Susino Rusia

Page 1

CULTURA E SOCIETÀ

www.rivieraweb.it

DOMENICA 22 GENNAIO 20

I FRUTTI DIMENTICATI

A CURA DI ORLANDO SCULLI E ANTONINO SIGILLI

Prunus domestica L.

Susino Rusia

Fino agli inizi degli anni ’50 del 900, nei nostri territori, le prugne davano la possibilità di preparare le scorte invernali sotto forma di frutta secca, utilissima a superare l’inverno considerata una soglia difficile da varcare, specie da parte della povera gente con i tanti bambini sempre affamati e infreddoliti perché mal coperti. Il freddo veniva sconfitto con abiti rattoppati appartenuti ai fratelli più grandi, mentre i piedi rimanevano spesso nudi o coperti semmai dalle “scarpe grosse” di “cromo” ossia di pelle ruvida di vitello conciato nelle concerie del territorio, spesso di Canolo, con le suole chiodate, dotate da “vitarelle” o “ttacce” e “puntette”, punte difese da parti ferrate, che dovevano “durare” dalle prime acque in ottobre fino alla fine di aprile, quando anche i bambini dei non poveri buttavano gli scarponi ormai consunti, che lo “scarparo” aveva con tanta perizia confezionato, con la raccomandazione del padre di portarli a termine di un numero più grande, in quanto i piedi dei ragazzini crescono, si sa, da un giorno all’altro. Naturalmente un altro aiuto contro il

freddo veniva dal sole che i bambini poveri invocavano quando una nuvola non densa lo ricopriva: “suli, suli nesci, nesci, pa li poveri piccirilli che non hannu da mangiari, suli nesci pa cardiari”. I bambini poveri già dalla più tenera età, a partire da sei o sette anni, nei paesi dell’entroterra, venivano utilizzati come piccoli pastori dalla famiglie povere che li mandavano a pascolare qualche capra o pecora, evadendo l’obbligatorietà scolastica. Portavano per sfamarsi pane asciutto, che talvolta si accompagnava con pochi fichi secchi, pere secche o talvolta con prugne secche. I bambini poverissimi venivano “ccordati”, ossia divenivano servi pastori, presso agricoltori benestanti in cambio di qualche quintale di grano o di legumi per un anno di fatica da dare alla famiglia di origine. Inoltre ogni anno venivano dotati di un paio di scarponi, due paia di “carzuni” (mutande lunghe di tela), una giacca di velluto o di fustagno del tipo “pelle di diavolo” (molto resistente), corredata da due pantaloni dello stesso tipo di stoffa, una camicia di

tela, un berretto (“barritta alla carrettèra”), un ombrello resistente, mentre la maglia “in carni” ossia la maglia interna era confezionata dalle mamme con i ferri da maglia con lana filata delle pecore nere, così la sporcizia si notava meno. Di solito i bambini erano capaci di integrare la loro alimentazione molto scarsa e al limite della sopravvivenza, ancora fino agli inizi degli anni ‘50 del 900, cibandosi di erbe edule in campagna, imparando dai più grandicelli, che a loro volta avevano mediato le loro conoscenze dagli adulti. Naturalmente il supporto alimentare più prelibato per essi era costituito dai “cannoli” ossia gli steli consistenti di sulla (erba da foraggio), che decorticati e mangiati a sazietà deliziavano per la loro dolcezza, quando portavano qualche capra o pecora al pascolo; essi poi non omettevano di costituire dei mazzetti da portare a casa per le sorelline o per un fratellino più piccolo. Osservavano gli animali e si accorgevano che alcune piante, come la ferula, l’oleandro,

l’euforbia, il laburno fetido, ecc., le risparmiavano e allora chiedevano agli adulti il perché e apprendevano che erano piante velenose. Grandi e piccini amavano moltissimo la frutta che addolciva un po' l’esistenza stentata e le piante da frutto più generose, a ben guardare erano i peri e i susini; infatti, alcune varietà di ambedue cominciavano a maturare i loro frutti a partire da maggio, scaglionando nei vari mesi i loro doni fino a ottobre, al tempo della vendemmia. In questa gara di generosità, tra pero e susino, aveva la meglio, per un soffio, il pero il quale offriva l’ultimo suo dono a dicembre con la varietà Castiglione. Le susine erano molto amate e ogni territorio proponeva qualcosa d’inedito rispetto ad altri, ma c’erano alcune varietà diffuse in alcuni territori contigui, mentre poche altre erano diffuse a livello regionale. Addirittura esistevano dei tipi di susini, appannaggio di qualche famiglia, all’interno di una stessa comunità che non veniva ceduta ad altre, funzionando da pianta totemica, ma la diffusione poteva avvenire tramite i matrimoni. Un caso di funzione totemica risulta essere stata assolta dalla bellissima varietà Rusìa (Rosata in greco di Calabria) del susino qui presentato, presente in due esemplari nell’orto del prof. Domenico Camabreco a Ferruzzano Marina. Egli aveva apprezzato tale frutto da bambino, nella vigna che suo padre, nel 1933, aveva impiantato in contrada Carruso dello stesso comune. Egli era stato a Calusco d’Adda in provincia di Bergamo per più di quarant’anni e ritornando al suo paese d’origine volle visitare il luogo di delizia, quale era stata la vigna di suo padre e, intrappolata in un enorme roveto, scorse boccheggiante il susino Rusìa, che solo la sua famiglia possedeva, e lo salvò in extremis. Ora gli unici esemplari, due, esistono nel suo orto a Ferruzzano Marina e producono dei frutti magnifici anche da vedere, che maturano tra la fine di luglio e la metà di Agosto. Offrono delle susine dal colore rosato e dal gusto soave, che molto spesso si saldano tra di loro a due a due, mentre il loro nocciolo viene estratto con facilità e risulta spiccagnolo (resta asciutto). È di non facile attecchimento per cui il rischio d’estinzione è altissimo.

La pioggia Esiste un rito magico con il quale si invoca e si propizia la pioggia innaffiando la polvere secca della terra. Allo stesso modo si invoca e si propizia l’universo costruendo una casa. La casa è la ricostruzione dello spazio dell’universo come l’acqua versata sulla terra è la ricostruzione della pioggia. Larchitettura è sempre stata e oggi è più che mai un rito magico: tutte le volte che si perde la realtà magica dell’architettura si perde anche l’architettura

PASQUALE GIURLEO probabilmente architetto La pioggia viene dall’alto, cade dal cielo sulle nostre teste, arriva non si sa da dove, da quello spazio vuoto dove quando passi con l’aeroplano non si vede niente, non c’è niente, non vasche,non catini, o cisterne o innaffiatoi, niente: solo nuvole impalpabili, vapori trasparenti ,umidità incolore. Cade dall’alto e ci colpisce, come la fortuna e la sventura, il destino,l’ignoranza, il domani. Qualunque cosa succeda se viene dall’alto sappiamo che c’è poco da fare :sia acqua o sole ci colpirà in ogni caso consegnandoci il senso dell’esistenza, dell’impotenza, della piccolezza della condizione umana. Possiamo proteggerci certo, difenderci con i nostri miseri mezzi. Così facciamo da migliaia di anni, ma sono sempre soluzioni provvisorie e parziali, perché quello che cade dall’alto segna sempre, intacca impercettibilmente tutte le cose, roccia,legni e metalli,rigenera la vegetazione, fa gioire la natura e umilia l’uomo deteriorando con lentezza e determinazione tutte le sue costruzioni presuntuosamente eterne. Sotto la pioggia si è tutti più vicini e quando torna il sole ognuno ha la sua ombra. La pioggia nutre e distrugge, rigenera e deprime. La natura della pioggia è sempre la stessa, eppure fa nascere spine nel pantano e fiori in un giardino. Non è tragica, raramente spaventa,non è di per se cattiva, lo diventa, come del resto chiunque pratichi la sgradevole disciplina dell’insistenza. È ineluttabile. Bagna, irriga, nutre, feconda: si accompagna talvolta a cattive compagnie, venti, tempe-

ste, lampi e fulmini e quando si esalta la sua forza diventa immane, diventa invincibile. Nel duello cielo contro terra è quasi sempre il primo ad avere la meglio. Cambia i colori e le superfici, il verde diventa più verde, il giallo più giallo, il nero più nero, le pietre grigie si colorano e quelle opache si lucidano. La pioggia dà una dimensione, proporziona gli spazi e le ambizioni, cambia la luce e l’umore, varia il ritmo delle emozioni. Se la si può vivere serenamente, produce magia, crea un’atmosfera nostalgica di fiabe da ascoltare da bambini, esalta il silenzio e il suo dolce ticchettio libera la fantasia. Non si chiama e non si manda via, viene e se ne va solo quando vuole, è imprevedibile nonostante Internet e i bollettini metereologici. È la pioggia che fa i tetti e sono i tetti che fanno le case: è la più grande protagonista dell’architettura perché tutto viene fatto per farla scivolare via. Le forme che la raccolgono non funzionano. L’acqua pesa e imputridisce, non va bene averla sopra la testa, filtra nelle fessure, gonfia il legno e si insinua negli interstizi corrodendo anche la pietra. Non c’è verso, qualsiasi sigillatura e in ogni caso provvisoria. I tetti piani sembrano aggirare il problema ma non è mai così. Strade, piazze, cortili e terrazzi, tutto ha una sua pendenza perché l’acqua vada da qualche parte, e guai se nel posto sbagliato. A volte l’acqua va nelle grondaie e le suona come uno strumento musicale. Tutto questo ho pensato mentre progettavo quella piccola casa a Janchina, sulla collina con il tetto di lamiera un po’ arrugginito e con la tettoietta sopra la porta dell’entrata per proteggere l’abitante quando cerca le chiavi e non le trova nelle tasche.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.