Vite Castiglione nero di Natile

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CULTURA E SOCIETÀ

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I FRUTTI DIMENTICATI

A CURA DI ORLANDO SCULLI E ANTONINO SIGILLI

Castiglione nero di Natile Vitis vinifera L.

Nell’estate di una decina di anni addietro lo scrivente ebbe l’incarico da parte della dottoressa Giuseppina Amodei, defunta da poco più di un anno, autrice di alcune raccolte di poesie e corresponsabile assieme al marito e al fratello dott. Francesco Amodei, della gestione dell’Istituto Internazionale di Restauro Palazzo Spinelli di Firenze, di guidare sul territorio l’amica sua, l’attrice Elisabetta Coraini alla ricerca di scorci paesaggistici particolari, caratterizzati da presenza di rocce, in quanto erano coinvolti assieme in un progetto editoriale, basato su fotografie in paesaggi selvaggi unite alle sue liriche. In tali scenari sarebbe stato ambientato il libro fotografico, Donna Fera, edito poi da Mondadori, dove ogni foto sarebbe stata preceduta da una poesia. Furono scelti scorci nel comune di Gerace, in contrada Cao, altri nel comune di San Giovanni di Gerace e altri ancora in quello di Careri, dove furono visitate le Rocce e le Grotte di San Pietro, non molto distanti da Pietra Cappa, che offrirono scenari affascinanti per i loro obiettivi. Qui, Elisabetta Coraini e suo marito per circa due ore scattarono foto e, dato che una leggera brezza rinfrescava la calura pomeridiana di metà agosto, stesero su un pianoro roccioso delle stuoie e si stesero sopra, mettendosi in costume da bagno . I raggi tiepidi del sole li colpiva piacevolmente, mentre ammiravano serenamente il panorama circostante. Lo scrivente gironzolava intorno alla grotta di S. Pietro, andando alla ricerca di esempi di ceramica datante, abbondante in quell’area, costituita da frammenti notevoli di embrici greci e forse di frammenti di ceramica protostorica, localizzati alla base di grotticelle. Prima di arrivare al sito, sulla stradina in forte pendenza, ripulita dal calpestio delle capre in transito, discendente dalla sterrata ampia che porta al santuario di Polsi o deviando, verso il casello forestale di pietra Cappa, notò sulla sinistra una vite solitaria inerpicata su un leccio dai bei grappoli ormai invaiati, a forma piramidale, dagli acini perfettamente sferici non radi; più distanziati apparivano

pochi ceppi di vite, retaggio di una vigna ormai scomparsa. Desiderava chiedere notizie a qualcuno, ma appariva in lontananza solo qualche capra inerpicata su dirupi impossibili, per cui si rassegnò all’idea d’indagare sulla vite. A un certo punto si sentì qualche scampanellio e poi successivamente altri, che col passare di pochi minuti si trasformarono in un fragore assordante di campanacci, che s’indirizzava decisamente verso l’area della Roccia di S.Pietro . Elisabetta e suo marito aspettavano felici e svestiti la man-

dria costituita unicamente da capre aspromontane dalle robuste corna, guidate da diabolici caproni dalle corna possenti. Ad un certo punto al frastuono dei campanacci si aggiunsero i richiami urlati con voce potente da un pastore sull’ottantina, robusto, abbastanza alto, con i capelli neri ancora, o leggermente brizzolati, che brandendo a destra e a manca una scure dal lungo manico, avanzava verso la Roccia di San Pietro. Lo spettacolo eccessivamente bucolico non piacque a Elisabetta e a suo marito che in un baleno si rivestirono e incrociando obbligatoriamente il pastore in un passo obbligato, lo salutarono fugacemente con un cenno della mano e poi risalirono velocemente la stradina verso la sterrata dove era parcheggiata l’auto che li avrebbe riportato verso la costa. Lo scrivente, invece, incrociando il pastore, doverosamente l’informò sul perché erano venuti a visitare la Rocca di S. Pietro e facendo le dovute presentazioni seppe che si chiamava Sebastiano Codispoti, pastore da sempre e conoscitore di ogni anfratto del suo territorio. Notò che in una tasca della sua giacca aveva un cucchiaio appena abbozzato in legno di erica e poi con una certa circospezione gli chiese notizie sulla vite inerpicata sul leccio e seppe che esso era denominato Castiglione e che proprio dove esso sopravviveva era stata impiantata una vigna poco dopo la seconda guerra mondiale, costituita oltre che dal Castiglione anche dalla malvasia bianca e nera, dalla guardavalle nera e bianca ecc. Ormai le antiche viti che costituivano le vigne nel comune di Careri, non esistono più e sopravvivono stentatamente in qualche sparuta vigna marginale. L’ultima vigna costituita da viti autoctone nel territorio di Natile, fu quella della famiglia Napoli impiantata nell’area gravitante verso Platì; era dotata prevalentemente di Castiglione Nero e, addirittura di quello bianco.

“Se Armilla sia così perché incompiuta o perché demolita, se ci sia dietro un incantesimo o solo un capriccio, io lo ignoro. Fatto sta che non ha muri, né soffitti, né pavimenti: non ha nulla che la faccia sembrare una città, eccetto le tubature dell’acqua, che salgono verticali dove dovrebbero esserci le case e si diramano dove dovrebbero esserci i piani: una foresta di tubi che finiscono in rubinetti, docce, sifoni, troppo pieni… Dei corsi d’acqua incanalati nelle tubature di Armilla sono rimaste padrone ninfe e naiadi. Abituate a risalire le vene sotterranee, è stato loro facile sgorgare da fonti moltiplicate… trovare nuovi modi di godere dell’acqua. Può darsi che Armilla sia stata costruita dagli uomini come dono votivo per ingraziarsi le ninfe offese per la manomissione delle acque”.

Architettura d’acqua PASQUALE GIURLEO PROBABILMENTE ARCHITETTO La città di Armilla inventa, scopre il fascino del tubo a vista. Calvino riscatta le acque, fa giustizia della sua invisibilità nella civiltà contemporanea. Nell’architettura incubata l’acqua scorre nei condotti in pressione nascosti negli spessori delle murature: la sua vista non è gradita, i suoi rumori detestati. Calvino libera i tubi nascosti nei pavimenti, celati nei tramezzi, e fa compiere alle ninfe la lunga strada che dalle sorgenti del mondo greco porta al contemporaneo. Il fascino delle acque nell’architettura antica è dovuto al fatto che l’acqua vi scorre per gravità, e in visibile continuità con il luogo naturale da cui proviene. Tutta l’architettura romana degli acquedotti delle aquae pensiles nasce dalla straordinaria idea per la quale l’acqua, catturata, convogliata, depositata, possa generare architetture meravigliose e che queste, componendo le proprie forme con quelle della natura, mutino il fondamentale valore simbolico dell’acqua in rappresentazione dello spazio voluto. Gli acquedotti sette-ottocenteschi muovono nella stessa direzione. Ora interrata nelle viscere delle montagne, ora estesa lungo vallate, l’acqua scende dalla sorgente, a mezzacosta lungo l’anfiteatro dei monti. Lungo il suo percorso, si incontrano grandiose “stazioni d’acqua”: le cascate, le arcate dei condotti, porte trionfali o trionfanti scavalcamenti; fino al termine della corsa, dove finalmente è l’accumulo e il riposo nelle piscine delle cisterne. Durante il viaggio il filo d’acqua si allarga, si stringe, indugia in momenti di passaggio, si apre in vasche rettangolari, definendo e disegnando il paesaggio circostante. Osa e si ritrae, parla o tace. I suoi suoni animano lo spazio connotandolo come maestoso, calmo, agitato, allegro, cupo, raccolto. Ha la capacità di riunire, saldare, riavvicinare, sospendere tenere insieme elementi diversi: attorno al filo della sua voce si organizzano i discorsi. L’acqua denuncia, nel suo perpetuo nascere, l’esistenza di cose che vivono nel tempo della memoria e dell’immaginario. Rappresenta il regno del non lineare, dell’autonomia del tempo; contiene livelli e modi di realtà altri da quelli iscritti nella temporalità piana. È una “rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli” (Borges). Transita, declina, discende dallo stesso allo stesso e

questo passaggio dissolve l’identità del tempo. Questa sottile astrazione trasparente racchiude nella sua unità indivisa la virtualità di tutte le forme, è inafferrabile nell’infinità delle sue determinazioni. Spezzare il legame tra uso e rito, è il peccato originale degli impianti idraulici odierni, insieme alla distanza che frappongono tra il corso naturale dell’acqua e la sua utilizzazione. Esiste un conflitto con chi vuole assegnarle un posto definito, attribuirle un’identità precisa, ridurla alla banalità di una funzione. Tuttavia l’acqua conserva molte valenze maturate nelle antiche culture, ed è

ranti per numero e forma sono le imagines rerum sensarum. “Giungo allora ai campi e ai vasti quartieri della memoria, dove riposano i tesori di innumerevoli immagini di ogni sorta di cose” (Agostino di Tagate). L’acqua, con la sua mobilità, malleabilità, trasparenza, col suo sinuoso movimento che chiarifica l’origine, è il veicolo ideale di un viaggio senza fine nei vasti quartieri della memoria.

ancora oggi spesso usata nei suoi significati simbolici. Nel cimitero Bryon di Carlo Scarpa, fine architetto dei dettagli, è presente ovunque: il cancello di cristallo all’ingresso scende nell’acqua per lasciare libero il passaggio, l’arco tombale copre una vasca dove l’acqua accentua l’apparente dondolio delle tombe; il padiglione ne è circondato. Un filo d’acqua, infine, che ricorda le canalizzazioni geometriche arabe, collega i diversi frammenti. Il filo azzurro di Scarpa è il tracciato di chi non cerca una direzione, ma un movimento continuo, nel vasto campo della memoria ove esube-

stagna è fondamentale. In un recente piccolo intervento dalle parti della Calabria ho costruito una vasca rettangolare con il fondo nero con adagiate grandi pietre di marmo bianco e verde attraversato da passerelle che si intersecano, composte da tavoli di legno recuperati e capovolti. Quando si attraversano si sentono, a intervalli crescenti, tonfi di pietra che cadono. Il suono basso e cupo di acqua e di cadute di massi rimanda alla paura delle alluvioni storiche e personali che forse giace sepolto nel nostro collettivo inconscio.

Anch’io realizzo giardini dove l’acqua in movimento o

DOMENICA 26 MARZO 21


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