Cerasuola di Ferruzzano

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CULTURA E SOCIETÀ

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I FRUTTI DIMENTICATI

A CURA DI ORLANDO SCULLI E ANTONINO SIGILLI

DOMENICA 19 FEBBRAIO 20

ALLA FAMIGLIA PEDULLÀ, DOPO IL TERREMOTO CHE COLPÌ FERRUZZANO IL 23 OTTOBRE 1907, RESTÒ IN EREDITÀ SOLO LA SPLENDIDA VITE DA TAVOLA, CHIAMATA “CERASOLA” PERCHÉ GLI ACINI DEL SUO SPLENDIDO GRAPPOLO ERANO ROSSI E ROTONDI COME LE CILIEGIE.

Vitis Vinifera / Fam. Vitacee

Cerasola di Ferruzzano La vite è stata tramandata da un passato remoto proficuo, laborioso e perso per sempre a un presente privo di aspettative, specie per il territorio.

In un passato ormai lontano, tale vite possedeva la peculiarità di essere il frutto totemico di una famiglia di Ferruzzano, quando essa era influente come quel territorio ormai decaduto e degradato a cui il frutto appartiene. La famiglia in questione si chiamava Pedullà e si tramandava di padre in figlio un braccio d’oro da utilizzare in caso di bisogno, seppellito sotto una parte precisa di una delle sue tante case di Ferruzzano Superiore. Il 23 ottobre del 1907, tuttavia, ci fu un sisma con epicentro nel paese, la cui parte più importante fu rasa al suolo provocando circa duecento morti e un’emigrazione di massa verso gli Stati Uniti d’America. A partire da quel momento, il paese cominciò a morire come era morto il depositario del segreto che riguardava il braccio d’oro. Alla famiglia Pedullà restò in eredità la splendida vite da tavola, chiamata Cerasola perché gli acini del suo splendido grappolo erano rossi e rotondi come le ciliegie. Specie se piantata in terreni sciolti, essa dava regalava grappoli stupendi. Nel 2002, proseguendo un percorso intrapreso nel 1978 tendente alla salvezza delle tante preziose viti della provincia di Reggio, visitai la vigna della famiglia Romeo-Pedullà in contrada San Pietro, costituita solo da viti del territorio restando incan-

tato di fronte ai grappoli di una vite: la Cerasola. La signora Santa, moglie di Antonino Romeo, mi raccontò che tale vite l’aveva trasferita dalla vigna della sua famiglia ubicata in contrada Judario (il villaggio degli ebrei) quando si era sposata, e che ormai esisteva solo in quel posto, per giunta in due soli esemplari allevati a pergola, potati “a spalla” perché potessero fruttificare. Mi raccontò che la sua famiglia aveva sempre utilizzato l’uva di quella vite solo per fare dei doni durante il periodo estivo a persone di riguardo, che restavano stupefatte nell’osservare i grappoli, belli da vedere, e si provava quasi un disagio a rovinarli, mangiandone gli acini. Si ricordava quando, già matura, ai primi di settembre, in occasione della festa della Madonna della Catena, dentro un paniere confezionato apposta, di canna e verga, i suoi grappoli venivano portati in dono a un cugino professionista di Bruzzano, mentre un altro paniere, sempre nuovo, veniva riempito in occasione della Madonna dell’Addolorata, verso la metà di settembre, e regalato a un’altra famiglia distinta del paese. Accanto c’era un’altra vite particolare, la Petrisa Janca, con cui si confezionava l’uva sotto spirito perché dura, dolce e croccante ed era la sua

degna compagna di viaggio, verso le mense di riguardo. Certamente non mancavano nella vigna di Judario lo zibibbo e lo zibibbo moscato, che con il loro aroma insidiavano la supremazia della Cerasola. La vite era stata tramandata da un passato remoto proficuo, laborioso e perso per sempre a un presente privo di aspettative, specie per il territorio. Certamente era stata la regina delle vigne già nel “villaggio degli ebrei”, dove forse la comunità ebraica produceva vino Kosher, contenuto in urne destinate ad altre comunità ebraiche lontane, sulle cui anse era impressa la Menorah, e vicino al putridario, dove si era disfatto il cadavere di qualche monaca in odore di santità appartenuta al monastero di San Clemente, secondo le ricerche dell’archeologo onorario Sebastiano Stranges di San Luca. Da quel posto prestigioso era stata trasferita in un altro non di meno, in quanto piantumata vicino ai ruderi della chiesetta bizantina di San Pietro e non lontano dalla sorgente dedicata allo stesso santo, ma in un periodo di decadenza. La vigna, ormai, è arrivata al capolinea e sta per essere estirpata. Forse la Cerasola, degna della mensa di un re, sarà risparmiata, ma non è detto che non sarà cancellata per sempre. Chi la salverà?

La felicità del vivere in piccolo Il libro della scrittrice Dominique Loreau sostiene che in pochi metri quadrati si vive meglio e la Keret House ci convince che le dimensioni non contino, e che soltanto restando piccoli si riuscirà a diventare felici. PASQUALE GIURLEO PROBABILMENTE ARCHITETTO La classe media scompare anche nell’abitare: per ogni fantastiliardario che si costruisce una casa da megalomane, milioni di case minuscole spuntano in ogni città del mondo. Le ragioni sono ovvie: crisi economica, mancanza di spazio, sovrabbondanza demografica. Ma il genio del mercato è anche saper ribaltare la sfortuna in moda e la necessità in virtù. Così ci si convince che le dimensioni non contino, e che soltanto restando piccoli si riuscirà a diventare felici. È la tesi di un libro: Vivere in piccolo della scrittrice francese Dominique Loreau. Nel libretto fioccano citazioni di Henry David Thoreau e Richard Bach, insieme a proverbi cinesi e massime di oscuri maestri taoisti. E si leggono frasi di sconcertante banalità: «Gli appartamenti piccoli attirano meno i ladri», «più lo spazio è limitato e più la mente è illimitata» o, ancora, «è più facile mettere in disordine un grande appartamento che uno piccolo». Tuttavia se l’entusiasmo di Loreau lascia il tempo che trova, è anche vero che alcune delle cose interessanti che accadono in architettura sono minuscole. Il successo dei minicottage inglesi, delle tiny houses americane e delle case prefabbricate, smontabili e trasportabili, sono segnali che la casa è sempre meno concepita in funzione dell’eternità, e sempre più come qualcosa da usare. Il celebre Cabanon di Le Corbusier, la cabina 3,6 x 3,6 metri a Cap Saint Martin in Costa Azzurra dove il grande architetto passava le estati, da bizzarria architettonica diventa un modello. Il mito della casa di proprietà che nel secolo scorso costituiva insieme alla famiglia la base

della nostra organizzazione societaria sta tramontando. La casa è concepita come servizio . È lo stesso principio di Uber, di BlaBlaCar e di Airbnb. A Hong Kong, è possibile visitare la casa di Gary Chang, un architetto celebre per l’ossessività con cui ha riprogettato i 32 metri quadri della stanza in cui abita in modo da utilizzare ogni centimetro grazie a pannelli di metallo, mobili a scomparsa, tende che si trasformano in schermi. Certo Hong Kong è un’isola strappata al mare dove ogni centimetro è impor-

tante e l’ossessione di Chang non è un fatto privato. Nella maggior parte degli appartamenti di Hong Kong ormai ci sono solo il letto, la lavatrice e il bagno. Lo stesso avviene a Pechino, San Francisco, New York a Tokio . La cucina, per esempio, tende a scomparire perché si mangia sempre fuori. L’erosione dello spazio privato determina una parallela trasformazione dello spazio pubblico. La città diventa un enorme pianoterra diffuso; infatti, sempre più spesso, bar e ristoranti sono arredati come

case, con divani, camini, tappeti. Il ridursi dello spazio abitativo spinge a rafforzare quello pubblico, a mettere in comune servizi; così spunta la biblioteca comune ricavata dalla portineria di un condominio al numero 12 di via Rembrandt, nel quartiere Lorenteggio, a Milano. Sfumando i confini tra interno ed esterno, la soglia arretra e al contempo scompare. È il tema del co-working, dei ristoranti in casa, degli asili o degli orti di condominio, tutti sintomi, magari momentanei, di un ritorno a modi di abitare più simili alla cascina e alla casa di ringhiera che alla chiusura a tenuta stagna della casa borghese. È anche un effetto delle tecnologie. Se le reti entrano in casa e la collegano al mondo, la pervasività della sfera pubblica virtuale induce anche a reagire, a uscire davvero per verificare la permanenza del mondo reale. Dentro la casa non abita più soltanto chi c’è: in ogni istante si convive con i gruppi WhatsApp delle classi dei figli o del lavoro, e l’identità si libera dall’ancoraggio a un unico luogo, che però diventa ancora più forte, perché più intimo. Ma nessuna casa svela i propri segreti e angoli bui. Il piccolo è misterioso almeno quanto il grande. La casa-guscio, estensione del corpo, avvolge ma può fare paura. Fa paura perché “il piccolo” apre la strada all’esplorazione di un mondo sconosciuto, di una nuova frontiera; ed è per questo che c’è molto da imparare dalla casa più stretta del mondo (dai 72 ai 122 centimetri) di 14 metri quadri costruita dallo scrittore israeliano Etgar Keret in memoria dei propri antenati deportati a Varsavia. Si tratta di un alloggio che si estende verticalmente dove c’è tutto: cucina, bagno, camera da letto. Non manca nulla. Nonostante questo, per la legge, casa Keret non può essere classificata come un vero e proprio spazio abitativo, ma è considerata un’installazione artistica. Chi l’ha visitata ha detto che la felicità non si misura per metro quadro.


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