infiorata di noto
Alla scoperta del Castello di Santa Severa sul litorale tirrenico a Nord di Roma
Tra i petali di un bozzetto la continuità di un evento che è il trionfo della bellezza
Anno XV - n 6 giugno 2020 -
santa severa
anno 153 numero 6 giugno 202 0
tomàs saraceno lungo i percorsi di san francesco
alberto sordi
Ci sono luoghi che sono rotte di una spiritualità unica è il caso del cammino verso Assisi
Per la rubrica i luoghi del cinema, a cento anni dalla nascita, omaggio all’attore romano
primo piano
le novitĂ della casa
IL RAGGIO VERDE EDIZIONI
ilraggioverdesrl.it
EDITORIALE
Tomás Saraceno (Argentina, 1973), Installazione per il Cortile di Palazzo Strozzi, © Photography by Ela Bialkowska, OKNO Studio Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin L’installazione è promossa e realizzata grazie a Fondazione CR Firenze
Proprietà editoriale Il Raggio Verde S.r.l. Direttore responsabile Antonietta Fulvio progetto grafico Pierpaolo Gaballo impaginazione effegraphic
Redazione Antonietta Fulvio, Sara Di Caprio, Mario Cazzato, Nico Maggi, Giusy Petracca, Raffaele Polo
Hanno collaborato a questo numero: Lucia Accoto, Dario Bottaro, Giovanni Bruno, Stefano Cambò, Mario Cazzato, Sara Di Caprio, Giusy Gatti Perlangeli, Dario Ferreri, Sara Foti Sciavaliere, Antonio Giannini, Giuseppe Guida, Raffaele Polo, Stefano Quarta, Giacomo Vespo Redazione: via del Luppolo, 6 - 73100 Lecce e-mail: info@arteeluoghi.it www.arteeluoghi.it
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Archiviato il 2 giugno, la festa della Repubblica, ma non le immagini del Presidente Mattarella che a Codoglio ha reso omaggio alle vittime del Covid 19. «C'è qualcosa che viene prima della politica e che segna il suo limite: qualcosa che non è disponibile per nessuna maggioranza e per nessuna opposizione: l'unità morale, la condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l'uno dell'altro. Una generazione con l'altra. Un territorio con l'altro. Un ambiente sociale con l'altro. Tutti parte di una stessa storia. Di uno stesso popolo». Il discorso del Presidente deve essere il punto di partenza: sì, perché dal 3 giugno il nostro Belpaese prova a ripartire. Inutile dirselo ( o forse no) le difficoltà sono tantissime e ci aspettano decisioni e cambiamenti epocali. In primis il nostro atteggiamento nei confronti della Natura e della biodiversità come suggerisce la virologa Ilaria Capua nel suo libro “Il dopo”. Un dopo che è ora. Riaprono le grandi mostre e abbiamo scelto di raccontarvi quella dell’artista argentino Tomàs Saraceno a Palazzo Strozzi. Una mostra emblematica e per certi versi profetica e alla quale abbiamo dedicato l’immagine di copertina che suggerisce scenari apparentemente utopici ma suggerisce una nuova etica del comportamento se vogliamo salvare noi stessi e il pianeta. Interessanti sono le considerazioni dello psicologo Giovanni Bruno che ha analizzato cosa resterà di questa pandemia e l’analisi dell’economista Stefano Quarta sugli scenari futuri. Doveroso poi l’omaggio ad Alberto Sordi grazie a Stefano Cambò che lo ha ricordato nei Luoghi del Cinema. Coerenti al nostro sentire, abbiamo provato a raccontarvi la bellezza di alcuni dei nostri luoghi grazie a Sara Foti Sciavaliere con i suoi reportage al Castello di Santa Severa e ad Agropoli, Antonio Giannini sui percorsi francescani e a Raffaele Polo che ci indica un misterioso luogo a Taviano (Lecce) e ci ha ricordato un volto degli anni Cinquanta, la bella Angela Portaluri candidata a Miss Mondo. Un tuffo nell’Ottocento con lo scultore Emauele Caggiano, maestro di Vittorio Gemito, grazie a Sara Di Caprio mentre Dario Ferreri ci riporta all’arte contemporanea con Alex Garant la Regina dei doppi. Infine con Dario Bottaro a Noto dove un simbolico bozzetto realizzato per dare continuità alla manifestazione sospesa per il Covid ci lascia il messaggio che noi facciamo nostro “La bellezza è più forte della paura”. (an.fu.)
SOMMARIO luoghi|eventi| itinerari: girovagando i il castello di santa severa 52| l’infiorata di noto al tempo del covid19 68| agropoli 79 | sulle orme di francesco 110 | arte: aria le visioni di tomàs saraceno 4 |emanuele caggiano l’armonia del bello 14 | renato centonze 32 musica: tickets il brano di merifiore 66 | riapre il museo del saxofono 67 i luoghi della parola: | i luoghi della parola| se non ora quando? 37 | dalla pandemia un cambiamento epocale 42 | ai supereroi mascherati della maturità 46 |tecnica e virus 48 | effusività proattiva 50 curiosar(t)e: alex garant 96 | interventi letterari|i luoghi del mistero il palazzo di taviano 20 | salento segreto 136 cinema la notte della taranta e dintorni 24 | angela portaluri 28 |sqizo viaggio nella mente 37 | i luoghi del cinema : omaggio ad alberto sordi 126 libri | luoghi del sapere 106-108 |#ladevotalettrice i luoghi nella rete|interviste| il concorso: il mare in una stanza 45 | le nuove regole focus bologna musei 92 m come miele, il concorso 104 Numero 6- anno XV - giugno 2020
Tomás Saraceno (Argentina, 1973), Installazione per il Cortile di Palazzo Strozzi, © Photography by Ela Bialkowska, OKNO Studio Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin L’installazione è promossa e realizzata grazie a Fondazione CR Firenze
aria. le visioni di tomàs saraceno per un nuovo “rinascimento” Antonietta Fulvio
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Riapre la personale dell’artista argentino a Palazzo Strozzi pensando ad una nuova ecologia del comportamento
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Ciò che sta tra noi e il Sole è controllato da pochi ed è sempre più compromesso: le emissioni di carbonio riempiono l'aria, le polveri sottili galleggiano nei nostri polmoni mentre le radiazioni elettromagnetiche avvolgono la terra, dettando il ritmo del capitalismo digitale nell'era del surriscaldamento globale. Tuttavia è possibile immaginare un'era diversa, l’Aerocene, caratterizzata da una sensibilità proiettata verso una nuova ecologia del comportamento. Tomàs Saraceno
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Un nuovo rinascimento che supera la visione antropocentrica e immagina uno spazio, l’universo, in cui Uomo e Natura, esseri viventi e non viventi entrino in una relazione di interconnessione sulla base di uno scambio continuo tra arte e scienza. E la condivisione tra le diversità cambiando le prospettive solitamente utilizzate per osservare il mondo. Perché il mondo non siamo solo noi. E nel mondo siamo ospiti al pari di tutte le altre specie viventi e non viventi. Inaugurata il 22 febbraio e a pochi giorni dall’apertura chiusa per la
pandemia, dal 1 giugno riapre “Aria” la personale di pittura dell’artista argentino Tomàs Saraceno curata dal direttore della Fondazione Strozzi, Arturo Galansino che spiega «L’arte di Tomás Saraceno ci fa riflettere su problemi e sfide caratteristiche della nostra era – l’Antropocene – divenuti sempre più urgenti, come l’inquinamento, i cambiamenti climatici, la sostenibilità, il superamento di barriere geografiche e sociali.» Artista, architetto e performer argentino, Tomàs Saraceno che vive e lavora a Berlino
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Tomás Saraceno (Argentina, 1973), Installazione per il Cortile di Palazzo Strozzi, © Photography by Ela Bialkowska, OKNO Studio Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin L’installazione è promossa e realizzata grazie a Fondazione CR Firenze
è tra gli artisti più richiesti nelle manifestazioni d'arte contemporanea di tutto il mondo, con le sue installazioni ha partecipato alle Biennali di Venezia del 2001, 2003 e 2009 e alla Biennale di San Paolo del 2006. Nel 2009 ha preso parte all’International Space Studies Program della NASA e da sempre è interessato all'utilizzo della tecnologia per la ricerca di modalità sostenibili per l'uomo e per il pianeta. Un concetto che appare evidente al visitatore che entrando nel cortile di Palazzo Strozzi viene accolto da Thermodynamic Constellation un’installazione, promossa e realizzata grazie a Fondazione CR Firenze, con gigantesche sfere che fluttuano libere nell’aria lasciando immaginare una nuova mobilità, l’Aerocene, comunità artistica interdisciplinare avviata dallo stesso artista e metafora di un nuovo modo di vivere lo spazio, senza confini e senza particelle combustibili. Le sfere infatti sono alimentate dall’aria e si sollevano grazie all’energia del sole, praticamente ad emissioni zero, mostrando come sia possibile - e ormai inderogabile adottare ciò che lo stesso Tomàs Saraceno definisce una nuova ecologia del comportamento. I cambiamenti climatici
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Tomás Saraceno (Argentina, 1973), A Thermodynamic Imaginary, 2020 Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin © Photography by Ela Bialkowska, OKNO Studio
sono sotto gli occhi di tutti con i loro disastrosi effetti, la stessa pandemia, paradossalmente, ci ha mostrato come l’assenza dell’uomo abbia giovato all’ambiente. Abbiamo visto la Natura riprendersi i suoi spazi, le acque dei mari tornare ad essere cristalline per la capacità di rigenerarsi quando nessuno sversa liquami e rifiuti. Con il potere visionario che hanno gli artisti, Tomàs Saraceno ci consegna visioni utopiche che possono diventare realtà. Con le sue opere, architetture geometriche capaci di fondere scienza e arte, invitando a riflettere sulla figura del ragno e della tela, riannoda il filo con il mito: la serie delle trentatré Arachnomancy Cards (Carte da Aracnomanzia) diventano metafore dei legami tra il visibile e l’invisibile, il vivente e non vivente, il macro e il microcosmo. Negli spazi di Palazzo Strozzi, simbolo dell’Umanesimo, si snoda il percorso attraverso nove sale ognuna associata ad una carta che diviene una sorta di araldo che collega tra loro i contenuti di ogni spazio, creando inaspettate connessioni tra elementi apparentemente lontani. Un ulteriore ambiente è dedicato alla serie completa delle trentatré carte. Come i ragni emettono vibrazioni attraverso la loro tela per connettersi con la realtà che li circonda, le
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Tomás Saraceno (Argentina, 1973), Connectome, 2020 Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Bue nos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin ©Photography by Ela Bialkowska, OKNO Studio
opere di Saraceno agiscono come strumenti per percepire fenomeni ultrasensoriali e suggerire futuri alternativi. Non ci si limita a guardare l’opera ma con Saraceno ci si trova letteralmente immersi. Nella prima sala, infatti, il visitatore si trova all’interno dell’installazione Connectome (Connettoma), dal nome dalla mappa delle connessioni neurali del cervello, un insieme di sculture poliedriche sospese, la cui forma richiama quelle delle bolle di sapone. Il percorso prosegue con gli ambienti dedicati a Sounding the Air (Suonando l’aria) e Webs of At‐tent(s)ion (Reti di at‐tenz(s)ione), in cui i visitatori sono chiamati a immergersi nei mondi sensoriali delle ragnatele e delle atmosfere che li caratterizzano; How to Entangle the Universe in a Spider/Web? (Come impigliare l’Universo in una ragnatela?), studio sulla relazione tra diverse dimensioni, con la ragnatela che diviene immagine dell’Universo; Passages of Time (Passaggi del tempo) e Aerographies (Aerografie), che evocano un suggestivo parallelismo tra polvere cosmica e inquinamento attraverso il movimento dell’aria nello spazio; A Thermodynamic Imaginary (Un immaginario termodinamico), coinvolgente esperienza che rievoca il Cosmo in modo immersivo; Flying Gardens (Giardini volanti), biosfere in vetro sospese contenenti delle piante che diventano provocazioni scul-
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Tomás Saraceno (Argentina, 1973), Passages of time, 2020 (dettaglio ragno vivo); sotto: Tomás Saraceno (Argentina, 1973), A Thermodynamic Imaginary, 2020 Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin © Photography by Ela Bialkowska, OKNO Studio
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Tomás Saraceno (Argentina, 1973), Flying Gardens, 2020 Piante di Tillandsia, vetro soffiatoCourtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pinksummer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin © Photography by Ela Bialkowska, OKNO Studio
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Tomás Saraceno (Argentina, 1973), Aerographies, 2020 Courtesy the artist; Andersen’s, Copenhagen; Ruth Benzacar, Buenos Aires; Tanya Bonakdar Gallery, New York/Los Angeles; Pin summer Contemporary Art, Genova; Esther Schipper, Berlin © Photography by Studio Tomás Saraceno
toree per mettere in discussione i concetti di confine e territorio. Quando a causa delle misure per contenere il contagio si sono chiusi i luoghi d’arte, sul sito di Palazzo Strozzi è stato publicato un video dell’artista relativo all’installazione Particular Matter(s) Jam Session che si basa su un fascio di luce che illumina ciò che fluttua nell'aria. La visione è illuminante ed è un invito a riflettere in modo nuovo su concetti come condivisione, consapevolezza e solidarietà. Nel videomessaggio Saraceno spiega come le particelle spostandosi emettano dei suoni che indicano così la velocità dei nostri spostamenti. Ebbene il video, se rapportato a quanto è accaduto con la diffusione del contagio da Covid-19 ne chiarisce le dinamiche e suggerisce la necessità di muoverci più lentamente. Postato il 20 marzo, quando tutto il Paese era zona rossa, lo stesso artista esprimendo solidarietà alle popolazioni italiane e nel mondo, commentava: «Il nostro movimento influenza la velocità con cui le particelle si muovono nell’aria. Riduciamo i nostri spostamenti per rallentare lo spostamento delle particelle e
aiutare tutti a stare più al sicuro. In solidarietà di Palazzo Strozzi, l’Italia e il Mondo, muoviamoci in modo diverso per un futuro migliore». Un futuro che non veda più l’uomo “egoisticamente” al centro del mondo ma parte di esso in un dialogo armonico con ogni singolo essere. La mostra visitabile fino al 1° novembre 2020 sarà occasione per avvicinarsi alla ricerca artistica di Tomás, che per dirla con le parole del direttore e curatore Arturo Galansino, «vuole essere un monito al rispetto del pianeta e della sua atmosfera, ormai criticamente compromessa, e prefigurare il passaggio ad una nuova era geologica – l’Aerocene – incentrata proprio su questo preziosissimo elemento». Da non perdere anche il ciclo di appuntamenti curato da Marco Bindi sul tema della crisi ambientale: Il clima, un difficile equilibrio da non perturbare (9 giugno); Clima e flussi migratori (23 giugno); Foreste: i polmoni da preservare e sviluppare (7 luglio) rispettivamente con Stefano Caserini, Antonello Pasini e Franco Miglietta autorevoli esperti nel campo della ricerca scientifica.
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emanuele caggiano l’armonia del bello Sara Di Caprio
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ante scrive nell' XI canto del Purgatorio: «Credette Cimabue nella pittura tener lo campo, e ora Giotto il grido, sì che la fama di colui è scura.», un monito che l’allievo tende sempre a superare il maestro e sul valore effimero della gloria. Eppure ci sono nomi che non sono destinati all’oblio e che sopravvivono nel tempo. Certo Giotto superò Cimabue, che rimutò l’arte di dipingere di greco in latino ma, se Cimabue non l’avesse preso a bottega la storia avrebbe preso altro corso. Inoltre, nei libri di storia dell’arte entrambi vengono ricordati e studiati, uno è propedeutico all’altro. Nessun uomo si forma da solo, attinge dal contesto e dai suoi maestri di vita. È il caso di Emanuele Caggiano che fu il maestro di Vincenzo Gemito, lo scultore napoletano che cattura l’animo popolare della sua gente nella seconda metà
dell’Ottocento. Lo scultore Emanuele Caggiano (Benevento 12 Giugno 1837 - Napoli 22 agosto 1905) in una sua lettera destinata alla commissione governativa che lo nominava professore titolare di scultura del Regio Istituto di Belle Arti di Napoli, non fa mistero di aver passato i suoi insegnamenti a Vincenzo Gemito, riportando in breve i suoi principi: “Le opere dei sommi Maestri vanno ammirate e studiate, ma non imitate servilmente…. I giovani devono trarre ispirazioni dal vero, ma ricordar sempre che il bello è altissima armonia […] A questi principii educai il mio allievo Vincenzo Gemito, artista onorato in tutto il mondo e che Domenico Morelli giudicò il più forte ingegno scultoreo moderno”. Da queste parole si evince quanto il modus operandi di Emanuele Caggiano abbia “ispirato” e guidato il più famoso
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Napoli, piazza dei Martiri, sulla colonna la Vittoria alata, scultura di E. Caggiano, foto Peppe Guida
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Federico II , scultura di E. Caggiano, Napoli, Palazzo Reale, foto Peppe Guida,; a lato particolare Vittoria alata, scultura di E. Caggiano, foto Peppe Guida
Vincenzo Gemito, facendogli trovare una sua via dell’arte. È questa di certo la funzione di ogni bravo insegnante sorreggere e lasciar liberi di esprimere lo stile di ciascuno, guidare ma non condizionare. Lo scultore beneventano fu allievo anche di Giovanni Duprè a Firenze e tra le sue opere più importanti bisogna citare “Pane e lavoro” conservata al museo del Sannio di Benevento. L’opera in marmo realizzata nel 1862 fu acquistata dal principe Oddone di Savoia e collocata dapprima nel Museo reale di Capodimonte, ed ebbe un gran successo di pubblico tanto da essere replicata più volte. La statua viene ricordata, con queste parole, dall’erudito Luigi Settembrini “Io l'ho riveduta, la buona fanciulla che sempre
lavora, e discinta e scalza come si leva di letto siede sopra uno scanno e non intende altro che al suo lavoro su cui tiene fissi gli occhi e il pensiero. Ella è la figliuola di Emanuele Caggiano scultore, ed è una statua, e si chiama con un bel nome: Pane e Lavoro.”. Una donna che con dignità e in maniera soave, come una Madonna d’altri tempi, con la croce sul petto, cuce il filet in tondo mentre poggiato a terra in un semplice cestino c’è il pezzo di pane che riconduce al titolo dell’opera. Una delle repliche, eseguita per G.Budillon, fu premiata al Salon di Parigi e all’Esposizione di Londra e non a caso lo stesso Settembrini proponeva per la sua bellezza di collocarne una copia in ogni scuola femminile d’Italia.
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Tra le commissioni importanti di Caggiano emerge senz’altro la statua di Federico II di Svevia, in una nicchia della facciata del Palazzo Reale di Napoli, commissionata dal re nel 1888. La statua cerca di catturare l’immagine del puer Apuliae con lo sguardo impavido e in atto di camminare in avanti con la spada in pugno. Inoltre lo scultore ha anche abbellito la colonna di epoca borbonica in Piazza dei Martiri che un tempo si chiamava Piazza della Pace, a Napoli nel quartiere di Chiaia a breve distanza dal lungomare. Sulla sommità troneggia la virtù dei martiri, sostituendo una precedente statua della Madonna della Pace. La scultura in bronzo è una Vittoria Alata con in mano una corona di alloro e le ali spiegate, morbidamente modellate dal vento, che sembra proprio stia spiccando il volo verso l’infinito. La tunica avvolge la figura in maniera sinuosa lasciando trasparire la perfetta anatomia. La statua fu eseguita in meno di un anno in cui accolse nel suo studio proprio Vittorio Gemito avviandolo all’arte. Proprio per questa scultura veniva elogiato dal suo antico maestro Duprè ricordando la Vittoria come “uno dei suo i lavori più belli.” In fondo come scriveva Edmondo de Amicis: “Pronuncia sempre con riverenza questo nome – maestro – che dopo quello di padre, è il più nobile, il più dolce nome che possa dare un uomo a un altro uomo.”
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Taviano (Lecce) , Palazzo Marchesale
il misterioso passaggio del palazzo di taviano Raffaele Polo
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Un luogo misterioso in un paese del basso Salento tra le mura dell’antico palazzo marchesale
I LUOGhI DEL MISTERO
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ra, di questo luogo non se ne sa gestito, vi sono bar, ristoranti, case. Metveramente nulla. tiamoci di fronte all'ingresso principale e spostiamo lo sguardo sulla sinistra: c'è Forse non è propriamente un 'luogo', ma un viottolo stretto che costeggia il muro una presenza inusuale che è nata da laterale della costruzione. Addentriamosola. Ma c'è, esiste, possiamo andare a ci in questo corridoio e perderemo, subivederlo in qualsiasi momento. to, la cognizione del tempo. Non c'è nulDunque, anzitutto spostiamoci a Tavia- la di particolare, se non vecchie pietre e no, proprio nel suo punto più bello, più piante rampicanti. Ecco, sono proprio interessante: il Palazzo Marchesale. questi arbusti che hanno attirato la Nella piazza davanti al ben conservato nostra attenzione: li abbiamo fotografati edificio (se vi interessa, nella sala e ci siamo chiesti come sia nato questo entrando a destra, si celebrano i matri- viluppo spontaneo e certamente non moni civili, è una splendida occasione voluto tra pietre e piante. Onestamente, per visitare, almeno superficialmente, il fa pensare questo assieme di robusti bel Palazzo. Però, bisogna informarsi rami che entra ed esce dal muro, con prima. C'è stato un lungo periodo di una inaspettata armonia. Certamente aperture e chiusure per non meglio spe- sono lì da tempo, indubbiamente. E cificati 'restauri') uno spazio arioso e ben come mai? Nascondono forse qualche
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I LUOGhI DEL MISTERO
Taviano (Lecce) , Palazzo Marchesale
avvenimento dimenticato e ammantato di leggenda? Abbiamo chiesto in giro, nessuno ci ha saputo dire nulla. Anzi, abbiamo suscitato l'incredulità di persone che non avevano mai notato lo strano groviglio. Solo un anziano barista della piazza ci ha sussurrato: “C'è, c'è qualcosa ma non si può dire, è una storia da dimenticare, me ne parlò mio nonno ma non fu molto chiaro”. “Certamente una storia d'amore” abbiamo cercato di solleticare il nostro interlocutore. Ha sorriso, ha fatto cenno col capo al Palazzo. “Il Marechese in persona pare sia stato l'artefice di tutto” “E poi?” abbiamo insistito “E poi niente, forse qualche anziano ricorda ancora qualcosa” ha concluso il barman. Tra gli anziani, sono venute fuori storie di tutti i tipi, su luoghi vicini e nel paese, che riguardavano il Mendicicomio e la Chiesa di San Martino, il Parco Ricchello e l'Accettura (a proposito, merita una visita la piccola chiesa nel centro del paese). Ma niente sulle piante serpeggianti del muro laterale del Palazzo. Solo una vecchina ci ha bisbigliato qualcosa su 'un fatto di sangue' di secoli addietro che avrebbe coinvolto neonati indesiderati e tragiche vendette... Ora, vedete, il luogo non è proprio un 'luogo': una storia, un senso ben specificato non si conosce. Ma il tempo, il mistero hanno fatto la loro parte. E, se capitate a Taviano, nella Piazza del Popolo, davanti al Palazzo Marchesale cercatelo, questo passaggio interessante e unico nel suo genere.
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Il regista Piero Cannizzaro; nel riquadro in basso il cantore Uccio Aloisi; a lato il maestro Piero Milesi in basso sul palco della Notte della taranta, 2001, Claudio "Cavallo" Giagnotti
la notte della taranta e dintorni il ritorno della pizzica a parigi Antonietta Fulvio
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On line sul sito dell’Istituto di Cultura italiano di Parigi dal 30 maggio al 20 giugno il docufilm del regista Piero Cannizzaro
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distanza di diciannove anni, “La notte dalla taranta”, il docufilm diretto dal regista romano Piero Cannizzaro, dopo divese presentazioni a Parigi, ritorna in Francia e sarà visibile online fino al 20 giugno sul sito dell’Istituto italiano di Cultura di Parigi (Link: https://vimeo.com/420307521). Un documentario che restituisce la magia dello sguardo sulla contaminazione musicale e ciò che si nascondeva dietro questa stupenda isola danzante
che era il Salento agli esordi di quella che poi sarebbe diventata una delle più grandi manifestazioni della world music che ha fatto conoscere le sonorità e i ritmi della pizzica salentina in tutto il mondo. L’edizione del festival (nato nel 1998) è quella del 2001 e che la notte del 18 agosto vide sul podio l’indimenticabile Piero Milesi (già arrangiatore di Fabrizio De Andrè) maestro concertatore del Concertone che portò sul palco i musicisti etnici, una ventina tra i fra i
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i luoghi nella rete
migliori musicisti di piz- so Convento degli Agozica-pizzica di tutto il stiniani, trentamila perSalento, e l’Orchestra sone cantavano e ballasinfonica “Tito Schipa” vano al ritmo dei tambudiretta da Carlo Palle- relli della pizzica pizzica, schi. Fu quella, l’edizio- capaci di battere all’unine dell’incontro tra tradi- sono quasi a riprodurre zione e innovazione, in il battere del cuore e una versione inedita e della terra salentina. sperimentale aperta alle Una musica senza temcontaminazioni di nuovi po perché come asserisuoni. Quella notte a va Piero Milesi la pizzica Melpignano, sul piazza- aveva radici così profonle davanti al meraviglio- de da poter convivere
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Da sinistra, Enza Pagliara , Maurizio Nocera, il regista Cannizzaro con Pino Zimba, in basso Anna Dimitri e l’immagine della capagna salentina con una tipica pagghiare
con altri stili musicali senza perdere la sua connotazione primaria. “La notte della taranta e dintorni”, grazie allo sguardo attento e sensibile del regista romano, racconta la magia della musica popolare salentina, ripercorrendo le tappe del festival nei luoghi della Grecìa salentina e attraverso le voci dei protagonisti dei gruppi e degli studiosi, tra i quali Maurizio Nocera e Daniele Durante del Canzoniere Grecanico Salentino fondato nel 1975 da Rina Durante e anche l’indimenticabile cantore Uccio Aloisi, anche se non prese parte a quell’edizione e da qui l’aggiunta della termine “dintorni”. Il film non è un asettico reportage ma il racconto delicato e profondo insieme di un festival destinato a diventare “fenomeno”. La narrazione si snoda tra fotogrammi e note che catturano e affascinano lo spettatore trasportandolo dentro l’atmosfera della festa, immergendolo nelle sonorità degli antichi canti alla stisa che narrano di vite stentate dalla fatica nei campi. Svelando il senso di appartenenza alla propria terra, tra il ricordo di sentimenti perduti e la consapevolezza di un’identità ritrovata. «Costruito come un collage musicale di vari concerti, svoltisi durante tutto il mese di agosto nell’area del Salento (Occitanica Salentina, Zoè e Omino Stanco, Ghetonia, F.lli De Santis, Cesare Dell’Anna, Uccio Aloisi, Canzoniere Grecanico Salentino). Unico non musicista presente nel documentario è il poeta Leccese Maurizio Nocera, profondo conoscitore delle tradizioni e della vita socio-culturale del Salento.» ricorda Piero Cannizzaro e aggiunge «Il documentario non vuole essere e, non poteva essere, un elenco dei gruppi musicali che operano nel Salento ma testimoniare come la musica in questo particolare angolo d’Italia possa essere presa come chiave di lettura della realtà: sfaccettata e poliedrica con una grande voglia di aperture verso l’esterno.»
Il documentario di Piero Cannizzaro è stato il primo ad essere girato sulla manifestazione "La Notte della Taranta", trasmesso da Rai Sat, Rai International e LA7, e con il tempo è diventato un film cult nell'ambito dei doc musicali. Oggetto di diverse tesi e pubblicazioni, ha partecipato a numerosi festival e manifestazioni, oltre a seguitissime proiezioni all'estero, tra cui Parigi, Londra, Malta, Cape Town, Pretoria.
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Angela Portaluri, al centro, tra Lilly Mantovani ed Eleonora Vargas a Ciampino nel 1959
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angela portaluri una bellezza del sud Raffaele Polo
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L’attrice salentina nata a Maglie conquistò Cinecittà e rappresentò l’Italia a Miss Mondo nel 1956
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egli anni Cinquanta e poi in quelli immediatamente successivi, non era facile sfondare nel cinema. Veramente, semplice non lo è stato mai: ma il modello di donna che, con grande successo, era stato proposto, acquisito e digerito dagli Italiani, era ben definito e aveva soprattutto nelle 'maggiorate', i più favorevoli sostenitori. C'era anche lo 'zoccolo duro' delle 'brave ragazze della porta accanto', naturalmente di una avvenenza semplice e schietta. E questo standard femminile influenzava la moda attraverso due canali decisamente importanti: le riviste, con i fotoromanzi a farla da padrone, e il cinema. Vi erano icone affermate e concla-
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mate, attrici che hanno fatto la storia, da Marisa Allasio ad Alessandra Panaro, senza neppure nominare Sophia Loren, Gina Lollobrigida e Silvana Pampanini. E tante, tante altre stelline che dovevano, per forza, sgomitare per un posticino al sole, in un panorama italiano in pieno boom economico che veniva gestito sull'argomento, allora più di oggi, con le sfilate per l'attribuzione del titolo di Miss. Si cominciava dalle selezioni, per raggiungere il culmine nazionale. E la kermesse era seguitissima dai fotografi (che poi inserivano le preziose immagini in bianco e nero nelle testate più diffuse: da Grand'Hotel a Gente, a Stop a Confidenze) e dai realizzatori dei
th tpw.:/ archiv
In questa pagina le immagini di alcuni articoli usciti nell’ottobre 1956 sul quotidiano La Nuova Stampa (fonte, archivio storico, La Stampa)
'cinegiornali' (La Settimana Incom, il più diffuso), inseriti all'inizio e alla fine del film, a volte visti e rivisti perché, allora, il biglietto del cinema consentiva di vedere il film per tutto il giorno.... Immaginiamo, allora, la caparbia volontà, il sacrificio e la indubbia difficoltà affrontate da Angela Portaluri, nata a Maglie nel 1937, che esordisce come attrice a soli vent'anni in film 'di cassetta' (per quei tempi) come Timbuctù e Le avventure di Robi e Buck. E, ad aprirle le porte del 'Cinema' è la sua avvenenza, premiata nel 1956 con la partecipazione a Miss Mondo; vi arriva dopo un'accesa selezione avvenuta ad Anzio, dove la sua figura di diciannovenne ricca di fascino e particolarmente fotogenica, non sfugge all'occhio esperto dei giudici ma, soprattutto, dei talent-scout delle case cinematografiche. È una risonanza importantissima, per Angela, questa sua partecipazione alla manifestazione internazionale nella quale, peraltro, il tipo 'italiano' di donna viene surclassato dalle teutoniche. Grazie a questa pubblicità, arriva non solo il
cinema, ma anche la partecipazione ai più diffusi fotoromanzi, che la casa editrice 'Lancio' pubblica su 'Sogno' e 'Kolossal'. Da lì passano tutte le attrici più quotate e anche qui Angela trova una giusta collocazione con la sua figura avvenente e il volto carico di espressività. Angela torna molto raramente nel suo Salento: ma, al suo matrimonio, è presente, in grande evidenza, Giò Stajano, allora giovinetto efebico, molto interessato al mondo dello spettacolo. Poi, per la Portaluri, alcune perle nella sua carriera che la vede interpretare una trentina di film: ne I Mostri di Dino Risi è nell'episodio con Gassman e si vede poi ne Il medico della mutua di Luigi Zampa. Ma anche la sua partecipazione a “Chi si ferma è perduto” nel 1960, “La bellezza di Ippolita” del 1962, “La ragazza con la valigia” (1961) e “Amore all'italiana” (1966) non sono da trascurarsi.Ultima apparizione, nel 1973, per il film “Amico mio, frega tu... che frego io”, uno spaghetti western di limitato successo. Torna da noi di recente, invitata da 'Teatramu', il
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Festival del Teatro Popolare Salentino che si tiene a Maglie, nel 2016, proprio 60 anni dopo la partecipazione a Miss Mondo. E non si sorprende che, a Maglie, pochissime persone si ricordino ancora di lei, che ha abbandonato la sua cittĂ natale da giovanissima, per raggiungere successo e riconoscimenti, grazie alla sua bravura e alla sua bellezza.
Ora Angela ha 84 anni, vive a Pisa e l'abbiamo rivista, proprio in questi giorni, nei suoi film, programmati in TV da varie emittenti. Bella, bellissima, avvenente, ci ha riportato nei meravigliosi anni delle dive in bianco e nero, dalla grazia e dalle forme squisitamente femminili.
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Renato Centonze, Lecce, Teatro Koreja, 2005, Archivio Renato Centonze
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dieci anni senza renato Antonietta Fulvio
Il 24 maggio 2010 ci lasciava Renato Centonze artista sensibile e militante
«24 maggio 2010/24 maggio 2020, DIECI ANNI SENZA DI TE,RENATO! Il vuoto, il vuoto assoluto… solo in parte colmato dai riflessi bagliori dei “tuoi segni”, eterni, che sempre accarezzano la mia anima facendola vagare nel tempo dei ricordi, quel tempo che ti sei portato via». È il pensiero di Floris Quarta, moglie e di Renato Centonze e responsabile dell’Archivio Renato Centonze. Dieci anni. E sembra solo ieri, il ricordo di un pomeriggio freddo di dicembre, nella sede dell’associazione Raggio Verde, in via Federico D’Aragona, mentre allestivamo la sua personale di pittura “Segno suono colore”. Un artista dello spessore di Renato Centonze che illuminava con i suoi colori lo spazio dell’associazione culturale nata con la bizzarra idea di creare un luogo di confronto tra i grandi e gli esordienti, alcuni dei quali oggi diventati grandi… Ah, l’ineluttabilità del tempo che però non offusca il valore della memoria quando si hanno gesti e parole condivise da annoverare. E la consapevolezza che durante il percorso qualche seme di buono è stato gettato. «Sempre amammo chi ci lasciò impresso un ricordo vivido d’amore. Chi fu una vera gui-
da, capace di custodire nello scrigno dei vissuti, sentimenti di empatia e di meticolose cure.» Con queste parole il poeta Marcello Buttazzo ci parla di Renato, del loro primo incontro. «Ho conosciuto Renato Centonze quando ero un ragazzino. Lui era già un artista stimato dal pubblico e dalla critica. Mio fratello maggiore Emidio lo conosceva più compiutamente. Talvolta, ci recavamo nel suo studio, situato nei pressi del Convento San Francesco dei Frati Minori di Lequile. Renato era sempre gentile e cortese nell’accoglierci. Una persona di straordinaria bellezza umana, con un eloquio accorto e contegnoso. Mi impressionava favorevolmente la sua disponibilità, la sua cultura profonda, aperta, morbida e liberale. Un uomo molto impegnato politicamente e civilmente, con un attaccamento viscerale per gli ultimi, per i diseredati, per gli esclusi, dalla società frettolosa della superficialità. Pur non avendo personalmente competenze pittoriche, restavo ammaliato dalla sua arte immaginifica, dai colori vivi come tratti lievi di pennello sulle sue tele, dal canto dei centomila violini emanato dalle sue opere. La sua tecnica era ricercata, musicale. Come una poesia lirica, produceva un incedere ritmico, un procedere intenso, una magia, un incanto. A mio fra-
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Renato Centonze, Senza Titolo, 1976, Archivio Renato Centonze
tello Emidio, Renato aveva donato, nel 1988, un piccolo lavoro dal titolo “Particolare di marea”. Un olio su tela, in cui si respira ancora oggi il riverbero del mare. Rammento che, nel 2006, avevo scritto una raccolta di versi, “Nei giardini dell’anima”. Desideravo per la mia copertina un disegno significativo
e bello. Andai a trovare Renato nel suo buon ritiro. A lui portai le bozze della mia silloge. Mi donò, in pochi giorni, un’immagine favolosa della sua opera “I concerti della notte…L’alba, 2000-2001”. Un’opera trasognata con venature blu, viola, rosse, bianche, celesti, che esprimono al meglio il pas-
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saggio interiore ed esistenziale dalla lunga e incomprensibile notte all’aurora liberatoria, che è sempre sorgiva. Nel 2007, “Nei giardini dell’anima” uscì per Manni Editori. Renato lo
incontravo per il paese. Era sempre molto fecondo e piacevole interloquire con lui, che era una persona, prima d’ogni cosa, dolce e delicata. È sempre presente nei miei giorni. Il suo buon cuore mi fa compagnia». Parole delicate, la testimonianza del poeta che delinea il ritratto di Renato uomo e artista che merita di essere ricordato e conosciuto se non altro per la carica innovativa che la sua arte ha saputo infondere nella cultura e non solo del proprio territorio che tanto ha amato. L’improvvisa emergenza sanitaria ha arrestato bruscamente la quotidianità di tutti e anche l’idea di celebrare, a dieci anni della scomparsa, la vitale forza dell’arte di Renato Centonze (1947-2010). Perché le sue opere sono il segno tangibile della sua vita e della sua presenza qui, ancora oggi, nonostante la sua assenza. E manca a tanti, molti, l’amico e l’artista Renato Centonze. «Mi manca la sua amicizia, iniziata tra i banchi dell’Istituto d’Arte “G. Pellegrino”, le nostre conversazioni sull’arte e non solo nel suo studio a Lequile, le mostre organizzate insieme a lui e non ultima la fiducia nella casa editrice, ai suoi esordi, cui affidò la costruzione del suo sito» racconta Giusy Petracca presidente de Il Raggio Verde edizioni nata dall’esperienza delle attività culturali che portarono la movida culturale nel cuore di Lecce quando non c’era altro. E le visioni dell’arte, gli
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incontri, le parole e i gesti inebriavano più di un calice di vino. «Chi ha mescolato colori, chi ne ha avvertito e colto le vibrazioni di luce in una articolata materia ritorna con il pensiero a ricordare.» A parlare è l’artista Francesco Pasca che immaginando di scrivere una lettera all’amico fraterno aggiunge: «Caro Renato non so se la tua fu narrazione, nella certezza che mi ha accompagnato e in un trascorso di visioni, sicuramente, c’è ancora il tuo sogno. Il gesto da te compiuto, in una mia incomprensione, potrà insistere e diventarlo. Il ricordo, di fatto, è tuttora in grado di essere quel tuo alternare l’onirico al reale. Così mi piace rammentarti, così puoi continuare a transitare in me caro Renato, così e in una visione strappata dal pendolo di quel tempo. Per te ci fu la voce di un artista narrante con la capacità di esaminare il colore e dominarne la materia, come l’essere tra la folta vegetazione di un sottobosco umorale e psichico. Caro Renato tu hai voluto il già racconto. Il Tempo del tuo narrare sarà ancora logica strategica di noi lettori delle tue opere. Anche oggi ne scrivo e vorrei suggerirti: Qualunque sarà il tuo cammino ricorda che ciascuno di noi, affaccendato nel colore, potrà cogliere come fu per te il pericolo o la felicità.» E per chi volesse avvicinarsi all’opera di Renato Centonze, fortemente voluto dalla moglie Floris Quarta e dedicato alla memoria del loro
Renato Centonze, Cielo Musciacle, 1984, Archivio Renato Centonze, foto Albergo
figlio Marco, prematuramente scomparso nel 2016, c’è il sito che segue l’impostazione che lo stesso Renato ci aveva suggerito intuendo nelle maglie della rete la possibilità per l’arte e per gli artisti di dialogare ininterrottamente. Oltre lo spazio fisico. Oltre l’incedere del tempo. C’è chi poi Renato Centon-
ze lo ha conosciuto da bambina come Sara Di Caprio che, ammaliata dalle sue opere, oggi di lui scrive con le parole della storica dell’arte. «C’è sempre stata una sinergia tra la musica e l’arte. Wassily Kandinsky “vedeva” letteralmente la musica e con quel “ritmo di note” in testa inventò l’astrattismo. Gli studiosi hanno identificato nel termine sinestesia la capacità di un individuo di percepire gli stimoli sensoriali come impulsi sollecitando altri sensi. Renato Centonze non solo vedeva la musica, ma trasformava le sue tele in strumenti musicali. In tutte le sue opere si possono ascoltare oltre che vedere vibrazioni sonore che accolgono il fruitore in nuove dimensioni. Lui stesso denominava la sua produzione artistica, dagli anni 1991 in poi, “pittosculture-sonore” e in questa sinergia l’artista contempla e abbraccia l’universo naturale alla ricerca di luci e suoni che devono far approdare alla dimensione dello stupore. Renato Centonze trasformava elementi inerti come corde, chiodi, campanelli, legno in flusso vitale. Riusciva a ritrasformare, disegnare e segnare usando tutti i sensi che rendono un individuo capace di intendere e di immaginare. La sua ricerca artistica dai “Cieli Musicali”, passando alla suggestione alchemicarituale del tema dei “Talismani” e del ciclo dei “Totem”, approdando ai “Concerti della notte”, che
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contengono veri e propri strumenti a percussione e a corda, fino ad arrivare alla “Valigia dei suoni” hanno l’innata capacità del Genio che riesce a regalare al fruitore nuovi punti di vista con cui esaminare e rielaborare il proprio mondo. Renato Centonze aveva la capacità di trasformare e rielaborare attraverso i colori i suoni dell’universo. Le sue ultime ricerche pittoriche, non a caso, erano approdate alle “Auto-geografie” ricalcando delle mappe in cui disperdere lo sguardo e che sembrano poi diventare delle cellule e dei segni primordiali in cui si può intravedere l’infinito. L’ artista, che oggi vogliamo ricordare, aveva intravisto nel suo flusso artistico la vita stessa e la celebrava in ogni sua forma.» Ed è questa sua sensibilità, la possibilità di regalarci nuovi sguardi oggi a mancarci, se possibile, ancora di più. Avevamo immaginato di ricordarti con un’antologica dei tuoi lavori perché al di là dei fiumi di parole che si possano scrivere su un artista, a parlare ancora per lui, lenendo in qualche modo il dolore per la sua assenza sono e restano le sue opere. La tua Arte sublime continua a dialogare con tutti noi. Ci piace immaginarti lassù tra cieli musicali che continui a dipingere e a creare capolavori come quelli che ci hai lasciato. Grazie per aver condiviso con noi parte del tuo cammino.
squizo, viaggio nella mente di un genio invisibile La storia di Louis Wolfson, opera prima del regista Duccio Fabbri, in anteprima mondiale al Biografilm Festival
La storia di Louis Wolfson, scrittore del Bronx che ha lottato per tutta la vita contro le definizioni correnti di malattia mentale, fortuna e linguaggio diventa un docufilm “Sqizo” e sarà presentato in prima mondiale alla sedicesima edizione del Biografilm Festival (5-15 giugno 2020) in Concorso nella sezione “Biografilm Italia”, Sqizo, l’opera prima di Duccio Fabbri, attivo da molti anni come regista e aiuto regista tra l’Italia e gli Stati Uniti. Il film sarà trasmesso attraverso la piattaforma www.mymovies.it sabato 6 giugno dalle 21 (disponibile per un numero limitato di spettatori, con prenotazione già dal primo giugno). Diagnosticato schizofrenico in adolescenza, Louis Wolfson ha ripudiato la lingua madre in favore di un idioma del tutto personale. Autore cult dell’editore Gallimard nella Parigi degli anni Settanta, nonostante la notorietà è rimasto un perfetto sconosciuto negli Stati Uniti, continuando a vivere come homeless. Giocatore d’azzardo incallito e outsider assoluto, in età matura si è trasferito a Porto Rico, dove la sua fortuna è cambiata di colpo e dove l’autore Duccio Fabbri lo ha rintracciato: a 89 anni vive ancora solo e sospeso tra due mondi, quello del silenzio e quello della parola. «Quando ho saputo che era ancora
vivo, ho sentito il dovere di raccogliere la sua testimonianza - ha raccontato lo stesso regista. - Un rapporto nato sotto il segno della diffidenza – mi credeva un possibile agente segreto italiano! - e culminato, anni dopo, in amicizia. Penso che la vita e le azioni di Wolfson siano estreme ed esemplari. I suoi atti (come il rifiuto della lingua madre, il disprezzo per la psichiatria, il rifiuto delle più elementari istituzioni sociali) possono essere interpretati come gesti politici: forme di resistenza e sopravvivenza che ci mettono di fronte ad un nuovo punto di vista sul mondo». Con l’anteprima mondiale del film si conclude un lavoro durato dieci anni, costruito attraverso una lunga e complessa relazione capace di rendere finalmente visibile la vita avvolta nella leggenda di uno scrittore unico nel suo genere, che ha affascinato intellettuali come Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, Gilles Deleuze, Jacques Lacan, Raymond Queneau e ispirato scrittori come Jean-Marie Gustave Le Clézio e Paul Auster (del quale il film raccoglie la testimonianza).
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Foto di TheAndrasBarta da Pixabay
se non ora, quando? Stefano Quarta
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Dal Lockdown al Recovery Fund. L’analisi dell’economista
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i Luoghi della parola
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l momento che stiamo vivendo sarà ricordato per molti aspetti. Certamente ricorderemo l’iniziale paura data dalle immagini di quei camion dell’esercito pieni di bare. Certamente ricorderemo la noia di quei giorni tutti più o meno uguali e la crescente mancanza dei famosi congiunti. Ma questa storia probabilmente finirà anche su altri libri, quelli di economia. Perché, a livello economico, il lockdown è stato una bomba veloce e potente che ha distrutto l’economia di 2 mesi. Ognuno di noi ha potuto notare che se dobbiamo restare in casa, alla fine, la spesa si riduce all’osso. Ma dietro la spesa del consumatore, c’è l’incasso del commerciante, lo stipendio del dipendente e il pagamento dei fornitori che, reiterando il ragionamento, porta alla famosa “economia che gira”. In questi mesi si stima che l’economia abbia avuto un rallentamento del 10-15%, che su base annua vuol dire che il PIL potrebbe essere fino al 10% più basso rispetto all’anno scorso. Il PIL
è la somma dei redditi di ogni cittadino quindi, quest’anno saremo mediamente più poveri. Ma insieme ai cittadini, sarà più povero anche il bilancio statale, perché le tasse si pagano sul reddito e quindi quest’anno anche lo Stato incasserà meno. Tuttavia, le misure già introdotte dal Governo, prevedono spese che a fine anno si tradurranno in un disavanzo, circa 20 miliardi ad opera del decreto-CuraItalia e 55 miliardi dal decreto-Rilancio. Inoltre altre spese verranno programmate, portando ad un rapporto deficit-PIL che quest’anno dovrebbe superare il 10%. Si tratta di una previsione di spesa che ci riporta indietro di 30 anni a quegli anni 80, famosi per una spesa pubblica incontrollata, un’inflazione a due cifre (abbondanti) e un debito pubblico che raggiunse livelli di guardia. Furono gli anni in cui si continuava a spendere come se il boom economico non fosse finito da tempo. Erano gli anni in cui l’illusione di un’Italia invincibile ci portò ad esasperare i nostri pro-
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blemi. L’economia ha le sue regole e i debiti vanno pagati, in un modo o nell’altro. Si possono onorare i propri debiti ad ogni scadenza, con manovre lacrime e sangue se necessario; oppure si può dichiarare default, ma in questo caso il prezzo da pagare è anche più alto, perché prospettico. In futuro, infatti, chi mai vorrà prestare soldi a chi già in passato non ha onorato i propri debiti? Qualcuno lo farà, ma chiederà interessi alti o garanzie forti. Perciò, è sempre conveniente “comportarsi bene” e pagare, proprio come fa ognuno di noi con il mutuo contratto per acquistare la
propria casa o il prestito per l’auto nuova. Consci delle nostre responsabilità, ripaghiamo i nostri debiti. Per gli Stati non è diverso, se non fosse per un particolare, la durata del prestito. Al di là della scadenza del singolo BTP, il debito viene costantemente rifinanziato, rendendolo di fatto a scadenza indeterminata. Si stipula, pertanto, il cosiddetto patto intergenerazionale, in cui i figli si impegnano a ripagare i debiti dei padri, avendone in cambio la possibilità che i propri debiti siano a loro volta pagati dalle future generazioni. È chiaramente un sistema fragile e perverso, in
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i Luoghi della parola
Foto di Nattanan Kanchanaprat da Pixabay ; Foto di Gerd Altmann da Pixabay
cui è facile dimenticare le promesse fatte, non fosse che per il piccolo dettaglio che questo accordo è tacito ed implicito e che quasi nessuno ne sia veramente conscio. È per questo che negli ultimi anni ci lamentiamo delle misure di austerità, perché non teniamo conto di dover ripagare i debiti fatti fino ai primi anni 90. Qualcuno non era neanche nato in quegli anni, eppure oggi si trova a doverne pagare le conseguenze. Tutto sbagliato, tutto da rifare? No, sono semplicemente le regole del gioco, un gioco in cui altri sono evidentemente più bravi. Ma non tutto è perduto, perché oggi si gioca una mano importante. Oggi, dopo anni di austerity, ci viene concessa la possibilità di spendere (più o meno) liberamente, d’altronde, se non ora quando? Già, perché neanche l’ultima crisi (la peggiore da quella del ’29) ha avuto un impatto così devastante. Dal 1992 ad oggi, considerando la spesa al netto degli interessi, l’Italia ha sempre speso meno di quanto ha incassato. Si chiama avanzo (o disavanzo) primario ed indica, appunto, la differenza tra entrate e uscite, senza considerare gli inte-
ressi pagati sul debito. Dal 1992 in Italia, al di là dei vari governi, c’è sempre stato un avanzo primario, tranne nel 2009, anno in cui si ebbe un disavanzo primario dello 0,9%. Era l’anno clou della crisi, probabilmente era inevitabile. L’anno dopo ci fu un saldo nullo e dal 2011 ritornammo ad avere un saldo primario in avanzo. Tutti questi anni di contrazione della spesa pubblica sono stati la medicina che abbiamo dovuto mandar giù per curare la malattia dell’alto debito pubblico. Quest’anno, probabilmente, andremo ben oltre quello 0,9% di disavanzo del 2009. Ma questo vuol dire dare il via ad un nuovo periodo di super deficit, col debito pubblico che già quest’anno supererà il 150% e che chissà dove arriverà? È presto per dirlo, perché tutto dipende da come verranno impiegati questi soldi. Certamente l’Europa si sta dimostrando molto generosa perché, al di là delle discussioni preliminari e dei vari schieramenti, alla fine contano i fatti. Ed i fatti sono che, durante la crisi dei debiti sovrani, c’è stato il Quantitative Easing, ora ci sarà il Recovery Fund, oltre al MES che ha già salvato
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qualche altro Stato europeo. Il che non è male considerando che l’unione monetaria esiste da soli 18 anni (un nulla per la storia di uno Stato). Si parla di 172,7 miliardi (di cui 82 a fondo perduto) destinati all’Italia, davvero tanti. È un’occasione rara, ma va sfruttata al meglio, cioè occorre che questi soldi siano ben spesi. Il problema è che questa frase la si sente da sempre. Tutti i governi sostengono di spendere nel migliore dei modi, al contrario dei governi precedenti. La verità è che non esiste un unico modo giusto per spendere le risorse. Esistono politiche economiche di destra e politiche economiche di sinistra. Vi sono aspetti redistributivi e aspetti legati agli investimenti. Vi sono le infrastrutture, le politiche per attrarre investimenti esteri, le politiche commerciali e le politiche industriali. Vi sono mille modi giusti per spendere bene le risorse. Quello che serve, però, è coerenza nelle misure adottate. Il susseguirsi di opposti governi non può tradursi in misure isolate, sempre prive di una visione unitaria. Emblematico fu il governo giallo-verde, in
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cui si palesò l’ipotesi di una contestuale approvazione del Reddito di Cittadinanza e della Flat Tax. La prima redistributiva in favore dei poveri, la seconda redistributiva in favore dei ricchi. E chi paga? Paghiamo sempre noi con emissione di nuovo debito (come dire firmando cambiali). Alla fine rimase solo una delle due alternative ma, al di là delle opinioni di ciascuno, fu una scelta saggia puntare su una sola delle due misure. Per concludere, stiamo vivendo un momento importante per il Paese, sotto tutti i punti di vista. Ci apprestiamo ad investire un’ingente quantità di risorse che ci vincolerà ancor di più sulle scelte future. Perciò è fondamentale muoverci bene. Finora i due decreti hanno giustamente cercato di arginare le difficoltà delle varie parti sociali, anche se qualcuno ne rimarrà inevitabilmente escluso (è molto difficile pensare davvero a tutti). D’ora in poi, si dovranno spendere i fondi europei sulla base di un progetto, ed infatti, l’UE vincola l’utilizzo di questi fondi all’attuazione di specifici progetti. Staremo a vedere.
dalla pandemia un cambiamento epocale. il contagio della cultura di Giusy Gatti Perlangeli
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i Luoghi della parola
Considerazioni sulla didattica ai tempi del Coronavirus
Le scuole non riapriranno prima di settembre. Probabilmente gli Esami di Maturità rappresenteranno un’eccezione: si faranno “in presenza”. Sì, in presenza di mascherine, guanti e odore di igienizzante, al di là dei quali lanceremo un sorriso con lo sguardo, espressione di quell’umanità che caratterizza chi fa questo mestiere. Dalla pandemia potrà nascere una scuola nuova che distillerà il meglio da questo lungo periodo in cui siamo stati costretti all’isolamento: ci voglio credere.
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tempo e di energie enormemente più cospicua rispetto al solito. In 40’/45’ al massimo, una questione, un argomento, un problema va proposto a gruppi eterogenei (con difficoltà e caratteristiche di varia natura): classi che non sono più classi, perché si trovano fuori da quelle mura che contribuiscono a fornir loro un’identità (la 3^B, la 1^H), né l’ambiente di apprendimento è il medesimo. Si tratta di 25, 30 studenti che nello stesso momento (reti permettendo) si connettono per fare in sincrono la stessa attività, ma ciascuno con un’individualità marcata. Il setting è un altro: la stanzetta, la cucina, la libreria che fa loro da sfondo…la mamma che passa alle loro spalle e il gatto che decide di posizionarsi vicino allo schermo. La sensazione è di invadere uno spazio che non ci compete, condividendo il nostro privato.
A marzo noi insegnanti ci siamo trovati di fronte a un’ALTRA scuola. Sia pur a velocità diverse, ci siamo chiesti COME pianificare giornate scolastiche online nemmeno lontanamente paragonabili a quelle in presenza. Quanto ci manca la distanza! Quella Preparare materiali e adattare le metodolo- vera…quella fisica, in cui ci si lascia una porgie ci ha portati a investire una quantità di ta chiusa alle spalle (con dentro mille, dieci o
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zero problemi) e si entra nell’atrio di un istituto in cui siamo sicuri che vivremo un’avventura. La campanella, il sospiro di sollievo nel sentirla suonare in un momento critico…un collaboratore che entra a portare una colazione dimenticata o ad annunciare: “Domani uscirete un’ora prima: la prof.XXX è assente!” con l’immancabile òla d’ordinanza. Ci manca quell’estemporaneo: “Posso andare in bagno?”, “Ho dimenticato il compito sulla scrivania professorè…L’ho fatto, giuro! Me lo faccio portare dalla mamma?” Ma no! Lascia in pace la mamma! Tutto questo attraverso uno schermo non passa, perché siamo a casa, che però è la scuola… come una matrioska. Ci siamo messi in discussione e rivoluzionato il nostro modo di essere docenti e studenti. E questo è un bene. Il Covid19 ha dato una scrollata alla scuola. E tutto è cambiato, pur essendo rimasta un punto di riferimento imprescindibile nella vita di ogni studente, di ogni docente, di ogni famiglia. Abbiamo creato un nuovo scenario metodologico e organizzativo, trasformato i contenuti, imparato a gestire le interazioni, stabilito relazioni inedite anche con le famiglie. I geni-
tori ogni tanto ascoltano alcune lezioni, vedono come lavoriamo. Ci hanno scritto messaggi, si sono complimentati: hanno dato via a sinergie, aiutandoci a costruire una comunità educante, nella quale siamo tutti attori, ciascuno col proprio determinante ruolo, ma con quel fine comune che sta alla base del patto scuola-famiglia. Non c’è una porta dell’aula da accostare, né una cattedra né un banco: tutto è aperto e chiuso nello stesso momento. Penso alle maestre. A loro va la mia ammirazione. Hanno fatto cose straordinarie! Dopo i primi giorni di panico, non si sono limitate a mandare schede su schede via mail, ma hanno registrato fiabe e filastrocche, creato video, cartoni animati. Hanno acceso quella fantasia che le rende uniche tra gli insegnanti. Sono un’entusiasta di natura. Nel mio DNA c’è la passione per questo mestiere artigianale che sta facendo il salto nella tecnologia. Ma anch’io vedo i rischi del dilatare nel tempo questa situazione, legati più che altro all’eccessiva ansia di controllo che attanaglia alcuni di noi: il rischio derivante dal privilegiare la performance, la “prova” orale o scritta,
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rispetto alla relazione, la burocratizzazione del processo piuttosto che il processo stesso, che, alla fine, è l’unica cosa che conta. La preoccupazione della misurazione anziché della valutazione è deleteria: quante verifiche, quanti voti, quanti argomenti sul registro, quanto programma? Quanto stress! La didattica è finalizzata ad aiutare, coadiuvare, tirare fuori le potenzialità: non deve mai trasformarsi in un processo persecutorio. Non fa bene ai ragazzi (che potrebbero un giorno decidere che NON connettersi con noi sia meglio che farlo), non fa bene a noi insegnanti che, al contrario dobbiamo credere nelle discipline che rappresentiamo, consapevoli che sono “chiavi” per comprendere la situazione in cui noi e gli studenti ci troviamo. Dobbiamo essere per primi convinti che le lingue, l’arte, le scienze, la letteratura, la matematica, la logica e la filosofia aprono una prospettiva sulla realtà, consentendoci di comprenderla appieno, immaginare scenari e soluzioni. È la relazione che aiuta. Al contrario il controllo danneggia.
Ridurre il disagio è un dovere morale, deontologico. “Come state, ragazzi?” Non conta la quantità, tantomeno il voto: dobbiamo valutare la loro capacità di creare connessioni e collegamenti tra le discipline, ma sempre nell’ottica dell’unità del sapere; la riflessione e il pensiero critico più dell’apprendimento mnemonico; la creatività e l’intelligenza emotiva più del rispetto passivo delle consegne. La pandemia si ridurrà sempre più. Se alla fine questa esperienza resterà racchiusa nella parentesi dell’emergenza, avremo perso tutti. Un’occasione per un cambiamento epocale può nascere da un contagio e la scuola sarà in presenza e a distanza: è inevitabile. Se ci crederemo, saprà farsi promotrice di un altro tipo di contagio, quello di una cultura generatrice di uno scenario innovativo in cui, al centro, c’è sempre e comunque l’umanità. E lì farà la differenza. *Giusy Gatti Perlangeli è docente del Liceo Quadriennale “E.Majorana” di Brindisi
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1.I partecipanti dovranno inviare una prova di narrativa, racconto o novella, con il mare protagonista “in una stanza”. Il limite massimo di scrittura è di quattro cartelle, spazio due (2), con rigo di cinquanta battute, tipo di carattere Times New Roman, dimensione 12, entro e non oltre la data del 31 gennaio 2021. Non è consentito l’invio del cartaceo, con qualsiasi mezzo. 2.Alla domanda di partecipazione, ogni concorrente allegherà una scheda, max 10 righe, con le note biografiche. 3.Il lavoro deve risultare inedito e mai premiato (e tale deve restare fino alla prima presentazione pubblica). 4.Possono partecipare al Concorso Nazionale di narrativa “Il mare in una stanza” i cittadini italiani, civili e militari, che abbiano compiuto la maggiore età alla data della pubblicazione del presente bando. 5.Tutti i racconti in concorso dovranno pervenire entro la data stabilita tramite una mail che sarà di seguito indicata. 6.I racconti selezionati saranno pubblicati su apposita pubblicazione. 7.La partecipazione al Concorso non prevede quota di iscrizione. Sarà cura di ogni concorrente, provvedere all’acquisto di un minimo di 3 (tre) copie, senza obbligo di collaborazione futura.
8.I premi consistono in: coppe, targhe e pergamene, oltre alla pubblicazione come già indicato. Sono previsti premi speciali e segnalazioni. 9.Il giorno e il luogo della presentazione ufficiale dei vincitori sarà tempestivamente comunicato tramite mail a ciascun concorrente. 10. La giuria sarà formata da appartenenti al mondo della cultura, del giornalismo, dell’ANMI, della Lega Navale, della Scuola Navale Militare "F. Morosini” e dell’Associazione Nazionale Scuola Navale Militare “F. Morosini”. I loro nomi saranno resi pubblici durante la cerimonia di premiazione. Il giudizio della giuria è insindacabile. 11. La partecipazione al concorso comporta la piena accettazione del presente Regolamento; l’inosservanza di una qualsiasi norma qui espressamente indicata, comporta l’esclusione dalla graduatoria. La premiazione si terrà nel mese di giugno 2021 in una location istituzionale di prestigio che verrà comunicata in occasione della conferenza di presentazione della manifestazione. Info e contatti: Segreteria organizzativa Associazione culturale ICARUS e-mail ilmareinunastanza@ilraggioverdesrl.it
mobile. +39.3495791200
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I LUOGhI NELLA RETE | IL CONCORSO
Causa Covid, il ConCorso si terrà nel 2021. Prorogati i temini di sCadenza al
I LUOGhI DELLA PAROLA
ai supereroi mascherati della maturità 2020 Ai “miei” Maturandi Voglio dirvi Grazie Grazie per esserci stati sempre, ogni giorno, puntuali e sorridenti Grazie per aver risposto “Bene!” ogni volta che vi ho chiesto: “Come state ragazzi?” Grazie per non aver mollato, per non esservi sottratti mai, per essere stati pazienti Grazie per aver preteso che la vostra formazione venisse curata come sempre Per non aver tagliato i fili e aver permesso che il processo di apprendimento continuasse a distanza come in presenza Grazie per aver rispettato le regole del distanziamento “civile” Per non essere stati capricciosi, né avventati Per aver compreso che il bene comune viene prima dell’ego Grazie per aver dato tanto in questi mesi e tantissimo in questi giorni: il nostro lavoro ha senso perché ci siete voi! Grazie per aver praticato la sublime “arte della rinuncia”, voi che avete il diritto di pretendere tutto senza chiedere La rinuncia a festeggiare i 100 giorni agli Esami dopo aver affittato la casa al mare A partire per il viaggio d’istruzione a Budapest pagato coi vostri risparmi e su cui fantasticavate da mesi Ai diciottesimi, vostri e dei compagni A partire per fare i test universitari
Alla notte prima degli esami Alla foto-ricordo di classe Ai riti di passaggio All’esame canonico con le sue incognite e le sue certezze Ai banchi lungo i corridoi Ai bisbigli durante la seconda prova Agli abbracci, ai baci, ai salti di gioia con gli amici Alle pacche sulle spalle, alla vicinanza che vi rende più forti e più sicuri La rinuncia alla cena di fine anno con i professori in cui i ragazzi arrivano con la camicia stirata e le ragazze elegantissime e con i tacchi, ma con la faccia pulita di sempre (e noi pensiamo a come sia passato in fretta il tempo da quando, piccoli e spauriti, avete risposto all’appello del primo giorno di qualche anno fa!) Alle parodie dei proff Alla lettera d’addio e di ringraziamento letta in piedi con la nostalgia che già si fa lacrima Al Diploma Day nel giardino della scuola con i genitori emozionati La rinuncia al viaggio dopo l’esame tutti insieme nell’isola greca col sole negli occhi… Avete rinunciato a tanto, stoicamente, senza fare le vittime, pronti a riprendervi quel futuro che oggi sembra così incerto. Tuttavia spero di avervi in parte ricompensati lasciandovi qualcosa in cambio: il mio impegno, la mia dedizione, la passione con la quale mi auguro di avervi contagiato almeno un po’.
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Ho cercato di trasmettere cos’è la letteratura per me…un viaggio umanissimo che ha una sola meta: l’infinito! Questo viaggio l’abbiamo fatto insieme, accanto a voi e mai davanti, dalla stessa parte. E in quel mare infinito abbiamo fatto naufragio con Leopardi. Siamo andati oltre la Siepe, là dove la Nebbia scompare Abbiamo oscillato tra Spleen e Ideàl, Ci siamo creduti teneri e fragili come Fanciullini e invece ci siamo ritrovati Superuomini Abbiamo preso la rincorsa per uno slancio Futuristico e nel “Muto Orto Solingo” abbiamo sentito il profumo dei fiori vermigli del Melograno Insieme ci siamo rinfrescati in una Pineta scrosciante di Pioggia Abbiamo capito che non c’è Piacere senza Affanno. Abbiamo dormito con Andrea Sperelli e Urlato con Munch. Abbiamo sofferto nelle trincee del Carso con Ungaretti soldato Siamo andati in Guerra con Piero E abbiamo Sceso Milioni di Scale dandoci il braccio Abbiamo scalato Muri con Montale
e i “Cocci Aguzzi di Bottiglia” non ci hanno fermato. Abbiamo provato a smettere di Fumare con Zeno consapevoli che la prossima Sigaretta non sarà l’Ultima Abbiamo tolto e rimesso Maschere tante di quelle volte da non sapere più se siamo Uno, Centomila o Nessuno anche se, per ora, una mascherina siamo costretti a indossarla per proteggere noi stessi e gli altri. Nonostante le rinunce siamo qui, più ricchi e capaci di cantare ancora! Ora che siete alle soglie di questa anomala prova finale, Supereroi Mascherati della Maturità 2020, spero che questo cammino nel Liceo Vi sia sembrato comunque troppo breve Che qualche verso vi sia rimasto nel Cuore come un tatuaggio di cui non pentirvi mai Non pensate che sia una “maturità spezzata”: la vita ve la restituirà intera. E godetevi anche questo momento, fatelo pienamente…lo ricorderete con un sorriso. Vivetela perché “Questa notte è ancora vostra!” La Prof. Giusy Gatti Liceo Scientifico Quadriennale “E.Majorana”
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I LUOGhI DELLA PAROLA
tecnica e virus ai tempi del coronavirus Giovanni Bruno
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L’importanza delle parole Le riflessioni dello psicologo psicoterapeuta
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orrei introdurre preliminarmente ricorrere alla tèchne, al dominio tecnico una distinzione, forse molto impor- sulla natura, egli è obbligato ad adattare il tante ,tra i due termini argomento di mondo a se stesso. Ma l’uomo attraverso questo articolo: tecnica e tecnologia. La la tecnica ha così nelle sue mani una prima è proprio quel complesso di norme potenza infinita, smisurata e proprio in che regolano un esercizio questa potenza infinita si annida la possipratico o intellettuale, la seconda rappre- bilità della dismisura, di sconfinare, cioè senta l’utilizzo, l’uso di quelle norme fina- andare oltre i propri confini, oltre i propri lizzate a inventare cose utili che possano limiti. Dunque già i Greci, che hanno scritsoddisfare bisogni o risolvere problemi. to l’alfabeto della nostra cultura, nel IV L’uomo fin dalle origini si è dovuto con- secolo a.C. si sono posto l’enorme problefrontare con un ambiente, con la natura, ma della tecnica e quindi delle tecnologie con un creato spesso ostile difficilmente che noi tutti usiamo. addomesticabile. E proprio per dominare Ne discende dunque un grande interrogala potenza infinita di una natura indifferen- tivo: la tecnica è il nostro strumento o siate e matrigna ha dovuto far ricorso alla mo piuttosto diventati strumento di quello tecnica e di conseguenza alle varie tecno- che noi stessi abbiamo inventato? Questo logie. Possiamo dunque dire che l’uomo è il tema con il quale il genere umano si per esistere, per stare al mondo deve confronta e del quale continuerà a dibatteessere tecnico, perché ne va della sua re nei prossimi anni. stessa sopravvivenza, del suo arco vitale. Intanto però la Natura si è ripreso il primaLa questione della Tecnica è la questione to. Nel modo tragico che conosciamo del pensiero occidentale, già tutto il mon- oggi. Questi giorni così calamitosi sono do antico si è interrogato su questo tema, intrisi di sofferenza, dove il virus ( peste ) Sofocle per esempio nell’Antigone riflette sta esercitando tutto il suo potere che è come l’uomo per stare al mondo deve fatto di presenza e al tempo stesso di
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assenza. Con una potenza di suggestione impressionante in quanto noi gente comune non lo conosciamo, ma non lo conoscono gli scienziati, i virologi, i ricercatori che non riescono a decodificarlo e a capirne le varie sindromi che determina. Il virus è ubiquitario, non ha un suo locus, non lo vediamo ma sappiamo che c’è e tutto questo ci fa vivere nella paura, in una sospensione tragica e minacciosa . La comunità scientifica proprio non conoscendo il virus va avanti per ipotesi. Una delle più accreditate è quella secondo la quale il virus sarebbe stato trasmesso dall’animale all’uomo. Un libro di David Quammen, Spillover, edito da Adelphi, tratteggia questo passaggio. Così Quammen : «Spillover è il termine che indica quel momento in cui il virus passa dal suo ospite non umano (un animale forse un pipistrello) al primo ospite umano. Questo è lo spillover. Il primo ospite umano è il paziente zero». Tutto ciò accade in quanto noi esseri umani interferiamo, colonizziamo diversi ecosistemi alterando profondamente ogni equilibrio naturale e scatenando nuovi virus, parassiti obbligati, prima sconosciuti all’uomo che adesso devono trovare nuove cellule da infettare, nuovi ospiti da aggredire. A questo punto del ragionamento torniamo agli antichi Greci e al sentimento della giusta misura che connotava la loro cultura. Lo sconfinamento, l’andare oltre il limite che
pure la tecnica ci permette di fare forse è pericoloso e comunque deleterio e costoso. Dalla pandemia dobbiamo imparare che le nostre modalità di stare al mondo possono avere delle conseguenze molto negative e in questo senso il genere umano si rende responsabile dei disastri che determina. E tuttavia la tecnologia che sempre viene in soccorso dell’uomo nel caso del virus sembra perdente o sconfitta. Stiamo imparando che la Natura è più forte della tecnica, la tecnica si sta rivelando più elementare e rozza. Il vaccino o la cura definitiva tardano ad arrivare, anzi di più le soluzioni parziali sembrano rafforzare il problema. Stiamo forse imparando a considerare la variabile “Tempo”. Serve tempo per guarire dalla malattia, tempo agli scienziati per studiare e ricercare, tempo al Sistema sanitario nazionale ad organizzarsi, tempo per progettare un futuro prossimo. Tutto questo è difficile da accettare, per noi che viviamo nel mito della velocizzazione, del click della tastiera, virtuale che ci fornisce subito la risposta il risultato. E tuttavia adattiamoci ad accettare con consapevolezza il tempo di un viaggio che non abbiamo scelto di fare ma che deve condurci a una meta di salvezza e di rinascita. È il caso di concludere con una verso di Albert Camus : «… nel bel mezzo dell’inverno ho infine imparato che vi è in me un’invincibile estate».
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I LUOGhI DELLA PAROLA
effusività proattiva ovvero il calore dei corpi Giovanni Bruno
Il luogo dello Psicologo Psicoterapeuta
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Cosa ricorderemo di questo lungo periodo di pandemia?
L
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’effusività termica è una espressione tecnica della termodinamica e segnala la conduttività termica di un materiale , il suo calore specifico. Non è la prima volta che la Psicologia, intesa come studio dei processi emotivi, sociali e comportamentali prende in prestito dalla Fisica e dalle Scienze ingegneristiche termini e concetti che dall’ambito strettamente tecnico vengono estesi e sviluppati nella sfera della soggettività e delle relazioni interpersonali. Era accaduto con il termine “ resilienza” e adesso, al tempo della Grande Paura che stiamo vivendo, ci serviamo della voce effusività per indicare un grande senso di trasporto emotivo e affettivo verso altri soggetti che sentiamo vicini, una condotta largamente empatica nei confronti di persone con le quali abbiamo instaurato una relazione significativa. In questo periodo di distanziamento sociale viene meno proprio l’effusività, il trasporto emotivo che connotavano le nostre relazio-
ni. E non pensiamo solo all’abbraccio , al gesto che esprime affetto e amore ma ci riferiamo a quella vicinanza fisica che è fatta di calore emotivo, di “aura” positiva che promana da ognuno di noi e che fa parte integrante del dialogo tra umani. Già, il dialogo, questo compagno inestinguibile dell’uomo , e infatti dialogare significa essere in rapporto con se stessi e con gli altri. L’essere umano è un dialogo per definizione, è col dialogo che ci si situa nel mondo dando ad esso significati e interpretazioni. Manca dunque nella vita pericolante di questi mesi effusività, dialogo in grado di sollecitare emozioni, calda dimostrazione di affetto. Elementi che formano un tutto organico allo scambio e a una comunicazione interpersonale significativa. È col dialogo ravvicinato che riusciamo a cogliere l’essenza di noi e degli altri, essenza che è qualcosa di più della relazione pura e semplice. In questo periodo di emergenza sanitaria
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tutto deve essere filtrato da una mascherina, da un guanto di lattice, da un distacco che è distanziamento sociale ma potrebbe diventare blocco interiore, senso di separata sospensione o flemmatico congelamento. Oggi c’è dunque il rischio del virus e tutti dobbiamo praticare una sorveglianza attiva nei confronti del contagio, ma al tempo stesso dovremmo riconoscere quei segnali che ci potrebbero portare a sfuggire le relazioni con gli altri esseri umani che, in modo paritario, hanno bisogno di noi e noi di loro. Parlando dunque col filtro che ci viene consigliato affidiamoci al “non verbale” per esprimere vicinanza, affetto e intesa, per-
ché la diade, la pluralità vanno sempre salvaguardate. È la relazione infatti che ci orienta, che diventa decisiva e che rappresenta il motore della vita. Se penalizziamo tutto questo saremo stretti, costretti e ristretti come sta facendo il virus con noi e allora ci resterà solo una superficie levigata che dà immagini per riflessione, altrimenti detto specchio. Adottiamo dunque una effusività proattiva, anticipatoria, un atteggiamento mentale e comportamentale che ci liberi dal gelo della distanza emotiva e ci conduca alla nostra specificità umana.
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Il Castello di Santa Severa, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
il castello di santa severa l’antico porto etrusco di pirgy Sara Foti Sciavaliere
Storie l’uomo e il territorio
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Costruito sui luoghi dell’antica Pyrgi il suggestivo maniero domina la costa tirrenica a nord di Roma
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l castello di Santa Severa è uno dei luoghi più suggestivi del territorio laziale, situato lungo la costa tirrenica a nord di Roma. Il castello sorge sul sito di Pyrgi, la città portuale etrusca collegata all’antica Caere (ossia l’odierna Cerveteri), fondata tra la fine del VII e gli inizi del VI sec. a.C. Il borgo di
Santa Severa, delimitato da una cerchia di mura turrite, è costruito sui luoghi dell’antica Pyrgi il cui scalo portuale era noto in tutto il Mediterraneo, celebre per il suo santuario, assai frequentato in antichità e famoso per le eccezionali lamine auree. Chi ha scelto questo sito anche nelle epoche successive ha
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Il Castello di Santa Severa, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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goduto di un ambiente generoso, un approdo naturale, protetto da venti e dal mare, accompagnato dalla presenza di una fonte di acqua dolce proprio alle spalle del santuario etrusco. Il complesso, a pianta rettangolare con torri angolari, era circondato da un fossato e collegato da un ponte di legno all’imponente fortificazione cilindrica, il “Maschio”, anticamente chiamato la “Torre del Castello”, che fu fatta costruire a metà del IX secolo da papa Leone IV e che, a seguito di ulteriori rifacimenti, è giunta a noi nella sua ultima ristrutturazione del Cinque-Seicento. Appartenuto nel corso dei secoli, dal 1482 al 1980, a diverse famiglie dell’aristocrazia romana, il Castello è stato un possedimento dell’ordine del Santo Spirito. Tra il XVI e il XVII secolo è stato luogo di sosta e di soggiorno di molti papi. Dal 2014 la Regione Lazio il Castello baciato dal mare ha iniziato una nuova storia. Arrivati dalla Via Aurelia, prendendo una strada che punta al mare, si profila la cinta muraria di epoca medievale ed è sotto la cosiddetta Torretta della Porta che si apre il grande portale seicentesco che introduce nel Cortile della Guardia del borgo, dove sono disposte in ordine sparso alcune costruzione semplici, dagli intonaci sbiaditi e talvolta scrostati che lasciano a vista la pietra grezza e i laterizi delle scale. Da quest’ingresso, a destra, si accede al Cortile delle Barrozze, dove entrando nel piazzale si incontra un breve tratto di basolato romano ricostruito durante i restauri moderni; sul lato sinistro si colloca la Manica Corta, una serie di piccole abitazioni costruite probabilmente verso la fine del XVIII secolo, invece procedendo verso il lato opposto troviamo la Manica Lunga che ebbe la funzione di granaio del borgo. Al centro del cortile sono state montate sopra una fontana moderna tre
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grandi macine di frantoio, forse di età rinascimentale, mentre sul fondo del piazzale (a sinistra) si conserva una base di torcular (frantoio) di epoca romana. Ritornando al Cortile delle Guardia, si entra dalla porta con l’arco in blocchi di travertino e sovrastato da due merli e ci si incammina per il “Piazzale delle due Chiese”, al quale si accede da un secondo arco merlato, ornato dallo stemma del Comendatore Racagni che fece eseguire importanti lavori per la visita di Papa Urbano VIII, proprio in quella circostanza, nel 1633, fu allestito lì accanto il Grande Giardino con piante di agrumi e vasi di fiori, che attualmente ospita un ricco palmeto, uno dei luoghi più caratteristici del Castello. Lo stesso giardino delimita un lato della cosiddetta Spianata dei Signori, ossia un ampio spiazzale con aiuole cinto a ovest da un parapetto a picco sul mare. Laddove si vedono due palme isolate, presso il belvedere, si pensa dovesse essere il luogo dell’antica porta marina del castrum romano e ancora sul fronte meridionale, una casa detta “della Spianata” - utilizza un bastione rinascimentale dal quale si può ammirare un esteso tratto di costa a sud del castello, fino alla punta di Macchiatonda. Dalla parte opposta, si apre una corte rettangolare , il “Piazzale delle due Chiese”, con la tardocinquecentesca Chiesa dell’Assunta, sovrastata da un piccolo campanile del XVIII secolo, e più in là, nei a ridosso di uno dei vecchi ingressi al borgo castellano, la chiesetta di Santa Severa e Santa Lucia, costruita forse nel Quattrocento, ma in seguito adibita a battistero della chiesa principale, inserendo la vasca ricavata da una vecchia macina romana. Di fronte alla Chiesa dell’Assunta, sullo stesso asse dell’arco del Racagni, si apre la porta più antica che immette nell’area del Castello. La porta conserva ben visibili i resti
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Nella pagina precedente e in queste pagine: il Castello di Santa Severa, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
delle caditoie e delle feritoie collegabile al sistema di sollevamento dell’originario ponte levatoio. A sinistra di questo ingresso, si nota inequivocabile il bastione difensivo del Cinquecento, parte della più antica cinta muraria. Superato l’arco, si è quindi nella Piazza della Rocca dominata dall’alto dalla Torre Saracena o Normanna, un alto maschio cilindrico del IX secolo, e collegata al castello da un ponte in muratura costruito sull’antico fossato dove certamente c’era un tempo il ponte levatoio. Sul lato meridionale del cortile, nel 2007, sono stati ripor-
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tati alla luce i resti della chiesa paleocristiana di San Severa, riscontrabili in murature sottoposte all’area di scavo e tracce di affreschi. Il luogo di culto, che doveva essere di notevoli dimensioni, nasceva direttamente sui resti della villa marittima romana affacciata sul porto, forse in coincidenza con il luogo dove la tradizione avrebbe idealmente identificato la casa natale di Santa Severa e dei suoi fratelli o il sito del loro martirio. Uno degli edifici che affacciano sul Cortile della Guardia ospitano il “Museo del Mare e della
Il Castello di Santa Severa, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
Storie l’uomo e il territorio
Navigazione Antica”: sette sale con centinaia di reperti distribuiti lungo un percorso espositivo e didattico che introduce il visitatore al tema dell’archeologia subacquea e della navigazione antica illustrando diversi aspetti della interessanti della “vita sul mare e per il mare”. Il museo conserva e valorizza le testimonianze archeologiche provenienti dai fondali del litorale dell’antica Caere/Cerveteri compreso tra Alsium/Palo Laziale e Centumcellae/Civitavecchia, con particolare riferimento al porto di Pirgy. La prima sala è dedicata all’archeologia subacquea con un diorama in scala reale che ripropone un cantiere di scavo archeologico sul relitto di una nave da trasporto romano in cui i subacquei grazie alla sorbona, un grande aspiratore, effettuano il recupero di un’anfora. Di fronte al diorama è allestita una sezione dedicata proprio alle anfore, in quanto queste sono dei veri e propri “fossili guida” dell’archeologia subacquea, databili in epoche diverse e differente provenienza: si tratta di una ricca collezione di reperti originali di epoca romana, databili tra il III sec.a.C. e il VI sec.d.C., rinvenuti sui fondali di Pirgy e dell’antico territorio cerite, ma provenienti dall’Italia, dalla Spagna, dalla Gallia, dall’Egeo e dell’Africa settentrionale. Le anfore sono allineate su un molo ideale in legno e ordinate in senso cronologico e di provenienza geografica. Nella terza sala si introduce il tema delle navigazioni più antiche, con particolari
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Il Castello di Santa Severa, interni, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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riferimento agli Etruschi, ai Fenici e ai Greci sul mare, illustrando i principali relitti individuati nel Mediterraneo e le tecniche costruttive delle imbarcazioni. Passando nella sala IV troviamo la documentazione relativa alle pompe idrauliche usate per liberare dall’acqua la sentina – ossia il punto più basso dell’imbarcazione – delle navi romane: troviamo esposti modellini ricostruttivi della pompa a bindolo, la noria, la coclea archimedea, la pompa a stantuffo; tra tutti sicuramente il pezzo forte è il primo modello, quella della pompa a bindolo romana, in dimensioni al vero e funzionante, realizzata secondo le tecniche e i materiali antichi.
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Il Castello di Santa Severa, interni, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
Dedicata alla vita a bordo delle navi romane è la sala VI , che ospita lungo la parte sinistra una ricca collezione di ceppi di ancora originali provenienti dai fondali del litorale cerite e dal porto di Pirgy; è visibile anche la ricostruzione, in scala al vero, della stiva di una nave oneraria del I sec. a.C., con carico di anfore e vasellame: lo studio condotto sui principali relitti rinvenuti nel Mediterraneo ha consentito una riproposizione molto fedele delle strutture lignee, dei sistemi costruttivi, delle modalità di carico di anfore e altri prodotti trasportati. Sempre in questa sala è stata musealizzato il materiale proveniente dallo scavo del relitto della Nave dei Dolia di Ladispoli, un relitto individuato nel 1983, su un fondale prevalentemente sabbioso al largo
della costa laziale compresa tra Ladispoli e Torre Flavia; l’imbarcazione era naufragata nei primi anni del I sec.d.C., una nave cisterna che getta una nuova luce su particolari pratiche di trasporto, cioè quella del vino sfuso contenuto nei “dolia” collocati in un posto fisso al centro della nave e lo schema di carico prevedeva al centro della stiva questi grossi contenitori, disposti su tre file parallele, e le anfore raggruppate a poppa e a prua per sfruttare al massimo lo spazio utile. Il Castello di Santa Severa è un polo culturale da scoprire, a presidio della costa da secoli, e il Borgo conserva il fascino di un luogo sospeso nel tempo.
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”tickets”, cinese e inglese per il brano di merinfiore
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In uscita il 15 giugno il nuovo singolo della cantautrice pugliese
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«I just booked a flight to China, I just booked a flight to China-town» sono i primi versi di Tickerts il nuovo singolo della cantautrice pugliese Merifiore in uscita il 15 giugno, distribuito da Artist First, e disponibile su tutte le piattaforme digitali. Un esperimento linguistico musicale in cui le sonorità dal sapore mediorientale, bellissimo il flauto traverso di Anna Bazueva, si mescolano a ritmiche più veloci e su un campione audio estratto dal comune svolgersi di una giornata tipo in aeroporto con l’invito al check-in rivolto ai passeggeri. Tutto il brano è giocato sull’alternarsi armonioso di versi cinesi e inglesi e nelle intenzioni della cantautrice “Tickets” vuole ricordare le atmosfere che vivono i viaggiatori, l’euforia dell’attesa, a volte della corsa, e tra il rincorrersi delle note si percepisce il tema del viaggio come esperienza sensoriale che aiuta a relazionarsi con gli altri e ad allargare i propri orizzonti. «Visti i tempi che corrono credo sia importante comunicare speranza e voglia di ripartire, ricordando alle persone quanto sia importante viaggiare per conoscere meglio se stessi, gli altri e il mondo», ha infatti dichiarato Merifiore. Vincitrice nel 2014 del concorso Arezzo Wave, in poco tempo si è imposta sui grandi
palcoscenici italiani e internazionali, dal CMJ Music Marathon di New York al Sziget Festival di Budapest, dal Milano Film Festival al Parco Gondar Gallipoli, fino al Primo Maggio Taranto. Ha consolidato la sua esperienza aprendo i live di Giuliano Palma, Thegiornalisti, Calibro 35, Dente, Willy Peyote, Cat Power. Il suo primo singolo nel 2016 “Tell Me” (Sugar Music) viene scelto da SKY Uno come sigla del programma TV #SocialFace. Nel 2019 ha pubblicato “Non Hai Mai Visto Un Porno”, per iO Musica (EGO Italy), prodotto dal collettivo siciliano Etna e si è esibita sui palchi di numerosi festival. Del 2020 sono i brani “Senza più chiedere”, “Io e Te” seguiti da Tickets che siamo sicuri sarà apprezzatissimo (an.fu.)
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riapre i battenti a fiumicino il museo del saXofono
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Un luogo unico nato dalla passione e dal lavoro meticoloso del muscista e docente Attilio Berni
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Tra le istituzioni museali che aprono i battenti dopo il forzato periodo di chiusura per pandemia segnaliamo per sabato 13 giugno la riapertura del Museo del Saxofono. Situato a Maccarese, Fiumicino (via dei Molini angolo via Reggiani), fino a questo momento l’unico nel panorama internazionale, dedicato a questo strumento. «Abbiamo fatto un grande lavoro che ci permette di accogliere i visitatori in assoluta sicurezza e tranquillità. Anche il percorso all’interno del Museo, è stato ridisegnato in modo che, in una sorta di tracciato obbligato, non ci siano incroci tra i visitatori.» ha spiegato il direttore Attilio Berni anticipando che da fine giugno, nel pieno rispetto delle norme a riguardo dell’emergenza Covid-19, riprenderanno anche le attività di masterclass, conferenze e, novità assoluta, anche una rassegna di concerti all’aperto. Il museo, nato dall’esperienza e meticolosa raccolta compiuta in oltre 30 anni di attività dal musicista e docente Attilio Berni, ospita una collezione di centinaia preziosi esemplari per dar forma alla storia, ai sogni ed alle passioni da sempre “soffiate” nel più affascinante degli strumenti musicali. Dal piccolissimo soprillo di 32cm al gigantesco contrabas-
so di 2mt, dal Grafton Plastic agli strumenti dell'inventore Adolphe Sax, dal mitico Conn O-Sax al Selmer CMelody di Rudy Wiedoeft, dal Jazzophone ai grandiosi Conn Artist, dai sax a coulisse ai saxorusofoni Bottali, dal tenore Selmer appartenuto a Sonny Rollins all’Ophicleide, dal mastodontico sub-contrabasso J'Elle Stainer fino ai sax-giocattoli. Conpleta la collezione anche una raccolta con ottocento fotografie vintage dai primi gruppi Vaudeville dei ruggenti anni ’20 fino alle band degli anni ’70. Un vero e proprio viaggio alla riscoperta del fantastico strumento inventato da Adolphe Sax e le sue evoluzioni nel tempo fino ad oggi attraverso la visione di capolavori che sono espressione di un connubio perfetto tra arte, artigianalità e tradizione musicale. Gli orari di apertura estivi sono: dalle 16:00 alle 19.00, dal martedì al venerdì, sabato e domenica anche in orario antimeridiano dalle 10.00 alle 13.00. Si potrà prenotare una visita sul sito Liveticket.it, contattando i numeri 06 61697862 347 5374953 o scrivendo a info@museodelsaxofono.com
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L’Infiorata di Noto, foto di Giacomo Vespo
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l’infiorata di noto ai tempi del covid-19 Dario Bottaro
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Quarantuno Primavere per la famosa manifestazione nella capitale del barocco siciliano patrimonio Unesco e perla della Sicilia
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l virus che da mesi ci perseguita e che ci ha costretti a cambiare abitudini e ci ha tenuti distanti per lungo tempo, troppo tempo, non è stato capace di fermare la Bellezza. E’ successo a Noto, città patrimonio Unesco, perla della Sicilia e capitale mondiale del Barocco. Il Covid-19 non ha fermato la Bellezza, non ha impedito che la manifestazione
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più importante di Noto e della provincia di Siracusa, venisse bloccata. Non è successo. Anche se in forma ridotta e senza nessun pubblico, l’Infiorata è stata fatta e Noto ha salutato degnamente la primavera anche nel 2020, nella sua quarantunesima edizione. E’ stata certamente un’edizione speciale, quella che ha visto coinvolte alcune delle
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associazioni di infioratori che a Noto, ogni anno, danno vita all’espressione della bellezza per eccellenza, ricoprendo con un tappeto di fiori una delle strade più importanti della città, nel cuore del centro storico, a pochi passi dalla splendida Cattedrale. E’ la Via Nicolaci, la strada sulla quale si affaccia il Palazzo del principe Nicolaci di Villadorata e che dal Corso principale sale verso la chiesa di Montevergine, con i suoi campanili gemelli e che per l’occasione viene interamente ricoperta di fiori. Migliaia e migliaia di petali danno vita a veri e propri quadri che ogni anno raffigurano immagini ispirate al tema che viene assegnato annualmente dall’amministrazione comunale. Quest’anno le
condizioni in cui stiamo vivendo non hanno permesso il tradizionale svolgimento della manifestazione, che a Noto registra migliaia di presenze, ma anche se in forma ridotta, il saluto alla primavera ha avuto il suo aulico momento. Le associazioni si sono organizzate in modo da poter partecipare in gruppi di tre per ogni turno di lavoro, rispettando le distanze e usando i presidi utili alla nostra salute. Così fin dal venerdì precedente la terza domenica di maggio, sono arrivati i fiori e con paziente meticolosità gli infioratori si sono riuniti per poter spetalare cioè per tagliare i petali dalle corolle e riempirne decine di cassette di legno, pronti per essere usati il giorno successivo, per comporre le
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L’Infiorata di Noto, 2020, foto di Giacomo Vespo
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L’Infiorata di Noto, 2020, foto di Giacomo Vespo
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sone unite con il cuore, rispettose delle misure di sicurezza, ma non per questo meno attente e desiderose di portare a termine questo importante compito di dar vita a qualcosa di straordinario. Abbiamo iniziato a lavorare alla nostra porzione di bozzetto, quello dell’associazione Opificio 4, intorno alle 14. Seguendo le linee del disegno, fatto dai più esperti la sera precedente, abbiamo iniziato a realizzare i contorni con la caratteristica torba, un miscuglio vegetale e terroso che unito all’acqua può essere impastato e modellato. Così un pezzo alla volta, abbiamo creato i contorni del disegno, i rami dell’albero, il cerchio, l’immagine della Sicilia con una grande pala di ficodindia che emergeva dalla nostra regione poi le foglie dell’albero, ricche di volute che dal basso salgono morbide come un abbraccio avvolgendo i cerchi con i diversi disegni. Quattro bozzetti riuniti in un unico, grande tappeto. Così, impastando e modellando
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immagini del bozzetto scelto. Quest’anno la particolarità sta anche nel disegno proposto dalle associazioni che hanno aderito, un unico grande tappeto fiorito che corrisponde alla misura di due bozzetti canonici. Un disegno di circa 15 metri raffigurante l’albero della vita nei cui rami sono stati aperti dei grandi cerchi con all’interno, le figure create dai più bravi maestri creativi. Un omaggio – quello dell’albero della vita – ad uno dei padri fondatori della manifestazione, Carlo La Licata, che in questo contesto storico trova il suo pieno significato. La vita, l’albero che simboleggia la rinascita, la vita che torna a fiorire dopo la morte. Tante sono le cose che si potrebbero dire o scrivere in merito a questo momento storico che abbiamo vissuto e che ancora, purtroppo, stiamo vivendo, ma non è questa la sede. In queste righe voglio invece descrivere la bellezza di un’esperienza che rimarrà impressa per sempre nei nostri ricordi, un’esperienza fatta di per-
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e poi iniziando a riempire di crusca e carrubella le parti delineate, ha avuto inizio la magia. Il tempo è trascorso senza che neanche riuscissimo a percepirlo. Tutti intenti a lavorare alla propria parte, tutti col capo chino, le mani con i guanti sporchi, le mascherine che coprono metà delle nostre facce. Ma il sorriso è negli occhi. Quando lo sguardo di qualcuno di noi si è incrociato per caso con qualcun altro, gli occhi hanno sorriso ed è stata festa. Una festa del cuore. Una festa diversa dalle altre, senza il baccano dei visitatori e dei curiosi che di solito già dalle prime ore della manifestazione, riempiono ai lati la Via Nicolaci per osservare attentamente il lavoro degli infioratori. Nessuna confusione quest’anno, ma un grande senso di appartenenza e di civiltà. Un sentimento forte che dal nostro cuore, ha preso vita in ogni singolo granello di terra, in ogni petalo di garofano o gerbera che ha preso posto in questo grande bozzetto per comporne l’insieme. Un pomeriggio intenso quello del 16 maggio 2020 e che si è concluso con l’emozione ancora più grande di assistere ad un concerto del nostro musicista siciliano
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L’Infiorata di Noto, 2020, foto di Giacomo Vespo
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Infiorata di Noto, 2020, foto di Giacomo Vespo nella foto in basso: Dario e Giacomo administrator di @gira_con_noi_sicilia, foto a lato Mario Incudine con Dario e Giacomo administrator di @gira_con_noi_sicilia,Mr
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Mario Incudine che per questa occasione alla vita. Perché la bellezza è più forte della ha scritto un Cunto da far commuovere paura. anche le pietre. Noto, il giardino di pietra, è stata benedetta dalla bellezza, quella dell’espressione dell’arte che oltre ad essere immagine della storia e del contemporaneo, è anche melodia che fa sciogliere il cuore e fa cantare le labbra, in un unico grande inno
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Agropoli, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
agropoli la porta sul mare del cilento Sara Foti Sciavaliere
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Un gioiello incastonato lungo il Tirreno tra i boschi e il mare
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”
A
gropoli, la porta del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano. Il Cilento, terra campana di dolci colline ricoperte dagli ulivi che si specchiano nel blu del Tirreno, attraversato da vivaci torrenti, ricco di boschi di castagni e di lecci, di paesi abbarbicati alle rocce o adagiati sulle rive marine. Agropoli coniuga in sé entrambe le tipologie, di fatti il borgo costiero deve il suo nome dalla posizione geografica, una “città alta” su un promontorio a picco sul mare e che qui inizia a svilupparsi però solo durante le guerre grecogotiche, quando i Bizantini
vi collocarono una roccaforte che prese appunto il nome di “Acropolis”. Oggi la cittadina di Agropoli, che solo nel corso dell’Ottocento incominciò ad espandersi oltre il perimetro delle mura medievali, conserva il centro antico intatto e gran parte del circuito delle mura difensive con il portale seicentesco d’ingresso. Il borgo antico è raggiungibile a piedi percorrendo la caratteristica salita degli “scaloni”, per secoli unica via d’accesso all’abitato e oggi uno dei pochi esempi di salita a gradoni nel Cilento, caratterizzati da gradinate lar-
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Agropoli, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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ghe e basse, anche se fino agli anni Trenta avevano ancora i gradini originali conformati a schiena d’asino, ma è riuscita comunque a sopravvivere alle esigenze del traffico veicolare, che altrove ne hanno determinato il livellamento. Il muro di protezione degli scaloni è ornato da merli con estremità sferica che richiamano i merli della porta che ci accoglie
per concederci l’ingresso al Delli Monti Sanfelice, ultimi cuore antico di Agropoli. feudatari della città, che un tempo decorava l’ingresso La porta ha due aperture: del Castello. sulla destra della porta principale ce n’è una, secondaria, Una sosta sulla piazzola che ad arco ribassato, aperta agli si apre, subito dopo la porta, inizi del XX secolo. Tra le e getta lo sguardo sul mare, aperture è visibile una feritoia dall’alto del promontorio e che permetteva la vigilanza e dove si affaccia anche la la difesa. Al di sopra della Chiesa della Madonna di porta principale si nota lo Costantinopoli, dominando stemma marmoreo dei Duchi sulla città e sul porto turistico. La tradizione la vuole costruita in seguito il rinvenimento in mare della statua della Madonna che alcuni infedeli, al tempo delle scorrerie turche della metà del Cinquecento, avevano cercato inutilmente di portar via. La leggenda narra che il corsaro Ottomanno Barbarossa assalì Agropoli nel 1535 saccheggiando case e chiese, bruciando campi e uccidendo chiunque si opponesse a lui, e decretando il triste destino di oltre cinquecento Agropolesi che furono deportati e venduti come schiavi a Tunisi e Algeri. L’assalto è illustrato a rilievo su una delle porte bronzee laterali della Chiesa di San Pietro e Paolo, nel cuore del borgo, lungo la via per il castello. Riprendendo, invece, le fila della tradizione sulla devozione mariana ad Agropoli e alla statua custodita in questa chiesa, si racconta che malgrado il terribile attacco degli assalitori islamici, alcuni fedeli coraggiosi riuscirono a mettere in
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Agropoli, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
salvo la statua della Madonna di Costantinopoli in una grotta del promontorio su cui sorgeva la città vecchia. Anni dopo una mareggiata sottrasse il simulacro dal suo nascondiglio e i pescatori, vedendola galleggiare sul mare, la riportarono a terra dedicandogli una cappella. La leggenda sembra comunque essere confermata in più punti dalla storia. La statua attuale risale alla scuola del Seicento napoletano e conserva una caratteristica unica, coerente con l’origine orientale del culto, la Vergine infatti regge il bambino sul braccio sinistro secondo la tradizione iconografica bizantina. Sono molteplici, inoltre, gli eventi prodigiosi legati alla Madonna di Costantinopoli a protezione dei pescatori. Il caso più recente risale al 1956 quando venti pescatori usciti in mare per la pesca, al momento del rientro carichi del pescato, un forte acquazzone li bloccò a largo. Il mare imperversava minaccioso sulle piccole barche e vani erano i loro tentativi di tornare a riva. Tra i pescatori e le famiglie accorse sull’alta rupe per assistere alla tremenda vicenda, si levò un coro di preghiera indirizzato alla Beata Vergine nella speranza di un miracolo. E queso avvenne: la Madonna apparve ai pescatori, così come raccontano gli anziani, e i
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dolce e più esposto agli assalti. Attorno alle mura del castello si trovava un fossato largo e profondo, oggi visibile solo sul lato verso il borgo. Il castello presenta l’aspetto assunto dopo le ristrutturazioni d’età aragonese che devono aver ampliato l’orig i n a r i o impianto e il ponte di pietra gettato sul fossato guida l’acceso all’interno del castello, dove ci accoglie la piazza d’armi, delimitata da edifici sui fronti settentrionale e orientale e oggi adibita a giardino e a teatro all’aperto. Il castello di Agropoli ha ospitato tra le sue austere mura personaggi che
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venti pescatori grazie a essa riuscirono a rientrare in porto. A perenne ricordo dell’evento c’è un affresco sul soffitto della chiesa, che mostra proprio la Madonna apparire in soccorso ai pescatori. Per vicoli ritorti che si inerpicano tra abitazioni basse e fitte, si raggiunge il castello a pianta triangolare e con tre torri circolari. Si erge sul promontorio incastrandosi come un vertice nell’interno dell’area del borgo antico, mentre la base si protende fuori del nucleo abitato, come fortificazione avanzata sul versante collinare dal pendio più
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Agropoli, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
hanno segnato la storia e la cultura non solo nazionale. Tra questi ricordo la nobile napoletana Luisa Sanfelice, che qui dimorò più volte, morta condannata alla decapitazione per aver svelato la congiura contro la Repubblica organizzata dai fratelli Baccher, e la cui vicenda umana fu d’ispirazione al romanzo di Alexandre Dumas padre; ma anche la scrittrice francese Marguerite Yourcenar, tanto affascinata da questo luogo da ambientarvi il racconto “Anna, soror”; e ancora Giuseppe Ungaretti, che visitò il Cilento all’inizio degli anni Trenta del XX secolo e che ritrasse Agropoli nel volume “Mezzogiorno”. Prosegue la nostra passeggiata nel borgo cilentano: lasciandoci il castello alle spalle, ci incamminiamo per una serpentina di vicoli quasi labirintici, tra case di pietra e i tetti dai coppi rossi, ornate da gerani e petunie coloratissime che danno vita a scorci da cartolina e carichi di suggestioni, finché non si apre di nuovo, tra alberi di limone lo sguardo sul blu del mare e lì,
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sul limitare della Rupe, spunta la lanterna del Faro di Punta Fortino, una torretta in stile veneziano, costruita nel 1929 e visibile dal lungomare della città nuova. Continuando a districarci per le stradine seguendo il fronte marino, risaliamo e per vie diverse ci ritroveremo in vista della piazzetta della Chiesa della Vergine di Costantinopoli, ma prima di abbandonare i vicoli, con un po’ di attenzione, sulla parete di una antica abitazione, che ospita oggi una nota pizzeria, si può leggere un’indicazione: “il pozzo dei desideri”. E anche i più disincantati di solito sono curiosi di sapere quale sia la storia di quel luogo, forse solo una favola, come tante trovano giusta dimora in questi borghi dal fascino antico intatto, ma gli aneddoti si muovono sempre tra storia e leggenda e costituiscono comunque parte del patrimonio di memorie e tradi-
zioni di un posto. Qual è quindi la storia del pozzo dei desideri di Agropoli? Si racconta che nell’antico palazzo, viveva un signore autoritario con la moglie e la loro bellissima figlia. Il duca era conosciuto come un burbero ed era solito maltrattare moglie e figlia, a tal punto che un giorno, mentre il padre era via per una battuta di caccia al cinghiale, la giovane scappò. Ma la madre, in apprensione, avvertì il marito, al suo rientro. L’uomo si mise alla ricerca della figlia e la trovò sulla spiaggia verso Paestum. La fuga fu duramente punita e la giovane fu frustata e rinchiusa in fondo a un pozzo, da dove poteva udire gli altri bambini giocare ma non poteva godere della luce del sole. La madre era autorizzata a calarle solo i pasti e la speranza che qualcuno passasse di là per salvarla era sempre più debole. Il principe, di ritorno da una missione nel
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pieno delle terre cilentane, di passaggio ad Agropoli, si insospettì non trovando la duchessina sul suo balcone ad accoglierlo. La liberò dal pozzo e la portò in trionfo in sella sul suo cavallo, chiedendola in sposa, come in ogni fiaba che si rispetti con il suo “e vissero felici e contenti” e quando fece portare il malvagio duca al suo cospetto, per rendergli pan per focaccia, la dolce e bella figlia lo risparmiò, Anzi, ringraziò perfino il padre poiché senza quella disavventura non avrebbe ottenuto la felicità che l’aspettava di lì in poi. E non manca neanche la morale della favola, cioè che per scoprire la felicità, bisogna prima conoscere qualche pena. E per chi raggiunge il pozzo della leggenda, salendo le strette scale di pietra di quel palazzotto, in un angolo sul pianerottolo del primo piano, è inevitabile provare a esprimere un desiderio lasciando cadere giù nel pozzo una monetina.
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Agropoli, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
Canova | Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna Milano, Gallerie d'Italia - Piazza Scala 24 ottobre 2019 - 28 giugno 2020 Mostra a cura di Stefano Grandesso e Fernando Mazzocca. Veduta di allestimento, foto Flavio Lo Scalzo
I LUOGhI NELLA RETE
le nuove regole focus su bologna musei
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Come cambiano le visite e i percorsi espositivi nelle istituzioni museali
L
a pandemia ci ha privati del piacere della fruizione degli spazi museali che, in queste settimane di clausura, abbiamo riscoperto navigando tra le pagine social e i tour virtuali delle istituzioni e fondazioni che si pongono come un ulteriore strumento per la conoscenza e l’approfondimento del nostro immenso patrimonio artistico. Ma, ovviamente, la fruizione dal vivo è tutt’altra esperienza e la graduale riapertura ci invita a riguardare forse con occhi più consapevoli i nostri Musei. Ma come cambiano le visite? Perentoria l’osservazione delle regole indicate dall’OMS e dal Ministero della Salute, per questo i percorsi espositivi sono stati ridisegnati, distinti in entrata e in uscita, alcuni servizi sospesi - come gli schermi touch screen, le audioguide e il guardaroba - e le formule di accesso, contingentati per regolare il flusso dei visitatori, per i quali è obbligatorio l’uso della mascherina, il mantenimento della distanza interpersonale come pure la prenotazione dei biglietti on line. Iniziamo un viaggio alla riscoperta dei nostri Musei, partendo da Bologna.
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Dallo scorso 27 maggio, le Collezioni Comunali d'Arte di Bologna hanno infatti riaperto le loro porte ai visitatori completando la riapertura al pubblico di tutte le sedi espositive dell'Istituzione Bologna Musei che, lo ricordiamo, comprende il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna e Museo Morandi; Museo internazionale e biblioteca della musica; Museo Civico Archeologico; Museo del Patrimonio Industriale; Museo Civico Medievale; Museo Davia Bargellini; Museo civico del Risorgimento; Museo per la Memoria di Ustica e Casa Morandi. Questo mese, focus sulle Collezioni Comunali d’Arte ospitate al secondo piano del Palazzo Comunale, all’interno delle sale che un tempo erano adibite a residenza del Cardinale Legato. Istituite nel 1936 in ambienti ornati con fregi e soffitti dipinti dal Cinquecento al Settecento, le opere provengono da un variegato patrimonio costituitosi grazie a molteplici donazioni di dipinti, mobili, arredi e suppellettili, giunti al Comune di Bologna nel corso dell’Ottocento e nel primo Novecento. Un corpus che andò ad arricchire quello antico di capolavo-
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Bologna, Collezioni Comunali d'Arte, Veduta della Galleria Vidoniana, Foto Giorgio Bianchi | Comune di Bologna Antonio Canova, Apollino, 1797 circa, Marmo, 145 × 53 × 44 cm, Basamento: altezza 78 cm, diametro 62 cm, Bologna, Collezioni Comunali d’Arte
I LUOGhI NELLA RETE
ri appartenuti alle magistrature cittadine. In particolare si segnalano quelli provenienti da due importanti collezioni d’artista (Pelagio Palagi e Cincinnato Baruzzi), nonché quelli derivati da un collezionismo versato anche nel campo delle arti applicate e dell’arredo (eredità Pepoli e Rusconi). Il ricco patrimonio artistico custodito dal museo spazia dal Duecento agli inizi del Novecento: croci scolpite, tavole dipinte di Vitale da Bologna, Jacopo di Paolo, Luca Signorelli, Francesco Francia; inoltre, importanti dipinti di ambito bolognese-emiliano del primo Cinquecento (Amico Aspertini, il Tamaroccio) e del secondo (Bartolomeo Passerotti e Ludovico Carracci), fino a una nutrita serie di opere del XVII secolo di scuola emiliana (Alessandro Tiarini, Guido Cagnacci, Michele Desubleo, Francesco Gessi) e di altre scuole fra cui uno straordinario Ritratto di Gonfaloniere, eseguito nel 1622 dall’illustre pittrice Artemisia Gentileschi. Sotto la volta affre-
scata della Galleria Vidoniana è visibile una delle raccolte più importanti all’origine del museo: diciotto tele eseguite fra il 1713 e il 1723 circa da Donato Creti. Dalla monumentale galleria si raggiunge l’ala Rusconi, composta da cinque piccole sale riservate alla vita privata, che termina in una magnifica sala “alla boschereccia”, dipinta alla fine del Settecento da Vincenzo Martinelli. Una sezione è dedicata a Pelagio Palagi, artista di grande levatura nel campo della pittura, della progettazione di interni, dell’ornato e delle arti applicate fra Neoclassicismo e Romanticismo. Infine due sale del museo sono dedicate all’arte dell’Ottocento e del primo Novecento. Da annoverare tra i capolavori del museo l’Apollino, opera giovanile scolpita da Antonio Canova nel 1797. La scultura del dio adolescente, che appartiene alla produzione più alta del grande maestro di Possagno, era stata particolarmente amata dal suo creatore che l’aveva menzionata nelle sue memorie autografe
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come opera di grande valore.Scenograficamente allestita al centro della Sala Boschereccia nell’ala Rusconi, l’opera si trova attualmente in prestito per la grande mostra Canova | Thorvaldsen. La nascita della scultura moderna prorogata alle Gallerie d’Italia in Piazza della Scala a Milano fino al 28 giugno 2020. Sul sito www.gallerieditalia.com è disponibile un’esperienza virtuale immersiva, realizzata in collaborazione con Zeranta Edutainment, che restituisce una visione a
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360°delle opere esposte provenienti dai grandi musei nazionali e internazionali, con approfondimenti in italiano, inglese e Lingua dei Segni Italiana (LIS). Come già attuato per gli altri musei civici, l’articolazione degli orari di apertura saranno mercoledì, venerdì, sabato h 10.0018.30; domenica h 13.30-18.30; (lunedì, martedì, giovedì chiuso) Collezioni Comunali d’Arte Palazzo d’Accursio, Piazza Maggiore 6 tel. 051 2193998 www.museibologna.it/arteantica
aleX garant la regina dei doppi occhi Dario Ferreri
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Un viaggio tra i luoghi e nonluoghi fisici ed emozionali dell'arte contemporanea
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«Non ho particolari talenti, sono soltanto
"La verità ha sempre mille volti, come ogni volto ha sempre mille verità" (Anonimo)
appassionatamente curioso»
CURIOSAR(T)E
Albert Einstein
F
amosa a livello internazionale come la regina dei doppi occhi, Alex Garant è una artista franco-canadese che vive e lavora a Toronto, in Canada, e che ha studiato arti visive al Notre-Dame-De-Foy College appena fuori Quebec City. Dopo il liceo si è laureata con lode alla scuola d'arte (Arts Plastiques) nel 2001; negli anni successivi ha esplorato diverse carriere, ed è solo dal 2012, dopo un infarto, che ha deciso di dedicare la propria vita alla sua grande passione
per l'arte, cambiando per sempre il suo modo di vedere il mondo. Come pioniera della Contemporary Figurative Op Art (la Op Art, abbreviazione di Optical Art, è uno stile di arte visiva che utilizza le illusioni ottiche), i suoi dipinti ad olio offrono una qualità grafica combinata con le tradizionali tecniche di ritratto. Ma la Garant si identifica inoltre come utilizzatrice anche della Glitch Art analogica (che si sostanzia, tra l'altro, nella pratica dell’uso
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Alex Garant, At The End Of The Tunnel
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CURIOSAR(T)E
Alex Garant, All of her
di errori per scopi estetici) poiché utilizza nelle proprie creazioni motivi decorativi/modelli ricorrenti, duplicazione di elementi, simmetria e sovrapposizione di immagini quali elementi chiave del suo immaginario. I suoi dipinti sono una riflessione sulla dualità umana, la battaglia per l'autodefinizione tra il proprio io interiore e la personalità esterna. L'artista vuole che " le persone vedano la sua arte ed accedano ad una parte diversa della loro mente mentre la guardano, e che l'osservatore entri in un processo di analisi e di interrogazione visiva, non vuole solo dipingere qualcosa di bello ma deve essere qualcosa di più; è questo il motivo che la spinge a cercare di avviare risposte reattive agli stimoli visivi esterni offerti attraverso la sovrapposizione di elementi figurativi e colori vividi poiché parte dal presupposto che gli esseri umani non sono svegli fino a quando la veglia non avviene attraverso una sovrastimolazione dei sensi e la piena attivazione della mente, in una sorta di stato di coscienza cerebrale ricorrente che rende l'individuo consapevole ed impegnato. Guardando le sue opere appare chiaro il focus delle stesse: gli occhi e il viso; è
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Alex Garant, Carousel; sotto: Alex Garant, Passage
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CURIOSAR(T)E
Alex Garant, PHI, a lato: Alex Garant, Hypnosis
attraverso questi, difatti, che il messaggio dell'artista viene comunicato allo spettatore, in quanto la ritrattistica è un modo per immortalare l'uomo nello spazio e nel tempo, è fondamentalmente una tesi visiva sulla condizione umana vista attraverso la visione del suo creatore. Per la realizzazione delle proprie opere usa quasi esclusivamente l'olio (del quale apprezza la fluidità e la possibilità di "scolpire" più volte quando la consistenza dello stesso diviene cremosa e satura di pigmenti) e pennelli sintetici e morbidi (Royal & Langnickel, ndr); Epigoni di riferimento dell'artista sono Bouguereau e Francis Bacon. Il processo creativo delle sue
opere di solito inizia con diversi schizzi creati da foto di riferimento. Poi, come ha lei stessa affermato durante una recente intervista "gioco con i miei schizzi e li duplico su tela. Una volta completato lo schizzo, dipingo tutto "alla prima" il più possibile, lavorando in sezioni per ottimizzare il weton-wet time (una tecnica in cui il colore ad olio viene applicato sopra altro strato di colore ad olio ancora bagnato) Un dipinto può richiedere dalle 35 alle 65 ore per essere completato". Rappresentata da gallerie di New York, Los Angeles e Australia, le sue opere sono state esposte anche in diversi musei tra cui il Museum of Art and History (MOAH) in
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Alex Garant, Social services; a lato: Alex Garant, Untitled
California, il Mesa Contemporary Arts Museum in Arizona, l'Honolulu Museum of Art alle Hawaii e il Fullerton Museum Center in California. Espone correntemente in tutto il mondo. Ăˆ stata pubblicata su riviste internazionali quali Hi-Fructose, Juxtapoz, Beautiful Bizarre, la rivista American Art Collector e su diverse piattaforme online tra cui VICE, The Huffington Post, Buzznet e molte altre. Alex ha molti fan sui
social media -circa 150.000 su Instagram (https://www.instagram.com/alexgarantart/?hl=it) e circa 21.000 su Facebook ( F a c e b o o k : h t t p s : / / w w w. f a c e book.com/alexgarantart/)con i quali, spesso e volentieri, interagisce. Per essere ipnotizzati e stordirsi, letteralmente, guardando i suoi dipinti: https://www.alexgarant.com/.
CURIOSAR(T)E
Alex Garant, Dot Dot Dot
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I LUOGhI NELLA RETE | IL CONCORSO
LUOGhI DEL SAPERE
#ladevotalettrice | le recensioni di lucia accoto la sposa del chiostro
SARA FOTI SCIAVALIERE La sposa del chiostro Il raggio Verde edizioni 2020 ISBN 9788899679866 pp.182 € 15
Basta una parola sgarbata, un’occhiata stramba, lasciva, per farci sentire fuori posto. Inadeguati. Ma all’amore, quello che ti scuote, che ti fa sentire leggera, non si è mai inadeguati. Si è pronti. E si impara in fretta, a proprie spese, come batte veloce il cuore che non sente ragioni, tempi, pause, silenzi. Se ti imponi una cosa diversa da quella che il cuore ti detta, cammini senza anima, senza verbo. Allora, per riappropriarti di te stesso, cedi. Perché è meglio sentire un battito in più che il freddo nelle vene. A volte, si è impreparati. L’amore quando arriva arriva, non te lo aspetti, non ti chiede permesso. Eppure, lo si può rifiutare come se fosse scomodo, inopportuno, ingombrante. Ma lo riconosci, sempre. Certo, l’amore ha mille facce, si maschera per poi tradirti, addirittura ti inganna per un’ossessione malata e ti abbandona anche per stanchezza. Ma tu sai. Nel romanzo La sposa del chiostro di Sara Foti Sciavaliere si annusa la genuinità di una quasi novizia, una postulante, Virginia. Figlia di nessuno, Virginia è stata abbandonata da piccina alla ruota degli esposti nel monastero delle Benedettine a Lecce. Ha conosciuto solo il chiostro e non sa cosa ci sia fuori dal convento, com’è la vita. Per meglio rispondere alla vocazione di prendere il velo è posta di fronte ad una scelta: andare a vivere alcune settimane a Palazzo Lubelli, dalla baronessa Celeste. Solo così saprà qual è la sua strada, ma nelle nuove vie si apre una vita diversa che a volte la fa arrossire ed abbassare lo sguardo più per inadeguatezza che per piglio. Un ciondolo, l’unico vezzo femminile della nuova vita fuori, le farà scoprire più di quanto non immaginasse. Amore compreso, di donna e figlia. Con La sposa del chiostro camminiamo a fianco a Virginia tra le viuzze di una Lecce che parla la lingua degli scalpellini, del barocco, del sole che fa cambiare luce alla pietra leccese. Sentiamo anche il profumo dei dolci alla pasta di mandorle, il suono delle campane ai vespri che ci ricorda anche che il tempo passa in fretta. La scrittrice, Sara Foti Sciavaliere, spruzza il romanzo di pillole di dialettismo per rimarcare alcune espressioni. Sciolto il suo stile narrativo, che ti abbraccia fino a farti sentire a casa, anche se non lo sei. Addirittura ti fa sentire addosso la falsità di alcuni personaggi che appaiono cortesi, ma che in realtà sono disgustosamente mal concilianti con chi non è come loro, del loro stesso sangue. Ah la vita, l'amore.
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madri gotiche #ladevotalettrice di unpatrizia giorno in busacca più, storia di un fallimento
PATRIzIA BUSACCA Madri gotiche Linea Edizioni 2020 pp.424 9788899644963 € 16,00
Non si può tornare indietro. A volte, però, capita che per darti una spinta torni al passato, ai ricordi. Ti serve per rimetterti in piedi, per dare un senso alla misura del tempo, per stabilire da dove sei partito. Serve anche per conoscerti ancora e capire la prospettiva della vita. La stessa che ti dà e ti toglie, senza riserve. E quando pensi a come sei stata, come hai vissuto, che cosa ti è mancato ed a che cosa ti sei aggrappata per vivere, non fuggi dai tuoi anni. Perché l’età di un’esistenza è il racconto di te nei momenti bui. Sono quegli anni che ti daranno risposte, ma te le devi andare a cercare quando non torna qualcosa nella vita. Così, rimani in attesa. Per anni. Ma hai dovuto scavare, finanche farti male con le domande, con i dubbi, con le incertezze. Hai dovuto anche allungare le distanze emotive per venire a galla, hai fatto il possibile per assolverti. Certo, qualcuno è caduto. Troppo lontano da te, dalla tua emotività, dal tuo essere come sei. E non importa se quel qualcuno è tua madre, troppo arida per amare e troppo rigida per sorridere. Tu e lei, sangue dello stesso sangue eppure diverse, in tutto. Alcune donne sono prive dell’istinto materno, se poi anche il padre vacilla nel suo ruolo, allora per crescere ti affidi al fiuto e all’esatto contrario di quello che vedi in casa. Un’esistenza rovesciata, per imparare ad essere a tua volta madre. Nel romanzo Madri Gotiche di Patrizia Busacca senti addosso la precarietà dei sentimenti, della vita stessa, addirittura anche dell’essere persona. Se poi sei schizofrenica, come Lidia, una che è stata inghiotta dai manicomi per moltissimi anni, sei anche una vergogna. Per la famiglia. Per tutti sei nessuno, una senza cervello, senza emozioni anche se piangi e ridi senza motivo, ma per la famiglia sei una disgrazia. E sei hai una madre che si preoccupa delle apparenze, di quello che dice la gente, che ha un cuore a riccio, sei perduta dapprincipio. Le madri, tristi, arrabbiate, insufficienti a se stesse, limitate nella visione della vita, le madri gotiche, spingono le nuove donne, un tempo figlie, ad issarsi sulle proprie forze per respirare novità, emancipazione, consapevolezza della propria femminilità. Se quell’essere donna e madre nello stesso tempo, poi, è aggredito da un male incurabile, ce la metti tutta per resistere, per farcela, per essere te stessa. Diversa. Leggi Madri Gotiche e pensi che la vita, a volte, è infame. Cambi la prospettiva stessa della vita. Se hai vissuto il peggio sulla tua pelle, e forse non se nei ancora uscito, sai bene di cosa parla la scrittrice, anche se non sei mai preparato abbastanza per il buio che ti circonda. Patrizia Busacca ci accompagna in una storia fatta di retaggio culturale, di inaffettività e di troppo amore per i figli. Ti accompagna per mano nei suoi dubbi emotivi e tu le tenderai la mano perché sarai con lei quando parlerai a te stessa. Sempre.
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LUOGhI DEL SAPERE
la sposa del chiostro, romance storico con intrecci da giallo d’ambientazione
SARA FOTI SCIAVALIERE La sposa del chiostro Il raggio Verde edizioni 2020 ISBN 9788899679866 pp.182 € 15
Quando si legge il libro La sposa del Chiostro (edito da Il Raggio Verde Edizioni di Lecce) dell’autrice Sara Foti Sciavaliere, inevitabilmente la mente inizia a viaggiare verso un mondo lontano. Più che lontano… Verso un’epoca che ci conduce per mano nella Lecce di fine Settecento ed inizio Ottocento. Ciò che colpisce maggiormente è la capacità con cui vengono descritti gli ambienti e le strade del capoluogo salentino, con particolare attenzione per i caratteri artistici e architettonici che donano quel quid in più ad una ricostruzione minuziosa che invoglia e non poco con la prosecuzione della lettura. Per non parlare del contesto storico che ci mostra uno spaccato del tutto nuovo di quella che in seguito gli studiosi definirono come la Rivoluzione Napoletana e che pone l’attenzione sul burrascoso periodo repubblicano iniziato nel 1799 e conclusosi nel maggio del 1802 con la cacciata dei francesi (per poi rivedere il ritorno tumultuoso della governance napoleonica solo nel finale della storia), con un colpo di scena degno di questo nome che proietta il racconto su altre piste narrative fino a quel momento tacitamente nascoste. Perché, per quanto La sposa del Chiostro possa essere considerato a tutti gli effetti un romanzo storico, in realtà strizza e non poco l’occhio anche ad altri generi letterari che trovano in questo lavoro un connubio perfetto. Dall’inevitabile vicenda d’amore che appassiona e tiene incollati alla pagina, vi sono però elementi ed intrecci degni di un classico giallo d’ambientazione, dove i momenti di tensione vengono tenuti a bada da altri più spensierati che strappano un sorriso al lettore. Dunque un lavoro, quello di Sara Foti Sciavaliere, a tutto tondo come si suol dire... Che dimostra oltre ad un’attenzione speciale per la Storia dell’Arte anche un amore smisurato per la città di Lecce, protagonista assoluta di un romanzo che emoziona e lascia con il fiato sospeso fino al finale. Un finale che promette un seguito a cui sicuramente l’autrice starà già pensando… Stefano Cambò
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ad maiora, il nuovo catalogo dell’artista francesco zavattari
FRANCESCO zAVATTARI Ad maiora Il Raggio Verde pp.80 2020 € 20 ISBN 978899679910
“Ad Maiora” è il nuovo catalogo edito da Il Raggio Verde, in lingua inglese e curato da Claudia Almeida: tanti modi diversi per Zavattari di sviluppare e diffondere bellezza sempre e comunque. Un viaggio nell’arte di Francesco Zavattari, alla scoperta, attraverso la suggestione delle immagini, delle tante ispirazioni che caratterizzano la sua attività: pittura, installazioni, interventi di design, live performance in tutto il Mondo, regie teatrali, mostre personali, shooting fotografici, eventi pubblici e privati, masterclass e workshop sul colore per studenti e professionisti. Pittore e designer, Francesco Zavattari nasce in Toscana, a Lucca, nel 1983. Dopo anni in cui la propension artistica si alterna all’attività lavorativa nel mondo del marketing.Negli anni 2010-2011 arriva la svolta: le esposizioni e il grande successo di pubblico e critica fanno decollare l’attività pittorica di Zavattari. La mostra “Indagine sull’ombra” non è altro che il trampolino di lancio per una carriera che apre i propri confini all’Europa. Con la serieevento Ubiqua, l’artista inizia a esporre a Madrid e Malta, oltre ad altre località italiane. Oltre a realizzare mostre in contesti sempre più prestigiosi e pubblicazioni e critiche sempre più autorevoli, l’estro di Zavattari si esprime al meglio con le live performace, durante le quali la rapidità compositiva dell’artista trova compimento in forme e colori sempre sorprendenti. Particolarmente significativo in Portogallo, il progetto condiviso con l’associazione UMAR “My Art is Female” che ha visto la realizzazione di tre opere in live performance (Braga, coimbra e Porto) e una importante personale al Museo da Quinta de Santiago di Matosinhos e il Live Painting Performance alla Casa Museo di Luciano Pavarotti di Modena Nel 2015 espone a Lecce con ‘Elevata Concezione – Pietra, carta e luce’ e vi ritorna nel 2018 con l’installazione "Poliedro. Resta. Ora". Tra i più recenti eventi espositivi (ma è davvero impossibile elencarli tutti) nel 2019 una trasferta americana di "Colour State of Mind" la mostra Nero/Avorio a Roma, e la live performance all’interno della rassegna culturale "Borgo è Bellezza" a Borgo a Mozzano (Lu).
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Lungo l’Appennino, reportage fotografico di Antonio Giannini
sulle orme di francesco lungo l’appennino verso la valle santa Antonio Giannini
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Girovagando lungo i percorsi che portano al Santo d’Assisi
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ire della bellezza dell’Italia più che un’ovvietà è spesso uno slogan. Sappiamo che ogni angolo parla di storia, ogni storia parla di arte, di tradizioni, di dialetti, di cibo, di personaggi. Ma quanto di questo enorme, unico e straordinario patrimonio conosciamo veramente? Direi quasi, intimamente? Una vita intera non basterebbe a coglierne l’essenza specialmente se ti convinci, magari tardivamente, che la maniera più autentica per scoprirla tutta, conoscerla ed amarla è semplicemente percorrerla a piedi.
Da quando, in questi ultimi anni, partendo da Chiusi La Verna in Toscana con uno zaino in spalla, ho iniziato un viaggio verso sud lungo tutto l’ Appennino, mi si è aperto un mondo nuovo di cose straordinarie che solo l’esperienza del cammino può rendere al massimo grado . Non che io sia un fervido credente, ma l’impulso principale al concepimento di questa avventura è stato San Francesco d’Assisi, per il fascino che quell’uomo ha sempre suscitato su di me come sulla moltitudine dei credenti e dei non credenti e per l’intimo legame che lo lega a
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Lungo l’Appennino, reportage fotografico di Antonio Giannini
quel territorio. Tutto l’Appennino parla di lui. Parlano di lui quelle montagne su cui, chissà quante volte, nelle sue continue peregrinazioni, ha posato gli occhi e con cui ha dialogato. Parlano di lui i boschi millenari, i tanti straordinari santuari disseminati sul territorio in perfetta armonia col paesaggio. Parlano ancora di lui, come in un dialogo infinito, i borghi quasi sconosciuti ai più, i paesi e le città. Percorrere queste strade a volte ardue e misteriose, dimorare nei conventi, parlare con la gente del posto è una esperienza straordinaria dove senti la costante presenza di Francesco e la sua forza carismatica e quella del suo messaggio potente e coraggioso di povertà che ha comportato non pochi imbarazzi alla chiesa di Roma sempre in bilico, con le sue contraddizioni interne, tra fede e potere temporale. Dopo dodici giorni di cammino, a metà dell’intero percorso che mi ero preposto, sono giunto a Spoleto valicando passi, guadando corsi d’acqua, attraversando boschi, percorrendo vallate, dimorando in paesi di straordinaria bellezza come Pieve Santo Stefano, San Sepolcro, Città di Castello, Gubbio, Assisi, Spello, Trevi. E a Spoleto, sistemato in un piccolo albergo, dimora inconsueta data la mia predilezione per i conventi, prima di cena, ho assolto a un mio vecchio desiderio di ripercorrere, senza pesi sulle spalle e rigenerato da una doccia tonificante, i passi dell’amato Goethe sulla passeggiata panoramica sopra la Città fino al famoso acquedotto con i suoi dieci archi che allo stesso tempo è ponte fra una montagna e l’altra, da lui mirabilmente descritto nel
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suo “Viaggio in Italia”. E da quel posto privilegiato ho potuto ammirare nella luce magica del tardo pomeriggio lo spettacolo del paesaggio tutto intorno, dai monti Sibillini ad est, i paesi di Trevi, Foligno, Spello, davanti verso valle, al monte Subasio troneggiante come un immenso panettone al centro della spianata che nei giorni precedenti avevo percorso fin quasi in vetta per scendere a Spello proveniente da Assisi. E li, su quel monte ho potuto vedere, in un contesto di natura selvaggia impressionante, inserito in un sito straordinario fatto di roccia e di vegetazione selvatica, affacciato su un dirupo, l’Eremo delle Carceri dove Francesco era solito rifugiarsi in meditazione con i suoi compagni. Il volo quasi immobile di alcuni rapaci dalle grandi ali spalancate, formavano un’immagine senza tempo di grande suggestione. Dopo aver girovagato per Spoleto, quella sera ho cercato di mettere in fila i ricordi, ma come in un caleidoscopio, questi mi venivano alla mente tanto forti quanto confusi. Ero in giro da parecchi giorni e a quel punto del mio cammino sono stato sfiorato dal pensiero di interromperlo momentaneamente, di dare respiro ai miei ricordi, all’esperienza sin li fatta, giusto il tempo per riviverla mentalmente, per rielaborarla, capitalizzarne i frutti, direbbe un economista. Tanto più perché un vago pensiero mi diceva che, concluso il tratto che credevo più affascinante, quello umbro - toscano, il prosieguo nel Lazio sarebbe stato si piacevole, ma meno spettacolare ed emozionante. E invece mi sbagliavo di grosso perché non sapevo che il bello, se ancora fosse possibile, quello che mi sarebbe rimasto più impresso di quel viaggio, doveva ancora arrivare. La mattina seguente i dubbi della sera prima erano già svaniti, ed in una giornata che si preannunciava mite e splendida, come solo maggio sa regalare, ho continuato proseguendo verso sud. Di lì a qualche giorno passando per la Romita di Cesi e Collescipoli sono giunto al fanta-
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stico borgo medievale di Stroncone, ed è stata la prima sorpresa, direi un primo regalo, un viatico, più che un invito, a proseguire verso la Valle Reatina. A Stroncone mi sono inoltrato nelle sue stradine e viuzze che paiono come una casba medievale, e tra una chiacchiera scambiata con un anziano abitante e qualche foto scattata nella luce magica del tardi pomeriggio, il tempo è passato in fretta. A sera, In una terrazza affac-
ciata sulla valle, seduto su una panchina sotto un platano, sono stato unico spettatore del lento declinare del sole dietro la montagna con le sue sfumature di rosso. Qua e la, brandelli di nuvole screziavano il cielo dando profondità alla scena. Pregustavo, dopo una giornata di saliscendi, la cena in una trattoria del paese ed il riposo della notte. Prima di addormentarmi, quella sera, ho pensato che l’emozione dell’esperienza
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che stavo vivendo era si dovuta alla scoperta di quell’angolo di Paese da me fino allora sconosciuto ma, il modo particolare, direi in punta di piedi, con cui mi avvicinavo a quei posti così intimi ed appartati rendeva quella esperienza ancor più unica e straordinaria. Quella sensazione l’ho paragonata all’ebbrezza della scoperta dei primi viaggiatori di territori mai esplorati e ho pensato anche che, in un mondo che si va sempre più globalizzan-
do ed uniformando intorno al pensiero unico del mercato, un giorno, non molto lontano, perderemo definitivamente il fascino della scoperta del nuovo e del diverso, semplicemente perché il nuovo e diverso non ci saranno più. E sarà una grave e definitiva perdita, perché forse più niente ci sorprenderà. Ho pensato al futuro di questi piccoli borghi dopo l’estinzione di questa ultima, residua generazione di anziani che ancora, in qualche modo, li
tengono in vita. Forse in un prossimo futuro si trasformeranno in villaggi Airbnb? O musei all’aperto? Un velo di malinconia mi ha attraversato un attimo prima di prendere sonno. Uscito prestissimo la mattina, mi sono abbeverato alla fontana del paese e la frescura dell’aria, il rumore di una sedia spostata all’interno di una casa, il canto lontano di un gallo mi hanno salutato per un nuovo giorno tutto da vivere.
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Dopo alcuni chilometri ed una lunga salita, ho valicato, finalmente, nella splendida “Valle Santa” e questa, e tutto quello che mi attendeva, sarà il premio alla determinazione a proseguire fino in fondo il mio cammino. Da li in alto la vista è sublime e si possono ammirare i borghi e i paesi tutt’intorno e i loro eremi, a cominciare da quello di Greccio dove, poco più tardi, arriverò e quel posto, così fresco e riposante, mi accoglierà nella sua
Lungo l’Appennino, reportage fotografico di Antonio Giannini
intimità ed io, liberato le mie spalle dal fardello, mi concederò una riposante visita tra le mura del santuario cogliendone tutta la suggestione. Francesco amava particolarmente l’eremo di Greccio e la Valle Reatina. “Negli anni degli inizi della Comunità”, recita la guida di Angela Serracchioli edita da Terre di Mezzo che porto con me, “la valle aveva accolto amorevolmente lui e i suoi compagni quando Assisi chiudeva le porte a quella banda di straccioni che una volta erano stati giovani di belle speranze. Il primo gruppo della comunità troverà rifugio a Poggio Bustone e negli anni successivi i suoi fratelli e lui soggiorneranno a Greccio, Fonte Colombo a San Fabiano la Foresta che è a Rieti” e queste, appunto, erano le perle che, disposte tutte intorno alla Valle Santa come ad una corona preziosa, mi attenderanno nei giorni successivi. Lasciato l’eremo ed arrivato a Greccio,
dopo la sistemazione presso una casa privata, sono uscito per le vie di questo piccolissimo borgo medievale e, giunto nella stupenda piazza dominata dalla chiesa di San Michele e da una torre campanaria bellissima, ho trovato forse l’unica trattoria del borgo dove, una delle quattro donne sedute a semicerchio davanti all’ingresso, alla mia richiesta mi ha invitato ad accomodarmi ad un tavolo all’interno , ospite unico, di quel fresco e pulito locale dall’arredamento sobrio ed antico . La donna, avanti con gli anni, ha cucinato solo per me un’enorme portata di pappardelle con funghi e, tra un sorso e l’altro di un rosso locale, si è resa di buon grado disponibile a raccontare scampoli della sua vita e quella del paese, in particolare del primo presepio della storia realizzato da Francesco a Greccio e, mentre parlava, ho pensato che sarebbe straordinario trovare sempre qualcuno disposto a
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raccontarti storie. La conversazione era piacevole. La mia interlocutrice, che sulle prime mi era sembrata di pochissime parole, forse stimolata da qualche mia domanda, aveva mostrato tutta la sua loquacità e forza espressiva al punto che con dispiacere ho dovuto, di li a poco, alzarmi per andare via. Bisognava guadagnare il letto per dormire il tempo necessario per ricominciare, l’indomani presto, una nuova giornata di cammino. Avviatomi per un ultimo giro tra le stradine del borgo, prima di rientrare, mi sono domandato qual è il richiamo irresistibile che mi spinge verso questo tipo di esperienza, la vera istanza di questo andare senza posa per vie così poco battute e piene di voci. Non so se è stata una risposta, ma nello stesso tempo in cui mi ponevo quella domanda, quasi a prevenirla, forse influenzato dal canto del gallo udito quella mattina all’alba, ho pensato alle parole di Thoureu che descrivono quel canto come l’espressione della salute e della forza della natura, un messaggio d’orgoglio al resto del mondo, benessere che zampilla dalla sorgente, una nuova fonte delle muse per celebrare l’istante che fugge. E poi “Quando, in preda alla più profonda tristezza, odo da lontano, o nelle vicinanze, il canto di un gallo rompere la terrificante immobilità domenicale delle nostre strade, o la veglia nella casa di un morto, dico a me stesso ‘c’è qualcuno di noi, dopotutto, che
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Prime riprese in Campidoglio (8 settembre 1981), con Sordi, l'allora sindaco di Roma Luigi Petroselli, Milli, Stoppa e il regista Monicelli
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quando alberto sordi vestiva i panni del marchese del grillo Stefano Cambò
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Per i luoghi del cinema tra i set per rendere omaggio all’attore romano di cui ricorre il centenario della nascita
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Ossia… L’istrionico Alberto Sordi e il maestro Federico Fellini. E per omaggiare al meglio questo importante traguardo, nell’articolo che state per leggere e in quello del prossimo mese, vi porterò nei luoghi dei film che più di altri ci hanno fatto conoscere e apprezzare al meglio la loro arte.
I luoghi del cinema
Il 2020 è un anno di anniversari importanti nel mondo del cinema italiano. Due grandi artisti, che spesso hanno lavorato insieme, avrebbero toccato il prestigioso traguardo di quota cento con l’età. Stiamo parlando naturalmente di due colossi della nostra inesauribile produzione.
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Alberto Sordi nel film Un americano a Roma, 1954
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I luoghi del cinema
Iniziamo, infatti, questo insolito numero doppio con il primo grande nome. Forse, fra tutti gli attori, quello che attraverso la sua mimica e il suo modo di recitare è riuscito a rappresentare al meglio lo stereotipo dell’italiano nel mondo, soprattutto negli anni d’oro del nostro cinema d’esportazione. Chi non si ricorda a tal proposito la scena cult del film Un americano a Roma, con il geniale Alberto Sordi che davanti ad un gigantesco piatto di pasta fumante, in un romanesco un po’ storpiato afferma ad alta voce: Maccherone… Tu m’hai provocato ed ora io te magno! Un momento impresso nei cuori dei tanti spettatori che con i suoi film hanno riso e pianto, si sono commossi o si sono lasciati andare alle lacrime per il divertimento. E proprio per omaggiare e allo stesso tempo ricordare uno degli attori più importanti del nostro cinema che oggi vi porterò in giro per il set di uno dei film maggiormente conosciuti ed apprezzati. Stiamo parlando naturalmente de Il Marchese del Grillo diretto dal maestro Mario Monicelli. Era infatti il 1981, quando nelle sale usciva questa pellicola, forse l’ultima tappa della mitica commedia all’italiana degli anni Settanta. La storia del film ci porta subito nella Roma dei primi anni del 1800, quando il marchese Onofrio Del Grillo (Alberto Sordi), nobile romano al servizio del Papa Pio VII, vive la sua vita agiata votata completamente all’ozio, al gioco d’azzardo e agli scherzi a volte pesanti. Il personaggio falsamente conservatore e critico verso l’ordine costituito, prende in giro senza tregua il popolo tanto da riuscire a mettere in scena il suo tranello più riuscito. Farsi sostituire da un sosia (un povero carbonaio con evidenti problemi di dipendenza dall’alcool), nei momenti celebrativi con la sua famiglia e con l’intero star system della nobiltà romana dell’epoca. Il tutto avviene, mentre il vero marchese si invaghisce in senso letterale di Napoleone durante la discesa delle sue truppe in terra italica.
Veduta di Roma, foto di Ines Facchin
Il protagonista tenta addirittura di raggiungere Parigi, convinto che oltre le Alpi il suo modo di vivere agiato sarebbe stato sicuramente apprezzato, ma dovrà ritornarsene con la coda tra le gambe a Roma nel momento in cui Napoleone subisce una tremenda sconfitta militare. Come si può immaginare
dal racconto della trama, gran parte delle scene sono state girate ed ambientate logicamente nel Lazio e nella Capitale, con un occhio particolare per i paesaggi naturali e le zone rurali che meritano di essere visitati da chi avesse voglia di farsi un giro domenicale o una scampagnata fuori programma.
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Grande presenza scenica è data dall’Acquedotto Claudio all’interno dell’attuale Parco degli Acquedotti nella campagna romana, che fa da sfondo ai discorsi del Marchese con un ufficiale francese prima che entrambi vengano fermati all’interno della carrozza, da un gruppo di facinorosi briganti. La scena avviene davanti
ha ideato il colonnato di San Pietro, le statue di Apollo e Dafne alla Galleria Borghese, l’Estasi di Santa Teresa, la fontana del Tritone in Piazza Barberini e la Barcaccia davanti la famosa scalinata di Piazza di Spagna solo per citarne alcuni). Dalla campagna laziale ci spostiamo alla Città Eterna per parlare della residenza
del marchese nel film. Nonostante, nella finzione sembra essere situata in una strada residenziale di Roma (considerando naturalmente l’epoca) si tratta del celebre Palazzo Pfanner di Lucca, dimora nobiliare del secolo XVII mentre per le scene esterne si è fatto ricorso alla Casa dei Cavalieri di Rodi nella Capitale.
I luoghi del cinema
alle rovine della Chiesa di San Bonaventura a Canale Monterano, un piccolo paese di stampo rurale non distante dal Lago di Bracciano. Il luogo sacro, diventato con il passare inesorabile del tempo un vero e proprio rudere, merita una visita perché è stato edificato su un progetto originale di Gian Lorenzo Bernini (l’artista che
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Lago di Vico, foto di Domenico Mancini, grazie a www.parchilazio.it/vico per la gentile concessione
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Parco degli Acquedotti, (fonte: www.turismoroma.it)
ma riserva naturale e per esigenze di scenografia sfondo ideale dell’incontro tra il protagonista e l’esercito francese in discesa sulla Penisola. La seconda ha a che fare invece con la scena più famosa del film. Quella del lancio delle monete bollenti ai poveri mendicanti, con il marchese che si fa beffa di loro dall’alto. Ebbene, tutto il momento è stato ripreso nella bellissima Villa Grazioli a Grottaferrata. E con le immagini di questa suggestiva dimora immersa nel verde, lasciamo che il film scorra verso i titoli di coda con la frase che ha caratterizzato da sempre la vita di Alberto Sordi, forse l’attore che più di altri è riuscito a far apprezzare il nostro cinema in tutto il mondo. “La nostra realtà è tragica solo per un quarto: il resto è comico. Perché alla fine si può ridere su quasi tutto!”
I luoghi del cinema
Altra location simbolo è quella del Teatro Sociale ad Amelia (provincia di Terni). Qui si esibiva nella pellicola Olimpia, la bella cantante lirica di origini francesi, scandalo in una Roma ancora abituata ad ascoltare solo le voci maschili. Oltre ai palazzi, si è optato per esigenze di copione anche ai Casali, come quello della Civita nella campagne presso Tarquinia (Viterbo) e quello di via delle Pietrischi a Manziana (provincia di Roma). Quest’ultimo, per la sua posizione strategica ed isolata sui Monti Sabatini, è stato spesso utilizzato dal cinema italiano per ricreare al meglio l’atmosfera rurale di una certa epoca del lontano Ottocento. Concludiamo il nostro tour nei luoghi de Il Marchese del Grillo con due tappe fondamentali. La prima è il Lago di Vico, specchio d’acqua di origine vulcanica, patrimonio dell’omoni-
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Roma, ingresso giardino Palazzo Barberini, foto di Ines Facchin
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Foto di Mario Cazzato
lecce sconosciuta. il palazzo dei patrioti e di un venerabile Mario Cazzato
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Rileggendo i libri antichi... e passeggiando tra le vie della città antica
Salento Segreto
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È
palazzo Massa-Palmieri, poi Massa-Ghezzi, quello che potete osservare nelle foto. Si tratta di una struttura tardosettecentesca, da notare lo straordinario controsoffitto del salone realizzato da Serafino Elmo. Fu voluta forse da Girolamo Massa barone di Galugnano, padre dei "patrioti" Michele e Oronzo, l'ultimo dei quali fu giustiziato a Napoli nel 1799 nel corso della reazione antigiacobina. I due nacquero in questo palazzo che nel 1832, come prova la pianta dell'architetto Raf-
faele Mazzei, fu diviso in due quote tra i Massa e i Ghezzi, baroni di Carpignano. Qui il 19 agosto 1872, da una famiglia nobile, nacque il "venerabile" Michele Giuseppe Ghezzi le cui spoglie mortali riposano nella chiesa di Fulgenzio. Il giovane cadetto fu colpito a sedici anni da una malattia gravissima la cui guarigione si attribuì all’intercessione della Madonna di Pompei. Nacque in lui il desiderio di vivere la carità verso i più poveri e divenne noto come il “Conte con la bisaccia” per le sue instancabili
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Salento Segreto
Foto di Mario Cazzato
questue, affrontate tra prove fisiche (gli fu amputato il mignolo di un piede) e consolazioni. Dal Natale 1954 si aggravò: la gente iniziò a visitarlo, per ricambiare l’amore che aveva avuto per loro. Fra Giuseppe morì il 9 febbraio 1955, nella sua cella del convento di Sant’Antonio a Lecce. È stato dichiarato Venerabile col decreto promulgato il 18 novembre 2000. Il palazzo si trova in via Francescantonio D'Amelio, poeta leccese il primo ad aver dato vita ad una raccolta di liriche in vernacolo. Nessuna memoria, come quasi dappertutto a Lecce, ricorda questi illustri personaggi. Lecce sembra una città senza memoria, muta eppure...
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