CITTÀ INFORMALE
IUAV Febbraio 2016
ArchitetturaAdesso è una pubblicazione di architettura che opera come organo indipendente a carattere critico. Ogni numero è diretto da un editore invitato.
EDITORIALE #9
Di Camila Cociña
Teaching Fellow, The Bartlett Development Planning Unit, University College London. PhD (candidata) in Development Planning, UCL. MSc Building and Urban Design in Development. Architetto.
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CITTÀ INFORMALI: SISTEMI, NORME E IL DESIGN COME DOMANDA La discussione intorno al ruolo degli architetti e urbanisti nella città informale non è nuova. Quando Rem Koolhaas, negli anni in cui progettava edifici corporativi con tecnologia all’avanguardia, decide di dedicare un lavoro dai tratti artistici e dalle ambizioni sociopolitiche a Lagos, Nigeria, di fatto presenta —nella forma di un video con una dose non indifferente di suspence per lo spettatore— un manifesto rispetto all’attenzione che persino un’archistar come lui stava dedicando al sud globale. In questo breve articolo, però, la domanda più rilevante dovrebbe essere posta al contrario: non si tratta di trovare uno spazio per lo sviluppo disciplinare e autoriale in certe condizioni urbane, quanto piuttosto di riconoscere le necessità della città informale che richiedono conoscenze attuali per la progettazione.
È comprendendo ciò che diviene fondamentale questionarsi sul ruolo del progetto nella sua capacità di leggere ed agire all’interno di sistemi di norme distinti da quelli istituzionalizzati. Da parte di università e professionisti vi sono stati sforzi in questa direzione. Per citarne alcuni, e senza pretendere di costruire un catalogo esaustivo, la pubblicazione “Rethinking the Informal City” (Hernandez et al, 2010) rappresenta uno sforzo chiave in questo senso. Da parte sua, il lavoro “Spatial Agency” (Awan et al., 2011), pur non trattando esplicitamente di informalità, presenta un catalogo di opere che sono state capaci di agire su sistemi (formali e informali), aldilà della loro propria materialità. In campo professionale, diverse esperienze hanno dimostrato che il modo per interagire con territori informali, senza ricorrere al paradigma moderno della tabula rasa, consiste proprio nel soddisfare suddetti sistemi: esempi governativi in Latinoamerica come quello di Medellin (Davila, 2013) e, ancor più noto per la sua scala ambiziosa, il programma Favela Bairro in Brasile (Fiori et al., 2001), si sono rivolti precisamente a questo. D’altra parte, il lavoro messo in atto in Asia da parte della società civile per la Asian Coalition of Housing Rights e la sua collaborazione con CAN–Community Architects Networks, ha mirato allo stesso scopo attraverso processi di mappatura e progetti partecipativi, così come attraverso l’organizzazione di comunità.
COMMENTI
Lettori di ArchitetturaAdesso
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Come in qualsiasi disciplina, i professionisti che si occupano di temi urbani affrontano attualmente sfide inedite nel tentativo di agire in società con strutture ogni volta più complesse da un punto di vista politico, sociale, culturale e tecnologico, sostenute a loro volta da presupposti economici che si scontrano in una permanente crisi quasi-endogena, soprattutto a seguito del crollo finanziario del 2008. Urbanisti e designer affrontano, oltre a ciò, la sfida di operare nell’intorno costruito delle città, il quale a sua volta riflette —e riproduce— queste complessità.
Oggi è ampiamente riconosciuto che da più di otto anni la popolazione mondiale è principalmente urbana: più della metà degli esseri umani vive in città. Questo dato è costantemente usato per enfatizzare l’importanza delle città nel momento di farsi carico delle sfide che la popolazione deve affrontare; un dato meno citato, però, è la composizione di questi 3,5 bilioni di abitanti urbani: secondo indagini dell’unfpa, circa il 74% della popolazione urbana si concentra nelle città di paesi cosiddetti del sud globale, nei quali oltretutto si trovano le città con tassi di crescita più elevati; si stima, inoltre, che un terzo di questi 3,5 bilioni viva in insediamenti considerati informali, cioè ambienti costruiti che non rispondono a processi di pianificazione o costruzione regolati i quali, in innumerevoli occasioni, non contano con standard minimi urbani e residenziali. Si spera che entro il 2030, un terzo della popolazione mondiale possa vivere in insediamenti di questo tipo.
Si dovrebbe cominciare dalla definizione di cosa è l’informalità; dagli anni Sessanta, insieme ai primi segni della crisi del progetto moderno, l’informalità è stato un tema centrale delle scienze sociali. Senza addentrarci troppo nelle sue molteplici definizioni, ma seguendo quella che usa dare il sociologo Jore Fiori, si considerano insediamenti informali quelli che si sviluppano secondo sistemi di norme estranei alle regole istituzionali e che sono, oltrettutto, territori con livelli di produttività molto bassi. Importante, qui, è specificare che si tratta di sistemi normativi che, sebbene si trovino fuori dalle leggi istituzionali, non sono per questo inesistenti.
Già negli anni Settanta, l’architetto inglese John Turner, analizzando gli insediamenti informali del Perù, elaborò un esteso lavoro sui valori dell’autocostruzione, riflettendo sul ruolo di architetti e urbanisti in contesti di produzione informale della città, puntando l’attenzione sull’idea di processo in saggi come “Freedom to build” e “Housing by people” (1972, 1976). Da una prospettiva di mercato, l’economista peruviano Hernando de Soto (2000) ha discusso come gli attivi in una città informale possiedono in realtà un valore passivo, dal momento che è necessario assoggettare i suddetti valori attivi al mercato formale per eliminare la povertà urbana. In contrasto con questa visione, il lavoro di autori come Ananya Roy (2009), da una prospettiva post-coloniale, fa riferimento al lavoro di De Soto come a un “populismo neoliberale”, esortando a intendere l’informalità come un linguaggio di urbanizzazione, un sistema di norme con cui l’architettura, l’urbanismo e, infine, la politica, devono interagire piuttosto che negare.
In tutti questi casi, il progetto si trasforma quindi in una domanda rispetto a sistemi e norme, in relazione alla sua capacità di innescare processi, connettere territori e attivare spazi e persone. Architetti e urbanisti hanno saputo, storicamente, adattare il proprio lavoro a sistemi molto complessi, compresi tirannie e rivoluzioni; imparare a gestire sistemi non-formalizzati nei quali abitano milioni di persone si pone oggi come tema imperativo per ridurre disuguaglianze e ingiustizie, facendo perno sulle conoscenze proprie delle discipline del progetto per la costruzione di una maggiore giustizia sociale e spaziale.
Bibliografia Awan, N., Schneider, T., Till, J. (2011) Spatial Agency: Others way of doing Architecture. London: Routledge. Dávila, J. (Ed.) (2013). Urban Mobility and poverty. Lessons from Medellín and Soacha, Colombia. London: Development Planning Unit. De Soto, H. (2000). The mystery of capital: Why Capitalism Triumphs in the West and Fails Everywhere Else. New York: Basic Books. Fiori, J., Riley, E., & Ramírez, R. (2001). Physical Upgrading and Social Integration in Rio de Janeiro: the Case of Favela Bairro, DISP 147, N.4, Zurich, 48-60. Hernández, F., Kellet, P. & Allen, L.K. (Eds.) (2010). Rethinking the Informal City. Critical Perspectives from Latin America, Berghahn Books. Roy, A. (2009). Why India Cannot Plan Its Cities: Informality, Insurgence and the Idiom of Urbanization. Planning Theory, 8(1), 76–87. Turner, J. & Fichter, R. (1972). Freedom to Build: Dweller Control of the Housing Process. New York: The Macmillan Company.
Turner, J. (1976). Housing by people: towards autonomy in building environments. London: Marion Boyars.
Tema attuale #Cittàinformale
«Intendere l’informalità come “sistema di norme con cui l’architettura e l’urbanismo e, infine, la politica, devono interagire piuttosto che negare” è fondamentale non tanto per sottolineare che essa è costituita da regole, ma piuttosto perché mette in luce (sebbene in modo normativo) l’esistenza di una relazione tra informale e non-informale. Porre in risalto questo elemento permette di spostare l’analisi dell’informalità dallo studio della sua supposta essenza all’osservazione delle reti che la costituiscono, e di dimostrare che le città sono costituite da multiple relazioni ibride, cioè da associazioni che non sono solamente informali, ma nemmeno unicamente formali. A partire da questa interpretazione, il ruolo del progetto architettonico e della pianificazione urbana non è quello di spiegare di che cosa sia fatta l’informalità, ma piuttosto di rivelare come questa si relazioni con la non-informalità e di aiutare a generare nuove o migliori relazioni, contribuendo a migliorare la qualità della vita di tutti nelle città». Dott. Héctor Becerril Miranda Cattedratico conacyt Mexico - Universidad Autónoma de Guerrero.
«Il pensiero binario costituisce un ostacolo epistemologico per abbordare le complessità e le crescenti incertezze delle nostre realtà urbane. le pratiche discorsive che dividono la città in formale e informale hanno avuto profonde implicazioni sul modo in cui l’architettura e l’urbanismo pongono il progetto di fronte alle richieste spaziali urbane, riproducendo le asimmetrie di potere tra i loro abitanti. Se nel nucleo dell’idea di progetto si trovano le nozioni di designo e designare, è necessario re-immaginare gli orizzonti del futuro disciplinare e le strategie di avvicinamento allo spazio urbano autoprodotto. Nel contesto di una urbanizzazione planetaria, l’imperativo dell’azione presente obbliga, da un lato, a offrire nuovi modelli narrativi per sfidare i meccanismi operativi delle manifestazioni territoriali del capitalismo finanziario globale; dall’altro lato, costringe a ricalibrare l’importanza politica del progetto per intendere “l’informalità urbana” come lo scenario principe dell’innovazione socio-spaziale. Negare questa sfida sarebbe un errore di immaginazione collettiva e una dimostrazione di obsolescenza professionale dell’architettura e dell’urbanismo contemporaneo». Dott.ssa Catalina Ortiz Lecturer The Bartlett Development Planning Unit, University College London.
«Lavorando al limite tra formale e informale, gli architetti giocano un ruolo cruciale in quanto interpreti di distinti linguaggi, valori, norme e forme di conoscenza: da un lato razionalista, altamente codificato e talvolta tecnocratico, dall’altro, tattico, pratico e contestuale. Questo processo produce di per sé una nuova conoscenza e contribuisce a cambiare i suoi punti di riferimento, aprendo nuove possibilità. Da questa posizione particolare, gli architetti agiscono come mediatori tra sistemi istituzionalizzati e informali, cercando, per esempio, di rendere tangibile e comprensibile norme di governo di natura astratta, così da poterle sfidare e da rendere visibili e riconoscibili l’ingenuità e la creatività della popolazione, generalmente sottostimate. L’atto di progettare, quindi, costituisce un processo di costruzione di piattaforme utili a comunicare sistemi che necessitano trovare un modo di collaborare, se è vero che intendiamo creare processi di formalizzazione estensivi e inclusivi, non solamente formalisti, ma capaci di estendere i diritti dei cittadini a tutti gli abitanti delle nostre città». Francesco Pasta Community Architects Network (can) - Tailandia.
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