo del vino, dalla sua vita o da questa Valpolicella che ora stai visitando? Devi sapere che Aldegheri cominciò a 19 anni a lavorare nel mondo del vino, nel lontano 1960, arrivando a conoscere, in tutti questi anni, ogni minima sfumatura, ogni più piccolo pregio o difetto, nonché tutte le incongruenze e le leggi che ne regolano il mercato. La sua è stata una lunga scarpinata che ha attraversato quasi per mezzo secolo il settore vitivinicolo di questo territorio. Cinquant’anni durante i quali ha conosciuto un’infinità di persone ed è venuto a conoscenza, con dovizia di particolari, di quanti e quali siano gli scheletri che ogni produttore della Valpolicella custodisce dentro “l’armadio” della sua cantina. Lui ha sempre cercato di vendere il suo vino, anche nei tempi in cui era considerato un prodotto di largo consumo, per lo più venduto sfuso, in damigiane o bottiglioni da due litri, con il tappo a corona; oppure quando si vendeva l’Amarone a duemila lire e questo nostro grande vino era fatto con le uve di questa zona e non con i mosti pugliesi, le uve marchigiane o abruzzesi. Il suo, ti assicuro, e dato che lo conosco molto bene puoi fidarti di cosa ti dico, fu un inizio alquanto tribolato e quanto mai faticoso, poiché fu costretto a fare tutto da solo: contrattare le uve, vinificarle, imbottigliare il vino, venderlo e consegnarlo. Un impegno che lo costringeva a lavorare giorno e notte, cercando, contemporaneamente, di capire lo spazio che lui avrebbe potuto occupare nel mercato, garantendosi così l’opportunità di orientare il proprio lavoro nel migliore dei modi. Comprese presto che non si doveva scostare molto dai valori che gli erano stati insegnati in famiglia. Valori come l’onestà e l’etica lo spinsero sempre ad adoperarsi per riuscire a fare le cose seriamente, secondo le regole e secondo i canoni del rispetto che doveva tenere verso la propria clientela e verso i propri fornitori. Ti garantisco che quei princìpi morali lo guidarono e gli dettero la forza di non arrendersi e di insistere in questo lavoro. Non gli ci volle molto per ottenere i primi risultati; crebbe anche l’azienda, la quale incominciò a “fare i numeri”, sia in termini di fatturato che di ettolitri di vino prodotto, che passarono da 500 agli attuali 6.000, ma che lui continuò a vendere, come aveva sempre fatto, sfuso o in bottiglie, essendosi disfatto delle damigiane e delle botti, creandosi nell’arco di


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Amarone della Valpolicella Classico DOC diversi decenni, un suo spazio di visibilità e una sua fedele clientela. È facile comprendere come si siano susseguiti i cambiamenti nell’azienda, fra i quali, credo che ci sia una cosa che tu debba sapere e che riguarda il fatto che fu proprio Aldegheri il primo, o certamente uno dei primi, in Italia, a vendere il vino “alla spina”, acquistando dalla Peroni cinquantamila barili da birra che ancora utilizza. Aldegheri non ha mai nascosto l’anima commerciale della sua azienda, non pensando che oggi conta più l’immagine che il vino che si produce. Lui è di un’altra pasta, concreto e pratico, e di questo non si preoccupa troppo e ancora oggi, insieme ai cugini Adriano e Lorenzo, a sua figlia Paola e ai nipoti Paolo e Alberto, continua a fare ciò che gli riesce meglio e cioè comprare le uve e vendere vino, usando gli strumenti che ha a disposizione come le cisterne, i barili della spina o le bottiglie. Nella sua cantina tutto si svolge alla luce del sole, senza frodi, senza inganni e senza sentirsi minimamente sminuito di fronte a chi, come lui, con pochi ettari di vigne e con milioni di bottiglie commercializzate, si definisce per qualche stupido giornalista un “vignaiolo”. Lui è sincero e ammette di comprare gran parte delle uve e del vino dai suoi fornitori tradizionali, sparsi in ogni luogo della Valpolicella che, da oltre vent’anni, lo riforniscono. Non fa come alcune aziende agricole che, pur di soddisfare il mercato, comprano ovunque. Aldegheri, a differenza di loro, certifica tutto ciò che entra e esce dall’azienda ed è forse per questo che ora, alla sua età, può beatamente ignorare il fatto che nessuno gli riconosca il titolo di “vignaiolo”. Se volesse te ne racconterebbe di storie, tante quante tu neanche puoi immaginare, ma non spetta certo a lui renderle pubbliche. Lui è convinto, invece, che alla fine sarà soltanto l’onestà a ripagare, la stessa che lo spinge a produrre nel rispetto del territorio e del decalogo etico che deve esistere fra il mercato e tra chi ha fatto sempre il proprio lavoro, seriamente. Ci sarebbero tante cose da raccontarti sulla vita di Aldegheri e molte altre che riguardano la sua azienda, ma la sintesi è pressappoco questa. Le cose sono andate così per quello che mi ricordo e per quello che non mi ricordo… Beh, pazienza! Sarà per la prossima volta, quando ci ritroveremo di nuovo insieme a bere un bicchiere di vino.

Zona di produzione: Il vino viene prodotto solo nelle migliori annate ed è ottenuto dalla vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella, Molinara e altri vitigni autorizzati provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nelle zone collinari dei comuni della zona Doc della Valpolicella, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni in prevalenza vulcanici con presenza di zone tufacee, argillose, calcaree e ciottolose, sono situati ad un’altitudine che va dai 140 ai 400 metri s.l.m., con esposizione a nord-ovest. Uve impiegate: Corvina 50%, Rondinella 30%, Molinara 5%, Corvinone e altri vitigni autorizzati 15% Sistema di allevamento: Pergola veronese bilaterale o semplice Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione delle uve, raccolte in surmaturazione, le quali sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla fine di gennaio. Raggiunta la maturazione, le uve vengono pigiate e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 45-60 giorni a temperatura ambiente; contemporaneamente avviene la macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, si procede alla svinatura e dopo un breve periodo di decantazione statica e terminata la fermentazione malolattica in acciaio, il vino è posto in botti di rovere francese da 35 e da 50 hl in cui rimane per 60 mesi circa, mentre un 15% della massa viene prima maturata in barriques e poi in acciaio. Terminata questa fase si procede all’assemblaggio delle partite e dopo un breve periodo di decantazione, in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3.500 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso impenetrabile, il vino al naso si presenta intenso con profumi che risultano complessi, profondi, che attraversano un ampio bouquet di percezioni olfattive che varia dalle note speziate di caffè, bastoncino di liquirizia e tabacco dolce da pipa a quelle eleganti di frutti rossi maturi. In bocca è equilibrato, elegante, sobrio, importante, con una buona sapidità che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1969 Le migliori annate: 1991,1995,1997 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 20 anni. L’azienda: L’azienda Aldegheri acquista principalmente le uve sul territorio da conferitori ormai storicamente sperimentati, anche se possiede vigneti propri che si estendono su una superficie complessiva di 42 Ha. La funzione di agronomo è svolta da Lorenzo Aldegheri; collabora in azienda l’enologo Luigi Andreoli. Altri vini I Rossi: Recioto della Valpolicella Classico Doc (Corvina 50%, Rondinella 30%, Molinara 5%, altri vitigni autorizzati 15%) Amarone della Valpolicella Classico Doc Barriccato (Corvina 50%, Rondinella 30%, Molinara 5%, altri vitigni autorizzati 15%) I Dolci: Passito Veronese Igt (Garganega 60%, Chardonnay 40%)




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Marilisa Allegrini

Il mio “essere imprenditrice” è legato fortemente al vino. Non so se avessi dovuto occuparmi di altri prodotti, cosa sarebbe potuto succedere. Forse sarei rimasta a fare la fisioterapista in ospedale, un lavoro che mi piaceva moltissimo e mi dava grandi soddisfazioni; in questo modo non avrei ascoltato le esortazioni di mio padre Giovanni ad immedesimarmi nella storia e nell’attività di famiglia, perché non basta, almeno credo, nascere in un contesto agricolo e vivere la tradizione contadina per farla propria, per impadronirsene. Occorre qualcosa in più, occorre farsi catturare nell’anima e capire quali siano le passioni che ti spingono ad andare avanti, a non fermarti mai davanti a nessuna vicissitudine e serenamente, alla fine di una giornata, centrare l’obiettivo di aver fatto tutto quello che era nelle proprie possibilità. È un approccio positivo alla vita, da cui non mi sono mai allontanata più di tanto e con il quale ho contrassegnato tutte le mie scelte nel mondo del vino che ho scoperto essere uno straordinario incantatore. L’emozione più intensa è stata percepirlo come una realtà viva, in continua evoluzione. Curare le vigne, vendemmiare, vinificare, conservare, affinare e poi narrare questa lunga storia di crescita agli altri, donne, uomini, giovani in giro per il mondo, non è un vero e proprio passaggio evolutivo? È così che è maturata la mia scelta: non era sufficiente, ribelle com’ero e come sono, continuare un’impresa anche se nobile e piena di fascino. Mi serviva sentire il vino come il mio elemento primo, la spinta a percorrere terreni ancora inesplorati. E per molti versi, agli inizi degli anni ‘80, quel mondo, pur ricco di rimandi storici, culturali e artistici, era davvero un luogo di possibili esplorazioni.Risultava complesso allora argomentare di marketing e comunicazione, figurarsi caratterizzare questi ragionamenti utilizzando una sensibilità tutta femminile, capace cioè di entrare nelle cose non soltanto con rigore scientifico, professionalità e preparazione tecnica, ma anche con dolce fermezza e desiderio di ricercare il piacere nelle sfumature. Piano piano i preconcetti consolidati cadevano ad uno ad uno e devo dire che mio padre, non dubitando nemmeno un attimo delle mie capacità, mi ha rafforzato nella convinzione di potercela fare nell’acquisizione di un po’ di necessaria autostima, contribuendo a farmi sviluppare, contemporaneamente, un adeguato senso critico. In questo mestiere bisogna saper mettersi in ascolto, dialogare e socializzare le esperienze. Se credi di essere arrivata o credi che non sia importante continuare a coltivare il gusto del dubbio e della ricerca, si può rischiare di compromettere il profilo innovativo dell’azienda o di limitarne il successo. Questa considerazione è valida in ogni contesto, ma per me è stata ancora più “incalzante” e mi ha dato l’opportunità di alimentare l’entusiasmo e quel desiderio di “mordere” la vita che mi ritrovo addosso. Non so da dove provenga questa voglia di vivere, di fare, di capire e di conoscere che mi caratterizza e mi fa sentire dentro una grande energia positiva; essa mi spinge a considerare ogni obiettivo raggiunto non un punto di arrivo, ma di partenza, dal quale avviarmi verso nuove esperienze, annullando la negatività delle insicurezze che trasformo in punti di forza e grimaldelli per scardinare le certezze appena acquisite. Scomparso mio padre, figura patriarcale e punto di riferimento generalmente riconosciuto, i miei fratelli ed io ci siamo trovati ad operare in una realtà, la Valpolicella, che doveva ancora conoscere la stagione della propria rinascita, alla quale noi Allegrini abbiamo contribuito in modo determinante. Un impegno che si è protratto per anni e durante questo periodo ci siamo rimboccati le maniche, confrontandoci con gli altri territori a spiccata vocazione enologica, degustando i vini più amati dai consumatori internazionali, colloquiando con la ristorazione di qualità e arrivando a comprendere che non ci si poteva, né ci si doveva più chiudere in una dimensione localistica o arroccarsi a difesa di un passato che nessuno capiva più, ma che era sorta l’esigenza insopprimibile di coniugare la tradizione con l’innovazione. Da queste esperienze è sorto il bisogno di dare al nostro marchio e ai vini dell’intera gamma un netto segno identitario; da qui l’idea di valorizzare all’estremo i poderi di famiglia e il vitigno più rappresentativo della zona, la Corvina, vinificando un Amarone di più facile “beva”, contribuendo così a farlo diventare oggetto dell’immaginario collettivo e prodotto “culto” dei consumatori mondiali.


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella e Oseleta provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel cuore della Valpolicella Classica. L’età media delle viti è di circa 30 anni.

È per questo che, dopo aver fatto tutto ciò, possiamo dire, senza falsa modestia, che il rinascimento della Valpolicella porta anche la nostra firma. Oggi l’azienda è cresciuta molto: la superficie vitata di proprietà è salita a circa un centinaio di ettari, mentre le bottiglie, da quando ho iniziato ad occuparmi di marketing, sono passate da 200.000 a 900.000, distribuite in tutti i più importanti mercati del vino del mondo; fa piacere inoltre ricevere di continuo numerose attestazioni di stima da parte del pubblico e della critica di settore. Ma con un carattere come il mio non mi sentivo completamente appagata e così, nel pieno rispetto dei progetti e dell’idea che avevo costruito e condiviso con mio fratello Walter, che purtroppo non è più con noi, oggi ho una nuova passione a Bolgheri che si chiama Poggio al Tesoro, un’azienda che ha preso forma e cuore in un terroir fantastico come quello dell’alta Maremma Toscana. Quando si è figli di vignaioli di razza, non c’è confine che tenga; gli eccellenti risultati raggiunti in un determinato luogo permettono di spaziare in altre dimensioni, di calarsi in altri scenari e contemplare orizzonti più ampi. Se le persone qualificate, giovani e piene di entusiasmo che mi sono vicine continueranno a darmi fiducia, penso che l’energia positiva, che sento di avere e di trasmettere, porterà altri buoni frutti. Del resto, cosa c’è da aspettarsi da una fisioterapista, vignaiola, donna di marketing e madre di due figlie vitalissime e curiose?

Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni calcarei ricchi di scheletro molto drenanti ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 280 metri s.l.m., con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Corvina 80%, Rondinella 15%, Oseleta 5% Sistema di allevamento: Pergola doppia Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda metà di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino a gennaio o fino a quando non si è raggiunto l’appassimento ideale. Al termine di questo periodo le uve si avviano alla pigiatura e il mosto ottenuto subisce una breve crioestrazione ad una temperatura compresa fra 8 e 22°C, al termine della quale, con l’innalzamento della temperatura, si avvia naturalmente la fermentazione alcolica che si protrae per 35 giorni a temperatura ambiente in recipienti di acciaio inox; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura solo 21 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Alla fine del mese di febbraio successivo alla vendemmia, si procede alla svinatura e il vino, dopo un breve periodo di decantazione è posto in tonneaux e barriques di vari legni di media tostatura a grana fine in cui rimane per 18 mesi. Al termine della maturazione avviene l’assemblaggio delle partite e, dopo un periodo di stabilizzazione che dura 7 mesi, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 14 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodott: 125.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi granati, il vino al naso si presenta complesso, elegante, quasi intrigante con un bouquet che spazia da sentori di frutta secca a note speziate, dolci e amare, di liquirizia e tabacco dolce da sigaro, che si aprono a percezioni amarognole di muschio e a quelle floreali di violetta. In bocca è elegante, equilibrato, ricco di una fibra tannica setosa e piacevole, la quale è sorretta da buona sapidità e da una vena alcolica che accompagna tutta la degustazione contribuendo a dare un finale lungo e persistente. Prima annata: 1956 Le migliori annate: 1979, 1985, 1988, 1990, 1995, 1997, 1999, 2001, 2003 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Allegrini dalla fondazione, nel 1854, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, tutti vitati. L’agronomo è Paolo Mascanzoni, mentre la funzione di enologo è svolta da Franco Allegrini. Altri vini I Rossi: Valpolicella Classico Doc (Corvina 60%, Rondinella 35%, Molinara 5%) La Poja Igt Veronese (Corvina 100%) La Grola Igt Veronese (Corvina 70%, Rondinella 15%, Syrah 10%, Sangiovese 5%) Villa Giona Igt Veronese (Cabernet Sauvignon 50%, Merlot 40%, Syrah 10%) Palazzo della Torre Igt Veronese (Corvina 75%, Rondinella 25%, Sangiovese 5%)


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Tommaso, Roberto e Lisa Anselmi

Ti vorrei raccontare una storia che si svolge in un tempo lontano, molto lontano, quando in questa zona del Soave esistevano due mondi contrapposti. Tanto tempo fa, da una parte c’era il mondo dei viticoltori, dei contadini e di tutti quelli che possedevano qualche acro di vigna e lavoravano diligentemente tutto l’anno intorno alle viti per raccogliere l’uva e cercare poi di venderla al migliore offerente, mentre dall’altra parte, in contrapposizione, c’era un altro mondo, composto per lo più da chi comprava quelle uve, produceva migliaia di ettolitri di vino e vendeva milioni di bottiglie. Due mondi che, pur se vicini, erano culturalmente distanti anni luce fra di loro e si guardavano spesso in cagnesco, poiché, da una parte c’era chi combatteva una personale guerra per la sopravvivenza e dall’altra chi, invece, si trovava impantanato in una quotidianità complessa che lo poneva davanti alla variabilità dei mercati. Due mondi che traevano profitto, entrambi, dal grande universo del vino, ma al quale, ognuno dei due chiedeva di rispondere a esigenze diverse, certe volte anche contrapposte. Ogni vendemmia era uno scontro furente e acceso fra i due mondi, uno scontro che, come sempre, si basava solo sulle questioni economiche di quanto dovevano o potevano essere pagate le uve che il mondo dei vignaioli vendeva al mondo dei vinattieri. A quell’appuntamento ciclico, che si ripeteva una volta all’anno, nessuno dei contendenti voleva mancare. Un bel giorno però, molto tempo dopo, successe un fatto eccezionale che modificò i rapporti fra quei due mondi in modo radicale e determinò un diverso approccio, per entrambi, all’universo vino, creando delle regole non scritte nelle quali si stabiliva che ognuno, nella massima autonomia, era libero di decidere cosa fare, come circolare fra quei due mondi e se usufruire dei vantaggi che l’altro gli poteva offrire. Fu un evento catartico per l’universo del vino, ma sembrò dare a tutto l’ambiente un momento di pace e di estrema euforia. Così, molti piccoli produttori di uve si misero a produrre vino e molti commercianti provarono a diventare vignaioli, creando fra quei due mondi uno scambio di idee, di opinioni e di opportunità quale non si era mai visto prima di allora. Il primo mondo insegnò al secondo come si sarebbero dovute tenere le vigne, i tempi, i modi e l’impegno che esse richiedevano, mentre il secondo insegnò all’altro quali e quante fossero le difficoltà che si sarebbero incontrate nel dialogare con il mercato. Fu un exploit, un momento meraviglioso quello che avvenne in quel tempo lontano. Vi fu un incontro e uno scontro di intelligenze e di idee che viaggiavano veloci da una parte all’altra, idee che non si erano mai attuate prima di allora, e che, in poco tempo, misero sotto sopra le conoscenze e le certezze che tutti avevano, creando nuove linee guida e prospettive che ognuno interpretava, verificava e proponeva in un mercato che abbatteva le barriere territoriali e diventava, magicamente, globale, dove la lingua veneta era sostituita dal francese, dall’inglese, dallo spagnolo o dal giapponese. In quel grande movimento “illuministico” vi furono anche scontri violenti fra le vecchie e le nuove generazioni e, soprattutto, fra chi predicava il nuovo verbo e chi voleva rimanere ancorato a ciò che aveva conquistato faticosamente. Da lì partì un’altra storia che è ancora tutta da scrivere e che io non ti posso raccontare, perché non so come andrà a finire, ma dove sembra che ciò che scosse maggiormente il tutto sia stata la grande presa di coscienza, da parte di entrambi i mondi, su quali dovessero essere i canoni qualitativi su cui operare e competere. Come potrai aver immaginato, da come io ne parlo in modo accorato, conosco bene quanto ti ho raccontato, poiché ho vissuto quella storia in modo diretto e anche in modo un po’ duro. L’ho imparata trovandomi in mezzo a quei turbolenti cambiamenti che scossero i due mondi, scontrandomi proprio con mio padre che, appartenendo al secondo, mi offriva la “splendida” opportunità di vivere una vita condotta ad assemblare vini in una cantina che, già a cavallo degli anni Sessanta, commercializzava quasi 20.000 ettolitri di vino venduto in cisterne, damigiane e bottiglioni. Una prospettiva che mi atterriva e che percepivo come una chiusura e una limitazione di fronte a ciò che stava succedendo nell’universo del vino, in quegli anni Ottanta, e che io avevo avuto la fortuna di poter constatare andando in giro per il mondo. Stava cambiando tutto e nessuna piccola mentalità provinciale, né remora finanziaria mi avrebbero fermato. Così chiusi l’azienda di mio padre e comprai dei vigneti, più di quanti potessi permettermi, indebitandomi come non lo ero mai stato,


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I Capitelli Bianco Veneto Passito IGT lavorando, per dieci anni, come non avevo mai lavorato, senza distrarmi e perdendomi, purtroppo, anche alcuni momenti importanti della mia vita come la Comunione dei miei figli, dove arrivai in ritardo per seguire un contenzioso che avevo a San Francisco, negli Stati Uniti. Ho dovuto sempre lottare per costruire quello che vedi, contro tutto e tutti, ponendomi anche in contrasto con lo stesso Consorzio di Tutela del Soave, dal quale sono uscito, convinto e fedele alle mie idee libere, quelle che credono che la qualità, in questo pianeta del vino, sia uno dei princìpi cardine su cui non è possibile discutere, poiché la qualità deve essere l’espressione diretta delle capacità che ha l’uomo di amalgamare perfettamente le proprie cognizioni tecniche ed enologiche con una grande viticoltura. Se si riesce a fare tutti, bene, altrimenti ognuno per la propria strada. Del resto, ho passato una vita a correre per cercare di costruire un’azienda che fosse in equilibrio in tutte le sue componenti, per creare un personale modello di qualità che fosse legato il più possibile allo stile di questo grande territorio del Soave. Quando sorvolo questa terra con il mio elicottero, ne apprezzo le sfumature, i colori e il fascino e penso di aver fatto bene a fare ciò che ho fatto, anche se non mi sento vincitore di nessuna particolare sfida. Sento solo di essere in pace con me stesso, perché ciò che faccio mi rappresenta e credo che sia questa la mia vera e unica vittoria.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nelle alte colline Foscarino e Zoppega, nei comuni di Monteforte d’Alpone e Soave, le cui viti hanno un’età media di 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni basaltici, “toar”, e calcarei ricchi di minerali, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e guyot Densità di impianto: 7.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, a temperatura ed umidità controllate, fino alla fine di dicembre. Poco prima di Natale si procede alla pigiatura dell’uva e il mosto, inoculato da lieviti naturali già in pre-fermentazione, è avviato alla fermentazione alcolica che si svolge, a temperatura ambiente, in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di 2° e 3° passaggio e in cui rimane, sui lieviti naturali, per 8 mesi, durante i quali, almeno nella prima fase si procede a frequenti bâtonnages settimanali. Al termine della maturazione si effettua l’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 30.000 bottiglie Note organolettiche: Di un bel colore oro brillante con riflessi ambra, il vino al naso presenta note piacevoli di albicocca in confettura, miele di zagara e caramella mou che si vanno via via ad aprire a piacevoli sensazioni di scorza di arancia e crema pasticcera al limone con un finale che ricorda la frutta secca. In bocca è suadente, elegante, morbido, equilibrato, con una buona dose di mineralità che lo rende piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1982 Le migliori annate: 1990, 1994, 1995, 1997, 1998, 2000, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dall’utilizzo delle uve provenienti dai diversi appezzamenti dei vigneti nelle cui vicinanze si trovano dei capitelli votivi, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà di Roberto Anselmi dal 1972, l’azienda si estende su una superficie di 70 Ha, di cui 55 vitati e 15 occupati da boschi. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Roberto Anselmi. Altri vini I Bianchi: Capitel Foscarino Igt Veneto (Garganega 90%, Chardonnay 10%) Capitel Croce Igt Veneto (Garganega 100%) San Vincenzo Igt Veneto (Garganega 80%, Chardonnay 15%, Trebbiano di Soave 5%) I Rossi: Realda Igt Veneto (Cabernet Sauvignon 100%)


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Gian Matteo Baldi

Sicuramente vi sarà capitato di incontrare nella vita oggetti, persone, cose o marchi che trasmettono una grande energia. Se vi è successo vi sarete accorti che questa percezione è netta, forte, quasi immediata; qualche volta inibisce e vi costringe a prestare attenzione, crea rispetto, affascina ed entusiasma in modo incredibile. Non so se vi è mai accaduto un incontro simile. Io, se dovessi raccontarne uno, parlerei di quello che ho fatto qualche anno fa, venendo a lavorare in quest’azienda di vini come direttore commerciale. Avevo già fatto altre esperienze e conoscevo bene quali fossero i pro e i contro del muoversi all’interno di strutture commerciali simili, in aziende che hanno l’onore e l’onere di dover rappresentare un marchio storico che brilla di luce propria, ma che, molto spesso, è solo autoreferenziale. Appena arrivato mi accorsi che qui molte cose erano diverse. Non so spiegarlo se non attraverso quel concetto che cercavo di definire prima, che si riferisce a quella speciale energia trasmessa da alcune cose, a prescindere da ogni considerazione razionale. Qui mi accorsi che era tutta un’altra musica: dalla filosofia aziendale al concetto stesso di azienda, fino agli uomini che vi lavoravano, fossero essi impiegati o cantinieri, la maggior parte dei quali erano figli di altri cantinieri che qui erano cresciuti, invecchiati e andati in pensione trasferendo loro l’esperienza e quella tradizione che con loro si era arricchita, evoluta e modificata. Anche le strategie aziendali, i budget, i sistemi di promozione e di marketing erano diversi: tutti orientati sul concetto storico di appartenenza dell’azienda a questa terra, a questa regione, a questa nostra nazione. Ogni cosa, pur essendo diversa e più o meno complessa rispetto all’altra, sprigionava al suo interno il coraggio di chi mi aveva preceduto, il quale aveva voluto lasciare inalterato ciò che di buono il tempo aveva plasmato e sedimentato, cercando di essere il meno invasivo possibile al fine di mantenere inalterati gli aspetti vitali della tradizione. Qui scoprii che esisteva ancora una cosa grandiosa e oggi rarissima per un’azienda vitivinicola: il buon senso, legato fortemente alla cultura contadina della zona, che aveva portato chiunque avesse operato nella Bertani ad avere un’attenzione tutta particolare per il lavoro, nel rispetto totale di ciò che, sopravvivendo allo scorrere del tempo, era divenuto storia. Ecco le origini di quel feeling che avevo percepito subito in modo netto e forte; ecco cosa era quell’energia che mi calamitava attirandomi piacevolmente a sé e permettendomi di utilizzarla. Compresi che presto mi sarei ritrovato a vestire altri panni rispetto a quelli che avevo indossato fino a poco tempo addietro, che avrebbero dovuto essere confezionati da un occhio attento capace di memorizzare e trasferire l’esperienza accumulatasi in oltre centocinquant’anni di storia. Era dalla storia che venivano tutta questa forza e questa energia? Per comprenderlo mi bastò frugare in quei 150 anni appena trascorsi che avevano marcato e contraddistinto quest’azienda e capire chi fossero i suoi padri fondatori: i fratelli Bertani. Una storia che coinvolgeva la nascita dell’Italia, il Risorgimento e i moti Carbonari ai quali i fratelli parteciparono nel 1848, prima di essere scoperti dagli austriaci e vedersi costretti a rifugiarsi in Borgogna. Arrivati in questa regione, anche se non fossero già stati appassionati e attenti uomini di vino, lo sarebbero certamente diventati, grazie alla fortuita occasione di partecipare, involontariamente, ma con grande interesse, alla grande metamorfosi che avveniva proprio in quegli anni nel settore vitivinicolo. Furono anni che segnarono il passaggio tra l’antica e la moderna enologia. In Francia in quel periodo operava Louis Pasteur, colui che per primo pose le basi scientifiche per il controllo completo delle fasi produttive del vino, cose che per migliaia di anni prima di lui erano state catalogate soltanto come un “magico” miracolo della natura. Poi l’Unità d’Italia! Il ritorno in patria dei fratelli Bertani e la loro voglia di costruire il “nuovo” attraverso l’entusiasmo, la forza, l’energia di quelle fantastiche scoperte che, nel frattempo, avevano profondamente modificato oltr’Alpe la viticoltura. La grandezza dei due fratelli Bertani era stata quella di essere stati i fautori, in questa parte di Veneto distante anni luce dalla “loro” Borgogna, di un nuovo concetto di fare vino. Personaggi unici, capaci di proiettarsi nel futuro con spirito incredibile e grandissima energia, stravolgendo i vetusti schemi della viticoltura locale di allora e costruendo, passo dopo passo, un’azienda che per decenni è rimasta senza uguali. Quando conobbi la loro storia pensai che sicuramente dovevano essere stati uomini di grandi ideali, e anche molto pragmatici; infatti furono forse i primi a unire ad una chiara e aggiornata visione della viticoltura il senso pratico della sana cultura contadina da cui provenivano e che in loro trovava una delle espressioni più felici.


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Ecco da dove veniva quell’incredibile energia che mi aveva stregato! Ed era forte e ancora viva perché si era sviluppata in maniera equilibrata, senza forzature, evolvendosi in modo spontaneo e crescendo rigogliosa, secondo una linea di serena coerenza fra passato e futuro. Magicamente percepivo che in tutto quello che mi aveva preceduto c’era sempre stata una grande logicità e un grande rigore morale, lontano dalla rigidità intellettiva che avevo trovato altrove. Percepivo questa linea di ininterrotta costanza soprattutto negli equilibri dei vini aziendali che andavo degustando, a partire dall’Amarone che era diventato un classico, con tutti gli elementi che lo rendevano tale e che rispecchiavano perfettamente le parole di Calvino: “I classici sono classici (…) poiché non hanno bisogno della modernità per cambiare…”. Compresi quale doveva essere il mio ruolo in un sistema nato molto tempo prima che io nascessi e che avrebbe resistito a lungo, anche al mio passaggio. Non ero che un viaggiatore di passaggio in un sistema che meritava il mio rispetto e che era riuscito a integrare l’esperienza degli uomini alle cose, dove l’occhio vigile di chi sa e conosce è a disposizione di chi deve imparare per proseguire la tradizione. Negli ultimi vent’anni la tecnologia avrebbe consentito a questa cantina di economicizzare e, forse, migliorare il lavoro, ma avrebbe sicuramente modificato il risultato finale, cosa che nessuno qui, alla Bertani, vuole. Come si fa a spiegare a un australiano o a un francese il segreto per seguire un appassimento naturale? Io, che sono qui da pochi anni, non saprei trovare le parole giuste per farlo, come credo nessuno dei cantinieri saprebbe trovarle, poiché qui, in cantina e in vigna, ci sono molte cose che necessitano dell’occhio attento e della sensibilità di chi ha l’esperienza accumulata dopo tantissime vendemmie alle spalle. Non ce la siamo sentiti di alienare questo patrimonio culturale e queste risorse umane che fanno parte del patrimonio dell’azienda allo stesso modo in cui ne fanno parte i tini, le botti, la cantina, lo stesso fabbricato e i 130 ettari vitati di proprietà. Anche in questi vigneti ritrovavo la magnifica coerenza che da 150 anni contraddistingue le cantine Bertani: una coerenza non solo d’immagine, ma di sostanza. Che poi questa cantina sia l’unica ad avere in listino venticinque annate di Amarone è senz’altro l’elemento indicativo di una storia che non tramonterà mai.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina e Rondinella provenienti dai vigneti dell’azienda posti in località Villa Novare ad Arbizzano nel comune di Negrar, le cui viti hanno un’età che varia dai 10 ai 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona pedemontana su terreni marnosi calcarei e lavo-basaltici, sono posti ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Corvina 80%, Rondinella 20% Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono in poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino a gennaio o fino a quando non si ha l’appassimento ideale. Poi le uve si avviano alla pigiatura e il mosto ottenuto viene posto in vasche di cemento in cui rimane per 15-20 giorni ad una temperatura naturale compresa tra i 4 e i 5°C, poi vi è la fermentazione alcolica per un periodo di 20-30 giorni, con una temperatura massima di 18°C nella parte finale. Terminata questa fase si procede alla svinatura e il vino, dopo un breve periodo di decantazione, è posto in botti di rovere di Slavonia con una capacità che varia da 8 a 60 Hl, dove rimane per 72 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati almeno tre travasi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 100.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso di grande luminosità, al naso il vino si presenta elegante, complesso, con intriganti profumi balsamici e di spezie dolci che si aprono a piacevolissime percezioni di frutti rossi e fragranze floreali con note speziate di foglie di tè, coriandolo, paprica dolce e cumino. In bocca è elegante, morbido, accompagnato da una fibra tannica setosa che si amalgama con un’ottima freschezza che sorregge grande lunghezza e persistenza. Prima annata: 1958 Le migliori annate: 1964, 1968, 1971, 1975, 1980, 1988, 1990, 1997, 1998, 2000 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Bertani-Arvedi dal 1857, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 360 Ha, di cui 130 vitati, mentre i restanti 230 sono occupati da boschi, seminativi e oliveti. Collaborano in azienda l’agronomo Moreno Perotti e l’enologo Cristian Ridolfi. Altri vini I Bianchi: Sereole Soave Doc (Garganega 100%) Le Lave Igt Veneto (Chardonnay 50%, Garganega 50%) I Rossi: Albion Igt Veneto (Cabernet Sauvignon 100%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ognissanti (Corvina 80%, Rondinella 20%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ripasso (Corvina 80%, Rondinella 20%) Amarone della Valpolicella Doc Valpantena Villa Arvedi (Corvina 80%, Rondinella 20%)




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“In tuti se fa tut, in tuti se magna fora tut” (In tutti si fa tutto e in tutti si può perdere tutto)

Claudio, Antonio, Gianluca, Eliseo, Desiderio e Alberto Bisol

Così nonno Desiderio, il padre di Antonio ed Eliseo, ripeteva ai nostri rispettivi genitori. Anzi, ricordava loro che erano i debiti a tenere unite le famiglie e li consigliava, quindi, di farne molti, in modo da essere costretti a stare insieme per pagarli e, nelle difficoltà, a trovare la forza di non tirarsi indietro e dare ognuno all’altro ciò che avesse di meglio da dare. È in questa atmosfera di unione e di forza che noi siamo cresciuti ed è, forse, per il solito motivo che ripeteva nonno Desiderio che non ci siamo tirati indietro quando ci è stato chiesto di dare continuità a questa azienda, certi che l’unione dia la forza di poter affrontare qualsiasi impegno e raggiungere quegli obiettivi che, insieme, ci siamo prefissati. Per i Bisol, la famiglia è sempre stata il fulcro intorno alla quale si muovono tutte le cose. È il punto di partenza e di arrivo di ogni nostro progetto. È il pane con il quale tutti noi ci siamo nutriti fin da piccoli e che, anche ora che siamo diventati adulti e ognuno di noi ha un proprio nucleo familiare, rimane sempre il principale volano che ci dà l’energia per stare uniti. È lo spartiacque che determina i ruoli, all’interno dell’azienda e della famiglia; ruoli che non sono soltanto utili, ma, come un’eredità che arriva dal passato, devono essere rispettati e “indossati” come una divisa, con responsabilità, e accompagnati dall’impegno che ognuno di essi richiede, sia che rappresenti il patriarca della famiglia o che si tratti del figlio o del nipote che ricopre, in azienda, il ruolo di consigliere, di enologo, di vignaiolo, di marketing o product manager. Una missione di continuità, quindi, che coinvolge indistintamente l’aspetto familiare e quello lavorativo, come è sempre stato fra queste mura domestiche o in mezzo ai vigneti; una missione che si integra con la storia di questo territorio che vede indicati i Bisol già a partire dal censimento del 1542 come “produttori e viticoltori con 40 campi di chartice”, nome originario del Cartizze, “affittuari delle terre dei Conti Pola”, nobili che, all’epoca, possedevano tutte le colline qua intorno a Santo Stefano di Valdobbiadene. Siamo sempre stati una famiglia di vignaioli, quindi, che ha lavorato su queste ripide colline, sconfiggendo le avversità e le guerre che qui sono passate, feroci, furiose e distruttive. No, non l’abbiamo mai abbandonata questa terra che, da una parte, digrada verso il Piave e, dall’altra, si arrampica fin sulle montagne, perché crediamo di avere avuto la fortuna di nascere e di vivere in un posto meraviglioso, dove si produce un prodotto straordinario come il Prosecco, un vino antico già conosciuto al tempo dei Romani, che lo chiamavano “pucinum”, ma che, fino al 1700, rappresentava solo il dieci per cento dei vigneti di questo territorio, occupato per la parte rimanente da vitigni come la Bianchetta, la Boschera e la Perera. Dopo le distruzioni della seconda Guerra Mondiale, che avevano spazzato via la cantina e la distilleria di famiglia, Antonio e Eliseo ripresero da dove aveva lasciato il padre, ricostruendo, lentamente ma con decisione, i vari corpi dell’azienda, ripristinando la cantina, acquisendo nel frattempo altri vigneti e allargando così la proprietà che, dai 28 ettari del dopoguerra, è passata agli attuali 120, di cui 100 vitati. Man mano che crescevamo anche noi, Gianluca, Desiderio, Claudio e Alberto, i figli di Antonio ed Eliseo, incominciammo a percorrere il corridoio che conduce dalla famiglia all’azienda, coscienti e consapevoli di avere un ruolo ben preciso da ricoprire, ognuno secondo le proprie competenze e secondo le necessità che l’evoluzione e la complessità dei mercati richiedono oggi ad un’azienda che vuole operare guardando con serenità al futuro. Un’azienda familiare, numerosa ma familiare, che, forse, in questa moderna internazionalizzazione potrebbe essere considerata una realtà un po’ obsoleta, ma, se anche così fosse, la cosa non ci preoccupa, poiché, sicuramente, l’unione fra il nostro concetto di famiglia e di azienda e il connubio che abbiamo saputo costruire fra tradizione e futuro, ci danno grande forza e personalità che servono a distinguerci. Non è un caso che, dietro alla specifica personalità del nostro Prosecco, ci sia la storia di questo territorio e quella delle nostre personali vicende familiari, come non è un caso che puntiamo dritti e spediti alla valorizzazione massima della qualità di questo vino, per riuscire, in pochi anni, a diventare un’azienda fra le migliori nell’ambito degli spumanti


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Eliseo Bisol Millesimato VSQ Metodo Classico Cuvée del Fondatore italiani. Per arrivare a fare questo dobbiamo lavorare nella vigna, ricercando, nelle uve che produciamo, i profumi e quelle espressioni fruttate che c’erano una volta. Un impegno che si ricollega al modo che abbiamo di interpretare il nostro lavoro e i nostri rapporti interpersonali con gli altri membri della famiglia, costruiti sulle solide basi di una cultura contadina, patriarcale, ricca di valori, ma anche di ferree regole, che richiedono impegno e un grande rispetto reciproco, messo anche davanti ai sentimenti e all’amore. È così che sono cresciuti Eliseo e Antonio, ponendo davanti a tutto, nell’arco della loro vita, solo il lavoro, il quale doveva essere accompagnato dall’impegno di riuscire a dare garanzie ai propri cari. Un forte senso di responsabilità che ha bilanciato il loro rigido modo di esprimere i sentimenti nei nostri confronti. Nessuno di noi, infatti, ha mai ricevuto un gesto d’affetto da parte del proprio genitore, poiché le priorità, in famiglia, erano altre ed escludevano particolari esternazioni affettuose. Basta guardarli per vedere che appartengono ad un’altra epoca, ricca di uomini integri, granitici, tutti di un pezzo, che hanno fatto la storia di questo territorio e, pur volendo davvero bene ai loro cari, difficilmente trovavano le occasioni per dimostrare questo affetto profondo. Sono così: grandi uomini che ancora oggi rappresentano un punto di riferimento importante per noi.

Zona di produzione: Il vino è una selezione delle migliori uve Pinot Bianco, Chardonnay e Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Rolle nel comune di Cison di Valmarino, le cui viti hanno un’età media di 15 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi con forte presenza di tufo e argilla, ad un’altitudine di oltre 300 metri s.l.m., con esposizione a est / sud-ovest. Uve impiegate: Pinot Bianco 40%, Chardonnay 40%, Pinot Nero 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 2.800 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla fine di agosto, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e con il mosto ottenuto, introdotto in tini di acciaio termocondizionati, si dà avvio, con l’utilizzo di fermenti autoctoni, alla fermentazione alcolica che si protrae per circa 21 giorni alla temperatura di 18-20°C. Ognuno dei vitigni per un quinto viene messo a fermentare in barrique. Terminata questa fase, si procede a una decantazione statica del vino che rimane comunque nei contenitori in acciaio in cui, attraverso l’utilizzo di sur lies periodici, viene agevolato lo svolgimento della fermentazione malolattica la quale è fatta svolgere per intero. Verso la fine dell’anno successivo alla vendemmia, il vino viene imbottigliato sui suoi lieviti dove rimane per circa 48 mesi, periodo durante il quale sono effettuati periodici remuages al fine di canalizzare i sedimenti in punta alla bottiglia. Trascorso questo lungo periodo di maturazione e affinamento, si procede alla sboccatura, al rabbocco e all’inserimento della liqueur d’éxpedition; lo spumante è poi nuovamente lasciato affinare per altri 3 mesi in bottiglia prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 4.180 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta all’esame visivo con un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati con una spuma delicata e un fine perlage, mentre all’esame olfattivo risulta elegante, dolce, con profumi di fiori di campo e di frutta come papaia e ananas maturo oltre a note di lieviti. In bocca ha un’entratura secca, fresca, con una stoffa vellutata lunga e persistente e chiude con note di mandorle. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990, 1993, 1997, 2000 Note: Il vino, che prende il nome dal “talento” di Eliseo Bisol, il fondatore dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 5 i e i 12 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Bisol dal 1542, l’azienda si estende su una superficie complessiva di 120 Ha, di cui 100 vitati e 20 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolgono funzione di agronomo Eliseo Bisol e Walter Biasi, mentre quelle di enologo sono svolte da Eliseo e Desiderio Bisol. Altri vini Gli Spumanti: Prosecco di Valdobbiadene Doc Dry Garnei (Prosecco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Extra Dry Vigneti del Fol (Prosecco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Superiore di Cartizze Dry (Prosecco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Brut Jeio (Prosecco 90%, Pinot Bianco 6%, Verdiso 4%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Brut Crede (Prosecco 85%, Pinot Bianco 10%, Verdiso 5%) Brut Riserva Millesimato (Chardonnay 40%, Pinot Bianco 40%, Pinot Nero 20%)


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Stefano Cesari

Per spiegarti cosa sia realmente successo in Valpolicella in questi ultimi vent’anni potrei utilizzare la retorica o attingere a dei neologismi che, con il tempo, ho scoperto in comune fra questo e altri territori; potrei essere esplicito e crudo in questa mia esposizione o ricercare delle parabole per descriverli, oppure attingere ai luoghi comuni di quella saggezza popolare che, meglio di qualsiasi altra cosa, sa descrivere come siano andati i fatti. So soltanto che per risalire la china certe volte è necessario toccare il fondo e nessuno può negare che, negli anni Ottanta, il vino veneto abbia toccato il fondo, sia in termini qualitativi che di immagine. Un risultato a cui concorsero tanti fattori negativi, a partire principalmente dall’immissione sul mercato di vini dozzinali, costruiti a tavolino e nati per soddisfare solo la crescente domanda e i bisogni della grande distribuzione. Erano gli anni in cui c’erano poche aziende vitivinicole e molte industrie imbottigliatrici che contribuirono, non poco, a minare quell’immagine che il vino veneto si era conquistato faticosamente almeno fino alla metà degli anni Settanta. Era una produzione che non aveva niente a che fare con quella odierna, anche se - devi sapere - quei vini si producono ancora, come del resto esistono sempre le cantine che, ieri come oggi, con due ettari di vigna, producono venti milioni di bottiglie. Credimi, oggi le cose non sono cambiate molto, anche se si è innalzato assai il livello qualitativo dei vini commercializzati rispetto a quelli di allora, che avevano poco a che fare con questo territorio, ma che, purtroppo, lo rappresentavano. Non so dirti come fossimo arrivati a quel pessimo risultato. Sta di fatto che quando, nel 1986, decisi di dedicarmi all’azienda di famiglia le cose non andavano molto bene per il settore vitivinicolo, anzi direi il contrario. Arrivai in questa azienda di proprietà di nonno Renzo, che contava 10 ettari vitati, dopo aver lasciato il mio lavoro di venditore di macchine movimento terra che svolgevo con lo zio Carlo. L’anno del mio ingresso nel mondo del vino coincideva con l’anno del mio matrimonio, ma anche con lo scandalo del metanolo. Il settore era in difficoltà, ricco di insidie e privo di etica. Le cose non erano facili, né per me, né per nessuna piccola azienda vitivinicola come la mia, sia che producesse Prosecco, Soave o Amarone che, pur essendo considerato oggi il nostro vino più rappresentativo, in quegli anni non riceveva molta considerazione dal mercato e venderlo era un’avventura nonché una fatica immane. Cercai di sopperire a quella situazione contingente con l’entusiasmo del neofita e con il desiderio di cambiare le cose, ora modulando al meglio la produzione, ora ottimizzando i vigneti e la cantina. Qualsiasi sforzo facessi era inutile. Mi sembrava di combattere una guerra impari contro un mercato sempre più affascinato da chi produceva “alta qualità”, cosa che noi Veneti non facevamo. Non sapevo come comportarmi e più passava il tempo più mi accorgevo che stavo navigando alla cieca, senza un fine o una cognizione di dove stessi andando o, peggio ancora, senza una via di uscita da quell’imbuto in cui ero caduto. Ma le luci che potevano illuminare il mio cammino non erano tutte spente. In lontananza ce n’era una piccola, ma luminosa, che sembrava essere lì ad indicarmi la strada da seguire. Con un gruppo di amici, tra cui gli Allegrini, Paolo Galli, Renzo Begali e tutti quelli che ora vanno per la maggiore fra i produttori di questa zona, decidemmo di seguire quella luce arrivando dal padre putativo dell’Amarone moderno: il grande Quintarelli. Presto altri si aggregarono intorno a noi, spinti da un grande fervore. Nel settore vitivinicolo della Valpolicella sembrava di vivere una nuova primavera culturale che coinvolgeva un po’ tutti, con un aiuto reciproco che non precludeva né un’aperta discussione, né una trasparente trasmissione di informazioni. Essendo il più loquace e quello del gruppo che “se la cavava meglio con l’italiano”, ero sempre indicato da tutti come il portavoce nelle occasioni ufficiali, quando prendevo la parola o dovevo intessere dei rapporti. Pensavamo che tutto potesse contribuire a modificare le cose e a migliorare ciò che avevamo fatto fino a quel momento. Seguirono momenti molto costruttivi e diverse riunioni, alcune delle quali anche con Carlo Petrini e con i governatori dello Slow Food, i quali ci aprirono le porte delle cantine delle Langhe piemontesi e di personaggi come Elio Altare, Paolo Scavino o Elio Grasso. Quelli furono incontri veramente importanti. Ci misero in contatto con le menti più illuminate della scena vitivinicola di allora. Ci stimolarono con un’iniezione di fiducia che ci consentì di avviare il processo


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Case Vecie di miglioramento della filiera produttiva dell’Amarone, di cui tutti percepivamo le grandi potenzialità. Le riunioni si alternarono ad altre riunioni e ne rammento una, a Natale, con un freddo terribile, quando ci recammo, tutti insieme, a casa di Gino Veronelli accompagnati da Nino Franceschetti, per fargli degustare la vendemmia del 1995 e con essa i nostri progressi. In tutta Italia era stata un’annata difficile, a differenza di quanto era avvenuto in Valpolicella, dove non aveva quasi mai piovuto. I risultati erano sotto il naso di tutti e si percepivano benissimo in quelle campionature. Fu così che il grande Gino decise di darci una mano affiancandoci Francesco Arrigoni e facendo un battage promozionale su quell’annata di Amarone che non aveva precedenti. Quella fu la svolta, l’incoronazione dell’Amarone nel gotha dei grandi vini del mondo e, da quell’anno, le vendite si impennarono e le cose incominciarono a cambiare per i vignaioli della Valpolicella. Tutto il resto, come potrai ben comprendere, è storia recente, poiché come vignaioli siamo nati ieri, anche se qui sono già in molti che si sentono “arrivati”. Io, invece, anche se sarei potuto andare molto più veloce di quanto ho fatto, avendo l’opportunità di far crescere questa azienda e il numero delle bottiglie commercializzate, sono andato piano piano, rispettando i tempi di una crescita naturale in un rapporto equilibrato fra vigneti e produzione, non lasciandomi mai prendere da frenesie inconsulte o dalle voci ammalianti delle “sirene” del mercato. In quest’anni ho attuato la politica dei piccoli passi nella speranza che il vento non spengesse la mia luce, utile, forse, per chi, un domani, vorrà seguirla.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Corvinone e Rondinella provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Case Vecie nel comune di Grezzana, le cui viti hanno un’età che varia dai 5 ai 15 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argilloso-limosi, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 450 e i 500 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Corvinone 50%, Corvina 30%, Rondinella 20% Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino a gennaio. Raggiunta la maturazione ottimale, le uve vengono pigiate e il mosto ottenuto si avvia ad una breve crioestrazione al termine della quale, naturalmente, inizia la fermentazione alcolica che si protrae per 35 giorni a temperatura ambiente, in recipienti di acciaio inox; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Chiusa questa prima fase, si passa alla svinatura e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è posto in barriques di rovere francese a media tostatura e grana fine per il 50% nuove e per il 50% di 2° passaggio in cui svolge la fermentazione malolattica e dove rimane per 12-18 mesi; segue poi il travaso in botti di rovere da 25 hl, per un ulteriore prolungamento della maturazione di altri 24-36 mesi, conclusi i quali si procede all’assemblaggio delle partite; dopo un breve periodo di decantazione il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso di grande luminosità, il vino al naso si presenta con profumi intriganti di chicchi di caffè appena tostato che vanno ad intrecciarsi con note fruttate di prugne secche e amarena che si evolvono in percezioni vegetali e floreali di petali di viola appassiti, spezie dolci e piccanti, liquirizia, vaniglia in polvere e cioccolato. In bocca è ricco, pieno, elegante, intrigante, di grande equilibrio, con tannini fini che accompagnano in modo perfetto la degustazione e che, sorretti da una buona freschezza, lo rendono lungo e persistente. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999, 2000, 2001 Note: Il vino, che prende il nome dalla località dove sono collocati i vigneti, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Cesari dal 1929 e oggi condotta da Stefano Cesari, l’azienda agricola si estende su una superficie di 120 Ha, di cui 45 vitati e 75 occupati da boschi e oliveti. Svolge funzione di agronomo lo stesso Stefano Cesari, mentre quella di enologo è svolta da Roberto Ferrarini. Altri vini I Bianchi: Garda Doc Garganega (Garganega 100%) I Rossi: Valpolicella Classico Doc (Corvina 40%, Corvinone 30%, Rondinella 15%, altre uve autorizzate 15%) Recioto della Valpolicella Classico Doc (Corvina 40%, Corvinone 30%, Rondinella 20%, Sangiovese 10%)


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Alberto Brunelli, Luciana Cordioli e Luigi Brunelli

Io sono nato in questa casa e prima che i miei genitori ne costruissero una nuova qui di fianco, vivevamo tutti in queste stanze dove non c’era il riscaldamento centralizzato, ma solo il caminetto sul quale mia madre cuoceva spesso la polenta, girandola con il bastone e con la sola forza delle braccia, con molta calma. Una volta tutto scorreva molto più lentamente, tutto andava più piano; anche la Topolino sulla quale viaggiava mio padre Giuseppe, che era stato tra i primi in zona a prendere la patente, si muoveva adagio quasi quanto i calessi con i quali spartiva la strada. Sono cresciuto qui, fra queste cose, ancora ben visibili, e ho giocato in quest’ampia aia, sulla quale si affacciavano queste case e dove si riunivano le famiglie che abitavano qui intorno. La nostra era un’azienda agricola che si reggeva su un’economia promiscua, come si usava a quei tempi. C’era un po’ di tutto, dall’orto agli animali, mucche e cavalli, fra i quali Titari, il mio preferito, un pony che appena poteva fuggiva dal recinto in cui era stato rinchiuso. Credo gli piacesse scappare per sentirsi libero di poter curiosare fra ciò che lo circondava, ma anche per avere il piacere di farsi rincorrere, acchiappare e poi rinchiudere e avere poi nuovamente il piacere di fuggire. Ricordo che avevamo già molte vigne disposte in filari così larghi che tra una pergola e l’altra veniva seminato il frumento che si raccoglieva e si metteva ad essiccare nell’aia. Tutto era verde, la città lontana e l’aria che respiravo intrisa di una sana e genuina cultura contadina che mi ha tenuto ancorato a questa Valpolicella e ha consolidato le mie radici a questa terra e a questi filari come se io stesso fossi una di queste viti. Era una cultura semplice, che non aveva bisogno di molte parole per farsi comprendere, poiché aveva una sola legge che doveva essere rispettata: quella del lavoro. Era una cultura che non ho mai voluto abbandonare e che con orgoglio ancora oggi rivendico girando per il mondo, sia quando vado a New York o a Tokio dove, pur non parlando una parola d’inglese, riesco a comunicare a quella gente cosa vi sia d’importante e di magico nel mio lavoro di vignaiolo. Non dico di essere stato più bravo di altri; ho solo avuto il grande privilegio di proseguire una tradizione familiare iniziata molti decenni addietro, ancor prima che mio nonno, nel 1936, si mettesse a commercializzare il vino in damigiane, spedendole non solo a Verona, ma anche a Vicenza, Venezia e Milano. Al nonno però non interessava molto il vino. Gli piacevano più i cavalli e il bestiame in genere per il quale si emozionava e, appena mio padre si rese autonomo nel settore, ben volentieri gli lasciò le redini delle vigne e della cantina per dedicarsi alla sua passione. Eravamo agli inizi degli anni ’70 quando incominciammo a imbottigliare i primi vini: il Valpolicella, l’Amarone, il Recioto. Quest’ultimo all’epoca andava per la maggiore essendo sempre stato ritenuto il vino di qualità più antico della zona. Tutti lo apprezzavano e lo bevevano volentieri, considerandolo anche un vino curativo, in possesso di proprietà antimicrobiche e rigenerative, tanto che si portava anche ai malati all’ospedale. Era però un vino delicato che poteva, con i primi caldi, trasformarsi in Amarone, cosa che, per i contadini, era segno di sventura, poiché il Recioto era considerato molto più pregiato. Puoi comprendere come mi senta fortunato ad essere riuscito a vivere esperienze del genere e come non mi sia stato difficile, diventando grande accanto a mio padre, ritrovarmi dentro la sua stessa passione e determinazione per la viticoltura, imparando anch’io a perseguire una politica aziendale orientata sempre a un’attenta cura di tutte le fasi che interessano la filiera produttiva, dal vigneto alla cantina, con una dedizione quasi maniacale. Una politica che non ha mai previsto grandi trasformazioni o grandi opere d’ingegneria, ma solo piccoli e ragionati passi che conducevano sempre al consolidamento di ciò che era stato fatto. Anche le mie iniziative in azienda sono state piccole e ragionate e mi hanno consentito di crescere e di acquisire l’esperienza giusta, passando prima attraverso la scuola di Enologia a Conegliano, poi attraverso alcuni tirocini presso alcune cantine sociali e dei viaggi in Francia e in Toscana. Il tutto si è arricchito con quel quotidiano contatto con mio padre che conosceva ogni vite e ogni zolla di questa terra. Credo che non sarei mai stato capace di abbandonare questa zona e i suoi vitigni,


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Campo del Titari nati qui come me e che sento molto simili a me. Da quella mia gioventù sono cambiate molte cose e, quando ripenso alla semplicità e alla spontaneità che leggevo negli occhi della gente che frequentavo un tempo, un po’ mi rattristo non percependo più le sensazioni di allora. Sì, molto è cambiato e non tutto per il meglio, purtroppo. Non parlo spesso di queste cose e anche con mio figlio sorvolo su ciò che è stato, non solo per reticenza o per colpa di questo mio carattere un po’ introverso e schivo, ma perché ormai quel tempo non ritornerà più e credo che sia inutile rammentarlo o dilungarmi nella descrizione di quante ancora siano le sensazioni che mi porto dentro di quelle lontane vendemmie, degli odori di allora o solo delle voci o delle splendide serate estive che si passavano qui, tutti insieme. Basta guardarsi intorno per capire che quella Valpolicella di tanti anni fa non esiste più. È così e non ci posso far niente. Tutti sono diventati imprenditori, anche i contadini lo sono diventati, ma molte volte la terra o le vigne che possedevano sono sparite, sono state vendute o smembrate per cedere posto a villette e capannoni. Se controlli un po’, vedrai che le mie vigne sono circondate e quasi ”asserragliate” tra case, palazzi, strade ormai impraticabili e zone industriali o artigianali sorte un po’ ovunque in modo scellerato. La Valpolicella è cambiata, modificandosi in modo radicale, ma io no! Sono rimasto fedele alle mie vigne che ancora sono tutte qui, intorno a me. Non nego che mi sento molto orgoglioso e soddisfatto di questo, come lo sono, del resto, per ciò che ho ottenuto con l’aiuto della mia famiglia e soprattutto di mia moglie Luciana, nella certezza che quelle scelte che abbiamo fatto e che per me sono state logiche, possano consentire a nostro figlio Alberto di proseguire su questa strada che gli abbiamo modellato.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle uve Corvina, Rondinella e Sangiovese provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Cariano nel comune di San Pietro in Cariano, le cui viti hanno un’età di 35 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona pedecollinare su terreni fluvio-alluvionali, è situato ad un’altitudine di 170 metri s.l.m. con esposizione a sud. Uve impiegate: Corvina 70%, Rondinella 25%, Sangiovese 5% Sistema di allevamento: Pergola doppia Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla fine di gennaio. Raggiunto l’appassimento ideale, le uve vengono pigiate e il mosto ottenuto, dopo una breve crioestrazione, è avviato alla fermentazione alcolica che è fatta svolgere in botti di rovere da 47 hl in ambiente termocondizionato ad una temperatura non superiore ai 20°C; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, si procede alla svinatura e, dopo un breve periodo di decantazione statica, il vino svolge la fermentazione malolattica, quindi è posto in barriques di rovere francese nuove a grana fine e media tostatura in cui rimane per 36 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo, il vino, senza filtrazione, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3.500 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso di grande luminosità, il vino al naso presenta intriganti profumi di confettura di amarene e di rosa appassita che si aprono a percezioni di carruba e spezie piccanti per chiudere con quelle di cioccolato che si mischiano a note animali, quasi selvatiche. In bocca è caldo, ampio, avvolgente, reattivo, risultando anche di buona freschezza, caratteristica che gli conferisce lunghezza e persistenza. Prima annata: 1996 Le migliori annate: prodotto solo nelle annate 1996, 1997, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, dove una volta pascolava un cavallo da tiro di proprietà di Luigi Brunelli, viene prodotto solo nelle migliori annate e raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Brunelli dal 1936, l’azienda agricola si estende su una superficie di 10 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo ed enologo lo stesso Luigi Brunelli. Altri vini I Bianchi: Carianum Igt Veneto (Garganega 100%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc Campo Inferi (Corvina 70%, Rondinella 20%, Molinara 10%) Recioto della Valpolicella Classico Doc (Corvina 65%, Rondinella 30%, Molinara 5%) Amarone della Valpolicella Classico Doc (Corvina 65%, Rondinella 30%, Molinara 5%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ripasso Pa’ Riondo (Corvina 65%, Rondinella 30%, Molinara 5%) Corte Cariano Igt Veneto (Corvina 100%)




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Paolo, Daniela, Tommaso e Giuseppe Bussola

Tutti bisi, non te fé gnente de bon… Secondo mi qua… Era così lo zio Giuseppe, si lamentava sempre. Non gli andava bene mai niente di ciò che facevo. Forse dipendeva dal fatto che appartenevamo a generazioni diverse, molto distanti fra loro, forse lo indisponeva quel silenzioso ma quotidiano scontro sulle priorità che ognuno caratterialmente stabiliva nella propria vita, valutazioni che si basavano da una parte sul suo carattere, ferreo, autoritario e introverso e dall’altra sul mio, positivo, esuberante ed estroverso. Rammento le origini di quei contrasti che presero spunto proprio dal suo modo integerrimo di interpretare la mia educazione, ritenendo doveroso farmi provare il giogo che avrei dovuto portare nell’affrontare la vita. Questa sua sciocca e correttiva inquadratura culturale iniziò dopo qualche mese che ero andato ad abitare da lui; una scelta forzata che avvenne in conseguenza del fatto che mio padre Paolo si ammalò e le costose cure per la lunga malattia avevano messo a dura prova il bilancio economico della mia famiglia. Avevo solo diciotto anni, ma ricordo con quale “accanimento terapeutico” aspettava che fossero le cinque del mattino per mettermi, a prescindere dall’ora del mio rientro a casa, che di solito avveniva dopo aver trascorso una notte in dolce compagnia, alle spalle di un aratro a rompere ciocchi e a faticare come un somaro per ore e ore. Sapendo quale era il suo fine non cedetti e, forte dell’orgoglio arrogante che caratterizza quell’età, facevo finta di essere deluso con lui quando quel massacrante lavoro si concludeva. Ero giovane ed ero uno a cui piaceva fare le ore piccole, poiché il richiamo di certe belle compagnie era più forte del lavoro, della vigna e del vino. Erano indubbiamente altri tempi, ma rammento che lo zio, non potendo piegarmi, mi licenziò, facendomi trovare una mattina un assegno sul tavolo di cucina. Era il suo benservito. Non mi scoraggiai e senza indugiare me ne andai quindici giorni a Rimini in vacanza, nella certezza che al mio rientro avrei trovato sicuramente un lavoro; del resto mio padre mi aveva insegnato che, per chi ha voglia di lavorare, il lavoro non manca mai. E fu così. Una volta tornato, trovai un buon impiego, gratificante, che mi dava anche ottime prospettive di carriera, lontano dallo zio, dal vino e dalla cantina. Sapevo però che quell’uomo burbero e scontroso mi voleva bene e non mi meravigliai quando, incontrandolo al mercato, mi chiese di tornare a lavorare con lui. L’offerta mi piacque, anche se nel frattempo, pur non avendo mai abbandonato la mia passione enologica, mi ero formato un’idea diversa su cosa avrei voluto fare nella mia vita. Patteggiammo le modalità del mio rientro in azienda e, forte del fatto di avere un buon lavoro, alzai la posta e non trovai nessun tipo di ostacolo ad entrare in società con lui. Partii impostando tutta la struttura e i pochi vigneti che avevamo su nuove basi, cambiando completamente il sistema di vinificazione, soprattutto quello riguardante l’Amarone e siccome qui in zona, all’epoca, una cantina che si volesse definire tale era quella che produceva Recioto, mi imposi che doveva essere in quella direzione che avrei dovuto lavorare. Con il tempo, le sue critiche tendevano a perdere di forza. Compresi che la quercia che avevo conosciuto, nonostante fosse ancora ben salda al suo posto, stava invecchiando. Ebbi anche la sensazione che si fosse in parte rassegnato a questa mia natura goliardica, accettandola come un tratto inalterabile del mio carattere. La vittoria del primo premio alla festa del Recioto di Negrar, alla cui giuria, negli anni, si erano sottoposti tutti i più grandi produttori della Valpolicella, fu la mia consacrazione che tacitò definitivamente quel grillo parlante di mio zio! Da quando ho preso definitivamente le redini dell’azienda, ne sono cambiate di cose! Sono stati anni duri trascorsi al fianco di mia moglie Daniela, lavorando con passione e con una positiva caparbietà al fine di poter cogliere sempre una maggiore gratificazione da parte di chi assaggia i nostri vini. Anche se ora ne parlo con molta facilità, posso assicurare che ci sono stati momenti difficili in cui non dormivamo per gli impegni economici che avevamo assunto per costruire e ingrandire quest’azienda. Non è stata una responsabilità da poco assolvere certi impegni che in questi vent’anni si sono susseguiti con ritmicità, prima acquistando dei vigneti, poi costruendo la casa, poi la cantina di seimila metri quadrati e poi ancora degli altri vigneti e, nel frattempo,


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Recioto della Valpolicella Classico DOC TB vinificando una crescente quantità di uve che raccoglievo in tre o quattro posti diversi, occupando con il vino qualsiasi luogo di cui mi veniva data la disponibilità: dalla vecchia cantina che avevamo a quella presa in affitto da un vicino dall’altra parte della strada, sotto la quale correvano i tubi che collegavano le varie cisterne, fino all’altra cantina posta sotto la nuova casa ancora in costruzione. Era un lavoro massacrante e se ora ripenso a quanto ti ho appena finito di raccontare e agli albori della mia carriera di vignaiolo, tutto ciò che mi attende mi potrà sembrare insignificante e superabile. Potrei stare per ore a parlarti di ciò che è stato, poiché ci sono aneddoti e molti, tanti, troppi ricordi che potrei raccontare per descriverti come ho passato una vita nello sfrenato desiderio di sentirmi appagato di ciò che facevo e costruire un futuro per i miei due figli, Paolo e Giuseppe. Ma credimi, non è stato facile, anche se io ne parlo come se lo fosse stato. Da tempo lo zio Giuseppe, che oggi ha 92 anni, non mi critica più, anzi, oggi riconosce che questo mio carattere così “avventuroso” è forse indice di una genialità che sempre va a braccetto con un po’ di sregolatezza. Sono arrivato però a un punto in cui vorrei un po’ staccarmi da tutto questo e trovare il tempo per viaggiare, magari prendendo mia moglie e andandomene con lei da qualche parte del mondo a riposare per poter essere padrone, almeno un poco, del mio tempo. No, non fraintendermi. Non è che ora non abbia più voglia di lavorare: vorrei solo prendere le cose con più calma, ecco tutto, avere l’opportunità di rimanere a letto, se una mattina non ho voglia di alzarmi, e la possibilità di partire, se mi viene voglia di partire, senza l’assillo di appuntamenti o scadenze da rispettare. Certo, sarebbe bello, anche se so che questi sono discorsi che si fanno fra amici, davanti a un bicchiere di vino, lasciando la mente libera di poter sognare e anche se non avranno un seguito, che importa? Del resto anche questo è un altro sogno che si va a sommare a tutti quelli che ho fatto fino ad oggi e mi domando: se i sogni che avevo si sono realizzati, perché non dovrebbe realizzarsi anche questo?

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Corvinone, Cabernet Franc, Rondinella, Dindarella, Croatina e altre autorizzate provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località San Peretto, nel comune di Negrar, le cui viti hanno un’età media di 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni vulcanici basaltici, sono situati ad un’altitudine media di 260 metri s.l.m., con esposizione a sud-est. Uve impiegate: Corvina e Corvinone 40%, Rondinella 40%, Cabernet Franc 10%, Dindarella 7%, Croatina 3% Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha nei vecchi impianti; 6.000 ceppi per Ha nei nuovi Sistema di allevamento: Pergola nei vecchi impianti, guyot nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio per l’essiccazione naturale, generalmente fino alla metà di marzo dell’anno successivo alla vendemmia o fino al raggiungimento di una sufficiente gradazione zuccherina; in seguito si effettua la pigiatura dell’uva e il mosto ottenuto, inoculato da lieviti naturali di Recioto in prefermentazione, è avviato alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 50 giorni ad una temperatura inferiore ai 14°C. Ultimata questa fase, il vino è posto in barriques di rovere francese di Allier e Vosges nuove a grana fine e media tostatura, dove, lasciato sui propri lieviti, rimane per 30 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 2.000 bottiglie da 500 cl. l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore rosso rubino intenso e profondo che fa da preludio a profumi ricchi e complessi di frutti di bosco in confettura che si aprono a note di petali di rose appassite e a un finale speziato di cioccolato estremamente affascinante. In bocca è elegante, morbido, caldo, potente, con una buona dose di freschezza che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1992 Le migliori annate: 1995, 1997, 1998, 2000, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dalla “reccia” (orecchia), la parte più dolce del grappolo che in dialetto veneto è chiamata “recia”, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà di Tommaso Bussola dal 1985, l’azienda agricola si estende su una superficie di 19 Ha, di cui 13 vitati e 6 occupati da prati, boschi e frutteti. Svolge funzioni di agronomo ed enologo lo stesso Tommaso Bussola. Altri vini I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc (Corvina e Corvinone 65%, Rondinella 30%, Molinara e altri vitigni autorizzati 5%) Valpolicella Classico Doc (Corvina e Corvinone 40%, Rondinella 40%, Molinara e altri vitigni autorizzati 10%) Recioto della Valpolicella Classico Doc (Corvina e Corvinone 50%, Rondinella 30%, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Merlot 15%, Molinara 5%) Valpolicella Classico Doc Superiore TB (Corvina e Corvinone 50%, Rondinella 40%, Molinara e altri vitigni autorizzati 10%) L’Errante Igt Veneto (Merlot 80%, Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon 20%)


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Maria Gioia Rosellini

Sono cresciuta con la consapevolezza che, se mi fossi impegnata, sarei potuta riuscire in qualsiasi cosa, a condizione che lo avessi voluto veramente. Di questo “pensiero positivo”, che mi accompagna da quando ero bambina, devo ringraziare mia madre Ornella, soprattutto per avermi sempre incoraggiata senza mai imporre le sue aspettative sull’unica sua figlia. Da bambina adoravo disegnare. Mi ricordo quanto ero felice di fronte ad una nuova scatola di colori e di come mi attardavo mentre tornavo da scuola fermandomi a contemplare le vetrine di un negozio di arti grafiche, in cui facevano bella mostra pennelli e tubetti di colore. Ricordo poi con particolare affetto le ore passate tra fogli e matite in compagnia di mio padre Marco, dando l’idea a tutti che, una volta cresciuta, avrei seguito le sue orme di designer. Da grande, in effetti, lavorai per qualche anno come disegnatrice di arredi per interni e mi accorsi che nel disegno, che per molto tempo avevo idealizzato, non riuscivo ad esprimermi come avrei voluto. Forse il destino aveva già in serbo per me altre cose. Dopo essermi sposata, lasciai il lavoro e mi trasferii da Treviso a Padova e dopo qualche tempo nacquero Romano e Pietro, i miei adorati figli, che ho cercato di crescere con la premura e l’attenzione che ho appreso da Ornella, ma, nonostante tutto, sentivo che dovevo realizzare qualcos’altro nella mia vita, seguendo forse i sogni di quando ero bambina. Per sentirmi appagata avrei avuto bisogno di impegnarmi e appassionarmi in qualcosa in cui credessi davvero; una passione che devo sentire scorrere nelle vene per potermi sentire viva e star bene. Tuttavia non era facile capire cosa avrei potuto fare e quell’incertezza mi creava uno stato di leggero malessere, di cui per primo si accorse Nicola, mio marito, che, con la sensibilità che gli ho sempre riconosciuto, mi aiutò amorevolmente a guardare meglio dentro di me, a fare silenzio per un po’ e a far parlare veramente la mia anima, facendole esprimere ciò che più di ogni altra cosa al mondo mi sarebbe piaciuto fare. Fu l’amore per la natura a guidarmi e, forse, la necessità impellente di ritrovare una vita più autentica, a guidarmi a Ca’ Orologio. Finalmente avevo ciò che desideravo, un’azienda in cui sentirmi libera di essere me stessa fino in fondo. Devo dire che, all’inizio, ho dovuto lottare molto per affermarmi come individualità in questo territorio, dove ero soltanto la moglie di Nicola. Quello che ho fatto l’ho fatto da sola, dovendo riconoscere un grande grazie solo a mio marito che mi ha sostenuto in questo progetto e ha creduto in me, sicuro che potessi farcela, con le mie forze. Quello che mi stimolava e mi dava forza era comprendere, ogni giorno di più, quanto fosse giusta e azzeccata la scelta che avevo fatto, soprattutto dopo aver scoperto quanta creatività si nascondesse in una vite e cosa essa fosse capace di donarmi dopo averla seguita, curata ed educata. Più passava il tempo e più mi rendevo conto di quanto fosse stupenda quella pianta, così originale nel suo processo vegetativo, raffigurazione massima dell’energia della natura, quella stessa energia che, da sempre, andavo cercando. Ecco perché mi piacciono i miei vigneti, dove mi rifugio cercando di percepirne i linguaggi, gli umori, con l’unico obiettivo, forse, di arrivare a scoprire sempre più non i loro segreti, ma i miei, i più profondi. È con questo spirito che conduco Ca’ Orologio, avendo la convinzione che qualsiasi cosa potrà succedere, non dovrò mai perdere di vista il perfetto connubio che mi unisce alla mia terra e alle mie vigne. Un approccio, un metodo, una filosofia, chiamala come vuoi, la stessa che ripagò, inaspettatamente, qualche tempo dopo, con un importante riconoscimento avuto da una guida nazionale, dove mi aggiudicai il massimo del punteggio, entrando nella ristretta schiera del gotha delle aziende vitivinicole italiane. Non ti nego che, nell’apprendere quella notizia, rimasi di sasso. Per mesi mi domandai il perché. Non mi capacitavo, non ero pronta, non volevo che una simile e improvvisa notorietà mutasse i miei programmi e mi distraesse con inutili aspettative su un vino che, pur sentendo molto mio, ritenevo scioccamente ancora non pronto né, tantomeno, così importante come invece lo avevano giudicato. Così non è stato; anzi, quel riconoscimento mi ha stimolato a proseguire sulla direzione che avevo intrapreso, convinta come sono che due pallini, cinque grappoli o tre bicchieri non modificheranno il mio modo di agire, che è sempre lineare rispetto agli obiettivi


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Relógio IGT Rosso del Veneto che mi propongo di raggiungere. Nonostante ne parli oggi con serenità e mi senta soddisfatta di come si stiano evolvendo le cose, ti posso assicurare che non sono state tutte rose e fiori. Ci sono stati momenti difficili, dovuti principalmente a quel senso del dovere che noi donne ci portiamo dentro e che ci opprime, ci schiaccia e ci spinge a non deludere mai le aspettative di nessuno, programmate come siamo ad essere prima brave figlie, poi ottime mamme, poi ancora buone mogli e quindi eccellenti imprenditrici, se abbiamo la malaugurata idea di porci alla pari con gli uomini. Impegni gravosi che possono far vacillare e dai quali ho preso rispettose distanze, perché non ho nessuna voglia di allontanarmi da ciò per ripercorrere dall’inizio l’eccitante cammino che mi ha condotta fin qui.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Carmenère e Cabernet Sauvignon provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Monte Cecilia nel comune di Baone, le cui viti hanno un’età compresa tra 8 e 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 20 e i 90 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Carmenère 80%, Cabernet Sauvignon 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot e cordone speronato Densità di impianto: dai 1.600 ceppi per Ha nei vecchi impianti ai 6.000 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito in piccole partite a partire dalla prima decade di ottobre, si procede, separatamente per i due vitigni, alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte. I mosti ottenuti si avviano alla fermentazione alcolica che è svolta sia in recipienti di acciaio inox, sia in barriques per 14 giorni a temperatura libera; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri e alcune follature. Terminata questa fase, dopo una breve decantazione, il vino è posto in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di 1° passaggio dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi. Alla fine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e dopo 6 mesi di stabilizzazione in acciaio il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 4.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino pieno, intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con grande mineralità e con note speziate di pepe, paprica e cardamomo che si mescolano ad un fondo di frutta secca e a piacevolissime percezioni balsamiche. In bocca conferma le sensazioni minerali percepite al naso che sono accompagnate da una fibra tannica elegante, ben evoluta e di bella freschezza; piacevole, risulta inoltre lungo e persistente. Prima annata: 2002 Le migliori annate: 2004, 2006 Note: Il vino prende il nome dall’antica toponomastica “podere di casa Reloggio” con cui erano identificati i vigneti di proprietà della famiglia Dondi dall’Orologio. Raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà di Maria Gioia Rosellini dal 1995, l’azienda agricola si estende su una superficie di 31 Ha, di cui 12 vitati e 19 occupati da prati, oliveto, boschi e seminativi. Svolge la funzione di agronomo la stessa Maria Gioia Rosellini, mentre collabora in azienda come enologo Roberto Cipresso. Altri vini I Bianchi: Salarola Igt Veneto (Moscato 40%, Tocai 40%, Pinot Bianco 10%, Riesling 10%) I Rossi: Colli Euganei Rosso Doc Calaòne (Merlot 60%, Cabernet Sauvignon 30%, Barbera 10%) Lunisole Igt Veneto (Barbera 100%)


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Michele, Giovanni e Amedeo Tessari

“Cinque sghei de mona in scarsela…” Conviene sempre avere, nelle tasche, cinque monete di modestia. Era questo il concetto che predicava spesso mio nonno, il quale aggiungeva: “…Se necessario, fate finta di niente e, anche se passate un po’ da persone semplici agli occhi degli altri, non ve ne preoccupate e continuate ad andate dritti e fieri per la vostra strada…”. Era ciò che nonno Fulvio voleva che noi ricordassimo sempre, sia quando le cose andavano male, sia quando i due figli, mio padre Amedeo e mio zio Giovanni, se ne dimenticavano, convinti che un importante risultato commerciale o una stupenda vendemmia potessero essere la causa scatenante che avrebbe consentito di dare una svolta importante al futuro della nostra azienda vitivinicola. Lui non si entusiasmava, né indietreggiava davanti a niente, perché sapeva bene di quali arcani misteri fosse ricco il destino e quanto fosse strana la vita. Così, imperterrito, da uomo che conosceva bene le cose del mondo, ci incitava a stare con i piedi ben piantati per terra e a non deprimerci per le critiche, né ad entusiasmarci per i successi. Devo dire che aveva ragione, poiché anch’io, pur essendo giovanissimo, ben presto ho compreso che solo attraverso l’impegno quotidiano si ottengono i risultati. È in questa logica che sono cresciuto, appoggiandomi su basi solide sulle quali sto cercando di progettare un domani migliore per questa azienda, coadiuvando mio padre, che ha 58 anni, e mio zio, che ne ha 45, con i quali, dal momento che sono ancora giovani, mi trovo a dialogare e ad intendermi benissimo, molto più semplicemente di quanto immaginassi, su strategie, promozione e marketing. Concretezza e innovazione sono il nostro slogan. La concretezza nella tradizione abbinata a quello stimolo innovativo interiore che conduce ogni uomo a creare, agire e costruire, oggettivando tutto ciò che sente e pensa. C’è chi suona uno strumento, chi dirige un’orchestra, chi apre una pizzeria, chi diventa elettricista, scrive libri o costruisce grattacieli e chi è vignaiolo e produce vino. Ognuno mette del suo in ciò che fa, ognuno agisce secondo un personale istinto e un percorso formativo che lo contraddistingue, cercando di dare spazio alle oggettivazioni che gli sono dettate dallo spirito, che necessita, però, di legittimazione e riconoscibilità da parte degli altri su quanto ha realizzato. È in quest’ottica che mi muovo e opero in azienda, cercando proprio di legittimare e dare riconoscibilità al lavoro fin qui svolto da chi mi ha preceduto. Il mio è un contributo operativo un po’ diverso, ma complementare a quelle che sono le mie peculiari caratteristiche professionali di enologo. Un lavoro difficile per chi pensa che tutto possa essere circoscritto e riconducibile solo a un bicchiere di vino che per me, invece, pur rappresentando la creatività, la capacità e il pensiero del vignaiolo, è troppo limitativo per rappresentare, da solo, la storia di un territorio. Infatti non è possibile che un bicchiere di Soave possa racchiudere la storia di centinaia di vignaioli che operano sui 6.700 ettari di questa Doc, né raccontare la loro cultura, le loro reticenze, le loro paure, la loro lungimiranza o le capacità che li hanno sempre contraddistinti. Il mio è un impegno molto appassionante che mi pone a contatto con il mondo, con i ristoratori, con i wine makers, con i distributori internazionali e con chiunque abbia deciso di conoscerci o abbia scelto di comprare il nostro vino o qualsiasi altro prodotto in questo territorio. La regola che mi sono imposto è quella di legittimare senza strafare, senza disconoscere la nostra realtà, mantenendo il più possibile la massima trasparenza e il massimo rispetto verso chi consuma il vino prodotto dall’azienda Ca’ Rugate, quello della “Casa” Ca’ Rugate, la nostra “casa azienda”. So bene che il tutto necessita di una “riconoscibilità” e, per ottenerla, noi puntiamo sui vitigni autoctoni, sul nostro modo di interpretarli e sulla capacità che abbiamo di porci in armonia con questa terra, riconoscendoci in essa. Far comprendere questo non è facile; so che il mio è un compito arduo e complicato, bello, ma difficile, poiché so che se riuscissi a trasmettere e far conoscere questo bellissimo concetto tante cose cambierebbero. So bene che un simile connubio fra territorio e vino sarebbe capace di dare un valore aggiunto a ciò che facciamo, arricchendo e integrando il tutto in un ragionamento più ampio, più


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Valpolicella DOC Superiore Campo Lavei complesso e avvincente, posto all’interno di quel terroir di cui noi Tessari facciamo parte da generazioni. In questa logica ho pensato che un’idea poteva essere quella di attingere alla nostra storia e a quella del nostro territorio. Così abbiamo raccolto un’infinità di vecchi attrezzi e arnesi che sono il simbolo reale dell’operatività della gente veneta, quella di queste parti e soprattutto quella della mia famiglia. Oggetti messi insieme con l’intento principale di non dimenticare le origini e con quello secondario di far conoscere chi siamo e da dove veniamo, magari con l’idea di realizzare fra qualche tempo un museo, anche se so bene che questa è una parola altisonante che evoca preziosi e antichi manufatti, oggetti artistici o prodotti creati dalla mente di geni assoluti, oggetti degni dell’attenzione di accademici e professori. Quelli che ho messo insieme invece, sono testimoni muti di un’antica tradizione contadina; umili attrezzi di uso quotidiano della gente semplice che viveva tra queste vigne e che da esse traeva sussistenza. Oggetti per la maggior parte appartenenti davvero alla mia famiglia e per questo anche di grande valore affettivo. Un progetto importante che renderemo operativo nel 2009, poiché adesso la priorità è ottimizzare quel processo di miglioramento della filiera produttiva, così da portare a regime i 60 ettari di nostra proprietà. Nel tempo verrà il museo e forse anche un Bed & breakfast per ospitare qualche cliente o qualche importatore. Le tante cose che ci rimangono ancora da realizzare le vogliamo fare con l’obiettivo di poter comunicare, un giorno, non solo le qualità organolettiche del nostro vino, ma anche il valore di questa nostra terra, in maniera chiara, con messaggi essenziali, ma ricchi di passione.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella e Corvinone provenienti dai vigneti dell’azienda, situati in località Campo Lavei nel comune di Montecchia di Crosara, le cui viti hanno un’età media di 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei ricchi di scheletro, sono situati ad un’altitudine di 410 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Corvina 40%, Rondinella 30%, Corvinone 30% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 6.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione delle uve raccolte che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla metà di dicembre, quando sono pigiadiraspate e il mosto ottenuto viene avviato alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 7-10 giorni ad una temperatura di 25°C; contemporaneamente si avvia anche la macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino è posto in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura, in parte nuove e in parte di 2° passaggio, in cui svolge la fermentazione malolattica; qui rimane per 8-10 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino brillante, il vino si presenta all’esame olfattivo con spiccate percezioni speziate di pepe, semi di papavero, cumino e tabacco dolce che lasciano poi spazio a note fresche di frutti di bosco e di prugne in confettura per finire con nuances mentolate. In bocca è avvolgente, ben strutturato, con una fibra tannica elegante e vellutata accompagnata da una buona freschezza che conferisce lunghezza e persistenza. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2000, 2005 Note: Il vino, che prende il nome dall’area dove sono collocati i vigneti, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Tessari dal 1986, l’azienda agricola si estende su una superficie di 45 Ha, tutti vitati. In azienda svolge funzione di agronomo Gianpiero Romana, mentre lo staff di cantina è composto da Beppe Caviola, Michele e Giovanni Tessari. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc Monte Fiorentine (Garganega 100%) Soave Classico Doc Monte Alto (Garganega 100%) Bucciato Igt Veneto Bianco (Garganega 100%) I Rossi: Valpolicella Doc Rio Albo (Corvina 40%, Rondinella 30%, Corvinone 30%) Amarone della Valpolicella Doc (Corvina 40%, Rondinella 30%, Corvinone 30%) Recioto della Valpolicella Doc L’Eremita (Corvina 40%, Rondinella 30%, Corvinone 30%)




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Arturo Stocchetti

Ora che mi ci fai pensare è vero, hai ragione; infatti non ho fatto sempre questo lavoro. Sì, per dieci anni sono stato direttore di uno dei più importanti show room del Veneto, uno di quei grandi negozi, che sono ormai scomparsi, dove trovavi tutto ciò che ti poteva servire per arredare una casa. Un giorno poi mi trovai nell’opportunità di prendere al volo quest’altra occasione, un appuntamento con il destino che uno non deve mai lasciarsi sfuggire, e così eccomi qua, da oltre vent’anni, a fare il vignaiolo nella mia terra di Soave, fra le mura di questa cantina. Ancora oggi ricordo molto bene il momento in cui presi possesso della struttura: ebbi la netta sensazione di essere entrato in un posto molto particolare, ricco di energia. Compresi che questa cantina aveva una sua personalità e un’anima, bella e pulita, anche se, tutto intorno, l’ambiente richiedeva un forte intervento che mi costrinse a rimboccarmi le maniche per eliminare le molte “incrostazioni” che il tempo aveva accumulato. Man mano che andavo avanti nell’opera di restauro, cercando di non “oltraggiare” l’esistente, ponendo attenzione alla cura dei dettagli, scoprivo che le pareti e ogni singolo mattone che delineava la cubatura di quella cantina avevano una storia che sentivo autentica e viva; godevo della bella sensazione che percepivo nel poterla assaporare come se fosse stata la mia. Avevo voglia di produrre dei vini che non avessero solo un impatto mediatico, ma che fossero anche rappresentativi di quella tradizione che percepivo fra quelle mura, dal momento che palazzi come questo, a Soave, ce ne sono pochi. Se ne contano due fra cui la vecchia Pretura, dove non credo tu abbia mai messo piede. Non comprendo però come tu abbia fatto ad accorgerti che la mia cultura non si è costruita, ma solamente allargata al mondo del vino, diventando, ormai, una parte indivisibile del mio essere. Indubbiamente concordo con te quando asserisci che certe esperienze lavorative riescono a marchiare in modo forte la personalità di un uomo e deve essere stato così anche per me, se tu hai notato tutto questo. Sicuramente quel contatto quotidiano con la clientela, che richiedeva una certa predisposizione, nonché una giovialità e una forte disponibilità a correlarsi con il prossimo, mi deve aver cambiato e segnato più di quanto pensassi. In effetti, era un mestiere che mi spronava ad aprirmi, a comunicare e a ricercare dei compromessi fra gli interessi dell’azienda, in cui lavoravo, e il cliente di turno, mediando fra chi voleva guadagnare e chi voleva risparmiare, avendo sempre ben presente che un sorriso avrebbe, in ogni caso, più agevolato che intralciato la trattativa. Forse è per questo motivo che, quando mi chiesero, molti anni dopo, di diventare Presidente del Consorzio di Tutela del Soave, non mi posi il problema di essere in grado di mediare o di interfacciarmi con le mille problematiche che una carica del genere mi avrebbe richiesto o di aver timori a dialogare con tutte le parti interessate a quell’istituzione consortile. No, non ebbi remore, ritenendo indispensabile affrontare, con determinazione, il momento storico che stava vivendo tutto il settore vitivinicolo nazionale che presentava forti contrasti, tensioni e discussioni su argomenti che potevano modificare le sorti anche di aziende vitivinicole come la mia. Avevo, inoltre, bisogno di uscire dall’isolamento in cui ero caduto dopo la scomparsa di mia moglie, sentendo un’impellente necessità di smuovermi da quel torpore in cui ero caduto e spezzare quel tran tran giornaliero che scandiva ormai, da molti anni, la mia quotidianità e mi vedeva sempre relegato fra le mura di quella cantina che era divenuta come la mia seconda pelle. Avevo voglia di nuovi stimoli e di mettermi nuovamente in discussione come uomo, vedendo in quell’opportunità una buona occasione per superare un ulteriore esame di maturità, rendendomi utile anche agli altri. Diventare il Presidente del Consorzio e sapere di dover rappresentare gli interessi di tanti altri produttori, mi spinse ad acquisire una maggiore responsabilità e anche la capacità di esaminare più attentamente tutte quelle problematiche che interagiscono nel mondo del vino, le stesse che prima conoscevo solo superficialmente. Era necessario che conoscessi i bisogni e le forze di tutti gli attori del settore, avendo a che fare con l’industriale, l’imbottigliatore, l’agricoltore, il viticoltore: tutte forze economiche rappresentate nel Consiglio. Puoi immaginare quale sia stata la mia soddisfazione nel constatare di essere stato votato all’unanimità, comprese le Cantine Sociali, che avrebbero potuto avere un loro candidato e, all’apparenza, potevano apparire distanti dagli interessi dei piccoli produttori che io rappresentavo. Puoi facilmente comprendere come io, in questo incarico, ci metta l’anima, avendo la fortuna di essere coadiuvato da un efficientissimo direttore come Aldo Lorenzoni.


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Soave Classico DOC Acini Soavi Avere sulle spalle la rappresentatività di una delle più grandi Denominazioni di Origine Controllata italiana, con i suoi 6.900 ettari vitati, non era e non è una cosa sulla quale potessi scherzare molto. Devi sapere che questo è un territorio viticolo ampio, dove operano circa 2800 viticoltori, molti dei quali hanno piccolissime superfici vitate che contribuiscono a formulare la media intorno a poco più di 2 ettari per ogni azienda. Un territorio dove operano 5 Cantine Sociali, fra le quali quella di Soave, che ha, solo per portarti un esempio, 1600 soci conferitori. Questo è un territorio dove si producono ogni anno circa 500.000 ettolitri di vino complessivi, di cui 450.000 vinificati dai soci del Consorzio stesso. Una miriade di interessi e di forze operano intorno a questo vino che, in termini di quantità di bottiglie commercializzate, non ha paragoni con nessun altro vino bianco italiano. Numeri impressionanti, oggi tutti controllabili, poiché inseriti all’interno della struttura consortile o delle attività Riconosciute dal Ministero delle Politiche Agricole (Erga Omnes). Tutte realtà con le quali è necessario dialogare, per trovare dei compromessi che accontentino il maggior numero di imprenditori, pur sapendo che non è facile ottenere un equilibrio accettabile da tutti. Devo dire che, comunque, negli ultimi anni siamo riusciti a rimuovere alcuni dei molti problemi che affliggono le aree vitivinicole italiane e le associazioni consortili che le rappresentano e, se ci siamo riusciti, è anche grazie alla grande volontà che tutti mettono per valorizzare sempre più il nome di questa Doc e del suo territorio. Personalmente, non riuscirei mai ad allontanarmi da questo castello, né da queste mura, né dai colori di queste vigne, così come non rinuncerei a vivere sereno e tranquillo, lontano da questo piccolo paese, perché “soavemente” affermo che Soave è un posto unico.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Pressoni, nel comune di Monteforte d’Alpone, le cui viti hanno un’età media di 10 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni vulcanici di medio impasto sabbioso limoso, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 350 metri s.l.m., con un’esposizione a est. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Pergoletta veronese unilaterale nei vecchi impianti, spalliera bassa con potatura a guyot nei nuovi Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di novembre, dopo aver fatto effettuare una surmaturazione alle uve, si procede alla pressatura soffice delle stesse con conseguente macerazione pellicolare, in pressa, per 12 ore ad una temperatura di circa 6-8°C. Dopo una pulizia statica del mosto, alla temperatura controllata di 14°C per 12 ore, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che è fatta svolgere al vino per 15 giorni, a temperatura ambiente, in botti di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura da 15 hl; qui rimane per 12 mesi, durante i quali vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Al termine di questo periodo si procede all’assemblaggio delle partite, e, dopo una breve decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 7.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, mentre all’esame olfattivo sprigiona profumi fruttati di pesca a pasta gialla oltre a quelli di mango, ananas e di susina matura, per lasciare poi spazio ad un fondo minerale che si apre a percezioni di fiori di acacia e gelsomino. In bocca ha un’entratura complessa, elegante, tonda ed equilibrata che armonizza sia la vena alcolica con una buona sapidità, sia le percezioni olfattive con quelle gustative rendendo il vino fresco, lungo e persistente. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997, 2001, 2002 Note: Il vino, contraddistinto da un nome di fantasia, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà di Arturo Stocchetti dal 1983, l’azienda agricola si estende su una superficie di 13 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Arturo Stocchetti. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc Carniga (Garganega 80%, Trebbiano di Soave 20%) Soave Classico Doc Pressoni (Garganega 80%, Trebbiano di Soave 20%) Soave Classico Doc Castello (Garganega 90%, Trebbiano di Soave 10%)


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Alessandro Sgaravatti

Non so spiegare quale sia l’arcano mistero che mi spinse ad abbandonare la professione medica, verso la quale ero avviato dopo la Laurea in Medicina, per dedicarmi a quest’azienda. Decisi un giorno di “giurare fedeltà” a questo luogo che, negli anni Ottanta, si presentava in uno stato d’abbandono totale. Ricordo che spesso, quando frequentavo l’università a Padova, mi portavo i libri e venivo a studiare qui, forse nella speranza di avvicinarmi al mondo di Lispida. Quello che circonda questo castello è un mondo particolare, affascinante e misterioso, verso il quale, man mano che diventavo adulto, scoprivo di avere una particolare affinità, che in qualche modo percepivo, ma non riuscivo a spiegarmi. Doveva essere l’energia positiva del luogo che coinvolge tutti quelli che vengono qui per la prima volta: una sorta di abbraccio benevolo dato a chiunque si inoltri in queste terre. Di ciò ebbi conferma qualche tempo dopo, quando incominciai a programmare alcuni piccoli lavori di restauro, scoprendo per caso, su un muro all’interno del palazzo che avevo visionato decine di volte, una poesia scritta in grafia ottocentesca che recitava così: “In questo luogo, ai piedi di spenti vulcani, attorniati da valli sorridenti che donano frutti docili e nutrienti regna un castello fatale, che ha vissuto, nel bene e nel male, tra i detriti di pio convento, balzano oggi i suoi merli al vento, e di moderna storia oggi nell’epoca a deterior si trova, una dolce mano che vuole abbellire, rifare affinché a sue antiche glorie abbia a tornare”. Chi era stato a scrivere una simile cosa? Come faceva a sapere che stavo pensando di riportare alle “antiche glorie” questo posto? Sicuramente doveva essere qualcuno che era innamorato come me di questo castello. Quelle parole ebbero un effetto positivo e dirompente e mi spinsero a fugare qualsiasi dubbio su cosa dovessi fare, divenendo inoltre il più bel messaggio augurale che potessi ricevere per quello che stavo intraprendendo. Fu dopo quella lettura che decisi di diventare “contadino castellano”, iniziando un viaggio a ritroso verso le mie origini che ancora non si è concluso e che forse non si concluderà mai, sempre sospinto dalla passione e dall’energia di cui mi nutro giornalmente, elargita incondizionatamente da questo luogo. In tutti questi anni ho avviato una serie di recuperi che hanno coinvolto la campagna e gli immobili: dalla pulitura del bosco, invaso dalle piante infestanti e dalle erbacce, alla ricostruzione di chilometri di muretti a secco, dall’estirpamento delle ceppaie al reimpianto dei vigneti, ora sostenuti dai pali di legno, come si usava una volta, dal castello alla cantina, per arrivare, infine, anche alla sistemazione di alcuni piccoli nidi, così da dare vita a un giardino per gli uccelli stanziali e migratori ricostruendo un habitat ideale, sia per la microfauna che per gli insetti. Tutto questo mi è stato possibile grazie all’aiuto e al sostegno forte e deciso di mia madre Carla che amorevolmente si è messa al mio fianco aiutandomi in tutto e per tutto, anche in termini economici. Con il tempo mi sono sentito sempre più contadino e sempre più vicino a questo luogo e a questa terra, acquisendo, soprattutto dopo la conoscenza di Josko Gravner, una maggiore comprensione della vite e una più accentuata sensibilità nei confronti di questa pianta. Con la sua frequentazione ho incominciato ad avere un rapporto più intimo con la natura, conquistandomi una familiarità con essa che viene dalla comunanza quotidiana con la vite e con l’ambiente che la circonda. I miei sono ancora dei tentativi, iniziati solo da una ventina d’anni, con cui sto cercando, per quanto mi è possibile, di raggiungere quella stessa “leggerezza” che ha Josko quando cammina tra le vigne, diventando un tutt’uno con quell’ambiente. Seguendo i suoi consigli ho cercato di trasferire nel vino la mia esperienza, la mia sensibilità, provando ad interpretare la materia, quella che, ad ogni vendemmia, la natura mi regala. Mi definisco insomma un “apprendista contadino”. Non è stato semplice acquisire i principi filosofici che oggi sono alla base del mio lavoro, utilizzando quelli della non azione, gli stessi che utilizza e ha diffuso nel mondo Masanobu Fukuoka, un contadino giapponese ormai quasi centenario, filosofia che consiste nel fare un passo indietro rispetto all’invasività che, in genere, anima l’agronomo. L’agronomo tradizionale è quello che si domanda: “Cosa posso fare per questo? Cosa posso fare per quello?”; io mi domando invece: “Cosa posso non fare?” e questa domanda mi accompagna dalla potatura invernale fino alla vinificazione a settembre, avendo l’obiettivo di arrivare a fare il minimo consentito e niente più. Sono viti


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Amphora Bianco Vino da tavola Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Tocai provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Lispida, nel comune di Monselice, le cui viti hanno un’età media di 20 anni.

che richiedono tempo e dedizione, che lascio trovino da sole il loro “micromondo” e producano l’uva che riescono a fare. Io, come ti ho detto, non faccio niente: taglio solo l’erba, lasciando in ogni caso che la pianta si arrangi da sola, andandosi a cercare l’acqua o la terra che le servono. Con questo tipo di premesse ho voluto tracciare un mio personale percorso di crescita che mi possa condurre alla produzione di vini diversi, concepiti con mentalità e filosofie intelligenti che tengano conto del vino come risultante di un processo influenzabile dall’uomo e, pertanto, capaci di sviluppare la consapevolezza, sia in chi beve e anche spero in un numero sempre maggiore di vignaioli, che l’eccellenza si trova là dove meno si sente l’influenza umana, dove a parlare sono solo la vite e la terra. Un vino, quindi, che sia un ritorno ad un più intimo contatto con la terra e ad un vivere più umano, più umile, più vicino al sentire reale dell’uomo e non a quello artificiale che siamo costretti a subire. Ci vuole coraggio per continuare ad avere la perseveranza di credere in un sogno come quello che ho iniziato tanti anni fa quando sono arrivato di fronte a questo mondo di Lispida. È stato sicuramente il sogno più complesso e impegnativo della mia vita e il fatto di vedere che un po’ alla volta si realizza mi dà una soddisfazione enorme.

Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni vulcanici con roccia trachitica eruttiva, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 20 e i 100 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Tocai 100% Sistema di allevamento: Guyot nei nuovi impianti e sylvoz modificato nei vecchi impianti Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha nei vecchi impianti, 9.000 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla pigiadiraspatura delle uve raccolte e il pigiato è inserito in anfore di terracotta sepolte dove svolge la fermentazione alcolica, senza aggiunta di lieviti, che si protrae per 10 giorni, durante i quali si effettuano follature giornaliere senza controllo della temperatura; qui rimane per 6 mesi sulle proprie bucce fino all’equinozio di primavera. Al termine di questo periodo si procede alla svinatura e successivamente il vino viene nuovamente immesso nei dolia di terracotta (grandi anfore da 20-70 hl.) per altri 8 mesi, al termine dei quali, senza alcuna filtrazione, è imbottigliato per un ulteriore affinamento di almeno 2 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 3.500 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un colore oro antico con riflessi aranciati, mentre all’esame olfattivo si caratterizza per la forte mineralità e le note di grafite e pietra focaia che si aprono poi a percezioni erbacee e di bastoncino di liquirizia per chiudere con lievissime nuances di frutta a pasta gialla come mango e susina. La bocca è sostenuta da una personalità forte e molto accentuata e da note aspre e tanniche accompagnate da una corposa sapidità che stupisce e rende il vino lungo e persistente al retrogusto che ricorda un po’ la liquirizia. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001, 2005 Note: Il vino, che prende il nome dai contenitori dentro i quali si svolgono la fermentazione e la maturazione del vino, raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Sgaravatti dal 1963, l’azienda agricola si estende su una superficie di 90 Ha, di cui 26 vitati e 64 occupati da prati, boschi, seminativi e da un lago. In azienda svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Alessandro Sgaravatti. Altri vini Gli Spumanti: H-Spumante Brut (Tocai 100%) H-Spumante Brut Riserva (Tocai 100%) I Bianchi: Terralba (Uvaggio a prevalenza Tocai) I Rossi: Amphora Rosso (Uvaggio) Terraforte (Uvaggio a prevalenza Merlot) Montelispida (Merlot 100%)


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“E ‘ndéveno cussì le vele al vento / lassando drìo de noltri una gran ssia, / co’ l’ánema in t’i vogi e ‘l cuor contento / sensa pinsieri de manincunia. Mámole e masci missi zo a pagiol / co’ Leto capitano a la rigola; e ‘ndéveno cantando soto ‘l sol / canson, che incòra sora ‘l mar le sbola. E l’aqua bronboleva drío ‘l timon / e del piasser la deventava bianca e fin la pena la mandeva un son / fin che la bava no’ la gera stanca” Biagio Marin da “Fiuri de tapo”, 19121

Franco, Giulietto e Luciano Piona

Per molti anni ebbi un rapporto diretto e passionale con il mare e con la vela, che avevo imparato ad amare “regatando” sul lago di Garda, a quindici chilometri da casa mia. Non mi dispiaceva la vita che avevo scelto di vivere, sempre in giro sui mari di tutto il mondo, libero di vivere quotidianamente le sensazioni e le emozioni che scaturivano dal vedere quella vela spiegata al vento e lo scafo scivolare sull’onda, con lentezza, nel silenzio assoluto che solo il mare sa regalare. Un giorno però mi accorsi, trovandomi sul Monte Baldo in piacevole compagnia, che non conoscevo niente di quelle montagne né di quel paesaggio, che avevo scoperto casualmente, e che non era poi così distante da casa mia. Conoscevo i Caraibi, il Mar Rosso e il Mar Egeo, ma poco la mia terra. Capii che era ora di scendere da quelle barche e di dedicarmi a qualcosa di diverso. La laurea in ingegneria chimica mi dava molte opportunità lavorative e non avrei avuto problemi ad impiegarmi o ad entrare in qualche laboratorio, ma rifiutavo quell’ipotesi. In quel periodo, mio padre non stava bene di salute e gli riusciva difficile seguire, anche solo sporadicamente, questa azienda vitivinicola, ma qualcuno avrebbe pur dovuto pensarci e allora mi feci avanti considerando anche tra me e me che tutto sommato sarebbe stata una pacchia: “Stai a vedere che ora me ne vado in campagna, non faccio niente e mi diverto pure…”. Confesso che all’inizio fu così. Poi non so spiegarti cosa accadde. Credo di essermi fregato con le mie stesse mani, ritrovandomi, ogni anno che passava, sempre più coinvolto e sempre più stregato da questo vino. Non chiedermi come sia possibile che uno riesca a passare dalla chimica alla vela e poi al vino. Non saprei spiegarti quali siano stati gli arcani meccanismi della mente che mi hanno spinto a questo esercizio culturale. Lo so che ti sembrerà strano, ma è successo e, inoltre, devi sapere che mi sono così appassionato che ora non vi rinuncerei per nessuna ragione al mondo. Ho il piacere di essere diventato un vignaiolo, qui, in questo posto magico, ricco di storia, dove si sono giocate le sorti dell’Unita d’Italia con le grandi battaglie del Risorgimento. Siamo a Custoza, vicino al Lago di Garda, nella zona dove si produce il Bardolino, vino al quale cerco costantemente di affiancare il concetto della mia “gardesanità”. A fianco di mio fratello Franco, anche lui ingegnere (ma elettronico) e anche lui testa matta come me, sto cercando di comprendere e raccontare il fascino delle vendemmie che vivo, una dopo l’altra, nella speranza che talvolta siano diverse da quelle precedenti e talaltra, invece, che siano totalmente uguali a quelle appena passate, lasciandomi trasportare in questo gioco da un fantastico concetto umorale che varia a seconda dell’andamento climatico e dei risultati ottenuti. È questo il motivo per il quale mi sono appassionato a questa attività, sunto estremo con la quale potrei identificare il punto d’incontro fra materia e mente, tra le cose terrene e lo spirito. Il vino non è un astratto concetto filosofico, pur operando in una sfera dove le capacità, l’ingegno e il pensiero di chi lo produce sono elementi importanti per la sua realizzazione.

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E andavano così, le vele al vento / lasciando dietro di noi una gran scia, / con l’anima negli occhi e il cuor contento / senza pensieri di malinconia. Fanciulle e ragazzi seduti giù a pagliolo / con alla barra Leto capitano; / andavamo cantando sotto il sole / canzoni che ancora volano sul mare. L’acqua ribolliva dietro il timone / e dal piacere diventava bianca, / persino la penna suonava: / fin che la bava non era stanca.


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Bianco di Custoza DOC Superiore Amedeo Il vino è terra, vite, uva, stagionalità, vinificazione, ma anche dubbio, capacità di verifica e di critica, voglia di tornare sulle proprie scelte, di porsi le domande sui perché le cose accadano; è ricerca ed è il pensiero di ciò che era o di ciò che potrebbe diventare se io... È fermentazione, zuccheri, acidità, polifenoli, antociani, ma anche la rappresentazione di un concetto sensoriale che si gioca sulla dilatazione del tempo e su quelle “corde” spirituali con le quali si suona la commedia della vita e al cui interno puoi trovare la casualità, l’improvvisazione, il fato, la capacità, la fortuna, l’esperienza, il pensiero, la poesia, l’amore, le paure, la rassegnazione, l’imprevisto: il tutto giocato sotto il tetto delle stelle che scopri ogni notte diverse. Ormai sono passati tanti anni, ma ancora non ho trovato una sola certezza e sono sempre qui a cercare di capire come sarà la prossima vendemmia e quante energie essa mi richiederà e, soprattutto, come sarà il vino che riuscirò a produrre. Punti interrogativi ai quali non so dare nessuna risposta, poiché sono molteplici le variabili che interagiscono nella produzione del vino. La cosa affascinante del tempo che passa è che nessun giorno risulta trascorso invano. Ogni giorno è una minuscola, ma necessaria, tappa del ciclo produttivo che andrà a concludersi solo quando il vino non ci sarà più. Così, senza volerlo, mi sono ritrovato piacevolmente seduto su una spirale senza fine che, lentamente, si avvita su se stessa e mi avvolge sempre più a questo mestiere e a questa terra. Mi sento, in ogni modo, appagato da ciò che faccio e ho la sensazione che la mia vita abbia un senso compiuto poiché le idee e i pensieri hanno preso forma divenendo vino.

Zona di produzione: Il vino è un blend prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Garganega, Fernanda, Trebbiano e Trebbianello, provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Cavalchina nel comune di Sommacampagna, le cui viti hanno un’età compresa tra i 6 e i 15 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 190 metri s.l.m., con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Garganega 40%, Fernanda 30%, Trebbianello 20%, Trebbiano 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot, doppio guyot e cordone speronato Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito dalla prima decade di settembre fino al 15 ottobre, si procede, separatamente per ogni vitigno, ad una pigiadiraspatura soffice delle uve e ad una loro breve macerazione pellicolare a freddo che si protrae per 4 ore ad una temperatura di 14°C per Garganega, Trebbiano e Trebbianello, mentre per la Fernanda viene utilizzato il sistema di pre-congelamento delle uve. Dopo la successiva pressatura e conseguente pulizia statica del mosto, con l’inserimento dei lieviti selezionati, si dà avvio alla fermentazione alcolica. Essa si protrae per 12 giorni alla temperatura di 16°C ed è svolta soprattutto in tini di acciaio, ad eccezione della Garganega per la quale sono utilizzate botti da 20 hl di rovere di Slavonia. Inibita la fermentazione malolattica, durante il periodo di maturazione vengono effettuati periodici bâtonnages e sur lies al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Verso la fine di maggio dell’anno successivo alla vendemmia si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il blend ottenuto è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 12.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, mentre all’esame olfattivo si percepiscono profumi ricchi di mineralità e fruttati di pesca a polpa bianca e papaia. In bocca ha un’entratura elegante, piacevole e pulita che si armonizza con le percezioni olfattive; buone la sapidità e la freschezza che rendono il vino lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1999, 2001, 2004 Note: Il vino deve il suo nome all’episodio avvenuto nel 1866, durante la Terza Guerra d’Indipendenza, quando il principe Amedeo di Savoia fu ferito in un vigneto ora di proprietà dell’azienda agricola. Raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Piona dal 1920, l’azienda agricola si estende su una superficie di 25 Ha, di cui 22 vitati. Svolge la funzione di agronomo lo stesso Luciano Piona, mentre quella di enologo è svolta dal fratello Franco Piona. Altri vini I Bianchi: Custoza Doc (Garganega 40%, Trebbianello 30%, Fernanda 20%, Trebbiano 10%) I Rosati: Bardolino Doc Chiaretto (Corvina 55%, Rondinella 35%, Molinara 10%) I Rossi: Bardolino Doc Superiore Santa Lucia (Corvina 60%, Rondinella 25%, Sangiovese 15%) Bardolino Doc (Corvina 60%, Rondinella 30%, Molinara 10%)




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Giuseppe Coffele

All’ingresso della cantina che si trova nel cuore del grazioso paese di Soave, proprio di fronte alla chiesa, c’è una targa che, letta con attenzione, la dice lunga su chi siano Giuseppe Coffele e sua moglie Giovanna. Poche parole, che recitano: C’è sempre il privilegio dell’ospitalità. La ricca tradizione della terra soavese vive nei segni dell’uomo che ha costruito, nel tempo e nei gesti del lavoro quotidiano, ripercorrendo l’antica cultura della vite. Qui, in casa Coffele, tutto ciò è una realtà. La nascita dell’azienda segna il recupero di un patrimonio antico di Soave, quello della famiglia Visco ai cui terreni e possedimenti di famiglia, a distanza di trent’anni dall’ultima vinificazione, Giuseppe e Giovanna Visco Coffele, hanno voluto ridare vita. L’incontro è con una famiglia splendida, che sprigiona solarità e un sincero senso d’ospitalità che avvolge e mette a proprio agio. La figura carismatica del piccolo gruppo familiare è Giuseppe Coffele, soprannominato Beppino, il Professore, un simpaticissimo 63enne che ammette, in modo spudorato e quanto mai dolce, di essersi innamorato di Giovanna subito dopo la laurea in Pedagogia, conseguita all’Università Cattolica di Brescia, quando ormai pensava di rimanere scapolo, e di aver fatto, con quell’incontro, la sua fortuna, come marito e come uomo. Giovanna lo ascolta e osservo che, ancora, riesce a sorridere e ad arrossire davanti a quelle frasi, che avrà sentito decine di volte negli ultimi quarant’anni che ha condiviso con Beppino. È quella la data a cui si può far risalire l’inizio della storia di questa cantina. Tutto ebbe inizio da quel fortuito incontro fra un professore e una maestra che aveva un’azienda che Giuseppe decise di salvare. Con quel racconto mi appare molto più chiara quella scritta posta all’ingresso e, curioso, mi zittisco nell’ascoltare quel buon oratore di Coffele che, spedito, mi racconta come sia stata la sua vita di vignaiolo in terra di Soave. Puoi capire che non potevo ignorare questo ben di Dio rappresentato dalle vigne e dalla terra e così, pur continuando a insegnare, nei pomeriggi liberi, mi rimboccai le maniche per salvare il patrimonio aziendale di famiglia, pur sapendo che, per farlo, avrei dovuto fare interventi radicali in diversi settori, primo fra tutti quello che mi riguardava più da vicino e interessava la mia personale conoscenza dell’argomento, che necessitava, sicuramente, di un acculturamento immediato nel settore vitivinicolo, enologico e nell’agricoltura in generale. All’inizio di quegli anni Settanta, la terra rendeva poco o nulla e vedere come oggi si sia trasformata mi rende felice e gratificato di ciò che ho fatto, portandola a fruttificare come meritava. Non nego che mi sento appagato, e anche un po’ fortunato, per come sono andate le cose, pur sapendo, in coscienza, che la fortuna l’ho cercata e stimolata, creandole le basi perché mi aiutasse a raggiungere il mio scopo, lavorando scrupolosamente per arrivare a capire quale poteva essere, e in che direzione dovesse muoversi, lo sviluppo di quest’azienda. In zona si praticava una viticoltura “estemporanea”, ma la mia situazione era ancora peggiore, avendo qualche sporadico filare di viti, intercalato da olivi sparsi un po’ ovunque. Intorno non avevo tanti esempi cui far riferimento, tranne, e lo cito volentieri, Leonildo Pieropan, con il quale siamo sempre stati in ottimi rapporti, il quale si era già avviato sulla strada di un miglioramento complessivo di tutta la sua filiera produttiva vitivinicola. In ogni caso, ci sono voluti dieci anni per ottenere i primi risultati. Anni in cui ho rovesciato queste terre come si fa con un guanto, facendo operare, per ben 25.000 ore lavorative, le ruspe in lungo e in largo, con l’intento di sistemare i terreni e trovandomi a lavorare sulla roccia, dove, una volta sgretolata, ho dovuto riportare la terra, arrivando, piano piano, a livellare le superfici, inclinandole verso nord in modo che l’acqua piovana rimanesse ad abbeverare i vigneti. Man mano che procedevo in quest’opera ciclopica, sviluppavo anche un processo di rinnovamento totale dei vigneti, impiantando nuove viti che innestavo in modo massale, andando in giro a selezionare, in tutto il territorio del Soave e con il permesso degli stessi proprietari, le piante che, secondo il mio personale giudizio, producevano un tipo di Garganega più idoneo all’obiettivo che volevo raggiungere. In seguito mi avevano proposto di diventare anche preside di un istituto, ma mi accorsi ben presto che mi rimaneva sempre più difficile seguire la scuola e l’azienda che, nel frattempo, si era sviluppata altrettanto bene. Così dovetti fare una scelta e, a trentotto anni, decisi per la pensione, anche se la cosa mi provocò forti rimpianti, poiché l’insegnamento mi piaceva molto ed era un lavoro che svolgevo con passione proprio per quel contatto giornaliero con i giovani che mi ha sempre entusiasmato. La scelta, inoltre, mi portò a guardare le cose da un’altra ottica e ad assumere una posizione diversa davanti alle problematiche che, giornalmente, mi si presentavano davanti, costringendomi non solo ad una maggiore responsabilizzazione, ma anche alla definizione di


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Soave Classico DOC Alzari Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda posti in località Castelcerino, nel comune di Soave, le cui viti hanno un’età media di 25 anni.

quale ruolo avrebbe dovuto giocare l’azienda nel panorama del territorio del Soave. Compresi che, se fossimo stati in molti a inseguire l’eccellenza, forse saremmo riusciti a far cambiare opinione ai consumatori e a tutti gli esperti del settore, sulle reali potenzialità di questa viticoltura del Soave che, da troppo tempo, non aveva la considerazione che, invece, avrebbe meritato. Il risvolto più affascinante della storia fu quando capii di essere entrato a far parte di un ambiente positivo dove, ancora, contavano molto quei valori sociali che, da altre parti, si erano persi; un ambiente dove era possibile trovare aiuto e reciproci scambi di cortesie senza secondi scopi, dove anche le piccole cose assumevano un valore enorme, poiché proposte con il cuore, e dove la vita era più semplice, genuina e i rapporti interpersonali più sinceri. Con questi pensieri in testa sono diventato sempre meno giovane e tutte le volte che stappo la bottiglia di una nuova annata e tengo in mano questo bicchiere, nell’annusare e nel sentire ciò che sa esprimere il vino che in esso è contenuto, penso a quanto la vigna ha richiesto da me perché ottenessi quel risultato o a quale altra vendemmia potrei paragonare quel vino. Senza volerlo, in breve tempo faccio a ritroso il percorso di tutta la mia vita, cercando di consolidare quelle poche certezze che ho e che cerco di trasmettere ai miei figli, dicendo loro: “Guardate che per ottenere questo risultato, penso sia necessario che voi...”. Tutto all’insegna della speranza che loro continuino ad avere la serietà nel comportamento e nella comprensione degli altri e con la volontà di poterli aiutare per il resto della mia esistenza.

Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni con una venatura calcarea con sedimenti tufacei, sono situati ad un’altitudine compresa fra i 200 e i 320 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Pergola veronese singola Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede ad un appassimento del 40% delle uve raccolte per 30-40 giorni, al termine dei quali le stesse subiscono la sorte delle altre, che in precedenza sono state avviate ad una pigiadiraspatura, dopo la quale si è provveduto alla pulizia statica del mosto per 12-18 ore a temperatura ambiente; in seguito sono stati inseriti i lieviti selezionati e avviata la fermentazione alcolica che si è protratta per 25 giorni, alla temperatura di 17°C in tini di acciaio. Al termine di questa fase entrambi i vini vengono posti in botti di rovere francese di Allier a grana fine da 15 hl, in cui rimangono per 14-18 mesi, durante i quali vengono effettuati almeno 2 travasi. Alla conclusione della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 8.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, mentre all’esame olfattivo sprigiona profumi di ginestra, timo e pesca gialla matura oltre a quelli di susina su un fondo erbaceo e minerale; queste percezioni con l’invecchiamento si trasformano, fino a toccare note di mostarda. In bocca ha un’entratura elegante, sapida, equilibrata, con una piacevolissima vena di agrumi canditi che esalta la freschezza del vino contribuendo a renderlo lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1995, 1998, 2001, 2003, 2004, 2005 Note: Il vino, che prende il nome dal dialetto veneto, nel quale “Alzari” significa scarpate, pendii (proprio la posizione in cui sono collocati i vigneti), raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà di Alberto Coffele dal 1995, l’azienda agricola si estende oggi su una superficie di 30 Ha, di cui 27 vitati e 3 occupati da prati, olivi, ciliegi e boschi. Svolge funzione di agronomo e di enotecnico lo stesso Alberto Coffele. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc Ca’ Visco (Garganega 75%, Trebbiano di Soave 25%) Soave Classico Doc (Garganega 100%) Recioto di Soave Docg Le Sponde (Garganega 100%)


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Loris Dall’Acqua, Francesco Miotto, Paolo De Bortoli

Non è stato facile arrivare al punto di poter affermare, senza paura di essere smentiti, di aver dato un valido contributo, come vignaioli della Valdobbiadene, alla riqualificazione di questa nostra magnifica area viticola trevigiana verso la quale ognuno di noi tre nutre un forte legame affettivo. È stato un lavoro avviato tanti anni fa quello che ci ha coinvolti, uniti e gradualmente portati a diventare un punto di riferimento per il movimento vitivinicolo di questo territorio. Una considerazione che, proprio perché arrivata da altri, che come noi si adoperano per questo obiettivo, ci inorgoglisce e ci stimola a continuare in questa direzione, pur sapendo che i risultati fin qui ottenuti non sono altro che il frutto di un impegno continuativo nella ricerca di quegli elementi che valorizzano la viticoltura “eroica” che si pratica su questi colli. D’altronde sappiamo bene che nel prossimo futuro questa ricerca non sarà più sufficiente a garantire il mantenimento della reputazione che ci siamo guadagnati sul campo e per questo saremo obbligati a raddoppiare l’impegno fin qui profuso. Siamo convinti che potremo riuscire in questo obiettivo a patto di non demordere e di continuare a rispettare profondamente il nostro lavoro. Quando partimmo era ben chiaro il cammino che avremmo dovuto percorrere per ottenere quei grandi risultati che ritenevo potessero nascere solo dall’interpretazione che saremmo riusciti a dare a quella tradizione viticola che, fortunatamente era giunta a noi intatta. Questa speranza era alimentata dalla consapevolezza di avere a fianco uno con l’esperienza di Francesco, la cui famiglia, presente sul territorio fin dal 1838, negli anni aveva portato l’azienda Col Vetoraz già ad un buon livello nel panorama delle aziende produttrici di Prosecco. Ero certo di dover partire dalle memorie storiche della tradizione contadina che aveva contribuito a disegnare questa terra e a tramandare nel tempo quel patrimonio vitivinicolo di inestimabile valore che dovevamo mantenere e tutelare. Dovevamo capire la forza, la genuinità e la schiettezza di questo patrimonio e quanto avesse influito sulla genesi del lavoro, duro e faticoso, di quei contadini dalle mani e dai volti scolpiti che accudiscono le vigne, “arroccate” sui pendii di queste basse montagne. Una memoria che doveva essere solo interpretata e plasmata, affinché potesse essere traghettata verso ciò che ritenevo giusto e utile per affrontare i nuovi mercati. E per fare ciò abbiamo parlato con gli oltre sessanta conferitori con i quali collaboriamo e che ci forniscono una parte delle uve che lavoriamo, convincendoli a porre la loro esperienza al servizio della ricerca e della sperimentazione che ritenevo indispensabili per ottenere quei grandi risultati che poi non tardarono ad arrivare. Un connubio fra passato e presente, quindi, fra tradizione e innovazione fu quello che cercammo di ottenere, non dimenticandoci che eravamo dei semplici, anche se interessati, ambasciatori di questo territorio e per questo avremmo avuto l’obbligo di rappresentarlo sempre con prodotti enologici di grande valore, costruiti senza scendere a compromessi e rimanendo fedeli a quella Denominazione di Origine Controllata che contraddistingue il nostro Prosecco di Valdobbiadene dalla stragrande maggioranza degli altri Prosecchi che si trovano in commercio. Scelte non facili che hanno trovato, comunque, la forza di essere realizzate attraverso l’impegno che ognuno di noi tre ha messo a disposizione di questa società, a partire da Francesco che, con molta umiltà ed intelligenza, ha compreso di non poter reggere da solo ai continui mutamenti che attraversa il mondo del vino e per questo si è aperto a un dialogo schietto e costruttivo con chi egli sentiva che avrebbe potuto aiutarlo. Un impegno profuso senza remore anche da Paolo, che si prodiga in modo pignolo nel seguire tutto l’aspetto viticolo interno ed esterno all’azienda; e un impegno che vede giornalmente impegnato anche il sottoscritto che, dopo svariate esperienze avute in diverse aziende come enologo, ha sempre cercato di portare avanti le proprie idee, soprattutto qui, in questa azienda di cui aveva intuito le grandi potenzialità. Ero convinto che Col Vetoraz fosse una cantina che, se giustamente assistita e assecondata nel suo sviluppo, con investimenti fatti più in vigna che in cantina, avrebbe potuto dare grandi soddisfazioni facendoci realizzare dei vini eccellenti. Ciò che abbiamo realizzato in questi anni è stato comunque il frutto di uno scambio reciproco di esperienze e di un grande


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Prosecco di Valdobbiadene DOC Dry Superiore Cartizze lavoro di équipe che ci ha visti, e ci vede tuttora, impegnati in una trasformazione continua di questa azienda, non tanto sotto l’aspetto tecnico, ma soprattutto sotto l’aspetto strategico e che coinvolge non solo il settore viticolo, ma anche quello commerciale che ha trovato indubbio giovamento dall’innalzamento qualitativo dell’intera filiera produttiva. È stata una strada lunga quella che ci ha portati fin qui, ma a distanza ormai di tanto tempo credo che possiamo definirci un po’ tutti soddisfatti di ciò che abbiamo realizzato, e credo che per questo si debba rendere merito alla complementarità dei nostri caratteri e anche agli stili di vita adottati da ognuno di noi, i quali non ci limitano nell’avere un’ottima intesa sul piano lavorativo e personale che va ben oltre quello che ci dimostriamo l’uno con gli altri.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Prosecco provenienti dai vigneti di proprietà dell’azienda, posti in località Col Vetoraz, le cui viti hanno un’età media compresa tra i 10 e gli 80 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di argilla carbonatica e roccia, sono situati ad un’altitudine di 400 metri s.l.m., con un’esposizione prevalentemente a sud. Uve impiegate: Prosecco 100% Sistema di allevamento: Cappuccina modificata Densità di impianto: 3.000-3.200 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede a una pressatura delle uve raccolte e a una decantazione statica del mosto ottenuto che viene travasato e avviato, attraverso anche la moltiplicazione dei lieviti autoctoni e l’inserimento di altri selezionati, alla fermentazione alcolica che dura 10-15 giorni ad una temperatura compresa fra i 18 e i 19°C in tini di acciaio. Al termine di questa fase, nel breve periodo di qualche giorno vengono effettuati 6 travasi, dopo di che il vino rimane sui propri lieviti per le successive 4-6 settimane, al termine delle quali, dopo un illimpidimento, è messo in cisterna a 6°C e lì mantenuto fino a quando non è posto in autoclave per la seconda rifermentazione e qui rimane per 6 settimane. In seguito è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 2 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un Prosecco dal bel colore giallo scarico, ma brillante, con una spuma fitta e un perlage fine e persistente; all’esame olfattivo si presenta in modo fresco e aromatico sprigionando sensazioni di scorza di cedro e note fruttate di pesca a pasta bianca e di mela che si intrecciano con quelle floreali di fiori di campo, acacia e gelsomino. In bocca è vellutato, avvolgente, tondo, delicatissimo, armonioso e piacevolmente fruttato. Prima annata: 1989 Le migliori annate: 1990, 1992, 1998, 2000, 2002, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dalla zona omonima, raggiunge la maturità dopo 6-8 mesi dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 3 anni. L’azienda: Di proprietà della Col Vetoraz Spumanti S.r.l. dal 1992, l’azienda agricola si estende su una superficie di 12 Ha, di cui 8 vitati e 4 occupati da boschi e prati. La conduzione agricola è nelle mani di Francesco Miotto, l’agrotecnico è Paolo De Bortoli; l’enologo è Loris Dall’Acqua. Altri vini Gli Spumanti: Prosecco di Valdobbiadene Doc Dry Millesimato (Prosecco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Brut (Prosecco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Extra Dry (Prosecco 100%) I Rossi: Moraio (Uvaggio Bordolese)


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Lodovico Giustiniani

Quest’azienda è il fulcro di ciò che rimane dei possedimenti dei Conti Collalto, i cui territori si estendevano oltre il punto cui può arrivare lo sguardo di chi si affaccia dai bastioni del Castello. Quest’area non era una semplice contea, ma un vero e proprio Stato, con le sue leggi, la sua moneta, i suoi tribunali e un esercito proprio. Rimase così fino a quando la Repubblica di Venezia ridimensionò la casata, alla fine del 1500, lasciandogli i territori che, in seguito, furono poi in parte espropriati dai Francesi di Napoleone. Oggi conta solo 1500 ettari che sono, comunque, un’estensione considerevole per un’azienda agricola di questo territorio, che per il 50% è cementificato, soprattutto se paragonata alla superficie di alcuni comuni della provincia di Treviso, addirittura più piccoli. Un’azienda che, proprio per le sue dimensioni, è molto complessa e difficile da amministrare e il doverla gestire comporta, sicuramente, più oneri che onori, soprattutto a causa di un’infinita miriade di norme e leggi che, interagendo fra loro, rendono complicati gli aspetti burocratici ed economici che devono essere esplicati quotidianamente. Problemi che si sommano alle molteplici pressioni che arrivano dal mondo esterno, a partire dalla viabilità interna, a cui sono interessati diversi comuni della zona, agli elettrodotti o ai metanodotti che attraversano le aree agricole della tenuta, a cui sono interessati enti ed aziende private, come ai mille altri fattori che interferiscono con l’attività, rischiando di minare l’ecosistema esistente e, ancor peggio, di mettere in pericolo ciò che ancora resiste della grande biodiversità presente nell’area. Da pochi anni ho preso le redini amministrative di questa tenuta; dopo aver avuto delle esperienze lavorative in società che fornivano servizi bancari e commerciali ad operatori italiani all’estero, nel 1999 fui chiamato da mio suocero, il Principe Manfredo Collalto, il padre di mia moglie Caterina, per affiancarlo nel suo attento lavoro di mantenimento della proprietà. Nei pochi anni che mi è rimasto accanto, ho compreso cosa significasse, per i Collalto, questa terra e quanto fosse forte il legame fra questa casata e il tessuto sociale della zona. Sono rimasto sbalordito nel vedere come fossero integre, nonostante il passare del tempo, le potenzialità dell’azienda e come in essa operassero, da decine di generazioni, interi nuclei familiari; c’era la presenza in azienda, contemporaneamente, anche di tre generazioni, composte dal nonno, in procinto di andare in pensione, da suo figlio e dai nipoti, che invece, magari, erano appena stati assunti. Guardando negli occhi questa gente compresi subito che il loro non era tanto un forte attaccamento a questa terra, la quale sembrava tuttavia contraccambiare il grande rispetto che le veniva destinato, ma era un legame simile a quello che si prova verso una bandiera. Compresi subito che non avrei potuto fallire, avendo come compagna l’energia che mi trasmetteva quella gente. C’era un limite, però, che dovevo tener presente: la possibilità che mi facessi prendere la mano da voli pindarici, trascinato da quelle nuove tendenze e chimere che, periodicamente, rimodellano i sistemi produttivi del mondo agricolo. Sapevo di dover far fiorire quest’azienda la quale, pur avendo una molteplice e poliedrica operatività, per secoli era rimasta fedele ad un’anima agricola, più grande di qualsiasi altra attività si potesse svolgere sui suoi territori, un’anima che non dovevo snaturare, ma valorizzare. Con questo principio ho rimodellato gradualmente i sistemi operativi interni, allargando e diversificando le fonti di reddito al fine di creare una base economica che consentisse non solo il mantenimento della proprietà, ma anche lo sviluppo della stessa. Compresi che un’azienda come la nostra non doveva costruire niente di diverso e niente di più di quanto già non possedesse. Tutto era perfetto ed era lì sotto i miei occhi, alla luce del sole, pronto per essere raccolto, anche se in parte doveva essere leggermente modificato. Non dovevo inventarmi niente di trascendentale o che non fosse alla mia portata; dovevo solo mettere in moto un meccanismo che mi consentisse di sfruttare a pieno le grandi potenzialità offerte da questo territorio, costruendo, possibilmente, una sinergia fra le diverse attività che avrei, piano piano, assemblato. Così, ho pensato di ristrutturare, con intenti ricettivi, i numerosi poderi sparsi per la tenuta, raggiungendo, per adesso, il numero di cinquanta posti letto. Con lo stesso principio, ho ridato stimolo all’allevamento del bestiame, che vede oggi la presenza di circa 900 capi bovini e un numero consistente di maiali, allevati allo stato brado, che contribuiscono alla produzione di latte e carne, che ora vendiamo, ma che presto saranno commercializzati nel nostro punto vendita aziendale di prossima apertura. Con lo stesso intento ho


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Piave Cabernet DOC Riserva Torrai Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Carmenère provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Torrai nel comune di Susegana, le cui viti hanno un’età media compresa tra i 15 e i 20 anni.

pensato di attivare oculatamente una politica di rimboschimento e allo stesso tempo di taglio dei boschi al fine di realizzare legname da ardere, da vendere o da bruciare, in parte, nelle caldaie che alimentano i riscaldamenti di alcuni centri aziendali, rispondendo così al completo fabbisogno di calore di cui necessitiamo. Iniziativa, quest’ultima, che ha preso spunto dalla copertura totale del nostro fabbisogno elettrico che avviene attraverso una piccola centrale idroelettrica, aperta nel 1905, che produce 92 Kw/ora, alla quale, presto, si aggiungerà un biogeneratore, che sfrutterà le biomasse prodotte dagli allevamenti. Un sistema complesso, com’è facile intuire, che ha sviluppato anche la produzione vitivinicola che negli ultimi anni è raddoppiata, passando da 400.000 a 800.000 bottiglie commercializzate, tutte prodotte nella nostra cantina che è stata quasi completamente ristrutturata e che, da qualche anno, vede anche la presenza di una sala degustazione efficientissima. Nel frattempo, insieme a Ninni, una delle mie cognate, ho avviato dei progetti che prevedono la costituzione di alcuni itinerari all’interno della tenuta, in modo da far avvicinare le nuove generazioni al mondo agricolo, partendo dal presupposto di avere tanto da raccontare e tanto da far vedere su questo territorio. Un itinerario storico-culturale, legato al castello, e uno mirato, invece, al mondo agricolo che ha dato alla luce quattro laboratori didattici con l’idea, poi, di estenderli a diverse filiere produttive. Una bellissima avventura, di cui sono entusiasta, e che continua a stimolare le mie capacità professionali, tutte concentrate sulla missione principale che mi sono prefissato: riuscire a governare il territorio nel massimo rispetto degli equilibri che sono andati via via formandosi nei secoli, intervenendo soltanto laddove ci sia la possibilità di intervenire, così da ricavare quelle risorse economiche che evitino il degrado di un’area che, ancora oggi, è integra ed è considerata, da molti, un grande patrimonio della provincia di Treviso.

Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argillosi, sono situati ad un’altitudine di 100 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 85%, Cabernet Franc 10%, Carmenère 5% Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 4.800 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato è avviato alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 28°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che dura invece solo 10 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase e dopo un breve periodo di decantazione, il vino viene immesso in botti di rovere da 4 hl e barriques di Allier a grana fine e media tostatura di primo e secondo passaggio, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 1824 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino pieno, intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi eleganti, di confettura di prugne, lamponi e importanti percezioni di fiori appassiti e di erbe officinali. In bocca è elegante, con una fibra tannica ben evoluta e una bella freschezza; piacevole, risulta inoltre lungo e persistente con un retrogusto erbaceo. Prima annata: 1985 Le migliori annate: 1993, 1998 Note: Il vino, che prende il nome dalla zona omonima, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Collalto dal XIII secolo, l’azienda agricola si estende su una superficie di 1500 Ha, di cui 130 vitati, 500 destinati a seminativi, 400 a boschi e i restanti occupati da prati e pascoli. Collaborano in azienda l’agronomo Mirco De Pieri e l’enologo Adriano Cenedese. Altri vini I Bianchi: Manzoni Bianco Colli Trevigiani Igt (Manzoni Bianco 100%) Colli di Conegliano Doc Schenella I (Incrocio Manzoni 55%, Chardonnay 35%, Riesling 5%, Sauvignon Blanc 5%) I Rossi: Rambaldo VII Colli Trevigiani Igt (Refosco 30%, Cabernet Sauvignon 30%, Merlot 30%, altre uve 10%) Wildbacher Colli Trevigiani Igt (Wildbacher 100%) Colli di Conegliano Doc Vinciguerra I (Cabernet Sauvignon 70%, Cabernet Franc 30%)




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Giordano Emo Capodilista

Sto cercando di costruirmi una storia che sia mia. La cosa non mi rimarrà facile, anzi direi che sarà un compito abbastanza arduo per chi, come me, è nato in una famiglia che, invece, di storia ne ha tanta. Comunque, se caso mai dovessi giungere ad un simile risultato dovrò dire grazie anche ai miei genitori che sono stati bravi a non caricarmi con il peso della storia di famiglia, facendomi scoprire a solo tredici anni di essere l’ultimo discendente maschio di una famiglia veneziana che faceva già parte, nel 1297, della Serrata del Maggior Consiglio della Repubblica di Venezia, alla quale ha dato ben otto Procuratori di San Marco oltre all’ultimo grande Ammiraglio della Serenissima, Angelo Emo, che costrinse alla resa il Bay di Tunisi, la cui effigie si può vedere ancora oggi su un bassorilievo, realizzato dal Canova, che si trova alla Marina di Venezia. In casa non parlavamo mai del nostro passato e non ho mai sentito una differenziazione forte fra la mia educazione e quella che hanno avuto molti amici d’infanzia con i quali ho frequentato le scuole pubbliche a Padova. Tutto è avvenuto gradualmente, anche se conoscere le mie origini mi ha aiutato non solo a crescere e a fornirmi solide basi sulle quali costruire un futuro, ma anche a prendere coscienza delle responsabilità che esse comportavano. A rendere ancora più impegnativo il mio compito, si è aggiunto anche il bisogno di confrontarsi con l’orgoglio della gente veneta che, se da una parte ti stima per ciò che rappresenti, dall’altra valuta attentamente il tuo operato che deve essere non solo proporzionale alla considerazione che hanno di te, ma anche meritevole della stessa storia a cui appartieni e che qui tutti conoscono. Dopo aver fatto il militare in Marina, acquisendo grande esperienza e un incondizionato amore per il mare, mi laureai in Scienze Politiche e successivamente, terminati gli studi, iniziai a lavorare per un grosso gruppo agroalimentare, la Facco, che produceva impianti per le galline ovaiole e mangimifici, di proprietà del Sig. Finco che a quei tempi era presidente degli industriali di Padova, fino a quando papà Umberto, nel 1987, non divenne Senatore. Quell’incarico istituzionale lo teneva impegnato per molto tempo lontano dalla campagna, che lui amava molto, e così dovetti ritornare a casa per incominciare ad occuparmi dell’azienda agricola, delle vigne e del vino verso il quale nutrivo una forte passione. Quello che mi attendeva non era facile, ma richiedeva impegno e, soprattutto, una grande conoscenza della materia e delle complessità che esistono nella conduzione di una tenuta che si estende per circa 50 ettari, all’interno della quale si trovano caseggiati, un campo da golf e una delle più belle e importanti ville della mia famiglia sulle terre padovane, che erano venute in dote, dopo il matrimonio fra Leonardo Emo e Beatrice Capodilista, nobile della famiglia feudale scesa dalla Francia con Carlo Magno per combattere contro Desiderio, l’ultimo Re dei Longobardi. Pur non avendo studiato viticoltura, mi dedicai con tutto me stesso a questo nuovo lavoro, arrivando a frequentare anche degli stages all’Università di Bordeaux. Svariate generazioni della mia famiglia erano già passate alla guida di questa realtà agricola e non nascondo che trovarmi immerso in una realtà del genere un po’ mi preoccupava. Mio padre aveva le sue idee e le sue precise regole che all’inizio dovetti seguire, per capire dove eventualmente intervenire in seguito. La realtà che mi trovai di fronte era molto diversa da quella di oggi e il vino che producevamo era destinato, per una piccola parte, all’autoconsumo e il resto, alla vendita in damigiane nel punto vendita aziendale che, pur rimanendo aperto solo una volta alla settimana, riusciva a smaltire quasi 2000 hl di vino all’anno. Quando il consumo del vino incominciò a diminuire, mio padre decise di sviluppare la cantina. Iniziando a seguire con molta attenzione, ma anche con molta prevenzione, quel movimento culturale che si era venuto a costituire, in quei primi anni Novanta, un po’ in tutto il territorio padovano, si ripromise di aumentare la qualità della nostra offerta enologica migliorando non solo le strutture tecniche, ma acquisendo anche nuovi vigneti nelle zone collinari dei Colli Euganei. Pur coadiuvando le sue scelte, mi rendevo conto che, seguendo i suoi tempi, avremmo perso quel momento favorevole che il mondo del vino stava attraversando. Del resto non potevo neanche forzarlo, dato che ritenevo fosse giusto che lui facesse ciò che riteneva più idoneo per la sua azienda. Pur essendoci sempre stata un’osmosi tra noi due, era lui che comandava. Io potevo solo proporre, ma era lui che




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Colli Euganei DOC Cabernet Sauvignon Irenèo decideva il da farsi. Avevo bisogno di agire e provare a costruire qualcosa di mio in cui investire tutta quella grande energia che sentivo dentro. Fu mia madre Marinella a darmi un consiglio saggio che io seguii. Mi disse: “Se sei uno capace dimostralo! Se ritieni di avere delle qualità, creati una cosa tua e, pur continuando a seguire l’azienda di famiglia, trova la forza di fare qualcosa che ti appartenga e dove puoi decidere tu”. Quelle sue parole mi dettero la forza di provare a scrivere la mia storia e con il sostegno di mio padre comprai un’azienda in una zona molto interessante dei Colli Euganei, a Baone, dove ho costruito una cantina secondo le mie idee, ho espiantato le vecchie vigne, ne ho impiantate di nuove diventando, di fatto, imprenditore agricolo. Qualche anno dopo, non solo comprai un’altra azienda nel Salento, in società con mio cugino Brandino Brandolini d’Adda e con Primo Franco, ma avviai anche una terza iniziativa che mi condusse insieme ad Andrea Faccio e Sergio Zingarelli a creare un vino dal nome suggestivo: “Primo Volo”. Quando incominciai a mostrare a mio padre i risultati ottenuti, facendogli comprendere come essi non solo erano il frutto di idee chiare e precise, ma erano giunti senza che avessi tolto energie o impegno all’azienda di famiglia, il rapporto fra di noi cambiò e, da quel giorno, ebbi maggiore libertà decisionale anche su La Montecchia. Sono passati alcuni anni e non si è conclusa la fase di trasformazione di questa azienda di famiglia dove abbiamo ancora da sviluppare alcuni progetti che devono valorizzare i nostri beni immobili, la campagna e il vino. Progetti che mi stimolano e che mi consentono di non annoiarmi, cosa che io detesto, e mi danno entusiasmo e carica per ricercare in ciò che faccio la qualità della vita. Una ricerca che richiede equilibrio e la condivisione di questo fine anche con i miei collaboratori, così da integrare la passione per il lavoro e per il vino con quella per il mare, in modo da poter continuare a sognare di avere una vigna sul mare.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Merlot e Carmenère provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Monte Castello nel comune di Baone, le cui viti hanno un’età media compresa tra i 3 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei con una parte più argillosa e una che poggia su una scaglia vulcanica, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 60 e i 250 metri s.l.m., con esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 90%, Merlot 7%, Carmenère 3% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot e cordone speronato Densità di impianto: 2.000 ceppi per Ha nei vecchi impianti; 5.400 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede, separatamente per ogni vitigno, alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte, quindi i mosti ottenuti si avviano alla fermentazione alcolica che si protrae per 14 giorni a temperatura ambiente, mentre, contemporaneamente, si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri e anche delle follature. Terminata questa fase e dopo una breve defecazione, il vino è posto in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di primo e secondo passaggio dove svolge la fermentazione malolattica, e in cui rimane per 12 mesi, al termine dei quali si procede all’assemblaggio delle partite; dopo 6 mesi di stabilizzazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 12.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino pieno, intenso, il vino al naso propone note speziate intriganti di pepe e cannella che si amalgamano a quelle di cuoio e vaniglia le quali, subito dopo, si spalancano a percezioni di marasca matura, erbacee e di foglia di pomodoro. La bocca è sapida, piacevole, intrigante e sorretta da una fibra tannica in evoluzione oltre che da una bella freschezza, elementi che fanno risultare il vino lungo e persistente. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2000, 2004 Note: Il vino, che porta in etichetta il nome di un monaco benedettino che restaurava le mappe antiche nell’Abbazia di Praglia, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia sin dal Medio Evo e gestita attualmente dal Conte Giordano Emo Capodilista, l’azienda “La Montecchia” si estende su una superficie di circa 45 Ha, la maggior parte dei quali coltivata a vigneto. Dal 2000 il Conte Giordano Emo Capodilista è anche proprietario di un’azienda agricola a Baone che si estende su una superficie di 20 Ha, di cui una parte vitata e la rimanente occupata da oliveti, boschi e prati. Svolge funzione di agronomo Patrizio Gasparinetti, mentre collaborano in azienda gli enologi Andrea Boaretti e Giuseppe Caviola. Altri vini I Bianchi: Colli Euganei Doc Pinot Bianco (Pinot Bianco 100%) I Rossi: Colli Euganei Rosso Doc Villa Capodilista (Merlot 60%, Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc 33%, Raboso 7%) Godimondo Igt Veneto (Cabernet Franc 100%) I Dolci: Colli Euganei Doc Fior d’Arancio Passito Donna Daria (Moscato Giallo 100%) Colli Euganei Doc Fior d’Arancio Passito (Moscato Giallo 100%) Colli Euganei Doc Fior d’Arancio Spumante Dolce (Moscato Giallo 100%)


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Lorenzo Palla

Mi ritrovo a fare il vignaiolo nel cuore della Marca Trevigiana e precisamente a Venegazzù di Volpago del Montello, alle pendici della riserva omonima, non per caso, ma per soddisfare il mio naturale bisogno di avere un rapporto equilibrato con tutto ciò con cui interagisco, a partire dal tempo e dal significato che assume per chi, come me, si occupa di vino. Tempo che a volte sembra fermare, in virtù di chissà quale misteriosa forza, le lancette dell’orologio, dilatandosi oltremodo e lasciandomi così l’opportunità di poter godere di ciò che faccio. C’è troppa frenesia lontano da queste vigne e da questa cantina ed è forse per questo, oltre ad un’altra infinità di motivi, che ho deciso di fermarmi in questa azienda che mio padre Giancarlo comprò nel 1973 dal Conte Loredan Gasparini, diretto discendente del Doge Leonardo Loredan che, nel Cinquecento, aveva deciso di stabilire la propria dimora in una splendida villa palladiana che faceva parte della tenuta, poco distante da questa cantina. Sarà forse la mia formazione umanistica o il mio carattere, semplice e poco incline a confrontarsi con le logiche industriali dell’azienda manifatturiera di famiglia, che mi hanno spinto ad abbracciare questo mestiere. Una scelta ragionata e voluta che, grazie anche alla mia capacità di guardarmi dentro e accettare i miei limiti, mi ha spinto a ricercare nuove e personali aspirazioni, che ho trovato proprio attraverso l’uva e il vino. Del resto, ho sempre avuto un legame forte con questa azienda di famiglia che è stata considerata per molti anni da tutti noi, il nostro “buen retiro”, soprattutto da mio padre che qui veniva, e viene tuttora, a riposarsi dalle fatiche e dallo stress dell’attività industriale. Fin da adolescente adoravo giocare e perdermi fra queste vigne e forse proprio in quegli anni fra me e questa terra si è instaurato un legame profondo che è andato sempre più consolidandosi man mano che approfondivo le mie conoscenze umanistiche, nelle quali trovavo risposte concrete nello scorrere lento e inesorabile delle stagioni, nel fascino della bruma invernale che cala fitta sulle vigne, nell’odore del mosto e in quello della terra bagnata dalle abbondanti piogge. È per questo motivo che mi rimaneva difficile occuparmi dei meccanismi che regolano il mercato tessile. Non mi ci vedevo a scegliere i modelli da proporre al prêt à porter di primavera-estate; preferivo sporcarmi le mani, faticando fra le viti o in cantina, occupandomi del vino. Non ho nessun rimpianto, dato che ho deciso da solo e liberamente di essere dove sono oggi. Devo dire che in questa mia scelta sono stato agevolato da mio padre, il quale, da uomo aperto e disponibile al dialogo e al confronto, ha saputo cogliere la mia volontà e ha compreso dove io mi trovassi maggiormente a mio agio. Non è un caso, quindi, che dopo svariati anni passati a lavorare nell’abbigliamento abbia deciso, più che volentieri, di lasciare tutto e appagare la mia indole dedicandomi esclusivamente all’azienda agricola e al vino. Un’esperienza che, pur essendo iniziata da poco più di dieci anni, mi ha consentito di crescere sia come uomo, sia come vignaiolo, al fianco di collaboratori, enologi e fidati agronomi che mi hanno fornito le basi per poter operare scelte tecniche tali da consentirmi di avere una visione sempre più specifica e dettagliata del mondo del vino e di ciò che io volevo ottenere. Attraverso quell’esperienza compresi presto che avrei dovuto non solo continuare a mantenere viva quella personalità che esisteva già nel vino prodotto in azienda e che mio padre aveva provveduto ad esaltare, ma avrei dovuto anche proteggerlo da qualsiasi intromissione o elaborazione che non fossero state il risultato della lavorazione di quelle uve che madre natura stagionalmente mi consente di raccogliere. Pur tenendo in dovuta considerazione l’aspetto economico, a cui deve far riferimento qualsiasi azienda che opera sul mercato, ho cercato di mantenere in equilibrio con quella finalità anche l’aspetto produttivo, misurandomi nella selezione di prodotti che fossero rispettosi del territorio e naturalmente genuini, modificando e sperimentando tutto ciò che poteva contribuire a ottenere vini di grande personalità. È per questo che non condivido certe alchimie enologiche in cui si cimentano alcune aziende, e soprattutto gli imbottigliatori e gli industriali del vino, e, per lo stesso motivo, forse, non nutro una grande simpatia per un vino come il Prosecco che, più di altri, purtroppo, si presta ad essere lavorato come non si dovrebbe fare. Non nego che il Prosecco sia un vitigno storico




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Capo di Stato IGT Colli Trevigiani Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Merlot, Cabernet Franc e Malbech provenienti dal vigneto denominato Cento Piante, di proprietà dell’azienda, posto in località Venegazzù nel comune di Volpago del Montello, le cui viti hanno un’età media di 50 anni.

molto importante per l’economia del territorio, ma è una tipologia di vino nella quale faccio fatica a identificarmi come vignaiolo, perché, pur producendolo, anche con ottimi risultati, vedo che non riesco ad appassionarmi più di tanto alla sua produzione. Amo invece realizzare vini più complessi che richiedono impegno, dedizione e interpretazione di tutto ciò che può interagire con essi. Un po’ come ho necessità di fare con le cose che mi circondano, lasciandomi appassionare così tanto da identificarmi con loro. Sono i miei vini che raccontano chi è Lorenzo Palla e sanno descrivere meglio di qualsiasi cosa, anche più di queste parole, le motivazioni che mi hanno spinto a realizzarli e cosa io voglio comunicare di Venegazzù.

Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona pianeggiante su terreni rossi ricchi di componenti ferrosi e minerali, è posizionato ad un’altitudine di 105 metri s.l.m, con esposizione a sud. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 70%, Merlot 15%, Cabernet Franc 12,5%, Malbech 2,5% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato e guyot Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha nei vecchi impianti; 5.000 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede separatamente per ogni vitigno alla diraspapigiatura delle uve e i mosti ottenuti sono avviati alla fermentazione alcolica che si protrae per 20-24 giorni ed è svolta parte in recipienti di acciaio inox e parte in tini di rovere da 50 hl. Ctontemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, tutti i vini svolgono la fermentazione malolattica in acciaio e, dopo un breve periodo di decantazione, si procede all’assemblaggio di una parte, che viene posta in botti di rovere di Slavonia da 25 hl, mentre un’altra parte viene messa in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura, per un 30% nuove e il restante di 2° o 3° passaggio, contenitori dove rimangono per circa 18-24 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio finale delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia senza filtrazione per un ulteriore affinamento di altri 12-18 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: circa 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore rosso rubino intenso con riflessi purpurei che tendono al granato con l’invecchiamento, mentre al naso propone percezioni olfattive di frutti di bosco, in particolare mirtilli e ribes neri, che si aprono a note speziate dolci e di pepe bianco. In bocca risulta equilibrato, ricco di una fibra tannica elegante che è sorretta da buona freschezza, la quale accompagna la degustazione rendendo il vino lungo e persistente.A Prima annata: 1958 Le migliori annate: 1961, 1964, 1969, 1970, 1971, 1974, 1976, 1979, 1982, 1985, 1990, 1995 Note: Il vino, che prende il nome dal fatto che più volte è stato offerto a diversi capi di Stato in visita a Venezia, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Palla dal 1973, l’azienda agricola si estende su una superficie di 100 Ha, di cui 80 vitati e 20 in cui sono presenti boschi e seminativi. La funzione di agronomo è svolta da Pier Paolo Sirch, quella di enologo da Mauro Rasera. Altri vini I Bianchi: Manzoni Bianco Igt Marca Trevigiana (Manzoni Bianco 100%) I Rossi: Venegazzù della Casa Igt Colli Trevigiani (Cabernet Sauvignon 70%, Merlot 15%, Cabernet Franc 12%, Malbec 3%) Falconera Rosso Igt Colli Trevigiani (Merlot 60%, Cabernet Sauvignon 40%)


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Marinella Camerani

Non so se mi posso definire una donna distratta o una sognatrice, ma certamente posso assicurare che nella mia vita ho cercato di realizzarmi attraverso il lavoro, che ho affrontato con tenacia e risolutezza insospettate, riuscendo a costruirmi una mia personale strada produttiva, una precisa identità lavorativa oltre ad una buona crescita individuale che mi ha condotto ad una serenità interiore alla quale non saprei più rinunciare. Un percorso di non facile realizzazione che mi ha messo molte volte di fronte a me stessa e che in passato mi ha spinto a trovare decine di aggettivi con i quali descrivere i miei difetti e pochi invece con i quali esaltare i miei pregi. Con il passare degli anni, però, molti spigoli del mio carattere si sono smussati e addolciti e questo mi ha condotto verso una visione più serena e tranquilla del mio passato e del mio presente; sono arrivata alla conclusione di essere una donna fortunata che in definitiva fa ciò che le piace fare e questo, per me, è più che sufficiente, poiché non mi interessa più come mi etichettano gli altri. Caro amico mio, oggi taccio, guardo solo alla mia famiglia e a ciò che ho fatto in questi anni e lascio che a parlare siano solo i vini che produco. Troppe vicissitudini ho dovuto affrontare nella vita per accettare passivamente certi stereotipi che altri hanno disegnato e preconfezionato per me, ma ormai è acqua passata. Dicano pure ciò che vogliono, ormai vado avanti per la mia strada e non mi interessa guardarmi indietro. Voglio solo godere il presente, che è incentrato sulle mie tre splendide figlie, Alda, Federica e Bianca e sul mio compagno Cesar. Per tutta la vita ho combattuto per farmi strada come imprenditrice e non sto a menzionarti le infinite battaglie che ho dovuto sostenere per affermare la mia dignità di donna libera e indipendente che senza remore ha sempre affrontato la sua vita scacciando le paure. Una che si è sempre messa in gioco, forse quanto e più degli uomini, e questo, credimi, l’ho fatto a viso aperto, senza nascondermi, affrontando ciò che il destino mi offriva. Non so come mai ora ti stia raccontando queste cose che c’entrano poco con il vino, ma forse, come sostieni tu, sono calzanti per l’argomento più di quanto io riesca a immaginare, essendo proprio lo specchio utile per comprendere lo spirito con cui intraprendo questo lavoro di vignaiola e con cui faccio i miei vini, che troverai sicuramente vivi, schietti e sinceri come pochi altri. Del resto, come potrei fingere? Non l’ho mai fatto in vita mia e non posso farci niente, anzi ne sono orgogliosa. Io sono così: schietta e trasparente fino al punto di sembrare anche un po’ strana agli occhi della gente, una senza fronzoli, come i vini che stai degustando o come l’ospitalità che ti ho offerto, che è venuta dal cuore, senza troppi ma e senza troppi se. Per me è sempre stato così fin da quando decisi di lasciare l’azienda di mio padre dove lavoravo come ragioniera per venire in campagna, su questa terra che lui aveva acquistato nel 1972 dopo essere rimasto stregato, come per un colpo di fulmine, da un incontro ravvicinato con la natura. Capitò per caso su queste colline in una splendida giornata, quando qui c’era un sole meraviglioso, mentre in basso una coltre bianca di nebbia avvolgeva la pianura e con essa la sua fabbrica di batterie dove io ero rinchiusa. Gli bastarono un raggio di sole e un po’ di nebbia per capire quanto fosse grande l’onnipotenza del Signore e, senza indugi, acquistò l’azienda per poi lasciarla abbandonata a se stessa per molto tempo. A me invece bastarono pochi anni per capire che se fossi rimasta a lavorare nell’azienda di mio padre, in quell’ufficio contabile, non sarei andata oltre lo stimolo, per niente affascinante, di scrivere solo dichiarazioni dei redditi. Non avevo via d’uscita, né possibilità di carriera e non avevo minimamente voglia di starmene seduta a veder vagabondare intorno a me noiosi manager in giacca e cravatta. La cosa non mi andava proprio; così, a 22 anni, venni a vivere qui su queste colline di Mezzane. Poco dopo la prima figlia, seguita dalla separazione con mio marito: il tutto mentre avevo le vigne a cui pensare e un’azienda agricola da inquadrare. Quelli furono anni duri, alla fine dei quali, se avessi dovuto stilare un bilancio, avrei sicuramente detto che ero in perdita su tutti i fronti. Ero qui da sola, con l’azienda che non aveva ancora una sua fisionomia o una sua specifica personalità e con i miei genitori che mi guardavano perplessi e un po’ preoccupati. Avevo la sensazione che le cose presto sarebbero cambiate e che a quelle viti si poteva collegare un vino che non avrebbe dovuto essere scontato, come invece poteva inizialmente apparire, anzi. Così è stato e la cosa è partita senza che io conoscessi alcunché della


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Amarone della Valpolicella DOC Mithas viticoltura o comprendessi in realtà qualcosa di enologia. Come avrai ben capito, non sono certo una che si arrende o si scoraggia davanti alle difficoltà e decisi, senza tentennamenti, di buttarmi nell’avventura, confrontandomi e chiedendo aiuto, tutte le volte che ne avevo bisogno, agli altri produttori della zona, il cui elenco sarebbe lungo da farti, e verso i quali avrò sempre un debito di riconoscenza. È anche grazie a loro che ho imparato a muovermi in cantina, comprendendo, fin da subito, che avrei dovuto farlo a modo mio, mettendoci la mia personalità e le mie idee che non si sono sviluppate improvvisamente dall’oggi al domani, ma con il tempo, così come con il tempo è venuta un’altra figlia e poi un’altra ancora. Gli anni sono passati, le mie bambine sono diventate grandi, come puoi vedere dalla foto che troneggia in questa sala di degustazione, ma in tutto questo tempo sono cresciute anche l’azienda e la mia consapevolezza di donna: oggi sono serena e cosciente di aver fatto tutto il possibile per ottenere questi risultati, alla luce del sole e nella trasparenza che contraddistingue il mio animo.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella e Corvina grossa provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Macie nel comune di Mezzane di Sotto, le cui viti hanno un’età di 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni misti calcarei composti da argilla e scheletro fine, sono situati ad un’altitudine di 350 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Corvina 35%, Rondinella 35%, Corvina grossa 30% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima decade di ottobre, si procede alla selezione delle uve raccolte che sono poste nel fruttaio per l’appassimento, generalmente fino alla fine del mese di gennaio successivo alla vendemmia. Una volta raggiunta la maturazione, le uve vengono pigiate in tini troncoconici di rovere da 40 hl e, senza aggiunta di lieviti selezionati, inizia spontanea la fermentazione alcolica che si protrae, per 20 giorni a temperatura libera; per favorire la macerazione delle bucce, vengono effettuati, soprattutto nella prima fase frequenti follature a mano e délestages. In seguito si procede alla svinatura e, dopo un breve periodo di decantazione statica, il vino termina la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese di Allier e Nevers a grana fine e media tostatura, solo in parte nuove, dove rimane per 36 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e dopo un breve periodo di decantazione in acciaio, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 4.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con sensazioni complesse, particolari rispetto agli altri Amaroni; è un vino che comunque deve essere lasciato aprire lentamente e “scoperto” per poter percepire le note minerali che scaturiscono in abbondanza oltre a quelle speziate di cardamomo e pepe rosa che si vanno ad aggiungere alle altre di frutta secca, more e ribes. In bocca è equilibrato, con una vena alcolica evidente che bilancia una buona sapidità, la quale contribuisce a formulare un finale lunghissimo con sfumature di mallo di noce e note speziate. Prima annata: 1986 Le migliori annate: 1988, 1990, 1995, 2000 Note: Il vino, che prende il nome dalla parola greca “Mithos” (mitico), raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Marinella Camerani dal 1986, l’azienda agricola si estende su una superficie di 29 Ha, di cui 17 vitati e 12 occupati da olivi, ciliegi, prato e bosco. Collaborano in azienda l’insostituibile compagno Cesar Roman, l’agronomo Michele Lorenzetti e l’enologo Federico Giotto. Altri vini I Bianchi: Soave Doc Vigne di Mezzane (Garganega 65%, Trebbiano di Soave 35%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Doc (Corvina 50%, Rondinella 50%) Recioto della Valpolicella Doc (Corvina 50%, Rondinella 50%) Valpolicella Doc Superiore Mithas (Corvina 50% Corvina grossa 35%, Rondinella 15%) Valpolicella Doc Superiore Ripasso (Corvina 30%, Rondinella 30%, Corvina grossa 25%, Molinara e altri vitigni 15%) Valpolicella Doc Ca’ Fiui (Corvina grossa 40%, Corvina 30%, Rondinella 20%)




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Giancarlo Vason e Valentina Cubi

Faccio finta di niente e vado avanti con l’entusiasmo di una ragazzina senza soffermarmi troppo sul fatto che il tempo inesorabilmente passa anche per me. Eppure non mi sembra, anche se so benissimo che è così e me ne rendo conto certe volte al mattino, quando mi alzo e mi sento già un po’ stanca e avverto un po’ ovunque dei piccoli dolorini o il riacutizzarsi di qualche vecchio acciacco. È allora che mi dico: “Valentina, il tempo passa anche per te, ricordatelo, oggi cerca di riguardarti e di fare meno cose!”. Poi, con un caffè dimentico tutto, parto per un’altra giornata ricca di mille impegni in azienda e mi ritrovo a sera senza accorgermene. Non ho modo di guardarmi allo specchio e rattristarmi per il tempo che passa, che in definitiva è quello stesso tempo che mi manca sempre, che mi fa sentire l’affanno della sua assenza e con il quale sono sempre in competizione, quello stesso tempo che mi ha segnato e cambiato fisicamente. Che importa? So che non posso farci niente e quindi è inutile che io stia troppo a pensarci su, mi addolori o cerchi di porre inutili ripari. Il tempo passa, che io lo voglia o no, ma comunque non mi posso lamentare, visto che ho ancora molte energie e lavoro, a sessant’anni, come se ne avessi trenta. Sono sempre stata convinta che le cose accadano quando è il loro momento, ed è forse per questo che non mi sono mai posta il problema di scoprire come sarebbe potuta cambiare la mia vita se avessi cominciato prima a fare questo lavoro. Forse sarebbe andata in modo diverso, ma ciò che conta è il fatto di aver accettato con gioia l’idea di diventare vignaiola soltanto in età avanzata, dopo essere andata in pensione. Se tutto ciò è accaduto, ci dovrà pur essere un motivo, no? Si vede che era il momento giusto e visto che è questo oggi il mio presente, mi adopero per fare ciò che faccio nel migliore dei modi, con la stessa passione e con il solito senso di responsabilità che hanno contraddistinto tutta la mia vita. Passione e senso di responsabilità che caratterizzarono anche il lavoro di maestra elementare che, secondo i miei genitori, aveva il grande pregio di rendermi indipendente economicamente e di garantirmi una sicurezza per la vecchiaia. Erano stati loro ad insistere affinché mi diplomassi e andassi ad insegnare, inseguendo quella loro mentalità borghese nella quale ero cresciuta, che poneva fra le priorità della vita la sicurezza di un posto fisso. Sicurezze che con il tempo ho apprezzato e che mi hanno anche gratificato, non precludendomi però l’opportunità di condividere con mio marito Giancarlo il suo sogno di avere un’azienda vitivinicola. Era un desiderio forte il suo, che si portava dietro fin dall’adolescenza in conseguenza del fatto di essere cresciuto in una famiglia che aveva sempre prodotto vino, una cosa che, per me, era quasi sconosciuta e verso cui, prima di sposarmi, avevo un rapporto di rispettosa indifferenza che si limitava alla degustazione di quel po’ di Recioto che bevevo in famiglia, a Pasqua o a Natale. Anche mio padre Bruno non aveva una grande cultura riguardo al vino: sapeva solo che era qualcosa che doveva stare in tavola e che era regola stappare una buona bottiglia nelle grandi occasioni. Fu Giancarlo a parlarmi per primo di vino, con competenza e professionalità, presentandomelo sotto una luce nuova, facendomi comprendere l’importanza delle vigne e delle uve, della cantina e di tutto ciò che avrebbe voluto che io condividessi con lui. Così, quando mio padre gli dette l‘opportunità di acquistare il primo terreno, dove in seguito costruimmo la cantina, non ebbi remore ad accettare entusiasticamente quella scelta, poiché sapevo benissimo quanto per lui fosse importante. All’inizio vendevamo le uve all’ingrosso, poiché Giancarlo era impegnatissimo nella commercializzazione di prodotti e attrezzature per l’enologia, un’attività che nel frattempo era cresciuta enormemente e che gli stava dando molte soddisfazioni. Io cercavo di dargli una mano e dopo aver lavorato tutto il giorno, a scuola e in casa, e aver fatto il necessario per far crescere due figli, la sera, dopo aver messo a letto i bambini, “finivo la giornata” occupandomi della contabilità dell’azienda di Giancarlo, facendo i carichi e gli scarichi giornalieri del magazzino o preparando le bolle per le consegne del giorno successivo. Dopo quei lunghi anni nei quali mi ero divisa nei ruoli di maestra, moglie, madre e contabile, un giorno scoprii che i miei figli erano cresciuti e che io ero ormai in pensione. Quella scoperta mi stranì e mi costrinse a riorganizzare la mia vita. Sapevo che non avrei mai potuto trascorrere il mio tempo andando a vedere qualche vetrina o facendo shopping. Fu così che nel tempo libero cominciai a dedicarmi alla campagna e a questa cantina, convincendomi sempre più che quel vino che nel


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Morar frattempo avevamo incominciato a produrre e le vigne che avevamo piantato meritavano più attenzione di quanto gli stavamo dando e che forse sarei potuta essere io a occuparmene, anche se ciò avrebbe rappresentato una bella sfida per una pensionata come me. Ero un po’ titubante, ma non ci volle poi così molto ai miei figli e a mio marito per convincermi ad accettare quella sfida. “Io vignaiolo? Ma dai!” - mi dissi. Ed invece eccomi qui. Posso assicurare che sono state le stesse cose che mi circondavano, quest’atmosfera e un’altra infinità di particolari che mi hanno aiutato ad entrare in questo lavoro e mi hanno spinto ad adoperarmi in questa realtà aziendale. Non nego di aver sentito forte il loro richiamo ed è per questo che sostengo che le cose accadono quando è il momento che devono accadere e forse era proprio quello il momento giusto perché io diventassi una produttrice di vino. Una buona soluzione per la mia vecchiaia a cui non avrei mai pensato, mentre insegnavo ai bambini nelle scuole elementari di Fane, Castelrotto o Corrubio. Anch’io ho dovuto imparare l’abc del vino, e andare a scuola come una qualsiasi umile discente deve fare, e dovevo imparare in fretta per non deludere mio marito, i miei figli e soprattutto per partire con il piede giusto in un lavoro tutto nuovo, che mi apriva le porte di un mondo sconosciuto. Con Giancarlo riprogettammo e rifacemmo tutti i vigneti e la cantina, organizzammo la rete commerciale e mille altre cose in un susseguirsi di eventi e di impegni che non mi hanno lasciata libera neanche per un momento in questi ultimi dieci anni, nei quali ho costantemente aspirato a portare i nostri vini in tutti i più grandi ristoranti del mondo come testimonianza dell’unicità del nostro lavoro e di questo meraviglioso territorio. Oggi posso dire di essere una donna fortunata e soddisfatta, poiché ho contribuito a realizzare un sogno che apparteneva a mio marito, ma che ora sento anche profondamente mio. Ogni tanto mi fermo ad osservare lo sguardo pieno di gioia che ha mio marito quando si aggira nei vigneti. Vedo che quello è il suo habitat e che non sarebbe mai capace di trascorrere una sola giornata lontano dalle sue viti. Lo osservo e vedo come il suo volto si rilassa e si addolcisce e questo è già sufficiente per farmi sentire felice e gratificata dei sacrifici che sto facendo.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Corvinone e Rondinella provenienti dai vigneti posti in località Monte Tenda, Monte Crosetta e Rasso nei comuni di Fumane e San Pietro in Cariano, le cui viti hanno un’età media di 25 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni ricchi di scheletro con presenza di argille, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 290 e i 320 metri s.l.m., con esposizione a sud. Uve impiegate: Corvina 70%, Corvinone 25%, Rondinella 5% Sistema di allevamento: Pergola semplice e doppia e guyot Densità di impianto: da 3.500 a 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla fine di gennaio. Raggiunto il grado zuccherino desiderato, le uve vengono pigiate e il mosto ottenuto si avvia ad una breve crioestrazione al termine della quale parte naturalmente la fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox troncoconico, per 35 giorni a temperatura ambiente; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, si procede alla svinatura e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è posto in botti di rovere da 30 hl, tonneaux e barriques di vari legni, tostature e grana diverse in cui rimane per 36 mesi. Conclusasi la fase della maturazione, si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 40.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino di grande luminosità, al naso il vino si presenta intenso, con note intriganti che spaziano dalla confettura di amarene, rosa appassita e carruba, alle spezie piccanti, cioccolato, con un finale tenue di note balsamiche. In bocca è piacevole, elegante, ampio, equilibrato e morbido, sorretto da una setosa fibra tannica e da una buona freschezza che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997, 1998, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome “morar” dal termine dialettale che indica il gelso, già utilizzato come “tutore” della vite che si arrampicava sui suoi rami, raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 18 anni. L’azienda: Di proprietà di Valentina Cubi dal 1970, l’azienda agricola si estende su una superficie di 15 Ha, di cui 13 vitati e 2 occupati da frutteto, oliveto e boschi. Collabora in azienda l’enologo Giancarlo Vason. Altri vini I Rossi: Valpolicella Classico Doc Iperico (Corvina 65%, Rondinella 25%, Molinara 10%) Valpolicella Classico Doc Superiore Il Tabarro (Corvina 65%, Rondinella 25%, Molinara 10%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ripasso Arusnatico (Corvina 65%, Rondinella 25%, Molinara 10%) Recioto della Valpolicella Classico Doc Meliloto (Corvina 70, Corvinone 25%, Rondinella 5%)


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Romano Dal Forno

Credo che ognuno di noi abbia un punto preciso e ben definito da dove partire per raccontare la sua storia e gran parte della sua vita. Un momento, una data, un evento, da cui si dipanano una o molteplici strade, sentieri o percorsi sui quali si cammina per seguire i propri obiettivi e cercare, magari, se è possibile, di realizzare anche dei sogni. Anch’io ho il mio momento, da cui ho iniziato la mia strada, la stessa che continuo a percorrere da oltre vent’anni e di cui non vedo ancora la fine. Per identificarlo, punterei sicuramente l’indice dritto sul mio incontro con quel grande uomo e vignaiolo che è Giuseppe Quintarelli, il quale, tanti anni fa, mi ha aperto lo scrigno di un mondo del vino di cui, pur percependone l’esistenza, ignoravo la complessità. Mi ero sposato da poco e, con il matrimonio, ricordo, incominciai a sentire addosso sia una maggiore responsabilità per quella nuova famiglia che stava nascendo, sia il bisogno di rendermi economicamente autonomo dall’azienda agricola di mio padre Ernesto, che era sostenuta dal ricavato che riuscivamo a ottenere dalla vendita delle uve alla Cooperativa. Pur avendo un bellissimo rapporto con mio padre, non mi andava di dovergli accollare le spese della mia famiglia e così, visto che la cosa mi mortificava e mi infastidiva, pensai di produrre qualcosa che potesse darmi dignità e sostegno economico e fare vino mi sembrò una buona idea. Erano i primi anni Ottanta quando, un giorno, di punto in bianco, camminando in mezzo alle vigne, con mia moglie decidemmo che il nostro futuro era collegato al vino. Con la leggerezza tipica di chi ha vent’anni, e non avendo ancora le idee ben chiare, incominciai a produrlo, vendendolo sfuso agli amici e a qualche negoziante dei paesi circostanti. Fu comunque Quintarelli, in quell’incontro a cui ne seguirono molti altri, che mi chiarì parecchie cose sull’argomento e mi fece comprendere cosa vi fosse realmente in un bicchiere di vino e quanto profondo e complesso fosse l’approccio al mestiere che mi ero messo in testa di svolgere. Fu lui che mi aprì la mente e la coscienza, dando dignità a ciò che facevo; scoprii che era l’unica attività agricola in grado di interfacciarsi con il mercato e di chiudere il cerchio del ciclo produttivo e quindi aveva un valore molto più grande di quanto io immaginassi. Quelle lunghe chiacchierate e quegli scambi di opinioni, quei suggerimenti e i suoi primi consigli mi illuminarono il cammino. Ricordo che tutto ciò che mi suggeriva mi apriva una finestra su un mondo nuovo, tutto da scoprire. Dopo qualche vendemmia, però, ritenni che era arrivato il momento di cominciare a camminare con le mie gambe, costruendomi un’idea personale di come avrebbe dovuto essere il mio personale approccio con il mondo del vino, una decisione che partiva dal presupposto di scartare a priori qualsiasi tentativo di emulazione. Non finirò mai di ringraziarlo e, con affetto, rammento le sue parole, ma non rimpiango di aver intrapreso un’altra strada, dietro la spinta della comprensione che avrei dovuto avere una mia personale visione di ciò che avrei voluto ottenere dal mio lavoro. Iniziò così il mio viaggio nel vino, diretto all’approfondimento degli aspetti tecnologici che con esso interagiscono, ricercando l’innovazione, anche nella tradizione, che è mutevole e mai statica, e scartando la standardizzazione, l’omologazione e certi stereotipi che gravavano su questa enologia “nostrale”. In quegli anni feci partire molti esperimenti che mi hanno visto impegnato per oltre un ventennio in un maniacale lavoro nelle vigne per dare più salubrità, più corpo, più freschezza e profumi al frutto. Tutti elementi che, con il tempo, ho scoperto essere solo la sintesi di una filosofia che, partendo dalla scelta del terreno, dal tipo degli impianti utilizzati, dal tipo di potatura effettuata e dall’equilibrio da imporre alla pianta durante il suo periodo vegetativo, arriva all’uva desiderata, nella certezza che si può intervenire in ognuna di queste fasi, creando un’infinità di variabili che modificano il risultato finale del grappolo che poi è raccolto. In cantina partivano, in quegli anni, le prime fermentazioni in barrique che lasciarono il posto a fermentini con follatori automatici a temperatura controllata, fino a giungere agli attuali tank che operano sottovuoto, in un continuo rinnovamento che mi ha condotto, nell’arco di soli quindici anni, a modificare, non una, ma ben tre volte tutte le attrezzature di cantina fino a giungere all’assetto attuale che, tecnologicamente, ritengo sia uno dei più avveniristici che ci siano oggi in Italia. Tutto fa fede ad un progetto che è sempre stato in continuo mutamento, mai statico, che si è sempre basato su protocolli lavorativi scrupolosissimi e standard qualitativi altissimi, il cui ottenimento ha richiesto grandi investimenti, ancora non conclusi.


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Amarone della Valpolicella DOC Vigneto di Monte Lodoletta Scelte che mi hanno ripagato fin dall’inizio, poiché non sono mai uscito con un prodotto che non fosse in perfetta sintonia con quella filosofia aziendale che si propone di realizzare solo vini in completa armonia con il terroir che li ha generati. Quelle iniziali percezioni si sono via via trasformate in una passione che mi ha coinvolto a tal punto da farmi dimenticare il resto delle cose; mi accorgo, a cinquant’anni, di non aver visto e conosciuto nient’altro che il mondo del vino. Ho la speranza però, quando avrò concluso quest’ultima opera “biblica” della costruzione della nuova cantina, di riuscire a distaccarmi un po’ da tutto questo, lasciando spazio ai miei tre figli che, come cavalli purosangue, sono ansiosi di incominciare a correre la loro gara. Ecco, questa forse è la scommessa più difficile che dovrò vincere e non tanto contro la terra, o le vigne, ma contro la mia natura e contro quella passione che ancora sento ardermi prepotentemente dentro il petto. Una passione che potrebbe risultare, a lungo andare, un handicap, se non riuscissi intelligentemente, a gestirla, perché è chiaro che ho voglia ancora di competere, pur accorgendomi che posso farlo solo con l’esperienza, mentre i miei figli hanno, dalla loro parte, quell’energia che io non ho più. È ora che io allenti un po’ il passo e, da padre, guardi loro inoltrarsi sulla strada corretta, magari aiutandoli, se mi sarà richiesto, inconsapevole, fin da questo momento, che in questo campo o sei tutti i giorni al tuo posto o arrivi a parlare un’altra lingua che i tuoi figli non comprenderanno più. Sarà un grande sforzo quello che dovrò compiere, ma quello maggiore sarà trovare qualcos’altro che mi dia le stesse motivazioni e la stessa gioia di vivere che mi ha dato sempre questo splendido lavoro di vignaiolo.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella, Croatina e Oseleta provenienti dal vigneto omonimo, di proprietà dell’azienda, posto in località Lodoletta, nel comune di Illasi, le cui viti hanno un’età che varia dai 25 ai 35 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto si trova in una zona collinare su terreno alluvionale con forte presenza di ghiaia ad un’altitudine di 300 metri s.l.m., con esposizione a nord e sud. Uve impiegate: Corvina 60%, Rondinella 20%, Croatina 10%, Oseleta 10% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha nei vecchi impianti; 12.800 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla selezione delle uve migliori che vengono raccolte in plateaux e messe in appositi locali ben ventilati per appassire fino a metà dicembre; quindi le uve si avviano alla pigiatura e il mosto ottenuto, inoculato con lieviti selezionati, si avvia, in recipienti di acciaio inox, alla fermentazione alcolica che si protrae per 12-15 giorni, lasciando prima che la temperatura salga naturalmente, per poi innalzarla fino a 33°C; finita la fermentazione alcolica si lascia a macerare per 1 giorno. Terminata questa fase, il vino, dopo un breve periodo di defecazione, è posto in barriques di legno americano con tostatura media e grana tendente al fine, in cui rimane per 36 mesi. Al termine dell’affinamento si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 24 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 11.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un colore rosso rubino impenetrabile e di grande luminosità, il vino presenta al naso note intense di mora e amarena sotto spirito che si vanno ad amalgamare a percezioni di spezie piccanti e di tabacco da sigari oltre a quelle di corteccia di ebano. Sensazioni crescenti che si intrecciano a piacevoli profumi di fiori appassiti, carrube e cioccolato. In bocca è ampio, grandioso, complesso e sensuale, oltre che estremamente morbido e sorretto da una grande freschezza. Prima annata: 1983 Le migliori annate: 1985, 1986, 1988, 1990, 1991, 1994, 1995, 1996, 1997, 1998, 2000, 2001, 2003, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà di Romano Dal Forno (che l’ha ereditata dal padre Ernesto e dal nonno Luigi), l’azienda agricola si estende su una superficie di 13 Ha, tutti vitati e altri 12 Ha circa sono in affitto. In azienda svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Romano Dal Forno. Altri vini I Rossi: Valpolicella Doc Superiore Vigneto di Monte Lodoletta (Corvina 70%, Rondinella 20%, Croatina 5%, Oseleta 5%) Vigna Seré Igt Passito Rosso Vino Dolce (Corvina 55%, Croatina 20%, Rondinella 15%, Oseleta 10%)


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Stefano, Pietro, Giovanni e Ivo Frozza

Crediamo sia nell’indole dell’uomo cercare un territorio dove abitare che sia il più vicino possibile al luogo dell’anima. Il nostro lo abbiamo trovato sulle colline di Valdobbiadene, in mezzo a questi vigneti dove la nostra famiglia vive da generazioni. Siamo rimasti qua senza sentire mai né il bisogno, né il desiderio di allontanarci dal nostro habitat naturale, non per paura per ciò che avremmo potuto trovare altrove, né per reticenza, ma soltanto per soddisfare la necessità, che ognuno di noi ha, di avere un punto di riferimento preciso con cui identificarsi; nel nostro caso non solo coincide con quello delle origini e del futuro, ma anche con il luogo che, meglio di qualsiasi altro, riesce darci un equilibrio e porci in armonia con ciò che siamo chiamati a fare. Siamo felici di vivere una realtà che basa la sua ragion d’essere su una cultura contadina che si perde nel tempo e che noi abbiamo abbracciato incondizionatamente, non solo perché segue la ciclicità delle stagioni, ma perché è vera, varia e ricca di azioni scandite da gesti ormai abituali che ci consentono di affrontare serenamente la nostra quotidianità e ogni momento che siamo chiamati a vivere: sia esso in mezzo alle vigne, in cantina o nei nostri affetti che ci godiamo alla fine della giornata. Ci entusiasma stare nella vigna e quel contatto epidermico e giornaliero con la natura e con la vite ci infonde tranquillità e rende piacevole il nostro lavoro, che è svolto in solitudine, quasi in un silenzio certosino, lontano dai frastuoni e dalla confusione del sempre più ridondante mondo del vino. Stare fra quelle piante e comprenderne gli umori e le necessità ci pone con più immediatezza nei confronti delle cose che ci circondano e, pur sapendo che ognuna di esse ha il suo ruolo, la sua importanza e il suo spazio, ci piace pensare che, all’indomani, le ritroveremo ancora lì, al loro posto, dove le abbiamo lasciate o dove sono sempre state. Ci sentiamo dei privilegiati a fare i contadini, convinti come siamo che sia il miglior lavoro del mondo e, pur non conoscendone altri, siamo convinti che esso abbia il miglior rapporto qualitativo con la vita. È forse questo il concetto del vivere “slow” che altri vanno cercando? Sta di fatto che in questa nostra estrema semplificazione delle cose riusciamo a dialogare con il tempo meglio di qualsiasi altra persona e questo ci consente di godere fino in fondo del piacere che le cose sanno trasmettere. In tutto questo crediamo ci sia anche il segreto del nostro stare insieme, dell’affetto e della stima che nutriamo l’uno verso l’altro, senza mai un contrasto generazionale o una minima discussione. Un rapporto che si basa sulla condivisione di alcuni semplici rituali giornalieri che hanno la forza di darci una personale calma interiore e quelle sicurezze che ci fanno rendere al massimo nell’azienda, nei rapporti quotidiani fra di noi e anche con chi viene a comprare il nostro vino che riusciamo a vendere tutto direttamente in azienda senza intermediari o agenti, oppure anche nel semplice appagamento della nostra seconda passione: il ciclismo, che ci spinge a seguire, ormai da vent’anni, una squadra tutta nostra di giovani dilettanti che facciamo partecipare a molte gare locali e nazionali. Ci ha sempre appassionato questo sport, perché crediamo che per praticarlo occorra essere un po’ contadini, capaci di amare il lavoro, il sacrificio e, in solitudine, ricercare la vittoria per se stessi e per la squadra. Questa calma ci ha consentito anche di effettuare scelte difficili che oggi ci ripagano e che ci hanno visto distaccarci dalla rincorsa sfrenata che molti altri nostri colleghi produttori hanno intrapreso in seguito all’aumento della domanda del nostro Prosecco. Noi siamo rimasti quelli che eravamo e vendiamo solo quello che produciamo e, pur riconoscendo a molte aziende la capacità di saper promuovere con il vino anche il territorio, ci poniamo al cospetto del movimento del vino trevigiano in modo schietto, serio e professionale, attraverso il nostro lavoro di vignerons, senza mai indossare quell’aureola che indossano alcuni, travestendosi da contadini poetici e sognatori o atteggiandosi da esperti wine makers. Su queste terre sono passate le generazioni della famiglia Frozza e noi, che ne rappresentiamo due, sono anni che lavoriamo fra queste viti, ma, in tutto questo tempo, non abbiamo cambiato o modificato minimamente il nostro approccio al vino, neanche dopo l’ottenimento di gratificazioni e riconoscimenti importanti. Tutti e quattro siamo convinti che la nostra più grande soddisfazione sia vedere che, da quarant’anni, c’è gente che, con un rito che si ripete ogni anno, viene a comprare il vino da noi. Un riconoscimento di


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Prosecco di Valdobbiadene DOC Extra Dry Col dell’Orso stima e di fiducia che non vogliamo disperdere ed è per questo che tutti i giorni indossiamo i soliti panni, quelli che ci ricordano che siamo dei contadini e che dobbiamo continuare a fare ciò che siamo capaci di fare meglio: i vignaioli. Per noi fare vino non è soltanto lo strumento che ci concede redditività, ma è ciò che ci consente di poter stare su questa terra che racchiude la nostra storia, quella del Piave, quella delle sue acque rosse del sangue di tanti soldati, quella dello sfollamento della gente di queste terre durante la Grande Guerra e quella dell’Osteria che nonna Emilia conduceva e che è proprio qui all’angolo della strada. Una storia che ha visto tutti gli uomini e le donne della nostra famiglia arrampicarsi su questi ripidi colli per potare e legare le viti, alcune delle quali sono qui da quasi ottant’anni. Il nostro è un impegno che attinge a cose più profonde e si addentra laddove forse non possiamo vedere; un impegno che va a toccare i tasti che hanno determinato certe scelte di vita che ognuno di noi ha fatto ancora giovanissimo, quando c’era la possibilità di scegliere se restare o andare via, o quelle effettuate più tardi che ci hanno consentito di attribuire le giuste priorità alle cose, determinando i limiti entro i quali le stesse dovevano rimanere.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Prosecco provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel comune di Vidor (Col dell’Orso e Federa) e nel Comune di Valdobbiadene (Vigneto del Fol), le cui viti hanno un’età media compresa tra i 20 e i 50 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni leggeri di medio impasto con forte presenza di minerali, sono situati ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Prosecco 100% Sistema di allevamento: Silvoz e cappuccina Densità di impianto: 2.700 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede a una soffice pressatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto subisce una prima chiarifica a bassa temperatura per una notte. Il giorno successivo si procede all’illimpidimento del mosto che viene travasato, messo in autoclave e portato alla temperatura di 5-6°C per 24 ore, durante le quali si effettua una seconda chiarifica con l’utilizzo di bentonite e caseinato di potassio. Conclusa la decantazione, si preleva il limpido e innalzando la temperatura si provvede, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, a dare avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 15 giorni, alla temperatura di 18°C. Al termine si procede ad un nuovo travaso all’aria, al termine del quale il vino è filtrato e messo in autoclave dove rimane 12 settimane; quindi avviene l‘imbottigliamento e l’affinamento di altri 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 25.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Prosecco dal bel colore giallo scarico con un perlage presente e persistente che all’esame olfattivo sprigiona sensazioni piacevoli di frutta a pasta bianca e note floreali di rara finezza. In bocca è fresco, pulito, avvolgente, piacevole, con un retrogusto armonico che ricorda l’albicocca secca. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1999, 2000, 2001, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dalla collina del Col dell’Orso, raggiunge la maturità dopo 8 mesi dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 1 e 2 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Frozza dal 1848, l’azienda agricola si estende su una superficie di 18 Ha, di cui 7,5 vitati e 11,5 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge funzione di agronomo e di enologo Giovanni Frozza. Altri vini Gli Spumanti: Prosecco di Valdobbiadene Doc Val Mesdì Frizzante (Prosecco 100%) I Bianchi: Prosecco di Valdobbiadene Doc Tranquillo Dei Opereta (Prosecco 100%)




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Claudio e Sandro Gini

Se osservo certe tele di Van Gogh, rimango estasiato davanti alla sua capacità di muoversi nell’effimero spazio del quadro, creando, ad ogni pennellata, una precisa incisione di colore che va a unirsi alle altre, così da definire un mondo che risulta vero più del vero e più di quanto avremmo potuto immaginarlo nelle nostre menti. Provo sensazioni simili anche davanti ai paesaggi, alle lagune, alle pianure che il Canaletto ha disegnato e resto affascinato dai colori, morbidi, rarefatti che rendono vaporosi i cieli di questa terra veneta. Potrei elencarti molti altri artisti che con il loro genio e le loro opere arricchiscono il mio spirito. Del resto non ho mai avuto dubbi sul fatto che non ci può essere Arte e con essa ingegno o creatività se nella mente di chi realizza un’opera non vi è un concetto più alto che lo conduce ad un’interiore e personale ricerca della perfezione. Il disegno, la pittura, così come l’architettura, sono forme d’arte che mi hanno sempre incuriosito e appassionato e ancora oggi, dopo che tanti anni fa abbandonai il Liceo Artistico per iscrivermi all’Istituto tecnico di Enologia di Conegliano, non perdo occasione per capirne le nuove interpretazioni. Lasciai quella passione accondiscendendo ad un richiamo atavico di quella forma artistica che si praticava in casa mia ormai dal 1600: l’Arte di fare vino. Era stato mio padre a farmi conoscere i suoi meccanismi, ma, pur essendo meno appariscente di quella visiva, verso la quale io sono attratto, notavo che essa necessitava come l’altra di sensibilità, impegno, esperienza, manualità, genialità, intuito e creatività, al fine di riuscire ad interpretare le sfumature del clima e dei colori che ogni anno la natura regala alla vigna rendendo il vino, l’opera finale, un quadro unico e inimitabile. Sarebbe però arduo se il paragone fra il bisogno innato che ha l’uomo di esternare le emozioni, le passioni che animano il proprio saper fare e il vino fosse circoscritto esclusivamente a quella produzione enologica che caratterizzò, negli anni Settanta, il mio ingresso in azienda. I vini che si producevano in generale nel territorio solo trent’anni fa non potevano essere minimamente paragonati a nessuna forma artistica. Si ottenevano vini grossolani, duri, aspri, senz’anima e senza una parvenza di eleganza e di ricerca e, inoltre, rimanevano integri solo per qualche stagione. Oggi, invece, fra i vini che riusciamo a produrre e l’Arte credo ci siano molti più parallelismi, soprattutto dopo aver profuso energie e tempo, per più di vent’anni, nella ricerca del miglioramento di tutti gli aspetti e le tecniche che interagiscono nella filiera produttiva, a partire dalle mie uve che provengono da vigne di oltre settant’anni. Il mio è stato un processo di convincimento non solo tecnico-enologico, ma personale, interiore e culturale, che ha richiesto tempo e l’acquisizione di tante certezze che non avevo. Direi quasi che è stato un processo controverso, di ricerca interiore, di comprensione e di confronto con quelle infinite variabili che interagiscono nella realizzazione di un vino, percependo che più riuscivo in questa personale evoluzione e più mi avvicinavo al concetto artistico che nasconde la viticoltura, acquisendo cognizione dei parallelismi che esistono, appunto, fra arte e vino di cui parlavo prima. Quella che intuivo, chiara e forte, era l’idea affascinante di non dover paragonare il vino all’Arte, ma di riuscire ad alimentare l’animo e lo spirito che contribuiscono alla sua creazione con gli stessi elementi e quell’humus interiore, unico, personale e inimitabile composto di passione, ispirazione e amore per il proprio lavoro, che contribuisce a generare qualsiasi altra forma artistica conosciuta. È con questa idea che mi sono dedicato al vino e non per denaro, ma per il bisogno di trovare delle risposte alle mille domande che mi frullavano nella testa e che né mio padre, né i libri di scuola sui quali avevo studiato, erano riusciti a darmi. Risposte che incominciai ad avere sia frequentando per circa sei anni un laboratorio enologico, sia acquisendo, successivamente, molta esperienza nell’utilizzo delle tecniche del freddo, sconosciute ai più in quei primi anni Ottanta, sia una sempre maggiore conoscenza di un vitigno esuberante quale è la Garganega. La scuola di enologia era servita giusto a darmi delle basi, poiché studiavamo ancora su libri di testo che risalivano all’inizio del Novecento, i quali attingevano le nozioni tecniche da altri testi scientifici ancora più obsoleti. Erano libri sui quali si affermava, per esempio, che i lieviti si trovavano nel terreno e che sembrava che dal terreno salissero sulle viti e si attaccassero, poi, alla “pruina”, così da riuscire, al momento della vendemmia e della lavorazione delle uve, ad entrare in cantina. Favole di cui scrupolosamente, appena mi fu data la possibilità, cercai l’attendibilità senza riuscirci. Quando allargai la mia ricerca, scoprii che i lieviti che si scatenano all’inizio della vendemmia si nascondono nei meandri più impensabili della cantina e il riuscire a selezionarne diversi ceppi fu per me una grande prova d’orgoglio. Erano tempi in cui ci meravigliavamo, ogni giorno, di quanto fossero insignificanti le nostre conoscenze scientifiche, ma contemporaneamente ci sentivamo dei pionieri, sempre pronti a sperimentare e ad approfondire nuove tecniche e nuove metodologie lavorative. Quella scoperta, che mi


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Soave Classico DOC Contrada Salvarenza Vecchie Vigne sembrò subito sensazionale, mi aprì un mondo sconosciuto e quanto mai interessante e anche se questo ora potrebbe sembrare ovvio e banale, posso assicurare che all’inizio degli anni Ottanta la cosa non era così scontata. Compresi che avrei dovuto cambiare atteggiamento nei confronti dei miei lieviti e salvaguardare la “purezza” della cantina, poiché ritenevo che fosse riduttivo definirla un contenitore dove far maturare o stoccare il vino: in essa c’era invece una vera e propria cassaforte genetica, una banca ricca di informazioni preziosissime e fondamentali che dovevano essere protette. Da quel momento quel luogo acquisì una sua sacralità e divenne il punto da cui incominciare a lavorare per ottenere quei vini fini, armoniosi, profumati e longevi che mi ero prefissato di ottenere. Con il tempo iniziò un’opera di tutela e protezione dell’identità del mio vino che, nelle sue basi molecolari, si compone di una squadra di ceppi di lieviti diversi, autoctoni, che contribuiscono a dare una meravigliosa complessità olfattiva e gustativa oltre a quella personalità che il mercato riscontra nei vini che produco. Sono passate molte vendemmie da quando nel 1985 uscii con il mio primo vino, ma per quanto sia innamorato della cantina scopro sempre più che è invece la vigna il luogo dove vorrei passare gran parte delle mie giornate, accudendo a quelle vecchie viti verso le quali nutro un grande rispetto e una passione che tocca il fondamento stesso del mio essere. È lì che io mi perdo, fra quei filari, provando una piacevole sensazione di distacco da tutto e da tutti, ritrovando il piacere di sentirmi non enotecnico, cantiniere o viticoltore, ma semplice contadino. Sorrido quando sento parlare di “territorio” o di quanto sia necessario salvaguardare la cultura e i valori di un terroir, di cui nessuno conosce il significato; sembrano parole sorrette soltanto da schemi e proiezioni di marketing lontane anni luce dalla terra dove invece io lavoro. Noi contadini sappiamo bene quali siano i valori che dovrebbero essere salvaguardati e, forse, siamo anche gli unici che stiamo contribuendo, con le nostre vigne, a difendere questo territorio dal degrado. Non so se siano in molti ad accorgersi di questo nostro impegno; io comunque non me ne curo e vado avanti, poiché sono felice della scelta che feci molti anni fa, anche se ogni tanto mi domando come abbia potuto solo pensare di potermi esimere dal seguire la strada paterna e magari cercare di percorrere, nella mia personale ricerca dell’arte, altre strade che mi avrebbero sicuramente allontanato da ciò che invece di meraviglioso e di artistico ho qui davanti ai miei occhi, nel mosaico che raffigura le mie vigne, la mia cantina e questo vino Soave che ora stiamo bevendo.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Salvarenza, nel comune di Monteforte d’Alpone, le cui viti hanno un’età media di 90 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto che si trova in una zona collinare su terreni con venatura calcarea e sedimenti tufacei, è situato ad un’altitudine di 150 metri s.l.m. con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Pergola veronese semplice Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima decade di ottobre, si procede ad una pressatura soffice delle uve raccolte e alla pulizia statica del mosto alla temperatura controllata di 5°C per 48 ore; quindi si inseriscono i lieviti autoctoni e si dà avvio alla fermentazione alcolica, che si protrae per 30 giorni ad una temperatura di 16°C in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di primo, secondo e terzo passaggio in cui poi svolge interamente la fermentazione malolattica e dove rimane per 8 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Alla fine della primavera successiva alla vendemmia si procede all’assemblaggio delle partite e il vino è lasciato stabilizzare per 4-5 mesi in acciaio, prima di essere messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 18.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati; all’esame olfattivo sprigiona profumi floreali di camomilla e zafferano, che si aprono a note fruttate di pesca bianca, pera e frutti tropicali chiudendo con un gradevole fondo minerale. In bocca ha un’entratura elegante, importante, molto piacevole ed equilibrata che armonizza la vena alcolica con le percezioni olfattive e gustative; di buona sapidità e freschezza, è lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1990, 1993, 1995, 1999, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e gli 8 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Gini già dal 1700, l’azienda agricola si estende oggi su una superficie di 60 Ha, di cui 30 vitati e 30 occupati da boschi. Claudio Gini svolge la funzione di agronomo, mentre quella di enologo è svolta da Sandro Gini. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc La Froscà (Garganega 100%) Soave Classico Doc (Garganega 100%) Recioto di Soave Docg Col Foscarin (Garganega 100%)


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“Io voglio solo le antichità private: lì c’è vita e segreto” Arno Schmidt

Agostino e Maria Cristina Rizzardi

Quella in cui vivo è proprio la storia delle “antichità private” nella quale, come dice Arno Schmidt, meglio che in qualsiasi altra saprei collocare le vicissitudini degli uomini e delle donne della nostra famiglia che si sono prodigati per difendere e perpetuare fino ad oggi ciò che ancora, grazie a loro, identifica la nostra realtà. È la storia delle famiglie Guerrieri e Rizzardi, la cui unione, nel 1913, ha dato origine all’accorpamento delle loro proprietà in un’unica azienda agricola omonima, basata sulla tenuta di Bardolino, che è stata proprietà dei Guerrieri fin dal 1450, e sull’azienda in Valpolicella, che è stata proprietà dei Rizzardi fin dal 1648. Nonostante la profondità dei tempi in cui affondano le radici di queste memorie familiari, il ricordo e la tradizione di questa “antichità privata” non sono confinate al passato: ne parlano ancora le mura, i ritratti, le carte antiche, le storie di famiglia e parlano di cose vive e vissute che infondono umanità e coraggio. Quando infatti l’operosità quotidiana del luogo lascia il posto alla quiete della sera e il silenzio si riappropria dello spazio che aveva ceduto alla mattina, sento che il giardino, l’orto antico, le mura di palazzo Guerrieri e le sue stanze si animano di figure familiari che mi sembra di aver conosciuto e amato da sempre. Sono ricordi di figure amiche che raccontano storie di vita quotidiana, alcune delle quali potrebbero apparire semplici, ma che invece traggono spunto da gesti che, ai miei occhi, appaiono quasi eroici, magari sviluppatisi in momenti difficili, in periodi duri, soprattutto durante le guerre. Antonio Rizzardi alla fine del ‘700, nonostante le difficoltà politiche del suo territorio, che era all’epoca conteso nelle guerre napoleoniche, volle creare con grande determinazione un giardino che impreziosisse la sua tenuta vinicola in Valpolicella e che rimanesse nei secoli un esempio di bellezza e stile del giardino all’italiana. Grande dignità e fermezza hanno caratterizzato la vita di personaggi come il Conte Agostino Guerrieri, nonno di mio marito, patriota, carbonaro, che durante le guerre di indipendenza, finì in una prigione austriaca a Josephstadt, con l’Aleardi, per essere stato fedele difensore della sua patria Italia. Esempio prezioso è anche la storia di Giuseppina Guerrieri, figlia di Agostino, che durante la Prima Guerra Mondiale dette la sua disponibilità ad organizzare un ospedale nella sua casa di Bardolino e durante il secondo conflitto ebbe modo di aiutare attivamente la popolazione, nonostante la sua dimora fosse occupata da un comando delle SS tedesche. Giuseppina, che era anche la madre di mio marito Antonio Rizzardi, era stata l’unica donna ammessa, con i suoi vini, all’Esposizione Mondiale di Milano del 1903 ed il vino, nonostante le varie vicissitudini familiari, resta protagonista nei secoli. Mi sono sposata a Bardolino nel 1967 e rimanendo accanto a quel grande uomo che era il mio consorte, ho partecipato al suo profondo impegno per la vita della nostra zona vitivinicola. Con tenacia e risolutezza egli si era dedicato fin dagli anni dopo la guerra a ricomporre l’azienda di famiglia con le tenute della Valpolicella e di Bardolino e a suscitare un nuovo interesse comune per l’agricoltura e i prodotti di queste terre impegnandosi per decenni nel rinnovamento della tutela e della comunicazione di questo territorio. Io stessa, da quando ho perso mio marito nel 1983, ho cercato non solo di continuare la sua opera, ricoprendo per 18 anni la carica di presidente del Consorzio di Tutela dell’olio del Garda, ma anche di mandare avanti contemporaneamente la famiglia facendo progredire l’azienda vitivinicola con tutti i risvolti che man mano si presentavano. Anche in questo ho sempre sentito di non essere mai sola, ma bensì parte integrante di una storia dalla quale ho tratto forza e che mi ha protetta e aiutata nell’impresa di riuscire a vivere una vita che potesse contraddistinguersi per l’operosità, l’equilibrio e la sobrietà. Oggi tocca a noi, protagonisti della storia attuale, continuare a portare avanti con successo questa attività. Nuovi vini, uno sviluppo


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Villa Rizzardi quotidiano della strategia aziendale, ricerca continua di qualità e tradizione, sempre all’insegna del product of Italy: questi sono i pilastri su cui si fonda la nostra azienda. Mi sento molto fortunata a poter contribuire a tutto questo, soprattutto perché ciò mi consente di avere a che fare con la storia di un territorio, nella speranza che, tra duecento anni, ci sia qualche altro parente che continui a camminare fra queste vigne o fra queste stanze e magari, davanti a un ospite, si prodighi a raccontare cosa significa far parte della tradizione storica di “antichità private”.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella, Corvinone, Barbera e Sangiovese provenienti da alcuni vigneti dell’azienda, posti in località Pojega e Calcarole nel comune di Negrar, le cui viti hanno un’età compresa tra i 20 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano in una zona pedemontana su terreni bruno-rossastri ricchi di argilla posta su roccia calcarea, ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 150 metri s.l.m., con esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Corvina 50%, Rondinella 20%, Corvinone 17%, Barbera e Sangiovese 13% (le percentuali possono variare a seconda dell’annata) Sistema di allevamento: Pergola doppia a Pojega; guyot semplice a Calcarole. Densità di impianto: dai 1.600 ceppi per Ha a Pojega fino ai 4.000 ceppi per Ha a Calcarole Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono in poste nel fruttaio ad essiccare, fino al momento in cui non si raggiunge l’appassimento ideale, generalmente nel mese di gennaio; quindi le uve sono pigiate e il mosto ottenuto si avvia la fermentazione alcolica che si protrae per diverse settimane ad una temperatura compresa fra i 14 e i 18°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi. Terminata questa fase il vino viene travasato in barriques da 2,25 hl per 12 mesi, dove svolge la fermentazione malolattica, e successivamente in grandi botti da 25 hl in cui rimane per 24 mesi, al termine dei quali si procede alla chiarifica ed al successivo imbottigliamento senza filtrazione. Segue un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10.000 - 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso di grande luminosità, al naso il vino si presenta elegante, con note dolci di fiori appassiti e di caramelle all’amarena, che si aprono a percezioni di cipria e cacao, con un finale che ricorda le piante officinali, l’alloro e il rosmarino. In bocca è elegante, equilibrato, con una fibra tannica vellutata e una buona freschezza che lo rendono lungo e persistente. Prima annata: 1936 Le migliori annate: 1988, 1990, 1991, 1995, 1996, 1997, 2001 Note: Il vino, che porta in etichetta il nome della villa di Pojega dei conti Rizzardi, raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Rizzardi dal 1648, l’azienda agricola si estende su una superficie di 600 Ha, di cui 100 vitati, mentre gli altri 500 sono occupati da seminativi, boschi e oliveti. Altri vini I Bianchi: Recioto di Soave Docg (Garganega 100%) Costeggiola Soave Classico Doc (Garganega 70%, Chardonnay 30%) Vignaunica Chardonnay Valdadige Terra dei Forti Doc (Chardonnay 100%) I Rossi: Munus Bardolino Classico Superiore Docg (Corvina 66%, Rondinella 12%, Sangiovese 12%, Merlot 10%) Pojega Valpolicella Classico Superiore Doc Ripasso (Corvina e Corvinone 85%, Rondinella e Molinara 15%) Calcarole Amarone della Valpolicella Classico Doc (Corvina 70%, Rondinella, Barbera e Sangiovese 30%)


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Stefano Inama

Non so quali possano essere i fattori capaci di spiegare la mia sfrenata curiosità nel voler vedere cosa sta dietro a quel paesaggio che mi preclude una visuale più ampia dell’orizzonte. Sicuramente sono molte le cause che mi spingono a domandarmi il perché le cose accadano ed essendo fra loro concatenate, mi rendono difficile capire l’origine di questa mia curiosità. Forse sarà stata l’educazione che ho ricevuto da mio padre Giuseppe o, invece, potrebbe essere stato qualcosa “cresciuto” durante gli studi che mi ha portato, alla fine degli anni Ottanta, prima a conseguire una laurea in Scienze delle Preparazioni Alimentari, a Milano, poi a specializzarmi in Biotecnologie a Londra, con un Master biennale. Una specializzazione che mi ha fatto girare per il mondo, conoscere e capire come operano le industrie alimentari e quelle enologiche, con lunghi periodi passati a San Francisco a contatto con moltissime aziende vitivinicole della Napa Valley. È stato un periodo stupendo della mia vita, quando conoscevo più persone all’estero che in Italia, durante il quale feci bellissime esperienze acquisendo la passione per il viaggio, che credo prenda soprattutto chi, come me, è predisposto a conoscere costumi e usi diversi dai propri, aprendosi al mondo per amarlo, senza averne paura. Così sono divenuto un viaggiatore incallito e un “pragmatico sognatore”, avendo sempre il piacere di emozionarmi e di non perdere il contatto epidermico con le cose buone e belle che mi riserva la vita, comprese quelle che oggi mi regala questo lavoro di vignaiolo, che ormai occupa il 90% del mio tempo. Man mano che approfondivo la mia cultura scientifica ed entravo più in profondità nell’azienda che mio padre aveva nel frattempo assemblato qui a San Bonifacio, acquisendo vigneti sparsi un po’ ovunque, anche in zone non inserite nelle Doc venete, mi rendevo conto che avrei dovuto fare un passo indietro, posizionandomi in una zona neutra di osservazione per vedere, e soprattutto capire, cosa mi circondava e riuscire così a riproporre, nei vini che avrei voluto produrre, quella “classicità” che, sino ad allora, vale a dire la fine degli anni Ottanta, non avevo mai sentito in quelli prodotti nella zona del Soave. Erano anni in cui c’era un grande agitarsi intorno al mondo del vino in Italia, soprattutto nel Veneto, dove si imbottigliavano e si commercializzavano più vini che in qualsiasi altra regione italiana, con una politica che non aveva un fondamento culturale radicato sul territorio, né una ben che minima ricerca della qualità. Un fervore che spinse molti a pensare che fosse sufficiente aver preso coscienza delle grandi potenzialità che il territorio italiano offriva per mettersi a fare vino, avviando una rincorsa orientata più a soddisfare il mercato che a ricercare la qualità nei vini. Rincorsa che, dopo più di vent’anni, ha condizionato ogni aspetto del mondo del vino, costruendo intorno a quella crescente richiesta commerciale delle false chimere. In questa cieca e folle corsa si è perpetrato verso il comparto viticolo un ulteriore danno, con la perdita di quel grande patrimonio culturale che si fondava sulla tradizione orale del mondo contadino, disperdendo la stessa storia dei territori vitivinicoli, modificando, allargando e costruendone di nuovi un po’ ovunque. Un settore che è stato prima travolto e poi stravolto, senza una logica, né una capacità di analisi e di programmazione che ancora oggi sono considerate, da molti, marginali per il vino. L’evidenza è sotto gli occhi di tutti ed è così che siamo arrivati a piantare vigne ovunque, allargando a dismisura le Doc, e demandando la custodia del patrimonio genetico dei nostri vitigni autoctoni ai vivai, senza una politica di sistema e senza mai studiare o approfondire e divulgare i processi agronomici che interagiscono con il vino, costruendo solo ricette uguali per tutti e lasciando al caso o all’estemporaneità del produttore la crescita di un settore importantissimo per l’economia nazionale. Invece era proprio quella conoscenza che si sarebbe dovuta garantire alle generazioni future, costruendo per loro una base solida e concreta su cui poter operare. Non è stato così. Io stesso ho potuto constatare quanto mi pesava la mancanza di una tradizione orale che svelasse i trucchi antichi e le tecniche di potatura per quelle viti vecchie che ho trovato in alcuni appezzamenti e che garantiscono un “qualcosa in più” ai vini. In questi anni, anch’io, come tanti, ho fatto solo tentativi, talvolta empirici, talvolta fortunati, alcune volte disastrosi, altre volte, e sono la maggioranza, dettati dal consulente di turno che aveva sempre in tasca la ricetta pronta, adatta per ogni stagione e per ogni terreno. Compresi subito che per le mie vigne non c’era nessuna ricetta scritta. Avevo bisogno di costruire un percorso che andasse oltre il presente e mi facesse sperare che ciò che stavo facendo permettesse a chi veniva dopo di me di usufruire del mio lavoro e delle mie vigne, le quali, una volta arrivate a cento anni, potessero essere capaci di dare ancora uve strepitose.


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Bradisismo IGT Veneto Rosso Quei viaggi mi condussero spesso in Francia dove, tutte le volte che andavo, mi rendevo conto del valore che quei produttori attribuivano all’esperienza con cui avevano classificato, catalogato e certificato ogni metro quadrato delle loro terre, riuscendo a costruire la storia culturale e vitivinicola, non solo della loro azienda, ma anche della loro nazione. Quando tornavo, mi rendevo conto che quelli che facevo fra le vigne francesi non erano semplici viaggi, ma veri e propri percorsi didattici e rimanevo ogni volta sbigottito di come quegli amici produttori, pur avendo sei o sette generazioni di antenati vignerons alle spalle, avessero ancora molti dubbi e così poche certezze. E io cosa avrei avuto da dire? Quanto era piccola la mia esperienza! Del resto, pensavo fra me e me, se le cose fossero andate bene, tutt’al più avrei potuto collocarmi come seconda generazione di vignaioli della famiglia Inama. Un po’ poco rispetto alla conoscenza che loro possedevano. Era un gap enorme che dovevo superare, ma guardando in giro, mi accorsi che in Italia anche per gli altri vignaioli le cose non andavano meglio. Presi coscienza che stavo vivendo una bella e affascinante avventura pionieristica in questo settore, pur percependo un grande senso di solitudine intorno a me. Andavo un po’ allo sbaraglio, avendo, come unica e magra consolazione, l’idea di essere l’artefice della mia storia di vignaiolo veneto. In quegli spostamenti fra Bordeaux, Borgogna e California mi resi conto che quel gap non era superabile neanche con i miei studi universitari e le mie specializzazioni, che mi avrebbero anche potuto consentire di modificare il modificabile nel vino. Compresi che non era quella la strada che volevo percorrere. Mi convinsi che davvero avrei dovuto fare qualche passo indietro per andare più spedito e fu così e anche oggi, ogni volta che decido di muovermi in avanti, soppeso la memoria che ho alle spalle scartando conclusioni affrettate, essendo sicuro che il futuro della mia viticoltura si basa molto sul passato. Sono trascorse alcune vendemmie e in questo tempo ho accumulato un po’ di esperienza sufficiente per arrivare a concludere che, pur non avendo nessuna certezza, la strada che ho intrapreso è quella giusta ed è quella che mi conduce alle soddisfazioni che ho già ottenuto a livello nazionale e internazionale e alla convinzione di quanto siano “spettacolari” le potenzialità del Vigneto Italia. Per crescere è necessario avere umiltà, spirito di sperimentazione e di osservazione e c’è bisogno che alla nostra generazione di vignaioli ne susseguano altre e altre ancora, ognuna delle quali in grado di trasferire all’altra piccole perle di saggezza per dare la possibilità di costruire un futuro diverso, dove ci siano un’unione e un aiuto maggiore fra i produttori e una base d’esperienza e di cultura su cui fare affidamento, dove ci sia un “sistema Italia” che funzioni e ci siano altre cose, molte altre, tutte quelle che non fanno parte certo di questo mio presente.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Carmenère e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nei comuni di Lonigo e San Germano dei Berici, le cui viti hanno un’età compresa tra 6 e 42 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni rossi limo-argillosi e calcarei, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 50 e i 250 metri s.l.m., con un’esposizione a sud, sud-ovest e sud-est. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 65%, Carmenère 25%, Merlot 10% Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox per 15 giorni ad una temperatura compresa tra i 26 e i 30°C; contemporaneamente si effettua anche la macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuate meccanicamente alcune follature giornaliere. Terminata questa fase, il vino svolge la fermentazione malolattica in tini di acciaio, quindi, dopo circa un mese, viene posto in barriques di rovere francese di Allier e Nevers a grana fine e media tostatura per un 50% nuove, in cui rimane per 15-18 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 25.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino, di un bel colore rosso rubino, denso e fitto, si presenta all’esame olfattivo con un “vestito” complesso che spazia da sentori accentuati di grafite e prugna matura, a un pot-pourri di fiori appassiti e note speziate di cumino, tabacco dolce, cioccolato fondente e liquirizia, il tutto accompagnato da un finale di humus e sottobosco. In bocca è polposo, morbido, con una fibra tannica ricca e vellutata sorretta da una bella freschezza che lo rende lunghissimo e persistente. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dall’evento geologico che ha determinato la formazione del territorio dove sono posizionati i vigneti, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Stefano Inama dal 1997, l’azienda agricola si estende su una superficie vitata di 15 Ha. Collabora in azienda l’agronomo Michele Wassler, che è anche il responsabile di cantina e si occupa del reparto enologico in team con Stefano Inama. Altri vini I Bianchi: Vulcaia Fumé Igt Veneto (Sauvignon 100%) Vulcaia Igt Veneto (Sauvignon 100%) Soave Classico Doc Vin Soave (Garganega 100%) Soave Classico Doc Vigneto du Lot (Garganega 100%) Chardonnay Igt Veneto (Chardonnay 100%) I Rossi: Oracolo Igt Veneto (Cabernet Sauvignon 100%)




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Loris Casonato e Isabella Spagnolo

Appartengo a quella categoria di persone che per vigore di fantasia e ardore passionale riesce ancora a sognare. Un esercizio difficile, ma non complicato, che riesco a far bene di giorno, a occhi aperti, percependo magnifiche sensazioni che credo sfuggano a chi riesce a farlo solo di notte. Forse è per questo motivo che spesso mi succede di cogliere meglio gli indizi della “conoscenza” che mi rende chiare le cose che conosco, dandomi, contemporaneamente, il coraggio di inoltrarmi, senza bussola, nell’oceano delle mille cose che non conosco. Sogni piccoli, grandi, realizzabili e irrealizzabili, enormi, impossibili, facili, insignificanti o profondi, spirituali o carnali, materni o tristi, gioiosi o eterei, che si mischiano fra loro provocandomi un’alternanza di sensazioni che spesso pongono in diverbio fra loro ciò che sogno e ciò che riesco a ottenere dalla vita. Sono lievi soffi di vento che si innalzano e via via trasportano quelle sensazioni nel mondo delle emozioni; umori che la mia mente scatena a danno della quotidianità che mi sembra sempre poca cosa, costringendomi a stimolarla con la ricerca dei particolari, delle sfumature dei colori e di ogni qualsiasi altro elemento che possa alimentare le poche passioni che ho, ma che sono forti e irrefrenabili. Cosa sarebbe la vita senza sogni? Non lo so e non ho voglia di andarlo a scoprire: io ho da fare altro. Devo cercare di realizzare i miei sogni e se non ci riesco, magari provare a colorarli in modo da imprimermeli bene nella mente, così quando mi attraversa il ricordo di un pensiero positivo, vivo momenti di sublime appagatezza, durante i quali tendo l’orecchio per ascoltare le storie che sanno raccontare le cose che mi circondano, cercando di pormi in sintonia con loro. In altri momenti, invece, sono triste e non mi vergogno a dirlo, arrivo anche a piangere, e non per la negatività dei miei pensieri, ma per la durezza e la crudeltà di certe cose che vedo e che io non capisco in quella quotidianità che vorrei cambiare. Spesso per sognare ho bisogno di un contatto epidermico con la terra e la natura e così mi ritrovo a camminare, a piedi nudi, in mezzo ai filari delle viti che si trovano davanti alla cantina e che, con i loro tralci, formano un tunnel ombroso che mi nasconde dal mondo esterno, mentre il fogliame è attraversato da qualche raggio di sole che sembra macchiare il tenero prato che calpesto. Loris, mio marito, sa bene che in quei momenti devo rimanere sola e avere il tempo per poter viaggiare con la mia mente, senza aver bisogno però di andare lontano; infatti mi basta poter ascoltare, anche solo per cinque minuti, quello che il cuore ha da dirmi. Goethe sosteneva che il privilegio che ha l’uomo è quello di riuscire a dialogare con la natura ed è quello che io cerco giornalmente di fare per ottemperare al mio bisogno fisiologico di sognare e di svolgere questo lavoro di vignaiola, enologa e cantiniera che mi fa sentire parte di un sistema molto più complesso e che io adoro. Il mio è un ruolo piccolo, ma importante, ed è sufficiente per farmi sentire felice di operare e dialogare con tutti gli aspetti naturalistici che la viticoltura racchiude in sé. Il mio è un dialogo che certe volte si fa serrato e in cui mi piace essere schietta e sincera: alle mie viti racconto le preoccupazioni e le speranze per l’imminente vendemmia. Altre volte sono io che ascolto loro e stringendo un grappolo di uva matura fra le mie mani, mi domando cosa mi darà quest’anno quel frutto. Quei pensieri si mischiano ai sogni e mi accorgo che dal cosmo, dall’etereo, da quello spazio infinito in cui li avevo collocati, li ritrovo tutti in quel grappolo, dentro quella bacca, in quell’acino, tutti lì, racchiusi nel piccolo involucro tondeggiante che tengo fra due dita. Rimango affascinata di come tutto ciò sia possibile e di come gran parte di quel mio mondo dei sogni sia racchiuso in quel chicco d’uva. Pensieri fugaci, sensazioni che, come lievi soffi di vento, spariscono quando porto alla bocca quel chicco per assaporarne il succo. Chiudo gli occhi e insieme alle percezioni che mi sprigiona quella degustazione scopro materializzarsi le speranze, le perplessità, le certezze e i dubbi e tutte quelle emozioni che accompagnano il mio lavoro e la certezza di quanto la realtà che mi circonda sia il fulcro del mondo dei miei sogni. Spesso, quando vado in giro a presentare il mio “vino-frutto”, sento il bisogno di comunicare gran parte di quello che provo nello svolgere la mia attività e cerco di far capire ai miei clienti non solo come o quando o con che cosa io faccio i miei vini, ma soprattutto chi è Isabella e quale ruolo abbia con quell’insieme di cui fa parte e che contiene


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Isabella Spagnolo Rosè Vino Spumante Brut questa terra, le mie vigne e questo splendido lavoro che svolgo. Per paura e reticenza, però, non ce la faccio a raccontare proprio tutto. Confesso che mi limito all’essenziale, a ciò che è necessario per far comprendere quale sia il distinguo fra chi crede all’essenzialità dell’equilibrio che deve esistere fra la natura e viticoltura, e chi, in questo settore, opera solo per business, fra chi pone l’etica al centro del suo operare e chi scende a compromessi. Quasi per un senso di vergogna non ce la faccio a raccontare ad altri che la mia azienda e le bottiglie di vino che faccio degustare sono anch’esse il frutto dei sogni che ho condiviso e realizzato con mio marito, che amo perché ha saputo amorevolmente coccolarli, assecondarli quando era il momento, lasciandoli espandere e straripare quando era il caso o tenerli a bada legandoli a terra per non lasciarli volare troppo alti e scappare via.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Raboso provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Santa Maria del Piave, nel comune di Mareno di Piave, le cui viti hanno un’età di 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti si trovano su terreni ghiaiosi e calcarei ad un’altitudine di 60 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Raboso 100% Sistema di allevamento: Filare Densità di impianto: 3.300 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre e comunque una decina di giorni prima della completa maturazione delle uve Raboso, si effettua la diraspapigiatura delle uve raccolte e con il pigiato ottenuto si procede ad una criomacerazione pellicolare in pressa che è svolta alla temperatura di 10-12°C per 12 ore, al fine di ottenere l’estrazione degli aromi e il colore desiderato. Al termine di questa breve fase, si procede alla separazione dal mosto dalle bucce dando avvio, attraverso l’inserimento di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica, la quale si protrae per 15 giorni alla temperatura di 1315°C. Dopo un illimpidimento, il vino è travasato in autoclave per una nuova rifermentazione (secondo il metodo Charmat), che dura circa 6 settimane, al termine della quale avviene l’imbottigliamento per un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Uno spumante che si presenta con un perlage fine, presente e persistente e un bel colore di fiori di pesco tenue e delicato; all’esame olfattivo sprigiona una bella personalità, con un’interessante mineralità, sensazioni fruttate di ribes neri e mirtilli, percezioni di erbe aromatiche che si mischiano a note fruttate di mela. In bocca è equilibrato e avvolgente, morbido, fresco, pulito, accompagnato da una buona sapidità e da un fondo di nuances fruttate. Prima annata: 2002 Le migliori annate: 2002, 2003, 2004 Note: Il vino, che prende il nome da Isabella Spagnolo, proprietaria dell’azienda, raggiunge la maturità dopo 1012 mesi dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 2 anni. L’azienda: L’azienda, di proprietà della famiglia dal 1968 e ora di proprietà di Loris Casonato e Isabella Spagnolo, si estende su una superficie di 20 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Loris Casonato. Altri vini I Bianchi: Vini dei Patriachi Igt delle Venezie (Manzoni Bianco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc (Prosecco 100%) Prosecco Millesimato Doc (Prosecco 100%) I Rossi: La Dogaressa Igt della Marca Trevigiana (Raboso 100%)


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Angiolino Maule

Sperimentare è la mia grande passione. Mi spinge ad andare avanti e guardare oltre l’ostacolo, magari curiosando nella natura o cercando di dialogare con essa, testando alcune idee in cui credo e cercando di comprendere la loro veracità; idee che, giornalmente, riescono a costruirmi un’infinità di emozioni che si trasformano in un lavoro di ricerca svolto sul campo, sulla mia terra e in mezzo alle mie vigne. Una curiosità mischiata ad un grande desiderio di conoscere, che mi ha spinto a fare il mestiere più bello del mondo: il vignaiolo. Un lavoro splendido, mai statico, che riesce sempre a pormi in discussione con me stesso costringendomi a crescere e a chiedermi sempre un nuovo impegno che va oltre a ciò che mi ero prefissato solo qualche mese prima. Da come ne parlo, sembra che non vi siano state ombre o nuvole ad oscurare questo splendido orizzonte che oggi ho davanti a me e che mi fa sentire ottimista sul futuro di questa mia azienda; ma non è così. Ci sono stati momenti duri e di grande solitudine che negli anni si sono ciclicamente alternati, accompagnandosi ad altri molto cupi e difficili. Come ad esempio all’inizio, quando più di trent’anni or sono, arrivai a Gambellara e mi trovai davanti a realtà vitivinicole prettamente industriali e a grandi difficoltà nel dialogare con gli altri produttori. Credo che quella mia iniziale difficoltà fosse dovuta un po’ al mio carattere, che almeno all’inizio mi fa apparire nei rapporti interpersonali un po’ goffo e forse anche troppo timido, ma anche un po’ alla mia cultura contadina che si scontrava con quella degli altri viticoltori, i quali, pur avendo aziende vitivinicole delle mie stesse dimensioni, avevano un’approccio all’agricoltura e al mondo del vino un po’ diverso, anzi direi diametralmente opposto al mio. La maggior parte di loro, infatti, forniva le proprie uve alle Cantine Sociali o ad altre grosse industrie del vino e non si preoccupava di alcuni aspetti salutistici, produttivi e naturalistici che io invece ritenevo imprescindibili nel mio lavoro di vignaiolo. Molti di loro erano convinti che fosse sufficiente proteggere le loro vigne dalle malattie o grattare un po’ il suolo per produrre uve eccezionali, possibilmente in grande quantità. Il loro impegno nelle vigne era cadenzato e ritmato da una stagionalità che prevedeva alcuni interventi specifici e nulla più. Io non la pensavo così. Ho sempre sostenuto che non avrei mai potuto ottenere niente, figurarsi delle uve di grande qualità, se avessi limitato il mio sforzo solo alle cose esteriori, occultando invece l’impatto che hanno quelle forze, formatrici e organizzatrici, con le quali la natura interagisce sulle varie forme di vita. Forze intangibili che riuscivo solo a percepire, ma che ero curioso di conoscere, e che hanno il potere di coordinare e di custodire, armoniosamente, tutti gli elementi che compongono un organismo più vasto: la terra. Sognavo di arrivare un giorno a produrre un vino senza solforosa e senza l’aggiunta di prodotti chimici, così da riuscire a trasferire in esso la massima espressività che può nascere solo dal connubio di un forte impegno profuso nelle vigne e dal grande rispetto che nutro per questa terra vulcanica in cui opero. Idee dirompenti non solo per quei tempi, ma anche per il giorno d’oggi, dato che esse trovano ancora difficoltà ad essere condivise dalla stragrande maggioranza dei vignaioli. Personalmente avevo bisogno che i miei vini fossero puliti, semplici, salubri e di alta qualità e che non fossero l’espressione delle doti enologiche di Angiolino Maule, ma di quelle che questo territorio di Gambellara sa esprimere. Volevo che il vino contribuisse a costruire una base culturale capace di stimolare curiosità intorno ad esso. Volevo che nel degustarlo si venissero a creare momenti di riflessione non solo sui suoi contenuti organolettici, ma anche su dove e come esso fosse stato realizzato. Volevo che il vino facesse meno male possibile e non portasse le persone ad una sua distruttiva dipendenza. Avevo sofferto troppo nel vedere le conseguenze di un suo abuso e per questo mi ero imposto dei precisi impegni con me stesso: nei miei vini e sulla mia terra non avrei mai utilizzato prodotti chimici. In questo mio personale processo di crescita ebbi la fortuna di conoscere Josko Gravner che, avendo già avviato un laborioso lavoro di ricerca in viticoltura, comprese immediatamente cosa io stessi facendo e quale fosse la passione che mi animava. Per circa dieci anni lavorammo a stretto contatto, dando vita, insieme ad altri, ad un movimento culturale al quale si aggregarono via via diversi vignaioli, alcuni dei quali avevano già iniziato, come noi, a sviluppare nelle loro aziende un’agricoltura più naturalista o biodinamica, che dir si voglia, desiderosi di sperimentarsi in questo personale processo di crescita che li avrebbe condotti ad un completo coinvolgimento con ogni singolo elemento che compone il loro terroir. Un movimento che è andato crescendo e nel tempo si è modificato, diviso e nuovamente scisso fra chi si è visto etichettato come “eretico” e per questo “scomunicato” e “bruciato vivo” sull’altare della verità assoluta da chi è convinto


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Pico Vino Bianco da Tavola di accudire il “Verbo” ed è sempre alla pazza ricerca del “perché” in ogni cosa per darle uno spazio concettuale e temporale che alla fine costruisca regole e certificazioni con cui sia più facile ingabbiare le coscienze. Un movimento che si potrebbe definire spontaneo, quasi anarchico, il quale ha avuto il grande merito di incuriosire e creare sempre più attenzione intorno ai falsi progressi che l’agricoltura aveva compiuto durante gli anni, quando la speculativa pazzia dell’uomo l’aveva condotta a percorrere strade ambigue attraverso le quali si è separata la vita in pezzi provocando l’isolamento di ogni specie vegetale a cui è stato fornito un assistenzialismo chimico o genetico. Un contributo specifico per ogni pianta conosciuta, a partire dal grano, al granturco, alla vite, alla soia e tutte le altre che contribuiscono a comporre il paniere della nostra quotidiana alimentazione. Dovevamo comunicare che i nostri atti agricoli, dal più importante al più insignificante, interagiscono con un vasto sistema vivente che è la terra, l’ambiente che siamo chiamati a proteggere per noi stessi e per gli altri. A differenza di molti che operano in assoluta riservatezza, ho sempre creduto invece che fosse un errore circoscrivere le idee che animano e stimolano le nostre coscienze e rinchiudere nelle nostre aziende l’esperienza accumulata. Ritengo invece necessario regalare sia le idee che l’esperienza ai giovani e a tutti coloro che si apprestano a svolgere questa professione, in modo che essi siano in grado di rivisitarle, rimodellarle, ridisegnarle e poi rimetterle nuovamente nel circuito, contribuendo a costruire un movimento culturale intorno ai vini naturali, mai statico, ma in continuo movimento e ricco sempre di idee nuove, quelle idee che vengono discusse una volta all’anno a Villa Favorita, vicino a Verona, in occasione del Vinitaly. Concetti e pensieri che coinvolgono spesso la vita privata e che mi hanno posto in contrasto anche con chi ritenevo un amico e che poi, inaspettatamente, ha tradito la mia fiducia. Ma non importa. Bisogna andare avanti e fare in modo che questo movimento cresca sempre di più e riesca a trasferire alle generazioni future, a cui appartengono i miei quattro figli, Francesco, Alessandro, Giacomo e Tommaso, non aziende o quanti più soldi possibile su un conto corrente, ma la capacità di dar seguito alle proprie idee, a prescindere dal sacrificio che esse richiederanno, così come ho fatto io nella mia vita, quando ho detto sempre quello che volevo fare e ho fatto sempre quello che avevo detto.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Taibane, Monte Mezzo e Faldero nel comune di Gambellara, le cui viti hanno un’età media compresa tra i 10 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni vulcanici ricchi di minerali con formazioni completamente diverse da zona a zona, alcune ricche di quarzo, altre di ferro o silicio, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 120 e i 250 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est / sud-ovest. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla diraspatura dell’uva, che è posta in un tino aperto e inizia la fermentazione alcolica senza l’aggiunta di lieviti o solforosa. Quando tutta la massa è in fermentazione, dopo circa 1 o 2 giorni, a seconda delle stagioni, si procede alla pressatura e il mosto vino termina la fermentazione in botti da 1500 lt, dove rimane sui propri lieviti per 12 mesi prima di procedere all’assemblaggio delle partite; quindi, dopo una pulizia statica, viene messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi in vetro prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati; all’esame olfattivo sprigiona profumi che spaziano da note iodate a nuances floreali di camomilla, fino a giungere a percezioni più intriganti di mostarda di scorze di cedri e di erbe officinali bagnate. Il tutto arricchito da sensazioni speziate di cannella e pasta di nocciole. In bocca ha un’entratura caratterizzata da una forte personalità, sostenuta da venature di grande mineralità e dalle note iodate percepite al naso, oltre che da una certa struttura tannica che rende questo bianco lungo e persistente con un retrogusto che ricorda le mandorle. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1999, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende un nome di fantasia, che in dialetto veneto sta a significare “un punto alto”, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà di Angiolino Maule dal 1983, l’azienda agricola si estende su una superficie di 12 Ha, di cui 9 vitati e 3 occupati da boschi. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Angiolino Maule. Altri vini I Bianchi: Sassaia Vino da Tavola (Garganega 80%, Trebbiano di Soave 20%) I Masieri Vino da Tavola (Garganega 100%) Recioto (Garganega 100%) I Rossi: Rosso Masieri (Merlot 50% Lagrain 50%) Merlot (Merlot 100%)


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Marco, Arnaldo e Paolo Galli

Lessi in un libro, molto tempo fa, che la vita è comandata dal fato e che non conta molto la volontà di voler ottenere o cambiare le cose. Poco tempo dopo, invece, sfogliando le pagine di una rivista, stranamente, trovai scritto il contrario e cioè che il fato non è altro che il risultato delle nostre azioni e che siamo noi, con le nostre mani, a forgiare il nostro stesso destino. Davanti al mistero di quelle due contrastanti versioni rimasi un po’ sconcertato, anche se credo che la verità, sulla base della mia esperienza e attingendo a quella saggezza popolare in cui credo ciecamente, non abiti né da una parte, né dall’altra, ma stia in mezzo. Infatti ci sono scelte che si affrontano soltanto per il piacere di soddisfare e appagare un bisogno interiore, mentre altre si è costretti a farle o addirittura si subiscono. Quali che siano le motivazioni che le hanno determinate, queste scelte ci cambiano spesso il mondo circostante e, a volte, anche in modo radicale, sia in termini di una nostra maggiore sensibilità o di nuovi e più specifici significati, sia di un diverso approccio che riteniamo più doveroso dare alla nostra vita. Un esempio tangibile di ciò che sto dicendo è la scelta che fece mio padre Arnaldo nel 1969, quando decise di acquistare questa azienda vitivinicola. Fu una scelta che, da una parte, appagò il bisogno di mio padre di costruire qualcosa di concreto nella sua vita e, dall’altra, contemporaneamente, interferì non solo sul mio destino, ma anche su quello di mio fratello Marco e, fino a quando è stata in vita, anche su quello di mia madre Marta. Da una parte la sua volontà di forgiare il suo destino e dall’altra il fato che determina il nostro: due facce della stessa medaglia. Le Ragose è stata una realtà che mio padre ha fortemente voluto, poiché, essendo uno dei primi iscritti all’Ordine degli enologi italiani, come attesta la sua tessera numero 27, lo entusiasmava l’idea di avere una sua azienda-laboratorio nella quale approfondire le esperienze che andava acquisendo da consulente nelle altre cantine. Così, appena poteva, passava qui ogni momento libero, i fine settimana, le vacanze estive, seguìto dal resto della famiglia; qui, su queste colline che, pur essendo vicine a Verona, a quei tempi avevano ancora il fascino di uno splendido angolo di verde incontaminato, lontano dal frastuono invadente della città, che ora invece bussa, prepotente e arrogante, alle porte della nostra cantina. Pensare a cosa era in quegli anni questa azienda significa pensare a cosa era la Valpolicella di allora, a come si viveva qui e a come fossero i vini di questa zona o a quanto l’agricoltura di allora avesse un senso di spiacevole precarietà per via del frastuono di un’incalzante industrializzazione che incominciava a farsi sentire in lontananza e spingeva i giovani a lasciare la campagna per andare a lavorare in fabbrica o all’ospedale di Negrar. A casa il vecchio padre continuava a fare un po’ di vino nell’ettaro di vigna di famiglia, aiutato, nei fine settimana, da quel figlio che, più degli altri, aveva mantenuto un po’ di passione per la terra. Le Ragose era il buen retiro di Arnaldo, il luogo dove gli piaceva trascorrere il tempo libero, immerso piacevolmente fra le sue cose, circondato dalle viti e dai quadri, la sua personale collezione di opere di grandi artisti, alla quale ogni tanto aggiungeva un altro pregiato capolavoro. È qui che siamo cresciuti io e mio fratello, ora costruendo la casa sull’albero, ora andando a caccia, ma respirando sempre il profumo di quel vino che papà produceva a scappa tempo. Non ricordo la quantità delle bottiglie che produceva, ma era chiaro che, poche o tante che fossero, dovevano essere vendute. Papà non era bravo in questo, ma lo fu nel riuscire a responsabilizzare mia madre che, con lo spiccato spirito pratico che contraddistingue una donna madre di quattro figli, diventò presto una bravissima addetta alle pubbliche relazioni e un’abile venditrice: dinamica, intuitiva e brillante. Devo dire che il vino mise in risalto alcune sue doti particolari e mi fece scoprire altri suoi aspetti di madre stupenda che non conoscevo e credo che, anche per lei, questo lavoro e le nuove sfide a cui venne chiamata furono di grande stimolo e l’aiutarono molto nel permetterle di riconoscere le sue reali potenzialità, tra le quali quella di scoprirsi una straordinaria comunicatrice, qualità che, con il suo stesso stupore, la condusse a ricoprire incarichi importanti nel panorama istituzionale del mondo del vino. Le piaceva ciò che faceva e ci mise sentimento, soprattutto nel promuovere questo territorio e tutte le sue meravigliose prerogative. Passione, volontà, decisionismo, determinazione: con tutte queste sensazioni che mi volteggiavano intorno e che respiravo ogni giorno, non so se il decidere di entrare a lavorare in questa azienda e diventare vignaiolo sia stata davvero una mia scelta. Preferisco pensare che è stato il fato a indicarmi la strada. A distanza di tempo non so dire quante cose abbiano interagito nel favorire quella mia scelta, ma sta di fatto che se, nel 1990, avessimo venduto l’azienda, come ci fu proposto, ora non saremmo qui a parlare dell’azienda, delle nostre vite, né di quale vino degustare. Non so se siamo stati più bravi o più sciocchi a rinunciare a quei soldi. So solo che con mio fratello avevamo ormai deciso di voler proseguire sulla strada che Arnaldo aveva


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Amarone della Valpolicella Classico DOC tracciato; del resto era stato lui che aveva sempre insistito perché noi scegliessimo la nostra strada e ora che l’avevamo fatto non poteva certo tirarsi indietro. Difficile dire quanto siamo stati bravi a decidere di essere oggi qui, o quanto il destino invece ci abbia favorito. Sta di fatto che quando mi iscrissi a Ingegneria, a Padova, non pensavo certo che avrei lavorato in quest’azienda. Avevo altre cose che mi frullavano nella mente oltre a quel corso di laurea. Momenti difficili per un ragazzo di vent’anni, con mille idee per la testa che mettevo in discussione cinque minuti dopo averle pensate. Presto abbandonai Ingegneria per iscrivermi alla meno impegnativa Economia e Commercio, a Verona, dove mi laureai nel 1985. Avrei potuto fare il libero professionista, il dirigente d’azienda o dedicarmi allo sport e a quella carriera calcistica che all’epoca svolgevo con ottimi risultati giocando in serie C e, magari chissà, sposare una velina! Tutto mi portava lontano da qui e niente mi faceva supporre che sarei potuto diventare, un giorno, produttore di vino. Ma ecco il destino che comincia a dipanarsi quando, a 29 anni, un grave infortunio mi costrinse ad abbandonare il calcio e a ridisegnare la mia vita; incominciai a credere che ci potesse entrare anche il mondo del vino di cui non conoscevo niente. Avevo la certezza che papà Arnaldo mi avrebbe aiutato, come infatti avvenne, e il suo aiuto fu determinante, pieno e incondizionato in tutti i sensi, sia sotto l’aspetto tecnico, dandomi il tempo di crescere piano piano al suo fianco, sia sotto l’aspetto economico, con investimenti che condussero al rimodernamento di tutti gli impianti, alla realizzazione di una nuova cantina, ma anche alla vendita di quella collezione di opere d’arte a cui teneva molto. Sono passati tanti anni ed è con piacere che rivedo le pareti e il giardino di questa casa rivivere grazie a quadri e sculture che mio padre ha ricominciato a collezionare, soffermandosi soddisfatto ad ammirarli, ora che ha più tempo libero per vagare tra gallerie, musei, studi d’artisti, a differenza di mio fratello e di me che purtroppo, non abbiamo più tempo di fare niente se non lavorare. Ma cosa c’entra in tutto questo il destino? Quello che mi è successo è solo il frutto della mia determinazione e volontà? Sono domande alle quali non riesco a dare delle risposte, poiché se è vero che la casualità crea una infinità di variabili, perché io ne ho utilizzate solo alcune? Sono comunque contento di come siano andate le cose e lo sono per svariati motivi, prima di tutto per mio padre, che mi ha insegnato ad essere risoluto, determinato e propositivo e anche a non accettare troppi compromessi, oltre a non essere un uomo adatto “per tutte le stagioni”. Sono contento per il rapporto che ho con mio fratello, con il quale condivido amorevolmente le scelte aziendali e, poi, lo sono per mia madre che sicuramente mi starà guardando e che credo sia felice che i suoi figli abbiano intrapreso la solita strada e siano diventati dei buoni vignaioli, e sono contento inoltre anche per i vini che produciamo, che sono rispettosi e rappresentativi di questo nostro territorio.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella e altre a bacca rossa autorizzate, provenienti dal vigneto dell’azienda posto in località Le Ragose di Arbizzano nel comune di Negrar, le cui viti hanno un’età compresa tra i 5 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni argillosi con basamento arenaico eocenico, è situato ad un’altitudine compresa tra i 230 e i 400 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Corvina 60%, Rondinella 30%, altri vitigni a bacca rossa autorizzati 10% Sistema di allevamento: Pergola e pergoletta semplice Densità di impianto: 3.500-4.100 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Durante la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino a gennaio. Raggiunta la maturazione, avviene la diraspapigiatura e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 20-40 giorni a temperatura libera; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, si procede alla svinatura e, dopo un breve periodo di decantazione statica, il vino conclude la fermentazione malolattica; quindi è lasciato in tini di acciaio inox per altri 6-8 mesi e posto successivamente in botti di rovere da 50 hl, in cui rimane per 30-40 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 50.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino brillante, il vino al naso si presenta intenso, con note di amarene sotto spirito e riporta alla mente certi sentori di cioccolatini che si aprono lentamente a percezioni di cioccolato amaro, pepe rosa e cassis. In bocca è reattivo, ricco ed equilibrato, elegante; è accompagnato da una piacevole e sensuale morbidezza anche sprigionando un grande senso di calore che scalda il palato; una buona sapidità sostiene il vino e lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1969 Le migliori annate: 1969, 1978, 1988, 1990, 1995, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Galli dal 1969, l’azienda agricola si estende su una superficie di 33 Ha, di cui 20 vitati e 13 occupati da bosco e oliveto. Svolge la funzione di agronomo e di enologo Marco Galli. Altri vini I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc Marta Galli (Corvina 60%, Rondinella 25%, altri vitigni a bacca rossa autorizzati 15%) Valpolicella Classico Doc Superiore Marta Galli (Corvina 60%, Rondinella 25%, altri vitigni a bacca rossa autorizzati 15%) Valpolicella Classico Doc Superiore Le Sassine (Corvina 60%, Rondinella 25%, altri vitigni a bacca rossa autorizzati 15%) Garda Cabernet Sauvignon Doc (Cabernet Sauvignon 97%, Cabernet Franc 3%)




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Monica Grisi e Franco Scamperle

Ormai mi sono così tanto immedesimata in ciò che faccio che mi sembra di svolgere un lavoro normale e per nulla straordinario. Può darsi che questo dipenda dal fatto che in questi anni, intorno a me, tutto si è mosso con gradualità, con una lenta e costante evoluzione che mi ha consentito di affrontare, con naturalezza e normalità, ciò che mi trovavo a fare. Non credo che in questa tranquilla accettazione delle cose abbia influito la quotidianità e quel costante e periodico ripetersi delle situazioni; credo, invece, sia stata quella serena consapevolezza di sentirsi in armonia con il proprio ambiente e con il proprio lavoro. Non so se riesco a spiegarti il mio stato d’animo e non posso farci niente se guardando quest’azienda io non veda nulla di particolare o di così straordinario che m’invogli a stupire, arricchendo la sua descrizione, chi mi viene a trovare. Non so se a darmi questa pacatezza, che in alcuni momenti diventa forza, sia la tranquillità che, dopo tanti anni, contraddistingue il rapporto che ho con mio marito Franco, che mi ha aiutata a crescere. Mi sembra di essere sempre stata qui e di essere nata in questa cantina e aver saputo, da sempre, dove si trovassero i remoti e più nascosti segreti del mondo del vino; invece non è così. In questo mondo fatto di terra, di vigne, di vino, di importatori, di contabilità e di pubbliche relazioni mi sono trovata immersa in maniera un po’ brusca e imprevista e mi ci sono trovata perché Fulvio, il padre di mio marito, nella vendemmia del 1983, ancora giovanissimo, all’età di 45 anni, si ferì gravemente entrando nella pigiadiraspatrice con un braccio. Le cure furono lunghissime, ma, pur avendo avuto buon esito, lui non volle più saperne di tornare a lavorare in cantina e, a quel punto, Franco, che già da qualche tempo lo aveva affiancato e ormai non era più uno sprovveduto sull’argomento, decise di prendere in mano le redini dell’azienda. A differenza di lui, io avevo appena finito la scuola e non conoscevo niente di viticoltura, né tanto meno di enologia. Era un mondo sconosciuto al quale dovetti presto affiancare due figli da crescere, avendo l’accortezza, l’astuzia e la sensibilità, nonostante tutto, di imparare a comunicare e a promuovere quello che Franco stava facendo in vigna e in cantina. A Per quei tempi, le sue furono scelte importanti, che portarono ad una lenta e prudente crescita della nostra azienda in linea con quella cultura contadina che gli apparteneva e che lo aveva abituato a non forzare mai la mano alla natura, ma ad assecondarne il naturale divenire. Seguendolo, trovai presto gli argomenti per far conoscere Le Salette, raccontando la nostra terra e quale fosse il valore dei crus con i quali, per primi in zona, indicavamo i vini, contraddistinguendo ogni nostro prodotto con il vigneto di riferimento di nostra proprietà. Pensai di arricchire questo aspetto tecnico con altre storie che inquadrassero il nostro vino anche in un contesto storico e territoriale, a partire dal miracolo della Madonna delle Salette, la vicenda riguardante il santuario che fu eretto in conseguenza di quel prodigio e che dà il nome alla cantina e al vigneto circostanti, a guardia dei quali si trova un cipresso secolare a fare da sentinella. Per promuovere Le Salette non scelsi l’enfasi, ma la semplicità che mi appartiene per carattere e che mi consente di raccontare la verità a chiunque ci venga a trovare in azienda e a tutti quelli che incontro andando in giro per il mondo, nelle più svariate iniziative promozionali organizzate dal Consorzio Tutela Vini Valpolicella, cercando di spiegare il significato che Franco ed io attribuiamo a quei “certificati di nascita” dei nostri vini. Ci sono stati anni in cui, come donna, andare in giro per il mondo a parlare di vino a un mondo di uomini mi faceva sentire una mosca bianca. Ma anche questo non mi sembrò mai una cosa straordinaria e credo che a rendermi facile questo compito interagirono fra di loro molti fattori, fra cui il rapporto con Franco, con il quale ci completiamo e ci compensiamo. Grazie ai limiti naturali imposti dai diversi ruoli e competenze che avevamo in azienda, acquisiti secondo le nostre naturali inclinazioni e anche sulla base reale dei risultati ottenuti, il mercato incominciò a premiare le scelte enologiche di Franco, il quale ha privilegiato sempre, fin dagli albori, la qualità piuttosto che la quantità, puntando sui vigneti, sulle tecniche e sugli strumenti. Chi veniva in Valpolicella era raro che non passasse a trovarci, poiché in molti conoscevano come era fatto il nostro vino e i valori che in esso erano racchiusi.




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Recioto della Valpolicella Classico Doc Pergole Vece Ricordo che alla fine degli anni Ottanta spedivamo più del 60% della produzione all’estero senza aver mai preso un aereo. Anche negli anni successivi, quando c’è stato il boom del vino, non abbiamo mai forzato la produzione, rimanendo fedeli ai nostri canoni produttivi, senza aumentare il numero delle bottiglie o le vendite e arrivando addirittura a non imbottigliare il vino se un anno la vendemmia non era stata all’altezza, in modo da rispettare le modalità che la natura aveva dettato. Anche questa mi è sembrata una cosa normale, poiché con mio marito abbiamo sempre sostenuto che fosse etico avere rispetto del nostro lavoro e dei nostri clienti; non trovi? Ogni tanto, quando ci sentiamo particolarmente stanchi, pensiamo che potremmo anche smettere di lavorare e andarcene in giro per il mondo, per un anno intero. Fortunatamente non abbiamo problemi economici e i nostri due figli potrebbero benissimo arrangiarsi da soli per qualche tempo. Ma so che sono sogni e anche se è normale averli, sarà difficile che si possano avverare, poiché non riusciremmo mai a staccarci dalla nostra casa, né da queste vigne o da questa cantina e se ci penso, anche questo mi sembra normale, poiché in fondo, il nostro mondo è qui, in Valpolicella. Continueremo a fare quello che abbiamo sempre fatto: io a seguire un po’ il settore commerciale e Franco, sempre più lontano dal business, le vigne e la cantina, interpretando il suo vino non come una semplice bottiglia da vendere, ma come il sunto della sua passione e del suo desiderio di diventare un tutt’uno con la propria terra e le sue viti.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Corvinone, Rondinella, Croatina, Sangiovese e Oseleta, provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località La Masua, Le Salette e Conca d’Oro, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 50 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni basaltici argillosi, “toar”, ricchi di minerali, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 420 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Corvina e Corvinone 60%, Rondinella 20%, Croatina, Sangiovese e Oseleta 20% Sistema di allevamento: Pergola nei vecchi impianti, guyot nei nuovi Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha nei vecchi impianti, 6.000 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio per l’essiccazione naturale; qui i grappoli rimangono fino alla metà di marzo dell’anno successivo alla vendemmia. Conclusasi questa fase si procede alla pigiatura dell’uva e il mosto, inoculato da lieviti naturali di Recioto in prefermentazione, è avviato alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 50 giorni a temperatura ambiente. In seguito il vino è posto in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di primo passaggio in cui rimane per 18 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 2.000 bottiglie da 500 cl. l’anno Note organolettiche: Il bel colore rosso rubino intenso e profondo è il preludio a percezioni olfattive intriganti e sensuali che rendono questo vino affascinante, con note di ciliegia sotto spirito, viola appassita, spezie dolci e mallo di noce oltre a quelle di cioccolato After Eight. In bocca è soddisfacente, pieno, ricco, elegante, non invadente; grande la morbidezza, accompagnata da una bella acidità che lo rende fresco, lungo e persistente. Prima annata: 1990 Le migliori annate: 1995, 1997, 1998, 2000, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dalla “reccia” (orecchia), la parte più dolce del grappolo che in dialetto veneto è chiamata “recia”, raggiunge la maturità molti anni dopo la vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà di Franco Scamperle dal 1982, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo ed enologo lo stesso Franco Scamperle. Altri vini I Bianchi: Cesare Passito Igt (Garganega 40%, Malvasia 40%, Moscato 20%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc La Marega (Corvina e Corvinone 70%, Rondinella 20%, Croatina 5%, Dindarella e Sangiovese 5%) Amarone della Valpolicella Classico Doc Pergole Vece (Corvina e Corvinone 70%, Rondinella 10%, Oseleta 10%, Croatina e Sangiovese 5%) Recioto della Valpolicella Classico Doc Le Traversagne (Corvina e Corvinone 70%, Rondinella 20%, Oseleta 5%, Croatina e Sangiovese 5%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ca’ Carnocchio (Corvina e Corvinone 80%, Croatina 10%, Rondinella 5%, Sangiovese 5%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ripasso I Progni (Corvina e Corvinone 80%, Rondinella e Sangiovese 20%)


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Fausto Maculan

Non c’è stato nessuno che mi abbia insegnato a fare ciò che faccio e quello che sono riuscito a ottenere l’ho realizzato grazie a quella cocciuta, curiosa ed entusiastica passione per la vita trasmessami da mio padre Giovanni. Ho avuto un padre stupendo, un imprenditore concreto e capace, che ha saputo adeguarsi al momento storico in cui viveva, anche se, pur diventando forse il più grande commerciante di vino della zona di Breganze, non ha mai avuto il tempo, la necessità e il desiderio di approfondire i meccanismi che interagiscono nel complesso mondo del vino. A lui non interessava; lui badava al concreto, facendo ciò che riteneva utile per mantenere dignitosamente la numerosa famiglia di cui aveva la responsabilità. Da bravo e onesto commerciante, attività che iniziò a svolgere fin dall’età di undici anni, aveva sempre cercato di capire quali fossero le opportunità che il mercato gli offriva, attivandosi con i mezzi che aveva a disposizione, ora andando in bicicletta a vendere le uova al mercato, ora aprendo alcuni negozi di generi alimentari, ora producendo il vino che serviva a soddisfare gli avventori dell’Osteria “La Catina”, che conduceva con l’aiuto di mamma Antonietta. Fu quella sua mentalità concreta che gli consentì di non farsi sfuggire l’occasione che gli dette il Podestà di Breganze, durante la seconda Guerra Mondiale: produrre vino per alcuni distaccamenti militari della zona. Mi raccontava che si attivò per ottemperare a quella richiesta, che era enormemente più grande rispetto a quanto gli ambienti e le attrezzature che aveva a disposizione gli consentissero di soddisfare, allargando la cantina e comprando botti e cisterne nuove. Quando nacqui, nel 1950, lui già conduceva con successo una cantina ben funzionante, la quale, man mano che io crescevo, andò espandendosi sempre più, fino a contare, alla fine degli anni Sessanta, ben 25 dipendenti, con una capacità produttiva e di commercializzazione di oltre quarantamila ettolitri di vino all’anno, venduto in damigiane o bottiglioni di vetro che venivano consegnati, giornalmente, alle osterie, alle enoteche e agli smerci delle province di Verona e Vicenza. Erano gli anni in cui stava nascendo l’Europa e l’agricoltura iniziava, purtroppo, a meccanizzarsi, mentre la chimica faceva il suo ingresso nel settore agricolo contribuendo all’aumento produttivo di quantità sempre maggiori di materie prime. Erano gli anni in cui si incominciava a comprendere quanto il mondo fosse piccolo; erano gli anni del timido inizio di ciò che più tardi verrà chiamato “globalizzazione”, in cui anche la viticoltura viveva un suo momento di grande trasformazione, nonostante i vini che si continuavano a vendere fossero grossolani e classificabili in due categorie: bianchi, che dovevano essere leggeri, e rossi, che dovevano essere ben coloriti, ma soprattutto stabili. Crescere in quell’ambiente influenzò il mio carattere e la mia passione per il vino che fu ulteriormente stimolata dal fatto che mio padre, quando ero ragazzino, non sopportava di vedermi bighellonare nella piazza del paese e mi costringeva ad aiutarlo in cantina incentivandomi con cinquanta lire di stipendio l’ora. Fu grazie a quella iniziale familiarità “coatta”, a quelle giornate trascorse in mezzo alle botti e alle cisterne che nacque in me il desiderio di conoscere il mondo del vino. Una passione che mi spinse più tardi ad approfondire cosa stesse accadendo nel settore vitivinicolo che, in quegli anni, percepivo in forte evoluzione e per farlo incominciai a viaggiare e a parlare con tutti quelli che supponevo potessero saperne più di me, rubando con gli occhi il mestiere di vignaiolo e carpendo i segreti celati nelle cantine. Viaggi che mi spinsero lontano, in altre zone del mondo, come la Francia o la California, dove conobbi altri vignaioli che, come me, si vedevano costretti a inventarsi giornalmente qualcosa per superare quel gap che divideva la viticoltura di tutto il mondo da quella transalpina. Erano gli anni Settanta e il vino di qualità, allora, parlava solo francese. In Italia non c’era nessuno che avesse le idee chiare o fosse in possesso di una ricetta che indicasse come migliorare la produzione o le priorità sulle quali intervenire per caratterizzare e tipicizzare la filiera produttiva. No, non c’era nessun medico che, pur avendo fatto la diagnosi, avesse la medicina per guarire il settore vitivinicolo italiano dal male che lo affliggeva. Rammento che, mentre noi italiani, all’epoca, facevamo vini dozzinali, venduti a poche centinaia di lire, i Francesi già riuscivano a vendere il vino in bottiglia a prezzi mille volte superiori ai nostri. Caro mio, non c’è stato nessuno che mi abbia spiegato cosa fare o mi abbia parlato della “qualità” o di cosa fosse il terroir. Ma di quale terroir avremmo mai dovuto parlare allora, se ancora oggi sono in molti a non conoscere neppure il significato della parola? E non mi servì molto neanche diplomarmi alla scuola di Enologia a Conegliano Veneto, poiché in Italia erano pochi gli enologi e ancor meno quelli che realmente svolgevano la professione, quindi nel tempo non si era venuto a creare un vero interscambio culturale tra gli addetti del settore, né, tanto meno, vi era una ricerca scientifica alla quale far riferimento per approfondire certi argomenti. Tutto era improvvisato o impostato sulla tradizione e l’esperienza dei vecchi produttori. All’orizzonte non c’erano esempi da seguire e non c’era nessun Tachis della situazione… Anche


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Crosara Breganze Rosso DOC lui era ben lontano dal capire come si facesse il Sassicaia. Vivevamo nell’oscurantismo più assoluto. Tutto ciò che si faceva era cercare di sperimentare e successivamente capire dove poteva essere stato l’errore e, nella vendemmia successiva, correggere ciò che era ritenuto sbagliato. Ricordo che nel 1970 provai ad uscire con le prime bottiglie da 750 cl. con il tappo di sughero senza riuscire a venderne neanche una. Compresi ben presto che non era colpa né della bottiglia, né dell’etichetta, né della strategia di promozione, ma del vino, che non era buono! Non mi arresi e feci altri esperimenti, ma non avevo nessuno con cui confrontarmi o che mi dicesse la strada da intraprendere per cambiare il corso delle cose. Anche al primo Vinitaly, quello del 1975 (che si visitava in poche ore!), feci tre vendite ad altrettanti clienti, dei quali due erano miei parenti e uno era il ristoratore dove andavo a mangiare tutte le sere a Verona. Ricordo il primo Vinexpo a Bordeaux nel 1981, di cui conservo ancora il biglietto, e l’incontro con Emile Peynaud, che contribuì a modificare integralmente il mio approccio al mondo del vino. Mi rimisi sui libri, senza però mai stancarmi di viaggiare per il mondo alla scoperta di ciò che non conoscevo. Poi le prime vigne e con esse i primi impianti che contavano, nel 1980, diecimila ceppi per ettaro. Ricordo che in paese mi davano del matto e mi vidi costretto, per far tacere quelle malelingue, a spargere la voce che avevo piantato delle viti nane, che non crescevano più di tanto e che quindi producevano tutt’al più un grappolo d’uva per ceppo! Con quegli impianti arrivò in azienda anche una macchina scavallatrice, la prima che avesse mai valicato il confine italiano. È così che è partito tutto e potrei parlarti per ore e raccontarti aneddoti e storie, alcune delle quali anche buffe e sulle quali solo oggi riesco a sorridere. Ora sembra tutto facile e sorrido ai convegni o alle conferenze ascoltando gli esperti e i grandi enologi che si avvicendano sul palco, suggerendo cosa sia o non sia necessario fare. Io taccio quando li sento riempirsi la bocca snocciolando l’inventario delle funzioni che dovrebbero essere svolte se si desidera ottenere dei grandi risultati o l’elenco delle ricette per arrivare a produrre il vino perfetto. Facile ora, eh? Oggi tutti hanno la loro ricetta che va bene per ogni stagione e per ogni vendemmia; felici e contenti se la portano in tasca tirandola fuori all’occorrenza. Sorrido pensando agli albori della storia dell’enologia italiana che anch’io ho contribuito a costruire. Ma dove erano questi esperti? Ma hanno una ben che minima cognizione o una semplice idea di quale sia stato il sacrificio che gente come me ha dovuto fare per far arrivare sulle loro belle scrivanie quelle ricette che vanno sventolando? Ora sembra tutto facile, anche se sono consapevole che ci sono altre mille cose da fare e mille altre cose da approfondire e che ancora non siamo arrivati a niente…

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Santo Stefano e San Gaetano, nel comune di Breganze, le cui viti hanno un’età di 17 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni vulcanici tufacei, sono situati ad un’altitudine di 110 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Merlot 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 10.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che è svolta in tini troncoconici aperti di acciaio inox e che si protrae per 7 giorni ad una temperatura compresa tra i 28 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuate 6 follature giornaliere. Terminata questa fase, il vino viene travasato e, dopo una breve defecazione, è posto in barriques di rovere francese di Allier nuove a grana fine e media tostatura dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 14-18 mesi, al termine dei quali si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino pieno, intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi eleganti, di confettura di prugne, lamponi maturi e note di terra bagnata che si sovrappongono a toni vegetali e a percezioni speziate di cuoio, caffè e cioccolato per chiudere con importanti nuances di fiori appassiti. La bocca risulta piena, elegante, arricchita da una fibra tannica tonda, piacevole, ben evoluta, che poggia su una discreta sapidità che conferisce freschezza. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2000, 2001, 2003, 2004 Note: Crosara significa “incrocio” in dialetto veneto ed è stato scelto questo nome perché un incrocio di strade è il punto di congiunzione dei due vigneti di produzione. Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Fausto Maculan dal 1990, l’azienda agricola si estende su una superficie di 50 Ha, tutti vitati. In azienda svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Fausto Maculan. Altri vini I Bianchi: Breganze Torcolato Doc (Vespaiola 85%, Tocai 10%, Garganega 5%) Dindarello Igt (Moscato 100%) Breganze di Breganze Doc (Tocai 85%, Sauvignon 15%) I Rossi: Breganze Doc Fratta (Cabernet Sauvignon 66%, Merlot 34%) Breganze Cabernet Sauvignon Doc Palazzotto (Cabernet Sauvignon 100%) Brentino Igt (Merlot 55%, Cabernet Sauvignon 45%)


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Enrico e Andrea Marcato

Sono ancora giovane, ma ho già imparato tante cose affrontando questo mestiere di vignaiolo che ho scelto di svolgere sui monti Lessini in Val D’Alpone, a Roncà, in una splendida zona vitivinicola, piccola e poco conosciuta, purtroppo limitrofa a più note e famose Doc venete quali Valpolicella, Soave e Valdobbiadene. Questa collocazione ha contribuito a creare non poche e oggettive difficoltà agli operatori vitivinicoli della zona, soprattutto per quanto riguarda la promozione del territorio e del vino Durello, il quale, proprio per la sua unicità autoctona, per la sua spumeggiante freschezza e per le sue peculiari caratteristiche organolettiche di robusta sapidità, richiede una sua affrancatura con chi lo produce. È per questo che davanti a tutto metto la mia immagine raccontando e rendendo credibile l’operosità che in quest’azienda abbiamo nel seguire la filiera produttiva, che dalle viti di Durella arriva fino al vino, contrassegnato con il marchio della famiglia Marcato, che distingue tutto ciò che produciamo. Questa presa di coscienza o necessità, secondo il punto di vista da cui si guarda, ha contribuito a responsabilizzarmi e a farmi crescere secondo i canoni di una forte e intransigente cultura etica che mi ha condotto ad attribuire un valore grandissimo all’impegno quotidiano, continuo e illimitato, che richiede in questa specifica zona il lavoro di vignaiolo. Princìpi che ho appreso crescendo a contatto con un uomo come mio padre Lino, il quale, durante tutti i trent’anni passati nella commercializzazione dei nostri vini, ha cercato di inculcarmi questi valori attraverso il suo esempio. Lui conosce bene quali siano gli umori del mercato, le difficoltà contingenti e i vincoli culturali che interagiscono nella presentazione di un vino come il Durello che, nel nome, si porta dietro una rusticità scontrosa, difficile da far comprendere e, ancora più da far apprezzare. Sa bene quanto sia difficile farsi accettare e creare un duraturo rapporto di fiducia con un cliente o quanta fatica si deve fare per spiegare la tipicità vulcanica dei territori che caratterizzano i terreni su cui sono posti i nostri vigneti o le peculiari caratteristiche di questo storico vitigno, le cui tracce risalgono al 1292. Sa che deve armarsi di pazienza per descrivere dove siano i Monti Lessini e quali siano le loro attrattive, monti sconosciuti ai più e che meriterebbero attenzione da parte degli operatori turistici e di tutti quelli che amano la natura, il buon vino e la buona cucina. Ho sempre riconosciuto che il suo è indubbiamente un lavoro impegnativo e faticoso, così come lo è quello di ogni membro della famiglia che opera in azienda, a partire da mio zio Giovanni e mio fratello Andrea, ognuno dei quali si è ritagliato un suo specifico compito e un suo preciso ruolo secondo le proprie caratteristiche e capacità professionali. Anche il mio lavoro di enologo, certe volte, mi risulta duro, soprattutto perché a vent’otto anni avrei anche altre cose da fare, alcune delle quali forse un po’ più piacevoli per la mia giovane età! Invece sto dedicando la mia vita a quest’azienda... Quando faccio questi discorsi e mi sento un po’ triste e assalito da qualche dubbio sul futuro, ripenso a quella frase che lessi un giorno su un muro e che riportava un principio del tipo: “Se svolgi un lavoro che ti piace, sicuramente non lavorerai neanche un giorno nella tua vita”. Anche se a volte dimentico quella frase, ho sempre ritenuto che in essa vi fosse tanta verità. In fondo, deve averla pensata così anche mio nonno, quando, ai primi del ‘900, si dava un gran da fare per commercializzare il vino che produceva; allo stesso modo deve averla fatta propria anche mio padre, che ancora parte alle sei della mattina e torna a casa a mezzanotte. Anch’io però, devo dire che la sento particolarmente mia, soprattutto quando non mi accorgo di trascorrere dodici o quattordici ore al giorno fra le mura di questa cantina. Una cantina che porta ben visibili le modifiche subite nel tempo a partire dal 1970 e per i successivi 30 anni, un periodo di tempo che ha coinciso con gli step di crescita della nostra azienda non solo strutturali, ma anche di quella credibilità che ci siamo conquistati puntando soprattutto sul lento e certosino lavoro del “passa parola”, l’unica “strategia di marketing” che ancora oggi ci ripaghi, con risultati tangibili, sul mercato. “Formichine”, ecco cosa siamo. Ciò che facciamo è molto simile al lavoro di questi insetti che fanno dell’aggregazione il loro punto di forza. Non è forse vero che quel loro laborioso e instancabile lavoro, svolto tutti insieme per un fine comune, assomiglia, in definitiva, a quello svolto dai membri di tante famiglie venete che, come la nostra, gravitano intorno al mondo del vino? Ci sono tantissime famiglie che qui si sono aggregate, da generazioni, intorno alle loro vigne in un meccanismo d’intreccio e di interessi ormai inscindibile, operando con una tipologia aziendale, unica nel suo genere, la quale ha una concezione della gestione orizzontale e non verticale, dove tutti, posti sul solito piano, conoscono cosa devono fare, quando e come devono agire. Aziende che basano la loro forza sul giuramento morale che ognuno dei membri della famiglia presta all’altro.


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Lessini DOC Durello VSQ Metodo tradizionale Il momento storico comunque non aiuta certo imprese così concepite, le quali si trovano, da una parte nella necessità di affrontare una crescente globalizzazione, che richiede spiccate capacità manageriali in grado di leggere e analizzare mille problematiche, dando alle stesse precise risposte in tempi brevi, e dall’altra, invece, a dover sopperire alle professionalità mancanti nel proprio organico con una minor competitività e un ridimensionamento degli obiettivi. Non è più vero, infatti, che essere una piccola azienda vitivinicola condurrà nel futuro, necessariamente, a chissà quali vantaggi, come credo che il solo, giusto ed equilibrato spirito contadino, che accompagna molti viticoltori, non possa garantire un futuro migliore alle loro aziende. Non ho una sfera magica dentro la quale guardare il futuro ed è per questo che continuo a dare il massimo e a fornire la professionalità che ho acquisito con la laurea e con tanti stages fatti in giro per il mondo imparando qualcosa da ogni esperienza: dall’Australia come fare un vino standard, dalla California come vendere e dalla Francia come raccontare le storie sul vino. Oggi che tu sei qui te ne ho raccontata una, credibile spero, anche perché è l’unica che ho a disposizione per far conoscere chi sia veramente la famiglia Marcato, con l’auspicio che tu possa approfondire la conoscenza della storia dei vignaioli veneti come noi. Certe cose che ti ho raccontato ti potranno apparire poco importanti, ma sono sicuro che sono le stesse che ti sentirai raccontare da tanti altri piccoli produttori. Non è facile cambiare le cose anche per le nuove generazioni come la mia, che si stanno inserendo solo adesso in azienda. Pur avendo la fortuna di avere alle spalle una famiglia che ci ha sostenuti e messi in condizione di proseguire su una strada ben tracciata, ci troviamo spesso a combattere con una visione limitata delle cose e una cultura vecchia e obsoleta, difficile da rimuovere. I tempi sono cambiati ed esigono un adeguamento continuo, anche se mi accorgo di avere davanti a me moltissimo tempo per modificare le cose ed è forse per questo che non mi sento né in gara, né in competizione con nessuno. Ho tante cose da fare, progetti da realizzare e altri da modificare, convinto come sono di aver scelto il lavoro migliore che io potessi fare, quello stesso che mi consentirà di poter dire di non aver mai lavorato neanche un’ora nella mia vita.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Durella e Pinot Nero provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località I Prandi, nella Vallata dell’Alpone situata nel comune di Roncà, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni basaltici vulcanici, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 400 metri s.l.m. con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Durella 85%, Pinot Nero 15% Sistema di allevamento: Pergola veronese nella Durella e spalliera con potatura a cordone speronato nel Pinot Nero Densità di impianto: 4.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che di solito avviene per il Pinot Nero a partire dalla terza settimana di agosto, mentre per la Durella è svolta nella prima decade di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 10°C per 36 ore, si avvia alla fermentazione alcolica attraverso l’inserimento di lieviti selezionati; questa fase si protrae per 15 giorni, alla temperatura di 16°C, ed è svolta per l’80% in tini di acciaio inox, mentre il restante 20% in barriques di rovere francese di Allier di alcuni anni a grana fine e media tostatura, dove il vino rimane fino al maggio dell’anno successivo alla vendemmia; in questo periodo vengono effettuati frequenti bâtonnages dei lieviti e delle fecce nobili utili per arricchire la struttura e dare longevità al vino. Dopo circa 3 mesi si procede all’assemblaggio delle partite, quindi il vino è messo in bottiglia per la seconda fermentazione e lasciato a riposare per 48 mesi, al termine dei quali si procede alla sboccatura e all’aggiunta del liqueur d’éxpedition. Terminata questa fase il vino affina per almeno altri 3 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 30.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Un buon perlage è il preludio visivo di questo vino che si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati; all’esame olfattivo sprigiona profumi fruttati di nespola, ananas e susina matura a pasta gialla; il finale riporta invece alla mente la mandorla verde e percezioni floreali di camomilla, sambuco e ginestra. In bocca ha un’entratura sapida, “dura”, ma elegante; comunque piacevole e molto bella la freschezza che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1976 Le migliori annate: 1985, 1990, 1996, 2000, 2001 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Marcato dal 1904, l’azienda agricola si estende su una superficie di 60 Ha, di cui 55 vitati e 5 occupati da prati, boschi e seminativi. Svolge funzione di agronomo Andrea Marcato e di enologo Enrico Marcato. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Docg Superiore Il Tirso (Garganega 90%, Trebbiano di Soave e Chardonnay 10%) Colli Berici Doc Sauvignon (Sauvignon 100%) Col Creo Igt Veneto Bianco (Garganega 50%, Sauvignon 25%, Pinot Bianco 25%) I Rossi: Colli Berici Doc Merlot Asinara (Merlot 100%) Baraldo Igt Veneto Rosso (Merlot 80%, Cabernet Franc Appassito 10%, Cabernet Sauvignon 10%) Colli Berici Doc Cabernet Riserva Pianalto (Cabernet Franc Appassito 50%, Cabernet Sauvignon 50%)




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Stefano e Nicoletta Campedelli

Un amico mediatore me disea che ghe sarea, di sopra, un pezzo di terra che l’è bellino e che doveo andar a vederlo. La prossima settimana, gli risposi, e la prossima settimana eccolo un giorno arrivare con la “Panda motrice” e el me dise: “Monta su perché ti, prima te arrivi lassù e meglio è. Dami retta”. Era un venerdì ed era le sei di sera dell’anno scorso. Salgo e mi porta su un campo dove da lassù vedea giù tutta Marcellise e in mezzo ghera delle piante di ulivi secolari che si mischiavano a delle vigne. Guardavo in silenzio, mentre lui insisteva per voler concludere l’affare. Se te disi che l’è bela, boh, l’è bela e va bene anche per me. Ma è la tutta qua? Ela già finia sta ricognizione? Comunque se ne può parlare se il prezzo l’è giusto. Ricordo che venni a casa e, senza indugio, presi mia moglie e la portai su… Erano le sette di sera e la terra era ancora tutta bagnata dal sole e ricordo rimanemmo zitti zitti a guardarla. La domenica el paron el vien e giù a dir che il prezzo era giusto, che la terra era bella e che avrei fatto un affare a comprarla. Lo sapevo già che avrei fatto un affare e che il prezzo l’era giusto, perché per quanto la me piasea, se non era giusto non ghe ne davo de sghei! Neanche uno, mica sono Fra Ciondoli io! Lì, il prezzo era giusto e tac! L’ho comprata, alla fine! Il mio amico Celestino mi dice sempre che conosce poche persone che trattano gli affari come li tratto io. Credo che mi prenda un po’ in giro quando dice questo, anche perché, di affari, non è che io me ne intenda tanto, tranne quelli che riguardano le uve (che dicono riesco a vendere al prezzo più alto della zona) e il mio vino; poi non faccio altro. Non ho molti soldi per le tasche, ma se mi capita di comprare un pezzetto di terra, piccolo e messo in una buona posizione, non mi tiro indietro. Quello che mi muove è un irrefrenabile desiderio di toccarla, lavorarla e vederla fiorire sotto le mie mani; la terra, come si sa, è una sola e anche se sembra grande e infinitamente vasta è sempre una, mai uguale a se stessa e anche se uno volesse cercarne, non ce n’è un’altra dove poter piantare i piedi, stare dritti a guardare l’orizzonte o il cielo e le stelle o chinarsi a potar le vigne. Ecco perché averne un po’ mi rende felice, quasi come se percepissi, nel possederla, una piacevole sensazione di compartecipazione a un progetto più ampio, etereo, celestiale. Soprattutto perché la terra mi risponde e contraccambia le mie attenzioni, costringendomi ad occuparmi del vento, delle nuvole e del colore del cielo o del sole. So benissimo che quando morirò non ne porterò dietro neanche un metro, ma la passione per adesso allontana dalla mente questa verità. Eppure so che non è sempre stato così, ma devo fare un grande sforzo per ricordarmi che non ho fatto sempre il contadino. Anzi, avevo iniziato una carriera di geometra che mi condusse, novello Azzeccagarbugli, in mezzo ad un mare di fogli, disegni e scartoffie, utili solo per stilare il primo grande condono che veniva autorizzato in Italia. Era un tempo lontano e vivevo nell’attesa di comprendere cosa avrei voluto fare da grande, inconsapevole che, di lì a poco, mi sarei ritrovato a condurre l’azienda agricola che mio padre Guerrino aveva acquistato. Un’azienda che esisteva solo sulla carta e contraddistinta da una costruzione, ma dove non c’era niente altro, né un trattore, né una vanga, né un badile: niente! Anche la stessa casa era fatiscente, così come le vigne, che erano state abbandonate da molto tempo. Insieme rifacemmo i tetti, gli intonaci, i pavimenti, i muretti che ancora oggi delimitano la proprietà, rivedemmo e ammodernammo i vigneti; il tutto nella massima ignoranza, rischiarata soltanto da quelle poche nozioni che orecchiavamo qua e là da qualche vecchio della zona o dalla sperimentazione di nuovi, personali, discussi e faticosi sistemi di lavoro. Furono anni in cui le difficoltà si sommavano continuamente le une alle altre e non nego che certe volte ci prendeva un tale scoramento che credevamo di aver perso la strada per raggiungere l’obiettivo che ci eravamo prefissati. Poi le cose si misero a correre come non era mai accaduto prima e dopo un incidente che mi tenne per mesi lontano dall’azienda, produssi le mie prime bottiglie di vino, date in omaggio agli ospiti come bomboniere per il mio matrimonio con Nicoletta. Furono quelle bottiglie che mi consentirono di conoscere il mio enologo Celestino Gaspari che, dopo aver assaggiato quel primordiale tentativo enologico, mi consigliò e agevolò la mia entrata definitiva nel mondo del vino. Successe tutto in pochi anni e tutto insieme, come spesso accade. Fu così che cominciò la mia avventura di vignaiolo con la prima vendemmia del 1995 che ricordo benissimo, perché la stessa fu accompagnata da una tragedia: le 7000 bottiglie che avevo imbottigliato presero tutte il sentore di tappo! Quelli che seguirono furono momenti di sgomento,


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Amarone della Valpolicella Classico DOC angoscia e frustrazione, ma non mi scoraggiai: feci altri tentativi tenendo duro fino al 1999, quando uscii con il vino della vendemmia 1996. Ancora oggi ricordo la soddisfazione che ebbi nel ricevere i primi complimenti e i primi ordini o nel constatare come alcuni clienti arrivassero addirittura in cantina per comprare il vino, mentre le guide cominciavano a gratificarci con giudizi ottimi su tutta la gamma che producevamo. Ritengo che ciò che mi è successo sia una bella favola che sicuramente potrò raccontare ai miei nipoti, quando ne avrò. Casualità, fortuna, non so spiegare cosa sia accaduto: so solo che, senza volerlo, sono salito sull’ultimo treno che è passato nel mondo del vino, l’ultimo sul quale tutto appariva semplice, estremamente facile e dove ogni cosa viaggiava spedita in un mercato pronto a recepire qualsiasi novità nascesse, proprio come la nostra. Purtroppo, per ciò che sto constatando, credo che negli anni a venire difficilmente passeranno altri treni che possano concedere ad aziende delle nostre dimensioni, che desiderino affacciarsi sul mercato, le stesse chances o l’exploit di cui abbiamo usufruito noi. Una serie di fattori sono andati ad incastrarsi e a combinarsi fra loro con un tempismo perfetto; a questi è stato però necessario abbinare le determinate motivazioni, fra cui la mia cocciuta volontà di far vedere a mio padre cosa fossi capace di fare con la struttura che mi aveva messo a disposizione e quanto riuscissi a fare meglio rispetto a quel vin da vassel che in zona si produceva in quegli anni. Credo che più di ogni altra cosa sia stato proprio il lavoro di vignaiolo a darmi i giusti stimoli per affrontare la vita, insegnandomi quanto sia importante l’attenzione ai particolari e quanto contino le percezioni delle sfumature che interagiscono in questo mestiere, tutti elementi che, facendo un altro lavoro, difficilmente avrei potuto cogliere. Un’altra fortuna è stata quella di avere al mio fianco una donna eccezionale come mia moglie Nicoletta che, in silenzio, mi è stata sempre accanto, condividendo i sacrifici, le sconfitte, i segnali di riscossa o la fatica che all’inizio si faceva veramente sentire, come quando, dopo un temporale, andavamo a strappare dalla terra i ciuffi d’erba con le mani per mancanza di attrezzature. È a lei che dovrò dire il primo grazie che poi dovrò estendere a tante altre persone.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvinone, Corvina, Croatina e Rondinella provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Marcellise, nel comune di San Martino Buon Albergo, le cui viti hanno un’età che varia dai 5 ai 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona pedemontana su terreni calcarei, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 100 e i 150 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Corvinone 50%, Corvina 20%, Croatina 20%, Rondinella 10% Sistema di allevamento: Guyot e pergola doppia Densità di impianto: dai 3.500 ceppi per Ha nelle vecchie pergole, agli 8.000 ceppi per Ha nei nuovi impianti Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono in poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino a gennaio. Raggiunto il grado di appassimento ideale, le uve si avviano alla pigiatura e il mosto ottenuto subisce una breve crioestrazione a temperatura ambiente, al termine della quale, con l’innalzamento della temperatura, si avvia naturalmente la fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 20 giorni a temperatura ambiente; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase si procede alla svinatura e il vino, dopo un breve periodo di decantazione statica, è posto in botti di rovere da 30 hl e tonneaux tutti realizzati con legni di Slavonia di tostatura e grana media in cui rimane per 27 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di stabilizzazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso di grande luminosità, il vino al naso presenta intense note speziate dolci e di fiori appassiti oltre a belle sensazioni di confettura di prugne e di caffè, carrube, tabacco e un finale piacevole di nuances balsamiche. In bocca è elegante, ampio, equilibrato, morbido e sorretto da una buona freschezza che lo rende lungo e persistente ad un retrogusto che ricorda le caramelle d’orzo. Prima annata: 1999 Le migliori annate: 1999, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino, che porta in etichetta il nome della vecchia casa padronale dei conti Marioni, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Campedelli dal 1986, l’azienda agricola si estende su una superficie di 14 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo lo stesso Stefano Campedelli, mentre collabora in azienda con funzione di enologo Celestino Gaspari. Altri vini I Rossi: Valpolicella Doc Superiore (Corvina Grossa 60% Rondinella 20%, Corvina gentile 10%, Teroldego e altre 10%) Teroldego Igt Veneto (Teroldego 100%) Cabernet Sauvignon Igt Veneto (Cabernet Sauvignon 100%) Passito Igt Veneto (Trebbiano Toscano 60%, Garganega 40%)


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Sandro Boscaini

Ricordo che, quando frequentavo l’università a Milano, vicino al Palazzo della Borsa c’era un “trani”, un posto dove si vendeva il vino, segnalato da tre botticelle poste a fianco dell’entrata, lungo il marciapiede, con su scritto vin ciar, vin scur, vin gros, cioè vino chiaro, vino scuro, vino grosso. Il vino chiaro e leggero era il vino di Verona, quello scuro era il vino piemontese e il vin gros era il vino della Puglia o della Sicilia. Quella grossolana classificazione la dice lunga sia sulla pochezza in cui versava, allora, l’enologia italiana, sia sulla sensibilità e l’attenzione che regolavano il mercato del vino. Era questa la realtà dei primi anni Sessanta e anche se quei tempi sembrano appartenere alla preistoria, è bene ricordare che da allora sono passate solo poche vendemmie. Erano gli anni in cui si cominciavano a vedere, sugli scaffali dei generi alimentari o delle vinerie, le prime bottiglie, ma, nonostante questo, la qualità del vino commercializzato non era molto diversa da quella contenuta nelle botticelle. Vi erano, inoltre, delle zone, in special modo il Veneto e soprattutto la provincia di Verona che, più di altre, sembravano aver intrapreso un trend produttivo irreversibile, orientato a soddisfare, più che altro, gli appetiti commerciali degli industriali del vino, ai quali interessava solo movimentare il maggior numero di ettolitri senza preoccuparsi né della qualità, né della tutela dei territori in cui operavano. Era un momento storico, quello di 47 anni fa, molto gramo per la viticoltura e per il settore del vino, poiché non vi era nessuna cultura sull’argomento, e i concetti di qualità, territorio e ambiente erano ancora di là dall’essere presi in considerazione. Dopo aver conseguito la laurea in Economia e Commercio, il quadro generale che avevo dinanzi a me era abbastanza deprimente; non nego che ebbi un po’ di reticenza prima di decidere di entrare anch’io in azienda, continuando quel business che la mia famiglia portava avanti ormai da cinque generazioni e che, via via, l’aveva condotta a non potersi esimere dal seguire quell’andamento generale che, negativamente, coinvolgeva tutti gli operatori del comparto vitivinicolo nazionale. Pur riconoscendo alla mia famiglia il merito di aver avuto sempre un approccio di grande sensibilità nei confronti della viticoltura, notavo che le mie idee si discostavano molto da quelle di mio padre. Ritenevo che il mercato cominciasse ad essere pronto per “comprendere” vini più complessi, fini ed eleganti, in possesso di caratteristiche qualitative migliori rispetto a quelle proposte fino a quel momento e capaci di soddisfare il gusto della media e alta borghesia, in crescita insieme all’economia in tutto il paese. Non potendo competere con colossi commerciali come Bolla, che allora rappresentavano il vino veronese di un certo lignaggio, pensavo che per la nostra azienda sarebbe stato meglio proporsi sul mercato con prodotti che rappresentassero le potenzialità offerte dalla Valpolicella, puntando, magari, su vini come l’Amarone e il Recioto; vini con grandi margini migliorativi, ma che non erano mai stati sfruttati appieno fino a quel momento. Dopo aver lavorato, per un certo periodo, presso la Fiera di Verona, dove feci una ricerca di mercato sulle possibilità di realizzare in città una fiera campionaria sul vino, fui richiamato in azienda da mio padre, insieme a mio fratello Sergio. Iniziai ad occuparmi dell’attività della Boscaini Paolo & Figli, all’interno della quale curavo in maniera particolare la Masi, nome di un’area geografica in collina con la quale identificavamo un vigneto e una specifica etichetta, trasferendo le mie idee su quel vino. Riuscii in poco tempo a modificare quel marchio in una vera e propria azienda che, cresciuta autonomamente rispetto alla casa madre, in seguito è arrivata ad incorporarla. Mi ero mosso con libertà e con un dinamismo che mi aveva consentito di leggere gli umori di un mercato in continua evoluzione, mentre la Boscaini, rimasta ferma e impossibilitata a liberarsi dalle incrostazioni che bloccavano qualsiasi sviluppo commerciale, si trovava ingabbiata da alcuni vizi organizzativi e manageriali di fondo che l’avevano condotta a seguire ciecamente lo stesso andamento generale che spingeva tutto il settore vitivinicolo di allora a proporre vini mediocri e di scarso appeal qualitativo. Con i primi risultati, arrivarono anche le soddisfazioni economiche e, con esse, anche le prime esportazioni dei miei vini negli Stati Uniti dove, per quanto riguarda i rossi imperavano il Lambrusco, il Chianti, il Barolo e il Valpolicella, mentre, per i bianchi, la faceva da padrone il Soave. Ricordo che, fra il 1972 e il 1973, visto che ero uno dei pochi che viaggiava e andava in Nord America, fui incaricato dalla Camera di Commercio di Verona di fare un’indagine sulla presenza dei vini veronesi a New York e non nego che rimasi esterrefatto davanti a 273 differenti etichette! Ogni azienda ne produceva sette o otto, tutte vendute, chi più e chi meno, ad un prezzo che oscillava intorno a un dollaro. Anche se non avevo bisogno di ulteriori conferme, quello studio mi dette la certezza che la strada che avevo intrapreso era quella giusta e che la situazione era


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Campolongo di Torbe insostenibile e, alla lunga, avrebbe comportato l’implosione di tutto il comparto vitivinicolo veronese. Così, senza indugiare, distaccai sempre più la Masi da quel tipo di mercato, orientando le scelte aziendali verso una maggiore qualità produttiva, ricercata attraverso una sempre maggiore pluralità di territori, che, negli anni, si concretò in altrettante aziende agricole sparse dal Veneto al Friuli, dalla Toscana all’Argentina. In tutte queste aziende abbiamo cercato di valorizzare la tipicità dei vitigni autoctoni, come succede da sempre nella nostra provincia di Verona, nei nostri vigneti, situati nelle zone classiche della Valpolicella, del Bardolino e del Soave, e di applicare le tecniche enologiche più tradizionali della nostra zona, come l’appassimento e la doppia fermentazione, con una continua ricerca tecnologica per migliorarle e attualizzarle. Dopo tanti anni mi sono un po’ messo da parte e alla guida dell’azienda c’è, da qualche anno, la settima generazione dei Boscaini, nelle figure di Alessandra e Raffaele, i miei figli, i quali spero non si discostino mai dal principio che il vino è il frutto vero di un territorio ed è anche il prodotto agricolo che meglio di qualsiasi altro rappresenta la sua specifica cultura, essendo l’interpretazione più autentica dello spirito del luogo e della gente che lì vive. Dentro il vino così inteso, ci sono la tecnica, la ricerca, l’impegno, le strategie, l’imprenditorialità, la cultura, la creatività di chi opera intorno ad esso. È per questo che ho voluto che la Masi si facesse promotrice, attraverso la Fondazione che ho costituito, della ricerca di ipotetici compagni di viaggio che, affiancandola, sapessero esprimere, attraverso la propria professione, la propria arte o il proprio mestiere, i valori più rappresentativi di questa specifica entità geografica che si chiama Veneto. Con il Premio Masi, nato alla fine degli anni ’70, ho voluto che fossero premiati tutti coloro che si sono attivati per far conoscere lo spirito che regola la cultura veneta, una cultura che sento appartenermi profondamente e che il vino mi ha dato la possibilità di esprimere.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella e Molinara provenienti dal vigneto Campolongo di Torbe, di proprietà dell’azienda, posto nel comune di Negrar, le cui viti hanno un’età che varia dai 5 ai 20 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi e “toar” basaltici di età eocenica, profondi, sciolti e ricchi di scheletro, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 375 e i 400 metri s.l.m. con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Corvina 70%, Rondinella 25%, Molinara 5% Sistema di allevamento: Guyot e pergola doppia Densità di impianto: dai 3.500 ceppi per Ha nelle vecchie pergole agli 8.000 ceppi per Ha nei nuovi impianti Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede in parte alla raccolta delle uve che sono poste in fruttaio ad essiccare, generalmente fino a gennaio, mentre una buona quantità è lasciata appassire in pianta e raccolta dopo circa 15 giorni, a seconda della varietà e dell’annata, vinificata subito e lasciata in acciaio. Anche le uve poste nel fruttaio, raggiunto l’appassimento ideale, si avviano alla pigiatura e il mosto ottenuto subisce una breve crioestrazione a temperatura ambiente al termine della quale, con l’innalzamento della temperatura, si avvia naturalmente la fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 35 giorni a temperatura ambiente; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce, durante la quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Conclusasi questa fase si procede alla svinatura ed il vino, dopo un breve periodo di decantazione, è posto per un 60% in botti di rovere da 30-40 hl, mentre il restante 40% matura in fusti di rovere di Slavonia e di Allier da 600 lt., in parte nuovi, in parte di II, III e IV passaggio, in cui rimane per 36 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: circa 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso con grande luminosità, il vino al naso presenta intensi profumi minerali di grafite e percezioni speziate dolci, di caffè, fiori appassiti, confettura di prugne, carrube e tabacco che fanno da compagnia ad austere note balsamiche. Intenso è il fruttato semiappassito, con invitanti note di cacao, vaniglia, ciliegia, spezie e frutta sotto spirito. La tannicità è smorzata da una piena ed avvolgente ricchezza del vino. Presenta un’illusione di dolcezza che si evolve durante tutta la degustazione, sempre equilibrata dalla natura forte di questo cru. Il finale è persistente e coinvolgente. Prima annata: 1958 Le migliori annate: 1958, 1964, 1979, 1983, 1988, 1990, 1995, 1997, 2000 Note: Il vino, che prende il nome dalla zona di produzione, raggiunge la maturità dopo 6-8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Masi Agricola Spa è di proprietà della famiglia Boscaini dal 1772. Oggi comprende circa 1.100 ettari vitati nelle Tre Venezie, in Toscana, in Argentina. Il Gruppo Tecnico Masi, a capo del comparto produttivo, è composto da enologi, agronomi, cantinieri, personale di laboratorio, responsabili del marketing. La quota all’export è dell’88% in circa 70 paesi. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc Colbaraca (Garganega 95%, Garganega Rosa e Durello 5%) Possessioni Serego Alighieri Bianco del Veneto Igt (Garganega 75%, Sauvignon 25%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc Mazzano (Corvina 75%, Rondinella 20%, Molinara 5%) Amarone della Valpolicella Classico Doc Vaio Armaron Serego Alighieri (Corvina 65%, Rondinella 20%, Molinara 15%) Campofiorin Igt Rosso del Veronese (Corvina 70%, Rondinella 25%, Molinara 5%) Osar Igt Rosso del Veronese (Oseleta 100%)


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Chiara, Giovanni, Mario e Mauro Stival

Lei forse non sa che sono ormai quasi cinquant’anni che mi trovo su queste terre che acquistai convincendomi subito di non aver fatto un buon affare, di cui non mi sarei liberato facilmente e dalle quali non avrei avuto certamente nessun ritorno economico; ho scoperto molto più tardi che nel primo caso avevo ragione e nel secondo mi sbagliavo grossolanamente. In quegli anni facevo il mediatore comprando e vendendo immobili agricoli, una professione che avevo imparato a svolgere seguendo mio padre Giovanni, ma, pur vivendo a contatto con la terra e conoscendone i pregi e i difetti, non avevo mai avuto l’intenzione di dedicarmi ad essa. Ero giovane ed erano i tempi in cui non pensavo certo alle vigne, né al vino, né a cosa mi poteva riservare il domani: lavoravo per concretizzare giornalmente le proposte che mi venivano illustrate, nella certezza che era meglio concludere un affare oggi che domani non sapendo, come diceva mio padre, se il giorno successivo l’uovo che stringevo fra le mani si sarebbe trasformato in una gallina. Non avevo voglia né di fermarmi, né di mettere radici, né, tanto meno, di frenare il mio esuberante carattere che mi ha sempre portato a ricercare nuove esperienze, grazie anche ad una duttilità intellettiva che avevo acquisito attraverso gli studi classici, i quali si erano arricchiti, successivamente, di una formazione tecnica agricola. Questa preparazione mi aveva permesso di interagire con il mondo esterno con una certa facilità e di avere un’apertura mentale che mi sarebbe servita più tardi per sperimentarmi in diversi campi, arrivando a fare un po’ di tutto nella mia vita, imparando soprattutto l’arte dell’arrangiarsi. Quando mi sposai, pur impegnandomi nella mia attività principale, trascorrevo sempre più tempo in questa azienda che, a quei tempi, vantava solo una quindicina di ettari vitati, su 75 complessivi, e che era condotta da alcune famiglie di mezzadri e da alcuni uomini che hanno lavorato tutta la loro vita al mio fianco. Ricordo che Anna Maria, mia moglie, colse questa mia predisposizione e, come tutte le donne, che risultano essere più concrete degli uomini, mi incoraggiò a dedicarmi con più attenzione a qualcosa che ci potesse garantire una maggiore sicurezza, cosa che la mia professione, all’epoca, non garantiva. Non so se furono i suoi suggerimenti o se, invece, cominciai ad apprezzare il richiamo della campagna, fatto sta che mi fermai, decidendo che era giunta l’ora di cambiare attività e, seguendo il sapore di quella stimolante avventura, mi dedicai a questa azienda che, fino a quel momento, avevo un po’ trascurato pensando solo a mantenerla nello stato in cui l’avevo acquistata. Seguirono anni di grande fermento. Ristrutturai gli immobili e incominciai a vendere l’uva alla Cantina Sociale di Pramaggiore, cosa questa che continuò fino al 1963, quando decisi di costruire una mia cantina, così da incominciare a vendere il vino che producevo. Fu dopo l’alluvione del 1966 che avviai l’imbottigliamento ed etichettai il mio primo vino: il Rosso Moletto, oggi Franconia, che ebbe subito un grande successo. Quando ripenso a quel periodo mi rattristo non solo per il fatto che avevo molti meno anni di adesso, ma anche perché nel complesso vivevamo meglio, c’erano meno vincoli burocratici e balzelli amministrativi e molti affari, almeno qui in zona, si concludevano con una semplice stretta di mano fra gentiluomini. Molte cose sono cambiate a partire proprio da quell’alluvione del 1966. Pensi che l’acqua arrivò fino al secondo piano di questa casa! Quando tutta quella marea se ne andò, rimasero solo fango e distruzione. L’acqua sparì dopo qualche giorno e, con essa, scomparve anche quella cultura contadina che qui aveva resistito per secoli. Per me fu un brutto risveglio. Intorno tutto stava rapidamente cambiando. In molti non se lo ricordano più, o fanno finta di non ricordarselo, ma molta gente, con l’arrivo dei sussidi, distribuiti in conseguenza di quella calamità naturale, incominciò a bruciare le vecchie cose di casa, nei cortili, e anche le stesse abitazioni non subirono sorte migliore: molte di esse vennero abbandonate o distrutte per dare spazio a villette anonime. Arrivarono i mobili di formica e le industrie, che spopolarono la campagna e contribuirono a trasformare non solo questa zona, ma anche la gente.È stata l’alluvione a portarsi via la civiltà contadina di questa parte del Veneto. Io rimasi e, come vede, anche questa casa è rimasta integra e intatta come l’avevo comprata alla fine degli anni Cinquanta. Dopo tanti anni non le nascondo che faccio un po’ fatica a ricordare tutto quello che ho fatto, come ho difficoltà ad inquadrare tutte le cose che oggi succedono intorno a me, ma ciò non mi preoccupa più di tanto, perché mi solleva il fatto di vedere che i miei figli, Mauro, Chiara e Giovanni, sono tutti e tre impegnati in questa cantina e ognuno di loro ricopre un ruolo strategico all’interno dell’azienda, con quella professionalità che il mercato richiede alle imprese che vogliono


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Moletto VSQ Brut Millesimato produrre bene e reggere l’impatto con i tempi che cambiano. Li osservo e vedo che sono in continuo fermento, mai statici, sempre attenti ad ogni minimo particolare, sempre indaffaratissimi, ma vederli sereni e in armonia fra loro mi riempie di gioia. C’è chi, come Mauro, si occupa da anni dell’aspetto commerciale dell’azienda, chi invece, come Chiara, di comunicazione e chi, come Giovanni, della produzione. Mentre io, che sono ormai avanti con gli anni, osservo e consiglio, ma non le nascondo che certe volte mi sento un po’ perso nel vedere questo loro continuo tourbillon e questi continui cambiamenti a cui sono chiamati per reggere il confronto con una concorrenza che è sempre più agguerrita e sa perché? Perché non tutto mi sembra logico come invece mi dicono che sia. Lei pensi che in questi 47 anni ho lavorato sodo per mettere a dimora ben 21 tipologie di vitigni e oggi vedo che i miei ragazzi sono costretti pian piano ad estirparli, uno alla volta, solo per soddisfare le richieste di un mercato che cerca, sempre di più, vini omologati. Mi dispiace molto, perché lei non può capire quale sia stato lo sforzo che ho fatto per far conoscere sempre più quelle tipologie di prodotti e vedere che oggi il mercato non riserva loro l’attenzione che meriterebbero mi rattrista. La cosa più sgradita è constatare quanto sia grande ancora l’ignoranza che regna in questo mondo del vino. Del resto, come diceva mio padre, si vende quello che la gente chiede non quello che si vorrebbe vendere. Ma questo non allevia certo la mia tristezza. Quando dico queste cose, i miei figli mi rimproverano e forse hanno ragione e anche lei, forse, pensa che io mi stia sbagliando. Non ci posso far niente. Davanti a certe cose non so tacere. È come se vedessi buttare al vento una parte di quelle cose per le quali ho lavorato e che ho difeso per tanti anni, anche quando nessuno mi conosceva e con risoluta determinazione e orgoglio dicevo, a quel mercato scettico e distratto, di provare prima di giudicare, perché già allora ero sicuro che i vini che producevo erano vini di razza: razza del Piave.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Pinot Bianco provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Belfiore nel comune di Pramaggiore, le cui viti hanno un’età media di 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona pianeggiante su terreni di origine sedimentaria alluvionale tendenti all’argilloso con presenza di concrezioni calcaree e strati di aggregazioni di carbonati, sono situati a 15 metri s.l.m, con un’esposizione est / ovest. Uve impiegate: Pinot Bianco 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica del mosto, che avviene alla temperatura controllata di 10°C per 12 ore, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica, la quale si protrae per 7 giorni, alla temperatura di 16°C ed è svolta in tini di acciaio inox. Conclusasi questa fase, il vino subisce una prima chiarifica e dopo circa 1 mese il 50% della massa è posto in barriques di primo, secondo e terzo passaggio, in cui rimane mediamente per circa 20 giorni. Alla conclusione di questo breve periodo si procede all’assemblaggio delle partite, quindi il vino è messo in autoclave dove si procede alla sua spumantizzazione con periodici bâtonnages e con una fermentazione lunga svolta a 15°C, alla conclusione della quale si procede a un repentino abbassamento della temperatura fino a 0°C lasciando così il vino per 19-24 mesi prima che sia filtrato e imbottigliato per un ulteriore affinamento di almeno altri 4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 13.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Uno spumante dal colore giallo paglierino brillante che si presenta con un perlage fine, minuto, delicato e persistente; all’esame olfattivo risulta schietto, fresco, avvolgendo il naso con sensazioni di mandorle fresche che si accompagnano a piacevolisssime note fruttate e floreali. In bocca ha un’entratura morbida, equilibrata, pulita e armoniosa su un fondo di note fruttate. Prima annata: 1981 Le migliori annate: 1995, 1998, 2000, 2003, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Stival dal 1959, l’azienda agricola si estende su una superficie di 120 Ha, di cui 100 vitati e 20 occupati da seminativi. Svolge funzione di agronomo e di enologo Giovanni Stival coadiuvato dal padre Mario. Altri vini I Bianchi: Lison-Pramaggiore Chardonnay Doc (Chardonnay 100%) Lison-Pramaggiore Lison Classico Doc (Tocai 100%) Lison-Pramaggiore Pinot Bianco Doc (Pinot Bianco 100%) I Rossi: Cabernet Sauvignon Selecti Igt (Cabernet Sauvignon 100%) Franconia Igt (Franconia 100%) Piave Raboso Doc (Raboso 100%)




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Luca e Marta Magnabosco, Paola Tolo, Gino Magnabosco

Non so quale sia l’alchimia che regola il destino degli uomini o se vi siano, invece, precisi disegni divini che stabiliscono quali competenze e impegni ogni uomo deve assumere su questa terra. Credo che uno nasca con la predestinazione di dover esercitare un mestiere, quindi c’è chi è nato per fare l’avvocato o l’operaio, il muratore o il medico, l’ingegnere o l’impiegato. Io dovevo fare, sicuramente, il vignaiolo o tutt’al più il “domatore di montagne”, come mi chiama scherzosamente qualche amico giornalista, anche se entrambe le indicazioni sono solo la cima di un grande albero che affonda le proprie radici nella passione sfrenata per la terra. Non riesco a staccarmi da questo elemento, poiché ho il bisogno innato di un suo epidermico contatto giornaliero che mi dà energia ed emozioni, mi mantiene in armonia con me stesso e in equilibrio con quello spirito esuberante e forte che mi contraddistingue. Non a caso trascorro giornate intere in mezzo alle vigne, con il sole e con il vento, circondato dalle mie viti, le quali per me hanno un significato speciale fin da quando la mia famiglia accudiva, con maniacale e certosina attenzione, quel mezzo ettaro di vigneto di proprietà del nonno Angelo che mi aiutò, a otto anni, a fare il mio primo vino. Credo che dietro a tutto questo vi sia anche un bisogno “terapeutico” per poter dare libero sfogo a quell’enorme energia che ho dentro e che nessun essere umano sarebbe in grado di poter assorbire, la stessa energia che mi ha permesso di passare dall’iniziale mezzo ettaro di cinquant’anni fa agli attuali 37, disegnando nel frattempo i lineamenti delle mie colline, domando le asperità delle montagne o costruendo con le mie mani tutto quello che è possibile vedere in quest’azienda. È a questa passione che ho dedicato la vita, ricevendo in cambio un senso di affrancamento e di rivalsa, non nei confronti degli altri, ma verso quel destino che sembrava mi avesse predestinato ad un mestiere ricco solo di grandi sacrifici e nulla più. Del resto nessuno ti regala niente ed è sempre stato così anche quando ho fatto il muratore, il bracciante agricolo o quando, per pagare l’affitto del primo vigneto che successivamente acquistai, lavoravo di notte in una vetreria, mentre di giorno stavo nelle vigne senza mai guardare se avessi lavorato quindici o venti ore. Il bello è che è stato così per moltissimi anni e per tutti i giorni di ogni anno che ho passato dividendomi fra questa terra e la vetreria, rinunciando anche per molto tempo a qualsiasi passione o distrazione. Posso assicurare che non è stato facile e ci sono stati momenti durante i quali ho combattuto per delle sfide importanti, come quando decisi di comprare, alle spalle di questo colle di Monte Tondo, la montagna di Facarin Slavini, un’alta collina dove nessuno si era mai azzardato a piantare una sola vite. La causa era da imputarsi alle ripetute frane che si verificavano periodicamente sui suoi pendii che non consentivano nessuna coltura, tranne il mantenimento di un bosco, tagliando il quale pagai l’acquisto del terreno. Fu un’opera “faraonica” che mi vide impegnato per due anni, durante i quali costruii direttamente sul tufo che avevo trovato scavando ben 35 terrazzamenti alti oltre due metri riportando sopra a quella pietra la terra che in precedenza avevo tolto. Successivamente piantai viti e olivi avendo però prima canalizzato le acque piovane e drenato tutto il terreno perché non si verificasse più nessuna frana. È con quell’opera che mi sono conquistato il titolo di “domatore di montagne” e penso anche di poter confermare tale appellativo, lavorando con il solito sistema i quindici ettari attigui che ho appena comprato. Comunque in questi ultimi trent’anni ho dovuto domare ben altre cose, oltre le montagne; mi basta pensare a quando, nel 1985, fui costretto a produrre i miei primi 25 ettolitri di vino. Erano i tempi in cui vendevo le uve alle cantine Bolla con le quali avevo pattuito un prezzo che al momento della consegna, non era mai rispettato. Ero stanco di quei soprusi e rammento che, senza indugio, non volendo cedere a nessun ricatto, secondo la mia abitudine, non scaricai il trattore e riportai le uve a casa facendole fermentare a “bagnomaria” con un marchingegno che m’inventai lì per lì e che consisteva in una vasca di vetroresina, tagliata oltre la metà, al cui interno misi un’altra vasca più piccola, facendo circolare, nell’intercapedine che si era formata fra i due contenitori, dell’acqua fredda, così da avere una parvenza di controllo della temperatura durante la fermentazione. Nacque così il primo vino della cantina Monte Tondo ed è così che sono partito. Rammento che già nel mese di marzo dell’anno successivo alla vendemmia in cantina non avevo più neanche un litro di quel vino, che avevo già provveduto a vendere in damigiane, consegnate tutte


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Recioto di Soave DOCG Affinato in Barrique con la mia vecchia Renault 4. Non mi sono mai perso d’animo davanti a niente e tutto questo sai perché è stato possibile? Perché per me il lavoro è sempre stato passione e perciò niente mi è sembrato mai una fatica, una sofferenza o un sacrificio, bensì il naturale svolgersi del destino che per me era già stato scritto. Se penso a quel primo ettaro di terra, comprato nel 1977 e agli ultimi, comprati in questi giorni in Valpolicella, e se ci metto in mezzo tutto quello che c’è stato e tutto quello che ho costruito, non credo di essermi limitato solo a fare il “domatore di montagne”, ma anche a svolgere mansioni ben più difficili. Non è forse vero? In questo mi hanno aiutato molto la mia testardaggine, la mia onestà, la mia correttezza e tutti quei valori nei quali credo ancora, come l’amicizia e l’etica che può scaturire anche dalla stipula di un contratto effettuato con una semplice stretta di mano fra persone serie. È anche vero che, per mantenere fede a me stesso, ho dovuto superare una serie di problemi, complicazioni e difficoltà, tutte “domate” grazie a questo carattere curioso, irascibile e determinato che mi spinge ad approfondire la conoscenza delle cose semplici e naturali di cui mi circondo. È così e io continuerò ad essere quello che sono, ad amare quello che amo, a piantare vigne e se necessario a domare colline e montagne. Che vi piaccia o no, sarà sempre così!

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Monte Tondo nel comune di Soave, le cui viti hanno un’età compresa tra i 3 e i 70 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni basaltici, “toar”, ricchi di minerali e argillosi, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 150 e i 420 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio per l’essiccazione naturale; qui i grappoli rimangono fino alla metà di gennaio dell’anno successivo alla vendemmia, dopo di che si procede alla pigiatura dell’uva e il composto, inoculato da lieviti naturali di Recioto in prefermentazione, è avviato alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 50 giorni a temperatura ambiente. Terminata questa fase, il vino è posto in barriques di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di 2° e 3° passaggio in cui rimane per 18 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 8 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5.000 bottiglie da 375 cl. l’anno Note organolettiche: Un bel colore giallo oro brillante fa da preludio a intriganti note olfattive di albicocche candite, miele, frutta esotica e vaniglia. In bocca è dolce, suadente, morbido, caldo, potente, con una buona dose di sapidità e una freschezza che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1998, 2000, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dalla “reccia” (orecchia), la parte più dolce del grappolo che in dialetto veneto è chiamata “recia”, raggiunge la maturità molti anni dopo la vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Gino Magnabosco dal 1979, l’azienda agricola si estende su una superficie di 30 Ha, di cui 25 vitati e 5 occupati da prati e boschi. Svolge funzioni di agronomo e di enologo lo stesso Gino Magnabosco coadiuvato dal figlio Luca. Collabora in azienda l’enologo Luca D’Attoma. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc (Garganega 100%) Soave Classico Doc Casette Foscarin (Garganega 90%, Trebbiano di Soave 10%) Soave Classico Docg Superiore Foscarin Slavinus (Garganega 100%) Recioto di Soave Docg Spumante (Garganega 100%) I Rossi: Rosso Giunone Igt (Cabernet Sauvignon 100%) Valpolicella Doc San Pietro (Corvina 55% Rondinella 30%, Molinara 15%)


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Annalisa e Primo Franco

È con molto orgoglio che dico di appartenere a una famiglia di negozianti, cioè di coloro che hanno sempre lavorato comprando le uve e il vino. Del resto è questa l’origine da cui provengono tutti coloro che operano da più di cinquant’anni in questo settore. Perché dovrei imbarazzarmi delle mie radici? Devi sapere che il mercato del vino, almeno in Italia, esiste grazie ad abili commercianti che hanno saputo costruirlo e farlo prosperare, scegliendo le uve più adatte, dalle quali, con capacità e intuito, hanno ricavato vini che potevano essere anche giudicati grossolani e anonimi, ma non disprezzabili e sui quali si basava non solo la loro economia, ma anche quella di innumerevoli famiglie di contadini. C’erano due mondi ben distinti: chi si occupava di viticoltura e chi produceva vino e lo vendeva. Questa è storia e nessuno può asserire il contrario. Sono stati quegli stessi “uomini del vino” che hanno cambiato il corso della storia dell’intero comparto vitivinicolo italiano, prima adeguandosi e poi interpretando l’evoluzione dei mercati. È stato sempre in conseguenza del loro operato che si è venuta a creare attenzione e si è costruito un movimento culturale intorno al vino che ha dato vita, molto più tardi, ai vignerons. Erano i tempi in cui non esistevano ancora le Denominazioni di Origine Controllata e i vini seguivano regole produttive molto diverse da quelle odierne, ma il fatto che le aziende crescessero, spinte da una forte domanda e riuscissero a soddisfare i mercati, era un buon segno. L’attenzione crescente verso il vino che, impercettibilmente ma costantemente, aumentava ogni giorno, è stata stimolata dai negozianti, categoria alla quale mi pregio di appartenere, anche se non posso certo negare che, a quei tempi, la qualità nei vini era cosa rara da trovare e le poche varietà commercializzate venivano proposte raramente in bottiglia, ma quasi sempre in damigiane, fusti e bottiglioni da due litri con il tappo a corona. La mia storia è partita da quella realtà che conoscevo talmente bene da iniziare subito a modificarla. A partire dal 1973, anno del mio ingresso in azienda, ho subito cercato di intraprendere una strada nuova, ma non sono rimasto isolato poiché anche altri si sono impegnati nell’aggiornamento intelligente delle proprie aziende di famiglia, dando loro una nuova e più attuale identità, adatta per i mercati sempre più dinamici e competitivi. Sto parlando di quegli indimenticabili “uomini del vino”, uomini come Fausto Maculan, Roberto Anselmi, gli Allegrini e altri, che, prima degli esperti, delle riviste di settore o di qualsiasi giornalista hanno compreso l’importanza di dare riconoscibilità ai loro vini abbinandoli al territorio in cui stavano operando; una grande intuizione, originata dal senso di rispetto verso la propria cultura enologica, contadina, della quale percepivano una grandezza ancora inespressa. Fu da quell’intuizione che ebbe inizio, agli inizi degli anni Settanta, la sostanziale e radicale modifica delle strategia di molte aziende venete. Quella “rivoluzione” culturale mi convinse di essere nel giusto e non rimpiansi l’eccessiva chiarezza che avevo avuto con mio padre quando gli dissi che sarei entrato a lavorare in azienda solo se avessi avuto la garanzia di una mia totale indipendenza. Del resto lui non aspettava altro, anche perché ci misi un po’ di tempo, dopo aver frequentato la scuola di Enologia a Conegliano e un po’ di Università di Agraria a Padova, a decidere di entrare in cantina. L’azienda, la cantina, il vino, per me, in quel periodo, potevano attendere: ero giovane, mi piaceva divertirmi e non sentivo il peso di dover prendere delle decisioni in tal senso. Mio padre Nino, un omone di un metro e novanta per centoventi chili, curioso e attento osservatore delle virtù umane, era ben consapevole di quanto un giovane “impari giocando” e comprese che con quel mio comportamento, apparentemente goliardico, stavo rispettando in pieno le stagioni della vita. Fu per questo che mi concesse l’opportunità di viaggiare per il mondo e di conoscere altre realtà vitivinicole. Aveva capito che, a differenza di lui, avrei dovuto conoscere cosa vi fosse al di là del Piave, il nostro fiume sacro, per poter guardare in faccia questo mondo che si era messo a correre così all’improvviso. Così, senza mai una forzatura, attese che i tempi maturassero e che io, dopo aver soddisfatto ogni mia smania d’avventura, varcassi la soglia di questa cantina, così da potermene serenamente affidare le redini. Sapeva che la mia sarebbe stata una libera scelta che non avrebbe comportato nessun ripensamento; e così è stato. C’è voluto tempo, ma piano piano ho modificato l’orientamento dell’azienda, concentrando sempre più l’attenzione sul Prosecco ed eliminando i vari Merlot e l’Amarone, di cui conservo ancora qualche bottiglia. Una lenta, ma graduale ascesa verso la qualità che ha comportato un’attenta selezione delle uve provenienti dai vigneti posti nella zona Doc del Prosecco di Valdobbiadene, di proprietà di numerosi conferitori che con il loro lavoro contribuiscono in maniera importante alla realizzazione dei miei vini. Come vedi, tutto sommato non è cambiato niente: qui continuano a coesistere quei due mondi di cui ti parlavo prima e lo fanno in maniera


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Valdobbiadene DOC Superiore di Cartizze intelligente, collaborando nell’intento comune di produrre un buon Prosecco che dia lustro a questo territorio. È chiaro che questo è l’obiettivo che tutti condividono, ma dovrebbe esserlo ancora di più per quel ristretto gruppo di aziende che in questi anni si sono distinte per produzioni enologiche di altissimo valore, le quali non devono abbassare l’attenzione dopo i successi, ma continuare a qualificarsi e a consolidare le loro posizioni sui mercati internazionali in modo da creare un movimento culturale intorno al Prosecco capace di convincere chi dubita ancora sulla qualità di quell’intuizione che lega il vino al territorio. Soltanto procedendo in questo senso potremmo assistere ad un’inversione di tendenza e di giudizio su questo nostro vino che, spesso, viene ingiustamente sottovalutato e sminuito, anche dagli stessi ristoratori italiani, con frasi del tipo “le offro un Prosecchino”, dimostrando di non aver compreso la natura di un vino da tutto pasto, adatto ad ogni occasione, duttile e perfetto per accompagnare le più varie fantasie gastronomiche. Spero che i nostri sforzi possano contribuire a modificare i giudizi negativi che certa stampa, periodicamente, propone sul nostro vino, ma per fare questo c’è da combattere e modificare quella provincialità, tutta italiana, che porta nelle cene di gala a servire lo Champagne. Io non mi arrendo, amo lavorare in cantina, ma viaggio spesso e percepisco tanta curiosità intorno al Prosecco, su cosa rappresenti la Valdobbiadene o quali siano i suoi più accreditati ambasciatori. In quelle occasioni non parlo soltanto della mia azienda, ma del territorio in cui è inserita e con esso anche delle sue particolarità, accorgendomi con quale estatica attenzione mi ascoltino i miei interlocutori. Credo che se tutti lavorassimo in questa direzione molte cose cambierebbero e forse non ci dovremmo più preoccupare di quello che avverrà nel mondo del vino, di quale possa essere il futuro più o meno prossimo del Prosecco in Italia o se fra vent’anni ci sarà sempre e solo un Prosecco trevigiano nel mondo. Se tutti comprendessimo il valore del legame vinoterritorio, ci basterebbe lavorare nel presente e l’attenzione che costruiremmo intorno al Prosecco sarebbe l’elemento più importante per strutturare il futuro alle giovani generazioni, ai tanti ragazzi e ragazze che, come le mie figlie, si affacciano adesso sulle porte delle cantine.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Prosecco provenienti dai vigneti dei conferitori i quali hanno vigneti posti in località Cartizze, nel comune di Valdobbiadene le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di media collina di origine vulcanica, sono situati ad un’altitudine di 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud, sud-est, sud-ovest. Uve impiegate: Prosecco 100% Sistema di allevamento: Doppio capovolto / Cappuccina Densità di impianto: dai 2.500 ai 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede ad una soffice pressatura delle uve raccolte e alla decantazione statica del mosto ottenuto che viene travasato e avviato, con l’aggiunta di lieviti selezionati, alla fermentazione alcolica; questa avviene in vasche di acciaio, per circa 10 giorni, ad una temperatura controllata compresa fra i 16 e i 18°C. Il vino viene poi separato dalle fecce e conservato per la seconda fermentazione, che avverrà in autoclave. Questa seconda fase richiede circa 6 settimane; in seguito il vino, diventato spumante, viene imbottigliato e dopo un breve affinamento in bottiglia è pronto per la commercializzazione. Quantità prodotta: 18.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Uno spumante dal bel colore giallo dorato con un perlage fine, presente e persistente, che all’esame olfattivo sprigiona sensazioni fruttate di biscotti e note di frutta a pasta bianca oltre a nuances floreali di acacia. In bocca ha un’entratura avvolgente, delicata, piacevole; risulta sapido, fresco, pulito e prolunga la sua permanenza in bocca con un retrogusto armonico dai piacevoli ricordi fruttati. Prima annata: 1979 Le migliori annate: 2004, 2005, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dalla tipologia e dalla zona di provenienza delle uve, raggiunge la maturità dopo 8-10 mesi dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 2 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Franco dal 1919, l’azienda vinifica le uve di circa 15-20 conferitori che le raccolgono su 80 ettari della zona classica di produzione. Svolge funzione di enologo lo stesso Primo Franco coadiuvato da Giulio Cassol. Altri vini I Bianchi: Prosecco di Valdobbiadene Doc Primo Franco (Prosecco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Brut Rive di San Floriano (Prosecco 100%) Prosecco di Valdobbiadene Doc Brut (Prosecco 100 %) I Rosati: Rosè Brut Faìve (Merlot 80%, Cabernet Franc 20%)


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Dario, Teresita, Leonildo e Andrea Pieropan

Amo guardare queste verdi valli, i dritti filari dei vigneti e i grigi muri a secco che delimitano i loro confini a cui si intervallano il sospiroso sonno degli alberi e il quieto e sorridente mormorio della pioggia che annaffia i miei vigneti e si infrange contro le alte mura della rocca di Soave, che da lassù si mostra fiera alle orgogliose montagne che in lontananza osservano, dall’alto, ogni cosa. Amo questa terra perché è qui che sono nato e cresciuto ed è qui che mi sono appassionato a questo mondo del vino che sento fortemente mio. I miei non sono amori casuali, estemporanei o che nascono improvvisi: appartengono alla categoria di quelli che maturano lentamente e si ramificano nel cuore fino ad intaccare l’animo. Amori che si sono dissetati alla fonte sicura della tradizione della mia famiglia che ha attraversato, in solo tre generazioni, gli ultimi centocinquant’anni di storia dell’enologia italiana, e poi si sono aperti verso nuovi e importanti sogni. Famiglia di produttori di vino la mia, a partire da mio nonno Leonildo, medico chirurgo, che, rispettando la moda del perfetto gentiluomo della seconda metà dell’Ottocento, si dedicava nel tempo libero alla campagna, imbottigliando il Recioto, di cui conservo ancora alcune bottiglie datate 1870, proseguendo poi con mio padre Fausto, classe 1898, che mi ha trasferito la riservatezza, la precisione, l’ordine e un pacato distacco dalla quotidianità, tutte caratteristiche che mi sono servite molto per affrontare questo lavoro e continuando con me, che in questi ultimi quarant’anni ho cercato di tracciare un percorso nuovo per questo territorio e per quest’azienda, approfondendo il solco che mio nonno e mio padre avevano tracciato e sul quale i miei due figli Andrea, agronomo, e Dario, enologo, potranno continuare la splendida avventura che i Pieropan hanno avviato da 150 anni. Una storia iniziata più come cantinieri che come vignaioli, con la quale ho subito compreso di avere un feeling particolare ed importante, che è andato trasformandosi man mano che prendevo contatto con le vigne e coscienza di quanto fosse splendido il lavoro di contadino che mia moglie Teresita mi ha insegnato ad amare. Teresita ha contribuito a costruire questa azienda, quanto e forse più di me, convincendomi a investire ogni nostro guadagno nella terra e nei vigneti che, negli ultimi trent’anni, sono passati da tre a cinquanta ettari. Mi è stato subito chiaro di avere un’innata predisposizione per questo mestiere e ne era testimonianza il fatto che, appena avevo la possibilità, fin da giovanissimo trascorrevo le mie vacanze qui, in campagna, in questa cantina di famiglia. Fu mio padre che mi iscrisse all’Istituto Tecnico Agrario di Conegliano Veneto, poiché, come è facile intuire, nel 1962 era difficile per un ragazzo di quattordici anni capire cosa volesse fare nella vita. A quei tempi del resto, non si decideva, ma si accettava ciò che la famiglia stabiliva per te. Mi bastarono pochi anni per comprendere che quella che mio padre mi aveva spinto a intraprendere era proprio la strada giusta. Quella scuola mi piaceva e ricordo che appena diplomato, nel ‘67, mi misi subito al lavoro in cantina con grande entusiasmo, sperimentando nuove tecniche di pressatura e altri innovativi meccanismi tecnologici che portarono, poco dopo gli inizi degli anni Settanta, i nostri vini a una notorietà che valicò i confini provinciali. Furono momenti di grande euforia, anche se all’inizio vi erano state difficoltà e incomprensioni con mio padre che stentava a darmi fiducia, poiché, avendo ormai da anni un consulente in azienda che gli forniva un supporto tecnico sufficiente a garantirgli un costante standard produttivo, guardava con diffidenza le innovazioni che volevo apportare ai processi di lavorazione delle uve, diffidando, per cultura, di ciò che non conosceva. Chi lascia la via vecchia per la nuova non sa quel trova… Così sembrava pensarla mio padre ed io, all’inizio, per il quieto vivere fui costretto ad accettare anche un secondo grado di giudizio, oltre il suo. La svolta avvenne poco dopo essermi sposato, quando mia moglie, con il suo carattere esuberante e quanto mai concreto, scosse il torpore e la riservatezza di questa casa, portando un’aria nuova in tutto l’ambiente di lavoro, che noi avevamo sempre affrontato con una certa rigidità e con tale precisione e impegno da esserci un pò distaccati dalla realtà del paese. Lei, soavese doc, rivoluzionò le cose e aprì la famiglia alla comunità paesana, mi convinse dell’importanza e del valore che la terra avrebbe assunto spingendomi a comprare i vigneti, gli stessi che oggi mostro con soddisfatto orgoglio di vignaiolo. Quello che intrapresi, a partire dagli albori della mia carriera di vignaiolo, fu un viaggio orientato all’innalzamento della qualità dei vini prodotti e anche se i risultati non tardarono ad arrivare, devo dire che fu un viaggio lungo e faticoso, soprattutto perché, come produttore e per tanti anni, l’ho affrontato in assoluta solitudine. Posso assicurare che in quegli anni raccontare, da piccolo e semplice vignaiolo, al mercato nazionale e internazionale quali fossero le reali potenzialità del vino Soave non era una cosa semplice.


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Soave Classico DOC La Rocca Il nostro vino, allora, era in mano agli industriali che commercializzavano prodotti anonimi, spogli di qualsiasi riferimento con il territorio. Tutto ciò contribuiva inevitabilmente ad abbassare e a compromettere l’immagine del Soave. Per molti anni fui l’unico a credere che dalla Garganega si potessero ottenere grandi vini e nella speranza che prima o poi ciò che facevo potesse essere di esempio anche ad altri produttori, continuai a investire e a migliorare gli impianti vitati e la tecnologia in cantina, pur sapendo che non sarei mai riuscito a far conoscere le reali potenzialità di questo territorio se anche altri non avessero seguìto il mio esempio e non ci fosse stato un risveglio collettivo. In zona non avevo riferimenti da seguire. Non c’era un’azienda leader da prendere a modello e riuscire a far comprendere ai miei amici produttori che la nostra realtà non aveva nulla da invidiare ad altre zone viticole italiane più note era molto difficile, se non impossibile. Potevo solo dimostrarlo con l’esempio, realizzando grandi vini bianchi che facessero parlare di sé nel mondo. Ed è così che ho lavorato. Ci sono voluti 10-15 anni di tenacia, passione, oculati investimenti e grandi sacrifici per arrivare a constatare che oggi, su quello stesso solco che io ho entusiasticamente contribuito a tracciare, sono in tanti a muoversi e questo mi rende immensamente felice e meno preoccupato riguardo al futuro di questo territorio. A posteriori devo dire che furono anni molto belli, nei quali mi sono espresso al massimo; anni che hanno visto un miglioramento continuo della mia produzione vitivinicola, essendo io libero da qualsiasi interferenza esterna; anni durante i quali mi sono buttato a capofitto nel lavoro con il piacere e il gusto di perseguire grandi risultati, ricevendo grandissime soddisfazioni con riconoscimenti di stima un po’ ovunque nel mondo. Ancora oggi non è venuto meno quell’entusiasmo iniziale e lo dimostrano i tanti progetti che ho in programma di realizzare con i miei figli e mi sento pervaso da una grande euforia nel constatare che il vino di Soave si è ormai riscattato grazie alle molte aziende che hanno migliorato la loro produzione enologica e hanno condotto il territorio a usufruire di questo splendido momento costruito dalla nostra viticoltura soavese.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dal vigneto di 6 ettari di proprietà dell’azienda, posto nelle vicinanze del Castello Scaligero di Soave sul Monte Rocchetta, nel comune di Soave, le cui viti hanno un’età compresa tra i 18 e i 60 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei e argillosi è situato ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 240 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Pergola semplice nei vecchi impianti, spalliera con potatura a guyot e cordone speronato nei nuovi impianti Densità di impianto: 4.200 ceppi per Ha nei vecchi impianti, 5.600 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di ottobre, si procede ad una soffice diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato viene lasciato per 4 ore in pressa a temperatura ambiente, Dopo una pulizia statica di 30 ore, il mosto si avvia naturalmente, senza l’aggiunta di lieviti, alla fermentazione alcolica che si protrae mediamente per 21 giorni ed è svolta per i primi 4-5 giorni in un unico recipiente di acciaio inox, poi in tonneaux a grana fine di media tostatura di primo, secondo, terzo e quarto passaggio, e in botti da 20 hl, anch’esse di rovere francese a grana fine. Prima che finisca la fermentazione il vino viene travasato e riposto ancora nel legno dove rimane per 12 mesi, durante i quali vengono effettuati periodicamente, soprattutto nella prima parte, dei bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Trascorso questo anno si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una breve pulizia statica, senza filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 33.000-38.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta all’esame visivo di un bel colore giallo oro brillante, mentre al naso sprigiona piacevoli sentori mielosi, quasi dolci che si aprono ad un percorso olfattivo complesso di note fruttate di mango, melone giallo e pompelmo rosa fino a quelle di fiori di rosmarino e pietra focaia. In bocca risulta avvolgente, rotondo e nello stesso tempo estremamente elegante, sorretto da una struttura equilibrata fra le percezioni fruttate e una grande acidità; finale lungo e persistente. Prima annata: 1978 Le migliori annate: 1978, 1983, 1988, 1990, 1993, 1996, 1998, 2003, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dalla località dove si trova il vigneto (nelle vicinanze della Rocca del Castello di Soave), raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e gli 8 anni. L’azienda: Di proprietà di Leonildo Pieropan dal 1972, l’azienda agricola si estende oggi su una superficie di 42 Ha, tutti vitati (30 a Soave, 12 ad Illasi per il vino rosso). Svolge la funzione di agronomo Andrea Pieropan, Dario Pieropan quella di enologo. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc Calvarino (Garganega 70%, Trebbiano di Soave 30%) Soave Classico Doc (Garganega 90%, Trebbiano di Soave 10%) I Rossi: Ruberpan Igt Rosso Veronese (Corvina 60%, Corvinone, Croatina e Rondinella 40%) I Dolci: Recioto di Soave Docg Le Colombare (Garganega 100%) Passito della Rocca Vino Passito Igt (Sauvignon 60%, Riesling Italico 30%, Garganega 10%)




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Tommaso Piovene

Non so spiegarne il motivo, ma dovunque io vada, rimango sempre affascinato da chi ha saputo costruire un suo dialogo con il tempo e ponendosi in equilibrio con il suo divenire sa mantenere viva la memoria del proprio passato. Non è detto che si sperimentino queste emozioni solo tra le mura di vecchi manieri, castelli, dimore storiche che, innumerevoli, punteggiano ogni provincia italiana o che sia possibile ascoltarle soltanto raccontate da chi, per privilegio di nascita, appartiene alla nobiltà terriera o alla borghesia blasonata e ha molte “storie private” meritevoli di essere raccontate. A me succede di ritrovare quelle emozioni anche nel fascino nascosto delle vecchie e popolari case di campagna, in quei grandi casolari abitati da più famiglie o nei villaggi rurali che sono rimasti osservatori attenti e silenziosi delle virtù, dei difetti e di quella quotidianità, né aristocratica, né borghese, di contadini, fattori o prelati che li hanno abitati. Qui percepisco la vitalità della storia di quelle mura che sono ricche, ancora oggi, di una forte energia e, con la loro pur modesta presenza di umili case di campagna, sono in grado di narrare, agli attenti viaggiatori, storie uniche e meravigliose. Non nascondo che è questa la sensazione che avverto immediatamente, a livello epidermico, nell’osservare la villa, i vecchi granai, le rimesse degli attrezzi e le vecchie stalle, ormai non in uso, della tenuta di Tommaso Piovene. Non so come mai, ma non sono sorpreso di questo. Percorrendo una piccola strada che da Villaga conduce a Toara, dove si trova l’azienda Piovene Porto Godi, sono rimasto affascinato nell’attraversare una curatissima vallata all’estremità della quale, nell’angolo alto, si trova la tenuta: proprio all’inizio dei Monti Berici, di fronte alla bassa vicentina, davanti alla quale si apre la grande pianura che scivola verso il Po. In ogni dove vedo campi curati, verdi come ramarri al sole e, poco più in là, ad un centinaio di metri dall’ingresso della fattoria, una ventina di semplici e “sonnolenti” case che delimitano un altro angolo di questo splendido paesaggio, il quale, da solo, giustifica il viaggio e la mia curiosità di scoprire l’interpretazione che Tommaso, il padrone di casa, ha dato al suo Tocai Rosso, un vitigno che, da ciò che ho sentito dire, non è di facile vinificazione. Entrando nel grande cortile adiacente la casa padronale che, pur avendo conosciuto ben altri splendori, ha mantenuto inalterato tutto il suo fascino, ho la netta percezione che il tempo si sia fermato, anzi che qui non sia mai esistito. È in questi luoghi che mi convinco sempre più che il tempo sia una trascurabile invenzione umana. Alessandro, il padre di Tommaso, ha ereditato l’azienda dalla madre, ultima discendente della famiglia Barbaran, proprietaria delle terre di Toara almeno dal 1400. Qui, come in tantissimi altri luoghi che ho visitato, sembra esistere solo un lunghissimo presente che continua a dipanarsi imperturbabile senza che nessuno sia ancora riuscito a circoscriverlo, quantificarlo e nemmeno a raccontarlo tutto. Non nascondo che mi piacerebbe parlarne, poiché sarebbe bello narrare, nelle pagine di un libro, tutti quegli sconosciuti momenti che, uno dopo l’altro, hanno riempito la vita di questo luogo che, come magnifico interprete di ciò che è stato e di ciò che sarà, appartiene ad una dimensione che non è più sfiorata dall’inesorabile scorrere del tempo a cui mi sottometto. Mentre attendo che si dia il via al rito giornaliero che mi conduce, di cantina in cantina, alla scoperta del Vigneto Veneto e della sua migliore produzione enologica, mi ritrovo a immaginare un tempo in cui, forse, qui si esercitava un’economia curtense e, in questa grande aia, vi sarà stato tutto un pullulare di attività, di contadini e di mezzadri che si davano un gran daffare per rispettare i ritmi ordinati delle stagioni. Rimango un po’ con gli occhi chiusi, nella speranza che qualche voce mi giunga da quel lontano presente, ritrovandomi, però, ad ascoltare, invece, un profondo silenzio, lo stesso che si doveva sentire qui attorno il giorno dopo una serata di grandi festeggiamenti, quelli che si svolgevano sicuramente almeno due volte all’anno: alla fine della trebbiatura e alla fine della vendemmia. È questo silenzio, più di ogni parola, lo strumento più eloquente che dà forza alle storie custodite nei mattoni di questa dimora e che sono state scritte nel tempo da tutti quegli uomini e quelle donne che, per motivi diversi, sono passati o vissuti in questo luogo. Storie tutte diverse fra loro, ma simili nel raccontare dei sacrifici, del duro lavoro, dell’impegno e dell’ingegno di questa gente veneta; storie che parlano di emigrazione, di industrializzazione, di addii tristi e di speranze ritrovate. Vorrei parlare di queste mie percezioni con Tommaso, che è ancora indaffarato a preparare la degustazione, ma rinuncio poiché mi sono accorto che egli non è uno di quegli uomini


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Colli Berici DOC Tocai Rosso Thovara che si potrebbero definire “loquaci”. Ricevo risposte secche, precise, tagliate quanto e forse più delle mie domande che sembrano invece aprirsi a più interpretazioni. Per quanto “minimaliste”, le risposte di Tommaso hanno il merito non solo di confermare alcune mie impressioni su questo magnifico luogo, ma di farmi conoscere meglio anche il mio ospite che mi sembra interamente concentrato, al momento presente, a rispettare i ritmi regolari della sua quotidianità che lo vede impegnato sul suo vino, nella sua campagna e nella famiglia. La sua appassionata concentrazione, i suoi gesti, il luogo dove si svolge la degustazione, gli arredi e un’infinità di piccoli particolari contribuiscono a far espandere ancora di più quel lungo presente a cui egli appartiene e verso il quale, con notevole sensibilità, pone attenzione, cercando di non alterarlo o modificarlo in nessun modo, avendo cura, contemporaneamente, di non farlo però cadere in un pericoloso oblìo. Lo guardo e mi sembra che anche in lui nulla sia cambiato e ho la sensazione che non ci sia niente di diverso da ciò che era tanti anni fa, eccetto forse alcuni banali segni esteriori come una ruga o qualche capello bianco in più. Tutto in lui è identico e forse il merito di questo sta nel fatto che, come diceva il grande Pascoli, è riuscito a mantenere vivo dentro di sé quel “fanciullo” curioso, irriverente ed entusiasta della vita. È forse grazie a quel suo stupore e a quella sua inesauribile curiosità di fanciullo che Tommaso è rimasto in questa campagna e davanti alla stessa porta della cantina. In silenzio degusto il suo Tocai e penso che, in definitiva, sono queste le storie che vado cercando fra le vigne italiane e qui, senza che nessuno me l’avesse raccontata, sono sicuro di averne scoperta una. Non c’è bisogno che Tommaso si adoperi a ricordare o a parlare: sono queste mura che mi stanno dicendo tutto ciò di cui ho bisogno per poter capire e raccontare Piovene Porto Godi.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Tocai Rosso provenienti da due vigneti dell’azienda, posti in località Toara, nel comune di Villaga, le cui viti hanno un’età di 7 e di 45 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argillosi e calcarei, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 70 e i 220 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Tocai Rosso 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha nel vecchio vigneto, 7.000 ceppi per Ha nel nuovo Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e il pigiato si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae per 20 giorni a temperatura non controllata in tonneaux aperti; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura soltanto 12 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e follature manuali giornaliere. Al termine di questo periodo, il vino viene assemblato e dopo un breve periodo di defecazione è posto nuovamente in tonneaux, questa volta chiusi, dove svolge la fermentazione malolattica e in cui rimane per 12 mesi. Avviene quindi l’assemblaggio delle partite e, dopo un periodo di decantazione in acciaio di 6 mesi, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 5.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino, il vino si presenta all’esame olfattivo con note speziate di pepe e di frutti del sottobosco quali fragoline selvatiche e lamponi. In bocca è elegante, con una fibra tannica ben presente, ma evoluta che accompagna una bella freschezza; piacevole al retrogusto, risulta lungo e persistente. Prima annata: 2000 Le migliori annate: 2000, 2003, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dall’antico toponimo della borgata di Toara (che significava “terra buona”), raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e gli 8 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Piovene dal 1927, l’azienda agricola si estende su una superficie di 222 Ha, di cui 28 vitati e 194 occupati da oliveti, boschi e seminativi. Svolge funzione di agronomo Tommaso Piovene, mentre collaborano in qualità di enologi Flavio Prà e Giovanni Nordera. Altri vini I Bianchi: Colli Berici Doc Pinot Bianco Vigneto Polveriera (Pinot Bianco 90%, Pinot Grigio 10%) Colli Berici Doc Sauvignon Vigneto Fostine (Sauvignon 100%) I Rossi: Colli Berici Doc Cabernet Vigneto Pozzare (Cabernet Sauvignon 70%, Cabernet Franc 30%) Colli Berici Doc Tocai Rosso Vigneto Riveselle (Tocai Rosso 100%) Polveriera Igt (Merlot 40%, Cabernet Sauvignon 40%, Cabernet Franc 20%)


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Graziano Prà

Condivido il pensiero del fondatore di Slow Food “Carlin” Petrini quando afferma che il vino deve essere buono, pulito e giusto. Ho sempre applicato questi principi durante tutta la mia attività di vignaiolo in terra di Soave, cercando di trasformare l’azienda in cui produco l’uva in un’isola felice dove poter vivere facendo crescere i miei figli in un ambiente sano. Pur non avendo la capacità oratoria di “Carlin”, né una verve da scrittore, ma dando retta esclusivamente alla mia coscienza e al grande senso del rispetto che nutro per gli altri, ho messo in pratica quei semplici, ma precisi concetti, senza che nessuno mi dicesse cosa dovessi fare. Sono idee chiare che dovrebbero essere seguite da tutti coloro che operano nel mondo del vino, dove non c’è nessuno che può affermare che il vino deve essere cattivo o, di conseguenza, negare che il vino deve essere buono. Sembrerebbero ovvietà, ma non è così. Infatti, in quel “buono” si nasconde un pensiero più profondo che va oltre l’appagamento dei sensi ed entra non solo nell’interiorità degli elementi organolettici, che sono i primi ad essere percepiti, ma tocca sia l’equilibrio che deve esistere fra vitigno, territorio e stagionalità, sia la caratterizzazione di tutti quegli elementi che trasferiscono al vino la tipicità, compreso, naturalmente, il “saper fare” che ogni vignaiolo deve possedere. È logico d’altronde pensare che il vino debba essere anche “pulito” per chi lo consuma e lo produce. Deve essere rispettoso dell’ambiente ed essere il risultato di salubri pratiche enologiche ed agronomiche e quindi anche etico e giusto, poiché, essendo uno strumento economico, ha il grande pregio di mantenere vivi dei presidi socio-culturali che hanno saputo salvaguardare dal degrado i territori e alcune tradizioni viticole importanti. Un prodotto che deve essere capace di distribuire le risorse che sa creare, attraverso l’impegno di chi lo produce, ma anche di chi lo consuma e che, con le proprie scelte, è in grado di aiutare la “sapienza” contadina, valorizzando maggiormente le piccole tipicità produttive in modo che possano combattere, o magari solo contrastare, l’agro-industria e quella omologazione che essa purtroppo partorisce e impone, avendo così più voce in capitolo nella gestione e nel controllo di alcune decisioni governative. Solo in compagnia di queste idee ho trovato la forza di continuare a fare il “piccolo” vignaiolo, nella consapevolezza che essere un vigneron non vuol dire solo produrre poche bottiglie di buon vino, ma anche vivere la terra e l’azienda, interagendo con esse e con tutte quelle azioni che, in maniera diretta o indiretta, mi spingono giornalmente a fare questo mestiere, consapevole di essere un piccolo tassello di un più grande e importante mosaico, rappresentato da questo territorio vitivinicolo di Soave con il quale oggi condivido il mio futuro e quello della mia famiglia. Ho scelto di essere un “piccolo” vignaiolo e ne sono felice, perché tramite questo lavoro ho appagato la mia passione per il vino, che mi ha spinto prima a ricercare, e poi ad ottenere, gratificazioni morali che valgono molto di più di quelle economiche, generalmente fini a se stesse, preferendo raggiungere riconoscimenti prestigiosi piuttosto che pensare a comprarmi una macchina sportiva. Da quando ho iniziato, molte cose sono cambiate e spero che molte altre si trasformino, anche se devo riconoscere che le speranze che, con il tempo, si sono venute a concretizzare, me le sono costruite lottando strenuamente contro la diffidenza dell’ambiente che mi circondava, lo scetticismo del mercato, il monopolio e lo strapotere delle cantine sociali e degli imbottigliatori che, per decenni, hanno fatto il buono e il cattivo tempo del vino Soave, omologando ai loro prodotti industriali questo mio territorio. Questa realtà l’ho vissuta fin da quando, finita la scuola, ho cercato di fare il consulente enologo, ma senza risultato e non certo per incapacità, ma perché qui, a Monteforte d’Alpone, potevo trovare lavoro solo nella cantina sociale di Soave o in quella di S. Bonifacio. Servivano 3 enologi e quelle cantine avevano i loro; non avevano interesse ad allargare le loro proposte, né ad investire avviando una men che minima sperimentazione o anche una semplice ricerca nel settore vitivinicolo, dato che per loro era sufficiente vendere vini commestibili a basso costo. Purtroppo, man mano che aumentava il numero di bottiglie vendute, diminuiva l’immagine del Soave e del territorio. Lavorare in un simile contesto non è stato facile e le difficoltà si accentuano se sei un piccolo vignaiolo che, come me, non ha la possibilità di emergere promuovendo la sua azienda. Note negative che, ringraziando Dio, sono andate via via scemando, anche se esistono ancora grandi realtà industriali che operano con questi sistemi. Realtà con le quali però dobbiamo convivere, poiché è impossibile pensare che modifichino le loro strategie aziendali, dato che il problema, paradossalmente, esiste ancora è ha un nome: Soave.


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Soave Classico DOC Colle Sant’Antonio Riconosco che, per uno come me, che ama questa terra più di ogni altra cosa e non potrebbe far altro che il vignaiolo, non è carino dire certe cose. Purtroppo, tuttavia, per molti anni è stato così. La stragrande maggioranza dei consumatori era, ed è, legata a quello stereotipo di vino che veniva spacciato per Soave e ancora oggi è facile constatare la diffidenza che molti nutrono per questa Doc. Per uscire da questo tunnel che sembrava senza via di uscita, paradossalmente, ci è venuta incontro la globalizzazione, la quale, a ben guardare ci ha portato solo dei vantaggi, poiché nel mondo la gente, scevra da certi pregiudizi, finalmente ha cominciato a capire che oggi il vino Soave, prodotto da certi vignerons, è solo un lontanissimo parente di quello che si degustava anche solo fino a dieci anni fa. È stata quella gente lontana che, digiuna di tutta una serie di stereotipi che in Italia si erano venuti a costruire, ha incominciato a dire che nel territorio di Soave si producevano grandi vini bianchi e che la zona era vocata per la viticoltura, arrivando al punto di prenderla in seria considerazione nelle proprie scelte enologiche. A testimonianza di ciò, c’è il fatto che nei più famosi e importanti ristoranti americani, fino a pochi anni fa era difficile trovare il Soave; oggi quasi tutti lo elencano nella loro carta dei vini, qualcuno riportando anche più referenze. Questo fenomeno internazionale si è ripercosso positivamente anche sul mercato nazionale, il quale, ora, sembra porre più attenzione nei nostri confronti, contribuendo così a creare un fenomeno strano che ci ha condotti, una volta usciti in silenzio dalla porta di servizio per andare in giro per il mondo, a rientrare dalla porta principale con tutti gli onori. Arrivare a questi risultati non è stato facile. Ci sono voluti la mia caparbietà e il mio carattere risoluto e determinato per spingermi a lavorare per 20 anni senza sosta e a testa bassa, risollevandola solo adesso che qualche risultato è iniziato ad arrivare. C’è voluta anche una grande forza d’animo con la quale ho mischiato le mie idee e quei princìpi lavorativi di cui parlavo, con altri che mi sono stati insegnati in famiglia e che sono diventati punti di riferimento importanti nei momenti difficili. Principi come l’onestà, ad esempio, con la quale, diceva mio padre Angelo, uno è in grado di guardare gli altri dritto negli occhi senza doverli mai abbassare, oppure la tolleranza, che ci fa comprendere meglio il mondo in cui viviamo, o la libertà di lasciare pensare gli altri; princìpi come l’equilibrio, che si deve avere per riuscire a coordinare il lavoro con la vita privata e con il mondo esterno, in modo da vivere meglio e pensando al senso etico e cristiano della vita, ai sentimenti, all’amore, perché a me hanno insegnato che un uomo che non ha sentimenti è una bestia, è illogico, è fragile.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dai vigneti dell’azienda posti sul Colle Sant’Antonio nel comune di Monteforte d’Alpone, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni vulcanici, sono situati ad un’altitudine di 150 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Pergola veronese Densità di impianto: 3.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre con una surmaturazione delle uve sulla pianta, si procede alla diraspapigiatura e ad una pressatura soffice delle stesse. Dopo la pulizia statica del mosto ottenuto, effettuata alla temperatura controllata di 16°C per 12 ore, si procede all’inserimento di lieviti selezionati dando avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 20 giorni, in botti da 20 Hl di rovere francese di Allier poste in ambienti interrati; qui il vino rimane per 12 mesi, periodo durante il quale viene inibita la fermentazione malolattica. In seguito, dopo essere stato assemblato e messo in acciaio per un breve periodo di stabilizzazione e una leggera chiarifica (se occorre), il vino viene imbottigliato per un ulteriore affinamento di almeno altri 10 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 7.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati; all’esame olfattivo risulta opulento, con profumi che ricordano la frutta matura a pasta gialla e il cedro; queste note vanno via via allargandosi a nuances piacevoli di citronella, macchia mediterranea e fiori d’arancio. In bocca il vino ha un’entratura complessa, rotonda, piena, elegante e molto piacevole, risultando ben equilibrato e armonizzato con le percezioni olfattive percepite al naso. Buona la sapidità e la freschezza; lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1991 Le migliori annate: 1995, 1997, 1999, 2001, 2004 Note: Il vino, che prende il nome dal colle di Sant’Antonio, che si trova nei pressi di Monteforte d’Alpone, sulla cui sommità si erge l’omonima chiesa in stile romanico risalente al XIII secolo, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 7 anni. L’azienda: Di proprietà di Graziano e Sergio Prà dal 1983, l’azienda agricola si estende su una superficie di 20 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo e di enologo lo stesso Sergio Prà, coadiuvato dal nipote Flavio, figlio di Graziano Prà. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc Monte Grande (Garganega 80%, Trebbiano di Soave 20%) Soave Classico Doc Staforte (Garganega 100%) Soave Classico Doc (Garganega 100%) Recioto di Soave Docg (Garganega 100%)


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Giuseppe Quintarelli

Se dovessi raccontarti la mia vita non ti basterebbe un libro per racchiuderla tutta e se poi tu volessi conoscere la storia della mia famiglia, allora sì che non ti basterebbe tutto il tempo che hai a disposizione. Pensa che siamo su queste terre da oltre 180 anni. Vedi, stavamo lassù, su quella collina di fronte a questa casa, in quella porzione di colle che scivola verso la vallata che si trova dall’altra parte rispetto al versante che abbiamo ora di fronte. Anche lì producevamo vino; del resto lo abbiamo sempre fatto, anche se i documenti che attestano la nostra origine di vignaioli sono in mano ad alcune famiglie canadesi alle quali il nonno di mio padre spediva il vino. Non ricordo il nome di quelle famiglie e di questo vorrai scusarmi, anche se credo che ci saranno molte altre cose in questa nostra conversazione per cui dovrai scusarmi, a causa di questa labile memoria che oggi mi ritrovo e che potrebbe aver ragione a fare i capricci, visti i miei ottant’anni. Ritengo però che non dipenda dall’età, ma dal fatto che sono ora costretto a cercare i ricordi in mezzo ad un’infinità di vicende, fatti e persone e penso che chiunque, al mio posto, si troverebbe in difficoltà a farlo. In ogni modo ritorniamo a noi. Ti dicevo del Canada. Vedi come il mondo sembra grande e invece è così piccolo. Pensa che qualcuno da più di cento anni parla di noi in America, dove spedivamo il vino in barili di legno da 50 litri. Un fatto quasi unico per quei tempi, anche se ora sembra una cosa del tutto normale spedire il vino in America, dove ormai conoscono il livello raggiunto non solo dal nostro vino, ma anche da quello di moltissimi produttori italiani. Farlo all’inizio del secolo passato però non era così semplice. Mi raccontava mio padre Silvio, che nel 1906 suo nonno partiva con il carretto trainato da due cavalli per andare a Genova a caricare i barili di vino sui piroscafi diretti oltre Oceano. Era un viaggio che durava dieci giorni fra andata e ritorno e bada bene che era fatto solo e soltanto per poter sopravvivere, con quella dignità innata che abbiamo noi contadini. Ti posso assicurare che la Valpolicella a quell’epoca e anche per molti anni a seguire è stata una terra grama dalla quale tutti volevano fuggire. Non c’erano tutte queste industrie o capannoni che oggi hanno deturpato il fondovalle e molti di questi impresari che vedi in giro avevano fino a pochi anni fa i pantaloni con le toppe, caro mio. C’eravamo solo noi, un esercito di uomini che con rassegnazione ci vestivamo ora da contadini, ora da emigranti, ora da soldati pronti a partire o a morire in qualche stupida guerra che non abbiamo mai sentito troppo nostra. Eravamo tutti contadini, mezzadri o proprietari di pochi acri, tutti curvi su una fila di viti o intenti a tirar su un po’ di granturco e un po’ di fieno per gli animali della stalla, con l’orto dietro casa e qualche albero da frutto per far crescere sani i ragazzi, in quella logica di pura e semplice economia di sopravvivenza che tutte le aziende agricole erano costrette a svolgere qui nel Veneto. Ricordo che riscaldavamo il letto con il “prete”. Ricordi gli scaldini? Mia madre lo metteva sotto le coperte, uno per ogni letto, e nelle braci che rimanevano, una volta rimosse dal loro primario utilizzo, poneva una mela per ogni scaldaletto. E questa al mattino era utilizzata per la colazione insieme ad una fetta di polenta. Era miseria, di quella triste, che costringeva molti a prendere i propri stracci e partire per andare a lavorare altrove e poter così portare a casa qualche soldo oppure per non essere un’ulteriore bocca da sfamare per il già misero bilancio familiare. Anche mia moglie Franca, da giovane fu costretta ad emigrare in Svizzera. Aveva 14 anni quando salì su un treno sapendo che alla frontiera l’attendeva una suora che l’avrebbe condotta in convitto, per lavorare come operaia in una fabbrica dove si filava il cotone. Purtroppo, di tutto questo, i miei corregionali si sono dimenticati troppo in fretta. Nessuno si ricorda più di quei tempi, nessuno ne parla, eppure non è preistoria e non sono passati molti anni da quando è successo e, ancora meno, da quando tutto questo è finito, diciamo intorno alla fine degli anni Settanta! Io non ho dimenticato. Sarà che sono figlio di quel vecchio Veneto, ma a volte mi sento lontano anni luce da questi tempi moderni, così diversi e complicati da quelli nei quali sono nato e nei quali mi sono “costruito” come uomo. Questo è un mondo dove tutti chiedono, tutti pretendono e nessuno accetta con gioia quello che ha. Sono in tanti a dire che è sbagliato pretendere, ma poi, appena possono, non si sottraggono dallo sfruttare le opportunità offerte dalle fragilità di altri, più sfortunati di loro. Si servono su quel vassoio d’argento e lo fanno senza guardare in faccia nessuno. Ho sempre sostenuto che è necessario riuscire a fare le cose con le proprie forze, senza chiedere troppi aiuti, possibilmente facendole con il cuore se si vuole che riescano bene. Io con il mio vino ho fatto così. È in questo prodotto che metto la mia creatività, la mia continua ricerca della perfezione e il bisogno innato che ho di dialogare con la mia terra e le mie viti, perché so che è là, fra quei filari, che bisogna preparare il vino ed è in vigna che armonizzo tutti gli


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Alzero Cabernet IGT Veneto ingredienti alchemici che ne determineranno le caratteristiche, diverse ad ogni vendemmia. Oggi purtroppo non è così. Tanti si preoccupano di far subito business e possibilmente che il vino sia tutti gli anni uguale per non avere problemi con il mercato. Le gemme nelle viti non sono ancora spuntate e alcuni pensano già al prezzo del vino che produrranno e alle strategie da utilizzare per venderlo. Non sono mai andato a offrire niente a nessuno. Pensa che non ho nemmeno mai messo un cartello fuori dell’azienda che indicasse questa cantina, ma di questo credo te ne sia accorto venendo qua, non è vero? Diceva mio padre che le cose buone trovano la strada da sé. Ti posso assicurare che è vero; infatti tutti quelli che hanno voluto trovarci ci hanno trovato e quando sono arrivati quassù, su questa collina dove abitiamo, hanno sempre trovato una porta aperta e una cristiana ospitalità e anche un buon consiglio, se me lo hanno chiesto. Una volta ci insegnavano che la cosa più importante era l’amore, quello profondo, sincero e schietto e ci dicevano anche che per essere dei buoni cristiani non bisognava volere il superfluo e l’oltre misura, ma che ci si doveva accontentare di ciò che si aveva, consapevoli che altri hanno sempre molto meno di noi. Ho fatto miei questi insegnamenti, cercando, per quanto mi fosse possibile, di seguire quei pochi e sani principi sui quali mi sono sempre basato nel mio ruolo di vignaiolo, di marito, di padre di quattro figlie e nonno di nove nipoti, senza scendere a troppi compromessi che mettessero in discussione quello in cui credo. Se è vero che nella vita ci vuole anche un po’ di fortuna, beh, io ritengo di essere stato fortunato, non solo per essere nato in questo territorio e aver avuto una famiglia unita alle spalle, che mi ha consentito di non staccarmi dalle mie radici, ma soprattutto perché sono riuscito a dare un valore ad ogni singolo istante del mio prezioso tempo. Sì, devo dire che sono stato fortunato, anche perché ho sentito al mio fianco sempre la presenza forte di Dio che ho conosciuto sotto forma di vigna, di mosto, di vino, di terra, di sole o di pioggia. L’ho riconosciuto tra le botti della mia cantina o nei volti dei clienti o dei tanti vignaioli che sono venuti a confrontarsi con me in questi anni e oggi, più che mai, lo vedo negli occhi di tutte le persone care che mi circondano. Averlo vicino mi dà la forza e il coraggio di continuare a sperare, di guardare in faccia la vita, senza la paura di costruire un nuovo fruttaio, acquisire nuove vigne e neppure di morire…

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Ceré nel comune di Negrar, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei basaltici, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 220 e i 250 metri s.l.m. con un’esposizione a ovest. Uve impiegate: Cabernet Franc 40%, Cabernet Sauvignon 40%, Merlot 20% Sistema di allevamento: Guyot e pergola Densità di impianto: 4.000-4.500 ceppi per Ha a guyot; 3.000 ceppi per Ha a pergola Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene tra la fine di agosto e i primi di settembre, le uve, selezionate con cura, vengono portate nel fruttaio e subito messe a riposo in cassette di legno e sui graticci. Visto il periodo ancora caldo, le uve si asciugano perfettamente e rapidamente con un risultato ottimale. Dopo la pigiatura, effettuata alla fine di dicembre, la fermentazione alcolica parte molto lentamente ad opera dei lieviti indigeni dopo circa 20 giorni di macerazione e dura approssimativamente 50 giorni. Le uve vengono appassite come vuole la tradizione dell’Amarone e del Recioto, e per l’affinamento di questo vino vengono utilizzate, per 30 mesi, barriques di rovere francese (Limousin, Allier, Tronçais). Per i successivi 30 mesi viene unito in un’unica massa in una botte di rovere di Slavonia di media grandezza. Durante le fasi di maturazione avvengono varie fermentazioni alcoliche. Prima di essere commercializzato il vino affina in bottiglia per un minimo di 6 mesi. Quantità prodotta: circa 3.500-4.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Vino dal colore rosso rubino impenetrabile; all’esame olfattivo sprigiona sensazioni quanto mai complesse e intriganti con profumi che spaziano dalle amarene ai peperoni, dal tabacco da sigaro agli ortaggi, dalle spezie dolci alla cannella e al sottobosco. In bocca è pieno, rotondo, morbido, sorretto da una fibra tannica vellutata e da una buona freschezza che lo rende armonioso con evidenti note di grafite, pepe e cioccolato: un piacevole incrocio di dolce e amaro davvero unico. Prima annata: 1983 Le migliori annate: 1986, 1988, 1990, 1995, 1997 Note: Il vino, che prende il nome dal termine dialettale veronese che ricorda i terrazzamenti in terra battuta dove erano coltivate le viti, raggiunge la maturità dopo 10 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 10 e i 30 anni. L’azienda: Di proprietà di Giuseppe Quintarelli dal 1959, l’azienda agricola si estende su una superficie complessiva di 12 Ha, di cui 11 vitati e 1 occupato da un oliveto. Giuseppe Quintarelli segue l’azienda affiancato dalla famiglia, dai collaboratori interni e dalla preziosa esperienza di Roberto Ferrarini, docente di enologia all’Università di Verona. Altri vini I Bianchi: Amabile Del Cerè (Garganega, Trebbiano Toscano, Sauvignon Bianco, Chardonnay, Saorin) I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc Quintarelli (Corvina e Corvinone 55%, Rondinella 30%, Cabernet, Nebbiolo, Croatina e Sangiovese 15%) Amarone della Valpolicella Classico Doc Riserva Quintarelli (Corvina e Corvinone 55%, Rondinella 30%, Cabernet, Nebbiolo, Croatina e Sangiovese 15%) Valpolicella Classico Doc Superiore (Corvina e Corvinone 55%, Rondinella 30%, Cabernet, Nebbiolo, Croatina e Sangiovese 15%) Recioto Classico Doc (Corvina e Corvinone 55%, Rondinella 30%, Cabernet, Nebbiolo, Croatina e Sangiovese 15%)




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Marco e Francesca Sartori

“Intraprendere una nuova via”. Quali e quanti significati hanno le parole di questa frase? Un’infinità. Sicuramente potrebbero presupporre che chi le pronuncia abbia dovuto effettuare una scelta importante nella vita, una di quelle scelte che determinano l’abbandono di una strada conosciuta per intraprenderne una ignota e sconosciuta; una scelta effettuata, magari, davanti a un bivio da cui si dipartono due direzioni ben distinte ed entrambi valide. Quando mio fratello Marco, finiti gli studi per diventare enologo, decise di voler dare all’azienda di famiglia un diverso indirizzo tecnicoproduttivo, focalizzandosi su una nuova “strada” enologica che rimodellasse completamente l’esistente, tutti, in casa, all’unisono, gli concedemmo fiducia. Non so come mai fu così corale quel consenso: in definitiva poteva sbagliarsi, era giovane ed inesperto, e quelle sue esuberanti idee di nuovi vini, che comprendevano anche una nuova gestione dei vigneti, e quella sua spasmodica ricerca della qualità nel nostro terroir, potevano essere ipotesi pericolose e troppo avveniristiche per chi, come mio padre, aveva costruito le sue sicurezze su sistemi di lavorazione che avevano prodotto vini già conosciuti e abbastanza affermati. Ripensandoci, credo che il tutto sia coinciso con una serie di circostanze fortuite che indussero tutti, in famiglia, a dargli credito, a partire da me che, pur essendomi laureata in Scienze Economiche e potendo contare su altre opportunità di lavoro, in realtà non avevo ben chiaro cosa volessi fare e quell’idea di diventare partner di un nuovo progetto mi entusiasmò. Anche a mio padre Bruno piacevano molto i discorsi che faceva Marco e sono sicura che fosse anche orgoglioso del fatto che suo figlio non solo pensava in grande, ma aveva così tanto entusiasmo da voler dare sèguito alle parole con i fatti. Del resto, avendo comprato un nuovo vigneto, chiamato Roccolo Grassi, e dovendo decidere cosa farne, pensò bene che non sarebbe stata una cattiva idea verificare dove conducesse la “nuova via” proposta da mio fratello. Quei nuovi terreni sarebbero stati il miglior banco di prova per sperimentare le affascinanti ipotesi della viticoltura innovativa di cui si discuteva, partendo da zero e costruendo una nuova cantina e una nuova azienda. La cocciuta testardaggine di Marco di voler cambiare le cose e quelle sue certezze che prendevano spunto dall’infinita serie di particolari su cui si basavano le sue convinzioni tecniche, spinsero mio padre ad aprire un nuovo ciclo aziendale da affidare ai suoi figli. Pensò che un’azienda diversa, che scaturisse da nuove idee, avrebbe potuto avere successo e, in cuor suo, a convincerlo che quella poteva essere la strada giusta da intraprendere, fu anche quel nuovo “Rinascimento enologico” che si era venuto a sviluppare in zona alla fine degli anni Novanta con l’exploit dell’Amarone; un vino che aveva dato vita ad un movimento culturale che sembrava coincidere perfettamente con ciò che Marco andava sostenendo. Era un periodo di grande fervore e di grandi cambiamenti. Alcune aziende della Valpolicella avevano già avviato importanti fasi di trasformazione e rimanere indecisi sul da fare avrebbe potuto dire trovarsi spaventosamente indietro nella verifica di quei segnali che giungevano dai mercati di tutto il mondo. Davanti alla proposta di nostro padre, Marco ed io ci confrontammo profondamente, guardandoci negli occhi, entrambi consapevoli di cosa avrebbe voluto dire percorrere un pezzo di vita insieme, l’uno al fianco dell’altro, con i pro e i contro che la cosa avrebbe potuto comportare. Con il tempo le nostre forze si sono amalgamate e oggi ci consentono di condurre quest’azienda vinicola. Da una parte lui, a rispondere e ad assoggettarsi a quel personale meccanismo che lo porta ad accentrare su di sé gran parte della produzione e dall’altra io, che mi sono ritagliata il ruolo amministrativo dell’azienda, a controllare tutto con una concretezza talvolta anche eccessiva. Del resto non è che questa cosa ha cambiato la vita che conducevamo prima, né ci siamo scostati di molto dal mondo nel quale avevamo sempre vissuto fin da piccoli, quando partecipavamo alle vendemmie o respiravamo i profumi della cantina. Ricordo che seguivamo nostro padre sul trattore nelle vigne o lo accompagnavamo nelle consegne del vino e ogni cosa che facevamo, all’inizio, era un gioco che, col tempo, si trasformò, facendoci apprezzare sempre di più quei momenti che si susseguivano piacevoli e che scandivano la quotidianità della nostra azienda


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Amarone della Valpolicella DOC familiare. Quello che abbiamo vissuto, fin dalla nostra nascita, è stato un evolversi di sottili percezioni sensoriali e di passioni che sono cresciute insieme con noi attraverso il profondo fascino che soltanto il vino e la creatività di questo lavoro sanno concedere. Sicuramente, se non ci fosse stato questo vigneto Roccolo Grassi, forse non ci sarebbe stata neanche l’idea di provare a fare una nuova azienda. Ecco perché entrambi siamo convinti che il merito di ciò che abbiamo costruito in questi anni è sicuramente dei nostri genitori; essi hanno avuto, per primi, la forza di cambiare le cose, trovando il coraggio sia nelle idee di Marco, sia nel mio modo razionale di affrontarle, essendo sicuri, guardandoci negli occhi, che non avremmo mai tradito la fiducia che stavano riponendo in noi. Ecco cosa ha significato intraprendere una nuova via per la famiglia Sartori: Marco, Francesca, Bruno e mamma Anna Maria.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella, Corvinone e Croatina provenienti dal vigneto di proprietà dell’azienda, posto in località San Briccio, nel comune di Mezzane di Sotto, le cui viti hanno un’età che varia dai 35 ai 40 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona pedemontana su terreni vulcanici di origine basaltica, è posizionato ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 250 metri s.l.m con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Corvina 60%, Rondinella 20%, Corvinone 15%, Croatina 5% Sistema di allevamento: Pergoletta veronese Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda metà del mese di settembre, si procede alla selezione delle uve che poi rimangono a riposare in fruttaio fino a dicembre; successivamente si effettua la diraspapigiatura e il mosto ottenuto, dopo una macerazione a freddo di 6-7 giorni a temperatura naturale (grazie alle temperature esterne già molto basse), inizia la fermentazione alcolica che si protrae, in contenitori di acciaio inox, per 30-40 giorni alla temperatura massima di 27°C; contemporaneamente avviene la macerazione sulle bucce, periodo durante il quale vengono effettuati meccanicamente frequenti follature e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase il vino ottenuto è posto in barriques francesi di media tostatura e a grana fine dove finisce la fermentazione alcolica e svolge la fermentazione malolattica. Il vino riposa in barrique per un periodo di 30 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle diverse barriques e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6.400 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, molto carico, il vino si presenta al naso con un percorso olfattivo fine, complesso, che parte da certi sentori di humus ad altri speziati di tabacco, pepe bianco, semi di carruba, papavero e cardamomo, note che si aprono subito dopo a percezioni fruttate di ciliegia, amarena e rosa con un finale aromatico e leggere note minerali. Suadente, ricco, vivo e grasso in bocca, si dimostra elegante, sorretto da tannini morbidi e dolci che lo rendono lungo e di grande profondità e progressione al palato. Prima annata: 1996 Le migliori annate : 1997, 2000, 2001, 2004 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Sartori dal 1970, l’azienda agricola si estende su una superficie di 14 Ha, tutti vitati. La funzione di agronomo ed enologo è svolta da Marco Sartori coadiuvato dalla sorella Francesca e dal papà Bruno. Altri vini I Bianchi: Recioto di Soave Docg (Garganega 100%) Soave Doc Superiore La Broia (Garganega 100%) I Rossi: Valpolicella Doc Superiore (Corvina 60%, Rondinella 20%, Corvinone 15%, Croatina 5%) Recioto della Valpolicella Doc (Corvina 60%, Rondinella 20%, Corvinone 15%, Molinara e Croatina 5%)


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Roberta, Giuseppe e Cristina Fugatti

Se ti guardi un po’ in giro ti accorgerai che cos’è la Val d’Adige. Non c’è bisogno che noi stiamo qui ad elencare le sue bellezze: guardati intorno e poi, forse, riuscirai a capire molte cose e anche il perché questo territorio si chiami Terra dei Forti. Guarda e noterai, ovunque si posi il tuo sguardo, come questa sia una vallata che è stata prima disegnata dalla natura e poi colorata dall’uomo, dove ogni cosa è lì perché è lì che deve stare, con il suo preciso significato, il suo scopo e la sua storia. Una vallata che certe volte si stringe e sembra diventare quasi una gola, ma anche in quel caso non ti darà mai l’impressione di precludere al tuo sguardo di andare oltre o di avere via di fuga. Da una parte hai il Monte Baldo e l’Altopiano dei Monti Lessini, dall’altra parte la Chiusa di Cerano e in fondo il Trentino. Questa è una terra di confine che ha visto passare e confrontarsi molti eserciti, ma dove ormai le rocche e i castelli hanno perso la loro immagine burbera e austera che si è addolcita a tal punto da farli apparire oggi di cartapesta e posti lì su quei pendii ripidi solo per il piacere di stupirti. Anche l’Adige è perfetto in questo disegno quasi naif, ma lo sarebbe ancor di più se rimanesse immobile, fermo come lo sono le case, le chiese, i piccoli e i grandi ponti che lo attraversano e le altre cose che sembrano dipinte da una mano attenta e scrupolosa che le vuole tenere prigioniere su quel quadro. Anche le vigne, che sono ovunque, sono piantate con minuziosa e scrupolosa attenzione da chi ne ha calcolato il numero, l’altezza e la distanza precisa fra di loro e non per una ragione tecnica o per far più bella l’uva, ma solo per il piacere di dare respiro e non soffocare la prospettiva di questo magico disegno che tu vedi. La chiamano Terra dei Forti. Ed è così, perché per fare i vignaioli qui bisogna esserlo, anche se le atmosfere e la qualità della vita oggi ripagano chi è voluto rimanere ancorato alla sua terra. Forse ti servirà aver visto la Val d’Adige e anche queste mie parole per comprendere per quale motivo noi tre fratelli siamo rimasti qui. Non fraintendermi, lo sappiamo che c’era bisogno di mandare avanti l’attività vitivinicola, ristorativa e ricettiva che nostro padre Rolando aveva avviato insieme a nostra madre Giuliana, e che non ha potuto più proseguire poiché è scomparso prematuramente tre anni fa. Devi crederci quando ti diciamo che ciò che è successo a nostro padre è stata la migliore scusa che abbiamo trovato per decidere di restare. La realtà è che tutti noi sentiamo forte il legame con questo territorio, molto più di quanto riusciamo a esprimere e non abbiamo dubbi che questo forte attaccamento ci deve essere stato tramandato dai nostri genitori, i quali nei momenti in cui da qui scappavano tutti, hanno testardamente spinto e conficcato le loro radici su questa terra aprendo venticinque anni fa il primo agriturismo in Val d’Adige e con esso anche un ristorante, avviando un’opera di riconversione dell’azienda agricola e dei vigneti. In zona, quelle loro iniziative erano guardate con scetticismo e anche con un po’ di tristezza e compassione, come se conducessero a chissà quale sciagura o al madornale errore di sperperare tutti i risparmi di una vita. Papà era un uomo eccezionale e aveva un’apertura mentale che difficilmente abbiamo ritrovato in quella cultura contadina da cui proveniva, dove i figli devono seguire le orme dei padri. Lui aveva la capacità di guardare sempre oltre l’ostacolo e di andare a scrutare cosa potesse riservare il futuro. Un uomo che ha saputo intuire i grandi cambiamenti epocali di questi ultimi trent’anni che hanno investito l’agricoltura e soprattutto il mondo del vino, che si stava facendo sempre più complesso, assorbendo schemi culturali inediti e molte volte lontani dal piccolo mondo vitivinicolo contadino che ancora oggi esiste in Val d’Adige. Si andava imponendo una nuova mentalità fatta di comunicazione, marketing, business, aerei e frenetiche giornate di fiere, reti commerciali, importatori e appuntamenti da onorare, tutti elementi che mettevano in secondo piano la qualità del vino che per nostro padre andava sopra ogni cosa e facevano sorridere le sue preoccupazioni nello spedire una cisterna di vino. Quando si accorse, da persona semplice che non amava la complessità delle cose, di non essere più in grado di poter gestire questi grandi problemi, ci chiamò tutti intorno, invitando Giuseppe ad affiancarlo nel lavoro della cantina, mentre a Cristina e Roberta, che lavoravano altrove, chiese di fermarsi in azienda; in quel momento, per tutti noi sembrò un’importante scelta di vita che richiedeva qualche tempo di riflessione.


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Roeno Rosso della Vallagarina IGT La funesta e dolorosa scomparsa di papà ci riunì definitivamente nell’azienda di famiglia, ma soprattutto ebbe il merito di aggregarci ancor di più come fratelli e di riportarci tutti a casa. Quando abbiamo preso in mano l’azienda volevamo dare un nuovo imprinting al sistema produttivo, ma per riuscirci c’erano mille cose da fare: dovevamo rimettere mano ai vigneti facendo una precisa zonizzazione dei nostri terreni, rimodernare la cantina con canoni che fossero in sintonia con gli obiettivi dell’innalzamento della qualità dei vini che producevamo e c’era da costruire, cosa più difficile, l’immagine di un’azienda vitivinicola che per anni aveva destinato la quasi totalità della sua commercializzazione alla vendita del vino sfuso. Per fare qualità e per cercare di arrivare sul mercato con dei vini in bottiglia che attirassero l’attenzione, sapevamo di dover intraprendere un lungo percorso che non era sempre “piastrellato”, ma ricco d’insidie, e soprattutto dovevamo coinvolgere nel nostro progetto anche i nostri amici-conferitori affinché condividessero l’idea di migliorare la qualità delle uve raccolte. Ma un conto è dirlo e un conto è farlo! Le trasformazioni richiedono tempo e se fino ad ora non abbiamo “mandato tutto a quel paese”, è stato per via di quella tenacia che affonda le sue radici nella cultura di questa Terra dei Forti e quindi in quella della nostra famiglia dove siamo cresciuti e diventati adulti. Tu non puoi capire quanto per noi è importante che tu sia venuto nella nostra azienda, poiché questa visita vuol dire che stiamo andando nella direzione giusta e che nostro padre aveva ragione insegnandoci ad andare sempre oltre il presente. È lui che ci ha iniziati al futuro e forse è oggi che inizia il nostro futuro.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Cabernet Franc e Marzemino provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nel comune di Brentino Belluno, le cui viti hanno un’età media di 13 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni alluvionali, sono situati ad un’altitudine di 100 metri s.l.m. con un’esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Cabernet Franc 80%, Marzemino 20% Sistema di allevamento: Pergola trentina Densità di impianto: 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte; il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per circa 10 giorni ad una temperatura compresa tra i 23 e i 25°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino viene assemblato e svolge la fermentazione malolattica in barriques di rovere francese di Allier nuove a grana fine e media tostatura in cui rimane per 8 mesi. Dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 7 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con spiccate note speziate e minerali che si aprono a percezioni fruttate di prugne e ribes maturi. In bocca è elegante, con una fibra tannica morbida e ben evoluta accompagnata da ottima freschezza; piacevole, risulta lungo e persistente. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1998, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende un nome di fantasia (Roeno nasce dalle prime due lettere del nome Rolando, il padre di Giuseppe, Cristina e Roberta e creatore di questo vino assieme con Giuseppe, mentre “eno” riprende il termine greco enos che sta per vino), raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 12 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Fugatti da generazioni, l’azienda agricola si estende su una superficie di 21 Ha vitati. La funzione di agronomo è svolta da Giuseppe Fugatti, quella di enologo da Cristina Fugatti. Altri vini I Bianchi: Valdadige Terradeiforti Doc Pinot Grigio (Pinot Grigio 100%) Valdadige Doc Chardonnay I Dossi (Chardonnay 100%) Cristina Vendemmia Tardiva Vallagarina Igt (Trebbiano 60%, Sauvignon 10%, Pinot Grigio 20%, Chardonnay 10%. Le percentuali possono variare a seconda della vendemmia) I Rossi: Valdadige Terradeiforti Doc Enantio (Enantio 100%)


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Paolo Bisol

Non so dire se c’è un legame fra la medicina che studiai alla Facoltà di Padova e l’enologia che, invece, affrontai solo come hobby, forse sapendo, inconsciamente, che quel percorso formativo un giorno avrebbe avuto un ruolo importante nella mia vita preparandomi a quello che poi sarebbe diventato il mio futuro mestiere. Di sicuro, nei pochi mesi trascorsi lungo le corsie dell’Ospedale di Montebelluna dopo la laurea, compresi che non ero adatto per quel lavoro e così non appena mi si aprì uno spazio, colsi l’occasione per entrare nell’azienda che mio padre aveva fondato nel 1950. Era l’agosto del 1989. Mi buttai anima e corpo in questa nuova avventura e fin dal primo momento in cui misi piede in cantina mi imposi di provare a svolgere questo mestiere in armonia con l’ambiente che mi circondava, prendendo da esso tutte le cose positive che era in grado di elargirmi. Ero convinto che nella vita ci fossero da affrontare, giornalmente, mille problemi, i quali sorgono spontanei e senza che nessuno li abbia cercati, e che quindi era sciocco complicarli ancora di più con atteggiamenti poco propositivi. Quegli anni iniziali furono impegnativi e difficili; tutto era nuovo e affascinante, dal laboratorio di analisi alla fase della vinificazione, fino alla compravendita delle uve che i numerosi conferitori, stagionalmente, ci consegnavano; con alcuni di loro, quest’anno, come azienda, festeggeremo la quarantasettesima vendemmia insieme. Oggi abbiamo anche 12 ettari di vigneto nostro, e dunque siamo anche produttori, ma fondamentalmente rimaniamo compratori di uve. Ripresi in mano i libri cercando di approfondire anche quella parte agronomica in cui avevo delle forti lacune, prendendo passione per questo mestiere; una passione che andò via via aumentando proporzionalmente all’aumento delle responsabilità che assumevo in azienda. In quegli anni conobbi molti agricoltori e aumentai il numero dei vignaioli conferenti della Valdobbiadene per nuove e importanti forme di intesa capaci di soddisfare la crescente domanda di Prosecco di qualità che ricevevamo da tutto il mondo. Ogni anno, prima della vendemmia, visitavo i vigneti in compagnia dei contadini per verificare lo stato di maturazione delle uve e decidere assieme il momento migliore per iniziare la raccolta. In questi spostamenti ero rimasto colpito, impressionato, incuriosito e quasi intimorito da alcune vecchie viti che trovavo qua e là sparse nei vigneti. I vignaioli ricordavano di aver sentito dire in famiglia che erano state piantate nel primo ventennio del ‘900. Piante qualche volta imponenti, veri e propri monumenti vegetali, in alcuni casi ridotte ad una “lamina”, talvolta spaccate in due, mentre altre erano storte e altre ancora dritte come alberi, ma ognuna era capace di rappresentare una storia che, un giorno, mi sarebbe piaciuto raccontare mettendola dentro ad una bottiglia di vino che avrei chiamato, sicuramente, “Vecchie Viti”. Quello doveva essere il mio Prosecco e sarebbe stato un vino unico, la cui origine era da ricercare proprio nei grappoli di quelle viti che avrei dovuto raccogliere uno ad uno e vinificare con l’attenzione che meritavano. Non c’è libro di enologia o università di medicina che avrebbe potuto insegnarmi più di quanto abbia imparato nelle visite giornaliere a quei contadini o nell’appuntamento settimanale che avevo con il mondo agricolo della zona in occasione del mercato del lunedì mattina nella piazza di Valdobbiadene. Ho splendidi ricordi di quei momenti collettivi e di quegli incontri con contadini, commercianti, agricoltori e mediatori, e con tanta altra gente che arrivava dai dintorni e portava con sé non solo mercanzie, ma gesti, sguardi, rituali di una cultura contadina che andava in scena, ogni settimana, su quel palcoscenico che era la piazza del paese. Fu lì che conobbi Ruggero, un vecchio mediatore, il quale mi condusse alla scoperta di tutte le componenti che animano questa terra di Valdobbiadene. Spesso giravamo su e giù per questi colli con la sua macchina e, una volta intravisto l’agricoltore con il quale aveva preso l’appuntamento, posteggiavamo l’auto e a piedi ci incamminavamo su quei pendii verso il vignaiolo che, nel frattempo, aveva lasciato i suoi attrezzi e ci veniva incontro. Quello non era un semplice incontro, ma la chiave che mi apriva la porta di un mondo rurale che aveva le sue regole e un rapporto con il tempo che non conoscevo. Si iniziava a parlare della stagione e della vendemmia e poi di qualche conoscente che avevamo in comune, avvicinandoci, con un rituale ben stabilito, all’argomento per il quale eravamo lì e cioè un accordo verbale per l’eventuale fornitura delle uve da consegnare alla cantina al raccolto successivo. Parlare subito di interessi sarebbe stato sconveniente! C’era una forma da rispettare, un principio di profondo rispetto da far percepire all’altro che era più importante degli affari. Anche se molte cose sono cambiate nel mondo del vino in questi ultimi anni e anche se


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Vecchie Viti Prosecco di Valdobbiadene DOC Brut questi cambiamenti, è inutile negarlo, hanno modificato molto le abitudini della zona, devo dire che a Valdobbiadene queste grandi trasformazioni hanno corso meno velocemente che da altri parti. Credo che il fatto si debba attribuire alla comunità del territorio che ha avuto il merito di arginare, almeno in parte, la dispersione di quella tradizione contadina che le apparteneva e che qui si è basata, da sempre, sulla presenza attiva di chi, da generazioni, prosegue a fare il vignaiolo attraverso un duro lavoro fatto di molti sacrifici. Sono stati questi uomini, schivi e riservati, insieme alla parcellizzazione delle proprietà, che non hanno fortunatamente consentito speculazioni da parte delle grandi aziende, a creare un muro con il quale la Valdobbiadene si è difesa dall’interferenza del “nuovo” o dalle ingerenze speculative che snaturano, globalizzandoli, i territori. È vero che è quasi scomparso del tutto quel tipo di mercato che per me era un’aula didattica a cielo aperto; è vero che sono scomparse certe figure che caratterizzavano quella piazza; è vero che c’è stato un importante cambio generazionale all’interno delle aziende della zona che non so a quale assetto futuro potrà condurre, ma è altrettanto vero che non verrà mai meno la naturale e specifica vocazione vitivinicola di questo territorio la cui forza è data dall’integrità degli uomini che lo popolano. È per questo che voglio legarmi sempre più a questi vigneti e a questi agricoltori, poiché so che le mie singole azioni hanno un’importanza che va oltre i miei fini aziendali e investono tutto il territorio, sia in senso strettamente geografico che sociale, interagendo con le oltre 120 famiglie dei vignaioli che conferiscono le uve alla mia cantina. Un territorio che è l’immagine delle donne e degli uomini che hanno saputo mantenere viva e pulsante la terra in cui abitano e che per molti è ancora tutta da scoprire.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle uve di circa 2000 vecchie viti di proprietà di 24 produttori, i cui vigneti sono sparsi nelle zone di San Pietro, Santo Stefano, Cartizze, Guia e Saccol in Valdobbiadene, aventi un’età media compresa tra gli 80 e i 100 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei marnosi con forte presenza di tufo e argilla, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 200 e i 350 metri s.l.m. con un’esposizione a sud/sud-ovest e sud-est. Uve impiegate: Prosecco 90%, Verdiso 5%, Bianchetta 3%, Perera 2% Sistema di allevamento: Doppio capovolto, con grandi variazioni individuali a causa dell’età della pianta Densità di impianto: dai 2500 ai 4000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla pressatura delle uve raccolte e a una decantazione statica del mosto ottenuto che viene travasato e avviato, attraverso anche la moltiplicazione dei lieviti autoctoni e l’inserimento di alcuni altri selezionati, alla fermentazione alcolica che dura 8-10 giorni ad una temperatura compresa fra i 18 e i 20°C in tini di acciaio inox. Al termine di questo periodo e dopo qualche travaso, il vino viene lasciato sui propri lieviti fino alla primavera successiva quando è messo in autoclave per la seconda fermentazione e qui rimane per 10-12 settimane; in seguito è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 3 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: circa 4.800 bottiglie l’anno Note organolettiche: Uno spumante dal bel colore giallo dorato leggermente scarico con un perlage presente e persistente; all’esame olfattivo sprigiona sensazioni fruttate di biscotti e note di frutta a pasta bianca e di fiori di acacia. In bocca ha un’entratura avvolgente, delicata, piacevole; sapido, fresco, pulito, prolunga la sua permanenza in bocca con un retrogusto armonico che ricorda suadenti sensazioni fruttate. Prima annata: 2005 Le migliori annate: in evoluzione Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 1 anno dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra 1 e 3 anni. L’azienda: Di proprietà di Giustino Bisol dal 1950, l’azienda vinifica le uve di circa 120 conferitori, le cui vigne si trovano tutte all’interno della zona della Doc Valdobbiadene. Collaborano in azienda l’agronomo Gianluca Tognon e l’enologo Fabio Roversi. Altri vini Gli Spumanti: Giustino B. Valdobbiadene Doc Millesimato Extra Dry (Prosecco 100%) Superiore di Cartizze Valdobbiadene Doc Dry (Prosecco 100%)




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Stefano Marzotto

Non credo di essere in grado di raccontarti cosa oggi sia Santa Margherita senza fare un passo indietro, parlandoti della mia storia e della tradizione imprenditoriale che caratterizza la famiglia Marzotto fin dal 1836. Come non saprei parlarti del vino senza descriverti la terra da cui proviene e non potrei narrarti di come sia nata questa azienda agricola tacendo su quale significato abbia assunto nel tempo per noi o quale sia, oggi, lo spirito con cui la traghettiamo verso il futuro. Discorsi lunghi e articolati che richiederebbero molto tempo e che si intrecciano con la storia di una famiglia numerosa, quale quella dei Marzotto alla quale appartengo, ma anche con gli intrecci societari di una holding, condotta con spirito familiare, che è stata amministrata sempre in famiglia fra padri, fratelli, cugini, zii e nipoti e che, nell’arco di un secolo e mezzo, ha segnato la storia dell’imprenditoria veneta, sia nel campo del tessile che in quello dell’agricoltura e dell’hôtellerie. Una storia che è partita dalla provincia di Vicenza e precisamente dal suo entroterra, a Maglio di Sopra e Valdagno, per arrivare sul mare a Portogruaro, dipanandosi poi con numerose imprese un po’ ovunque in tutta Italia, contando, in certi momenti, fino a 14000 occupati. Fu mio nonno Gaetano Marzotto ad avere l’idea, nel 1940, di unire il concetto industriale all’agricoltura e per realizzare ciò acquistò, qui a Portogruaro, tutta la proprietà dei Conti Stucky, che si estendeva complessivamente per oltre 1000 ettari, gran parte dei quali paludosi. Egli dette subito il via ad una grande opera di bonifica, ad un grandissimo allevamento di bestiame da latte e da carne, oltre a colture estensive di frutteti e barbabietole da zucchero e all’impianto di molti ettari di vigneti. Un sistema agricolo al quale affiancò presto uno zuccherificio e una vetreria per imbottigliare il latte, il vino e i succhi di frutta. Non si limitò solo a questo, ma aprì alcune scuole, realizzò un campo da calcio, dei campi da tennis, il bocciodromo, un circolo ricreativo, mense e un centro medico di pronto soccorso, attivando un sistema di assistenza sociale a tutto tondo per i propri dipendenti; cosa comune in quei tempi anche ad alcuni altri lungimiranti imprenditori, come Adriano Olivetti e Alessandro Rossi, degli stabilimenti LaneRossi. Tutti questi uomini, in possesso di una grande cultura liberale, si riconoscevano nel grande movimento post-industriale di fine Ottocento che sviluppò la filosofia di un’imprenditoria solidale, equa e pronta non solo a “prendere”, ma anche a “dare” e non a “rapinare” i territori in cui operava. Il tempo ha trasformato tutto il tessuto sociale italiano e anche la Zignago si è adeguata ai cambiamenti, ridimensionando alcuni settori, diversificandone altri o consolidandone altri ancora, come il comparto vitivinicolo e, in particolar modo, quelli che riguardano Santa Margherita dove, dopo aver eliminato gli allevamenti, i frutteti e molte aree agricole che oggi non fanno più parte dell’azienda, stiamo avviando un’opera di riqualificazione dei 70 ettari di vigneti rimasti a Portogruaro. Scelte effettuate nel corso degli anni, in parte a causa di certi regolamenti che, dagli anni Sessanta, minarono gli allevamenti bovini da carne e da latte in Italia, in parte a causa di strategie aziendali che spinsero la società a concentrarsi sulle vetrerie e sul vino, allargandosi ed acquisendo altre proprietà vitivinicole come Ca’ del Bosco in Lombardia, nella zona della Franciacorta, Kettmeir a Caldaro in Alto Adige, Lamole di Lamole a Gaiole in Chianti in Toscana, Feudo Zirtari e Terrelíade in Sicilia, arrivando a circa 400 ettari in totale. Un “gruppo” mai statico, sempre in continua evoluzione che in questi anni ha affrontato anche un cambio generazionale che ha comportato l’acquisizione, da parte degli azionisti, di una maggiore coscienza, di un diverso approccio e di una maggiore presenza nelle problematiche che ogni ramo dell’azienda presenta, avendo ben chiaro che i risultati non sono dati dal numero, ma dalla qualità con la quale si fanno le cose. Solo però entrando nel merito di questi aspetti sarei in grado di farti comprendere quale sia la passione e la dedizione che metto in ciò che faccio. Passione e dedizione che sono comuni a tutti i Marzotto e che danno forza, corpo e anima ai pensieri e alle idee che ogni membro della famiglia mette a disposizione non solo delle aziende vitivinicole, ma anche di tutte quelle che compongono il “gruppo”, la cui proprietà oggi condivido con i miei fratelli Gaetano, Luca e Niccolò. A queste doti comuni va aggiunto un grande senso del dovere che mi porto dentro e che non è un semplice modo di dire o una percezione alla quale dare, qualche volta, ascolto, ma è una forza profondamente radicata dentro di me e cresciuta con il tempo stando accanto a


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Malbech IGT Veneto Orientale uomini del calibro di mio nonno Gaetano e di mio padre Vittorio ed è la stessa forza che cerco di trasmettere a Vittorio e agli altri due miei figli Alessandro e Sebastiano. Mio padre ci ripeteva spesso che eravamo dei privilegiati a essere Marzotto e come tali avevamo dei diritti, ma anche molti più doveri a cui rispondere sia come uomini che come imprenditori. Sono cresciuto con questa educazione, avendo la fortuna di affrontare le difficoltà gradualmente, man mano che cresceva la mia esperienza, contando sul rispetto e la comprensione che ricevevo da mio padre. Con quella stessa amorevole pazienza che contraddistingueva papà, oggi ho preso per mano mio figlio per condurlo alla scoperta del mondo del vino, perché possa apprendere, dopo un’adeguata formazione universitaria, i meccanismi manageriali, imprenditoriali e umani necessari per gestire un’azienda come Santa Margherita, meccanismi che nessun libro di scuola può insegnare. È stata la famiglia a darmi questi valori e mi ha insegnato a usare l’intelligenza, per ascoltare gli altri, per ottenere e dare rispetto, e mi ha insegnato anche, con profonda saggezza, l’umiltà a cui attingere per non travalicare gli altri, e il coraggio necessario per affrontare le difficoltà e superarle. Valori, princìpi, concetti con i quali nella mia vita ho costruito rapporti umani più intensi, più vivi, profondi e più informali che, meravigliosamente, schiudono gli altri ad un dialogo costruttivo che si ripercuote non solo nei rapporti interpersonali, ma anche nella sfera lavorativa, perché ho sempre sostenuto che il lavoro, senza un adeguato rapporto umano, diventa sterile, ripetitivo e privo di stimoli.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Malbech provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Villanova, nel comune di Fossalta di Portogruaro, le cui viti hanno un’età media di 6 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona lagunare su terreni fluviali di natura argilloso-calcarea, sono situati al livello del mare, con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Malbech 100% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a cordone speronato Densità di impianto: 5.300 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda metà del mese di settembre, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte; il mosto ottenuto si avvia alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 15 giorni ad una temperatura di 27°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino svolge la fermentazione malolattica al termine della quale solo il 50% della massa è posto in barriques di rovere francese di Allier nuove a grana fine e media tostatura, in cui rimane per 9 mesi, al termine dei quali si ricongiunge col vino lasciato nei tini di acciaio inox; dopo un breve periodo di decantazione avviene l’imbottigliamento e un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi minerali, erbacei, per poi aprirsi a note di ciliegia e a percezioni di viola. In bocca è morbido, sorprendente, con una fibra tannica evidente che pone in evidenza un retrogusto erbaceo. Prima annata: 2004 Le migliori annate: 2005 Note: Il vino, che prende il nome dal vitigno omonimo, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della Santa Margherita S.p.A. l’azienda possiede una superficie vitata sparsa sul territorio nazionale di 260 Ha. Nello specifico, per quanto concerne i vigneti sul territorio veneto, a cui fa riferimento il vino, la superficie è di 22 Ha. Collabora in azienda l’enologo Loris Vazzoler. Altri vini I Bianchi: Valdadige Doc Pinot Grigio (Pinot Grigio 100%) Muller Thurgau frizzante Igt (Muller Thurgau 100%) Trentino Doc Chardonnay (Chardonnay 100%) I Rossi: Refosco Veneto Orientale Igt (Refosco 100%) Versato Igt (Merlot 100%)


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Patrizia, Giancarlo e Luciano Begnoni

Sembra facile, ma tentare di trovare Villa Santa Sofia è come andare alla ricerca di un tesoro. Qualche benevolo passante ha provato a spiegarmi la strada, ma, nonostante tutto mi aggiro ancora disorientato lungo alcune strade che non mi danno troppi punti di riferimento, ritrovandomi così a vagare intorno a villette che mi sembrano tutte uguali e prive, a mio personale parere, di una qualsiasi armonia architettonica, essendo poste con la stessa casualità con cui si dispongono gli stecchini dello “shangai” quando sono lasciati cadere e sembra impossibile districarli. Dopo un po’, comunque, riesco ad arrivare ad una piccola strada che mi conduce a un lungo caseggiato che corre longitudinale a un’altra costruzione che intravedo oltre i tetti. Deve essere quella la villa palladiana che dà il nome alla cantina. Una costruzione, incompleta sul lato destro, fatta erigere ad Andrea Palladio dal nobile Marcantonio Serego nel 1560. Credo che il grande architetto, se potesse, uscirebbe nuovamente dalla tomba pur di insegnare come rendere armoniose con il paesaggio le necessità abitative dell’uomo, un’arte di cui lui è stato sommo maestro. Non c’è niente da dire sulla bellezza di questa villa che è come un faro che illumina il mare scuro dello scempio architettonico che esiste intorno ad essa, il quale, paradossalmente, contribuisce a renderla ancora più bella, facendo sembrare insignificante sia il fatto che sia incompiuta, sia il fatto che l’unicità del disegno delle colonne la renda unica e particolare rispetto alle altre disegnate dal grande maestro. Ad attendermi trovo l’enologo Giancarlo Begnoni e i suoi due figli, Patrizia e Luciano, indaffarati a redigere documenti per una spedizione di vino che deve partire in giornata per qualche paese del mondo. Mentre loro si aggirano da un ufficio all’altro prendo l’occasione per visitare lo splendido giardino e osservare dall’esterno la villa, che è proprietà privata di un avvocato. Mi sento come in un’oasi, protetto da un territorio in alcune parti molto bello, mentre in altre è stata perpetrata una cementificazione disordinata che sicuramente anche i Begnoni hanno subìto come tanti altri, non avendo avuto neppure loro la forza di opporsi alla “selvaggia” trasformazione che ha modificato il paese e la campagna di Pedemonte, inglobando ville, vigne e monumenti, in un paesaggio fatto sempre più di cemento. Mentre mi aggiro fra questi alberi secolari, mi accorgo che la mia mente vaga all’esterno di questo giardino e sembra che, volutamente, si attardi a raggiungermi, essendo impegnata in una minuziosa ricognizione di tutto ciò che circonda la villa, sforzandosi di immaginare come doveva essere questo luogo anche solo cinquant’anni fa. Mi domando: “Come è stato possibile nascondere così tanta bellezza? Quali menti contorte possono aver partorito un piano regolatore così scellerato?” Domande alle quali non so dare una risposta e che evito di fare ai miei ospiti, i quali potrebbero trovarsi nella spiacevole situazione di rendere noti anche a me i nomi di quei pazzi amministratori. Mi siedo come al solito davanti ad un’infinità di bicchieri e di bottiglie di vino: Amarone, Valpolicella Ripasso, Bardolino, Recioto e tanti altri, ma la mia attenzione viene attirata dalla passione con la quale Luciano, il figlio di Giancarlo, mi parla del vino principe dell’azienda: l’Amarone. Sono esternazioni commerciali che, sicuramente, propone abitualmente nella presentazione dei suoi vini, i cui contenuti non mi colpiscono più di tanto, dato che io non devo comprare nulla, ma quel suo tono di voce e quella spedita e colorita dialettica, con la quale argomenta il tutto, mi convincono ad ascoltarlo, facendomi scoprire quanto gli piaccia il suo ruolo di manager commerciale nell’azienda di famiglia. Non tarda, infatti, ad ammettere quanto egli sia grato a questo lavoro che gli consente di girare il mondo e conoscere gli usi e i costumi di un’infinità di popoli, più o meno intenditori del vino della sua terra. Noto che i suoi occhi si illuminano quando parla dei suoi viaggi, i quali, dal timbro della sua voce non sembrano faticosissimi spostamenti intercontinentali svolti per coadiuvare la propria rete commerciale, ma appassionati viaggi compiuti da chi è animato dal profondo desiderio di far conoscere i propri tesori al mondo. A guardarlo è certo uno che deve amare non solo il proprio lavoro, ma soprattutto la vita e ciò che essa regala. Mentre mi racconta di paesi lontani a me sconosciuti e mi parla di Mosca, di Hong Kong o Pechino, il mio sguardo scivola su Patrizia, la sorella, che, risolte le incombenze della spedizione del vino, si è unita a noi nell’atmosfera di una piacevole conversazione. Al banco della degustazione, il vecchio Giancarlo con sguardo schietto e rughe profonde, che raccontano di una vita dedicata con passione ai suoi vini, orgogliosamente stappa le bottiglie, annusa i tappi, le dispone per la degustazione e si allontana, assorto nei pensieri dell’attività quotidiana che lo vede custode di una tradizione enologica che ha saputo coltivare in oltre quarant’anni di attività.


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Gioè Mi accorgo che non posso distrarmi molto, poiché Luciano è incalzante nei suoi racconti, soprattutto ora che il tema della conversazione è quello di descrivere “l’Amarone nel mondo” con i modi d’uso e la sua interpretazione. Ce ne sarebbero di cose da dire e da scrivere, soprattutto ora che i suoi racconti si fanno più particolari e la sua memoria più fluida. Fiumi di parole che mi descrivono ora la diffidenza orientale, ora le difficoltà commerciali del mercato del Nord Europa, dove è necessario essere veramente preparati a tutto. È piacevole ascoltarlo, perché mi descrive minuziosamente l’apertura e la disponibilità che dimostrano gli statunitensi e i canadesi e quanto sia grande la curiosità verso il vino italiano dei venezuelani, abitanti di un paese dove sembra si siano aperte interessanti prospettive commerciali per i vini di alta qualità, dato che su quel mercato vengono commercializzati, per lo più, vini cileni e argentini proposti a prezzi imbattibili. Aneddoti che si vanno a sommare a piccole perle che, via via che il racconto procede, dimostrano quale sia la sua personale interpretazione dei fatti e la sua opinione sulle culture di popoli lontani, caratteristica questa di chi è attento osservatore di ciò che lo circonda. Penso che Luciano sia l’ambasciatore perfetto per i vini della cantina Santa Sofia e, osservandolo bene, direi che potrebbe esserlo anche per il territorio. È uno che indubbiamente sa muoversi e sa affiancare distributori e agenti, dialogando con chiunque del suo vino e instaurando quella che gli americani chiamano friendly relationship. Con il solito entusiasmo con cui aveva iniziato, continua a raccontarmi di come il vino debba essere spiegato a tutti coloro che sono inseriti nella sua catena distributiva, dall’importatore, al ristoratore, all’enotecario. Tutti, secondo lui, devono essere coinvolti emotivamente nel prodotto, così da costruire quel feeling che spingerà qualcuno a prendere una bottiglia di Santa Sofia dallo scaffale e spendere qualche parola in più per presentarla; e queste parole le dovrà conoscere e dovrà spiegarne bene il significato, soprattutto se si tratta dell’Amarone, che non è un vino semplice da far comprendere. Non lo interrompo per sollecitarlo e aspetto che quella carica positiva che lo anima si esaurisca. Dopo un po’ la nostra chiacchierata si conclude e Luciano mi saluta, nuovamente assorbito dalla quotidianità del suo lavoro. Io indugio ancora un attimo e rimango seduto a pensare a quel mappamondo che mi gira ancora nella testa, sentendo nascere in me un po’ d’invidia verso quel suo lavoro. Poi il tintinnio dei bicchieri mi riporta alla realtà: davanti a me ho gli occhi di Patrizia che incomincia a mescere i vini, i quali mi condurranno alla scoperta delle passioni che animano Giancarlo. Ma qui inizia un altro racconto…

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella e Molinara provenienti dai vigneti dell’azienda, posti nei comuni di Negrar e Fumane, le cui viti hanno un’età che varia dai 25 ai 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di vario impasto (basaltico, calcareo e morenico), si trovano ad un’altitudine compresa tra i 250 e i 300 metri s.l.m. con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Corvina 70%, Rondinella 25%, Molinara 5% Sistema di allevamento: Cordone speronato e pergola veronese Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha nelle vecchie pergole, 3.500 ceppi per Ha nei nuovi impianti a cordone speronato Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che inizia di solito a partire dalla terza decade di settembre e va avanti fino alla fine di ottobre, si procede alla selezione delle uve che sono poste ad essiccare nel fruttaio, generalmente fino alla fine di gennaio. Raggiunto l’appassimento ideale, avviene la diraspapigiatura e il mosto ottenuto subisce una breve crioestrazione a temperatura ambiente al termine della quale, con l’innalzamento della temperatura, si avvia naturalmente la fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 3540 giorni a temperatura ambiente; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, che si conclude all’incirca alla fine del mese di marzo successivo alla vendemmia, si procede alla svinatura e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è posto in piccole botti di rovere di Slavonia da 20-30 hl in cui rimane per 36 mesi al termine dei quali, dopo un breve passaggio in acciaio, il vino è posto per altri 18 mesi in barriques di rovere francese di Allier di media tostatura a grana fine, nuove, di secondo e terzo passaggio. Conclusasi questa lunga maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 18.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, al naso il vino si presenta complesso, con un piacevole sentore fumé e con note carnose e speziate che vanno dalla vaniglia al cardamomo, dalla paprica alla liquirizia fino a giungere a splendide percezioni di fiori di geranio appassiti. Un bouquet ampio che si armonizza inoltre con nuances di confettura di prugne e un finale balsamico; in bocca il vino è elegante, equilibrato, con una fibra tannica setosa e morbida sorretta da una bella freschezza. Prima annata: 1964 Le annate prodotte: 1964, 1969, 1971, 1974, 1977, 1983, 1985, 1988, 1990, 1993, 1995, 1997, 1998, 2000, 2003 Note: Il vino, che porta in etichetta il nome Gioè, con il quale in zona si usa indicare la parte superiore del colle denominato Monte Gradella, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà di Giancarlo Begnoni dal 1967, l’azienda agricola si estende su una superficie di 38 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di enologo lo stesso Giancarlo Begnoni. Altri vini I Bianchi: Recioto di Soave Classico Docg (Garganega 100%) Soave Classico Doc Costalta (Garganega 80%, Chardonnay, Trebbiano di Soave, Pinot Bianco 20%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc (Corvina 70%, Rondinella 25%, Molinara 5%) Ripasso Valpolicella Superiore Doc (Corvina 70%, Rondinella 30%) Montegradella Valpolicella Classico Superiore Doc (Corvina 70%, Rondinella 25%, Molinara 5%) Arlèo Rosso del Veronese Igt (Corvina 85%, Cabernet Sauvignon e Merlot 15%) Recioto della Valpolicella Classico Doc (Corvina 70%, Rondinella 25%, Molinara 5%)


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Emilio Pedron

La leggenda vuole che il filosofo greco Diogene di Sinope vivesse dentro una botte per disprezzo di tutte le cose materiali, dei lussi e delle comodità. Ebbene, se me lo chiedessero, potrei assicurare che anch’io ho vissuto dentro una botte, anzi ci sono nato! Non per disprezzo del mondo materiale, né per tendenze ascetiche, ma solo in virtù del fatto che mio padre aveva una cantina e in quella cantina sono nato, cresciuto e ho vissuto i miei primi venti anni. Forse è per questo che il vino ha giocato un ruolo importante nella mia vita, a prescindere se si trattasse del mio o di quello prodotto da altri, che aiutassi mio padre, facessi l’enologo o l’amministratore in una cantina: non ho desiderato mai altro nella vita se non di occuparmi di vino. Sono nato in Val di Non, in Trentino, nel 1945, e da allora nessun’altra passione ha trovato un varco per insinuarsi nella mia mente. Mi sono sempre considerato un “predestinato”, uno che ha sempre cercato, nell’arco della propria esistenza, di costruirsi una cultura monotematica, tentando di allargare e mantenere aperti i punti di vista, avendo l’accortezza di circondarsi di persone provenienti anche da altri settori distanti dal vino e che magari potessero apportare al mio lavoro una diversa esperienza, capace di arricchire la mia. Oggi, dopo tanti anni, posso sicuramente definirmi un “veterano del vino”, avendolo non solo studiato, ma vissuto in ogni suo piccolo oe minimo dettaglio, ora assaporandone gli umori e i profumi, ora lottando e seguendo l’evoluzione delle crisi che, diverse volte, in tutto questo tempo, lo hanno interessato, oppure vigilando sulle sue trasformazioni; in ogni caso, e per ogni motivo, mettendo in tutto quello che facevo la stessa passione che mi ha accompagnato per tutti questi quarant’anni di attività professionale. Riconosco di essere stato uno spettatore privilegiato, avendo avuto la fortuna non solo di vivere la sua Storia, ma di avere contribuito anche a scriverla. Un impegno importante che ho trascorso al fianco di enotecnici, imprenditori, vignaioli, manager o amministratori delegati; a tutti non ho mai lesinato consigli, se richiestimi, né suggerimenti, sicuro che questi potessero contribuire a migliorare la loro operatività e quella dei territori in cui essi operavano, per innalzare il livello culturale degli operatori dell’intero comparto vitivinicolo. Quarant’anni di attività di per sé potrebbero consentire già l’assegnazione di una laurea honoris causa per meriti nel settore vitivinicolo e se, a questo, si aggiungono anche i vent’anni precedenti vissuti nella cantina di famiglia, rimane facile comprendere quanto io dica il vero, quando dico che anch’io, come Diogene, ho vissuto in una botte! Non sempre è stato facile e non sempre le cose sono scivolate via lisce e tranquille. Ricordo che vi furono momenti di scellerate scelte politiche, come i piani Feoga degli anni Sessanta, che avviarono una radicale trasformazione dell’intero comparto agricolo. Anni bui, quelli che vanno dal 1965 al 1985, che videro l’ingresso della meccanizzazione e della chimica, in nome di una scellerata rincorsa al profitto che imponeva una produttività sempre maggiore che provocò l’estirpazione dei vecchi vigneti e l’impianto di nuovi vitigni più redditizi, con danni irreparabili per il patrimonio genetico viticolo del nostro paese. Non mi è stato facile nemmeno adeguarmi a quello che fu definito, non ricordo da chi, il “Rinascimento” del vino italiano, il cui inizio tradizionalmente si situa dopo lo scandalo del metanolo del 1986, il quale riscrisse tutte le procedure conosciute e rese necessario, improvvisamente, un nuovo e diverso approccio al sistema produttivo, distributivo e commerciale del vino, funzionale a quella globalizzazione che riguardò, fin dall’inizio, il mondo vitivinicolo, prima ancora di interessare altri settori merceologici. Vivere quelle esperienze contribuì a formarmi sia sotto l’aspetto professionale che sotto quello strettamente umano e credo che proprio quelle esperienze siano alla base della sostanziale differenza che esiste tra un veterano come me e i giovani che, oggi, iniziano ad operare in questo settore e che sono chiamati a rispondere ai mercati con vini che abbiano un rapporto qualitàprezzo interessante, a inventare nuovi business, fare ricerca, sperimentazione e comunicazione. Quando ero giovane tutto era più semplice, o perlomeno così mi sembrava, poiché il vino era una necessità e parte integrante della quotidianità; interagiva con tutto il sistema agricolo, contribuendo a sostenere, sia nutrizionalmente che economicamente, una grande fetta del mondo contadino. In questi anni ho potuto constatare che non c’è stato nessun altro prodotto che abbia subìto nell’arco di un così breve lasso di tempo una trasformazione tanto radicale, passando da prodotto di largo consumo ed alimento essenziale per l’apporto calorico quotidiano necessario per chi svolgeva attività lavorative faticose, a prodotto elitario, quasi uno status symbol utile per accompagnare i piaceri della tavola, sulla quale trova sempre più spazio un’alimentazione naturale. È facile comprendere che, pur in una logica di continuità e senza nessuna interruzione del mio rapporto con il mondo del vino, vi siano stati dei punti importanti sui quali ho costruito il mio backround. Uno di questi fu quando entrai, come enologo, a vent’anni, alla Chianti Ruffino che negli anni Sessanta era, forse, una


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Proemio delle aziende italiane meglio organizzate. Quell’esperienza mi fece conoscere il vino come prodotto d’impresa e come entità economica, con cui far di conto, essendo di fatto passato da una cantina a conduzione familiare, come quella in cui ero cresciuto, ad una struttura enologica complessa. Dopo quell’esperienza approdai alla Negri, in Valtellina, una struttura aziendale più piccola che aveva altre necessità e un altro dinamismo rispetto alla Chianti Ruffino. Dovetti adattarmi alle nuove esigenze, trasformandomi da enologo in fiduciario e, come responsabile, imparare i sistemi e le strategie per comprare e vendere vino. Quando l’azienda fu ceduta alla Wine Food, Gruppo Italiano Vini, mi ritrovai in questa realtà, di cui ancora faccio parte, ricoprendo oggi la carica di Amministratore Delegato. Ecco, è tutto qui. Si potrebbe quasi dire: sessant’anni raccontati in punta di matita. Anni durante i quali ho notato che alla guida di vecchie e nuove aziende è subentrata una categoria diversa dal classico e antico contadino. Si tratta di imprenditori e professionisti, avvocati e commercialisti, industriali del tessile e dell’editoria, magnati dell’economia mondiale: tutti attratti dal vino e dal suo mondo che non finisce mai di stupire. Li osservo e spesso rimango quasi incredulo davanti alla passione che mettono in ciò che fanno, anche se noto che alcuni cercano soltanto di appagare un desiderio di notorietà che, magari, la principale attività non ha consentito loro di raggiungere. Non sta certo a me giudicare, ma mi permetto di dire che la sola motivazione della fama non è certo sufficiente a fare vino; se poi penso a quanti soldi vengono sprecati in cantine che assomigliano sempre più a delle cattedrali nel deserto, creando uno strappo profondo fra passato e futuro e a quanti altri investimenti sono originati dalla logica dell’apparire, mi rattristo. Con il passare del tempo mi accorgo di essere uno dei pochi che riesce ancora a ricordare il legame che dovrebbe unire la terra alla vigna e immodestamente, mi sento un trait d’union vivente tra quell’antica tradizione contadina, con cui condivido lo stesso amore per la terra, e questi tempi presenti, nei quali ho l’impressione che difficilmente potrò ritrovare quell’amore che leggevo negli occhi di mio padre, opacizzato dal fondamentale egoismo che anima l’oggi e che esiste solo a parole, buone per riempire la bocca degli innumerevoli esperti o le pagine di qualche giornale. Già da molti anni il vino ha smesso di essere il prodotto simbolo della cultura contadina, divenendo sempre più prodotto commerciale, dissacrata fonte di reddito, anche se immagino che tu, nei tuoi viaggi di scrittore, troverai tante persone che ti assicurano di essere diventate vignaioli per passione. Non credergli Andrea, o meglio, dai la giusta importanza a quelle loro parole: la verità è un’altra; anzi, le verità sono altre, perché non esiste una sola verità, ma ce ne sono tante, tutte mutevoli, come lo è il mondo del vino che è in continua trasformazione, e a cui è necessario accostarsi riuscendo a fare sempre le cose un po’ prima e un po’ meglio degli altri, così da avere maggiori chances di potersi misurare sui mercati mondiali, gli unici che ormai contino.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Corvinone e Rondinella provenienti dai vigneti di proprietà dei conferitori posti in località Gnirega, nel comune di Marano, le cui viti hanno un’età compresa tra i 25 e i 40 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di medio impasto con buono scheletro, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 300 e i 450 metri s.l.m., con un’esposizione a est / sud-est. Uve impiegate: Corvina 50%, Corvinone 30% Rondinella 20% Sistema di allevamento: Gran parte a pergola doppia trentina ed in parte a guyot Densità di impianto: 3.000 - 5.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla fine di febbraio. Raggiunto il grado di appassimento ideale, le uve vengono pigiate e il mosto ottenuto si avvia ad una breve macerazione pellicolare a freddo priva di ossigeno che dura circa 20 giorni al termine dei quali inizia la fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 20 giorni a una temperatura di circa 22-28°C; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, si effettua una breve macerazione post fermentativa che dura di solito per 10 giorni ancora prima di procedere alla svinatura. Dopo un breve periodo di decantazione statica, il vino è posto in botti di rovere da 35 hl dove svolge la fermentazione malolattica, al termine della quale una parte del prodotto va in barili da 7,5 hl di ciliegio in cui rimane per 18 mesi, durante i quali si effettuano 6 travasi e si provvede, gradualmente, a comporre la massa finale. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio generale delle partite e dopo un periodo di armonizzazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 18.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino brillante, il vino offre al naso dapprima intense note minerali per poi attraversare una vasta gamma di percezioni olfattive che spaziano da quelle balsamiche a quelle di frutti rossi maturi, soprattutto di prugne, con un intreccio di nocciole, coriandolo, cumino, erbe officinali e nuances di cacao in polvere. In bocca è equilibrato, elegante ed è accompagnato da una piacevole e sensuale morbidezza e da una buona sapidità che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1997, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende un nome di fantasia, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Il Gruppo Italiano Vini, nel progetto qualità, coadiuva la Cantina del Valpolicella Classico in San Pietro in Cariano nella realizzazione del prodotto che raccoglie le uve dei soci conferitori che operano su una superficie vitata di circa 265 Ha nel Veneto. Collaborano in azienda l’agronomo Andrea Lonardi ed il winemaker Christian Scrinzi. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc Vigneto di Monteforte (Garganega 90%, Trebbiano di Lugana 10%) Lugana Doc Melibeo (Trebbiano di Lugana 100%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Doc (Corvina 75%, Rondinella 25%) Valpolicella Classico Doc Superiore Solane (Corvina 70%, Rondinella 30%) Valpolicella Classico Doc Le Caleselle (Corvina 65%, Rondinella 30%, Molinara 5%)




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Francesco Serafini

Come ti sarai accorto girando in lungo e in largo per il Veneto, il mondo del vino in questa regione è molto variegato: c’è qualcuno che pensa di poter fare il proprio business imbottigliando più di dieci milioni di bottiglie da vendere a un euro l’una, mentre altri, credendosi più furbi, pensano che per ottenere il solito risultato sia sufficiente imbottigliarne 10.000 e venderle a cento euro l’una. Dopo oltre vent’anni in cui nel nostro cammino di vignaioli abbiamo sofferto per affermarci nel settore, attraversato un’infinità di vicissitudini e commesso molti errori, siamo arrivati alla conclusione che la gara non sta nel fare più cose, ma nel farle meglio, a prescindere dal numero di bottiglie commercializzate o dagli ettolitri di vino che un’azienda riesce a vinificare. L’esperienza ci ha insegnato che la vera sfida è sulla qualità, che va oltre il concetto “prodotto/vino”, ma abbraccia non solo il “saper fare”, ma soprattutto la vita che ognuno vuole vivere, che deve avere un forte valore etico e fornire una coscienza del limite oltre il quale si smarrisce il senso delle cose. È un pensiero importante, impegnativo, che ha richiesto un profondo ragionamento con noi stessi e la costruzione di una buona armonia con il mondo circostante. Così la Serafini & Vidotto si è posta nelle condizioni di voler capire quale fosse il proprio limite, trovandosi nel profondo Nord-Est del Veneto, nel Montello, in una Doc sconosciuta al mondo, che complessivamente si estende su una superficie vitata non superiore ai 550 ettari e che potrebbe rappresentare le dimensioni complessive di due o tre medie aziende italiane o di una piccola azienda vitivinicola di paesi come il Cile o l’Australia. Quando partimmo, nel 1986, pensammo di produrre quello che poteva darci la terra che avevamo a disposizione, costruendo, se le cose ci fossero andate bene, un’azienda in grado di gestire non più di 200.000 bottiglie l’anno. Quando è stato il momento di mettere in pratica quel progetto, decidemmo con il nostro architetto di “blindare” la costruzione di questa cantina su quelle dimensioni, imponendoci che non avremmo mai superato il numero di bottiglie che ci eravamo prefissati di raggiungere nel corso degli anni, poiché esso rappresentava l’espressione esatta delle reali potenzialità della nostra superficie vitata e delle nostre attitudini psicofisiche. È proprio valutando le nostre capacità, e non i problemi ambientali né, tanto meno, quelli oggettivi riferiti al reperimento di altri vigneti, che riscontrammo che quel numero di bottiglie non era tanto una questione tecnica, quanto piuttosto un concetto mentale. Quel numero era qui, nella nostra testa, e stava lì a rappresentare il limite insuperabile oltre il quale, per noi, sarebbe stato impossibile gestire gli elementi che interagiscono nella nostra attività e che intrecciano la qualità della nostra produzione vitivinicola con la capacità di distribuire i nostri vini sul mercato e con la volontà di armonizzare la nostra vita con il lavoro e con la gestione dei terreni che, pur essendo registrati al catasto a nostro nome, appartengono, invero, alla collettività. Non volevamo rischiare di essere coinvolti in quello sfrenato desiderio che spinge molti vignaioli a produrre e commercializzare sempre più vino. Porsi un limite ha significato decidere, fin da subito, quale fosse il nostro progetto come vignaioli e ha voluto dire avere la forza, unita a una cocciuta determinazione, di portarlo avanti, consapevoli che esso era, ed è, circoscritto e inserito dentro un contenitore che, pur essendo migliorabile, non è allargabile e ci obbliga in questo modo a rispettare i canoni originari. È un discorso difficile da interpretare, perché oggi, in questo mondo del vino, quello che conta è l’apparire, l’immagine, il business, mentre il resto, dispiace dirlo, non conta niente. Il bello o forse la fortuna è che ognuno vede le cose che vuole vedere e questo è dimostrato dal fatto che se in questo momento ci mettessimo a guardare fuori da questa grande vetrata, vedremmo tutti, probabilmente, cose diverse. C’è chi vedrebbe il castello di San Salvatore, chi i cavi dell’alta tensione che tagliano il paesaggio e chi, invece, potrebbe essere interessato all’autobus che è appena passato. Eppure tutti abbiamo guardato fuori, ma nessuno di noi ha visto le stesse cose: ciò dipende dalla cultura e dalla sensibilità di ognuno, fattori che portano a valutare diversamente lo stesso paesaggio e a dare risposte diverse agli interrogativi che ci sottopone la vita e alla scelta delle priorità rispetto alle cose che facciamo. Non siamo tutti uguali. Del resto, noi non abbiamo particolari priorità, né esigenze impellenti da risolvere. Siamo soddisfatti di ciò che abbiamo ottenuto e dell’ambiente in cui viviamo, ma soprattutto siamo contenti della nostra qualità della vita che è andata migliorando man mano che


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Il Rosso dell’Abazia IGT Veneto Rosso cresceva l’esperienza, con la quale ci è stato più facile gestire le problematiche dell’azienda, ritagliandoci sempre più tempo, sia per godere del lavoro fin qui svolto, sia per dedicarlo ai nostri svaghi. Un percorso che speriamo facciano anche altri vignaioli, perché crediamo che sia giunto il momento che questo universo vitivinicolo si fermi un po’ e faccia un sereno ragionamento sul suo futuro, cercando di dare il giusto valore al vino e stabilendo quali siano i suoi reali limiti. Ci ripetiamo spesso che siamo qui non per produrre farmaci che salvano la vita, né tanto meno siamo scienziati che con il loro lavoro possono risollevare le sorti del mondo: facciamo soltanto vino. È un prodotto semplice, del resto sono “solo” più di quattromila anni che viene prodotto e non dovrebbe essere difficile comprendere dove esso si collochi nella scala delle priorità dell’uomo! E allora? Dobbiamo ritornare con i piedi ben piantati per terra e prendere coscienza, cosa di non poco conto, che siamo stati bravi e capaci solo a comunicare emozioni destinate per lo più a quelle poche persone che, essendo meno distratte di altre, sanno percepirne i contenuti. Se manteniamo fede a questo semplice e sostanziale ruolo di “venditori di passioni”, con l’innalzamento qualitativo della nostra proposta enologica possiamo ritagliarci un futuro migliore di quanto immaginiamo. Comunque riconosciamo di essere già dei fortunati. Non è forse vero che c’è tanta gente che vorrebbe vivere in campagna e stare a contatto con la natura come facciamo noi? Non è forse vero che a moltissimi piacerebbe aprire delle splendide bottiglie di vino e mangiare nei migliori ristoranti del mondo? Questo mestiere ci consente questo e altri importanti privilegi e sarebbe sciocco gettare via ogni cosa rincorrendo solo la chimera del puro e semplice guadagno fine a se stesso, dimenticandoci il nostro ruolo sul territorio, le passioni che sappiamo trasmettere con il nostro lavoro o il fatto che il vino per noi è l’unico strumento che abbiamo per comunicare il nostro pensiero al pari di un libro con il quale si voglia raccontare il Veneto.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Petit Verdot e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Abazia e Parte Colmel nel comune di Nervesa della Battaglia, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 35 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni ricchi di ferro di origine morenica con una forte acidità e non molto fertili, si trovano ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con un’esposizione sud / sud-est. Uve impiegate: Cabernet Sauvignon 55%, Cabernet Franc 30%, Petit Verdot 10%, Merlot 5% Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima decade di agosto per il Pinot Nero e prosegue fino alla seconda decade di ottobre con i Cabernet, si procede alla selezione e alla diraspapigiatura delle uve raccolte e con il pigiato ottenuto si avviano la macerazione sulle bucce e la fermentazione alcolica che si protraggono in fermentini orizzontali di acciaio inox ad una temperatura di 25°C per 5-6 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti rimontaggi giornalieri. Si passa quindi alla svinatura e i vini, una volta separati dalle bucce, vengono immessi in fusti di rovere nuovi di diverse grane, ma privi di tostatura, con una capacità che va dai 160 ai 255 lt, in cui prima completano la fermentazione alcolica, successivamente svolgono la fermentazione malolattica e poi rimangono dai 16 ai 24 mesi, a seconda dei vitigni. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle varie partite e, dopo circa 12 mesi di decantazione, il blend ottenuto è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 20.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino pieno, intenso, impenetrabile, il vino si presenta al naso vinoso, gradevolmente intenso di frutti rossi maturi e in confettura, con note speziate dolci di cacao e caffè oltre a quelle balsamiche e di tabacco da pipa. In bocca è elegante, con una fibra tannica ben evoluta e una bella freschezza; piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1988 Le migliori annate: 1994, 1997, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dall’Abbazia di Sant’Eustachio, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 18 anni. Dalla vendemmia 2003 la sua denominazione sarà Montello e Colli Asolani Doc. L’azienda: Di proprietà di Francesco Serafini e Antonello Vidotto dal 1997, l’azienda agricola si estende su una superficie di 20 Ha, di cui 16 vitati e 4 occupati da prati e boschi. La funzione di agronomo è svolta da Francesco Serafini, il quale svolge anche quella di enologo insieme ad Antonello Vidotto. Altri vini Gli Spumanti: Bollicine Rosé (Chardonnay 90%, Pinot Nero 10%) I Bianchi: Il Bianco Igt (Sauvignon 100%) Bollicine di Prosecco Igt (Prosecco 100%) I Rossi: Montello e Colli Asolani Doc Phigaia After Red (Cabernet Franc 50%, Merlot 40% Cabernet Sauvignon 10%) Pinot Nero Igt Colli Trevigiani (Pinot Nero 100%)


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Marco, Alberto e Gian Paolo Speri

Mi piacerebbe entrare subito nel vivo del discorso e dire cosa penso della Valpolicella senza dover partire, per farlo, da quella forca caudina rappresentata dal racconto di un passato, più o meno prossimo, che molte volte risulta scontato, ripetitivo e noioso, soprattutto quando si inizia il discorso con quel: “Mi ricordo che un tempo…”. Quanta retorica in una frase come questa! Ma non ci si può fare niente, sembra inevitabile poiché nasce spontanea, come se ognuno di noi non potesse fare a meno di raccontare il presente o di fantasticare su come gli piacerebbe fosse il suo futuro, senza descrivere prima il proprio passato. Sembra quasi che l’atteggiamento istintivo di voler per forza mostrare al nostro interlocutore l’albo delle fotografie della nostra storia sia la migliore giustificazione a ciò che stiamo per dirgli. Quelle tracce, lievi o profonde, di ciò che siamo stati ci consentono di rafforzare e scusare il nostro interloquire. Del resto, non potrebbe essere diversamente. Se io non lo facessi tu potresti non percepire quali siano le due anime che, una al fianco dell’altra, vivono in questo territorio dove, a fronte di una viticoltura d’eccellenza si contrappone lo “scempio” architettonico che ha subìto la Valpolicella. Non mi posso esimere dal raccontarti dei tempi passati, di com’era bello questo territorio, che conosco bene, perché noi altri siamo qui da cinque generazioni e abbiamo sempre fatto i vignaioli. Quindi puoi immaginare quanti siano i ricordi di mio padre Eliseo, degli zii Giuseppe, Benedetto e Carlo, di nonno Sante o le memorie che ci sono giunte dalle generazioni passate, matrice e marchio di ciò che siamo oggi. Se non ne parlassi, forse, potrebbe rimanerti difficile capire come le loro forti personalità e il loro esempio abbiano influito su chi è rimasto per continuare la tradizione vitivinicola della famiglia Speri. Ricordi di guerre e rivoluzioni sociali, di distruzioni e di edificazioni che si sono accavallate nell’arco di quasi due secoli, disegnando un mosaico variegato della nostra storia dove l’intuito, la genialità, l’equilibrio e gli errori di quelli che ci hanno preceduto hanno contribuito a fertilizzare il terreno sul quale siamo cresciuti. Un humus ricco di insegnamenti e di esperienza che ha concimato quella sobria, rispettosa ed etica convivenza che ha sempre contraddistinto i rapporti fra i membri della nostra numerosa famiglia. Ognuno è sempre stato messo davanti a più opportunità di scelta in merito a cosa fare della propria vita e si è confrontato con la possibilità di sperimentare anche altre esperienze lavorative, in alternativa al mondo del vino in cui era cresciuto. Posso assicurare di aver scelto liberamente di essere oggi qui e sono sicuro che anche i miei cinque cugini, con i quali condivido la guida di quest’azienda, possono dire la stessa cosa. Una libertà iniziale che forse è il nostro più forte legame e che ci ha dato la lucidità sia di affrontare meglio la sfida quotidiana che esiste fra cinque teste pensanti nella conduzione della cantina e dei sessanta ettari di vigneti, sia di condividere, con intelligenza, il nostro rapporto di parenti e soci. Di questa nostra capacità ci sentiamo orgogliosi e credo che sia lo stesso orgoglio che ci spinge a dare il meglio di noi come rappresentanti di questo territorio. La nostra è una storia fortemente radicata che si è costruita lentamente con tenacia e sacrificio, con amore e passione, sentimenti che ognuno della famiglia ha messo in abbondanza in questa attività. Ricordi che si accavallano ad altri come quello che mi riporta alla mente la cena che ogni anno, a fine novembre, nonno Sante faceva con i contadini e i cacciatori del paese, i quali avevano l’obbligo di presentarsi alla festa con una bottiglia del loro miglior vino. Serate dove venivano mangiati fagiani e lepri, insieme ad altre primizie di stagione, mentre, chiassosamente, si apriva la competizione per la miglior bottiglia di vino, sfida alla quale già allora si dava molta importanza. La loro era un’attenta disamina di quei vini che si basava su un’approfondita conoscenza del terroir delle varie zone della Valpolicella ed era incredibile come riuscissero a distinguere le sfumature di quelli prodotti a Marano, a Negrar o a Fumane. Eppure erano sempre vini fatti con Corvina, Rondinella e Molinara, ma loro ne percepivano la personalità e le peculiari caratteristiche che le diverse zone donavano loro. Ti posso assicurare che se tu ora avessi la possibilità di riascoltare un solo discorso fatto a una di quelle cene da quei vecchi signori, capiresti immediatamente quali sono le potenzialità di questa Valpolicella e quante siano le sfumature che caratterizzano i vini qui prodotti, oltre a quanti substrati culturali interagiscono in questa speciale area vitivinicola veronese. Sicuramente capiresti questo territorio più di quanto potresti imparare leggendo libri o pubblicazioni


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Recioto della Valpolicella Classico DOC La Roggia specializzate. I tempi purtroppo sono cambiati e tutti ora tendono a omologare i vini, standardizzarli secondo un canone internazionale nella convinzione che non serve perder tempo a ricercare il terroir, soprattutto ora che l’offerta è inferiore alla domanda. Non condivido questo ragionamento anche perché sono convinto che, alla lunga, questo appiattimento si possa rivoltare, come un boomerang, contro i produttori stessi. Nonno Sante diceva sempre che quando si va in bicicletta e si fatica in salita, si deve pensare soprattutto ai freni, perché, prima o dopo, la discesa arriva. È in quest’ottica che abbiamo cercato di mantenere fede alla nostra tradizione vitivinicola, senza fare troppi voli pindarici nella produzione e, rimanendo consapevoli dell’estrema mutevolezza e imprevedibilità dei mercati, abbiamo perseguito ciò che è nelle nostre possibilità.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Corvina e Rondinella provenienti dal vigneto omonimo, posto all’interno del brolo di Villa Giova in località Castelrotto, nel comune di San Pietro in Cariano, le cui viti hanno un’età media di 15 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni principalmente limosi con substrato ghiaioso, è situato ad un’altitudine di 180 metri s.l.m., con un’esposizione a sud-est. Uve impiegate: Corvina 70%, Rondinella 30%, Sistema di allevamento: Pergola veronese Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che inizia di solito a partire dalla prima decade di ottobre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio per l’essiccazione naturale, generalmente fino alla metà di marzo dell’anno successivo alla vendemmia, e comunque non prima di aver raggiunto un grado zuccherino adeguato. A quel punto si procede alla pigiadiraspatura dell’uva e il mosto ottenuto, inoculato da lieviti naturali di Recioto in prefermentazione, è avviato alla fermentazione alcolica che si protrae per 25 giorni in recipienti di acciaio inox, ad una temperatura controllata di 15°C. Terminata questa fase, e dopo un breve periodo di defecazione, il vino è posto in tonneaux di rovere francese di Allier da 500 lt, a grana fine e media tostatura, per metà nuove e per metà di secondo passaggio, dove rimane 35 giorni fino alla sua completa stabilizzazione. Trascorso questo periodo avviene il travaso in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura in cui rimane per 18 mesi. In seguito si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 10.000 bottiglie da 500 cl. l’anno Note organolettiche: Un bel colore rosso impenetrabile fa da preludio a note olfattive piene, articolate, complesse di cioccolato in polvere e frutti di bosco come mora in confettura, noce moscata, frutta rosa appassita. In bocca conferma la complessità olfattiva risultando elegante, morbido, con una buona dose di freschezza che lo rende piacevole, lungo e persistente. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1994, 1995, 1997, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dalla “reccia” (orecchia), la parte più dolce del grappolo che in dialetto veneto è chiamata “recia”, raggiunge la maturità 5 anni dopo la vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Speri dal 1874, l’azienda agricola si estende su una superficie di 60 Ha vitati. Svolge le funzioni di agronomo Giampietro Speri, quelle di enologo Alberto Speri. Altri vini I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc Sant’Urbano (Corvina 70%, Rondinella 25%, Corvinone 5%) Valpolicella Classico Doc Superiore Sant’Urbano (Corvina 70%, Rondinella 25%, Molinara e Corvinone 5%) Valpolicella Classico Doc Superiore Vigneto Ripasso (Corvina 70%, Rondinella 20%, Molinara 5%, altre uve autoctone 5%) Valpolicella Classico Doc (Corvina 70%, Rondinella 30%, Molinara 10%)


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Valentina, Meri, Arianna e Alessandra Tessari

Giornata splendida. Mi lascio alle spalle il paese di Soave e, percorrendo la stretta strada che si arrampica tortuosa sulla collina, mi dirigo verso Fittà. Curva dopo curva il paesaggio si trasforma e i capannoni del fondovalle lasciano spazio a un susseguirsi di viti che, lambendo i bordi della strada, sembrano indicarmi la direzione. L’aria è tersa e il cielo si stacca netto da quel mare di vigneti che mi danno la dimensione e il significato che assume, per queste terre di Soave, la viticoltura. Viaggio spedito, avendo la sensazione di trovarmi in un ambiente amico dove tutto è familiare. C’è silenzio e il traffico è inesistente, mentre ad ogni tornante una genuina atmosfera contadina, indenne da eccessi consumistici, mi avvolge, distraendomi piacevolmente e costringendomi a rallentare l’andatura e a pormi in armonia con essa. Ho un appuntamento con la famiglia Tessari, dell’azienda Suavia, con la quale dovrò scusarmi per il ritardo, ma non riesco ad aumentare di un solo chilometro la velocità. Ciò che vedo giustifica già il mio viaggio ed è sufficiente a farmi comprendere cosa mi attenda e quale sia lo spirito che possa aver animato Giovanni Tessari che è rimasto su queste ripide colline costruendo e poi consolidando la sua piccola azienda vitivinicola, una delle tante che, in Italia, rendono onore e merito all’arte del vignaiolo. Con grande sorpresa al mio arrivo non trovo ad attendermi solo il padrone di casa e Rosetta la sua gioviale e solare consorte, ma anche le loro figlie Meri, Alessandra, Arianna e Valentina, che già da qualche anno collaborano con il padre nella conduzione della cantina. Nel vederle ho una positiva e piacevole sensazione, oltre alla certezza che rappresentino un bel futuro per quest’azienda appartenendo a una generazione che mi sembra abbia capito come interfacciarsi con quello splendido e meraviglioso concetto di genuina tradizione contadina del passato che, in questa casa, è personificata in modo semplice, puro, e schietto e magistrale da Giovanni, un contadino Doc come qui intorno ce ne devono essere ancora molti. Hanno un modo di proporsi brillante, spavaldo, ma al contempo educato, accompagnato da un curioso dinamismo che più o meno li contraddistingue tutti. Giovanni è silenzioso e noto che, pur girando di tanto in tanto intorno al tavolo dove siamo tutti seduti, si pone in disparte e osserva orgoglioso le sue tosette, come ancora teneramente chiama le figlie, mentre Rosetta, dopo aver fatto gli onori di casa e aver preparato un caffè che ha servito velocemente, si è defilata per nascondersi con quella elegante riservatezza di chi sa quale sia, in questo momento, il proprio ruolo di madre. Le osservo mentre mi raccontano le motivazioni che le hanno spinte a rimanere legate all’azienda. Ognuna ha una sua personale passione che l’ha motivata a restare, ma concordano tutte che la principale causa è il grande attaccamento a questo ambiente per loro familiare. Del resto, fra me e me penso e mi domando: “Ma dove sarebbero dovute andare se qui hanno ciò che desiderano e tutto quello di cui avrebbero potuto aver bisogno nella vita? Qui hanno la serenità, l’armonia e l’amore di cui io stesso, che sono arrivato da cinque minuti, percepisco l’energia. Sono nate e cresciute insieme nell’azienda…”. Penso che per loro si deve essere trattato semplicemente di saper ascoltare cosa comandava il cuore e utilizzare i loro sensi per apprezzare le atmosfere che, percepite nell’infanzia, si erano amplificate man mano che crescevano, diventando sempre più reali, vitali, palpabili, concrete, uniche e introvabili da altre parti, le stesse atmosfere con le quali sono diventate donne. Guardandole negli occhi ho la percezione che ognuna, a modo suo, si senta realizzata e in perfetta sintonia con l’ambiente, il territorio e con il proprio animo, ricco di una grande gratitudine verso Giovanni e Rosetta che sono riusciti, lavorando tutta una vita, a lasciare loro non solo la nuda e cruda proprietà, ma il valore morale della famiglia. Sento di aver davanti a me degli spiriti liberi, che devono aver scelto di rimanere sentendosi fortemente coinvolti all’interno di quel nucleo dove non si distinguono più nettamente i confini fra azienda e famiglia. Un nucleo dove non vi sono ruoli gerarchicamente prestabiliti, ma una serena e armoniosa convivenza, dove ognuno fornisce il proprio contributo, ritagliandosi uno spazio che si è conquistato più con la personalità che con le sole capacità tecniche. Mi piacciono e mentre le ascolto, gioco a “colorarle”, abbinando con la fantasia un colore alla personalità di ognuna di esse. Così penso che a Meri, laureata in Scienze della Formazione e dell’Educazione a Verona, potrebbe andar bene un bel giallo intenso, mentre


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Soave Classico DOC Le Rive ad Arianna, corrispondente in Lingue Estere e madre di due bambini, donerebbe un bel rosa acceso, tendente al fucsia; per Valentina invece, enologa della famiglia, mi viene in mente un bel verde e per Alessandra, la più piccola e ancora studentessa, mi raffiguro un ricco e splendido turchese. Colori vivi e brillanti, come sono queste quattro ragazze che mi stanno di fronte. La conversazione prosegue e nell’ascoltarle si chiariscono i meccanismi di connessione che accendono e regolano questa convivenza e scopro che Valentina, ad esempio, ha un carattere molto equilibrato, che le piace vivere tranquillamente e avere sempre la situazione sotto controllo, un po’ come il padre, mentre Meri è più esuberante, loquace e molto ben capace di relazionarsi e comunicare con gli altri. Alessandra, il cucciolo del gruppo, è solare come la madre e ottimista per natura, ironica e molto aperta alla vita, tendente a sdrammatizzare qualsiasi problema, mentre Arianna deve essere la più saggia e colei alla quale le altre si rivolgono quando hanno bisogno di un consiglio. Più le ascolto e più il mio pensiero vola a Giovanni e a Rosetta che stanno assumendo, ai miei occhi, un valore sempre maggiore. Devo riconoscere che sono stati veramente bravi a far crescere così serenamente tutte e quattro le loro figlie senza mai far pesare loro i sacrifici che indubbiamente devono aver fatto per farle studiare con profitto, nella genuina convinzione che una persona vale per quello che sa e non per quello che ha.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Fittà nel comune di Soave, le cui viti hanno un’età media di 50 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni basaltici ricchi di zinco e manganese, è situato ad un’altitudine di 300 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Pergola veronese Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 10°C per 24 ore, inizia la fermentazione alcolica ad opera dei lieviti indigeni che si protrae per 20 giorni, alla temperatura di 18-20°C, in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura per il 30% nuove e per il 70% di secondo e terzo passaggio; in queste barriques il vino svolge, a seconda dell’annata, anche la fermentazione malolattica e rimane per 12 mesi, durante i quali vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Si procede quindi all’assemblaggio delle partite e il vino è messo per 6 mesi in tini di acciaio inox per un lungo periodo di stabilizzazione e decantazione; segue l’imbottigliamento ed un ulteriore affinamento di almeno 6 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 7.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, mentre all’esame olfattivo sprigiona note fruttate di ananas, crosta di pane, biscotti e percezioni speziate di coriandolo. In bocca la componente sapida risulta elegante; molto piacevole, rotonda ed equilibrata la freschezza; lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1990 Le migliori annate:1998, 2000, 2001, 2002 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Tessari dal 1982, l’azienda agricola si estende su una superficie di 12 Ha, tutti vitati. Svolge funzione di agronomo e di enologo Valentina Tessari. Altri vini I Bianchi: Soave Classico Doc Monte Carbonare (Garganega 100%) Soave Classico Doc (Garganega 95%, Trebbiano di Soave 5%)




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Tempo, culo e siori i fa sempre quello ch’è i vol lori (Il tempo, il culo e i signori fanno sempre quello che vogliono loro)

Pio e Gaetano Tamellini

C’è poco da fare. È sempre stato così, soprattutto per noi contadini. Non pensavamo di poter cambiare le cose. Ci dicevano: “Vanno come devono andare. D’altronde abbiamo sempre lavorato in campagna ed è quello che dobbiamo continuare a fare, sperando che tutto vada bene. Ciò che accade intorno è fatalità, lo straordinario che irrompe nel quotidiano, è la grandinata che rovina il lavoro di un anno che non possiamo né prevedere, né fermare. Non fa niente: si va avanti lo stesso. Si sa. Il tempo fa sempre quello che vuole e non serve imprecare o logorarsi il fegato. È necessario solo pazientare”. Non pensavamo di poter determinare il destino, poiché ognuno ha una strada tracciata e, qualsiasi cosa faccia o abbia intenzione di fare, è su quella strada che, prima o poi, ritorna sempre a camminare. Ed è così, soprattutto per gente come noi, nata su queste colline e legata a queste viti; siamo cresciuti e siamo rimasti qui anche se ognuno di noi ha studiato e affrontato percorsi formativi diversi che ci potevano aprire altre opportunità lavorative. Del resto, nessuno avrebbe immaginato un’altra soluzione per il nostro destino, tranne quella che poi si è effettivamente realizzata. A cosa avremmo potuto aspirare di diverso, visto che ognuno di noi due si è seduto prima su un trattore che davanti alla televisione? Non ci siamo mai posti il problema di cosa avremmo fatto da grandi. Inconsciamente lo sapevamo fin da quando eravamo piccolissimi e ci entusiasmavamo aiutando nostro padre ad attaccare gli attrezzi al trattore o quando ci stupivamo di cosa fosse capace una vite oppure di quando incominciavamo a capire l’importanza di questo lavoro, che svolgevamo all’aria aperta, a contatto con la natura che, con i suoi ritmi, necessita di una precisa gestualità. Ogni cosa che ci circonda e ogni gesto che abbiamo compiuto in tutti questi anni sono sempre stati parte integrante di noi stessi e nessun’altra passione o pensiero è mai venuto a scacciare dalla nostra mente queste semplici emozioni. È per questo che siamo rimasti qui a fare i vignaioli, perché non avremmo potuto fare altro di differente da ciò che abbiamo fatto; con il tempo abbiamo scoperto di essere complementari e che potevamo costruire un connubio ottimale per condurre l’azienda di famiglia, la quale conferiva, fino a quando nostro padre è stato in vita, tutte le uve prodotte alla Cantina Sociale di Soave. La morte di nostro padre è avvenuta nel 1997 ed è da quell’anno che abbiamo deciso di essere sufficientemente grandi per poter mutare le cose. Risolvemmo perciò di camminare con le nostre gambe togliendoci dalla cooperativa e avviando un processo di rinnovamento dell’azienda che ancora oggi non si è concluso. Lo sforzo maggiore lo producemmo nei vigneti, con la sistemazione degli impianti e il riequilibrio delle varie tipologie dei vitigni, così da trasformarci, da semplici produttori di uve, a veri vignaioli produttori e imbottigliatori del nostro vino. Un cambiamento totale che ha richiesto tempo e grandi investimenti, non facili da realizzare per chi, abituato per anni ad occuparsi esclusivamente dell’aspetto viticolo, si basava su un’economia aziendale scarsamente remunerativa. Trasformare il lavoro che avevamo sempre svolto nelle vigne in vino e riuscire a collocarlo sul mercato non è stato semplice. Del resto, signori non eravamo nati e avevamo solo bisogno di tempo e di un po’ di… fortuna. I primi anni ci hanno visto lavorare tanto senza riuscire, però, ad avere una prospettiva chiara e precisa di dove stavamo andando. Si lavorava, si produceva e si investiva nell’azienda. I soldi che entravano, magicamente e per fortuna, non riuscivamo neanche a toccarli. Momenti duri, difficili, che ancora non si sono conclusi, ma che ci vedono oggi più ottimisti rispetto al passato, poiché ci rendiamo conto che il mercato incomincia a conoscerci e ad apprezzarci e questo grazie ad una politica aziendale con la quale abbiamo saputo mantenere, anno dopo anno, un giusto rapporto qualità-prezzo dei vini che commercializziamo. Oltre ad alcuni fattori esterni, crediamo che ci abbiano aiutato molto la motivazione e la determinazione che abbiamo sempre dimostrato nel voler cambiare il corso delle cose.


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Soave Classico DOC Le Bine de Costìola Una cocciuta testardaggine che trae la sua ragion d’essere da quella educazione contadina nella quale siamo cresciuti e che si è sempre basata sulla dignità del lavoro e sul rapporto che lega la terra a chi la lavora. Un altro elemento che ci ha molto aiutato è stato il rapporto tra di noi, che non si basa solo su una complicità fraterna, ma investe i sentimenti e la capacità di dialogare per giungere a obiettivi comuni. Siamo indubbiamente due caratteri diversi che si completano e si interfacciano fra di loro, contrapponendo in modo positivo chi è introverso a chi è espansivo, chi è più incline a rifugiarsi in mezzo alle vigne a chi è più attento al lavoro di cantina. Due modi di interpretare e sviluppare le sinergie che si vengono a creare di volta in volta sul lavoro, che interagiscono nei personali processi di crescita di ognuno di noi, e che conducono Pio Francesco, che vive più a contatto con la natura, a essere più concreto e pragmatico, mentre Gaetano, che invece sta a contatto con il mercato e con le problematiche del vino, a essere più propositivo e sognatore. È stato sempre così, fin da piccoli, e sono queste forme caratteriali le uniche che non possiamo modificare. Per il resto dovremo continuare a stare vicini per poter riempire ogni giorno una pagina nuova di quel libro che noialtri abbiamo iniziato a scrivere qualche anno fa.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Costìola, nel comune di Soave, le cui viti hanno un’età di 35 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei, è situato ad un’altitudine di 100 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Pergola veronese doppia Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre fino alla fine di ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e il mosto ottenuto, dopo una pulizia statica effettuata alla temperatura controllata di 5°C per 24 ore, è avviato alla fermentazione alcolica che si protrae per 35-40 giorni, ad una temperatura di 15-18°C in tini di acciaio inox in cui rimane per 8 mesi; in questa fase vengono effettuati periodici sur lies al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. Alla conclusione di questo periodo si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo una leggera filtrazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di almeno 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo paglierino con riflessi dorati, mentre all’esame olfattivo sprigiona profumi di fiori di lavanda che si mescolano a note fruttate di albicocca matura, a bacche di pepe bianco e a percezioni erbacee e minerali. In bocca ha un’entratura elegante, piacevole, equilibrata; buona la sapidità e la freschezza che lo rendono lungo e di buona persistenza ad un retrogusto dalla leggera vena mandorlata. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 2002, 2004, 2006 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto e dal dialetto con cui si indicano i filari delle viti della zona posti a “costìola”, raggiunge la maturità dopo 2 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 2 e i 5 anni. L’azienda: Di proprietà dei fratelli Gaetano e Pio Tamellini dal 1998, l’azienda agricola si estende su una superficie di 17 Ha, tutti vitati. Collaborano in azienda l’agronomo Federico Curtaz e l’enologo Paolo Caciorgna. Altri vini I Bianchi: Recioto di Soave Doc Vigna Marogne (Garganega 100%) Soave Doc (Garganega 100%)


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Antonietta, Riccardo, Maria Sabrina, Bruna e Lorenzo Tedeschi

Come affermava un mio professore di università, probabilmente io sono nata in un fermentatore. Rammento che, durante un esame universitario, alla domanda a cosa servisse quell’apparecchio ebbi un attimo di esitazione e il professor Corrado Cantarelli se ne uscì: “Ma come, eppure tu dovresti saperlo, sei nata dentro a un fermentino!”. Sorrisi, riflettendo però, subito dopo, su quanta verità invece vi fosse in quella frase. Quel docente non aveva sbagliato ad affermare che ero nata in mezzo ai fermentatori e al profumo del vino. Non era un mistero per nessuno che io e i miei fratelli Antonietta e Riccardo eravamo cresciuti ed eravamo stati educati con i modi “austro-ungarici” di mamma Bruna, stando in cantina, giocando e nascondendoci dietro alle botti o in mezzo ai cartoni del vino pronti per essere spediti, respirando i profumi del mosto. Quegli stessi profumi ci hanno tanto incuriositi e hanno condizionato la nostra vita. Forse è proprio questa la spiegazione che chiarisce come mai siamo stati così ricettivi agli esempi che venivano da papà Lorenzo e agli stimoli che derivavano dal suo lavoro di viticoltore, un lavoro che la famiglia Tedeschi svolge in Valpolicella dal 1630, con un’attività vitivinicola documentata dal 1820. Stimoli di cui è difficile determinare l’intensità, poiché non si potrebbero mai ricostruire tutte quelle sensazioni che, inconsciamente, abbiamo fatto nostre vivendo accanto a un padre vignaiolo che ci ha avvicinati alla natura, alla terra, alla cultura della vite e del vino e che, con il suo instancabile attivismo e il suo inarrestabile procedere, ci ha fatto comprendere quanto sia importante vivere intensamente ogni attimo del presente cercando di guardare al futuro. Lui è sempre stato così. Andava avanti senza alcuna titubanza o cedimento, nel massimo rispetto degli altri e dell’etica che si era imposto di osservare, sempre concentrato sul lavoro che finalizzava a consolidare l’esistente, per costruire un domani per quest’azienda e per i suoi figli, nella speranza che quando fossimo cresciuti, almeno uno dei tre avesse avuto voglia di proseguire la tradizione di famiglia. Invece ecco che siamo tutti e tre accanto a papà Lorenzo, ancora oggi prodigo di consigli nonché attento e oculato osservatore delle scelte che vengono prese in azienda. Non poteva essere diversamente se si cresce in una famiglia così, con dei genitori fortemente stimolanti. Credo sia normale che quei giochi infantili e adolescenziali in cantina abbiano poi stimolato me a diplomarmi come Tecnico di Laboratorio di Chimica e di Microbiologia e a laurearmi in Scienze e Tecnologie Alimentari, mia sorella Antonietta a scegliere la strada della gestione aziendale e mio fratello Riccardo a studiare enologia a Conegliano. Io poi mi sono dedicata all’insegnamento di Enologia e di Microbiologia Enologica all’Istituto di San Michele all’Adige. Con il senno di poi, mi pare naturale inserire anche questa scelta nel quadro più generale di una persona che, man mano che cresceva, si sentiva una predestinata e come tale aveva deciso di orientare le proprie conoscenze verso i segreti che si racchiudevano in quei profumi che aveva percepito da piccola in cantina. Dopo quelle esperienze esterne, non mi meraviglio di essere qui, anzi mi dovrei stupire del contrario, soprattutto se fossi stata così sciocca da non dare ascolto, quando insegnavo a Trento, al richiamo che proveniva dalla mia terra e dalla famiglia, un richiamo che mi spinse, prima a fare la pendolare fra l’azienda e la scuola e poi ad abbandonare l’insegnamento e a trasferirmi in Valpolicella con la mia famiglia. Era naturale che ritornassi, poiché sono qui le mie radici, anche se non nego che ho provato a “soverchiare” quel destino, allontanandomi, unica dei tre fratelli, per qualche anno, scoprendo però che l’insegnamento era troppo poco gratificante per le mie aspettative e che la ricerca, sviluppata nei laboratori universitari, restringeva il mio campo d’azione precludendomi qualsiasi altro interscambio culturale se non quello strettamente scientifico. Ora che ho preso il mio posto e con i miei fratelli mi integro perfettamente, con ruoli e competenze specifiche che interagiscono fra di loro, mi sento felice di poter contribuire alle fortune di quest’azienda familiare. Anche con i miei genitori sto sempre più consolidando un legame forte, poiché con il passare degli anni ho capito quali e quanti siano stati i sacrifici che essi hanno fatto sia per costruire quest’impresa, sia per mantenere vivo, sano e genuino, quest’ambiente familiare dove prima siamo cresciuti noi tre e dove adesso crescono tutti i nostri figli. Senza accorgermene ho scoperto anche che, man mano che si ampliava la mia “familiare” conoscenza del vino e di tutto ciò che vi gravita intorno, mi sono trovata a considerare il territorio della Valpolicella un po’


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Amarone della Valpolicella Classico DOC La Fabriseria più mio. Del resto ne ho sempre sentito parlare dai miei genitori, come se queste terre fossero vive e avessero un’anima propria che doveva essere protetta e accudita. Così, ora trovo giusto arrabbiarmi nel vedere come si abusi di loro e attribuisco grande importanza al lavoro dei vignaioli, praticamente gli unici che si adoperano per tutelarle. Penso che anche questo rispetto per l’ambiente e per queste terre mi sia stato insegnato da mio padre, senza troppi proclami o manifestazioni chiassose, ma con il silenzioso esempio del suo quotidiano impegno in vigna. A capire tutto questo probabilmente ha contribuito la mia capacità di osservare e di chiedermi cosa mi stesse succedendo intorno, ma per quanto tra noi tre ne parliamo spesso, ci sono delle cose che restano incomprensibili. Non sappiamo per esempio come nostro padre sia riuscito a trasmetterci i geni dell’entusiasmo, della curiosità e della volontà, che ora, in eguale misura, ci ritroviamo dentro, e non sappiamo come sia successo che quella cocciuta caparbietà e quella sana ambizione di tendere alla perfezione, che hanno caratterizzato sempre il modo di fare di mia madre, oggi le sentiamo anche fortemente nostre. Se potessi determinare che loro mi hanno veramente trasmesso quei geni, allora la mia passione per il vino sarebbe quasi riconducibile ad un marchio di fabbrica e ciò non varrebbe soltanto per me, ma per ogni componente della famiglia Tedeschi! Del resto, nei numeri e nelle sequenze regolari del DNA, nelle formule chimiche o nelle molecole, potrei provare a ricercare le spiegazioni di quell’imprinting enologico, ma la conoscenza della materia mi ha fatto comprendere quante domande rimangano senza risposte e non mi aiuterebbe a capire perché certe cose partano dal profondo del cuore e coinvolgano le sfere più intime dell’animo e come mai mi senta parte integrante di un progetto più ampio e di un senso non materiale, ma spirituale, che comprende parole come famiglia e amore.

Zona di produzione: Il vino è prodotto solo in alcune annate dalla vinificazione delle migliori uve Corvina, Corvinone e Rondinella provenienti da tre vigneti di proprietà dell’azienda: la Corvina è raccolta nelle Valli di Marano, la Rondinella in quella di Negrar e il Corvinone in quella di Fumane; tutti i vigneti, posti nei comuni omonimi, hanno viti con un’età media di circa 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni rossi, argillosi e calcarei, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 290 e i 320 metri s.l.m. con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Corvina 34%, Corvinone 33%, Rondinella 33% Sistema di allevamento: Pergola trentina Densità di impianto: 2.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla metà di febbraio. Raggiunta la maturazione, le stesse vengono pigiate e il mosto ottenuto si avvia ad una breve criomacerazione pellicolare in assenza di ossigeno che si protrae per una decina di giorni al termine dei quali, con l’innalzamento della temperatura parte la fermentazione alcolica che dura 40 giorni ad una temperatura di circa 15°C in recipienti di acciaio inox; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce. Terminata questa fase, si procede alla svinatura e dopo un breve periodo di decantazione statica, il vino è posto in botti di rovere di Slavonia da 15 hl, in presenza delle fecce pulite e fini, in cui rimane per 30-36 mesi. Si procede quindi all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione in acciaio, il vino è imbottigliato per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima della commercializzazione. Quantità prodotta: 3.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino profondo, il vino si presenta all’esame olfattivo intenso di caffè, tabacco e vaniglia accanto a note intriganti di ribes e confettura di marasche, lamponi e ciliegie sotto spirito con un finale mieloso e balsamico. In bocca è robusto, pieno, ricco, avvolgente, intrigante, reattivo, risultando nell’insieme di buon equilibrio; elegante, si lascia accompagnare da una piacevole e sensuale morbidezza e da una buona freschezza che lo rendono lungo e persistente. Prima annata: 1983 Le migliori annate: 1983, 1988, 1995, 1997, 1998, 2003 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 6 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 6 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Tedeschi dal 1630, l’azienda agricola si estende su una superficie di 104 Ha, di cui 20 vitati, 2 occupati da oliveto e 50 occupati da boschi e prati. Svolge funzione di agronomo e di enologo Riccardo Tedeschi. Altri vini I Rossi: Recioto della Valpolicella Doc Capitel Monte Fontana (Corvina 30%, Corvinone 30%, Rondinella 30%, altre varietà autoctone 10%) Amarone della Valpolicella Classico Doc Capitel Monte Olmi (Corvina 30%, Corvinone 30%, Rondinella 30%, altre varietà autoctone 10%) Amarone della Valpolicella Classico Doc (Corvina 30%, Corvinone 30%, Rondinella 30%, altre varietà autoctone 10%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ripasso Capitel San Rocco (Corvina 30%, Corvinone 30%, Rondinella 30%, altre varietà autoctone 10%) Valpolicella Classico Doc Superiore Capitel dei Nicalò (Corvina 30%, Corvinone 30%, Rondinella 30%, altre varietà autoctone 10%) Valpolicella Classico Doc Lucchine (Corvina 25%, Corvinone 25%, Rondinella 20%, Molinara 20%, altre uve autorizzate 10%)


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Tiziano, Armando, Paolo e Massimo Castagnedi

A volte ci pensiamo, ma non gli diamo peso. Eppure sarebbe anche logico arrivare a determinare o solo ad intuire quali siano le vere ragioni che ci tengono uniti. Pur sapendole, non so se saremmo in grado di esprimerle liberamente: ci frenerebbe un po’ la timidezza che assale sempre noi veneti quando dobbiamo parlare di cosa nasconda il nostro animo. Pudicizia, remora, vergogna, forse non sappiamo cosa sia, ma anche se ognuno di noi, in cuor suo, ha trovato una risposta a questa domanda e sente che è quella più vicina ai propri sentimenti e al proprio modo di confrontarsi con gli altri membri della famiglia, difficilmente troverà il coraggio di esternarla. Quindi non insistere, come vedi tacciamo tutti, e forse è bene che sia così, poiché queste domande non cambiano il corso delle cose. C’è da pensare ad altro, c’è da pensare al lavoro con cui poter contribuire a far crescere questa azienda vitivinicola che abbiamo deciso di mettere in piedi e nella quale ognuno di noi è chiamato a dare il proprio contributo. Noialtri siamo fatti così e di questo non ti puoi meravigliare; è difficile aprirci e cambiare ciò che siamo, poiché tutto si è costruito nel tempo, attraverso esperienze che abbiamo accumulato stando uniti come fratelli, come membri della stessa famiglia, stando al fianco di papà Antonio che, avendo quattro figli maschi, ci ha educati rigidamente, facendoci comprendere che solo attraverso il lavoro avremmo potuto ottenere dei risultati nella vita. Ecco, forse è proprio all’interno del nucleo familiare, se vuoi, che troverai le vere motivazioni del nostro stare insieme. Solo chi è nato in una famiglia di contadini può comprendere l’importanza di quei meccanismi che ci uniscono e ci pongono giornalmente, tutti insieme, intorno ad un tavolo per condividere, sempre alla stessa ora, un pasto comune. È in quella cucina che, giorno dopo giorno, si costruiscono e si consolidano certi automatismi che ti danno la forza di stare assieme. È con quella forza e determinazione che abbiamo deciso di intraprendere questa avventura, consapevoli che l’esperienza accumulata, in anni e anni passati intorno alle viti che accudivamo nell’azienda paterna, potesse servire per costruire un percorso nuovo, una nostra cantina, una nostra nuova azienda vitivinicola. Eravamo sicuri che la viticoltura che stavamo praticando non ci prospettava nessun futuro e non ci avrebbe consentito di andare oltre quei semplici automatismi che regolano i rapporti che esistono fra chi produce le uve e la Cantina Sociale alla quale le conferisce come socio. Erano tempi in cui ci muovevamo senza avere piena coscienza di ciò che stavamo facendo, rispettando diligentemente solo i meccanismi che si ripetevano a scadenze fisse e avevamo come unico fine quello di ottenere la massima resa consentita dalle vigne, come ci aveva insegnato a fare la Cantina Sociale, arrivando a produrre fino a 250 quintali per ettaro. Bisognava potare quando era il tempo, concimare la vigna nella stagione giusta, spargere gli anticrittogamici e poi attendere di vendemmiare. Era tutto qui ciò che dovevamo fare. Era quello il nostro standard lavorativo, un anno dopo l’altro. Nemmeno la vendemmia riusciva a scuoterci dal nostro torpore! Non stiamo parlando di un’epoca remotissima, ma solo di dodici anni fa! Non ci vergogniamo di dire che non conoscevamo minimamente il mondo del vino e quindi nemmeno quali fossero la cultura o le regole da seguire per mantenere un vigneto capace di produrre uve di qualità. Ognuno di noi, in modo diverso, sentiva dentro di sé soltanto il desiderio di fare di più, di trovare nuovi stimoli e percorrere strade che gli offrissero l’opportunità di uscire da quella mediocrità, non solo intellettiva ma anche economica, in cui si trovava. Bisognava cambiare rotta e modificare il nostro atteggiamento. Avevamo bisogno di acquisire un’apertura mentale capace di andare oltre le nostre vigne, se volevamo cambiare il nostro destino. Così ci recammo in Francia e anche in Piemonte, nelle Langhe, nella zona del Barolo. Rimanemmo sorpresi di come, a giugno, quei vignaioli fossero indaffarati a seguire con scrupolosa attenzione le loro viti. I ripetuti incontri con i produttori di quelle zone ci aprirono nuovi orizzonti e ci fecero intuire proprio quelle prospettive che andavamo cercando. Sono passati circa dieci anni e questa cantina è il frutto di quelle nostre idee che ci hanno cambiato profondamente, costringendoci a ritornare sui libri, a informarci e ad apprendere nuove nozioni tecniche per poter comprendere sempre meglio cosa


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Amarone della Valpolicella DOC Campo dei Gigli stavamo facendo e dove volevamo andare. Sono stati anni complessi, ma anche difficili, ricchi di entusiasmo e anche di delusioni, soprattutto quando ci accorgemmo, dopo l’attentato delle torri gemelle a New York dell’11 settembre 2001, che quella bolla speculativa che aveva cavalcato, per anni, tutto il mondo del vino e nella quale eravamo entrati, ciecamente consigliati da certi consulenti, all’improvviso si era sgonfiata. Quel momento ci portò a rivedere tutte le nostre strategie, facendoci ritornare con i piedi per terra e ripartire da zero e iniziando a farci dialogare sempre più con il mercato al quale interessava la vera espressione di questo territorio e quella tipicità che da sola avrebbe creato il distinguo fra i nostri vini e quelli delle altre zone della Valpolicella. Tutto questo lo abbiamo fatto insieme, da fratelli, in armonia, sentendoci tutti e due alla pari e rispettando la specializzazione acquisita dell’altro non per meriti o per titoli scolastici, ma naturalmente, secondo le proprie personali predisposizioni. Facendo cosi, siamo riusciti a non demordere e a dare corpo ai nostri sogni senza dimenticarci mai gli insegnamenti di Antonio che, ancora oggi, a ottant’anni, ci aspetta a casa sua tutte le mattine, alle sette, per prendere il caffè insieme e dirci, dopo aver passato le sue giornate in mezzo ai vigneti, dove c’è una buca da ricoprire o una vite che abbisogna di uno specifico trattamento. Non c’è niente da fare. Noialtri siamo fatti così e certe cose non vogliamo che cambino mai; del resto la famiglia è la famiglia!

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Corvina, Corvinone, Rondinella, Croatina e Oseleta provenienti dal vigneto omonimo di proprietà dell’azienda, posto in località Monte Garbi, nel comune di Mezzane di Sotto, le cui viti hanno un’età di 33 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcarei, è posizionato ad un’altitudine di 370 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Corvina 40%, Corvinone 30%, Rondinella 20%, Croatina 5%, Oseleta 5% Sistema di allevamento: Pergola veronese doppia Densità di impianto: 4.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla fine di dicembre. Raggiunto l’appassimento ideale, si effettua la pigiatura delle uve e il mosto ottenuto subisce una breve crioestrazione a temperatura ambiente al termine della quale, con l’innalzamento della temperatura, si avvia naturalmente la fermentazione alcolica che si protrae per un periodo di circa 25 giorni in tonneaux nuovi da 500 lt, senza l’innesto dei lieviti selezionati e senza controllo della temperatura, effettuando follature giornaliere a mano; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce che dura poi altri 15-20 giorni, periodo durante il quale vengono sigillati i tonneaux senza che le vinacce siano più toccate. Terminata questa fase, che dura di solito fino alla fine del mese di gennaio dell’anno successivo alla vendemmia, si procede alla svinatura e dopo un breve periodo di decantazione il vino viene nuovamente posto negli stessi tonneaux in cui rimane per 36 mesi; segue l’assemblaggio delle partite, quindi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 12 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 13.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso di grande luminosità, il vino al naso presenta note speziate dolci di chiodi di garofano, anice, liquirizia e tabacco che si vanno ad aprire a percezioni di piccoli frutti del sottobosco e di fiori appassiti. In bocca è elegante, ampio, equilibrato, sorretto da fibra tannica vellutata e da una buona freschezza che lo rende lungo e persistente. Prima annata: 1995 Le migliori annate: 1995, 1997, 2000, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dal vigneto omonimo, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Castagnedi dal 1990, l’azienda agricola si estende su una superficie di 50 Ha, di cui 48 vitati e 2 coltivati a oliveto. Svolge la funzione di agronomo Massimo Castagnedi, quella di enologo Paolo Castagnedi. Altri vini I Bianchi: Soave Doc Superiore Monte Ceriani (Garganega 100%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Doc Selezione Antonio Castagnedi (Corvina e Corvinone 70%, Rondinella 20%, Croatina 5%, Oseleta 5%) Recioto della Valpolicella Doc Argille Bianche (Corvina e Corvinone 50%, Rondinella 35%, Croatina e Oseleta 15%) Cabernet Sauvignon Igt Capitel del Monte (Cabernet Sauvignon 100%) Valpolicella Doc Superiore La Bandina (Corvina 70%, Rondinella 20%, Croatina 5%, Oseleta 5%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ripasso Monte Garbi (Corvina e Corvinone 70%, Rondinella 20%, Croatina 5%, Oseleta 5%)




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Stefano, Pierangelo, Pier Giorgio, Giancarlo, Michela, Francesca, Erica, Barbara e Paola Tommasi

Li guardo dritti negli occhi cercando di conoscerli. Mi ci vuole poco per capire che davanti a me ho occhi vivi che non si nascondono, ma, incrociando i miei, contraccambiano in modo esuberante e schietto il mio sguardo, curiosi di scoprire chi sia il loro interlocutore. Non mi disturba la loro invadenza, anzi mi piace lo scambio e rimango un po’ immobile per godermi questo momento, convincendomi sempre più che, forse, ci deve essere stata qualche ragione che mi ha condotto al cospetto di occhi così veri e belli. Come al solito vorrei andare oltre questa prima impressione, ma freno il mio entusiasmo, avendo paura di sfogliare troppo velocemente la pagina che mi racconta le impressioni di questo primo impatto visivo e anche un po’ epidermico con loro. Devo riuscire a centellinare tutte le emozioni che sto vivendo nel vedere questi sguardi che mi trasmettono armonia, altrimenti rischio di non capire cosa vi sia dopo. Non so se dovrei affrontarli subito in modo diretto o lasciarli abituare alla mia presenza, perché non sono venuto qua solo per parlare di vino, ma soprattutto per conoscere chi c’è dietro ad esso e, in questo caso, carpire quale sia il senso di una così serena convivenza fra persone tanto diverse e, per giunta, anche parenti fra loro. Forse per questo dovrei parlare con i fratelli Sergio, Ezio, Franco, Dario e i loro genitori che, per farli crescere così bene, in questi ultimi quarant’anni, devono avere sicuramente scandito regole, elargito consigli e regalato, a pieni mani, rispetto e amore, oltre ad un grande senso d’appartenenza. Davanti a me ho tutta la quarta generazione dei Tommasi: Francesca, Paola, Pierangelo, Stefano e Giancarlo, Barbara ed Erica, Pier Giorgio e Michela. Tutti qui, ansiosi di sapere il motivo di questa riunione. Li guardo e taccio, ma a loro questa cosa non preoccupa più di tanto. Anzi si disinteressano dei miei silenzi, hanno altro a cui pensare, visto che questa è una buona occasione per incontrarsi e stare insieme, essendo ognuno, spesso, lontano dall’altro, impegnato com’è nelle varie attività in cui si sviluppano gli interessi dei Tommasi o nelle rispettive famiglie. Li sento parlare fra loro e sembra che abbiano molte cose da dirsi e altro da fare piuttosto che pensare ai miei silenzi o al motivo per il quale li ho fatti scomodare, tutti insieme, di domenica mattina per una foto ricordo. Si parlano addosso, toccandosi e “annusandosi” come farebbe un branco. Sicuramente, il loro è un gioco istintivo che serve per sentirsi parte di quel gruppo al quale hanno deciso di appartenere fin dal 1997, data di partenza del progetto aziendale che li vede protagonisti e, nel quale, con un giuramento morale, ognuno di loro si è responsabilizzato nei confronti dell’azienda di famiglia per il presente e il futuro. In loro mi sembra di intuire il senso pratico e pragmatico di questo Veneto che sto cercando di conoscere, che mi ha dato l’idea, di essere, imprenditorialmente, una regione molto dinamica, ma anche molto restìa ad affrontare quel cambio generazionale indispensabile per disegnare il futuro delle imprese, come se, alla base, vi fosse un senso di chiusura e di diffidenza da parte della vecchia imprenditoria sulle capacità della nuova classe dirigente. Qui invece era diverso. Davanti a me vi era un’azienda che, su questo argomento, aveva investito molto e fatto un programma intelligente di lavoro. Di questo avrei dovuto fare un plauso e darne loro atto appena fosse capitata l’occasione. Li osservavo e sorridevo poiché quello che mi stava piacendo è che in loro vedevo proprio la conferma di quel concetto di “noialtri” con il quale identifico la capacità che hanno i Veneti di sentirsi parte di un qualcosa. Tutto ciò mi incuriosiva e avrei voluto avere più tempo di approfondire quel contenuto culturale e l’aspetto sociale e antropologico che ognuno di questi ragazzi attribuisce a quel “noialtri”. Mi sembrava di aver intuito che in quella parola che sentivo ripetere spesso vi fosse un pensiero o un concetto forte che si potrebbe semplificare, banalmente, con una linea di demarcazione netta fra “noialtri” e “noi e gli altri”, dove da una parte c’è il “noi”, noi famiglia, noi paesani, noi veneti e dall’altra parte c’è il “voi”, gli altri, quelli che non sono della famiglia, che non sono paesani e neanche veneti. Una considerazione splendida, così come era splendido e arcaico quel senso di appartenenza che in quasi tutte le altre parti d’Italia ormai si era perso o resisteva, con lievi tracce, forse solo un po’ in Toscana, ma in modo molto più marginale e riferito all’atavico concetto medioevale di appartenenza ad un campanile. Mentre il fotografo scatta alcune foto, penso che ci sarà sicuramente chi interpreta quel “noialtri” come uno strumento utile per


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Amarone della Valpolicella Classico DOC sentirsi integrato in un territorio o per sentirsi collegato ad un senso più intimo di famiglia, che qui è ancora considerata un’importante agenzia di socializzazione e di formazione. Non lo so, e forse non c’è una risposta unica a quel “noialtri”. Sono momenti frenetici, convulsi di abbracci e sorrisi, formulati per uno scatto fotografico utile ad immortalare questo istante. Forse un giorno, riguardando la foto, ricorderanno quando fu scattata e chi era lì con loro. Sono tutti davanti a me, in posa, ma osservandoli, ecco che improvvisamente mi accorgo quale sia la cosa meravigliosa che li accomuna: la gioventù. Caspita! Che stupido sono stato a non averci pensato prima. Ecco cosa era quella luce che vedevo nei loro occhi! Ecco cos’era che mi entusiasmava di quel loro sguardo! Era la gioventù, non quella di una data anagrafica stampata su un documento, ma quella che sa costruire e colorare i sogni. Sono sogni, infatti, e non nuvole, ciò che vedo aleggiare sopra le loro teste! Come ho fatto a non pensarci prima? Dovevo comprendere subito da dove scaturiva quell’energia: dai sogni, che in ognuno di loro si autoalimentavano con quelli degli altri e che prendevano spunto da quelli “annusati” fin da piccoli nell’ambiente familiare. Un habitat che deve averli contagiati, ma che prima deve essersi anch’esso alimentato dai sogni che doveva avere Giacomo Tommasi, che nel 1902 era solo un mezzadro, o da quelli di Angelo e Alfonso che, a cavallo delle due guerre del secolo passato, costruirono le basi dell’azienda e, infine, dalla forza prorompente dei sogni dei quattro figli Sergio, Ezio, Franco e Dario, appunto, che ne devono aver costruiti e realizzati così tanti da non contarli; ma alcuni di essi erano qui davanti a me, erano questi nove ragazzi che mi stavano davanti. Scattata la foto me li ritrovo attorno e ora non mi è più possibile starmene in disparte a osservare: il gioco è finito. Ora c’è da lavorare.

Zona di produzione: Il vino è prodotto dalla vinificazione delle migliori uve Corvina, Rondinella, Corvinone e Molinara provenienti da una selezione nei vigneti “La Grola”, “Conca d’Oro” e “Monte Masua” di proprietà dell’azienda, posti nei comuni di Sant’Ambrogio di Valpolicella e di Pedemonte di Valpolicella, le cui viti hanno un’età media di 25 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni argillosi, tufacei ricchi di scheletro, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 230 e i 260 metri s.l.m., con esposizione a sud / sudovest. Uve impiegate: Corvina 50%, Rondinella 30%, Corvinone 15%, Molinara 5% Sistema di allevamento: Pergola singola e doppia (vigneto Monte Masua), guyot (vigneti “La Grola” e “Conca d’Oro”) Densità di impianto: 3.500 ceppi per Ha (Monte Masua) e 6.500 ceppi per Ha (La Grola e Conca d’Oro) Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla fine di gennaio. Raggiunta la maturazione, le uve vengono pigiadiraspate e il mosto ottenuto si avvia ad una breve criomacerazione pellicolare in assenza di ossigeno che dura una decina di giorni, al termine dei quali si procede alla fermentazione alcolica la quale si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 35 giorni ad una temperatura di circa 18°C; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Conclusasi questa prima fase, si dà il via alla svinatura e dopo un breve periodo di decantazione statica, si fa completare al vino la fermentazione malolattica prima di porlo per 36 mesi in botti di rovere di Slavonia da 35 hl. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite, dopo di che il vino è nuovamente rimesso nelle botti per un breve periodo di decantazione al termine del quale, senza filtrazione, è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 70.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso impenetrabile, il vino al naso propone un percorso olfattivo complesso, profondo, che attraversa una vasta gamma di percezioni che spaziano da quelle balsamiche a quelle fruttate di cassis che dominano insieme alle note di nocciola, coriandolo, cumino ed erbe officinali. In bocca è potente, reattivo, accompagnato da una piacevole e sensuale morbidezza e da una buona sapidità che lo rendono lungo e persistente. Prima annata: 1959 Le migliori annate: 1990, 1995, 1997, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 20 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Tommasi Viticoltori dal 1902, l’azienda agricola si estende su una superficie di 140 Ha, di cui 135 Ha vitati e 5 Ha occupati da oliveto. Inoltre l’azienda è proprietaria anche di una tenuta di 66 Ha vitati nella Maremma Toscana (Poggio al Tufo). Svolge funzione di agronomo e di enologo Giancarlo Tommasi. Altri vini I Bianchi: Lugana Doc Vigneto San Martino Il Sestante (Trebbiano di Lugana 100%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc Ca’ Florian (Corvina 70%, Rondinella 25%, Corvinone 5%) Recioto della Valpolicella Classico Doc Fiorato (Corvina 60%, Rondinella 30%, Molinara 10%) Ripasso Valpolicella Classico Superiore Doc (Corvina 70%, Rondinella 25%, Corvinone 5%) Crearo della Conca d’Oro Igt Veronese (Corvina 50%, Cabernet Franc 35%, Oseleta 15%) Valpolicella Classico Doc Superiore Rafael (Corvina 60%, Rondinella 25%, Molinara 15%)


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Raffaella Trabucchi

Sarebbe stato tutto più facile se a parlare dei vini che produciamo in questa cantina ci fosse stato mio marito Giuseppe: io sono un’insegnante di musica, non un tecnico come lui, che invece conosce tutte le sfumature che ne regolano la produzione. Lui avrebbe avuto argomentazioni esaustive, poiché è un grande appassionato e conosce le caratteristiche di ogni singolo nostro appezzamento di terreno e tutte le metodologie utilizzate per esaltarne le potenzialità. È stato lui che ha voluto riprendere la tradizione di famiglia di vinificare le uve che si producevano in questa azienda; una tradizione che si era interrotta alla fine degli anni Sessanta. Quella che si praticava allora era una viticoltura che si potrebbe definire di sussistenza, utilizzata prevalentemente per il mantenimento di questa dimora e della campagna circostante, edifici e terre che, come si può facilmente comprendere, richiedono manutenzioni e investimenti continui. Quel poco di vino prodotto era utilizzato per il consumo familiare, mentre la maggior parte delle uve era venduta ad una cantina cooperativa. A un certo punto non so cosa accadde o quale molla scattò in Giuseppe, ma la sua passione per la viticoltura e per il vino, che aveva sempre avuto, esplose fragorosa e si andò a sommare alle altre sue passioni, come quella per lo studio giuridico, l’insegnamento e per l’impegno civile: da una legislazione infatti ricopre la carica di Sindaco di Illasi, sostituendo il padre che in tempi passati aveva ricoperto quell’incarico per quasi quarant’anni. Personalmente credo che per Giuseppe la viticoltura sia stata il miglior strumento per dimostrare il suo attaccamento a questo territorio e, come sublime gesto d’amore verso questa terra, gli è sempre sembrato naturale esaltarne le peculiari caratteristiche e anche doveroso valorizzarla attraverso il vino che alla fine ha deciso di produrre seriamente. Io invece mi sono accostata al vino indirettamente, per dovere e per amore di Giuseppe, ma la cosa con il tempo mi ha appassionato e ho trovato in questo piccolo mondo, che ora frequento in modo quasi totale, una semplicità che sento calzarmi fortemente e che mi coinvolge molto. Questo è un mondo del vino in cui si respira un’aria ancora artigianale, dove si rispettano la terra, le vigne e le persone e soprattutto i tempi. È così che mi sono accorta di quanto il vino abbia molte similitudini con la musica e con quel senso di armonia che in essa, da sempre, vado cercando. Armonia che non è poi facile da incontrare al di fuori della “musica”. Se uno è attento e particolarmente sensibile può percepirne la sua grandezza, forse, in alcuni particolari come in un bel paesaggio, in un tramonto sul mare o nella visione di montagne innevate, ma sono tutti frammenti di un insieme più generale, più grande, che ci viene proposto dalla natura, la quale, tuttavia, è spesso crudele e disarmonica, caotica e dirompente, tendente più allo squilibrio che all’armonia. Quelle similitudini che trovo fra il vino e l’armonia sono più riconducibili alle percezioni emozionali che si sviluppano dentro di me quando degusto una grande annata del nostro Amarone. Percezioni splendide che in qualche modo si possono accostare a quelle che colgo nell’ascoltare ora il canto di un mio allievo di musica, ora il distinguo di ogni singolo strumento che si armonizza nell’orchestra, ricercando curiosamente, sempre e comunque, l’armonia del suono perfetto. Credo che questo sia lo stesso spirito che mi piace pensare animi il lavoro di mio marito. Un lavoro che ho scoperto piano piano, assaggiando curiosamente e per diletto la ruvidezza dei vini nelle botti e poi la delicatezza e l’equilibrio che gli stessi raggiungono nel loro lungo invecchiamento, meravigliandomi della loro trasformazione e di cosa essi siano in grado di comunicare in certe particolari annate. Un lavoro quanto mai complicato, poiché l’orchestra che Giuseppe deve dirigere è numerosa e ha solisti difficili da gestire. Non è facile ottenere sempre grandi risultati, ma, quando si raggiungono, ecco che qualsiasi similitudine o parallelismo fra il vino e la musica o la poesia o qualsiasi altra forma d’arte diventa possibile. Spesso, quando faccio con lui delle degustazioni, mi sento come uno degli allievi della mia scuola di canto a Padova quando scopre quel distinguo e quei sottili particolari delle singole e perfette note che magicamente si incastrano fra di loro e vanno a comporre l’insieme che, all’improvviso, diventa armonia. Quando un allievo arriva a percepire questo, il suo sguardo si illumina improvvisamente d’immenso per la gioia di avere compreso qualcosa di nuovo, di unico e di meraviglioso.


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Recioto di Soave DOCG Così è per me quando scopro nel nostro vino certe meravigliose analogie musicali, e paragono l’Amarone a duetti d’opera in cui caratteri diversi come la morbidezza e la forza, la leggerezza e la profondità, si fondono in un canto solo oppure quando riconosco nel Recioto la profonda dolcezza di Arturo Benedetti Michelangeli che interpreta una Sonata per pianoforte di Chopin. Di tutto ciò devo ringraziare mio marito che mi ha aperto le porte di questo mondo e mi ha guidato alla sua scoperta ed è forse per questo che, dopo tanti anni, continuo ad amarlo così tanto.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Monte Tenda nel comune di Illasi, le cui viti hanno un’età media compresa tra i 15 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni calcarei dal fondo molto magro, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e i 250 metri s.l.m., con esposizione a sud-ovest. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento: Pergola nei vecchi impianti e spalliera con potatura a cordone speronato nei nuovi Densità di impianto: 3.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio per l’essiccazione naturale fino alla metà di febbraio dell’anno successivo alla vendemmia, quando si procede alla loro pigiatura. Il mosto, inoculato da lieviti naturali di Recioto in prefermentazione, è avviato alla fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 28 giorni alla temperatura controllata di 20°C. Terminata questa fase, dopo una breve pulizia statica, il vino è posto in barriques di rovere francese a grana fine e media tostatura di primo passaggio, in cui rimane per 15 mesi. Al termine della maturazione, e dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 4.000 bottiglie da 375 cl. l’anno Note organolettiche: Di un bel colore oro brillante, il vino al naso presenta note intense, affascinanti di fiori gialli, miele, albicocca e pesca sciroppata e scorze di arance caramellate. In bocca risulta caldo, dolce, elegante e in possesso di una grande morbidezza, buona sapidità e freschezza. Prima annata: 2003 Le migliori annate: 2003, 2004 Note: Il vino prende il nome di Recioto dalla parte superiore del grappolo, la più dolce, che, utilizzata per la produzione, è denominata nel dialetto locale “recia”. Esso raggiunge la maturità alcuni anni dopo la vendemmia e il plateau di maturazione è compreso tra i 3 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Trabucchi dal 1920, l’azienda agricola si estende su una superficie di 24 Ha, di cui 18 vitati e 6 occupati da oliveto. Collaborano in azienda l’agronomo Simone Costantini e l’enologo Franco Bernabei. Altri vini I Rossi: Recioto della Valpolicella Doc (Corvina e Corvinone 60%, Rondinella e Molinara 25%, Negrara, Dindarella e Oseleta 15%) Amarone della Valpolicella Classico Doc (Corvina e Corvinone 60%, Rondinella e Molinara 25%, Negrara, Dindarella e Oseleta 15%) Valpolicella Doc Superiore Terre di San Colombano (Corvina e Corvinone 60%, Rondinella e Molinara 25%, Negrara, Dindarella e Oseleta 15%) Valpolicella Doc Superiore Terre del Cereolo (Corvina e Corvinone 60%, Rondinella e Molinara 25%, Negrara, Dindarella e Oseleta 15%)


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Franco e Giorgio Cristoforetti, Tiziano Delibori

Sono trentacinque anni che ci confrontiamo con il mercato del vino, in modo diretto e propositivo, pensando di aver avuto, in questi anni, la capacità di leggerne gli umori e le molte metamorfosi, dato che siamo ancora qui ad affrontarlo e a reggerne l’impatto. Cosa non facile questa e che ha visto all’inizio Giorgio Cristoforetti e Walter Delibori creare la prima azienda e poi noi due, Franco Cristoforetti e Tiziano Delibori, i rispettivi figli, continuare su quella loro stessa filosofia aziendale. In tutti questi anni siamo stati attenti osservatori degli scenari competitivi che interagivano e si venivano via via costituendo nel mercato del vino italiano, cercando sempre di individuare le forze che guidano il mutamento, la trasformazione e la ripartizione geografica della produzione vitivinicola. Sono state forze che, in questi anni, abbiamo analizzato, studiato e cercato di assecondare. Produttori di vino sfuso negli anni ‘70, ci siamo trasformati gradualmente da semplici vinificatori a vignaioli, con gli attuali 170 ettari di vigneti, fino a ideare e dar vita, a partire dal 1997, al progetto che abbiamo chiamato Villabella e che si riferisce a questo corpo aziendale. Un processo lungo e complicato che non è stato né semplice, né senza traumi e alla cui attivazione ci hanno spinto non idee di gloria o di grandezza, ma la necessità di dover rispondere all’evoluzione della domanda, alla crescita del potere che assumeva sempre più la distribuzione e all’emergere di nuove e importanti strategie di marketing che venivano poste al servizio della marca e a supporto della crescita di una sempre maggiore e agguerrita competizione che le aziende si trovavano ad affrontare. Nel frattempo, con l’evoluzione della domanda, si era determinata anche una maggiore richiesta di qualità in termini assoluti, sia di valore, sia di diversificazione che di riconoscibilità dei prodotti enologici, innescando un processo di selezione dell’offerta che ha già provocato una forte emorragia di aziende, ma che, negli anni a venire, le selezionerà ancora di più escludendone molte dal mercato. Quando arriveranno quei tempi vogliamo essere pronti, come del resto lo siamo sempre stati in questi trentacinque anni. Possiamo assicurare che prendere atto dello scenario presente in cui operiamo e preoccuparci di quello futuro in cui andremo ad operare ci ha procurato sempre e soltanto dei benefici. In viticoltura è necessario guardare oltre il presente e riuscire a fiutare come sarà il futuro, poiché, qualsiasi scelta uno abbia intenzione di fare, essa richiede tempi lunghissimi di attuazione e l’esistente non si modifica dall’oggi al domani. Noi crediamo di aver interpretato bene i segnali che ci arrivavano ed è per questo che dieci anni fa abbiamo iniziato a sfruttare le opportunità che scaturivano dal poter commercializzare prodotti enologici di grande qualità derivanti dell’attenta e scrupolosa selezione delle uve che viene fatta nei vigneti di nostra proprietà, lasciando agli altri marchi aziendali l’impegno di commercializzare il surplus della restante produzione. È comunque una sfida affascinante e stimolante che ci consente da una parte di guardare con ottimismo al futuro e dall’altra ci rende consapevoli che sarà una competizione che ci vedrà impegnati giornalmente come attori di un confronto divenuto ormai globale. Inoltre, abbiamo in progetto di effettuare delle azioni, combinate fra di loro, che dovrebbero presto dare valore aggiunto al vino che produciamo, azioni che terranno conto della splendida location che è Villa Cordevigo, contenuta all’interno dell’azienda Villabella, dove creeremo un centro di enocultura del territorio, arricchito da corsi di degustazione, di cucina, di abbinamenti enogastronomici con convegni e dibattiti, cercando di trasformare i suoi spazi e sfruttando la sua posizione logistica, così vicina al Lago di Garda, per realizzare un centro didattico del gusto e delle tradizioni venete, avendo sempre nuove idee per i tempi nuovi che verranno.


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Villa Cordevigo IGT Veneto Rosso Zona di produzione : Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina, Cabernet Sauvignon e Merlot provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Cordevigo, nel comune di Cavaion Veronese, le cui viti hanno un’età compresa tra i 10 e i 15 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni morenici, calcarei e argillosi, sono situati ad un’altitudine compresa tra i 180 e 200 metri s.l.m., con un’esposizione a est-ovest. Uve impiegate: Corvina 60%, Cabernet Sauvignon 20%, Merlot 20% Sistema di allevamento: Spalliera con potatura a guyot Densità di impianto: 6.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede al posizionamento delle uve di Corvina e Cabernet Sauvignon nel fruttaio per un loro appassimento che dura circa 40 giorni, prima di essere avviate alla diraspapigiatura e dopo proseguire lo stesso protocollo enologico che hanno seguito le uve di Merlot che prevede che il pigiato ottenuto sia immesso in rotomaceratori orizzontali di acciaio inox dove viene avviata la fermentazione alcolica che si protrae per circa 15 giorni; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce. Terminata questa fase, i vini svolgono la fermentazione malolattica parte in botti di ciliegio da 700 lt e parte in tonneaux di rovere francese a grana fine e media tostatura per un 50% nuovi; in questi legni i vini rimangono per 30 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il blend ottenuto è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 25.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi di prugne, more e lamponi maturi, con importanti note di viola appassita che si aprono a percezioni di liquirizia nera e cioccolato fondente. In bocca è elegante, con una fibra tannica ben evoluta e una bella freschezza; assai piacevole, risulta inoltre lungo e persistente. Prima annata: 2001 Le migliori annate: 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dalla villa che sussiste sulla proprietà, raggiunge la maturità dopo 5 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà delle famiglie Delibori e Cristoforetti dal 1971, l’azienda agricola si estende su una superficie di 170 Ha, oltre ad altri 50 in conduzione diretta. Svolge funzioni di enologo Tiziano Delibori con la consulenza di Luca D’Attoma. Altri vini I Bianchi: Lugana Doc Ca’ del Lago (Trebbiano di Lugana 100%) Vigna di Pesina Igt Pinot Grigio delle Venezie (Pinot Grigio 95%, Pinot Bianco 5%) Fiordilej Igt Veneto Passito (Sauvignon 40%, Garganega 30%, Incrocio Manzoni 30%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Doc Classico (Corvina 60%, Rondinella 30%, Molinara, Rossignola, Negrara 10%) Valpolicella Classico Doc Superiore Ripasso (Corvina 60%, Rondinella 30%, Molinara, Rossignola, Negrara 10%) Bardolino Superiore Classico Docg Terre di Cavagion (Corvina 65%, Rondinella 15%, Cabernet 10%, Merlot 10%)




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Giancarlo Moretti Polegato

Non è importante se condivideranno la mia o se seguiranno altre strade: l’importante è che anche i miei figli possano avere la stessa passione nel lavoro che ho avuto io, cosicché anche loro si sentano appagati e siano, come me, sempre innamorati della vita. Ciò che faccio non è un peso e non mi sono mai fermato a contare le ore che ho dedicato a quest’azienda. Il mio lavoro mi piace, mi gratifica e soddisfa il mio ego più di qualsiasi altra cosa; è ciò che so fare meglio, mi appartiene e lo sento profondamente mio e questa sensazione non è nata ieri, ma è il frutto maturo dell’esperienza delle tre generazioni di vignaioli della mia famiglia. Questo è il mio mondo, la mia passione, il mio divertimento più grande ed è forse per questo che mi dà energia e non mi fa sentire il sacrificio; è un lavoro sempre nuovo e qualche volta ancora sconosciuto, ogni volta diverso e capace di proporre nuove sfide, nuove idee che, per carattere, vorrei fossero già vinte o realizzate appena un attimo dopo averle pensate. Campagna, vigne, tradizione, imprenditoria: tutti elementi che, opportunamente combinati tra loro, mi stimolano ad andare oltre gli ostacoli per vedere quali siano i limiti e quali le opportunità di un settore come quello vitivinicolo che, negli ultimi anni, si è messo a correre velocemente e che richiede sempre più managerialità, grinta e dinamismo. Pur avendo cinquant’anni non mi sono ancora fermato, contrariamente a molti miei coetanei, a chiedermi quale sia la causa, quale il motivo che mi spinge a impegnarmi ancora così tanto nella vita. No, non mi sono fermato neanche a pensare che forse sarebbe ora di rilassarsi un po’ e di pensare magari a soddisfare altre passioni, che tra l’altro nel mio caso non so quali potrebbero essere, a parte quella del vino. Quanta fatica costruirne di nuove o assumerne di fasulle! È questo lavoro l’unica passione che ho ed è ciò che mi spinge a dare il massimo per poter guardare il futuro con ottimismo, stando però con i piedi ben piantati per terra e immaginando scenari realistici per quest’azienda. Certo, è vero, anche io come tanti altri padri spero che tutto ciò che ho realizzato non vada perduto e che i miei figli continuino sulla strada che ho tracciato; so bene però che non è detto che ciò accada. Del resto, io e mio fratello siamo l’esempio tangibile di come sia difficile, per un genitore, che un simile sogno si trasformi sempre in realtà. Mio padre Divo aveva pensato di programmare il futuro dell’azienda agricola di famiglia suddividendo i compiti tra me e mio fratello Mario: lui enologo e io ragioniere, con l’intento che ognuno potesse seguire i settori strategici di un’azienda che produce vino. Studiavamo, ma non ci preoccupavamo molto del nostro futuro che allora vedevamo lontano, ricco di opportunità e che non contemplava soltanto l’azienda di Divo. Ma quando egli venne a mancare, ancora giovane, in seguito ad un incidente automobilistico, senza farci troppe domande, come dei bravi soldati, occupammo, giovanissimi, i nostri posti in azienda e, sostenuti da nostra madre Amalia, riuscimmo a portarla avanti. Forse fu proprio nel periodo che seguì a quella triste circostanza che più si cementò il rapporto tra di noi; pur essendo stato sempre molto stretto, in quegli anni si trasformò e si allargò ad una grande complicità e a un forte senso del dovere e della partecipazione alla famiglia, tutti elementi che nostro padre ci aveva insegnato a rispettare e che non vennero meno neanche quando Mario decise di dar vita alla Geox calzature, mentre io proseguivo nell’azienda vitivinicola di famiglia. La programmazione che aveva pensato nostro padre saltò, ma anche se ognuno di noi era a capo di un’azienda, non venimmo meno alla speranza che aveva Divo di vederci decisi a proseguire comunque insieme sulla strada della vita. Esperienze, motivazioni, stimoli, unione, tutti elementi che credo siano stati il motore per arrivare dove siamo oggi e che ci hanno consentito di dar vita ad una struttura solida che ha fatto della diversificazione il suo punto forte, partendo dal vino per finire alle calzature, ma, in entrambi i casi, con quella motivazione che solo una vera passione può dare. Del resto non potrebbe essere diversamente, dato che ho scelto di occuparmi di vino e di tutto ciò che gli orbita intorno che, secondo me, rappresenta uno spazio di infinite possibilità di cui ancora non si coglie la vastità. L’idea guida di entrambe le aziende è quella di puntare sull’italianità dei nostri prodotti, siano essi enologici o calzaturieri, una italianità che è da sempre simbolo di alta qualità, valore e distinzione in tutto il mondo. Con questo principio e convinto del valore forte del “Made in Italy” ho voluto che anche il nostro vino desse il suo contributo allo sforzo che tutto il comparto agroalimentare nazionale sta effettuando per rappresentare e supportare, ai massimi livelli, il marchio Italia nel mondo. Un impegno continuo che richiede tempo, ricerca, sperimentazione ed è forse per questo che ho voluto che nessuna strada fosse lasciata inesplorata. Testimoni di ciò sono le nostre locande, Villa Sandi, una struttura splendida che risale all’epoca palladiana, e i meravigliosi vigneti


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Opere Trevigiane Riserva Amalia Moretti Spumante Metodo Classico che la circondano. Con il tempo si è costruito così un connubio tra territorio e prodotto, che ho sempre ritenuto importante e strategico per questa azienda, fatto di un mix di gastronomia, architettura, storia, enologia e posso assicurare che l’essere riusciti a realizzare un simile obiettivo, in quest’area, non è cosa da poco. Questa, fino a trent’anni fa, era una terra povera e l’agricoltura era poco redditizia e lo sarebbe ancora se non vi fosse stata la viticoltura a sostenere il settore e l’esplosione del Prosecco, il nostro vino per eccellenza, che ha dato dinamismo e opportunità all’economia agricola di tutto il territorio. Il merito di questo è stato dei vignaioli che hanno preservato e permesso la sopravvivenza di questo nostro importante vitigno autoctono, il Prosecco appunto, evitando, come è successo in molte altre parti d’Italia dove puntavano su Merlot, Cabernet e Chardonnay, che ci ritrovassimo, dopo la prima fase di enfasi e di soddisfacimento della curiosità che sempre si viene a creare sui mercati per le novità, a dover combattere con la concorrenza di tutto il mondo, visto che quegli stessi vitigni sono presenti dalla California al Sudafrica, al Cile, mentre il Prosecco Doc si coltiva solo nell’area Conegliano-Valdobbiadene. È stato questo che a lungo andare ha contribuito al suo successo, oltre al fatto, non da poco, che il Prosecco è un vino che si sposa con qualsiasi cucina del mondo, da quella italiana a quella giapponese, un vino da tutto pasto, un perfetto vino da brunch, che può essere utilizzato dall’aperitivo al dessert. Un altro merito di questo vino è l’aver innescato sul territorio un meccanismo culturale di apertura verso l’enoturismo che ha convinto sempre più operatori del settore ad aprire agriturismi, sale degustazioni, punti ristorativi, così da invogliare quel crescente numero di persone a scoprire le bellezze di questa provincia e di tutto il Veneto, regione che vanta città d’arte, montagne, mare e una tradizione gastronomica da far invidia a molte altre regioni italiane, anche più blasonate della nostra. Per questo territorio, raggiungere grandi risultati in questo specifico settore enoturistico non sarà facile, ma sono ottimista e i ventimila visitatori annui che vengono a trovarci in azienda ne sono una testimonianza. È facile comprendere perché mi accalori quando parlo della mia azienda e del mio territorio: non posso farne a meno, poiché sento che sono entrambi una parte importante di ciò che sono; hanno contribuito al successo che fin qui ho ottenuto, e che condivido con tutti i miei collaboratori.

Zona di produzione: Zone ad alta vocazione viticola del Veneto Tipologia dei terreni: Marnosi e ricchi di scheletro. I vigneti sono situati ad un’altitudine di 100-150 metri s.l.m., con esposizione a sud / sud-ovest. Uve impiegate: Pinot Nero 75%, Chardonnay 25% Sistema di allevamento: di varie forme, a raggi o a spalliera Densità di impianto: 2.600 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dall’ultima decade di agosto, si procede, separatamente per i due vitigni, alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica dei mosti ottenuti, che avviene alla temperatura controllata di 14-15°C per 12-15 ore, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae, alla temperatura di 17-19°C, per 7-10 giorni ed è svolta in tini di acciaio in cui il vino rimane fino alla fine della primavera successiva alla vendemmia, inibendo la fermentazione malolattica. Al termine di questo periodo, si procede all’assemblaggio delle partite e dopo aver dosato i lieviti selezionati si effettua l’imbottigliamento del vino che nei successivi 7 anni rimane in cantina, mentre lentamente avviene la presa di spuma durante la maturazione sulle proprie fecce. Trascorso questo periodo si procede alla sboccatura alla quale segue un ulteriore affinamento di almeno 2 mesi prima che il vino sia commercializzato. Quantità prodotta: 1.500 bottiglie l’anno Note organolettiche: Uno spumante dal bel colore giallo dorato scarico con un perlage fine, presente e persistente; all’esame olfattivo sprigiona sensazioni fruttate di biscotti e note di erbe officinali mediterranee. In bocca è sapido, fresco, pulito, avvolgente e sensuale con un retrogusto armonico che ricorda l’albicocca secca. Prima annata: 1984 Le migliori annate: 1988, 1992, 1999 Note: Il vino, che prende il nome dalla mamma di Giancarlo Moretti Polegato, signora Amalia Moretti, raggiunge la maturità dopo 8 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra gli 8 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Moretti Polegato, che la fondò nel 1975, l’azienda dispone di 50 Ha vitati di proprietà e 250 Ha controllati. Collaborano in azienda gli enologi Valerio Fuson e Dario Toffoli. Altri vini I Bianchi: Marinali Bianco Igt Marca Trevigiana (Chardonnay 75%, Pinot Bianco 25%) Prosecco di Valdobbiadene DOC Spumante Dry Cuvée (Prosecco 100%) I Rosé: Spumante Metodo Classico Opere Trevigiane Rosé (Pinot Nero 100%) I Rossi: Corpore Igt Marca Trevigiana (Merlot 50%, Cabernet Franc 50%) Marinali Rosso Igt Marca Trevigiana (Cabernet Sauvignon 60%, Cabernet Franc 40%) Raboso Piave Doc (Raboso 100%)


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Rodolfo e Maria Antonietta Soranzo

La campagna e il vino non erano certo la mia passione o forse è meglio dire che non erano cose alle quali io pensassi spesso. Quello era il mondo che apparteneva a mio padre e alla mia famiglia, ma, nonostante ciò, non riuscivo a collocarlo nel mio futuro, anche perché a vent’anni avevo ben altre cose a cui pensare! Pensavo al mare, che era ed è la mia passione, e a frequentare la facoltà di Economia e Commercio che, invece, era il mio impegno quotidiano; alla cantina o alle vigne non ci pensavo proprio. Come sempre il destino riserva delle sorprese, intervenendo, a volte, nello strano disegno che regola il suo divenire, con fattori incontrollabili e imprevisti rispetto a ciò che sarebbe logico e plausibile attendersi. Finita l’università mi accorsi di aver cambiato rotta e di avere iniziato a condividere e ad apprezzare il lavoro e le atmosfere che la terra e le vigne sapevano regalarmi. Inspiegabilmente mi ritrovai al fianco di mio padre, stimando sempre più il lavoro di vignaiolo che svolgeva, condividendo le stesse passioni che lo animavano e accorgendomi che, con il passare del tempo, diventavano anche mie. Mi sembrò naturale e logica quella mia scelta fino al punto di non domandarmi mai se quello sarebbe stato un mio radicale cambio di rotta o solo l’obiettivo, che avevo inconsapevolmente raggiunto, dopo aver navigato senza meta. Del resto, quando Colombo partì non era certo diretto in America: i suoi obiettivi erano le Indie. Non è forse vero? Non so come mai mi sia venuto in mente il grande navigatore genovese. Credo dipenda dall’amore che nutro per il mare, quindi le similitudini con esso mi risultano più facili. A quindici anni avevo già la prima barchetta che mi consentiva di regatare nelle acque di fronte a Chioggia che, ancora oggi, rappresentano la mia seconda patria. Oggi, tuttavia, il mare è diventato il mio “buen retiro”, il luogo dove rifugiarmi, liberare la mente nella speranza di poter, un giorno, dividere con esso tutto il tempo che avrò a disposizione, magari negli ultimi anni della mia vita, quando sarò libero da impegni e da ogni sorta di responsabilità. Ma è ancora lontano quel tempo, perché oggi ci sono le vigne, la cantina, il vino da vendere e i miei due figli da far crescere. Il fatto che un produttore di vino parli tanto di mare, di sogni e di evasione potrebbe far sorgere in chi legge queste righe l’idea che il vino sia un ripiego e l’azienda una trappola; non è così: lo assicuro. Si tratta solo ed esclusivamente di un sogno e il sognare è insito nella natura umana, così come l’ansia di conquiste sempre nuove, di mete più lontane da raggiungere e di sfide da dover superare. È con questo spirito che ho sempre diretto quest’azienda, fin da quando, nel lontano 1979, dovetti repentinamente assumerne la guida, a causa della prematura scomparsa di mio padre. All’epoca conoscevo già Maria Antonietta che, nel 1986, divenne non solo mia moglie, ma anche la “regina” di questo luogo e di questa casa che pensò bene di “riempire” regalandomi due figli: Andrea, che ormai ha vent’anni, e Caterina, che ne ha diciassette. Insieme incominciammo a dar corpo ai nostri sogni, modificando l’impronta che mio padre aveva dato all’azienda, più piccola di adesso. Insieme l’ampliammo finché ci dovemmo scontrare con la realtà di questo territorio che, per la sua fisionomia e la capillarizzazione delle proprietà, non consentiva un’acquisizione compatta dei terreni adatti alla viticoltura; perciò ci ritroviamo oggi con un appezzamento qui, uno da un’altra parte e un altro a dieci chilometri di distanza, senza quella continuità che ci agevolerebbe nella produzione. Nonostante tutto sono contento di ciò che è divenuta l’azienda Villa Sceriman. Sì, mi va bene così com’è, mi piace; in questi anni abbiamo dato importanza non solo al vino ma anche all’ospitalità che si concretizza nell’ottimizzazione del nostro punto vendita aziendale dove riusciamo a smerciare il 60% della produzione vitivinicola e, con l’indotto che da esso si crea, anche il restante 40%. Credo sia l’esempio più importante di enoturismo dei Colli Euganei; un esempio di cui rendo merito a Maria Antonietta, alle sue capacità organizzative e alla sua proprietà linguistica che le consente di parlare correttamente quattro lingue straniere. È lei che ha trasformato questo punto vendita, di oltre quattrocento metri quadrati, in una casa aperta a tutti quelli che, senza troppi formalismi, amano bere un buon bicchiere di vino, gustare formaggi e salumi, prodotti quasi tutti in zona e da me selezionati, affettati sul momento e serviti come si potrebbe servire al banco di un vecchio spaccio alimentare, senza pagare nessun servizio, ma solo il


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Colli Euganei DOC Fior d’Arancio Passito prezzo del prodotto acquistato. Un punto vendita inserito in una villa/cantina all’esterno della quale fa bella mostra di sé anche un’enorme pergola, costituita da diversi tronchi di glicine che, arrampicandosi zigzagando e intrecciandosi fra di loro, formano un groviglio inestricabile, da cui, in primavera, pendono odorosissimi grappoli fioriti di color viola sotto i quali possono trovare riparo più di duecento persone. Trascorrono qui piacevoli e conviviali momenti di relax, magari dopo aver effettuato le cure termali nella vicina Abano Terme, frequentata da molti tedeschi e austriaci, o dopo aver lasciato la base NATO Ederle di Vicenza, dalla quale arrivano, nei fine settimana, numerose famiglie americane creando un via vai, sia d’estate che d’inverno, che ci consente di non annoiarci mai. La nostra è un’azienda a conduzione familiare ed è così che vogliamo mantenerla, fino a quando ce la faremo: siamo noi che affettiamo i salumi, sparecchiamo i tavoli e pensiamo alla vendita del vino, in modo da poter contenere i costi e praticare prezzi equi. Infatti, pur producendo trecentomila bottiglie, non abbiamo neppure bisogno di agenti o agenzie di distribuzione per venderle. È un impegno non da poco quello che, quotidianamente, affrontiamo intorno a questo luogo, dove sembra che passi tutto il mondo, ma sono contento che i nostri avventori condividano il modo che abbiamo di fare impresa e piaccia loro questa mia famiglia unita e la nostra casa, aperta a tutti. Non nego che guardare i loro sorrisi mi tiene ancorato alla realtà, mi impone di stare con i piedi per terra, altrimenti starei bene solo in mare, ormai.

Zona di produzione: Il vino è un cru prodotto della vinificazione delle migliori uve Moscato Giallo provenienti dal vigneto Cason Brusà, di proprietà dell’azienda, posto in località Passo del Vento-Rovarolla nel comune di Vo’ Euganeo, le cui viti hanno un’età media compresa tra i 5 e i 30 anni. Tipologia dei terreni: Il vigneto, che si trova in una zona collinare su terreni calcareo-marnosi e argillosi, è situato ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Moscato Giallo 100% Sistema di allevamento: Cordone speronato con potatura a guyot Densità di impianto: 3.500 ceppi per Ha nei vecchi impianti; 8.300 ceppi per Ha nei nuovi Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla terza decade di settembre, si procede alla selezione dei grappoli che sono lasciati ad appassire in pianta dove rimangono per più di 30 giorni fino ad ottenere una concentrazione del 36% di zuccheri. Raggiunto l’appassimento voluto, si procede alla raccolta e alla pigiadiraspatura delle uve, dopo di che il mosto ottenuto va direttamente in pressa termocondizionata e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 8 giorni a temperatura ambiente; contemporaneamente si procede alla macerazione sulle bucce. Quindi il vino è posto in barriques e tonneaux di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di 1°, 2° e 3° passaggio in cui rimane per 6 mesi, alla conclusione dei quali è travasato in tini di acciaio e dopo circa 1 mese di defecazione a 5°C viene nuovamente reinserito nei medesimi legni dove resta per altri 18-24 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 4 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7.500 bottiglie da 500 cl l’anno Note organolettiche: Di un bel colore oro brillante con riflessi topazio, il vino al naso propone note speziate e di uva appassita, fichi e albicocche secche che si mescolano a piacevoli sentori di agrumi caramellati come arancia e cedro. In bocca è morbido, elegante, con un perfetto equilibrio fra ottima freschezza e lunga persistenza. Prima annata: 1998 Le migliori annate: 1999, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome dall’uva Moscato Giallo che qui è chiamata Fior d’Arancio per la profumazione della stessa, raggiunge la maturità 5 anni dopo la vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 5 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà di Rodolfo Soranzo dal 1979, l’azienda agricola si estende su una superficie di 22 Ha, di cui 19 vitati e 3 occupati da prati, boschi e oliveto. Svolge funzioni di agronomo e di enologo lo stesso Rodolfo Soranzo. Altri vini I Bianchi: Colli Euganei Chardonnay Doc (Chardonnay 90%, Riesling Italico 10%) Colli Euganei Chardonnay Doc barriccato (Chardonnay 90%, Incrocio Manzoni 10%) Colli Euganei Doc Serprino (Prosecco 100%) I Rossi: Colli Euganei Merlot Doc (Merlot 100%) Colli Euganei Merlot Doc Riserva (Merlot 100%) Colli Euganei Rosso Doc (Merlot 60%, Cabernet Sauvignon 40%)


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Claudio e Cinzia Viviani

Se mi dicessero di scegliere dove vivere e lavorare, senza indugio sceglierei queste alte colline di Mazzano di Negrar. Sono sicuro che non esiste altro luogo nel Veneto che abbia un fascino come questo: ideale per fare il vignaiolo. È qui che sono nato ed è stata la terra stessa che mi ha battezzato, avvolgendo la culla dove dormivo con il profumo della cantina e della stalla. È qui che ho vissuto i miei primi quarant’anni, giocando a fare il vignaiolo fra questi filari che, per me, valgono più di ogni altra cosa, anche del valore in denaro che mi offrirebbero se decidessi di lasciarmeli portar via. Spero che tu possa capire cosa ti sto dicendo e se la cosa ti rimane difficile allora affacciati da questo balcone naturale dove ci troviamo e guarda i miei vigneti e osserva come sembrano lontani quei capannoni che riempiono la vallata intorno a Negrar, oltre i quali si comincia a vedere Verona. No, non lascerei mai questo luogo, perché sono nato contadino, non solo perché la mia famiglia ha un’azienda agricola, ma perché, fin dal mio primo vagito, ho incominciato a respirare il territorio, imparando presto a giocare fra le viti e a vendemmiare e, mentre i pantaloni mi si allungavano, ho incominciato a percepire il flusso delle stagioni e quando la prima peluria si affacciava sul mio viso, ho incominciato a seguire mio padre che mi insegnava a guidare un trattore, a mungere o a travasare il vino. Era un’agricoltura promiscua, quella che praticavamo in azienda, sufficiente però a farci condurre una vita tranquilla, grazie soprattutto al vino che mio padre seguiva con amorevole cura e che gli dava notevoli soddisfazioni nelle manifestazioni enologiche che, all’epoca, si tenevano localmente. Era una viticoltura improntata più alla sopravvivenza che allo sviluppo del territorio, ma che tuttavia ha avuto il grande merito di traghettare l’intero comparto vitivinicolo di questa zona montana attraverso gli anni Settanta e Ottanta, quando ci furono lo spopolamento delle campagne, le grandi trasformazioni agricole e le crisi che colpirono ripetutamente il settore. Una coltura della vite che si basava, e si basa tuttora, sulla conoscenza profonda del territorio e del clima che interagisce non solo con i mesi che interessano la produzione viticola, ma anche con quelli successivi, che coinvolgono l’appassimento delle uve, momento questo ancora più delicato dell’altro, che deve essere seguito scrupolosamente, a seconda della stagionalità. È un impegno lungo quello che coinvolge i viticoltori di questa zona, che parte dalla fioritura della vite e arriva fino alla pigiatura delle uve appassite, di solito da marzo a dicembre per l’Amarone o, addirittura, fino al marzo dell’anno successivo alla vendemmia, per il Recioto. Mio padre mi ha insegnato che, per ottenere buoni vini, occorre stare per 365 giorni all’anno su questa terra, poiché i nostri vini sono difficili da realizzare, dal momento che richiedono un’attenta lettura dei venti, delle temperature e dell’umidità che possono essere interpretate dall’esperienza di chi è parte integrante di questo terroir. Infatti, se in altre aree viticole il contributo dell’uomo nella realizzazione di un grande vino è minimo rispetto al territorio, qui, in Valpolicella, le parti si invertono e ti posso assicurare che, dietro a un grande Amarone, troverai sempre un grande vignaiolo. Sarebbe logico, quindi, aspettarsi nelle aziende della zona la presenza di importanti e prestigiosi consulenti; invece non è così. Hanno provato a venire, ma non hanno avuto grande successo, poiché non esiste una ricetta standard da applicare ai nostri vini che devono essere vissuti e coccolati per più di nove mesi come se fossimo in attesa di un parto. In Valpolicella è l’uomo che deve interagire, anzi direi quasi fondersi con l’ambiente, se vuole ottenere qualcosa da vitigni come la Corvina o la Rondinella che, nel corso dei secoli, hanno subìto una selezione in funzione dell’appassimento, più che nella loro resa in vendemmia, e che producono uve povere che, solo dopo la loro messa a dimora nel fruttaio, per mesi, si esaltano e si trasformano in grandi vini che affascinano il mondo, come l’Amarone e il Recioto. Non ti nego che quando presi le redini dell’azienda di famiglia, nel 1985, sapevo di poter contare su una situazione generale abbastanza buona, visto che mio padre mi aveva consegnato un’azienda vitale, attiva, con pregi e difetti, ma comunque viva, che produceva ottimi vini, conosciuti e apprezzati dal mercato locale. Feci pochi, ma radicali cambiamenti tecnici, seguendo le idee che avevo sviluppato man mano che frequentavo il corso di enologia. Ero consapevole che il vino sarebbe diventato un bene voluttuario e, senza indugi, cercai di trasformare questa peculiare caratteristica in un punto di forza con cui sviluppare un percorso sensoriale, emotivo, capace di


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Amarone della Valpolicella Classico DOC Casa dei Bepi sensibilizzare maggiormente chi degustasse i miei vini, raggiungendo, devo dire, man mano che si susseguivano le vendemmie, risultati inaspettati. È stato un vero e proprio viaggio che ho intrapreso, e che ancora non ho concluso, con il quale ho cercato di interagire il meno possibile con la realtà viticola che avevo a disposizione, cercando di controllare le mie eccessive aspettative, ponendomi in sintonia con i messaggi che la natura mi inviava, con l’intento di raggiungere un perfetto equilibro con essa. Un viaggio certe volte lineare, altre volte tortuoso, che traccia sempre un percorso nuovo; scopro giorno dopo giorno un’infinità di alternative: certe le intuisco, altre le scarto, fino a provare e riprovare dove penso di aver sbagliato. Un percorso senza obiettivi e senza un fine preciso che mi entusiasma e mi carica di continuo. È per questo che ho chiamato un mio vino “Tulipano Nero”. In natura un fiore così non esiste, come non esiste la perfezione di quel vino che io riterrei perfetto, e questa ricerca mi spinge verso limiti nuovi oltre a quelli che mi ero fissato nella vendemmia precedente, così da dare sempre un nuovo senso alle cose. Per spiegarti cosa stia cercando, ti racconto brevemente di quando ero bambino e andavo in cantina con mio padre e, in alcune occasioni, sentivo nell’aria una strana attesa, qualcosa che non mi spiegavo: era come se da un momento all’altro dovesse accadere qualcosa. Era una sensazione strana, quasi di festa e quell’atmosfera mi creava una palpitazione e un’emozione forte che scoprii, più tardi, essere l’unica cosa che valesse veramente la pena di ricercare ad ogni vendemmia.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Corvina e Rondinella provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Mazzano, nel comune di Negrar, le cui viti hanno un’età che varia dai 15 ai 50 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona pedemontana su terreni calcarei di medio impasto, sono posizionati ad un’altitudine compresa tra i 350 e i 450 metri s.l.m., con un’esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Corvina 70%, Rondinella 30% Sistema di allevamento: Guyot e pergola doppia Densità di impianto: 3.500 ceppi per Ha nelle vecchie pergole; 9.500 ceppi per Ha nei nuovi impianti a guyot Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio ad essiccare, generalmente fino alla fine febbraio. Raggiunto il grado di appassimento ideale, le uve si avviano alla pigiatura e il mosto ottenuto subisce una breve crioestrazione a temperatura ambiente al termine della quale, con l’innalzamento della temperatura, si avvia naturalmente la fermentazione alcolica che si protrae, in recipienti di acciaio inox, per 35 giorni a temperatura ambiente; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce durante la quale vengono effettuati rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase si procede alla svinatura e il vino, dopo un breve periodo di decantazione, è posto in barriques nuove di rovere francese di media tostatura e grana fine dove rimane per 36 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 7.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso di grande luminosità, al naso il vino si presenta con note di amarene e more in confettura alle quali si aggiungono profumi speziati dolci di grafite, bastoncino di liquirizia, caramella, scaglie di cioccolato al latte, carruba, tabacco dolce e eucalipto che fanno compagnia a dolci sentori di fiori appassiti. In bocca è elegante, ampio, di grande equilibrio, morbidissimo e sensuale, mentre la struttura è sorretta da freschezza e sapidità che lo rendono lungo e persistente. Prima annata: 1993 Le migliori annate: 1995, 1997, 2000, 2001 Note: Il vino, che porta in etichetta il nome con cui la famiglia Viviani è sempre stata conosciuta in zona, raggiunge la maturità dopo 7 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 7 e i 15 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Viviani dal 1920, l’azienda agricola si estende su una superficie di 14 Ha, di cui 10 vitati e 4 suddivisi fra campi e boschi. Svolge funzione di enologo e agronomo lo stesso Claudio Viviani. Altri vini I Rossi: Valpolicella Classico Doc Superiore Campo Morar (Corvina 70%, Rondinella 30%) Valpolicella Classico Doc Superiore (Corvina 70%, Rondinella 30%) Valpolicella Classico Doc (Corvina 70%, Rondinella 30%) Recioto della Valpolicella Classico Doc (Corvina 70%, Rondinella 30%)




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Sergio, Carla, Nadia e Alberto Zenato

Se mi fermo a considerare l’interesse e il valore raggiunto oggi dal mondo vitivinicolo c’è solo da rimanere stupiti. Sembra che dentro ad una bottiglia di vino non ci sia solo un prodotto, ma un’infinità di argomenti che coinvolgono uomini e cose: film, romanzi, storie, favole, sogni, ambizioni, amori, passioni e ognuno di essi è stato capace di costruirsi una propria identità e una riconoscibilità ben distante da ciò che un tempo immaginavamo. Prima si trattava di un semplice alimento, oggi è un desiderio supportato da un mix complesso di “scienze” che richiedono approfondimento e studio per poter essere integrate fra di loro. Così, per capire il vino è necessario capire chi lo produce, conoscere l’ambiente e la natura dove è realizzato. Tutto questo assume poi un valore particolare per ogni area geografica come, del resto, ogni altro minimo particolare che interagisca o si relazioni con le scienze enologiche o agronomiche che vengono utilizzate e che, a loro volta si intrecciano con la cultura del territorio e l’habitat dove il vino nasce e la capacità di commercializzarlo e promuoverlo, e poi… Potrei continuare per ore, considerando che ogni parola citata è una chiave che apre una porta su un mondo che è ancora da approfondire o addirittura ancora tutto da scoprire. Prima non era così. Tutto era più semplice, anche se già allora mi appariva complesso e dispersivo. Sto parlando degli anni in cui ero costretto a fare quasi in contemporanea quattro o cinque lavori completamente diversi fra loro, dovendo pensare alla semina del granturco o del grano e al suo raccolto, agli animali nelle stalle e alle vigne, alla vendemmia e al vino. Ogni cosa aveva i suoi tempi, le sue necessità e un mercato di riferimento diverso. Ricordo solo che vendevo in damigiane quel poco vino che producevo e che lo caricavo, dopo aver tolto il sedile anteriore, sulla mia Fiat Seicento con la quale facevo le consegne ai clienti che me lo avevano richiesto. Con il tempo è cambiato il gusto della gente, sono cambiate le tipologie dei vini prodotti ed è cambiato il modo di vinificare e di fare controlli, di impiantare le vigne, di costruire le cantine, di vendere e di comunicare il vino. Tutte “scienze” che ho dovuto imparare sulla mia pelle in poco tempo e, precisamente, nell’arco di questi ultimi quarantasette anni, nel corso dei quali, fra l’altro, non sono andato a scuola, ma mi sono dovuto impegnare nella produzione e nella commercializzazione del vino. Quando ripenso a quei momenti e vedo oggi la mia Ferrari nera parcheggiata nel cortile, mi sembra di parlare di cose successe nella preistoria o in un tempo così lontano che faccio fatica a ricordare o che non voglio ricordare. Eppure era solo ieri che tutto questo accadeva. Per quanto mi sforzi di ricordare, il vino non aveva allora la considerazione che ha oggi. Qui c’era una specie di monopolio da parte di grandi marchi quali Ruffo, Bolla e Bertani, nomi che già a partire dai primi anni Sessanta avevano in mano gran parte del mercato nazionale per quanto riguarda i vini veneti. Non ho mai pensato di confrontarmi con questi colossi commerciali, decidendo fin dalle prime battute di perseguire la mia strada. Ricordo ancora di quando nel 1967 imbottigliai per la prima volta, abbandonando definitivamente le damigiane e di quando, qualche anno dopo, incominciai a frequentare gli appuntamenti che l’ICI organizzava per le aziende italiane all’estero, dove nessuno conosceva vitigni come la Lugana, né i vini del Lago di Garda; anche l’Amarone aveva poca considerazione e si riusciva a vendere, a mala pena, a duemila lire a bottiglia. Quando racconto queste cose ai miei figli ho la sensazione che non mi credano. Nadia e Alberto sono ragazzi moderni che non hanno vissuto quei momenti, hanno studiato e viaggiato e visto altri luoghi e frequentato altre culture e sono stati senz’altro agevolati dall’opportunità di acquisire una maggiore apertura mentale e nuovi stimoli, gli stessi che io ho dovuto ricercare faticosamente dentro di me, direttamente nel lavoro che ho svolto in tutti questi anni. Altri tempi di un altro Veneto molto diverso da quello visibile oggi, ma sicuramente più “agricolo” e più affascinante di adesso. In pochi anni tutto si è trasformato velocemente senza che io abbia potuto far niente, tante cose sono scomparse e con esse un’altra traccia del mio passato, ma a quei cambiamenti ho fatto l’abitudine; e mi accorgo di ritrovarmi adesso in un mondo che, forse, sarà sicuramente migliore, ma che è molto diverso da quello in cui sono nato. Tutto è successo senza che me ne accorgessi, poiché ho sempre lavorato a testa bassa senza riuscire a guardarmi troppo intorno, proiettato com’ero solo verso il raggiungimento di un obiettivo sempre nuovo o di un traguardo sempre più importante che, una volta raggiunto, era sostituito da un altro e così via avendone sempre uno da raggiungere anche oggi a 71 anni.


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Lugana DOC Sergio Zenato Riserva Così una mattina mi sono svegliato e quell’antica civiltà contadina, alla quale anch’io appartenevo, non esisteva più. Al posto dei contadini, operai o imprenditori, e al posto delle aie e delle case coloniche, ville, hotel, piazzali e capannoni industriali. Dove era andata a finire quella sana e genuina cultura che mi aveva fatto diventare ciò che sono? Esisteva ancora quella perseveranza che dà la forza, dopo aver sbagliato, di continuare? C’è ancora, mi domando, quell’onestà che si insegnava con l’esempio nelle campagne? Sono questi valori che mi hanno guidato in tutti questi anni e mi hanno dato la forza di ingrandire l’azienda e migliorare la qualità dei vini che produco. Non so se tutti questi cambiamenti abbiano portato solo cose positive; del resto, spero di esserci ancora per vederne i risultati, anche se ormai mi limito a controllare e a consigliare i miei figli che, spero, continuino con perseveranza e onestà sulla strada che ho loro tracciato, sulla quale, mi sembra di capire, si trovino a loro agio.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Trebbiano di Lugana provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Podere Massoni nel comune di Peschiera del Garda, le cui viti hanno un’età compresa tra i 15 e i 20 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni di natura argillosa, sono situati ad un’altitudine di 60-80 metri s.l.m., con esposizione a sud / sud-est. Uve impiegate: Trebbiano di Lugana 100% Sistema di allevamento: Guyot Densità di impianto: 3.700 ceppi per ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire da metà ottobre, si procede alla pressatura soffice delle uve raccolte e dopo una pulizia statica del mosto, effettuata alla temperatura controllata di 16-18°C, si inseriscono i lieviti selezionati e si dà avvio alla fermentazione alcolica che si protrae per 15 giorni alla temperatura di 16-18°C e che è svolta in tonneaux di rovere francese di Allier nuovi a grana fine e media tostatura. L’affinamento si svolge in tonneaux nuovi per 5 mesi, periodo durante il quale vengono effettuati periodici bâtonnages al fine di movimentare le fecce nobili per accrescere struttura e longevità. In seguito si procede all’assemblaggio delle partite, quindi il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 25.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Il vino si presenta di un bel colore giallo dorato; al naso offre sentori di frutti polposi come l’albicocca e di frutta esotica come la papaia, a cui seguono note di cedro, di ginestra e di erbe aromatiche per chiudere con nuances di vaniglia e una piacevole sensazione di biscotti appena sfornati. In bocca è elegante, equilibrato, molto gradevole, con buona sapidità e freschezza; lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1994 Le migliori annate: 1997, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino, che prende il nome da Sergio Zenato, fondatore dell’azienda, ed è prodotto soltanto nelle migliori annate, raggiunge la maturità dopo 3 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 3 e i 10 anni. L’azienda: Di proprietà della famiglia Zenato dal 1966, l’azienda agricola si estende su una superficie di 70 Ha, tutti vitati. Svolge funzioni di agronomo e di enologo Sergio Zenato. Altri vini I Bianchi: Lugana Doc Vigneto Massoni Santa Cristina (Trebbiano di Lugana 100%) Rigoletto Igt Passito (Trebbiano di Lugana 100%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Classico Doc Sergio Zenato (Corvina 80%, Rondinella 10%, Sangiovese 10%) Alberto Igt Veneto (Cabernet Sauvignon 50%, Merlot 35%, Corvina 15%) Valpolicella Classico Doc Superiore (Corvina 80%, Rondinella 10%, Sangiovese 10%)


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Francesco e Domenico Zonin

Poteva risultare molto complesso salire su un treno che aveva già intrapreso il suo viaggio verso il futuro, soprattutto se lo stesso rappresenta la trasposizione metaforica di un’azienda vitivinicola come quella della nostra famiglia, che opera in Virginia, negli Stati Uniti, e in sette regioni italiane, con 10 aziende vitivinicole. L’estensione vitata è di oltre 1800 ettari che interessano, per quanto riguarda il territorio nazionale, ben undici Denominazioni di Origine Controllata; in esse sono occupati oltre 550 dipendenti, con uno staff di 32 qualificati tecnici che contribuiscono alla produzione di 23 milioni di bottiglie di vino, commercializzato in ben 76 paesi del mondo. Potevano sorgere delle difficoltà a doversi inserirsi in una realtà così complessa come è quella della Casa Vinicola Zonin, che nel contesto italiano risulta essere una fra le aziende private con il maggior numero di ettari vitati, ma che, raffrontata invece alle dimensioni delle aziende del Nuovo Mondo, può essere paragonata a uno dei loro corpi aziendali. Come si vede, tutto alla fine risulta relativo e molte cose assumono un valore diverso a seconda del punto di osservazione dal quale si guardano, anche se noi - dobbiamo dire - abbiamo avuto non solo un angolo privilegiato dal quale osservare ciò che ci accadeva intorno, ma anche un padre eccezionale che ci ha presi per mano e condotti alla scoperta dei meccanismi che illuminano le scelte aziendali della famiglia Zonin, che non considera mai le sue attività sotto il semplice aspetto economico, ma come strumenti per appagare la passione nel fare vino. Un prodotto che facciamo esaltando le specificità, salvaguardando la qualità, prestando attenzione al consumo responsabile e costruendo un rapporto positivo con la natura, nel rispetto di chi consuma i nostri prodotti e di chi collabora con noi nella loro produzione; per gli Zonin questo non significa solo impegno, lavoro e dedizione, ma, prima di tutto, l’espressione di un sentimento, di un’identità e di una tradizione di famiglia che non deve essere perduta. È grazie a questa filosofia aziendale che non abbiamo trovato difficoltà a salire su quel treno in corsa, poiché il nostro inserimento, ai livelli di responsabilità crescenti nell’azienda, non è stato un percorso obbligato, ma una scelta consapevole d’impegno e di vita. La nostra è stata un’adesione piena, responsabile e felice ad un’idea che ci è stata trasmessa da nostro padre Gianni, che ha saputo consolidare e costruire gran parte di ciò che oggi è presente intorno a noi, plasmando e modificando di continuo la propria managerialità in base ai cambiamenti, complessi e profondi, che hanno coinvolto il mondo del vino italiano che egli ha vissuto da protagonista negli ultimi cinquant’anni. Idee con le quali ci confrontiamo spesso quando camminiamo con lui fra i filari delle vigne, magari durante le nostre vacanze al Castello d’Albola, nel cuore del Chianti Classico o nella Tenuta Ca’ Bolani, in Friuli o in occasione dell’annuale convention aziendale, quando la famiglia si ritrova con gli agenti, i dipendenti e gli amici per condividere con loro non solo le strategie commerciali, ma anche l’impegno che anima la nostra opera di viticoltori e produttori di vino. Fra quelle vigne ci scambiamo emozioni e affetti avendo, ogni volta, la conferma che in mezzo a quei filari c’è il nostro futuro. Tra noi fratelli non servono tante parole, basta guardarsi negli occhi per capire che stiamo entrando in punta di piedi dentro un’azienda che ha una storia iniziata più di un secolo fa e che da sola è in grado sia di giustificare la nostra presenza oggi qui, sia di annullare qualsiasi problema generazionale che possa insorgere. Un’azienda che è chiamata a confrontarsi con le nuove sfide che la contemporaneità le propone. Cambiano i mercati, cambia la concorrenza, che si fa sempre più agguerrita e aggressiva, cambiano le tecniche di marketing e quelle che interessano la filiera produttiva e c’è bisogno di dare risposte adeguate a questi nuovi scenari; noi crediamo di essere in grado di farlo senza inquietudine, perché abbiamo radici profonde che attingono ad un giacimento d’esperienza ricchissimo: dalla vita, dal percorso imprenditoriale di nostro padre e dalla storia della Zonin possiamo attingere a piene mani gli esempi che ci servono a governare positivamente il presente e guardare con ottimismo al futuro. Sensazioni splendide che si rigenerano negli insegnamenti e nella realtà imprenditoriale che viviamo giornalmente; questo ci dà la forza e la consapevolezza di comprendere che non potevamo smarrirci lungo la strada verso i vertici dell’azienda. Certo, la formazione universitaria, le esperienze fatte negli Stati Uniti e in Francia e i rapporti che abbiamo avuto, fin dagli anni della nostra prima formazione,


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Recioto di Gambellara Classico DOC Passito con i maggiori produttori di vino del mondo, ci hanno consentito di avere maggiore consapevolezza di ciò che dovevamo e potevamo fare. Per noi è stato naturale quindi affiancare nostro padre, avendo anche la possibilità di unire alle competenze quelle inclinazioni personali che contribuiranno certamente e migliorare il nostro “saper fare”. Un impegno a cui siamo stati preparati consapevoli dell’importanza che ricopre ancora nostro padre. A lui spettano le decisioni fondamentali, a lui spetta il governo complessivo delle tenute di famiglia e anche se siamo diventati ormai i suoi più stretti collaboratori e insieme rappresentiamo un punto di riferimento in azienda, al quale si aggiungerà l’anno prossimo Michele, il nostro fratello più giovane, sappiamo che dobbiamo ancora continuare ad apprendere da lui come dai numerosi collaboratori che hanno contribuito a rendere grande la Casa Vinicola Zonin. Stiamo parlando di Casa, di famiglia, tutti sinonimi di un concetto più ampio che ci riconduce qui a Gambellara e a quel podere Il Giangio da dove tutto è partito e dove si trovano ancora le nostre prime vigne e le nostre antiche radici venete. È da quelle radici che prendiamo la forza, mentre è dall’esperienza e dalla saggezza di nostro padre che traiamo la ragione del nostro operare, guardando al futuro, vivendo il presente senza nulla disperdere del nostro passato. Tutto questo è riassunto in un nome: Zonin. Noi lo portiamo con impegno e con orgoglio, come ci ha chiesto di fare nostro padre.

Zona di produzione: Il vino è il prodotto della vinificazione delle migliori uve Garganega provenienti dai vigneti dell’azienda, posti in località Podere di Giangio, nel comune di Gambellara, le cui viti hanno un’età media di 26 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti, che si trovano in una zona collinare su terreni vulcanici con buona acidità e tessitura franco-sabbiosa, sono situati ad un’altitudine di 200 metri s.l.m., con un’esposizione a sud. Uve impiegate: Garganega 100% Sistema di allevamento : Pergola veronese Densità di impianto: 3.000 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia manuale, che avviene di solito a partire dalla seconda decade di settembre, si procede alla selezione delle uve che sono poste nel fruttaio per l’essiccazione naturale che ha termine generalmente alla fine di febbraio dell’anno successivo alla vendemmia, quando si inizia la vinificazione attivando la pigia-diraspatura. Il mosto ottenuto, inoculato da lieviti selezionati, è avviato alla fermentazione alcolica che è svolta, per 60 giorni, in recipienti di acciaio inox e continua, a temperatura ambiente, in barriques e tonneaux di rovere francese di Allier a grana fine e media tostatura di 1°, 2° e 3° passaggio in cui rimane per 24 mesi. Al termine della maturazione si procede all’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento minimo di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: 6.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore oro antico luminoso, al naso il vino sprigiona profumi di frutta secca e una piacevole sensazione di confettura di albicocche che si apre a note di caramella mou supportate da un fondo minerale. Dolce in bocca, avvolge e intriga in modo elegante, piacevole, fine; è sorretto da buona sapidità e da bella freschezza che lo rendono lungo e persistente al retrogusto. Prima annata: 1997 Le migliori annate: 1997, 1999, 2000, 2001, 2003 Note: Il vino raggiunge la maturità dopo 4 anni dalla vendemmia e il plateau di maturazione è compreso fra i 4 e i 20 anni. L’azienda: Da generazioni di proprietà della famiglia Zonin, l’azienda agricola da cui proviene il vino si estende su una superficie di 70 Ha, di cui 60 vitati e 10 occupati da una riserva di caccia, boschi e seminativi. Collaborano in azienda l’agronomo Regildo Farinon e l’enologo Franco Giacosa. Altri vini I Bianchi: Gambellara Classico Doc Il Giangio (Garganega 100%) Soave Classico Doc (Garganega 95%, Trebbiano di Soave 5%) I Rossi: Amarone della Valpolicella Doc (Corvina 60%, Rondinella 35%, Molinara 5%) Valpolicella Doc Superiore Ripasso (Corvina 70%, Rondinella 20%, Molinara 10%) Valpolicella Classico Doc (Corvina 70%, Rondinella 20%, Molinara 10%) Berengario Igt Venezie (Cabernet Sauvignon 65%, Merlot 35%)


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Francesco Parisi e Celestino Gaspari

Non nego di ritenermi un uomo fortunato. Non so proprio di cosa dovrei lamentarmi. Ho avuto la fortuna, in vita mia, di avviare un certo tipo di percorso durante il quale ho concretizzato molte di quelle cose che mi ero prefissato di raggiungere, alcune delle quali sembravano destinate a non realizzarsi mai, mentre altre, inaspettatamente, si sono sistemate lì, dove non avrei mai sperato. Perché quindi dovrei lamentarmi? Del resto ho anche avuto la fortuna di fare l’enologo, un lavoro che mi piace tanto e che, ancora oggi, mi incuriosisce e mi sprona a misurarmi continuamente con le mie capacità. Un lavoro che mi ha consentito di realizzarmi come uomo e come professionista, mi ha dato l’indipendenza e la possibilità di far crescere le mie tre figlie in un ambiente meno duro e difficile di quello in cui sono cresciuto io. Un mestiere che mi ha posto a contatto con la natura e con un ambiente sano e genuino che ho vissuto fin da piccolo. Un lavoro attraverso il quale sono riuscito a costruirmi un futuro e a lasciare una traccia indelebile del mio passaggio su questa terra, il cui segnale più forte è forse proprio questa cantina che, per la mia personale esperienza professionale, ho voluto edificare con l’estrema semplificazione della perfezione, la stessa che avevo sempre idealizzato nella mia mente. Sì, non nego che molte cose sono andate nel verso giusto ed è forse per questo che mi ritengo fortunato, soprattutto se mi fermo a riflettere e a considerare da dove sono partito e quale è stata la strada che sono riuscito a percorrere fino ad ora. Non so se mi ha assistito quella dea bendata “general ministra e duce” dei beni terreni o se invece siano state un insieme di favorevoli circostanze che mi hanno aiutato a ottimizzare quelle poche risorse che avevo, riuscendo così ad esaltare alcuni personali, piccoli e particolari meriti, o se invece in tutto questo abbia giocato un ruolo importante il sostegno e l’assistenza di alcune persone che, nell’ombra e a mia insaputa, hanno contribuito a far sì che io facessi tutto ciò che poi ho fatto. In cuor mio, tutti i giorni ringrazio la Provvidenza e mi prodigo, ogni qual volta se ne presenta l’occasione, per aiutare gli altri dicendo a me stesso: “Beh, se ce l’ho fatta io, possono farcela anche gli altri e quindi perché non aiutarli?” È così che affronto la mia quotidianità, nella speranza di riuscire, al termine della mia esistenza, ad emulare almeno un po’ lo spirito e l’altruismo che animava mia nonna Celestina. È con lei che sono cresciuto ed è ancora forte il ricordo di quella donna eccezionale che riusciva ad abbinare alla determinazione un cuore grande come questa cantina. Era dolce con me ed era sempre disponibile ad andare in soccorso degli altri, ma allo stesso tempo era precisa, corretta, onesta, attenta e oculata amministratrice di quelle poche risorse economiche che ci consentivano di sopravvivere. Aspetti importanti che mi hanno segnato e che, con il tempo, sono diventati dei parametri con i quali confrontarmi per camminare sulla strada della vita. Parametri che si sono successivamente allargati e consolidati con l’esperienza in seminario, nella comunità di Luigi Maria Grignon di Montfort di Francia, qui a Verona e poi a Bergamo, dove entrai subito dopo le scuole elementari per continuare a studiare; un’esperienza forte che contribuì a trasformarmi, da quel ragazzino ribelle che ero, in un buon cristiano. Memorie e ricordi che mi hanno segnato. Mi rivedo ancora quando andavo alle scuole elementari e indossavo dei pantaloni che, essendomi stati lasciati in eredità dai miei cugini, avevano svariate toppe che si erano sommate l’una all’altra in proporzione perfetta ai “culi” che li avevano calzati. Mi vergognavo di quel mio stato di indigenza e invidiavo un po’ i miei compagni di scuola, soprattutto quelli che avevano alle spalle famiglie più agiate che permettevano loro di indossare i jeans. Quel piccolo e tenero rancore nei confronti della vita svanì presto, ma contribuì molto a spronarmi e a infondermi nuovi stimoli per andare avanti e non arrendermi mai di fronte alle difficoltà che avrei successivamente trovato, cercando, per quanto mi fosse possibile, di rimanere sempre una “testa libera”. La libertà a cui non rinuncio neanche oggi e che sfogo nel mio lavoro, fra queste vigne, in questi vini come l’Harlequin, realizzato con un minimo di quindici tipi di vitigni diversi. È sempre stato così, anche dopo che mi ero sposato con Maria Rosa, ed ero andato a lavorare e a vivere con Giuseppe Quintarelli, mio suocero.


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Kairos IGT Veneto Rosso Furono anni di grandi impegni e di grande crescita professionale, ma il desiderio di costruire qualcosa di mio, qualcosa di personale e che rimanesse nel tempo, mi spinse poi a lasciare quell’azienda e a proseguire per conto mio su una strada che non sapevo minimamente dove mi avrebbe condotto. C’è voluto coraggio, c’è voluta la Provvidenza e anche quella fortuna di cui parlavo prima o forse, per arrivare così lontano, ho avuto bisogno anche di qualcos’altro che non so indicare e ignoro. In ogni modo sono contento di ciò che ho fatto e lo sono ancora di più perché per ottenerlo ho dato retta al cuore e ai miei sogni che, ancora oggi, rappresentano per me il pane e il sale della vita. Avrei avuto la possibilità di seguire una strada più facile come quella del consulente, ed essa mi avrebbe sicuramente portato più soldi in tasca e meno problemi. Ma dopo averci pensato un po’ mi dico che doveva andare così e che, probabilmente, non era quella una cosa che faceva per me. Ho bisogno di inseguire sempre i sogni impossibili, l’alternativa alle cose, andando a vedere sempre il rovescio della medaglia e volendo capire cosa c’è oltre quello che i miei occhi riescono a vedere. È un sistema di vita difficile da seguire e che richiede una grande serenità interiore. Credo, però, di averla ormai raggiunta.

Zona di produzione: Area della Valpolicella e della provincia di Verona. L’80% dei vigneti è di proprietà, mentre il 20% deriva da aziende collaboratrici. L’età varia dagli 8 ai 50 anni. Tipologia dei terreni: I vigneti della zona collinare si trovano su terreni calcareoargillosi di origine vulcanica o eocenica, mentre quelli di pianura si trovano su terreni di origine alluvionale ricchi di limo, argilla e ciottoli. Uve impiegate: Corvina, Corvinone, Rondinella, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Merlot, Syraz, Oseleta, Croatina, Teroldego, Sangiovese, Nebbiolo, Trebbiano Toscano, Garganega, Chardonnay e Sauvignon Blanc con percentuali variabili a seconda dell’annata Sistema di allevamento: Guyot, spalliera e pergola Densità di impianto: da 2.500 a 8.500 ceppi per Ha Tecniche di produzione: Dopo la vendemmia, che avviene di solito a partire dalla prima decade di settembre e prosegue fino al 10 ottobre, si procede alla selezione delle uve e al loro “riposo” in plateaux fino alla raccolta dell’ultima varietà; in seguito si procede alla mescola delle varietà e alla loro diraspapigiatura e il mosto ottenuto si avvia ad una criomacerazione che si protrae per 48 ore alla temperatura di 7°C in recipienti di acciaio inox. Al termine si avvia la fermentazione alcolica che si protrae per 30 giorni ad una temperatura compresa tra i 15 e i 30°C; contemporaneamente si procede anche alla macerazione sulle bucce, che dura altri 5-6 giorni, durante i quali vengono effettuati frequenti délestages e rimontaggi giornalieri. Terminata questa fase, il vino svolge la fermentazione malolattica, quindi è posto in barriques di rovere francese nuove a grana fine e media tostatura in cui rimane per un minimo di 24 mesi. Al termine della maturazione avviene l’assemblaggio delle partite e, dopo un breve periodo di decantazione, il vino è messo in bottiglia per un ulteriore affinamento di altri 6 mesi prima di essere commercializzato. Quantità prodotta: circa 15.000 bottiglie l’anno Note organolettiche: Di un bel colore rosso rubino intenso, il vino si presenta all’esame olfattivo con profumi piacevoli che riportano alla mente sensazioni balsamiche che si aprono a note di menta, a suadenti sentori di confettura di prugne e a note di cioccolato fondente. In bocca è elegante, avvolgente, con una fibra tannica ben equilibrata e vellutata che è accompagnata da una bella freschezza; piacevole, risulta inoltre lungo e persistente. Prima annata: 2002 Le migliori annate: in costante e progressiva evoluzione Note: Dal Greco antico deriva il nome “Kairos”, che significa “opportuno, conveniente, per il momento giusto”. È stato scelto poiché dettato dalla situazione aziendale in quel preciso momento. È un vino creato per durare nel tempo e per confrontarsi con le migliori espressioni enologiche mondiali. L’azienda: Di proprietà di Celestino Gaspari e Francesco Parisi, l’azienda agricola si estende su una superficie di 9 Ha, di cui 8 vitati e 1 occupato da oliveto. Il ruolo dei proprietari nella parte agronomica ed enologica è intercambiato a seconda degli interventi. Altri vini I Bianchi: Il Bianco “from black to white” Igt Veneto (Rondinella bianca 60%, Golden Traminer 15%, Kerner 15%, Incrocio Manzoni 10%) I Rossi: “Oz” Oseleta Igt Provincia di Verona (Oseleta 100%) Amarone della Valpolicella Doc Classico (Corvina 30%, Corvinone 30%, Rondinella 30%, Oseleta 5%, Croatina 5%) Harlequin Igt Veneto (da un minimo di 15 varietà, di cui 4 a bacca bianca e 11 a bacca rossa: Corvina, Corvinone, Rondinella, Sangiovese, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Merlot, Syraz, Croatina, Nebbiolo, Teroldego, Oseleta, Garganega, Trebbiano Toscano, Chardonnay, Sauvignon Blanc)




Finito di stampare nel mese di dicembre 2007 presso Tap Grafiche S.p.A. Poggibonsi (SI)



Per riuscire nel mio intento mi sono mosso con molta circospezione, cercando di porre attenzione e dare risalto anche ai chiaroscuri delle cose, in modo da acquisire maggiore sicurezza e riuscire a tirare le fila di alcune riflessioni personali, che ad altri potranno sembrare scontate o originali, ovvie o contraddittorie, ma che, comunque, vanno a sommarsi a quelle che ho accumulato negli anni passati percorrendo in lungo e in largo la Toscana, la Sicilia, il Friuli, il Piemonte e le Marche e riportando una visione sempre più completa della realtà culturale del settore vitivinicolo italiano di questo inizio secolo. Durante il viaggio in Veneto, che è stato molto lungo, essendo durato quasi quattro mesi, ho visitato più di cento cantine, passando dalla Valpolicella alla Valdobbiadene, dai Monti Lessini ai Colli Euganei, imbattendomi in una terra poliedrica, sotto l’aspetto vitivinicolo, rappresentata da due anime, ognuna delle quali, pur se tinteggiabile con colori tenui, sobri, mai forti, mi è sembrata ben distinta dall’altra. Anime che poi ho ritrovato girando un po’ ovunque fra i borghi agricoli delle campagne o passeggiando nei corsi luccicanti dei centri storici, ma che, nel caso specifico del vino, mi hanno indotto a mettere in dubbio quei parametri con i quali ho fin qui operato. Nelle altre regioni, infatti, mi sono sempre imbattuto in un comparto vitivinicolo abbastanza omogeneo e che, pur presentando picchi di contraddizioni, alcune volte anche eccessivi, era sempre rappresentativo di un mondo rurale in via di trasformazione. Qui invece la cosa è diversa. Mi sono ritrovato a dover dialogare con una marcata realtà vitivinicola double face, composta da due identità specifiche, entrambe forti, risolute e importanti, che caratterizzano e condizionano la proposta enologica del Veneto: una, interprete degli interessi degli industriali del vino, degli imbottigliatori e delle grandi cantine sociali, l’altra, dei vignaioli.


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