Il myrion dall'ulivo del krisma

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CULTURA E SOCIETÀ

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I FRUTTI DIMENTICATI

A CURA DI ORLANDO SCULLI E ANTONINO SIGILLI

Il myrion dall’ulivo del Krisma

Nel territorio della Locride si raccontava che nei poderi dei monasteri basiliani, appartenenti all’ordine di S. Basilio di Neocesarea sul Ponto esisteva un biotipo di ulivo che a maturazione produceva olive candide e che era considerato sacro. Una trentina d’anni fa, nel territorio di Ferruzzano in un’area agricola abbandonata, individuai un ulivo dentro un’enorme siepe, che produceva olive bianche. La pianta fu osservata per circa tre anni e fu constatato che essa produceva fiori raggruppati in racemi, che si sarebbero trasformati in olive a grappoli di tre o quattro per volta. Era necessario diffondere l’ulivo poichè si trattava di un biotipo raro, al fine di salvarlo dall’estinzione e l’indagine fu estesa anche a Bianco dove furono individuate delle piante tuttora esistenti, tra cui una non lontana dai ruderi della chiesetta bizantina di S.Mercurio, nella vigna della famiglia Sinopoli, che omette di cogliere le olive per riverenza alla sua sacralità in quanto da esse veniva ricavato l’olio santo, secondo la testimonianza del defunto Francesco Mezzatesta, che gestiva il consorzio agrario a Bianco ed era depositario delle conoscenze antiche del suo mondo agricolo. Altri riferivano che nei poderi appartenenti ai monasteri, i coloni o gli affittuari non potevano raccogliere le olive, in quanto bisognava consegnarle ai monasteri stessi che si preoccupavano di ricavare l’olio delle funzioni religiose più importanti e aggiungevano che in

ogni campo appartenente alla chiesa bisognava piantare almeno una pianta di questo tipo. La ricerca portò all’individuazione di un’altra pianta a Mammola in un campo appartenuto nel passato al monastero di San Nicodemo, mentre a Bova, città bizantina dove ancora sporadicamente qualche vecchio parla il greco, nuove informazioni arricchirono l’indagine storica. Il defunto Bruno Casile, raffinatissimo ellenofono, raccontava che l’ulivo dalle drupe bianche veniva chiamato leucolea e che veniva piantato solo nei campi dei monasteri greco-ortodossi, perché se ne ricavasse l’olio del Krisma, ossia quello che serviva per le unzioni dei funzionari imperiali bizantini e dei prelati; era interdetto piantarli in altri ambiti. L’indagine fu estesa a Gerace, la città bizantina per eccellenza, dove il defunto Antonio Laganà aveva un campo di conservazione con 79 biotipi di ulivi del territorio e fu felice quando seppe della ricomparsa di quello dalle drupe bianche, che egli riteneva perso definitivamente. Volle prelevare degli innesti da un esemplare riprodotto e non ebbe la soddisfazione di vederlo in produzione perché da lì a breve morì. Raccontava che era chiamato leucocaso, ossia la bianca di Kasos, l’isola dell’Egeo da cui era originario, e serviva per produrre l’olio del Krisma, ossia dell’unzione per i designati alle alte cariche, sia civili che religiose.

Dieci anni fa Fedele Lamenza, titolare assieme alla moglie dell’azienda olivicola Pompilio nel cosentino, venne nella Locride per visitare un campo di salvataggio di viti antiche e comunicò che aveva scoperto due ulivi bianchi centenari a Saracena (Cosenza), nell’orto che era appartenuto al convento dei Cappuccini, incendiato dai Piemontesi nel 1861. L’olio era usato dai monaci per illuminare la chiesa, in quanto, bruciando, non produceva molto fumo, forse perché povero di grassi. Fortunatamente aveva innestato alcune piante, prendendo le marze dai suddetti ulivi, anticipando l’incendio che anni dopo distrusse le due piante. Un’altra particolarità dell’ulivo di Titi è costituito dal fatto che tra le olive bianche talvolta spiccano poche drupe di un nero vellutato. Nel dicembre 2011, pregato da Sergio Guidi dell’Arpa Emilia Romagna, assieme ai dirigenti dell’Arpacal e alla dott.essa Vanna Forconi dell’Istituto di Ricerca di ISPRA, portai in Vaticano un ulivo del krisma al direttore dei Giardini Vaticani, dove fu messo a dimora, che fu consegnato nel governatorato al cardinale Sciacca. Arricchì la ricerca il prof. Daniele Castrizio, papas greco-ortodosso a Reggio nonché numismatico presso l’università di Messina che tenne a precisare che probabilmente dalle olive bianche si ricavava l’olio da unzione che, profumato con essenze odorose non conosciute, si trasformava in myron. Successivamente arrivò un’altra informazione da

DOMENICA 05 FEBBRAIO 20

Oppido Mamertina, l’antica Motta S. Agata dei bizantini, Castro (città amministrativa) e sede di Droungos (distretto militare) nelle Turme delle Saline, dove sporadicamente si trova ancora l’ulivo del krisma, che nel passato impreziosiva le ville signorili per la bellezza delle sue drupe, che venivano molite separatamente, ricavando un olio chiaro, quasi trasparente, usato solo per le insalate. Nella stessa area si è indagato anche a Santa Cristina dove in un podere del giovane imprenditore Roberto Papalia, in contrada Campo esistono due piante che hanno le stesse caratteristiche, che sono chiamate stranamente “ulivi francesi”. Dopo un’ulteriore indagine, grazie a un testo che mi fu regalato dal giovane ingegnere toscano d’origine calabrese, Cesare Scarfò, si è saputo che nel Regno delle Due Sicilie, tra le quattordici varietà più importanti del Regno, veniva citata l’oliva bianca o Abicora, che dava “frutti minuti e bianchi come l’avorio, olio bianchissimo come l’acqua”. Inoltre esiste in un monastero a Taggia un ulivo simile portato in Liguria dai crociati provenienti dalla Terrasanta, che era stato prelevato nell’isola di Casos, su cui ha discusso una tesi di laurea, Pino Baffa, che ha pensato di salvare dall’estinzione l’ulivo di Taggia costituendo un piccolo campo di conservazione. Ancora Teresio Leoncini di Villafranca in Lunigiana, mi ha chiesto delle marze dell’ulivo del Krisma, che ha innestato e lo sta diffondendo in Toscana e addirittura ha offerto dei piccoli ulivi a degli estimatori dei Colli Euganei, in Veneto e a un altro veneto, Vladimiro Rocco. Un vivaista della provincia di Catania è venuto a Ferruzzano e ha ricavato delle marze da un ulivo di Callipari Domenico in contrada Carruso, innestato da me circa 25 anni fa. Di recente su indicazione del giovane Raffaele Scali di Gioiosa Marina è stato individuato un esemplare di ulivo del Krisma nel comune di Gioiosa stessa, nella proprietà del Giudice Cento, gestita da Nicola Musolino. Egli ha informato che l’ulivo dalle olive bianche era chiamato l’ulivo della Madonna e le sue olive per devozione non vengono mai raccolte o utilizzate. Si fa presente che le olive sono molto delicate e che se attaccate dalle mosche olearie, cominciano a deteriorarsi e a perdere il candore. Ormai si sta allontanando il rischio di estinzione dell’ulivo in questione, grazie alla bellezza delle sue drupe ed ogni anno nell’orto della palazzina dei ferrovieri a Ferruzzano Marina giungono dei visitatori ad ammirare le olive del giovane ulivo del Krisma, innestato da me quasi trent’anni addietro. Il suo estimatore più importante risulta il dott. Gerardo Pontecorvo, attualmente funzionario del ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, autore della fotografia.

La luce della Luna “Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli oggetti veduti per metà o con certi impedimenti ecc. ci destino idee indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov’ella divenga incerta e impedita e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ecc. ecc.; la detta luce veduta in luogo, oggetto ecc. dov’ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto ecc. dov’ella venga a battere” Zibaldone dei Pensieri di Giacomo Leopardi

PASQUALE GIURLEO PROBABILMENTE ARCHITETTO

Io sono uno che pensa, pensa non solo a che cosa fa, ma anche al senso di quello che fa. Le domande mi aiutano a pensare. La realtà in cui viviamo si evolve e quindi anch’io cerco di capire qual è il mio rapporto con il mondo circostante. I miei pensieri stanno in stretta relazione con lo stato attuale del mio spirito perché ho idea che lo spirito abbia strette relazioni con il corpo. E il corpo è, per ragioni del destino, più stanco e più pigro, si lancia di meno. Vedo una ragazza e dico: facciamo amicizia. Ma quando avevo diciotto anni avevo l’intera vita davanti e potevo dire: facciamo programmi, sposiamoci. Adesso non posso fare più programmi però ho più tempo per capire cosa sta succedendo. Capisco che se uno cerca di realizzare lavori che sembrano ben fatti, di dire cose ragionevoli, di fare una ceramica per portarla alla fidanzata, di lavorare non per il successo ma per la cerchia di persone che gli stanno a cuore, alla fine finirà per non avere molti soldi. Tuttavia penso che mi piacerebbe continuare a fare progetti di architettura e design anche senza soldi. In essa puoi rappresentare un sistema di pensieri più vasto e allargare le possibilità del pensiero e crearti anche strani momenti di gioia. Così una sera di un’estate di questi ultimi anni, mi ricordo che c’era la luna piena. Quando c’è la luna piena, le case i tetti le strade le terrazze della Calabria e di tutte le terre antiche del mediterraneo sbiancano come se fosse giorno, i prati diventano color madreperla e i cespugli di lentisco e i capperi, gli alberi di olivo e di carrubo diventano buchi neri come caverne e nessuno sa da chi sono abitati. In qualche notte dell’anno la luna è una potente lampadina fredda; non serve molto agli uomini, (forse serve agli amanti che si tuffano nudi nell’acqua luccicante), ma serve credo ai pomodori, come al basilico e certamente ai topi e gufi. Certamente ai cani

la luna piena non piace, riempiono il silenzio dei paesi di latrati inquieti. Quello che mi viene da pensare, ad ogni modo, è che le case non sono disegnate per ricevere la luce della luna piena. Come ho gia detto, durante le ore della luna piena quasi tutti gli uomini e le donne sono stanchi, giacciono mezzi morti nei loro letti e nei letti altrui e la luna la usano poco, pochissimo. Perciò le architetture di Caulonia e Brancaleone non sono disegnate per ricevere e controllare la luce della luna piena. Del resto, a dire la verità, anche parlando in generale, io so poco di architetture disegnate per la luce fredda delle notti di luna piena e ancora meno conosco architetture disegnate per le notti di luce galattica, voglio dire per le notti illuminate da quella luce imprevedibile, da quella luce senza ombra che

mandano giù i grandi cieli stellati. Forse mi ricordo solo di Akbar, il grande sultano della dinastia Moghul d’India, che faceva disegnare ai suoi architetti alte terrazze di pietre rosse e marmi bianchi, terrazze speciali come recinti sacri per la moglie musulmana perché potesse guardare la luna e mi ricordo anche di terrazze circondate da acqua, specie di piastre di luce galleggianti per ascoltare, sotto la luce della luna piena, musiche di flauti e di tamburi o per assistere, sotto la luce della luna piena, a lunghe danze pesanti. Forse mi ricordo di portici medioevali più o meno disegnati per camminare all’ombra della luna intorno a fontane coperte di rose e anche di balconi spagnoli per starci semplicemente seduti quando la luna arriva a piombo sopra l’ombra dei giardini. Queste sono le architetture lunari che

ricordo ma io sono ignorante. Certamente qua e là, forse in Cina e anche in Giappone o nei deserti del Marocco o della Persia, si sono costruite architetture per la luce della luna: torri altissime per essere viste da lontano, minareti a punta, cortili di marmo, tombe di santi o di uomini rispettabili, mura di giardini e finestre speciali delle case, perché la luce della luna viaggi in silenzio sulle lenzuola delle stanze e sui vasti pavimenti. Quello che so è che la luce della luna piena è una luce cosmica, fredda, molto fragile e morbida, so che è una luce oscura che non illumina ma produce ombre preoccupanti, so che scava architetture, rocce e altre meraviglie fuori dalle tenebre, so solo, alla fine, che dei luoghi dà una descrizione inaspettata, lontana, indecifrabile, estatica.


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