santa sofia
Alla scoperta dell’antica città marinara perla del mar Tirreno
Dopo ottantasei anni la Basilica bizantina patrimonio Unesco ridiventa moschea
Anno XV - n 7-8 luglio/agosto 2020 -
amalfi
anno 153 numero 7 luglio/agosto 202 0
massimo sestini ricordando federico fellini
il mare non bagna napoli
Per la rubrica i luoghi del cinema reportage tra i murales di Borgo San Giuliano
Un reportage fotoletterario per scoprire il cuore antico e l’anima partenopea
primo piano
le novitĂ della casa
IL RAGGIO VERDE EDIZIONI
ilraggioverdesrl.it
EDITORIALE
Mare Nostrum, 2014 © Massimo Sestini
Proprietà editoriale Il Raggio Verde S.r.l. Direttore responsabile Antonietta Fulvio progetto grafico Pierpaolo Gaballo impaginazione effegraphic
Redazione Antonietta Fulvio, Sara Di Caprio, Mario Cazzato, Nico Maggi, Giusy Petracca, Raffaele Polo
Hanno collaborato a questo numero: Lucia Accoto, Dario Bottaro, Giovanni Bruno, Stefano Cambò, Mario Cazzato, Walter Cerfeda, Sara Di Caprio, Giusy Gatti Perlangeli, Dario Ferreri, Sara Foti Sciavaliere, Antonio Giannini, Raffaele Polo, Stefano Quarta, Giacomo Vespo Redazione: via del Luppolo, 6 - 73100 Lecce e-mail: info@arteeluoghi.it www.arteeluoghi.it
Iscritto al n 905 del Registro della Stampa del Tribunale di Lecce il 29-09-2005. La redazione non risponde del contenuto degli articoli e delle inserzioni e declina ogni responsabilità per le opinioni dei singoli articolisti e per le inserzioni trasmesse da terzi, essendo responsabili essi stessi del contenuto dei propri articoli e inserzioni. Si riserva inoltre di rifiutare insindacabilmente qualsiasi testo, qualsiasi foto e qualsiasi inserzioni. L’invio di qualsiasi tipo di materiale ne implica l’autorizzazione alla pubblicazione. Foto e scritti anche se pubblicati non si restituiscono. La collaborazione sotto qualsiasi forma è gratuita. I dati personali inviateci saranno utilizzati per esclusivo uso archivio e resteranno riservati come previsto dalla Legge 675/96. I diritti di proprietà artistica e letteraria sono riservati. Non è consentita la riproduzione, anche se parziale, di testi, documenti e fotografie senza autorizzazione.
Un numero doppio e una foto che ha fatto il giro del mondo. è Mare Nostrum che nel 2014 valse al celebre fotogiornalista Massimo Sestini il secondo premio del World Press Photo 2015. Un barcone carico di migranti che sembra quasi una freccia nel Mediterraneo solcato per andar incontro alla speranza nonostante la paura. Perché di questo si tratta quando non si ha nulla da perdere se non la propria vita e purtroppo spesso succede che le cose vadano così e dimentichiamo che il nostro mare bellissimo che custodisce i segreti della storia diventa anche la tomba per molti, troppi, essere umani. Ed è il mare il sottile fil rouge che si insinua tra le pagine di questo numero particolare di Arte e Luoghi che si congeda per una pausa estiva dai suoi lettori regalandovi - si spera - piacevoli letture e riscoperte. Grazie a Sara Foti Sciavaliere facciamo tappa ad Amalfi, antica repubblica marinara, e al Museo del mare di Nardò con i suoi interessanti reperti e un vero e proprio viaggio nella storia esplorando i resti romani dell’antica Lupiae restando nel cuore di Lecce scelta dalla Maison Dior per il lancio della sua nuova collezione. Ancora luoghi in primo piano grazie alla rubrica di Raffaele Polo che ci parla della misteriosa Torre di Leverano mentre Stefano Cambò ci conduce a Varese e a Borgo San Giuliano tra i murales dedicati a Federico Fellini. Antonio Giannini invece ci regala un insolito reportage percorrendo il cuore antico di Napoli e Dario Bottaro ci svela la maestosità dei monumenti e la bellezza della costa siciliana sud occidentale. Puntuali, troverete le proposte di lettura a cura di Lucia Accoto, le considerazioni del nostro psicoterapeuta Giovanni Bruno e l’angolo della poesia di Giusy Gatti Perlangeli. Non manca lo sguardo all’attualità con gli articoli degli economisti Walter Cerfeda e Stefano Quarta mentre Dario Ferreri per Curiosar(t)te ci fa conoscere l’artista Chris Mars. Se vi trovate nel Salento oltre a visitare i monumenti più celebri come ha fatto l’influencer Chiara Ferragni vi invito a visitare la chiesa di Sant’Antonio abate a Carmiano per ammirare sull’altare maggiore le tele realizzate dall’artista Francesca Mele servirà a riflettere sul rapporto arte e fede. E il pensiero non può che andare in Turchia all’indomani della conversione della basilica di Santa Sofia, patrimonio Unesco, in moschea, come ci racconta Sara Di Caprio. Buona Estate. (an.fu.)
SOMMARIO luoghi|eventi| itinerari: girovagando i a lupiae 32| amalfi 70| la costa sud occidentale della sicilia 88 | il museo del mare di nardò 106 | ritorno a napoli 140 arte: massimo sestini 4 |francesca mele 26 alberto de lazzari 44 | renato centonze 32 musica: cuore di ceramica 86 | rebibbia pasolini e una chitarra 87 i luoghi della parola: | i luoghi della parola| santa sofia 16 | senza più alibi 50 | nostalgia canaglia 54 |dior a lecce 60 | la realtà del due 66| informate partecipare 68 curiosar(t)e: chirs mars 118 | interventi letterari|la torre di leverano 22 | salento segreto 136 i luoghi della poesia 58 |salento segreto 170 cinema premio Verdone 48 | estate a corte 60 |sqizo viaggio nella mente 37 | i luoghi del cinema : luca guadagnino vs dario argento 126| amarcord federico fellini 160 libri | luoghi del sapere 106-108 |#ladevotalettrice 136-138 i luoghi nella rete|interviste| il concorso: il mare in una stanza 45 | m come miele, il concorso 134 Numero 7/8- anno XV - luglio/agosto 2020
la prospettiVa zenitale l’inVisibile di massimo sestini Antonietta Fulvio
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“L’Aria del tempo” al Castello Carlo V di Lecce fino al 30 settembre la personale del fotogiornalista curata da Kunstaun
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” ”
“Ecco il mio segreto. È molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi”
Antoine de Saint Exupèry, Il Piccolo Principe
LECCE. L’essenziale è invisibile agli occhi. Così scriveva Antoine de Saint Exupery, il filosofo aviatore, nel suo Piccolo Principe. E viene quasi naturale associare questa frase alle foto di Massimo Sestini nel progetto espositivo “L’aria del tempo” che hanno trovato posto, dal 2 luglio al 30 settembre 2020 al Castello Carlo V di Lecce a cura di Kunstaun in collaborazione con RTI Theutra – Oasimed. Un rimando dettato dalla cifra stilistica di Massimo Sestini capace di trasformarsi in “aviatore” salendo su in alta
quota a duemila piedi per mostrare ciò che non si vede. Trovare lo scatto perfetto. Quello della prospettiva zenitale capace di tradurre in meravigliose immagini inaspettate geometrie. Sono le geometrie dei corpi e delle loro ombre viste dall’alto, ma non da un drone, come spesso ci mostrano le pur belle vedute ad uccello che la fotocamera - telecomandata dall’uomo - riesce a catturare. Le sue foto sono diverse. Sono un concentrato di passione per la fotografia, intuito e abilità tecnica insieme ad una
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Massimo Sestini, campo di pomodori, Puglia, 2015 Š
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Alcune immagini dell’allestimento della mostra “L’aria del tempo” di Massimo Sestini al Castello Carlo V di Lecce
buona dose di rischio, tanta esperienza e un pizzico di fortuna. Sono insoliti punti di vista vere e proprie sfide quelle che il fotogiornalista internazionale Massimo Sestini riesce a realizzare. E la sua lunga e brillante carriera professionale ne è costellata. Nel suo caso potremmo parlare di una “costellazione di immagini” e la definizione non è poi tanto lontana dalla realtà. Le sue fotografie sono scatti dal cielo, sguardi impossibili per noi comuni mortali con i piedi ben saldati a terra. Nel 2016 per la Polizia di Stato, ad esempio ha realizzato un calendario zenitale, cioè solo fotografie in pianta ortogonale dal cielo e all’opposto, da sottoterra, dal nadir. «La mia fortuna è di essere nato appassionato di fotografia, essere riuscito a fare della mia passione un mestiere» ha raccontato in un insolito vernissage - a porte chiuse, riservato alla stampa - a causa delle misure anti covid. E si è raccontato Massimo Sestini, nel dialogo con lo storico dell’arte Roberto Lacarbonara. Andando a ritroso, nel tempo, ai suoi esordi. da “paparazzo” a caccia di scoop a Porto Cervo, in Costa azzurra e imparando a scattare “in lontananza”. «Anche il gos-
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sip ha una sua funzione nel raccontare la storia sociale del nostro paese e fare il paparazzo mi ha insegnato la caparbietà, la costanza, fare cose che normalmente non si possono fare, travestirsi, avere una faccia tosta. E oltre a fare le inchieste con fotografie da vicino mi ha insegnato che si può fare una fotografia graffiante anche da lontano.» E di foto graffianti ne ha firmate tante. Dai concerti rock, la cronaca per i quotidiani locali al primo scatto che gli valse la copertina sulla rivista tedesca Stern: l’attentato al Rapido 904 Oltre a seguire la cronaca, fonda anche l’Agenzia omonima, Massimo Sestini è sempre, come si dice in gergo, sulla notizia. Dagli avvenimenti d’attualità agli scatti “rubati” ai personaggi pubblici: da Carlo d'Inghilterra fotografato a Recanati mentre dipinge un acquerello, a Licio Gelli ripreso a Ginevra mentre è portato in carcere appena costituitosi dopo la fuga in Argentina, al clamoroso bikini di Lady D. Testimone del proprio tempo e purtroppo anche degli eventi che hanno cambiato la Storia: fotografa la tragedia della Moby Prince e sue sono le foto dall’alto degli attentati al giudice Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che documentano la violenza immane, la cattiveria di cui gli uomini sono capaci. Lo ha ricordato quello scatto su Capaci, dall’alto dell’elicottero che sorvolava il luogo della tragedia dove non si vedeva nulla, né tanto meno immaginare di realizzare uno scatto. Inquadrare tanto orrore. «è stato un pugno
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Massimo Sestini, Riserva naturale salina di Margherita di Savoia, Barletta- Andria, Puglia , 2015
al cuore” è il commento alla domanda cosa ha provato poi nel vedere ciò che era riuscito a scattare. Un pugno al cuore la visione del cratere prodotto dall’esplosione del tritolo con cui i mafiosi avevano letteralmente riempito il fondo dell’autostrada Trapani Palermo, un pugno al cuore quelle auto accartocciate... La croma bianca del magistrato seppellita dalla polvere, da ciò che restava dell’asfalto... Uccidere senza via di scampo mostrando in maniera inequivocabile il potere del male. Ecco cosa continua a raccontarci quella foto facendoci rabbrividire e ammutolire. Potente è anche l'immagine della simulazione dell’attentato di Capaci realizzata a Cecina (Livorno) un’operazione che doveva restare segreta ma non per Sestini che riesce a scattare la foto a bordo di un biposto. Ci si resta inchiodati davanti a quella inquadrature che raccontano quell’amarissima primavera del 1992. Come, per altri versi fu amarissima quella del 2009 a L’Aquila, ce lo ricorda la foto delle 205 bare allineate delle vittime del terremoto nel funerale di stato a cielo aperto. E ancora l’incendio del
teatro La Fenice, (1996), il cimitero dei barconi a Lampedusa (2014). Impaginata in modo rigorosa ed efficace, “L’aria del tempo” srotola davanti ai nostri occhi eventi storici, esclusivi come il Giubileo del 2000, ripreso dall’alto, gli scontri di Genova, i funerali di Papa Paolo Giovanni II ripresi dallo spazio aereo vietato che Sestini è il solo a sorvolare. Immagini che riportano a galla emozioni del nostro recente passato. Sequenze che mostrano la forza comunicativa ma anche estetica della sua fotografia: la bellezza geometricamente perfetta delle frecce tricolori, la Barcolana, la più importante regata velica del mondo a Trieste (2017), i fenicotteri pronti alla migrazione (2015, Margherita di Savoia), la raccolta dei pomodori nelle campagne salentine. Quando l’immagine si fa poesia. Come quando si osserva dall’alto lo spettacolo del litorale livornese con la spiaggia bianca di Rosignano Solvay e quel rosa che non ti aspetti delle saline di Santa Margherita di Savoia catturate dalla prospettiva aerea che svela strutture uniche. In una sorta di “ironica”
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Il fotogiornalista Massimo Sestini durante la serata di apertura della mostra; sotto selfie finale al termine della conferenza stampa
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Alcune immagni dell’alletimento della mostra “L’aria dle tempo” al Castello Carlo V di Lecce
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Massimo Sestini, Rosignano Solvay Livorno, 2013 ©
contrapposizione le spiagge affollate di Ostia nel ferragosto 2005 e quelle di Pisa nell’estate 2013 gli ombrelloni perfettamente distanziati sembrano suggerire l’immagine dell’estate attuale post Covid... Ma da dove nasce l’idea di scattare dall’alto? «L’input di andare da un’altra parte per fare una foto diversa, magari brutta ma unica, è continuare quella scuola di fotografia graffiante - ha spiegato. Prendendosi rischi e impiegando risorse economiche notevoli. Come ha ricordando a proposito dello scatto fatto a Capaci quando chiese al pilota di portarlo dove si poteva volare e di smontare il portellone dell’aeroplano per dargli modo di fotografare. “Non si vedrà niente da laggiù” gli aveva detto il pilota. Eppure anche da così lontano dove ad occhio nudo non vedi niente c’è qualcosa che puoi fotografare e se con l’esperienza con gli anni riesci a capire questo meccanismo riesci a raccontare cose “invisibili”. Andare oltre la paparazzata che “è una forma di giornalismo ma non di creatività particolare” per raccontare cose e fatti di cronaca da un punto di vista diverso. Ed è ciò che inizia a fare
dagli anni 2000, lo scatto in prospettiva zenitale, ovvero fotografie da un punto perfettamente perpendicolare al soggetto ritratto. E a bordo degli elicotteri della Polizia nasce nel 2016 dopo due anni di lavoro la mostra “Orizzonti d’Italia dagli elicotteri della Polizia di Stato” un inedito ritratto aereo del nostro Paese da Lampedusa alle Dolomiti, una mostra approdata in tutto il mondo (MAM di Mosca, Vietnam, Australia). E rigorosamente dall’alto nascono le foto del progetto “L’aria del tempo” (che è anche un volume edito da Contrasto Books), un racconto narrativo della storia degli ultimi quarant’anni del nostro Paese, raccontati per immagini dallo stesso autore e sempre dallo stesso punto di vista, cioè dall’alto. Alcune foto lo ritraggono in azione, tra cielo e mare a bordo di velivoli talvolta militari, caccia Eurofighter, come è avvenuto per realizzare immagini che hanno fatto il giro del mondo: l’alluvione nel 2011 in Liguria che porta i detriti fino al mare che avvolgono il promontorio su cui si erge il castello Doria mentre tra le rocce si riconosce la cupola della Chiesa di Santa Maria d’Antiochia (La Spezia). La Nave
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Mare Nostrum, 2014 e naufragio Costa Concordia, Isola del Giglio, Grosseto, 2012 di Massimo Sestini tra le foto in mostra al Castello Carlo V di Lecce
scuola Amerigo Vespucci, “la più bella nave del mondo” all’ombra della luna piena con gli allievi dell’Accademia militare sugli alberi della nave in esercitazione (Livorno, 2013). O la nave della Marina militare che verifica il funzionamento del faro illuminato dalla tempesta sull’isola di Montecristo (Mar Tirreno 2014). Ancora mare, il Mediterraneo nel 2014, sulla verticale un gommone abbandonato a largo. Quasi un preludio alla foto del secolo, Mare Nostrum, 2014, tra le Top 10 images of 2014 da TIME, vincitrice del secondo premio al World Press Award 2015 nella categoria General News. Una foto che nasce dalla collaborazione già avviata con la Marina militare che gli consente di assistere all’Operazione Mare Nostrum, organizzata dal governo italiano per trarre in salvo migranti e rifugiati dopo la strage di Lampedusa del 2013. Sestini è con i membri dell’equipaggio della Fregata Bergamini, dopo molti giorni di mare in tempesta, il 7 giugno si avvista un barcone stipato di gente. Sono quei volti colti di sorpresa mentre guardano l’elicottero che li sta sorvolando. La missione si conclude con il salvataggio dei migranti, ma quella foto da sé racconta la tragedia e il rischio, il desiderio di vivere e la disperazione di uomini e donne in fuga verso la speranza. Se con un pizzico di fortuna (che non guasta mai) lo scatto può essere questione di un attimo, l’idea della foto dei migranti sul barcone nasce in realtà quattro anni prima ha rivelato Sestini «quando da fotografo, viste le migrazioni sempre più crescenti, penso che mi sarebbe piaciuto tantissimo fare una foto di gruppo spontanea nella storia della fotografia. Da fotografo non penso alle migrazioni penso a cinquecento persone su un guscio di noce che forse potrebbe se un giorno riuscissi mai a ritrarli all’improvviso con
un elicottero sulla loro verticale, ma davvero all’improvviso, avere questi volti che guardano tutti insieme.» Ribaltare in pratica il punto di vista che ha sempre caratterizzato i ritratti, impostati sempre frontalmente a chi li ritrae e mai spontanei. Da quella foto è partito il progetto "Where Are You?" nel corso dei cinque anni successivi sono stati rintracciati e fotografati una decina tra i migranti che erano su quella barca, ritratti nella loro vita definitiva, in giro per l'Europa. Realizza così un documentario con National Geographic trasmesso in tutto il mondo. L’idea è di riuscire a rintracciare quei migranti e fotografarli nella loro nuova vita. Dare un seguito a quello scatto, riprendere il racconto ancora da un altro punto di vista. La fotografia è un linguaggio universale non ha bisogno di interpreti o traduzioni ha spiegato rivelando il suo stare in prima linea, le sue scelte di documentare gli eventi di cronaca con scatti che sono entrati nell’immaginario collettivo. Come quello della nave Costa Concordia affondata nel 2012 al largo dell'isola del Giglio adagiata su un fianco. Nella sala Maria d’Enghien la troviamo posizionata accanto a quella di Mare nostrum. Il mare è lo stesso sia che lo si attraversi per inseguire un destino migliore sia perché animati dal desiderio di viaggiare e conoscere nella più innocente delle crociere per puro spirito vacanziero. Quasi due facce della stessa medaglia, la miseria e il lusso. Ma se per i naufraghi del Concordia il destino di morte fu una tragica se pur colpevole fatalità per i migranti che la fame e la guerra fanno saltare su un barcone, che è davvero un guscio di noce, il destino lo si può cambiare. Basterebbe poco, recuperare la sensibilità e l’umanità smarrite nella polvere del malaffare e tra le onde dell’egoismo e dell’indifferenza.
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Foto di Eduart Bejko da Pixabay
santa sofia da museo a moschea Sara Di Caprio
È una delle basiliche riportate su tutti i libri di storia dell’arte. Non è solo esemplare per i suoi mosaici, per l’imponenza della sua cupola che “contiene” lo splendore del passato di “Costantinopoli” e “Bisanzio” ma è un simbolo, patrimonio dell’umanità. Edificio capolavoro dell’architettura bizantina: Santa Sofia a Instabul è intitolata dal greco “Haghia Sophìa” alla Divina sapienza, che di certo non ha ispirato il governo Turco con la sua riconversione. La costruzione attuale della basilica iniziò nel 532 d.C. per volere dell’imperatore Giustiano I e durò solo cinque anni sotto la guida di due architetti e matematici: Antemio di Tralles e Isidoro di Mileto. All’epoca fu riconosciuta come la basilica più grande della cristianità. Ha una pianta a croce greca iscritta in un perimetro quasi quadrato, è dotata di un ampio quadriportico e un doppio nartece (che era in antichità lo spazio riservato ai catecumeni). La vera protagonista è la cupola al centro che ha un diametro di 31 metri, rico-
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struita dopo un terremoto nel 558 d.C. dal figlio del precedente architetto Isidoro il Giovane. La basilica di Santa Sofia ha attraversato la storia e ha “superato” diversi eventi come il periodo iconoclasta bizantino quando per volere di Leone III l’Isaurico furono rimosse statue e immagini religiose. Ha subito incendi e terremoti e fu saccheggiata durante la Quarta Crociata dai cristiani che trafugarono diverse reliquie. Ha conosciuto anche la devastazione del sultano Maometto II che nel 1453 la fece diventare una moschea, intonacando i mosaici parietali e aggiungendo dei minareti, status questo che durò fino al 1935. Fu il primo presidente turco Mustafa Kemal Ataturk a trasformare l’edificio in un museo, promuovendo una lunga campagna di restauro che permise di rimuovere l’intonaco che imprigionava lo splendore dei mosaici. Santa Sofia è un luogo dove si rincorrono superfici curve e rette e che per come è stata concepita produce un effetto di dilatazione dello spazio.
Foto di Robyn Stewart da Pixabay
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Quello che emerge dal punto di vista architettonico è il superamento della concezione classica di parete. Fondamentale è il ruolo della luce che ha la capacità di rimanere “sospesa” rimbalzando all’interno non a caso, Procopio di Cesarea descriveva questa impressione: «lo spazio non sia illuminato dall’esterno, ma che la sua luminosità sia generata dall’interno». Lo stesso effetto si riverbera nelle parole di Paolo Silenziario: «Di sera una tale luce si diffonde dal tempio su ciò che lo attornia che lo si potrebbe chiamare un sole notturno […]. Il navigatore non ha bisogno d’altro faro, gli basta guardare la luce del tempio». Il fruitore ancora oggi, come allora, rimane abbagliato dalla luce che rimbalza sulle tessere dei mosaici sul modo in cui vibra sulle superfici
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che compongono l’arredo, dalle colonne verdi di marmo serpentino della Tessaglia al rosso del porfido di quelle nelle esedre; alle sfumature grigie e azzurro del marmo che compongono pavimento e pareti. La professoressa Maria Rosaria Marchionibus ne “I colori nell’arte sacra a Bisanzio” coglie tutte queste sfumature: «una superficie marina increspata da onde blu, che sembrano provocate da un sasso gettatovi all’interno… Per oltre un millennio i visitatori hanno…notato che le ondulate venature bluastre del marmo rendevano tale pavimento simile a un mare gelato. Persino Maometto II, in occasione della conquista di Costantinopoli, aveva ammirato la ‘distesa del mare in tempesta’ di S. Sofia». All’epoca venne chiamato l’ombelico del mondo “omphalion” e oggi ritorna al centro di una
Foto di Abdulmomn Kadhim da Pixabay
questione molto delicata. Se la lungimiranza del primo presidente turco aveva aperto Santa Sofia a tutti rendendola, di fatto, patrimonio dell’umanità e avvicinando “culturalmente” la Turchia all’Europa, il presidente Erdogan fa marcia indietro. A partire dal 24 Luglio Santa Sofia si riconverte in moschea, creando una frattura con l’Unesco. Uno dei requisiti per preservare un luogo dal valore eccezionale come questo è il libero accesso al pubblico. È normale dunque che la preoccupazione dell’organizzazione sia proprio la tutela perché il governo di Ankara aveva preso l’accordo di garantire l’accesso ad ogni individuo senza discriminazioni. Certo la libertà di culto è un diritto di tutti gli uomini e il governo turco garantisce che la basilica continuerà ad essere accessibile, come altre moschee e chiese in tutto il mondo. Ma di fatto il bellissimo pavimento di marmo blu verrà coperto dai tappeti per la
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Foto di Vedat Zorluer da Pixabay
preghiera islamica. E la domanda che frulla nella mente degli storici dell’arte è: cosa succederà ai mosaici? Il culto islamico vieta la rappresentazione dell’immagine. Sicuramente l’elettorato nazionalista islamico che tanto ha applaudito e voluto questa riconversione pretenderà anche la copertura, l’oscuramento, di quei mosaici che invece permettono il riverbero della luce attribuendo a Santa Sofia l’atmosfera “aurea” e divina. Si è parlato di un sistema di tende, ancora da chiarire. Si spera e si “prega” che non ci sia un’adesione completa a quel passato che portò ad una copertura dei mosaici a base di intonaco. Si sentono voci troppo sconnesse e controverse da Ankara. Una delle ultime dichiarazioni del presidente Erdogan cerca di rassicurare il destino dei mosaici che “nessuno toccherà” ma lo stesso giorno, ricorda l'arciprete Nikolay Balashov, vice direttore del dipartimento Relazioni esterne del Patriarcato di Mosca “il suo ministro della Cultura dichiara che l'arte cristiana, ritenu-
ta inappropriata per una moschea, sarà esposta altrove”. Da un lato le autorità turche assicurano che i pellegrini potranno vedere le opere d’arte quando non si tengono le funzioni religiose, dall’altro - rimarca lo stesso Balashov “viene riferito che la lettura del Corano si terrà 24 ore al giorno”. È triste che la libertà di culto sia stata usata come pretesto per un ritorno al passato, un modo per coprire invece che liberare. Si torna verso un oscurantismo, in tutti i sensi. Il principio della libertà di culto è basato sulla conoscenza e quindi sulla cultura. È la cultura che genera libertà che non ha bandiere, non ha colori, non ha pregiudizi. Allo stesso modo l’arte si decontestualizza dal contesto che l’ha voluta. In questo caso l’idea di un museo rendeva neutra l’influenza religiosa restituendoci soltanto una bellissima opera architettonica che tutti potevano ammirare. Quando si elimina un museo ci perdono tutti.
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Leverano, Torre Federiciana, foto di Alessandro Romano
la torre di leVerano da lassù si Vedrà il mare? Raffaele Polo
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Perché in un comune che non si trova sulla costa si trova una torre di avvistamento? Cosa si scorge dall’alto dei suoi ventotto metri?
I LUOGhI DEL MISTERO
”
I
luoghi 'misteriosi' sono spesso sotto i nostri occhi. Ci passiamo davanti, indifferenti, di giorno. E di notte non facciamo caso alla loro presenza, immersi come siamo nelle nostre routine. Ad esempio, la Torre di Leverano (la Vecchia Torre, che dà il nome alla Cantina vinicola che produce l'ottimo vino, quando abbiamo a tavola la bottiglia di ' amabile', non prestiamo attenzione all'etichetta che raffigura, appunto, la vecchia torre. Eppure è lì, davanti ai nostri occhi, e noi non ce ne accorgiamo neanche...) E, poiché ricordiamo sicuramente che Leverano non è un
comune costiero, ci viene spontaneo chiederci se, dalla sommità della Vecchia Torre, si possa vedere il mare. In fondo la Torre a questo serviva, all'avvistamento del nemico che veniva dalle onde. Possibile, possibile che non si veda il mare da lassù? Ecco allora che, come il protagonista del romanzo ' Le fiamme di Supersex', vogliamo scoprire questo ulteriore 'luogo misterioso' del Salento. Facciamoci guidare, perciò, nell'avventura alla scoperta della sommità della Vecchia Torre. “.... Con Mario, ci siamo ritrovati ai piedi della torre. Lui si
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I LUOGhI DEL MISTERO
Leverano, Torre Federiciana, foto di Alessandro Romano
era procurato, non so come, la chiave del portoncino, dissimulato nel grande portone di ferro. Siamo entrati nella grande torre, spoglia e impressionante al suo interno. 'È alta 28 metri, forse un poco di più' ha mormorato Mario, guardando in alto. Ma sembrava molto, molto più alta... 'Pensare che è qui da oltre sette secoli' ho detto io, cominciando a salire, lungo il muro, dove c'era una specie di scalinata che, ogni tanto, s'interrompeva. L'interno della torre era in ombra, ma dai finestroni penetrava la luce di quel pomeriggio caldo e assolato. La torre di Leverano ha la caratteristica di essere composta da due parti: c'è una sorta di piedistallo, una base, dalla quale poi s'innalza la torre vera e propria. L'interno, per l'incuria e per il tempo, era completamente spoglio, crollati i pavimenti che coprivano i tre piani originali, solo lungo le mura interne si notavano i resti di quella che era stata un'architettura sobria e finalizzata a far raggiungere, presto, la sommità della fortezza. Non era per nulla facile, adesso, arrivare fino a sopra, decisamente non si intravedeva la possibilità di utilizzare le scale superstiti, crollate in buona parte. Però, in alta, si vedeva chiaramente che la luce penetrava attraverso il muro. C'era, insomma, un'apertura, un varco che portava proprio sulla cima della torre. Siamo saliti fino ad un certo punto, attenti a non precipitare giù. Nella torre non c'era, a prima vista, possibilità di inerpicarsi. Ma, guardando attentamente, si poteva notare che, dove non c'erano i gradini, alcune asperità guidavano verso l'alto. Io sono partito speditamente, cominciando a salire. Pareva che, come in un percorso a ostacoli, ci fosse sempre la possibilità di superare od aggirare la momentanea difficoltà. (…) La mia idea di vedere il mare, da Leverano, era paragonabile a quella, che immaginavo superba e titanica, degli uomini di Babele? Mi sono sentito pungolato e
ho moltiplicato gli sforzi, scivolando e annaspando ma raggiungendo, con qualche rischio, l'apertura minuscola che portava al tetto merlato della torre. Anche qui, la stabilità era precaria e, incredibile, c'erano cespugli di capperi dappertutto. Mi sono affacciato, tenendomi saldamente ad un merlo che sporgeva nel vuoto. Ho guardato in lontananza, verso l'orizzonte, verso ovest. I merli della torre di Leverano erano singolari: protesi orizzontalmente, sembravano rostri minacciosi e impedivano, in qualche modo, di guardare giù. Ma il mio interesse era per quello che si poteva vedere in lontananza, il motivo dominante di tutti i miei sforzi, era il mare....” Ecco, adesso volete una risposta al chiaro interrogativo: dalla sommità della torre di Leverano si vede il mare? Poiché si tratta di un luogo, tutto sommato, 'misterioso', manteniamo questo dubbio, nell'invitarvi, se proprio non vi va di compiere un'escursione sulla Torre, a leggere ' Le fiamme di Supersex', Lupo 2007, pag 57 e seguenti.
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Interno della Chiesa di Sant’Antonio Abate, Carmiano Annunciazione, Trasfigurazione e Cena di Emmaus di Francesca Mele
bellezza arte e fede. le tele di francesca mele a carmiano Antonietta Fulvio
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Dieci anni fa, sull’altare maggiore della chiesa intitolata a Sant’Antonio Abate, veniva collocato il ciclo pittorico realizzato dall’artista novolese
”
CARMIANO (LECCE). Bellezza, arte e fede. Un trinomio, per dirla con termini matematici, che da sempre sta alla base delle grandi opere artistiche che impreziosiscono le chiese di tutt’Italia. In giro nel Salento, alla ricerca di luoghi da ri-scoprire ci si imbatte a Carmiano, quasi per caso, nella Chiesa di Sant’Antonio Abate la cui architettura semplice e moderna rimanda agli anni settanta. Non ce ne voglia la Diocesi ma l’esterno appare poco più che un cubo di cemento sorretto ai lati da
due pareti curve che superando il corpo centrale, sorreggono la torre campanaria destra, e la croce a sinistra, lontana dallo sfarzo dei ricami in pietra leccese cui ci ha abituato la visione del barocco - anche minore - che caratterizza il territorio. La vera sorpresa la riserva l’interno. Entrando nell’edificio religioso, consacrato al Santo del fuoco nel novembre 1974, lo sguardo è calamitato verso l’altare maggiore che si raggiunge percorrendo l’unica navata centrale. Sono lì da dieci anni, la ceri-
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L’artista Francesca Mele mentre dipinge “Cena di Emmaus”
monia di consacrazione si svolse alla presenza del vescovo il 31 maggio 2010, incastonate tra le pareti di cemento le tre tele dell’artista novolese Francesca Mele volute all’epoca dall’ex parroco don Gianni Ratta. Abbiamo incontrato l’artista Francesca Mele che ringraziamo per aver interrotto il suo lavoro (sta preparando un grande evento espositivo in Germania per il 2021) per raccontarci la genesi delle opere. «Don Gianni ha voluto che rappresentassi tre fra i momenti più sublimi ed emblematici di tutta la storia della religione cristiana. Io, per rappresentarli al meglio, mi sono soffermata sullo sguardo.»
illuminò la notte. La Torà le cadde dalle mani e la luce della lampada che le aveva rischiarato la lettura divenne fioca e quasi si spense sotto quel vento d’ali celesti. Maria è lo strumento fondamentale attraverso cui si realizza il progetto divino.
La Trasfigurazione invece è il tema della grande tela centrale che sovrasta l’altare, hai scelto di raffigurare un momento preciso Anche per questo dipinto il riferimento è al Vangelo di Luca, quando Gesù si reca a pregare sul Monte Tabor portando con sé solo alcuni discepoli: Pietro, Giovanni e Giacomo. Le figure dei discepoli restano in Quello della vergine Maria, in primis... ombra mentre la luce divina investe la figu«Sì, lo sguardo di Maria, modello di virtù ed ra di Gesù, tra i profeti Mosè ed Elia. In priemblema della Chiesa nel momento in cui mo piano la fiammella accesa di una lampaaccetta di divenire Madre di Dio. Un mes- da, ancora una volta simbolo della fede. saggio che gli reca l’arcangelo Gabriele che pur dipinto con sembianze umane appare Veniamo all’altro dipinto laterale, la Cena come ombra proiettata su Maria dalla forte di Emmaus ispirata alla lettura dei versi luce divina, e seppure conserva le ali che ci del Vangelo di Luca “Quando fu a tavola riportano al passato rimane assolutamente con loro, prese il pane, disse la benediinnovativo nel suo essere incorporeo e zione, lo spezzò e lo diede loro. Ed ecco puramente spirituale.» si aprirono loro gli occhi e lo riconobbePer questo motivo non hai dipinto ro. Ma lui sparì alla loro vista.” un’ambientazione d’interni? Esatto, ho voluto che la scena di questa In questa tela Gesù spezza il pane come Annunciazione fosse ambientata in una cor- nell’ultima cena ma, questa volta scompare nice talmente semplice da sembrare quasi nell’arco di un paesaggio – Gerusalemme – inconsistente. Manca la stanza in cui si o una qualsiasi città del mondo. Perché sono svolti i fatti, ne percepiamo l’esistenza Gesù nasce, muore e da Risorto torna a solo ai piedi delle due figure che, una fisica noi, Discepoli di Emmaus di oggi, che lo - l’altra incorporea, sono gli assoluti prota- riconosciamo solo attraverso quel gesto gonisti di quell’attimo passato, presente , dello spezzare il pane, L’Eucaristia che futuro. Lo sfondo è descritto con pochi par- celebriamo. ticolari in modo da non distrarre l’attenzione dello spettatore dal momento in cui l’Angelo Anche qui una scena scarna, con pochi annuncia alla giovane Maria quale sarà il elementi quasi in contrapposizione le suo destino. Maria leggeva la Sacra Scrittu- mani dei discepoli nell’atto di afferrare ra, in ebraico “Torà” quando l’ombra di un quasi Gesù che hanno riconosciuto nel angelo innalzato da una luce sfolgorante gesto del pane spezzato
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Nel riquadro l’artista Francesca Mele , a lato “La morte non esite più” opera colocata in Germania a Rheine nella Cappella Gertrudenstiff
invita a sedere a quella mensa. Il pane – il vino – La lampada accesa che simboleggia la fede.
Ogni parte del dipinto è costruito secondo proporzioni matematiche, per creare quell’ordine che, senza interferenze, tutto riporta agli occhi di Gesù, al suo sguardo che ci segue ovunque. Nessun disordine può corrispondere alla sua icona e al logos - perché
logos è il Suo nome, e cioè proporzione e rapporto, perfezione del dire, comunicazione inequivocabile. Soprattutto, il Logos detesta ogni ornamento, ogni divagare e ogni distrazione. Sulla tavola pochi elementi. Solo la prospettiva che si apre a noi e quasi ci
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Non solo a Carmiano, alcune tue opere figurano anche in altri luoghi prestigiosi a Parigi Roma, a Rheine (Germania). Ho un bel ricordo di ciò che mi lega a Parigi ma la mia grande gioia è quando le mie opere entrano a far parte dei luoghi di culto. Come la tela del Padre francescano Giuseppe Spoletini (1870-1951) Servo di Dio le cui spoglie riposano nella Chiesa di San Francesco a Ripa sotto il pavimento della Cappella dell’Annunciata nel punto in cui è stato collocato il mio dipinto, a pochi metri dalla Beata Ludovica Albertoni del Bernini. A Rheine nella Cappella di Gertrudenstift ci sono tre opere, Una goccia di splendore ossia l’incontro tra la Veronica e Gesù, Le ultime parole di Cristo, la Morte non esiste più.
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Il teatro romano , reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
a lupiae, sulle tracce dei resti romani e del teatro augusteo Sara Foti Scaivaliere
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A spasso tra le vie di Lecce grazie all’associazione The Monuments People
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Lecce città del Barocco ha un cuore romano che è messo in evidenza dall’iniziativa “Teatro Romano Experience” siglata dall'associazione The Monuments People in accordo con la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per le Province di Brindisi, Lecce e Taranto e con la Direzione Regionale Musei Puglia, con l’intento di valorizzare le antiche vestigia del capoluogo salentino e una più mirata fruizione di un monumento simbolo di Lupiae – la Lecce romana –, il Teatro di epoca augustea. L’inaugurazione del progetto, sabato 11 luglio 2020, ha visto un’ampia partecipazione di visitatori, per lo più salentini, curiosi di poter conoscere più da vicino una delle tante sfaccettature di Lecce, quelle meno note, in un percorso
strutturato per far approcciare la storia e gli interventi urbanistici che a partire dall’età augustea hanno determinato l’aspetto di Lupiae, al quale – per il primo evento – si sono aggiunti il colore e la presenza scenografica d’effetto del gruppo storico della II Legio Augusta di Lizzanello, con l’intervento del dottor Giuseppe Muci, direttore dell’Anfiteatro, e la “lectio magistralis” del prof. Francesco D’Andria sul Teatro Romano, arricchita dalla lettura di alcune antiche fonti storiche – narranti eventi che avevano visto protagonista la stessa Lupiae – grazie alla performance dell’attore Andrea Sirianni. Come non ricordare per esempio il passo dello storico Nicolao di Damasco nel quale si racconta che nel 44 a.C. un giovane Ottaviano, di rientro dalla Grecia e sbar-
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Il teatro romano , reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
cato sulle nostre coste, si era trattenuto nell’antica Lecce romana dove ebbe modo di essere informato del fatto che era stato riconosciuto come figlio ed erede di Cesare e da qui, passando per Brindisi, partiva alla volta di Roma. L’appuntamento dell’11 luglio ha così inaugurato la stagione di “Teatro Romano Experience”: infatti, ogni giorno, la mattina alle 10.30 e il pomeriggio alle 17 su prenotazione, sarà possibile effettuare il percorso tematico “Scopri la storia dell’antica Lupiae”, con visite guidate localizzate all’interno del Teatro Romano o da qui itinerari, condotti da guide specializzate, per la Lecce romana. Quest’ultimo percorso per le vie del centro storico vede un approfondimento incentrato sulla descrizione delle due grandi strutture di età romana messe in luce nella prima metà del Novecento - l’Anfiteatro e il Teatro – e attraverso l’analisi di questi monumenti si intende far conoscere ai visitatori il mondo romano in generale e in particolare lo sviluppo urbanistico della città nell’età in cui è stata municipium prima e poi promossa colonia. Le ricerche archeologiche effettuate soprattutto negli ultimi decenni
hanno aggiunto importanti tasselli alla ricostruzione della città augustea e imperiale: gli scavi in Piazzetta Castromediano con l’individuazione di un trapetum oleario, la strada romana in via Rubichi, le terme in Piazza Vittorio Emanuele II, il tempio di Iside sotto Palazzo Vernazza, hanno permesso di ricostruire in maniera più approfondita l’aspetto della romana Lupiae. Le ricerche archeologiche ci parlano dello sviluppo di Lupiae in un tessuto urbano già esistente, di origine messapiche, munito di un circuito murario di protezione all’interno del quale saranno inseriti in più fasi quei monumenti di cui oggi è possibile di nuovo ammirarne i resti e ciò che è rimasto invisibile ai nostri occhi, perso nelle stratificazioni storiche ed emerso magari solo brevemente nei vari interventi di scavo nel centro storico. Sarà un cammino a ritroso, che dall’esame delle strutture superstiti, arriva a raccontare la storia di questi monumenti e la vita che è potuta passare tra le loro mura. L’Anfiteatro, seppure nella parzialità del suo scavo è una presenza che emerge e domina la centrale Piazza S.Oronzo, la vecchia
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L’Anfiteatro romano , reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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L’Anfiteatro romano , reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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piazza dei Mercanti che sarà smantellata proprio per lasciare spazio alle antiche vestigia romane dimenticate sotto il lastricato e rinvenute nei primissimi anni del XX secolo nei lavori di demolizione dell’Isola del Governatore e di fondazione dell’adiacente Banca d’Italia. La costruzione dell’anfiteatro aveva previsto lo sfruttamento del
banco roccioso naturale a supporto delle strutture di sostegno delle gradinate e lo scavi di larghi settori per ottenere l’arena, l’ambulacro inferiore e le gallerie radiali di raccordo; il materiale calcareo così cavato poteva al contempo venire usato nella costruzione dell’elevato , in opera quadrata; a quest’ultima si sommano strutture in
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opera reticolata e cementizia, che vedeva anche l’impiego di materiali non locali come la pozzolana e le scorie vulcaniche. In questo spazio di intrattenimento, che poteva ospitare tra i 12 e i 14mila spettatore, prendevano luogo i giochi gladiatori e le venationes, ma non si sono tenute le naumachie. Importante attestazione storica sono il ciclo di bassorilievi in marmo collocati sulla parte superiore del parapetto dell’arena, i quali riportano scene di lotta tra le fiere e scene di caccia da parte dei bestiari: il fregio in questione - malgrado non sia completo – è uno dei più complessi tra i rilievi che documentano la pratica delle venationes. In piazza, a guardare lo scavo la colonna marmorea di epoca romana, proveniente dalla via Appia a Brindisi e sulla quale fu collocata sul finire del XVII secolo la statua del Santo Patrono, mentre sull’altro lato della balaustra che si affaccia sull’anfiteatro troviamo un piccolo obelisco mutilato delle insegne del regime fascista – che riprendevano la simbologia dell’impero romano –, esso fu eretto per ricordare un illustre cittadino, Quinto Ennio, autore degli Annales e considerato padre della letteratura latina, nativo rudino, in quanto era originario del vicino centro di Rudiae andato distrutto in seguito all’attacco di Guglielmo il Malo, a seguito del quale gli abitanti trovarono riparo proprio a Lecce. A Rudiae, benché poco
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Il teatro romano , reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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L’Anfiteatro romano , reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
distante, si ebbe anche un anfiteatro, rinvenuto da una recente campagna di scavi che ha permesso di riportarlo alla luce nella sua quasi interezza. Ed è questo un fatto singolare, poiché l’area dell’antica Rudiae ricade nel territorio comunale di Lecce, possiamo dire che il capoluogo salentino può vantare ben due anfiteatri. Maggiori sono i danni in perdita ascrivibili, invece, al Teatro Romano, collocato alle spalle delle barocca chiesa di San Chiara e in parte sotto l’ex Convento delle Clarisse: la cavea, aperta verso nord, attualmente conserva solo dodici file di gradini, a dispetto di quello che doveva essere uno dei teatri più grandi dell’Italia meridionale, secondo solo a quelli di Napoli e Benevento. L’orchestra semicircolare è pavimentata con grandi lastre calcaree e vi si accede da due grandi aditus largi due metri, un tempo coperti da una volta a botte (oggi è aperto solo uno). Del monumentale edificio scenico resta visibile il pulpitum – ossia il palcoscenico – preceduto da un incasso scavato nella roccia calcarea in cui doveva essere collocato il sipario arrotolato. Il pulpi-
tum, tagliato nel banco di roccia, non presenta ambienti sottostanti praticabili e appare segnato da una serie di incassi trasversali che doveva essere destinati a sostenere la pedana lignea del palcoscenico, importante per migliorare l’acustico del luogo. Sul pulpitum si aprivano le porte della frontescena e due ampi ingressi laterali: ci sono pochissimi dati per ricostruire la frontescena, ma le dimensioni del pulpitum e la straordinaria ricchezza di statue marmoree qui rinvenute (tra le quali un Augusto loricato) fanno, a buona ragione, pensare a un edifico di ampie dimensioni e di notevole complessità. Ma per approfondire la materie, le scoperte, i ritrovamenti e vedere con i propri occhi quanto qui riportato e tanto altro di più, basta aderire a “Teatro Romano Experience” e muovere i propri passi sui resti dell’antica Lupiae. Per info e prenotazioni W h a t s A p p : 320.7610467 – 347.1999885 – 328.9632397 Mail: themonumentspeople@gmail.com Piattaforma di prenotazione online www.cpst.it/Lecceromana
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Le illustrazioni di Alberto De Lazzari
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alberto de lazzari, la realtà tra disegni e caricature Raffaele Polo
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Artista a tutto tondo, milanese trapiantato nel Salento con il suo inconfondibile segno dalla satira alle caricature per rendere unica la festa del matrimonio
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isogna sapere che il bravo Alberto de Lazzari, lombardo trapiantato nel Salento, è anche un protagonista inserito nei romanzi che Pino De Luca dedica al suo 'Santino', estrosa figura di intellettuale detective che opera con precisione nelle sue indagini e anche nella sublime arte della gastronomia. Insomma, Alberto è un vero e proprio personaggio, che potete incontrare magari ai festeggiamenti di un matrimonio oppure ad una sagra, in un angolo che sa perfettamente organizzare, con semplicità, per mettere a frutto le sue mirabili capacità di caricaturista. Si badi bene: il termine è certamente riduttivo per un artista a tut-
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to tondo che, però, ha scelto la via della giocosa ironia per affascinare i suoi casuali clienti che restano strabiliati da quei segni che li raffigurano con capace introspezione e con un accenno di goliardia che è la dote naturale del bravo Alberto. Fumetti, disegni caricaturali, progetti grafici, ritratti, insomma De Lazzari ha una produzione incredibile che caratterizza il suo procedere nel mondo della grafica, da quasi mezzo secolo. Ma l'aspetto più piacevole della sua presenza alle feste meglio riuscite, è dato dalla verve con cui riesce a coinvolgere anche gli astanti più timidi, mettendo subito a proprio agio col suo accento meneghino che, a
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In questa pagina le immagini di alcunie illustrazioni realizzae da Alberto De Lazzari
dispetto della lunga permanenza nel Salento, non è mai mutato né si è annacquato. Dai giornali satirici pubblicati per le feste patronali (una tradizione sempre viva nella nostra terra, anche se, come tutte le tradizioni legati ai festeggiamenti civili del patrono, in deciso calo d'interesse) fino alla raffigurazione di personaggi politici e dello spettacolo in caricature godibilissime, la penna di De Lazzari è facilmente riconoscibile per il tratto semplice, deciso e per nulla barocco che bada all'essenziale, riuscendo a caratterizzare al meglio la vera immagine che ogni volto dà di sé. E non è per nulla facile, bisogna vere un occhio allenato e saper cogliere, in un tempo brevissimo, quello che, sulla carta, diventerà un'immagine somigliante ed
ironica del soggetto raffigurato. De Lazzari, dall'alto della sua lunga esperienza, invita tutti i giovani a disegnare, copiare, mantenersi sempre in allenamento, cosciente che solo la pazienza e il continuo esercizio portano ai migliori risultati. 'Ma i Manga no, quelli lasciateli perdere, uccidono l'espressione e la diversità, sono la negazione della libera arte di ritrarre e ironizzare!' ci raccomanda con enfasi. Poi, sbotta in un sorriso e torna ai suoi segni carichi di significato. Alberto De Lazzari, un uomo fuori dal tempo, che vive grazie al suo estro ed alla sua innata capacità di rappresentare il mondo che lo circonda, evidenziandone anche i caratteri più nascosti, quelli che solo lui riesce a far emergere...
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i fratelli Verdone a lecce per il premio “mario Verdone”
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La premiazione si terrà nell’ambito dell’XXI edizione del Festival del Cinema Europeo che si terrà dal 31 ottobre al 7 novembre
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LECCE. Torneranno a Lecce in autunno Carlo, Luca e Silvia Verdone per consegnare, nel corso della XXI edizione del Festival del Cinema Europeo, il Premio Mario Verdone, istituito in accordo con loro dal Festival del Cinema Europeo in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia e il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani. Il Festival che doveva tenersi in primavera si terrà dal 31 ottobre al 7 novembre 2020.. Per l’XI edizione del Premio, riservato a un giovane autore italiano che si sia particolarmente contraddistinto nell'ultima stagione cinematografica per la sua opera prima, gli autori in concorso individuati dal Festival del Cinema Europeo con CSC e SNGCI sono: Gianni Aureli per Aquile randagie, Phaim Bhuiyan per Bangla, Marco Bonfanti per L’uomo senza gravità, Simone Catania per Drive me home, Stefano Cipani per Mio fratello rincorre i dinosauri, Marco D’Amore per L’immortale, Roberto De Feo per The nest - Il nido, Karole Di Tommaso per Mamma + mamma, Manfredi Lucibello per Tutte le mie notti, Carlo Sironi per Sole. La Giuria, costituita da Carlo, Luca e Silvia
Verdone, ha scelto tra gli autori selezionati i seguenti tre finalisti: Phaim Bhuiyan per Bangla, Marco D’Amore per L’immortale, Roberto De Feo per The nest - Il nido. «È l’undicesima edizione del Premio intitolato a nostro padre Mario grazie al Festival del Cinema Europeo, e anche quest’anno ci troviamo di fronte a una scelta non facile. Tutti i giovani autori in concorso hanno talento e hanno dimostrato grande capacità nella realizzazione della loro opera sottolineano i fratelli Verdone -. Siamo contenti di vedere come ogni anno il cinema italiano si arricchisca di registi e veda crescere autori di indubbio valore artistico. Il Festival del Cinema Europeo di Lecce si conferma un bel trampolino di lancio per molti di loro». «L'autunno di quest'anno ci restituirà numerose manifestazioni culturali che la primavera del 2020, a causa dell'emergenza sanitaria, ci ha negato, tra le quali il Festival del Cinema Europeo con il suo ambizioso e ricco programma – dichiara il Sindaco di Lecce Carlo Salvemini –. Sono felice di leggere i nomi dei finalisti del premio Verdone che saranno nella nostra città
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in occasione del festival. Incontrarli sarà un'occasione di crescita, di arricchimento, di confronto per la città e il pubblico del cinema, che a Lecce siamo impegnati ad accrescere costantemente con la vasta offerta delle sale cinematografiche e delle rassegne che vengono organizzate in città nel corso dell'anno». «Il Premio Verdone ci inorgoglisce in particolar modo perché viene assegnato a un giovane autore del cinema italiano - commenta
la Presidente di Apulia Film Commission Simonetta Dellomonaco -. La presenza dei tre figli e, in particolare, quella di Carlo Verdone, rende ancora più prezioso e significativo questo Premio per tutti coloro che hanno scelto il cinema come mezzo espressivo della loro creatività». «Assegnare un premio a un giovane regista è sicuramente un modo per guardare al futuro del cinema italiano, ai suoi talenti e a storie nuove e diverse - precisa il Direttore generale di Apulia Film Commission Antonio Parente -. I tre registi finalisti di questa edizione, tra i quali il pugliese Roberto De Feo, hanno realizzato tre opere di sicuro valore che non mancheranno di essere apprezzati dal pubblico del Festival». Le precedenti edizioni sono state vinte da: Susanna Nicchiarelli per Cosmonauta, Aureliano Amadei per 20 sigarette, Andrea Segre per Io sono Li, Claudio Giovannesi per Alì ha gli occhi azzurri, Matteo Oleotto per Zoran, il mio nipote scemo, Sebastiano Riso per Più buio di mezzanotte, Duccio Chiarini per Short skin, da Marco Danieli per La ragazza del mondo, da Roberto De Paolis per Cuori Puri e, l'anno scorso, da Damiano e Fabio D'Innocenzo per La terra dell’abbastanza. «Siamo contenti di ospitare di nuovo Carlo Verdone in Puglia - dichiara l’Assessore all’Industria turistica e culturale della Regione Puglia Loredana Capone - dopo il lungo lavoro realizzato per “Si vive una volta sola”, che speriamo possa uscire al più presto nelle sale cinematografiche. Un’accoglienza che estendiamo anche al fratello Luca e alla sorella Silvia che saranno presenti alla XXI edizione del Festival del Cinema Europeo per consegnare il Premio che da undici anni porta il nome del loro papà, Mario Verdone». Il Festival del Cinema Europeo, ideato e organizzato dall’Associazione Culturale “Art Promotion”, è realizzato dalla Fondazione Apulia Film Commission e dalla Regione Puglia con risorse del Patto per la Puglia (FSC). Si avvale inoltre del sostegno del Comune di Lecce e del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo-Direzione Generale Cinema.
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Nel riquadro lo scrittore e saggista Walter Cerfeda
senza più alibi Walter Cerfeda
Considerazioni all’indomani delle decisioni del Consiglio Europeo
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ra che la partita è finita, tocca a noi. Le decisioni del Consiglio europeo sono inequivocabili, sono positive, ma ci mettono anche con le spalle al muro. All’Italia arriva una valanga di soldi. Tra i 97 miliardi già stanziati e disponibili dal 1 giugno per l’emergenza del 2020, si aggiungono i 209 stanziati ieri. Il totale di 306 miliardi è impressionante. E’ una somma che equivale a 17 punti di Pil, per un Paese come il nostro che, dal 2000 al 2019, è stata capace di realizzarne meno di quattro punti. Inoltre oltre agli 82 miliardi a fondo perduto, i restanti 224 sono sotto forma di prestiti a tasso zero da restituire dal 2026 al 2056. Ciò vuol dire un risparmio incalcolabile sui tassi di interesse se quella cifra, l’avessimo invece chiesta al mercato e, di conseguenza, senza doversi esporre ai rischi dello spread. Sono soldi figli di un debito fatto dall’Europa in comune per la prima volta, di cui siamo beneficiari addirittura per ben un 30% del montante complessivo. Un’ erogazione così generosa e senza precedenti, non solo per una dovuta solidarietà verso un Paese che è stato così colpito dal virus, ma anche perché siamo il Paese con la crescita sempre più bassa e il debito sempre più alto di tutta l’Europa, di cui siamo, per questo, l’anello più
debole e più fragile. Per questo i tanti soldi stanziati sono proprio per cercare, senza più alibi, di metterci al passo degli altri senza rappresentare più, invece un pericolo. Soldi tutti solo ed esclusivamente per spese di investimento e non per spesa corrente, non per assistenzialismo e a pioggia e non per rattoppi di bilancio. E quello che si firmerà al termine della procedura (presentazione a metà ottobre del Piano di rilancio con il crono programma degli investimenti e delle riforme che ci si impegna a realizzare e poi la discussione e l’auspicabile approvazione da parte della Commissione) sarà un vero e proprio contratto di durata quinquennale, fino al 2025. Un contratto non fra persone (Conte e la Von Der Layen), ma fra istituzioni, ovvero tra il Governo italiano e la Commissione europea, il cui recesso, ovviamente sempre possibile, farebbe decadere immediatamente non solo gli impegni ma anche gli aiuti, francamente rendendo molto difficile capire, a quel punto, con quali altri soldi e per quale prospettiva. Aiuti quindi in cambio di investimenti e di riforme e senza alcuna condizionalità essendo caduto anche quella del diritto di veto, tra-
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sformatosi nel testo finale invece in un semplice diritto ad una discussione in caso di comportamenti difformi, in seno al Consiglio, lasciando però inalterato il potere decisionale conclusivo della Commissione, come previsto dai Trattati. Ma proprio su questo scambio che per l’Italia si gioca la partita più difficile e più a rischio. Perché finora e nel corso lungo degli anni, tutto abbiamo saputo fare meno che piani concreti di investimento e di riforme. Tutte le risorse europee, quelle dei fondi strutturali e quelle delle tante flessibilità ricevute, al di là delle inascoltate raccomandazioni europee, sono spesso diventate residui passivi o distribuite con progetti di matrice clientelare e a pioggia. Esattamente come tutte le poche risorse nazionali finite allo stesso modo, con l’aggravante di averle quasi sempre prese a debito, scassando i conti dello Stato. Per questo gli alibi sono davvero finiti, per un Paese abituato a chiacchierare di riforme e poi a non farle. Ricordo che di quelle richieste nel 2011 da Mario Draghi con la famosa lettera per salvarci dal precipizio, non ne abbiamo fatta nemmeno una e che lo stesso ultimo e giusto decreto di questi giorni sulla semplificazione prevede ben 123 decreti attuativi. L’Europa quindi ci ha aperto l’ombrello sotto il quale ci siamo ben riparati: attenzione però ora a non farglielo, prima o poi richiudere. Ma perché le istituzioni europee, la Germania e la Francia si sono tanto battute non solo per noi, ma realizzando decisioni inimmaginabili solo fino a pochi mesi fa? Per il disastro provocato dalla pandemia, certo, ma ancora di più per le conseguenze che essa ha provocato. In questi giorni il nostro tasso di europeismo è sembrato più condizionato da quanti soldi riuscivamo a spuntare che per le ragioni per cui si era deciso di farlo. E le ragioni purtroppo sono semplici: la pandemia ha bloccato i quattro motori del mondo. Il crollo dei pil negli Stati Uniti, in Europa, in Giappone sono impressionanti ed anche quello cinese è di fatto precipitato.
Gli scambi internazionali sono paralizzati e la loro ripresa, se avverrà, lo sarà soltanto quando ciascuna di queste quattro grandi economie, saranno state capaci di ricostituire una base ed una struttura competitiva. Per questo la priorità assoluta oggi non è quella dell’esportazione in mercati che non ricevono e non bevono, quanto quello di rilanciare e rafforzare i mercati interni, come la precondizione per essere pronti per un eventuale dopo. Questo la Germania l’ha capito subito proprio perché la metà della sua ricchezza derivava proprio dall’export. Per questo la svolta e anche per questo l’abbandono della politica del rigore e dell’austerità. Perché quella politica, impedendo e tenendo basse le spese, era l’unica via che aumentava la competitività delle esportazioni, delle quali quelle tedesche ne hanno ricevuto un vantaggio straordinario. Ma ora la fase economica è cambiata, e quindi la ricchezza passa dal rilancio del mercato interno europeo e non dall’export, e l’emissione di un forte debito comune serve per evitare che la crisi si trasformi in depressione segnata dal crollo dei consumi e quindi degli investimenti e dell’occupazione. Di questo si tratta. Ma per farlo serviva la svolta dell’ emissione di un debito comune di tutti i 27 Paesi europei chiamati a garantirlo in solido, che proprio per questo rappresenta un forte salto verso una nuova integrazione. Questa, e non i soldi, è stata la vera posta in gioco delle lunga trattativa di Bruxelles. Ed i frugali erano contro questo che si sono battuti, prendendo in ostaggio l’Italia e le sue storiche pecche. E’ sull’avvio di una nuova fase politica europea che olandesi e scandinavi non erano, non sono e non saranno d’accordo. Perché l’economia olandese è sempre stata un’economia mondo, un’economia di libero mercato di cui l’Europa ne era un corollario a condizione di non diventare mai qualcosa di più. E’ la filosofia inglese che è tornata a manifestarsi e Conte è stata le nuora cui strillare perché suocera, la Merkel, intendesse. Così, su tutto altro versante, gli scandinavi che presumono, a torto o a ragio-
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ne, di godere i vantaggi di un’oasi perfetta, hanno sempre osteggiato che l’Europa, diventasse un unicum più vasto nel quale si poteva correre il rischio dell’annacquamento delle loro prerogative di Paesi con la pancia piena. Visegrad e austriaci sono stati invece sempre un’altra cosa. La loro visione di Europa è una visione mercantile perché al loro abbaio non può mai corrispondere il morso, perché sono economie che senza l’accesso ai fondi europei, andrebbero in un attimo a gambe per aria. Per tutto questo però guai illudersi di essere già approdati alla sponda opposta. La navigazione continuerà ad essere tormentata con una prevedibile lunga guerriglia che non perderà occasione per manifestarsi, sapendo però che quanto avvenuto in questi giorni, hanno confermato che tutte le istituzioni europee – Commissione, Parlamento, Bce e anche Consiglio per il lavoro improbo ma brillante fatto da Michel, la Germania, la Francia e l’intero blocco dei Paesi del sud Europa, hanno mostrato di avere la forza e la convinzione politica per andare avanti. Due ultime notazioni a margine. La prima i fondi ed il Mes. Attenzione agli improvvisati contabili di casa nostra. Abbiamo ottenuto 38 miliardi in più, quindi possiamo rinunciare ai 37 del Mes, confondendo così le mele con le pere. I due fondi sono del tutto distinti per tempi e modalità. I 209 miliardi sono per la ricostruzione e non per l’emergenza e la loro erogazione riguarderà la seconda metà del 2021 e non il 2020. In più sono fondi per spese su capitoli di investimento che non riguardano quelli del Mes. Anzi, proprio per marcarne la distinzione, nel testo conclusivo dell’accordo, proprio sulla sanità vengono tagliati i fondi (insieme alla spesa rurale, la ricerca e quella estera). In più per accedere a questi fondi bisognerà presentare e rispettare un crono programma di impegni e di riforme, mentre quelli del Mes
non lo sono e sono cash dal primo giugno, con il solo vincolo di spenderli per la sanità pubblica e Dio solo sa quanto ne abbiamo bisogno dopo tutto quello che è successo e che rischia prevedibilmente ancora di succedere. Liberi ovviamente di non accedervi per altre ragioni, ma per favore senza acrobazie contabili o raccontando frottole. La seconda: Salvini. Salvini oggi, dopo il Consiglio, è come l’ultimo giapponese in Europa e forse anche in Italia. Anche Orban e la Polonia di Duda, così come la Slovacchia o i rumeni si sono ben guardati di dire e fare le cose che l’ex capitano non smette di sostenere a casa nostra. Gli unici e flebili epigoni disponibili sul mercato, restano Trump e Bolsonaro, sui cui disastrosi risultati sanitari ed economici è meglio stendere un velo pietoso. Anche il povero Boris Johnson, ha smesso di esserlo, perché per essersi ispirato non all’Europa, ma allo strappo con essa e all’isolazionismo, ora si trova, dopo solo pochi mesi, con una Gran Bretagna sprofondata nella più terribile recessione economica, sociale e anche sanitaria, mai conosciuta e che forse a quei 750 miliardi europei ora guarda come il lupo della favola guardava all’uva. Però, attenzione, Salvini, ultimo e solo in Europa è tuttavia ancora il primo dei partiti in Italia. Questo la dice lunga sulla profondità dei guasti e della devastazione culturale e politica che in questi anni si è prodotta nel nostro Paese ed anche nella nostra gente. Guai quindi abbassare la guardia, avendo invece la consapevolezza della salita dura e difficile che ancora resta da fare. Sapendo però che oggi dall’Europa è arrivata tanta di quella benzina che potrebbe consentirci,quella salita, di poterla fare molto più velocemente, per riacchiappare in fretta un fuggitivo, che dopo il Consiglio è anche visibilmente cotto e senza più fiato.
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1.I partecipanti dovranno inviare una prova di narrativa, racconto o novella, con il mare protagonista “in una stanza”. Il limite massimo di scrittura è di quattro cartelle, spazio due (2), con rigo di cinquanta battute, tipo di carattere Times New Roman, dimensione 12, entro e non oltre la data del 31 gennaio 2021. Non è consentito l’invio del cartaceo, con qualsiasi mezzo. 2.Alla domanda di partecipazione, ogni concorrente allegherà una scheda, max 10 righe, con le note biografiche. 3.Il lavoro deve risultare inedito e mai premiato (e tale deve restare fino alla prima presentazione pubblica). 4.Possono partecipare al Concorso Nazionale di narrativa “Il mare in una stanza” i cittadini italiani, civili e militari, che abbiano compiuto la maggiore età alla data della pubblicazione del presente bando. 5.Tutti i racconti in concorso dovranno pervenire entro la data stabilita tramite una mail che sarà di seguito indicata. 6.I racconti selezionati saranno pubblicati su apposita pubblicazione. 7.La partecipazione al Concorso non prevede quota di iscrizione. Sarà cura di ogni concorrente, provvedere all’acquisto di un minimo di 3 (tre) copie, senza obbligo di collaborazione futura.
8.I premi consistono in: coppe, targhe e pergamene, oltre alla pubblicazione come già indicato. Sono previsti premi speciali e segnalazioni. 9.Il giorno e il luogo della presentazione ufficiale dei vincitori sarà tempestivamente comunicato tramite mail a ciascun concorrente. 10. La giuria sarà formata da appartenenti al mondo della cultura, del giornalismo, dell’ANMI, della Lega Navale, della Scuola Navale Militare "F. Morosini” e dell’Associazione Nazionale Scuola Navale Militare “F. Morosini”. I loro nomi saranno resi pubblici durante la cerimonia di premiazione. Il giudizio della giuria è insindacabile. 11. La partecipazione al concorso comporta la piena accettazione del presente Regolamento; l’inosservanza di una qualsiasi norma qui espressamente indicata, comporta l’esclusione dalla graduatoria. La premiazione si terrà nel mese di giugno 2021 in una location istituzionale di prestigio che verrà comunicata in occasione della conferenza di presentazione della manifestazione. Info e contatti: Segreteria organizzativa Associazione culturale ICARUS e-mail ilmareinunastanza@ilraggioverdesrl.it
mobile. +39.3495791200
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I LUOGhI NELLA RETE | IL CONCORSO
Causa Covid, il ConCorso si terrà nel 2021. Prorogati i temini di sCadenza al 31/01/2021
Variazioni percentuali degli indici nazionali dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Fonte: Istat).
nostalgia canaglia Stefano Quarta
“
Ecco perché non dobbiamo più rimpiangere la “lira” ma puntare invece sull’innovazione
”
i Luoghi della parola
D
opo tanti anni, ricordo ancora chiaramente la perplessità che, nella mia stringente logica da bambino, provavo ogni volta che vedevo una particolare maiolica appesa al muro del soggiorno di mia nonna. Recitava una frase banale e molto diffusa: “Si stava meglio quando si stava peggio”. All’epoca ero troppo piccolo per comprendere il peso della nostalgia. Ma quanto può essere dannosa la nostalgia? Quanto può effettivamente riabilitare ed elevare periodi storici in cui oggettivamente si stava peggio? Molto, probabilmente troppo! Il più grande rimpianto di molti italiani è l’abbandono della lira, la nostra lira. Di norma, chi la rimpiange ne attribuisce meriti mai avuti. Perché, in fondo, si finisce per pensare “moneta mia, regole mie”, cioè la presunta libertà di stampare tutta la
moneta che serve. D’altronde, se non abbiamo i soldi per quella fondamentale infrastruttura, perché farceli prestare? Perché costringerci a pagare gli interessi quando, invece, possiamo semplicemente stamparli? Ovviamente non può funzionare in questo modo. Non può essere così semplice, altrimenti ogni paese adotterebbe questo metodo. La dura realtà è che stampare nuova moneta è una medicina con un rilevante effetto collaterale, l’inflazione. Immaginiamo di aumentare la dotazione monetaria. Questo eccesso di moneta viene messo in circolo dai sistemi finanziari, le banche, che concederanno più mutui alle imprese, le quali assumeranno nuovo personale e, tutti insieme, spenderanno i loro soldi presso i commercianti, stimolando l’economia. Tutto ciò è positivo. Il risvolto della meda-
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glia è la consapevolezza da parte dei commercianti che la gente ora sia più ricca. Allora, siccome una maggiore ricchezza implica una maggiore capacità di spesa, ecco che i prezzi aumentano. Ma non tutti hanno la possibilità di adeguare le proprie entrate all’andamento dell’inflazione. Se da un lato un commerciante può aumentare liberamente i propri prezzi, un dipendente o un pensionato
non aumenta altrettanto liberamente il proprio stipendio. Ed ecco che il dipendente perde potere d’acquisto. Cioè il suo stipendio rimane invariato, mentre beni e servizi costano di più. Quindi, tutti coloro i quali non sono in grado di adeguare le proprie entrate in base all’inflazione, ne risultano inevitabilmente danneggiati. Perciò l’inflazione ha un effetto redistributivo che va limitato.
In Italia, negli anni ’70 e ’80 abbiamo vissuto un’inflazione altissima (Figura 1). La fine dei cambi fissi (accordi di Bretton Woods) svelò le caratteristiche e i limiti di ciascun paese, eliminando quel rassicurante cappello che permise a paesi come l’Italia di svilupparsi (anche grazie ad un basso costo del lavoro). Le due crisi energetiche degli anni ’70 fecero il resto. Questo shock esterno che innalzava i prezzi e riduceva la produttività del paese fu
contrastato con misure assistenziali. Anziché puntare sull’innovazione e sulla produttività, si aumentarono i salari. Questo spinse l’inflazione ancora più in alto. Il tutto venne naturalmente finanziato con nuovo debito, immaginando si trattasse di turbolenze momentanee. Non si capiva che la tregua economica post-bellica era finita ed il mondo era già cambiato. Ciascun paese si ritrovava a dover affrontare in autonomia ogni shock, e noi era-
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i Luoghi della parola
Composizione percentuale e ripartizione geografica della spesa media mensile per alimenti e bevande (Fonte Istat)
vamo impreparati o forse sprovveduti). L’adozione dell’euro è un modo per ricreare quel clima favorevole, seppur in una porzione di mondo. La tranquillità che 1 euro italiano sarà sempre pari ad 1 euro francese permette investimenti transfrontalieri, maggiore mobilità di merci e persone (chi viaggia conosce i tassi di cambio forfettari e fortemente speculativi che facilmente si trovano in paesi con una valuta diversa). Spesso si sente dire che “quello che costava mille lire, adesso costa 1 euro” e che “i salari non sono cresciuti quanto i prezzi”. In realtà in Figura 1 vediamo come gli anni dell’introduzione dell’euro non abbiano avuto scossoni inflazionistici (ovviamente su alcuni specifici beni si sarà potuto riscontrare questo “raddoppio”). Perciò lascerei perdere la nostalgia per la lira agli amanti di numismatica e mi concentrerei sui problemi che affliggono l’Italia da decenni. La famosa crescita dello “zero virgola” è facilmente spiegata da una semplice e datato modello economico del 1956, il modello di Solow. In soldoni, il modello spiega come l’economia di ciascun paese converga verso un livello di equilibrio di lungo periodo (in gergo economico detto di stato stazionario). Immaginiamolo come un certo livello del PIL (del PIL pro capite per l’esattezza, al fine di compensare la dimensione del paese). Quanto
più si è lontani da questo livello, tanto più alto sarà il tasso di crescita. Perciò un paese arretrato crescerà molto velocemente, in quanto necessita di strade, fogne, palazzi ecc. C’è tanto da costruire e l’economia brilla. È il caso dei paesi nel dopoguerra o di paesi emergenti come la Cina, che solo recentemente ha dato il via ad un processo di sviluppo economico (per motivi prettamente di ideologia politica). Tuttavia, più si avanza nello sviluppo, più ci si avvicina al livello di stato stazionario e minore sarà il tasso di crescita. È come se tutte le economie, prima o poi, dovessero convergere verso lo stesso punto di arrivo. Ma il modello di Solow, e le sue estensioni, ci insegnano anche un modo per spostare più in là questo punto di arrivo dell’economia. È l’innovazione! Con l’innovazione si aumentano le possibilità di sviluppo e si dà vita a nuovi settori dell’economia. Pensate alla spesa pro capite annua in smartphone. L’invenzione della telefonia mobile ha dato vita ad un mercato vastissimo che nell’ultimo anno ha mosso una spesa di oltre 7 miliardi di euro solo in Italia (valore quadruplicato in un decennio). È chiaro quindi che la spesa delle famiglie si modifica negli anni. In Tabella possiamo vedere come la spesa
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per alimenti sia passata dall’essere circa la metà della spesa complessiva mensile del 1951, a meno di un quinto oggi (il 18% su base nazionale nel 2018, ultimo dato disponibile). Perciò, se nel dopoguerra il prezzo di pasta e carne era fondamentale per la gestione economica di una famiglia media, oggi lo è molto meno. E se consideriamo che siamo importatori di molti prodotti che negli ultimi anni hanno acquisito rilevanza, sicuramente la protezione di una valuta comunitaria che vale un quinto del PIL mondiale (più della Cina, meno degli USA) risulta vitale. Infatti, il PIL della zona euro (in dollari americani) vale più di 16 miliardi, il PIL statunitense circa 20,5 miliardi, mentre quello cinese circa 13 miliardi. Si consideri che dopo la Cina troviamo il Giappone, con un PIL di “solo” 5 miliardi. Pertanto, è facile capire che se la zona euro raggiungesse un’unità economico-politica paragonabile a quella degli Stati Uniti, ci ritroveremmo all’interno di uno
dei 3 colossi mondiali e la vecchia Europa potrebbe continuare a dire la sua lì dove conta. Al contrario, un’Italia sola con la sua debole moneta e il suo PIL che vale il 2,5% del PIL mondiale mi fa pensare ad un’isola sperduta nell’Atlantico in balia delle tempeste, qualcosa come Sant’Elena, isola su cui venne definitivamente esiliato Napoleone proprio perché da lì non sarebbe mai potuto fuggire. Anche solo sulla base di queste constatazioni (suffragate però da molti altri dati) credo che l’idea di un’uscita dall’euro sia da abbandonare definitivamente, lasciando il posto ad idee opposte di maggiore integrazione, lasciando l’autarchia a fattori culturali ed emozionali. Anziché combattere quest’Europa che ci ha dato validi motivi per vivere in pace, bisognerebbe semmai correggere i problemi e gli errori che inevitabilmente sorgono, come in qualsiasi attività umana.
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il mare il tempo e la nostalgia di Giusy Gatti Perlangeli
I. Dove vanno le barchette di carta di giornale Quando le manine dei bimbi le lasciano partire Dove finiscono le ciabattine Dimenticate sulla spiaggia Alla fine del giorno Dove fluiscono i castelli di sabbia Le torri I fossati Il ponte levatoio Le bandierine svettanti Sul bastoncino del ghiacciolo
i Luoghi della poesia
Dove si rifugiano i ricordi L’odore pungente dell’ambra solare Che dopo uno, dieci, trent’anni ti riporta lì In quell’insenatura del cuore Dove porta la rotta del mio viaggio Vano vagare se non giunge a te Dove sei? Ti cerco nella sabbia e nel vento Nell’eco delle conchiglie Nei sassi lucidi della riva Nel baluginare azzurro dell’acqua Dove sei? Chiedo al mare. Il mare Lo sa. Sto arrivando. Nel tuo porto Calerò la mia ancora
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Foto di Pexels da Pixabay
IV.
III. San Lorenzo Non fissare le stelle sperando di vederne una cadere Abbassa lo sguardo Distogli gli occhi dall'incantesimo della loro luce. Le stelle, algide gemme nel velluto del cielo, Stanno lì perché poeti innamorati visionari e sognatori Possano ancora scrivere versi Sentire un palpito nel cuore Vedere al di là dell'apparente E sognare Non fissare le stelle sperando di vederne una cadere. Fissale per accertarti che siano lì Muse, bussola e porto sicuro. Una stella che cade è il segno che anche il mondo può cadere che la speranza può finire e non lo possiamo sopportare. Non fissare le stelle sperando di vederne una cadere
Quando arriva arriva violenta la nostalgia Arriva come uno stiletto nel cuore E mi fa fuori E non so più dove sono Né con chi Né quando Ma torno là dove avrei voluto essere Là dove sarei dovuta restare L’odore del mare Te lo ricordi? Ho visto altri mari Altre onde Mille increspature Ma nessuno Nessuno è stato mai più così profumato Così pungente Così inebriante La violenza del sole di luglio Te la ricordi? Ho visto tante albe Tanti tramonti Mille volte il sole sulla pelle Ma nessuno Nessuno mi ha bruciato come quel sole Per tetto il cielo Per letto la sabbia Per culla il mare Respiro l’aria satura di salsedine Vorrei essere là A vent’anni E un amore pari a nessun altro E in questo momento tutto scompare Tutto Anche quello che c’è stato in mezzo Vorrei tornare là Dove avrei voluto essere Là, dove sarei dovuta restare E se mi dicessero qual è l’unico posto Dove vorrei tornare È lì che tornerei.
GiusyGatti©tutti i diritti riservati
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LECCE. La danza della taranta respiro ancestrale della terra salentina palpita e scandisce con il suo ritmo la sfilata Cruise di Dior. L’ingresso delle modelle è accompagnato dall’illuminazione che in crescendo con la musica accende piazza Duomo. Il barocco si veste di luce, dei suoni dell’orchestra della Taranta, risuonano le note e le voci che si fondono con i passi dei danzatori, delle tarantolate che tessono il racconto di tradizioni antiche. È un unicum senza soluzione di continuità di vibrazioni e di emozioni. I ricami di luce e i ricami del tombolo l’antica arte tramandata e ritrovata grazie alla Fondazione Le Costantine con i loro preziosi tessuti e all’operosità e all’estro di Marilena Sparasci e di Marco Fersino. Gli abiti disegnati dalla direttrice creativa Maria Grazia Chiuri, evocano la Puglia e la sua bellezza facendo incontrare le identità artigianali italiane e francesi. Lo stile Dior incontra la storia di questa terra e sembra voler scuotere dal torpore tutte le donne. Con eleganza e fascino mantenendo il legame con le proprie radici. Emblematico è il fazzoletto che alcune modelle indossano sulla testa, chiaro omaggio alle nonne salentine esempio di forza e dignità come si legge nella scritta “Strenght and dignity” fatta di milioni di led luminosi che ipnotizzano come il canto della pizzica, colonna sonora alla sfilata delle creazioni di Maison Dior. Una collezione sorprendente, legata a doppio filo con l’essenza della Puglia antica e magica che ammalia come il suo paesaggio. Un canto liberatorio come quello della taranta che ritrova le note di “Andramu pai” di Franco Corlianò il canto triste
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del migrante che parte e della donna condannata ad aspettare. Sembra far da contralto la citazione di Carla Lonzi che campeggia lungo la facciata del seminario. La difference pour les femmes est des millenaires d’absence de l’histoire. La differenza per le donne sono millenni di assenza dalla storia. Una storia di cui riappropriarsi, una storia da scrivere da protagoniste come suggeriscono le scritte motivazionali, inserite nelle luminarie curate dalla ditta Parisi su ideazione di Marinella Senatore autrice anche delle frasi che parlano di emancipazione femminile, di capacità, di esistenza e resilienza. Come suggeriscono gli abiti Dior belli, sofisticati al punto giusto elegantemente sensuali. Le désir est révolutionnaire car il cherche ce qui ne se voit pas. Il desiderio è rivoluzionario perché cerca quello che non si vede. Gli occhi seguono il perimetro della piazza , un fazzoletto di terra, di questa di questa amara terra come cantava il grande Domenico Modugno, pugliese doc che ha fatto “volare” l’Italia nel mondo cui un altro pugliese Giuliano Sangiorgi rende omaggio amplificando le emozioni di uno spettacolo a porte chiuse, a causa delle misure anticovid, ma che a luci spente continuerà a viaggiare nell’etere. On peu souvent creèr des revolutions san les avoir cherchees. Si possono creare delle rivoluzioni senza averle cercate. Chissà perché non ci stupiamo che questa piccola rivoluzione per Lecce, per una notte capitale dell’alta moda, l’abbia portata una donna… Grazie, Maria Grazia Chiuri. (an.fu.)
I LUOGhI DELLA PAROLA | L’EVENTO DIOR
dior, la nuoVa collezione omaggio alla puglia creatiVa
estate a corte il cinema ai quartieri spagnoli
U
n’anteprima nazionale, ‘Il ladro di cardellini’, con Nando Paone, alla presenza del regista Carlo Luglio ha dato il via alla rassegna “Estate a Corte” che porta il cinema nei Quartieri spagnoli di Napoli, nella Corte dell’Arte di Foqus, in Via Portacarrese a Montecalvario 69 dove dal 7 luglio al 24 agosto ogni sera dalle ore 21 (porte aperte alle 20) andrà in scena il grande cinema. In una bellissima corte cinquecentesca, nel pieno rispetto delle normative anti Covid, si potrà assistere ad anteprime, film di qualità e d’essai grazie all’impegno e alla sinergia di Foqus Fondazione Quartieri Spagnoli, Movies Event e Bronx Film, con la direzione artistica di Pietro Pizzimento, Giuseppe Colella e Fabio Gargano e la collaborazione della Film Commision Regione Campania, Impresa sociale “Con i bambini” e con il sostegno di THE FILM CLUB e MINERVA Pictures e il patrocinio della II Municipalità. «Dopo esserci impegnati sul territorio, nel periodo del lockdown
– spiega Rachele Furfaro, Presidente della Fondazione FOQUS – sostenendo la distribuzione di beni di prima necessità ad alcune centinaia di famiglie in particolare difficoltà, FOQUS e i Quartieri Spagnoli propongono alla città una nuova iniziativa. Dopo il successo del primo Festival del Cinema Spagnolo dello scorso anno, i Quartieri Spagnoli presentano nella Corte dell’Arte di Foqus una rassegna di cinema di qualità. Ogni sera d’estate, nel cuore dei Quartieri e di Napoli, la Corte dell’Arte di FOQUS, coperta da un velario trasparente che la rende agibile tutto l’anno, diventa una Piazza, luogo di accoglienza, di benessere e di incontro, a disposizione degli abitanti dei Quartieri e di tutti i napoletani». Visioni e incontri, proiezioni e dialoghi con i protagonisti del cinema grazie all’unione di tre realtà cinematografiche e culturali di Napoli rimarca Pietro Pizzimento: «In questa ‘invincibile estate’, per citare il titolo di una celebre poesia di Albert Camus, ci sono ampi segnali di apertura
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dopo una chiusura forzata e una viva volontà di riappropriarsi degli spazi e del tempo perso. La kermesse cinematografica all’aperto darà anche particolare attenzione alle produzioni Bronx Film, con opere vincitrici dei principali premi in festival internazionali e con l’intervento di molti autori.». La rassegna ha preso il via dal 7 luglio con il “ritorno” nei Quartieri spagnoli del regista napoletano Carlo Luglio che ha presentato in anteprima “Il ladro di cardellini” una storia ambientata in un nonluogo del Mediterraneo, dove ci si arrangia tra tentazioni di ludopatia e rincorse di uccellini spe-
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ciali in mercati clandestini, originali passepartout per il desiderio fiabesco di una nuova gioia di vivere. Tra gli ospiti finora sono intervenuti il regista e scrittore Guido Lombardi, autore de “Il ladro di giorni”, opera selezionata alla Festa del cinema di Roma 2019 e tre volte in nomination ai Nastri d’Argento 2020, Francesco Lettieri che di recente ha debuttato dietro la macchina da presa con il film “Ultras”, il regista Toni D’Angelo che ha parlato del suo lungometraggio “Falchi”, interpretato da Fortunato Cerlino e Michele Riondino e del suo cortometraggio “Nessuno è innocente”. Lo scorso 18
luglio Marco D’Amore, regista e interprete de “L’immortale”, ha presentato l’originale narrazione cross-mediale che si inserisce nell’affresco della serie Gomorra - racconta Pietro Pizzimento mentre il 23 luglio abiamo avuto con noi il regista Mario Martone con l’attore
Francesco Di Leva seguita dalla proiezione del film “Il sindaco del Rione Sanità”. La kermesse proseguirà il 24 e 25 con “C’era una volta Hollywod” di Quentin Tarantino con Leonardo Di Caprio e Brad Pitt; il 26 luglio con Valeria Golino in “Ritratto della gio-
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da sinistra: Fabio Gargano, Pietro Pizzimento e Giuseppe Colella
vane in fiamme”, il 27 luglio con la proiezione di “Radici” si terrà l’incontro con Enzo Gragnaniello mentre il 28 luglio si potrà vedere “So sempe chille” di Romano Montesarchio con Franco Ricciardi. Luglio si conclude con le proiezioni di “A tor bella monaca non piove mai” con Libero De Rienzo e Giorgio Colangeli; “Hammamet” di Gianni Amelio con Pierfrancesco Favino e “Favolacce” con Elio Germano che interverrà alla proiezione ci anticipa Pietro Pizzimento. Attesissimo l’incontro anche con Valerio Mastrandrea previsto per il 2 agosto. In via di definizione e con aggiornamento sul sito tutti gli appuntamenti in calendario fino al 24 agosto quando la rassegna lascerà lo schermo alla seconda edizione del Festival di Cinema Spagnolo. (an.fu.) Costo biglietto: 5 euro, prenotazione online facoltativa su https://www.azzurroservice.net/stagioni-teatrali/estate-a-corte-cinema-allaperto/ Info: 328 4218405 www.foqusnapoli.it
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I LUOGhI DELLA PAROLA
la raltà del due Giovanni Bruno
“
L’altro è forma di nutrimento, l’uomo senza l’uomo muore di fame spirituale
”
Le riflessioni dello psicologo psicoterapeuta Alejandro Jodorowsky nella poliedricità delle sue più diverse attività, con la citazione d’apertura tematizza quanto si vuole rappresentare in questo articolo. Il “ duale “ in termini linguistici è presente in molte lingue indoeuropee, nel greco antico, nel sanscrito ma anche nelle lingue semitiche come l’arabo o l’egizio. Sta ad indicare il tema del doppio : due occhi, due mani, due gambe, soprattutto due persone, due individui. La dualità dunque sembra la storia delle storie. Da sempre l’essere umano ha cercato di individuare un interlocutore con cui confrontarsi, un soggetto che gli desse un punto di vista diverso e nuovo, uno stimolo per scoprire mondi a lui sconosciuti. La stessa locuzione latina “alter ego”, un altro io, indica un sostituto di persona, un altro da sé, richiamando chiaramente il concetto di dualità. In letteratura il miglior amico del protagonista è individuato come l’alter ego dello stesso e può fare le veci di un’altra persona, ancora una volta dunque torna il tema dell’essere in due. La dualità è sempre presente e segue la
legge non scritta dell’istinto e delle emozioni, perché i contenuti dell’anima, dello spirito, del proprio Io si comprendono meglio se sono condivisi, se sono raccontati, se sono illuminati dalla luce dello sguardo dell’altro. C’è dunque una essenzialità nell’essere in due, nello scoprire l’altro ed essere dall’altro scoperto. La nostra stessa identità si costituisce con l’interlocuzione, con una relazione che è il preciso collegamento tra entità diverse. Ma nella dualità c’è molto di più. Con la scoperta dei neuroni specchio, neuroni mirror, i neuroscienziati, in primis l’italiano Vittorio Gallesi, hanno individuato il ruolo fondamentale che riveste l’altro soggetto nell’apprendimento in generale e nella costituzione della intersoggettività. Questa classe di neuroni definiscono un meccanismo preverbale che si attiva già solo guardando l’altro compiere determinate azioni. Si tratta di una sorta di intercorporeità che esiste ancora prima del linguaggio. Un “tu “ innato fortemente condizionato dai neu-
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roni mirror che hanno la funzione di far assumere comportamenti e condotte osservate nell’altro . Un meccanismo se si vuole molto economico che serve a gettare un ponte con l’altro, permettendoci così di essere sociali e nel contempo di relazionarci con l’altro. Con i neuroni specchio l’interconnessione è continua a molti livelli. Essi per esempio ci permettono di intuire le emozioni altrui, il dolore ma anche il piacere dell’altro, entrano in gioco nella acquisizione del linguaggio che nasce dalla osservazione della gestualità prima ancora che dall’ascolto. E inoltre proprio grazie ai neuroni specchio siamo in grado di sperimentare l’immedesimazione, il sentirsi nei “panni” dell’altro. E tutto questo si realizza con una tecnica
che potremmo definire di imitazione, di emulazione, ma anche di scimmiottatura, molto presente nell’età evolutiva. Ognuno di noi dunque ha uno stampo originario che tuttavia è fortemente condizionato dall’impronta dell’altro. Poi c’è sicuramente una lenta emancipazione dal modello osservato ma l’incorporazione della alterità è avvenuta, anche inconsapevolmente, ed ha aperto la strada al “Noi” che è comunque una grande conquista. L’uomo dunque ha una struttura biologica fortemente connotata e tuttavia l’ambiente e i suoi simili determinano delle modalità conoscitive dove la dimensione viva della vita si conforma e si modella continuamente col posare lo sguardo sull’altro e comprenderne ciò che emana.
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I LUOGhI DELLA PAROLA
informare partecipare Giovanni Bruno
Il luogo dello Psicologo Psicoterapeuta
“
Fonti e notizie. Come difenderci dalle fake news?
Forse è un po’ più di una boutade o forse un po’ meno: la gente più che essere informata vuole sentirsi informata. Il termine informazione deriva dal sostantivo latino informatio e quindi dal verbo informare, nel significato di dare un costrutto alla mente, una disciplina, una istruzione. Già l’etimologia appena descritta restituisce tutta la rilevanza e il peso che l’informazione riveste nel nostro tempo. Oggi tuttavia con l’avvento dei social media il rilievo dell’informazione ha assunto connotazioni decisive nell’orientamento dell’opinione pubblica e nella interpretazione della realtà in cui viviamo. Un dato oggettuale che viene istintivo nel considerare l’informazione è che essa dovrebbe sempre dire la verità. Ma nel contempo ci rendiamo conto di quante versioni può avere la stessa verità, da quanti angoli visuali la stessa narrazione può essere considerata. L’insegnamento giornalistico che spesso viene ripetuto è quello di separare i fatti dalle opinioni. Espressione facile da enunciare forse problematica da praticare. Ma quindi in che modo il singolo può acce-
”
dere a una informazione corretta e il più possibile fondata e indipendente? Forse partendo dalla propria persona ,dalla libertà mentale che ha elaborato e maturato, dai contenuti della sua coscienza che sono gli unici a poterlo guidare nella comprensione e nella valutazione dei fatti. Tutto questo prevede tempi lunghi e una maturità e consapevolezza che nel tempo della velocizzazione in cui viviamo può essere utopistico conseguire. Forse il singolo dovrebbe procedere a selezionare i dati, vagliando anche sommariamente le fonti, senza disperdersi nel flusso continuo degli annunci, cercando quel particolare che si stacca dallo sfondo e acquista una sua rilevanza che dà al fatto una lettura reale autentica e nuova. Una certa stampa per esempio procede per nemici, la notizia sempre correlata all’avversario del momento, all’antagonista da screditare o avversare. O ancora è facile riconoscere nella notizia il gusto dell’iperbole , dell’eccesso per poter colpire così l’immaginario del lettore o dello spettatore. Altra modalità spesso presente in certa
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Foto di memyselfaneye da Pixabay
stampa è il retroscena che soppianta la scena. Il fatto in sé passa in secondo piano, molto più accattivante l’intrigo, la presunta macchinazione che sta dietro al fatto stesso. Tutto questo per dire che l’informazione necessariamente deve avere un vaglio che può essere solo personale . E qui si innesta il grande tema delle fake news che mai come in questo periodo proliferano diventando quasi un genere letterario . Tutti conosciamo questo fenomeno, forse diretta conseguenza dei social media, che ha il solo intento deliberato di disinformare . Martin Heidegger, il grande filosofo tedesco, in suo scritto, di quelle che noi oggi definiamo notizie false così argomenta: una chiacchiera infondata circola proprio grazie alla sua infondatezza, non importa se è vera o falsa basta che l’enunciato sia ritenuto vero. Mentre lo storico Marc Bloch chiarisce che la falsa notizia è solo apparentemente for-
tuita, essa è unicamente collegata alla immaginazione che è sempre preparata e in silenzioso fermento. Tornando dunque all’inizio di questo articolo si potrebbe affermare che gli stimoli che i mass media offrono quotidianamente, minuto dopo minuto, sono così potenti e invasivi che si è portati ,nell’ansia di informarsi ,a non selezionare, a non valutare, così da determinare una bassa mentalizzazione che non aiuta a discernere e a giudicare. Forse dunque è il caso di rivalutare, in tema di informazione, la “forza normativa del fattuale”, perché la libera determinazione della coscienza si realizza solo con una informazione corretta e veridica che privilegia l’interdipendenza degli avvenimenti e la reciprocità dei problemi. È da questo tipo di informazione che germina un pluralismo democratico che è la condizione irrinunciabile per una società più giusta che aspiri alla coesistenza e alla inclusione.
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Amalfi, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
amalfi, delizia della costiera della campania felix Sara Foti Sciavaliere
Storie l’uomo e il territorio
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la più antica repubblica marinara, meta del Grand Tour
” V
i parlerò della più antica repubblica marinara, luogo simbolo della costiera amalfitana, che ancora oggi incanta, come ai tempi del Grand Tour. La dolcezza del clima e le bellezze architettoniche resero di fatto Amalfi una delle tappe preferite del Grand Tour in
costiera, quando nella seconda metà del 1800 Ferdinando II di Borbone fece realizzare la strada litoranea da Vietri sul Mare a Positano, la stessa strada che ancora oggi in molti percorrono per raggiungere le località su questo tratto di costa tra le più famose al mondo. Perso-
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Storie l’uomo e il territorio
Amalfi, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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nalmente mi è capitato più volte di raggiungerla via mare, dal porto turistico di Salerno quindi in navigazione sul Tirreno, da dove si vedono i Monti Lattari declinare sulle acque in pendii rocciosi e promontori su cui sono incastonati pittoreschi borghi, tra i quali Amalfi. Una volta attraccati ai moli, in pochi passi si è già nel cuore del centro. Ma soffermiamoci prima sul piazzale che si affaccia sul mare, qui si erge il monumento bronzeo a Flavio Gioia, amalfitano nato nel 1302, che, come si può leggere sul basamento “rese agevole la navigazione e possibili le più grandi scoperte”, per la sua invenzione della bussola, come vorrebbe la tradizione locale; seppure storicamente si tratterebbe del frutto dell’ingegno cinese, poi passato agli Arabi, che la introdussero nel mondo occidentale e quindi sarebbe approdata per prima ad Amalfi, essendo questa in stretti rapporti commerciali con le popolazioni arabe e pertanto fu, molto probabilmente, fra le prime a venire a conoscenza della bussola e delle sue applicazioni marinaresche. Se ci avviciniamo a Porta della Marina – l’antica porta De Sandala – notiamo, sulla parete, il magnifico pannello ceramico di Renato Rossi che illustra perfettamente la grandezza marinara di Amalfi e la portata de i suoi traffici. Dal pannello si evincono di fatto le rotte virtuose dei suoi commerci: da Amalfi, cariche di legname, le navi amalfitane giungevano sulle coste
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dell’Africa Settentrionale ove scambiavano il loro carico con oro, che in seconda battuta impegnavano sulle coste siriaco-palestinesi acquisendo stoffe preziose, oggetti di oreficeria e spezie , che in un’ulteriore terza fase rivendevano in molte città italiane. A sinistra del pannello c’è l’entrata degli Antichi Arsenali della Repubblica Amalfitana, unico esempio di cantiere nautico meridionale, seppure le undici arcate attuali siano solo la metà superstite delle originali che si aprivano un tempo direttamente sul mare. In esso venivano costruiti gli scafi delle galee da combattimento, impostate su centoventi remi. Le navi mercantili, in genere di basso cabotaggio, venivano costruite invece sugli arenili, che, pertanto, erano indicati con il termine bizantino di scaria. Lo scarium di Amalfi medievale si trova oggi sotto il mare di fronte alla città, dove sono stati di recente scoperti moli e attracchi di età medioevale. Oltrepassato l’arco di Porta della Marina, si passa tra botteghe e locali di prodotti tipici, i profumi della cucina di pesce, il giallo brillante dello sfumato di Amalfi, il limone I.G.P. coltivato nei caratteristici “giardini” a terrazze dell’intera costiera, usato per alcune specialità tra le quali il limoncello, dal profumo e il sapore intenso, o anche le granite dei chioschi da consumare continuando a passeggiare. Tra le tipicità non bisogna neanche dimenticare le i piccoli negozi dove acquistare la carta di Amalfi, in bambagina, tradizione antica
Storie l’uomo e il territorio
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ancora attuale nelle cartiere locali in un’area dell’entroterra, nella Valle dei Mulini. L’attuale centro urbano di Amalfi coincide grosso modo a quello della città medievale, quindi conserva tuttora le vestigia del suo glorioso passato e può essere considerato a giusta ragione una sorta di museo vivente. Tra queste emergenze architettoniche si segnalano chiese e cappelle, monasteri e conventi (alcuni dei quali diventati alberghi già nel XIX secolo), dimore dell’aristocrazia mercantile medievale, torri e mura. Al centro della Piazza del Duomo, ai piedi della maestosa scalinata in cima alla quale si apre scenografica la facciata del Duomo e del campanile al suo fianco. Nella piazza si riconosce la settecentesca Fontana del Popolo o di Sant'Andrea, con le sculture marmoree del santo patrono e di divinità marine. Originariamente si trovava all'inizio della scalea del duomo, ma ai primi del Novecento fu spostata dove la si può vedere oggi. L’acqua della fontana, proveniente dal fiume Sele, sbocca dalle statue marmoree di quattro putti, da quella di Pulicano, una divinità marina, e da quella di un uccello, sottostanti la più grande statua di Sant’Andrea in croce, allo stesso è dedicata la principale chiesa di Amalfi. Piuttosto che di Duomo, nella celebre località campana sarebbe più corretto parlare di complesso monumentale , in quanto composto da più corpi autonomi, sebbene intimamente collegati tra loro: la scalea che conduce all’atrio di ingresso, due basiliche annesse, una cripta inferiore, il campanile e il Chiostro del Paradiso. Immaginiamo di visitare il complesso, seguendo un itinerario preciso poiché c’è un percorso obbligato per ragioni di ordine. Ammiriamo prima la facciata policroma, completamente ricostruita nel 1800 a seguito di un rovinoso crollo, mentre il campanile
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Amalfi, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
rivestito di maioliche multicolori fu ultimato nel 1276. Intanto risaliamo la scalea e facciamo attenzione a una superstizione: se siete scaramantici non salite le scale del Duomo di Amalfi mano nella mano perché secondo la leggenda popolare la coppia che sale insieme questi gradini non si sposerà mai. La posizione in cui è sorto il Duomo di Amalfi è strategica non solo per-
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ché è centrale rispetto al resto della città, consentendo uno sviluppo urbano ordinato, ma ha protetto la stessa dagli attacchi dei nemici. Il pianoro rialzato di 20 metri rispetto al mare è fatto di pomice vulcanica molto dura e resistente, in gergo i produttori la chiamano “torece”. In cima alla scalinata non si può non ammirare il portone principale (solita-
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mente chiuso per lasciare defluire i visitatori da un più controllato ingresso laterale da considerarsi uno degli elementi artistici di maggior valore della nuova Cattedrale. La porta di bronzo fu realizzata a Costantinopoli per volere del ricco mercante amalfitano Pantaleone de Comite Maurone, il quale la donò all’Episcopio della sua città verso il 1060; essa presenta quattro figure ageminate in argento, raffiguranti Cristo, la Vergine, Sant’Andrea e San Pietro, inoltre rappresenta il prototipo per una serie di coeve porte bronzee donate dallo stesso Pantaleone e dalla sua famiglia a San Paolo fuori le mura (Roma), a Montecassino, a San Michele Arcangelo sul Gargano. Ricordiamo che la cattedrale cittadina, in origine dedicata all’Assunta, è dedicata a Sant’Andrea, come potrebbe far desumere la fontana in piazza, in ringraziamento del miracolo del 27 giugno 1544. Le fonti raccontano che in quella data le navi dei pirati stavano per entrare nel porto della città e gli amalfitani si ripararono in chiesa chiedendo l’aiuto del santo, allora un vento forte si abbatté contro le imbarcazioni dei nemici, impedendo loro di realizzare l’offensiva. Faremo il nostro ingresso nel complesso monumento dal Chiostro del Paradiso, a sinistra delle due basiliche, sul fronte settentrionale. Qui l’Arcivescovo Filippo Augustariccio edificò, nel 1268, questo spazio come cimitero per nobili e cittadini illustri, identificato
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da un quadriportico con archi intrecciati poggianti su colonnine binate, nel quale sono evidenti sei cappelle affrescate; l’opera pittorica di maggior rilievo è, a tal proposito, la Crocifissione attribuita alla scuola napoletana di Giotto. Al centro del Chiostro del Paradiso, di gusto arabeggiante, c’è un giardino con palme che con molta probabilità è stato realizzato dopo il restauro del 1908 visto che dagli inizi del XVII secolo era stato abbandonato. Di fronte al chiostro si erge il campanile della cattedrale, che fu realizzato in stile romanico tra il 1180 e il 1276, e in quest’ultima data fu costruita la cella campanaria in stile moresco sempre per volere dell’Arcivescovo Augustariccio.
cente. L’elemento più antico della struttura è certamente la Basilica del SS. Crocifisso, edificata prima dell’anno 833; accanto a essa nel 987 sorse l’attuale Cattedrale dando vita a un’unica maestosa cattedrale metropolita a sei navate, – alla fine dei lavori, il Duomo di Amalfi ricordava più una moschea araba che un edificio cristiano – per essere poi nuovamente divisa in due chiese in epoca barocca. Risale al 1206, invece, la costruzione della Cripta, destinata ad accogliere le sacre spoglie di S. Andrea Apostolo, protettore dell’intera diocesi amalfitana almeno sin dalla prima metà del X secolo. Nel 1931 e per sessanta lunghi anni sono stati disposti dei nuovi lavori per recuperare la struttura medievale originaria della Basilica del Crocifisso, mostra colonUna porticina nel quadriportico ne e capitelli di spoglio, archi fa accedere nell’edificio adia- acuti, bifore e monofore duecen-
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Amalfi, reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
tesche, affreschi del periodo angioino, e allo stato attuale essa ospita il Museo di Arte Sacra del Duomo, tra i cui oggetti esposti assumono particolare rilevanza una mitra angioina con pietre preziose e ventimila perline autentiche, nonché un calice smaltato del XIV secolo.
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del Seicento, un altare che presenta la statua bronzea di Sant’Andrea, opera di Michelangelo Naccherino, e quelle marmoree dedicate da Pietro Bernini ai Martiri Lorenzo e Stefano. In quegli stessi anni furono affrescate le volte a crociera della cripta, mediante scene della vita di Cristo. Sin dal 1304 sulla tomba dell’Apostolo si verifica un Una scala ci porta giù nella cripta della con- “segno particolare”, cioè la comparsa in fessione dove è custodita la tomba dell’Apo- quantità variabili di un liquido oleoso, incostolo, sulla quale fu realizzato, nei primi anni lore e inodore, la cosiddetta “manna”, che
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secondo la tradizione avrebbe compiuto numerosi miracoli, guarendo fedeli locali e pellegrini. Le reliquie furono sistemate in modo che la manna potesse venir raccolta, mediante un canaletto, in occasione delle sue frequenti e miracolose emanazioni, interpretate dagli amalfitani come un segno della protezione dell’Apostolo. Un’altra scala dalla parte opposta della cripta permette risalire nel Duomo, tra la quarta e la quinta cappella, fu trasformato completamente in chiave barocca agli inizi del XVIII secolo per
iniziativa dell’Arcivescovo Michele Bologna; testimonianze di questo intervento sono le tele del pittore napoletano Andrea d’Aste, rievocanti il martirio di Sant’Andrea, e il soffitto in oro zecchino. Usciti dalla Cattedrale e ritornando in piazza, è possibile risalire via Lorenzo d’Amalfi che continua in via Pietro Capuano, vocianti e variopinti della folla di visitatore e delle merci esposte lungo questa arteria, che sale verso il Museo della Carta, si incontra, sulla destra, in una breve piazza la Fontana di Cap 'e Ciuccio, sita poco prima della distrutta Porta dell’Ospedale, limite a nord del paesino. Due mascheroni marmorei gettano acqua nella fontana adornata da un presepe, tradizione sviluppatasi da alcuni decenni. Gli asini – ai quale fa riferimento il nome popolare della fontana – provenienti dalla Valle delle Ferriere, da dove proveniva e proviene l’acqua, vi si abbeveravano. Tale fontana simboleggia la memoria dell’Amalfi rurale e contadina. Sul lato occidentale della piazza dello Spirito Santo si affaccia il Palazzo Castriota, appartenuto tra la fine del XV e per tutto il XVII secolo alla nobile famiglia albanese dei Castriota Scanderbegh, ramo cadetto della stirpe reale trasferitosi in Italia meridionale con il noto condottiero Giorgio nella seconda metà del Quattrocento. La parte più antica del palazzo sono i primi due piani che evidenziano un’architettura tardogotica quattrocentesca. Subito accanto possiamo notare l’arco di una galleria: è il Supportico Rua, un’alternativa – soprattutto nelle giornate maggiormente assolate – tornare sui propri passi approfittando di questa strada coperta che pare insinuarsi nel ventre delle abitazioni, una delle più antiche vie della città risalenti al Medioevo, nel suo ombroso silenzio appena discosto dalla chiassosa via che corre parallela. Si torna così verso la piaz-
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za principale dove si può continuare a scoprire il fascino celato di Amalfi spingendosi al di sotto del complesso monumentale del Duomo, per il supportico Sant’Andrea, dove in un angolo si nasconde la chiesetta di S.Anna Piccola. La via coperta da arcate ogivali si inoltra in un quartiere dalla struttura arabeggiante, con vicoli che si a p r o n o , come ferite, inerpicandosi per strette scale e passaggi. Prossimi alla Piazza del Municipio, si può scegliere di avventurarsi per via Torre dello Ziro che conduce all’omonima torre oppure
da una galleria attendere, con un po’ di pazienza, l’ascensore che, risalendo il promontorio, conduce al Belvedere del Cimitero Monumentale, dove si può godere di uno splendido panorama sulla costa. Ma facciamo un passo indietro… cos’è la Torre dello Ziro? Sullo sperone di roccia che si protende verso il mare, tra Amalfi e la vicina Atrani, si eleva la torre cilindrica angioina, con uno stretto camminamento, cinto da mura merlate, che la collega al punto estremo della spianata. La parola “ziro” derive-
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rebbe forse dall’arabo “cilindro”, ma è un’ipotesi. La datazione è altrettanto incerta e ha subìto diversi restauri e trasformazioni; uno degli interventi risale al 1480 e fu ordinato da Antonio Piccolomini, Duca di Amalfi. Si racconta che la Torre dello Ziro, nei primi anni del XVI secolo, sia stato teatro di uno dei più sanguinosi episodi della storia della cittadina perché, al suo interno, fu prima rinchiusa e poi giustiziata ferocemente con i suoi tre figli Giovanna D’Aragona, duchessa d’Amalfi. La sua colpa era di aver stretto una relazione col maggiordomo di corte, Antonio Bologna, dopo essere rimasta vedova (ancora ventenne) di Alfonso Piccolomini, uomo dissoluto e corrotto al quale era andata in sposa a soli dodici anni. Giovanna aveva sposato Antonio in segreto e da lui ebbe dei figli, tuttavia, quando i due fratelli di lei, il cardinale Carlo e Federico, scoprirono la cosa, mostrarono il loro dissenso cercando di dividere i due amanti; questi fuggirono, ma, rintracciati, il Bologna fu ucciso e Giovanna ricondotta ad Amalfi dove sparì. La storia, svoltasi nel 1500, è un fatto realmente accaduto, raccontato tra i tanti da uno dei maggiori novellieri rinascimentali Matteo Bandello in uno dei
suoi scritti, testimone oculare della vicenda perché era anche amico del Bologna; poi venne addirittura trasposta in forma di tragedia da John Webster, nel XVI secolo, che però conclude la vicenda con l’uccisione di Giovanna da parte di un sicario. La tradizione locale tramanda invece che Giovanna, ricondotta ad Amalfi, fu rinchiusa nella Torre dello Ziro e murata viva insieme ai figli, frutto dell’amore segreto. Non stupisce pertanto che la credenza popolari voglia la Torre come un luogo popolato da fantasmi e da cui stare alla larga. Ma alleggeriamo un po’ gli animi, perché non si può andare via da Amalfi senza assaggiare uno degli squisiti esempi di pasticceria campana, le delizie al limone, dolcetti dalla morbida cupoletta di pan di Spagna e gustosa crema ai limoni di Amalfi. E possibilmente seduti ai tavolini della storica pasticceria Pansa, in attività dal 1830, con una location non indifferente, integrata nelle architettura di Piazza del Duomo, a pochi passi dalla scalea monumentale, con un occhio agli zampilli della fontana di Sant’Andrea e l’orizzonte meridionale tra cielo e mare ritagliato dalla prospettiva di una delle vie che nella piazza confluiscono.
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cuore di ceramica gli amori belli e fragili
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Dal 30 giugno il nuovo album del cantautore brindisino
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inque brani inediti per “Cuore di ceramica”, il nuovo lavoro discografico del cantautore brindisino Gianluigi Cosi che firma e infila nella sequenze di brani dedicati all’amore fragile ma bello come la ceramica anche la cover di “Take a Look at Me Now” di Phili Collins che ha fatto ballare e innamorare intere generazioni. Il brano del 1984 inserito nella colonna sonora del film “Due vite in gioco” (Against All Odds) diretto da Taylor Hackford, ottenne il Grammy Award per la migliore interpretazione pop vocale maschile. La versione intitolata “Dentro di me” che ci propone Cosi, pur conservando la base musicale originale, reinventa completamente il testo che immagina come una lunga promessa d’amore. L’amore che vive dentro e non si dimentica, appunto. E sull’onda decisamente romantica degli amori che cambiano la vita segnaliamo la canzone “C’e un mare che devi venire a vedere” che è anche quella scelta per il video promo del disco prodotto da LunaRock record edizioni Lungoviaggio di Enrico Ranalli. La copertina dell’Ep è stata realizzata dall’artista Filippo Motole. Il mixaggio e gli arrangiamenti sono realizzati da Fabio Masi. Brindisino doc Gianluigi Cosi scrive canzoni
da diversi anni, suona chitarra e pianoforte, e ha all’attivo tre pubblicazioni di filastrocche per bambini che hanno come filo conduttore la sensibilizzazione alla salvaguardia dell’ambiente e della natura: “Betta Caretta, Camilla Clorofilla, Iole Giraosole, editi da Il Raggio Verde edizioni.
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rebibbia, pasolini e una chitarra il nuoVo singolo di gimbo
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Un disco ed un videoclip dedicato al quartiere capitolino/Rebibbia
”
M
ammut è il titolo del nuovo singolo e video del cantautore romano Giampietro Pica, in arte Gimbo, disponibile su tutte le piattaforme digitali da martedì 30 giugno pubblicato da Redgoldgreen. Nella musica di Gimbo si trova la semplicità del cantautorato più puro, la concretezza di rime e suoni che vogliono raccontare una storia. Un block notes e una chitarra che si sposano, però, con un raffinato arrangiamento che omaggia i capiscuola del genere italiano come De Gregori o Dalla. Le suggestioni fugaci di un momento si susseguono tra strofe e ritornelli costellati di melodie e armonie, dove un delicato assolo di clarinetto chiude il brano. L’ensemble è completato dal contrabbasso di Giacomo Nardelli, dalla drum machine di Raina e Bootloop, dal clarinetto di Attilio Errico Agnello oltre alla chitarra dello stesso Gimbo. Sia il testo, sia il videoclip sono dedicati al quartiere capitolino /Rebibbia. Proprio il titolo del brano Mammut, infatti, è ispirato alla mascotte di zona: un simbolico elefante preistorico che si aggira per le strade e per le piazze di questo luogo della periferia NordEst di Roma. Il video, realizzato con il patrocinio del Comitato Mammut, è dedicato a tutti quelli che questo quartiere, lo hanno vissuto e a chi ancora lo vive, all'impegno sociale
delle persone e alle molte manifestazioni di questa unità. Il brano descrive, in modo personale e simbolico le caratteristiche di quella zona attraverso lo sguardo del protagonista, che è proprio il Mammut. Questo girovagare è scandito da diversi riferimenti testuali dai film di Pasolini che nel quartiere visse, alla solidarietà di quartiere, ai writer del mondo HipHop ed ai familiari dei detenuti che da fuori gridano verso il carcere per un saluto. Tutto lo screen play è costituito dalle tavole inedite della pittrice e illustratrice Clelia Catalano, che con il suo tocco ha creato e animato delicate composizioni che accompagnano testo e musica. Delicati accostamenti cromatici e pennellate oniriche descrivono scenari intimi fuori dallo spazio e dal tempo. E come racconta Gimbo: “Ciascuno, in modo diverso, è parte della vita del quartiere...”.L’appellativo Gimbo, (come veniva chiamato da piccolo ma anche a metà strada tra Gilberto Gille Jim Morrison) suggerisce nell’accomunare diversi generi musicali che la musica di Giampietro travalica le “frontiere” pur accogliendo le influenze che vanno dal reggae alla musica caraibica, dall’afro come al folk americano fin verso la popular music.
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1 - Parco archeologico di Selinunte (TP), veduta frontale del Tempio E (Tempio di Hera), foto di Dario Bottaro
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la romantica bellezza della costa sud occidentale della sicilia Dario Bottaro
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Viaggio lungo la costa da Selinunte a Mazzara del Vallo e Marsala tra le pietre antiche dei templi ai ricami delle chiese barocche
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i presenta abbagliata e quasi inghiottita dalla luce cocente del sole, questo tratto di costa della Sicilia che corre da Selinunte fino a Mazara del Vallo e poi sale ancora verso Marsala. Un bagno di luce e di riflessi che si rin-
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corrono a pelo d’acqua instancabilmente, senza sosta, non curandosi degli occhi curiosi che con meraviglia si posano sulle increspature delle onde, poi sulla riva, sbattono sulle scogliere e di nuovo si muovono in cerca della bellezza, nel disperato
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tentativo di catturare ogni singolo frammento del bello. Il bello! In Sicilia questo termine ha a che fare con un mondo che non puoi mai conoscere completamente, troppo grande per essere guardato, conosciuto, indagato, troppo profondo per lasciare intravedere quei tratti più nascosti che il tempo ha fermato, anche nel suo scorrere inesorabile. Il bello in Sicilia è il sole che sorge e lambisce la terra, è il silenzio del mare calmo accompagnato dalla brezza, è il caos delle onde del mare in tempesta e delle voci dei pescatori e delle benedizioni implorate al cielo, nel continuo rinnovarsi di riti e usanze che hanno dato da mangiare a intere comunità. Il bello in Sicilia è anche l’elegante
convivenza dell’antico con il moderno, della pietra con l’acciaio, delle strade sommerse dal mare e dei grovigli di vicoli che si susseguono e si incastrano come un gomitolo attorcigliato. E lì sono i cortili popolari, disseminati di santi e quartare, di piante ornamentali e di gingilli apotropaici appesi fuori dalle case, quasi ad invocare la buona sorte. Immagini di una Sicilia che sembra voler dire “non disturbatemi, lasciatemi riposare nel caldo del meriggio estivo, tornate più tardi, adesso voglio sonnecchiare”. Questi sono soltanto alcuni esempi del bello, di quella forza arcana che risiede in ogni angolo della nostra terra e ci ricorda che la storia è sotto i nostri piedi.
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2 - Parco archeologico di Selinunte (TP), veduta prospettica del Tempio E (Tempio di Hera), foto diDario Bottaro
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3 - Particolare interno del Tempio E (Tempio di Hera, nel parco archeologico di Selinunte (TP) 2020, foto di Dario Bottaro
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Entrando nel parco archeologico di Selinunte si rimane impressionati dalla vastità dello spazio che si apre davanti ai nostri occhi e sul quale si stagliano le possenti architetture dei templi. Un’area di storia e di sacro che si sviluppa nella campagna per poi trovare riparo sotto una pineta e infine tuffarsi nel mare, dominato dall’alto in cima alla scogliera, dall’acropoli. Un susseguirsi di rovine, a destra e a sinistra, fanno quasi da spettatori muti delle tante persone che camminano per i sentieri tracciati sulla terra. Oleandri e piante di tante specie, tipiche della macchia mediterranea, addobbano gli angoli perimetrali dei templi con le imponenti colonne che si stagliano verso il cielo, in un coro di voci silenziose che inneggiano al glorioso passato di questo lembo ti terra. Percorrere la grande area archeologica è come compiere un viaggio nella storia antica, sembra di sentire il chiasso del popolo attorno ai templi e poi ancora l’austerità dei sacerdoti delle divinità olimpiche. Si rimane frastornati quando dopo questa prima tappa ci si dirige verso Mazara del Vallo. La
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Parco archeologico di Selinunte (TP), Tempio C, 2020, foto di Dario Bottaro
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città di San Vito e del “Satiro danzante” accoglie i turisti e i forestieri con la bellezza solenne del suo centro storico, una vera stratificazione urbana che riflette la mescolanza e la convivenza di culture diverse, specialmente quella araba. Sostando nella grande piazza accanto alla Cattedrale, ancora una volta si rimane abbagliati dalla bellezza. La pietra color ocra è spezzata dal bianco delle pareti e ritmata dal grigio dei marmi che decorano la facciata della Cattedrale e i palazzi circostanti. Lo sguardo incrocia i colori sgargianti, si posa su un putto, su un dettaglio, su una delle verdi palme che adornano, circondandola, la statua di San Vito posta in piazza. Il verde e l’azzurro sono i colori predominanti, qui, in questo tratto cittadino che sembra tuffarsi nel mare, che a pochi metri bagna la riva e fa da sfondo al grande “Arco normanno” che ricorda la grandezza di un popolo che ha rinnovato la Sicilia. Pochi passi dietro la Cattedrale e
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Mazara del Vallo, arco normanno, 2020, foto di Dario Bottaro
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Cattedrale di Mazara del Vallo, 2020, foto di dario Bottaro
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Decorazioni murali in maioliche nel quartiere arabo di Mazara del Vallo, Pannello in maiolica con versi in siciliano dedicati a S. Vito, foto di Dario Bottaro
impreziosirli. Ciascuna diversa dall’altra, mani artigiane che hanno dato vita a un movimento che si apprezza più nell’insieme che nella singola mattonella di maiolica. Sono di varie dimensioni, alcune isolate altre affiancate fino a creare un unico grande pannello dove è raffigurato un pesce, o le barche ormeggiate al porto, oppure raccontano di storie, miti e leggende, come quelle dei saraceni o di San Vito. Si cammina a testa all’insù, cercando di incrociare porzioni di cielo che sembrano essere ritagliate dai contorni dei palazzi e delle chiese.
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si inizia a camminare verso la zona del quartiere arabo, ma non ci si rende conto del passaggio da una cultura all’altra perché quelle strade sembrano accompagnare il visitatore. Vi si affacciano altre chiese dalle architetture barocche, colonne e fregi e statue che con i loro colori diventano armonia per lo sguardo e creano stupore. Poi le strade si stringono e iniziano a seguire un andamento diverso, più sinuoso e labirintico, strade che si incrociano con piccoli pittoreschi cortili che fanno bella mostra dei loro colori. Sono le maioliche fissate ai muri ad
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Portale barocco del Collegio dei Gesuiti a Mazara del Vallo, foto di Dario Bottaro
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da sinistra: Monumento a S. Vito Patrono di Mazara del Vallo; Prospetto principale della Chiesa Madre di Marsala (TP), foto di Dario Bottaro
Proseguendo per la costa si imbocca la strada per Marsala, ed è qui che gli occhi del viaggiatore possono ammirare un pezzo di storia che ha fatto grande la Sicilia sul finire dell’Ottocento e per alcuni decenni del secolo successivo. Come una grande fortezza dai colori del sole, si innalza lo stabi-
limento Florio, il cui ingresso al grande giardino è segnato da un grande cancello e dall’immagine a bassorilievo del leone. I leoni di Sicilia. Questo il titolo dato al libro dalla scrittrice Stefania Auci che con grande destrezza e una scrittura intensa, ha narrato la storia dei Florio, una delle famiglie che
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fece grande la Sicilia, prima semplici venditori di spezie, poi imprenditori del mare con la loro tonnara e poi ancora con gli stabilimenti per la produzione del vino e molto, molto altro ancora. Marsala è un prezioso centro di storia e di cultura dove le strette strade del centro storico prosperano di bel-
lezza con le facciate delle chiese in stile barocco e i palazzetti nobiliari dagli ampi portali che si aprono sui cortili che mettono in mostra palme e anfore traboccanti di gerani dalle delicate sfumature. Una lunga retta sembra dividere in due il centro, è il corso principale che inizia e termina con le
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Veduta delle saline dello Stagnone di Marsala (TP) al tramonto, foto di Dario Bottaro
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Da sinistra: Mulino nelle saline dello Stagnone di Marsala (TP); Busto reliquiario di S. Tommaso Becket, Chiesa Madre di Marsala (TP); Ingresso delle cantine Florio a Marsala (TP), foto di Dario Bottaro
due antiche e possenti porte di ingresso alla città. Su questa via si apre la piazza con l’ampio sagrato della Chiesa Madre che per l’armonia della facciata delineata dai due campanili laterali, riporta la mente del viaggiatore alla Cattedrale di Noto, seppur in dimensioni più piccole. E’ all’interno di questa chiesa - la cui prima costruzione risale all’epoca normanna - che troviamo raccolte numerose opere d’arte e tesori. Uno in modo particolare cattura l’attenzione e si fa
testimone dell’importanza del legame fra questa terra e l’Inghilterra medievale. E’ il busto reliquiario di S. Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbury, a cui la chiesa è dedicata. Una scultura rivestita d’argento, dalle linee rigide ed essenziali, che narra dei rapporti fra la Sicilia e il nord dell’Europa durante il periodo della dominazione normanna. A pochi chilometri dal centro abitato, costeggiando il mare, il paesaggio cambia e dallo sfarzo del centro storico si passa
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all’ampia veduta delle famose saline, uno dei luoghi più belli di questo angolo di Sicilia, conosciuto in tutto il mondo per la bellezza del paesaggio che al tramonto si tinge di rosa e di arancio riflettendo sulle acque circostanti i colori del sole che sposano le numerose piramidi di sale disseminate accanto alle vasche naturali che sembrano ricamare il mare a pelo d’acqua, creando un disegno austero ed elegante sopra al quale fanno bella mostra alcuni mulini ancora fun-
zionanti che disegnano il cielo con il loro movimento. L’aria qui ha l’odore del mare e del sale, ma profuma anche di gelsomino e ci invita a sostare per godere di questo meraviglioso e sempre nuovo spettacolo tra cielo e terra.
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Museo del Mare di Nardò reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
il museo del mare antico di nardò in riVa allo ionio Sara Foti Sciavaliere
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Reperti di età romana provenienti da scavi archeologici custoditi in un luogo carico di fascino e di storia
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Nella periferia di Nardò, a circa sette chilometri dalla costa salentina jonica, troviamo il Museo del Mare Antico, nato grazie alla collaborazione tra Comune, Soprintendenza ABAP per le province di Brindisi, Lecce e Taranto e Dipartimento per i Beni Culturali dell’Università del Salento, e attualmente affidata nella gestione all’Associazione The Monuments People. Il museo ospita importanti reperti di età romana provenienti da indagini archeologiche effettuate nel mare e lungo la costa neretina.
accogliere i resti della nave romana di Santa Caterina, ha poi risposto a un progetto ben più ampio, “Il paesaggio come museo. Archeologia della costa di Nardò”, tuttora in corso, che si articola in un programma di ricerche di archeologia dei paesaggi marittimi, con scavi e prospezioni a terra e a mare, finalizzato a ricostruire le dinamiche di evoluzione e di popolamento della costa nei secoli, così come le rotte e i circuiti commerciali che la toccavano. Nel 2008 e nel 2010 si sono svolte due campagne di scavo archeologico in località Inizialmente concepito per Frascone (nel comune di
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Museo del Mare di Nardò reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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N a r d ò ) , durante le quali studenti e archeologi sono stati impegnati nelle attività di scavo, documentazione e laboratorio, allestito presso i locali di Masseria Torrenova, all’interno del Parco Naturale Regionale di Porto Selvaggio e Palude del Capitano. Sono state pure effettuate ricognizioni archeologiche di superficie del territorio circostante il sito archeologico e prospezioni subacquee dei fondali antistanti il Parco di Porto Selvaggio, dell’area del relitto degli Scogli delle Tre Sorelle, lo scoglio di Punta Lea e il tratto di mare corri-
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spondente al sito di Scalo di Furno a Porto Cesareo. La località Frascone rappresenta il limite nordoccidentale del Parco e dell’area umida della Palude del Capitano. Si tratta di una zona fortemente interessata da fenomeni di carsismo marino, che generato piccole doline chiamate localmente “spunnulate”, colme di acqua salmastra. Il luogo si caratterizza per la presenza di una piccola baia di forma semicircolare all’ingresso della quale, a qualche centinaio di metri di distanza, si staglia un isolotto di modeste dimensioni.
Museo del Mare di Nardò reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
L’area oggetto di scavo era già nota da un punto di vista archeologico per la presenza di materiale ceramico rinvenuto in superficie nell’area immediatamente a sud della baia, per la presenza lungo la costa di segni di cava, per il ritrovamento subacqueo fortuito di un contrappeso di stadera in bronzo e per la presenza, lungo parte del tratto occidentale della baia, di un allineamento murario costituito da grossi blocchi parallelepipedi in calcarenite locale. L’allineamento murario si trova a pochi metri dalla battigia e rappresentava, fino all’avvio dei lavori di scavo, l’evidenza archeologica più consistente. È proprio al sito archeologico di Frascone, nella Palude del Capitano, che è dedicato un focus della collezione del Museo del Mare Antico di Nardò, in cui si illustrano, attraverso reperti e ricostruzioni, le diverse fasi di frequentazione del sito indagato dall’Università del Salento in collaborazione con l’allora Soprintendenza per i Beni Archeologici. Le evidenze messe in luce permettono di ipotizzare l’esistenza di un edificio (villa) legato a una proprietà terriera (fundus), che nacque in età romana repubblicana (II sec. a.C.), forse su un insediamento precedente, e continuò a vivere fino alla prima età imperiale. A questa fase fa
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riferimento un tesoretto di denari d’argento rinvenuto che venne sepolto dal proprietario della villa nella seconda metà del I sec. a.C., probabilmente in un momento di pericolo o distruzione dell’edificio. La presenza in questo ricco gruzzolo di una moneta del regno di Numidia ha ispirato l’affascinante ipotesi che questi fosse un veterano della campagna d’Africa di Cesare, tornato a casa dopo la guerra. Nella seconda metà del III sec. d.C. il sito viene occupato di nuovo, ma con tutt’altra funzione: vengono costruite abitazioni molto semplici, con una tecnica edilizia pove-
ra, sembrerebbe a carattere stagionale, in un villaggio dedito ad attività legate al mare, in generale, e alla pesca in particolare, come testimoniano i numerosissimi pesi da rete in ceramica e in piombo rinvenuti, gli ami in bronzo, i chiodi a sezione quadrata di imbarcazioni, ma anche i resti di pesci, molluschi e crostacei consumati in loco. Il carattere manifatturiero dell’insediamento (o di questo settore dell’insediamento) è suggerito anche dalla massiva presenza di ceramica comune, mentre i resti ittici sembrano alludere ad attività di trasformazione/lavora-
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Museo del Mare di Nardò reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
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reno agricolo. Il Museo del Mare Antico di Nardò ospita anche le anfore del relitto della nave romana di S. Caterina – Punta dell’Aspide, inserite nella ricostruzione della sezione trasversale di una stiva a grandezza naturale. Si tratta di un carico molto interessante, che testimonia la capacità produttiva del Salento ormai romanizzato – il naufragio si data al II sec. a.C. – all’inizio della grande stagione delle esportazioni di olio e vino locali in tutto il Mediterraneo e soprattutto verso Oriente. Era luglio 1982 quando i Carabinieri rinvennero, nascoste nella pineta di Santa Caterina, alcune anfore che era state trafugate da un relitto. Questo fu individuato e le
Storie l’uomo e il territorio
zione del pescato, per esempio la produzione di conserve di pesce. Nella moltitudine di reperti recuperati sul sito, oltre a lucerne in ceramica, è stato rivenuto un piccolo colino in bronzo, probabilmente usato nelle pratiche di aromatizzazione del vino. Ma indicazioni più particolareggiate sugli abitanti del villaggio sono fornite dagli oggetti di uso personale. Ad esempio si documenta la presenza femminile per via di spilloni in osso, adoperati dalle donne per le loro acconciature, ma anche bracciali in vetro nero o in bronzo, anelli e perline. Infine, in età tardoantica (V – inizi VI sec. d.C.), si registra l’abbandono del villaggio e la trasformazione dell’area in ter-
Storie l’uomo e il territorio
Museo del Mare di Nardò reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
due successive campagne di scavi subacquei permisero di scoprire rilevanti dati sui traffici marittimi di questo tratto di costa. Ma quello della nave di Santa Caterina non è un episodio isolato, di fatto, accanto a questo nucleo principale, sono esposti reperti provenienti da altri relitti: per esempio dal carico più antico (IV sec. a.C.) degli Scogli delle Tre Sorelle, sempre di anfore vinarie, così come rinvenimenti subacquei isolati. I naufragi sono databili tra la fine del IV e il II sec. a.C. e testimoniano una vivace circolazione nel periodo delle Guerre Puniche e allo stesso si assiste anche all’operosità di numerose villae – sia residenze che aziende agricole – lungo la costa e nell’entroterra, come potrebbe esserne un esempio la villa del veterano di Frascone. Il progetto espositivo ha privilegiato la funzione divulgativa e soprattutto didattica del Museo, che contempla un percorso specifico dedicato ai visitatori più giovani: il Museo dei piccoli. Qui
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infatti un personaggio, Antonius, bambino romano, indica ai suoi coetanei un percorso narrativo interattivo che si snoda attraverso postazioni multimediali a loro dedicate. Il Museo dei piccoli è curato da Maria Laura Spano, specializzata in didattica museale, da molti anni impegnata nella ricerca di metodologie coinvolgenti ed efficaci. Sempre in questa prospettiva si è dato ampio spazio a disegni e ricostruzioni, come i due plastici dedicati alle due distinte fasi dell’insediamento di Frascone. Ma il Museo del Mare Antico di Nardò è un spazio per le famiglie, per i curiosi, gli appassionati e i cultori di archeologia, per scoprire un pezzo di storia del territorio celato dalla polvere del tempo e dalla sabbia dei fondali che hanno custodito per secoli frammenti di vita passata che inseriti nel loro contesto e letti dagli esperti raccontano di vite, di civiltà che sono alle spalle del nostro presente. Pertanto suggerisco di approfittare del servizio di guida all’interno del Museo, reso disponibile da The Monuments People, e lasciarsi accompagnare da professionisti alla scoperta della collezione del Museo neretino del Mare Antico.
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Storie l’uomo e il territorio
Museo del Mare di Nardò reportage fotografico di Sara Foti Sciavaliere
chris mars chi sono i Veri pazzi? Dario Ferreri
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Un viaggio tra i luoghi e nonluoghi fisici ed emozionali dell'arte contemporanea
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«Non ho particolari talenti, sono soltanto appassionatamente curioso»
"In un’epoca di pazzia, credersi immuni dalla pazzia è una forma di pazzia" Saul Bellow
CURIOSAR(T)E
Albert Einstein
M
eraviglia come, sfrondando le superficiali considerazioni estetiche iniziali, sia una profonda compassione l'animus col quale si interiorizzano i dipinti grotteschi di Chris Mars, opere che interpretano il tema del disagio psichiatrico e della follia vera, cioè quella di chi, pur non considerato pazzo dalla società contemporanea, per propri fini personali prevarica, uccide, inquina, corrompe ed usa violenza: sono loro infatti i mostri dai quali guardarsi e non i protagonisti dei suoi dipinti, esseri umani fragili che han-
no vissuto e vivono, ingiustamente, emarginazione, angosce e sofferenze. Lui è Chris Mars, classe 1961, pittore e musicista americano di Minneapolis. È stato il batterista della band rock alternativa The Replacements dal 1979 al 1990 prima di iniziare una carriera da solista che ha visto la pubblicazione di ben quattro album. Dagli anni '90 ha poi lasciato la musica per proseguire la sua carriera artistica, che comprende sia pittura che cortometraggi.
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Chris Mars, Prelude to Test tube variety
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CURIOSAR(T)E
Chris Mars, The nullifer
La poetica di Mars è influenzata dalla lotta del fratello maggiore, purtroppo di recente scomparso, con la schizofrenia (Chris era il più piccolo di sette fratelli ed il primo ricovero per schizofrenia del fratello Joe risale a quando l'artista aveva solo 5 anni) e che, come già accennato, serve a sensibilizzare sui vari problemi associati alla malattia mentale ed al suo trattamento, nonché a confrontarsi con la xenofobia nelle sue varie manifestazioni sociali e psicologiche. I ricordi che affondano nell'educazione rigida ed oppressiva, l'anonimato medico e la vergogna familiare hanno avuto un profondo impatto sull'artista, che è riuscito a raggiungere una espressione creativa che cerca, per usare sue parole, di "... liberare gli oppressi, difendere i perseguitati e i sottomessi, liberare, attraverso la rivelazione del Sé attualizzato, quelli che, secondo alcuni, un Sé non lo hanno". La sua estetica altamente istintiva, partendo dall'esperienza del fratello, ha nel tempo abbracciato tematiche contemporanee, sia individuali che collettive, che richiedono giustizia ed attenzione. Mi vengono alla mente, ad esempio, i dipinti della serie su Hanford, a Washington, una bomba nucleare dell'era della guerra fredda che continua ancora oggi a contaminare l'area circostante con enormi quantità di rifiuti altamente radioattivi; si tratta di lavori che denunciano, appunto, l'inquinamento industriale e le forze che corrompono il sistema normativo per contenerlo, la sofferenza e la morte delle persone, ecc. Atmosfere magiche, oscure e disturbanti, rese in maniera mirabile e con cifra artistica originale grazie ad un sapiente uso dei colori ad olio che fan-
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Chris Mars, Hag Harriet Mifoil, sotto: Chris Mars, Same as the old year
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CURIOSAR(T)E
Chris Mars, Monophobia a lato: Chris Mars, Pea Soup
no esprimere coloro i quali non possono e/o riescono a farlo e che suscitano consapevolezza sul difficile percorso di vita del fratello e di quanti hanno vissuto simili situazioni di emarginazione. Ricordo, negli anni, il reiterato invito sui social che l'artista faceva ai suoi follower affinchĂŠ spedissero cartoline da tutto il mondo al fratello Joe, che provava una grande emozione nel guardarle e nel leggere i messaggi di saluto e mi fa piacere dire che ne ha ricevute anche da Lecce. Suoi lavori sono presenti in molte collezioni pubbliche (Minnesota Museum Of American Art, St. Paul, MN; Museum of Fine Art, Florida State University; Fredrick R Weisman Art
Museum (MN); Minneapolis Institute of Arts (MN); Longview Museum of Fine Arts (TX); Minnesota History Center; Tweed Museum of Art (MN); Erie Art Museum (PA); American Visionary Art Museum (MD); Mesa Contemporary Arts (AZ); ecc) e vengono dalla fine degli anni '90 esposti in tutto il mondo, anche all'interno di mostre museali (Dedo Maranville Fine Arts, Valdosta, GA; Fort Wayne Museum Of Art, Fort Wayne, IN; Minneapolis Institute of Arts, Minneapolis, MN; Mesa Contemporary Arts, Mesa, AZ; Longview Museum of Fine Art, Longview, TX; Mesa Contemporary Arts, Mesa, AZ; Museum of Fine Arts, Florida State University, Tallahassee, FL; Los Angeles
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CURIOSAR(T)E
Chris Mars, The buskers union,
Municipal Art Gallery, Los Angeles, CA; Museum of the City of Los Angeles, CA; Minnesota History Center, St. Paul, MN; Spacejunk Art Centers, France; Casa dell'Architettura/Acquario, Rome, Italy; Musee Halle St. Pierre, Paris, France; Louisville Visual Arts Association, Louisville, KY; Museum of Modern Art, New York, NY; Grand Central Art Center, Santa Ana, CA; Ruby Green Contemporary Art Space, Nashville, TN; Laguna Art Museum, Laguna Beach, CA; Haas Fine Arts Center, Eau Claire, WI; Art Center South Florida, Miami Beach, FL; American Visionary Art Museum, Baltimore, MD; Frederick Weisman Art Museum, Minneapolis, MN, ecc) ed in numerose gallerie . Anche i suoi cortometraggi e film sono stati proiettati in molti dei festival piĂš prestigiosi del mondo (tra cui Sundance, SXSW, Jerusalem International Film Festival, Starz Denver International Film Festival, Cinequest, Palm Springs
ShortFest, Athens International Film Festival, Chicago International Film Festival, San Francisco Green Film Festival, Montreal Documentary Film Festival, Maryland International Film Festival, Nashville International Film Festival, Florida International Film Festival e Maurvais Genre International Film Festival, tra gli altri, nonchĂŠ in numerosi musei a livello internazionale). Per seguirlo sui social consiglio Facebook ( h t t p s : / / w w w. f a c e book.com/ChrisMarsArt/) dove ha oltre 630.000 follower oppure Instagram (https://www.instagram.com/chrismarsart/) o, per i meno social, anche il suo sito https://www.chrismarspublishing.com/
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luca guadagnino Vs dario argento la seconda Volta di suspiria Stefano Cambò
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Un viaggio tra i luoghi del cinema...
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i solito si scrive un articolo pensando al film che si è visto e cercando in rete o su vari social le notizie riguardanti la pellicola, per selezionare i luoghi che ne hanno caratterizzato la narrazione. Spesso capita di ricordare un determinato posto di una città o di un piccolo borgo appenninico nel momento in cui sullo schermo del televisore passa in rassegna qualche capolavoro del nostro amato cinema. Quanti di voi avranno avuto il piacere di visitare la Fontana di Trevi a Roma e aver pensato per un attimo alla mitica scena de La Dolce Vita di Federico Fellini con Marcello Mastroianni che guarda incantato Anita Ekberg mentre si bagna e lo invita a farle compagnia in un momento del film ormai diventato cult. O quanti di voi avranno creduto di essere per un attimo il mitico James Bond mentre passeggiavano per i vicoli e le stradine del Sasso Barisano di Matera, immaginando inseguimenti sulla strabiliante Aston Martin come nell’ultimo film della saga di 007 No time to die. Perché il bello del cinema dopotutto è proprio questo! Riuscire a catturare e far vivere nel tempo
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la sua bellezza a tutti quegli spettatori che ne sono rimasti estasiati e che, senza volerlo, si ritrovano in quei luoghi che ne hanno fatto da cornice e che per un attimo diventano quasi familiari, facendoci trasportare con la mente a ciò che avevamo visto qualche tempo prima. Questo infatti è quello che succede di solito… E se invece, per una volta, fosse avvenuto l’esatto contrario? Se fosse stato il luogo visitato ad aver acceso la miccia della ricerca e innescato la scrittura dell’articolo che state per leggere? Vi sembrerà strano, forse… Eppure qualche tempo fa mi è capitato di ritrovarmi su un set del cinema senza nemmeno saperlo. Durante un viaggio, mentre soggiornavo a Varese, decisi di dedicare la mattinata alla visita del Sacro Monte e delle sue quattordici cappelle (dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’Unesco nel 2003). Per chi non lo conoscesse, questo splendido luogo è stato fin dal Medioevo meta di pellegrinaggio per i tanti fedeli che salivano a piedi sulla cima per visitare il Santuario di Santa Maria del Monte e poter dedicare una
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Scena del film “Suspiria” nel salone del Grand Hotel Campo dei Fiori
preghiera alla Madonna. In realtà, il complesso è ben più ampio, perché fa parte del Parco del Campo dei Fiori e comprende oltre al bellissimo Santuario e il borgo incastonato tre le ripide pendici, anche altri punti panoramici da cui è possibile osservare tutta la valle e nei giorni limpidi addirittura le guglie del Duomo di Milano in lontananza. Ciò che non sapevo e che, risalendo con il bus cittadino su una strada tipicamente di montagna immersa nei boschi, mi sarei ritrovato sul set di un famoso film horror. Perché, quando l’autista si è fermato per una
sosta di una ventina di minuti, vedendomi un po’ spaesato mi ha voluto fare da Cicerone mostrandomi da lontano il Grand Hotel di Campo de Fiori, un’immensa struttura abbandonata molto in voga fino agli anni Sessanta, soprattutto per i suoi interni in stile liberty. Quegli stessi interni che a sentire lui, nel 2016 erano diventati la cornice perfetta per le scene più importanti di un film che non avevo ancora visto nonostante mi avesse molto incuriosito fin dalla sua uscita nelle sale. Sto parlando naturalmente di Suspiria di Luca Guadagnino, remake del fortunato e
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Panorama sul Sacro Monte di Varese, foto di Stefano Cambò
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Varese, santuario Santa Maria del Monte; a lato centro storico di Varese, foto di Stefano Cambò
conosciuto horror targato Dario Argento del 1977. Ecco allora che, senza volerlo, dentro la mia testa si è accesa la scintilla per scrivere un articolo legato proprio a questo film. Vi apparirà strano ma, per un attimo, mi è sembrato di rivivere un altro classico del genere horror che aveva avuto a che fare sempre con un gigantesco Hotel (per chi non lo avesse capito si tratta di Shining di Stanley Kubrick con il mitico Jack Nicholson). E per quanto non avessi alcuna notizia a mia disposizione, una volta ritornato in città ho iniziato a fare le mie ricerche sul posto visionato. Ebbene, nel film Suspiria di Luca Guadagnino in realtà gli interni dell’Hotel diventano per esigenze di copione una scuola di danza immaginaria nella Berlino degli anni Settanta (la Merkos Dance Academy per essere precisi). Una scuola gestita da streghe che, come scopriranno la protagonista e la sua amica, compiono riti magici in stanze segrete all’interno dell’edificio. Oltre ad essere un horror visionario che prende un po’ le distanze dall’originale di Dario Argento, quello di Guadagnino è un prodotto che mostra tutta la passione del regista per l’architettura e l’interior design, con una cura quasi
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maniacale per i particolari legati alla narrazione e all’ambientazione del suo film (dopotutto siamo nella Berlino degli anni Settanta imperniata da un clima politico sempre legato alla dicotomia Est/Ovest con il Muro che faceva da spartiacque a due stili di vita completamenti diversi e opposti). Non mancano durante le prove dei balli i momenti in cui la telecamera si sofferma sulle grandi vetrate per immortalare il panorama mozzafiato che si vede dietro, con tanto di ripresa non voluta sul fondo valle varesino e i laghi. Altra location scelta per girare alcune scene interne è il famigerato Palazzo Estense di Varese, con i bunker della seconda guerra mondiale costruiti sotto le mura che sono diventati un set cinematografico per esigenze di copione. Questa bellissima dimora (ora sede del Municipio) fu una residenza di Francesco III d’Este, Duca di Modena e di Reggio, amministratore e poi governatore della Lombardia austriaca. Ciò che spicca, oltre alla facciata neoclassica con gli immancabili elementi barocchi, sono sicuramente i bellissimi giardini esterni. Un classico esempio di parco all’italiana terminato nel 1787, con altissime siepi molto curate e l’immancabile fontana centrale, immaginato e costruito su imitazione dei giardini di Schonbrunn (non lontani da Vienna). E con questa meraviglia ancora negli occhi, lasciamo che il film di Luca Guadagnino ci conduca verso i titoli finali ricordando il maestro Dario Argento attraverso una delle sue celebri frasi che da sempre lo hanno contraddistinto nel suo modo
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Varese, Palazzo Estense, foto di Stefano Cambò
di affrontare un genere narrativo che dall’Ita- anche pieni d’amore, di passioni e di ironia, lia ha fatto poi scuola in tutto il mondo: elementi molto rari nel cinema in senso clasI miei film non sono solo horror, ma sono sico.
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I LUOGhI NELLA RETE | IL CONCORSO
LUOGhI DEL SAPERE
#ladeVotalettrice | le recensioni di lucia accoto florentine
MARINA COLACChI SIMONE Florentine. La pupilla del magnifico youcaprint 2018 ISBN 9788827859766 pp.304 € 17
Ci sono libri che ti abbracciano e in quell’arcata di affetto senti il calore della storia. I libri hanno il potere di metterti in ginocchio, di abbandonarti al respiro della narrazione e tu, lettore, accomodi il tuo. Sei un tutt’uno con il fiato delle parole su carta che hanno battito. Sono la luce delle tue ore e quando arrivi al punto di non ritorno l’animo si oscura, perché vorresti di più. Andare oltre, avanti. Continuare. Allora, quel libro te lo porti appresso finchè puoi. Nella mente resterà sempre vivo, autentico. Ecco, questi sono libri che non difettano in niente. Sono capolavori. Per questo ti è difficile staccarti arrivato alla fine. Le pagine ti ritornano nelle giornate affollate, nel sonno. Negli occhi. Si, vedi ciò che leggi quando i libri sono belli, anzi bellissimi. Soprattutto quando sono scritti bene. E pensi che solo abbandonandoti al talento degli scrittori puoi posare lo sguardo sulla bellezza dell’inchiostro. Ti dici di essere fortunato, non solo hai la ricchezza di un racconto che ti ha rispettato portandoti lontano, ma hai pianto per esso. Le lacrime sono tante cose. Sono dolore, amore, sconfitta, scoperta. Scoprire un libro che porterai nel cuore, emoziona. Ti scompiglia i pensieri che, anche se li distrai, tornano sempre a quel libro. Si fanno strada da soli, seguono l’affascinazione della storia. E tu soccombi, con piacere. Il romanzo storico “Florentine” La pupilla del Magnifico di Marina Colacchi Simone è un gioiello. È un libro che ti fa viaggiare visivamente ed emotivamente, tutto sullo stesso piano. E benedici la scrittrice che ti permette di camminare nei vicoli di Firenze, signorile, e in quelli di Roma, papale, facendoti toccare l’architettura dei palazzi, dei decori, nella loro maestosità. Vivi e respiri anche le angosce e le gioie dei protagonisti. Ti senti un folletto che scosta appena eppena le gonne fruscianti delle dame per aizzare l’orecchio o puntare lo sguardo. Per cogliere i dettagli, gli stati d’animo e riportarli sulla tua pelle come hennè. A Firenze, sotto Lorenzo de’ Medici, il Magnifico, arriva una giovane orfana, Vanna de’ Bardi. La fanciulla ottiene la protezione del signore più ricco ed influente di Firenze e forse dell’intera penisola e le dona il titolo nobiliare di contessa. Vanna è delicata e decisa, gentile e agguerrita per salvarsi la vita da Matteo Orsini che la vuole a tutti i costi, anche contro la sua volontà. La giovane farà il possibile, dopo innumerevoli angoscianti peripezie, a fornire al suo Signore informazioni sulla congiura dei Pazzi ed a regalargli un gioiello di inestimabile valore come riconoscenza per tutto quello che ha fatto per lei. La scrittrice ha il dono delle parole. Un talento il suo. Scrive benissimo, ti riporta negli anni d’oro dei Medici senza strafare, senza essere forbita. C’è una forte ricerca storica, ma non spunta con arroganza al lettore sentendosi superiore rispetto a lui per conoscenza e capacità. No, è genuina. Marina Colacchi Simone si affianca al lettore accompagnandolo nella storia come se fosse sua amica. La prosa è accattivante, semplice, incisiva. Affascina.
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le amiche imperfette #ladeVotalettrice il unnuoVo giornolibro in più, distoria maria di pia un romano fallimento
MARIA PIA ROMANO le amiche imperfette Besa Editrice 2020 pp.224 ISBN 9788836290000 € 15,00
Scrivere. Se nella testa hai una storia e ti manca il sentimento per la pagina, è un problema. Se sei uno scrittore dilettante in cerca solo di vanagloria, sei fottuto. La carta bianca non ti corteggia, non spasima a vuoto, se ne frega di te. Devi darle vita. E lo scrittore bravo, capace, lo sa. Sa scrivere bene, sente il sangue ribollire, congela la tristezza nelle viscere. La tristezza serve per sputare l’anima, per diluire il maremoto, per sentire i graffi della scrittura. Scrivere è questo. È anche dolore, scorticamento di pensieri che si allineano poi come bravi scolari al suono della campanella. La scrittura è sudore, è pazzia d’amore. È carattere. Lo scrittore vero sa parlarsi senza inganni, respira e fiata parole che arrivano dritte alle dita. Saranno acqua, tormento, illusione, schiaffi, riposo. Questo lo scrittore lo sa, lo ignora invece chi si appella alla vanità di scrivere per pubblicare senza averne il merito. A volte, la prepotenza di alcuni è grande e l’anima è misera. Maria Pia Romano nel suo ultimo romanzo Le amiche imperfette toglie i veli su tutto. Non ha paura di dire quelle verità sussurrate che l’ipocrisia, spesso, le fa passare per inciampi confusi della mente. È una scrittura vera, la sua. Vivace e visiva. Si, lei sa donarsi alla scrittura con quel sacrificio che viene dal talento, dall’essere capace a scrivere, a narrare. Non è un dono. È capacità sviluppata dall’amore per la penna, dall’esercizio costante di avvicinarsi ai propri limiti, per superarli. Ne Le amiche imperfette, batte il cuore. Batte per la scrittura che è lavoro, struggimento e anche sconfitta. E batte per i fallimenti, per le delusioni. Palpita d’amore. Si chiama vita o vita a morsi. E poi c’è una delle due amiche che divora l’ispirazione dell’altra, che non ha rispetto per le parole, perché priva di fame. La stessa fame che ti spinge a fare tante cose, a sbrigartela da solo, ma se hai la pancia piena ti annoi e galleggi soltanto. Due amiche e due città. Due terre che come puttane si concedono senza vergogna nascondendo lo sguardo per non essere beccate. È pieno il romanzo di Maria Pia Romano. La narrazione ha ritmo, respiro, incalzante nei punti giusti e ti prende l’anima. La scrittura abita tra le dita dell’autrice ed il lettore si lascia vivere dalle sue parole.
Per l’invio di libri da recensire scrivere a redazione@arteeluoghi.it
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LUOGhI DEL SAPERE
rossa tacco 12, il terzo noir della saga di santino firmata pino de luca
PINO DE LUCA Rossa Tacco 12 Il raggio Verde edizioni 2020 ISBN 97 pp.1 € 15
Appuntamento ormai fisso con lo scrittore e giornalista Pino De Luca che per la terza volta ci riporta tra le strade del Salento insieme a Santino, il protagonista delle sue storie in chiave noir racchiuse in una serie che lo stesso autore ha definito I Racconti del Terroir, per la profonda caratterizzazione che c’è tra il genere citato prima e il territorio. E nell’ultimo lavoro intitolato Rossa. Tacco 12 questa indistinguibile correlazione è ancora più presente, perché nella copertina il maestro Angelo Arcobelli ha onorato la città di Lecce con la rappresentazione di una delle sue strade più conosciute (quella che porta a Piazza Sant’Oronzo). L’opera poi è sicuramente un omaggio ad Eward Hopper, il grande pittore statunitense che nei suoi lavori conosciuti ormai in tutto il mondo si è fatto apprezzare per la sua elegante essenzialità nel voler ricostruire situazioni di vita quotidiana. Ritornando al libro, pubblicato dalla casa editrice Il Raggio Verde, vi è da subito un collegamento con le altre due storie scritte dall’autore e aventi come protagonista il mitico Santino. Infatti, come nella miglior tradizione seriale, in questo lavoro i fatti narrati sono successivi a ciò che è accaduto prima ne Le rape di Santino e poi in Trappole (si consiglia quindi una rilettura di entrambi i romanzi). Resta però evidente la cifra stilista dello scrittore che con forza e parsimonia riesce a farci simpatizzare per il personaggio principale delle sue storie, quel Santino che un tempo era un professore e che adesso conduce una vita all’apparenza tranquilla nella sua bella dimora di campagna. Tra abbondanti cene e rimpatriate di amici, la trama del libro ci porta a Lecce per indagare su un caso che vede come protagonista una donna affascinante. Più che una donna… La sua scarpa rossa. Tacco 12! Già perché, a differenza dei due lavori precedenti, oltre alla bellezza barocca della città, le vere protagoniste della storia sono le donne, in un giallo contemporaneo che spiazza e allo stesso tempo ammalia lasciando il lettore con il fiato sospeso e la voglia di girare la pagina successiva per conoscere il finale. Un finale che non vi lascerà delusi e che vi farà rimpiangere di aver terminato il romanzo. Potete starne certi! Come potete stare certi che rivedremo, prima o poi il mitico Santino in un’altra spassosa storia venuta fuori dalla penna del suo instancabile creatore. Stefano Cambò
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la confraternita del re il nuoVo romanzo storico di giuseppe pascali
GIUSEPPE PASCALI La confraternita del re Kimerik edizioni pp 278 2020 € 16 ISBN 9788855162715
Nuovo libro, nuova storia e nuovo viaggio nel tempo. Con La confraternita del Re (Casa Editrice Kimerik) lo scrittore e giornalista Giuseppe Pascali ci porta per mano nella Venezia del 1562.E più precisamente nel mese di febbraio… Quando in Piazza San Marco si celebrano i festeggiamenti del famoso carnevale (a qualcuno potrebbe venire in mente il racconto La mascherata della Morte Rossa di Edgar Allan Poe). Ma come nella miglior tradizione del giallo storico, la tragedia è dietro l’angolo e sulla città incombe la minaccia di una Confraternita in grado di sovvertire il comando e dominare incontrastata sul mondo. A farne le spese è il consigliere Matteo Scarpa incaricato di condurre le indagini, che viene brutalmente assassinato nella sua biblioteca proprio nel momento in cui sta per mettere le mani su un indizio fondamentale. Alla gogna va il suo antagonista nel Consiglio dei Dieci, il giovane Giovanni Malipiero che avrà comunque la possibilità, grazie al doge, di redimersi e trovare il colpevole entro due settimane. Per sua fortuna, durante il lavoro d’investigazione, una notte incontrerà Caterina Cavazza, una donna sfuggente assai abile nei travestimenti che aiuterà il protagonista del romanzo nel suo intento scoprendo finalmente la verità su un mistero tenuto nascosto per vent’anni. Più che un giallo storico, quello di Giuseppe Pascali è un piacevole invito ad intraprendere un viaggio nella Venezia del sedicesimo secolo. Colpisce lo stile con cui lo scrittore ci porta per mano tra le calle della città lagunare. Perché se da un lato è vivace e lineare (quasi da thriller contemporaneo), dall’altro è colto e raffinato grazie soprattutto ad un lessico audace che dà il giusto senso all’ambientazione scelta. Inoltre, grande profondità è riservata ai personaggi, con Caterina Cavazza che spicca su tutti per il modo in cui viene caratterizzata all’interno delle vicende narrate. Sarebbe bello poterla rivedere in un nuovo progetto, magari con un ruolo da protagonista assoluta che risalta ancora di più la sua bellezza ed intelligenza. Chissà se Giuseppe Pascali non ci stia già pensando! Stefano Cambò
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Napoli, reportage fotografico di Antonio Giannini
ritorno a napoli la città dei contrasti Antonio Giannini
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Girovagando nei quartieri dove aleggia ancora la presenza di Eleonora Pimentel de Fonseca
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inalmente! Napoli. Lì sono tornato dopo molti anni, con uno sguardo nuovo e, questa volta, con in testa e nel cuore la storia, le parole, i pensieri ed i sentimenti di Eleonora Pimentel de Fonseca, della cui vicenda umana Enzo Striano ha tratto il suo romanzo storico “il resto di niente”. Un vero capolavo-
ro. Sono tornato, sicuro che questa volta sarebbe stato un’altra cosa. Molte volte ero andato a Napoli. Ma Napoli non la capisci se vai da semplice turista. Se hai sensibilità intercetti subito sì i grandi contrasti: i chiari e gli oscuri, il rumore ed il silenzio, la magnificenza e la semplicità, la grande storia e la
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piccola, semplice quotidianità. Ma senti che tutto questo non è sufficiente, che manca qualcosa che ancora non hai decifrato appieno, di cui hai una percezione epidermica ma che non riesci a capire, ti sfugge. Ti lascia un po’ stranito. Potenza della scrittura. Conquistato da “il resto di niente” io sono tornato e mi sono introdotto nei quartieri spagnoli, perché è lì, in particolare, che bisogna cercare quel qualcosa che il romanzo ti fa sentire, ma che spetta a te rintracciare. In quel cosmo che è un connotato, quasi una stigmate della Grande città. Senza di essi non sarebbe la stessa perché quello è il cuore di Napoli che pulsa nel dedalo di strade, tra il pullulare di una vita che si ripete tutti i giorni con i suoi traffici, i suoi riti, le sue storie. Nel raccontare la vicenda personale di Eleonora Pimentel, poetessa, scrittrice, una delle prime donne giornaliste in Europa, che ebbe ruoli di primo piano negli sfortunati moti del 1799, Enzo Striano fa il miracolo di svelare la vera essenza della città di fine settecento, dei suoi quartieri popolari, le sue strade brulicanti, il modo di essere dei suoi abitanti, dal lazzaro al nobile, all’intellettuale. Quel modo tutto napoletano che, oggi come allora, è ancora riconoscibile specie tra la gente semplice, dove percepisci il tratto disincantato di un popolo impegnato a vivere la dura quotidianità. “Vi alitavano savia comprensione, indifferenza gentile, meglio ancora supremo senso della vita, in equilibrio fra pietà e disincanto. Tutto (dal grande e nobile, al futile e meschino) acquistava preziosità inestimabile ma, al tempo stesso, non valeva nulla.” Nei momenti drammatici della sua vita,
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GIROVAGANDO
Napoli, reportage fotografico di Antonio Giannini
difronte ai pressanti interrogativi su un Dio incoerente, incostante, contraddittorio, “Lenor”, concludeva che questo non aveva senso e che esisteva davvero soltanto quello che capirono gli antichi: il fato, il destino, contro il quale non si poteva nulla. E concludeva che avevano ragione i Napoletani, che dai Greci antichi discendevano, quando difronte alla sventura, al dolore, borbottavano “accussi’ adda’ i”, ben sapendo che nessuno, nulla può modificare il corso delle cose e che però niente al mondo dura un’eternità. Ogni fenomeno deve per forza generarne un altro, che gli assomiglia perché figlio ma diversissimo. Così dopo la tempesta viene il sereno, dopo il brutto viene il bello. “Se non ci fossero il dolore, brutto, pioggia come gusteresti il contrario”? Tu aspetta e ciò che deve avvenire avverrà. Se agisci per cambiarlo, evitarlo, vuol dire che doveva andare in questa nuova direzione. Il destino non puoi mai farlo fesso.” Ma la cosa straordinaria e apparentemente contraddittoria è che questa filosofia del limite, tutta greca, convive col forte senso religioso che vedi tangibile ad ogni angolo di strada con le sue chiese, le edicole votive tenute con la massima cura e devozione, tra la rumorosa concitazione di furgoni che scaricano merci nei negozi, di ragazzini che giocano a pallone nella piazzetta, di motorini che sfrecciano guidati da piccoli indiani metropolitani, tra gli immancabili panni multicolore che svolazzano da un palazzo all’altro alla brez-
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Napoli, reportage fotografico di Antonio Giannini
za del mattino, i tacchi a spillo, i trucchi barocchi, gli abiti succinti portati con naturale disinvoltura. Io amo il tratto greco del modo di essere del napoletano perché, quando non degrada in vittimismo, lo sento più affine al mio modo di pensare. Anche se spesso questo modo di essere è male interpretato. “La città nascondeva l’inclinazione pedagogica. Senza volerti insegnare nulla ti costringeva ad apprendere, fra banalità, segreti pregevoli. I napoletani li succhiavano col latte, ma ce n’era per tutti. Bastava stare attenti, riflettere.” Ti ci vuole un po’ di tempo prima di trovare la sintonia con la città. In quei vicoli, per chi vi accede per la prima volta, l’effetto è conturbante i sentimenti contrastanti. Quegli stessi sentimenti che Eleonora ha provato la prima volta quando ha messo piede in questo microcosmo straordinario. E qui ho percepito meglio la sua prima inquietudine, la sua grande passione per la vita, per l’arte e l’impegno sociale e civile. Lei, nobile di origine portoghese, avvinta dalle idee rivoluzionarie e dalla causa della Repubblica Napoletana. Davanti all’ingresso della sede del Monitore Napoletano l’ho immaginata con le copie del suo scottante giornale di cinque pagine sotto il braccio che doveva diffondere le idee repubblicane, di libertà, di democrazia, la cultura, la poesia, proprio come una ragazza del 68’. A fare da sfondo a questa intensa avventura c’era una grande città, capitale di un grande regno e centro di cultura, con le sue eterne contraddizioni e la sua strug-
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GIROVAGANDO
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gente bellezza. Erano gli anni degli ideali della Rivoluzione francese che riecheggiavano anche a Napoli ma che non attecchirono tra il popolo, troppo impegnato a sopravvivere, troppo tempo flagellato dalla povertà e dalla sottomissione a nobili e al clero. “<<La libertà?>> fece il lazzaro, con aria falsamente interessata. Si volse ai compagni, serio <<Guagliù. Lo cavaliere ‘nce vo’ da’ la libertà>>.” Nelle strade della città dove, oggi come allora, la vita pulsa concitata ed in apparente disordine, naturalmente molti simboli sono cambiati; ma la sorpresa è stata grande quando, girovagando per i quartieri, dopo essermi imbattuto in grandi murales, qui e la, sparsi tra vicoli e piazze dedicati ad Antonio De Curtis, a Pino Daniele, a Diego Armando Maradona e ad altre figure simboliche dei tempi nostri, per un puro caso, che ho perce-
pito come dono imprevisto ed inatteso, un premio personale che mi ha scaldato il cuore, sulla facciata dell’ex mercatino di Sant’Anna di Palazzo mi è apparso il volto bello, giovane e fiero di Lenor svettare con i capelli al vento, le labbra morbide e gli occhi malinconici ma determinati. E’ stato come uscire da un sogno; e quel viso semplice, comune a tante nostre ragazze che incontri per strada, con il suo appena accennato sorriso, sembrava che mi dicesse “Vedi? Cosa credi? Che ti è saltato in testa, pensi veramente che sia solo nei tuoi pensieri? Napoli è Napoli e non dimentica mai chi l’ha amata” Il bellissimo murales, ho saputo, è stato realizzato dall’artista Leticia Mandragora e la sorpresa mi ha reso più cara questa città e, quel ricordo, mentre rientravo mi ha fatto pensare al brano del romanzo dove, alla domanda di
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Eleonora: con chi sta il popolo di Napoli, con la Rivoluzione o con il Re, Don Eduardo, anziano artigiano dei quartieri spagnoli, risponde: “<<Napoli è complicata. Vi risponderò con una storiella che ho imparato da mio padre che lui, forse, aveva appreso dal suo. Napoli è come una vipera: La testa è velenosa, la coda non serve a niente, la parte di mezzo è buona. Si vende dallo speziale come rimedio alle malattie.>>” Si perché Napoli è anche questo: la cura alla malinconia.
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Prime riprese in Campidoglio (8 settembre 1981), con Sordi, l'allora sindaco di Roma Luigi Petroselli, Milli, Stoppa e il regista Monicelli
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amarcord, federico fellini e la sua amata rimini Stefano Cambò
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Per i luoghi del cinema tra i set per rendere omaggio all’attore riminese celebrato nel centenario della nascita
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to un piccolo gioiello di arte e cultura che ha dato i suoi natali al più grande regista italiano di tutti i tempi. Ossia… Federico Fellini. Il maestro dell’arte cinematografica nacque qui, il 20 gennaio 1920 e tra le sue strade ambientò alcuni dei suoi film, tra cui quello più intimo e
I luoghi del cinema
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eta indiscussa della movida turistica estiva, la città di Rimini ha da sempre legato indissolubilmente il suo nome a quello di un vero artista della nostra amata penisola. Infatti, questa ridente località simbolo della Riviera Romagnola rimane sopratut-
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Alberto Sordi nel film Un americano a Roma, 1954
personale che gli valse addirittura l’Oscar nel 1975. Stiamo parlando naturalmente di Amarcord (Mi ricordo in dialetto romagnolo). Con questa pellicola Federico Fellini ci riporta con le immagini e la storia alla Rimini degli anni Trenta. Quella Rimini che racconta il periodo della sua lontana giovinezza, con gli amici e l’in-
separabile Luigi Titta Benzi, il fascismo e tutti i personaggi che popolavano la località romagnola in quei tempi andati. Rimini, con questo personale film, entra nel mito del cinema italiano nonostante il grande maestro non abbia girato nemmeno una scena nella sua amata terra natale. Infatti, quella che compare in molti film del regista è una città del tutto ricostruita ed
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sta ridente località romagnola. Iniziamo dunque il nostro tour per i luoghi di Amarcord con il mitico Grand Hotel. Simbolo dell’immaginario felliniano per eccellenza, questo maestoso edificio venne inaugurato nel 1908 e divenne famoso in tutto il mondo grazie al regista che lo scelse per esaltare il fascino e la suggestione del suo racconto. Da quel momento, l’intero agglomerato
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immaginata, fatta per lo più di ricordi giovanili e impressioni legate ad un tempo lontano, perché tutto il set di Amarcord venne ricostruito fedelmente a Cinecittà, seguendo scrupolosamente le indicazioni del regista. Nonostante questo, durante la visione della pellicola è comunque possibile osservare alcuni degli scorci simbolo di Rimini, che sono facilmente visitabili per chi avesse voglia di tuffarsi a piedi tra le stradine di que-
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Il Rimini HOotel, a lato il cinema Fulgor, foto di Stefano Cambò
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sa che si conduceva al suo interno. Per Fellini, questo edificio rappresentava un vero sogno, la favola della ricchezza e dello sfarzo con le mille leggende sugli ospiti illustri che vi avevano alloggiato nei primi decenni del secolo. E ripensando proprio a questa visione quasi onirica che il regista decise di rendere immortale il Grand Hotel di R i m i n i , facendo rivivere su pellicola la sua atmosfera magica. Quella atmosfera che tanto lo aveva affascinato da ragazzo e che lui stesso amava celebrare
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urbanistico (con annesso il Parco Federico Fellini in cui si trova la famosa fontana dei q u a t t r o cavalli) divenne meta turistica indiscussa della R i v i e r a Romagnola, tanto che nel 1994, il mitico Grand Hotel di Rimini venne eletto addirittura Monumento Nazionale. La sua elegante facciata in stile liberty e la posizione a ridosso del mare, hanno contribuito ad alimentare lâ&#x20AC;&#x2122;immaginario del grande regista che da ragazzo amava sbirciare di nascosto dal cancello dellâ&#x20AC;&#x2122;albergo la vita lussuo-
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Alcuni scorci di orgo San Giuliano, foto di Stefano Cambò
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quando ritornava in Riviera e decideva di soggiornare nelle sue stanze. E per omaggiare al meglio questo luogo, tra le tante scene del film ambientate qui, è giusto ricordare quella celebre della Gradisca, che si era attaccata addosso questo soprannome quando da sotto le lenzuola di una sfarzosa camera del Grand Hotel si era rivolta ad un nobiluomo dicendo Signor Principe, Gradisca! Proseguendo con il tour, in prossimità del Parco si può osservare con una certa meraviglia la Fellinia, una gigantesca macchina fotografica che riproduce perfettamente la mitica Ferrania. Costruita nel 1948 completamente a mano dal fotografo Elio Guerra, questo strano monumento è diventato uno degli oggetti più immortalati di Rimini, finendo immancabilmente in tutte le fotografie dei turisti venuti appositamente in Riviera. Altro scorcio da visitare (e a due passi dal Grand Hotel) è sicuramente il lungomare con immancabile passeggiata sul molo del porto. Impossibile non osservare la linea dell’orizzonte senza domandarsi nostalgicamente se il transatlantico Rex sfarzoso e ricco di luci, sia passato davvero davanti al Grand Hotel come mostrato da Fellini in una suggestiva sequenza notturna di Amarcord.
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Altri luoghi simbolo da vedere, che rievocano le atmosfere e le immagini del film, sono sicuramente le strade che collegano il lungomare con Viale Vespucci e Viale Regina Elena, perché tutte riportano i nomi delle pellicole dirette da Federico Fellini, con quella che passa per il Parco a lui dedicato che è stata intitolata alla moglie Giulietta Masina. Per quanto riguarda la vita del maestro, un posto particolare lo occupano senza dubbio la stazione di Rimini e la casa di Titta (Luigi Benzi), l’amico d’infanzia. Entrambe sono state riprodotte nel film e sono legate indissolubilmente ai ricordi e alle sensazioni del grande regista, che amava particolarmente da bambino vedere i treni che arrivavano e partivano (questa scena viene riproposta in Roma sempre diretto da Federico Fellini). Continuiamo il tour per Rimini con il suggestivo Arco di Augusto. Simbolo della città, venne edificato nel 27 a.C. in onore di Cesare Ottaviano Augusto e sorge nel punto d’incontro tra la via Flaminia e la via Emilia. Da qui si va verso la parte romana se così la si può definire, con il centro storico che conduce al Ponte di Tiberio (il famoso Corso d’Augusto definito il passeggino da Fellini che qui ambienta nel film
la locandina del i film restaurato “Amarcord” di Federico Fellini, in basso il regista
Concludiamo il nostro tour di Rimini con il luogo felliniano per antonomasia conosciuto ormai in tutto il mondo per i suoi murales dedicati al grande regista. Stiamo parlando naturalmente del Borgo di San Giuliano. In questo quartiere storico di piccole case (abitato in passato per lo più da pescatori, marinai e artigiani), si respira ancora un’atmosfera di altri tempi anche se lo scenario è decisamente più turistico rispetto a come lo aveva rappresentato Fellini in Amarcord. Sui muri delle case, negli anni, sono stati dipinti alcuni dei personaggi mitici dei film più importanti del grande regista. Perdersi tra i suoi vicoli è d’obbligo, se si vuole assaporare al meglio la magia di questo incantevole Borgo e delle sue piazze. Perché come diceva lo stesso maestro, Rimini non è altro che un pastrocchio, confuso, pauroso e allo stesso tempo tenero. Con un grande respiro che apre il suo cuore al mare.
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Amarcord la scena delle auto della Mille Miglia che sfrecciano). Proseguendo per questa strada centrale arriviamo prima in Piazza Tre Martiri con il Tempietto di Sant’Antonio (rievocata in molte scene del film) e poi in Piazza Cavour con la suggestiva Fontana della Pigna (compare durante la scena della nevicata con l’arrivo sul cornicione del pavone del conte). Superata Piazza Cavour, ci imbattiamo in uno dei luoghi più amati da Federico Fellini. Ossia… Il mitico Cinema Fulgor con la sua inconfondibile insegna in stile Liberty. Qui il grande regista vide il suo primo film (Maciste all’Inferno) e s’innamorò perdutamente della sua arte, trasformando la sala in una specie di seconda casa. Dal Cinema Fulgor proseguiamo per il famoso Ponte di Tiberio, ribattezzato dai locali E pont de Dievli (Il ponte del Diavolo) per la sua conformazione e indistruttibilità. Questa costruzione voluta dall’Imperatore Tiberio durante il suo Regno segna il punto di partenza della famosa e ancora esistente Via Emilia.
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Foto di Mario Cazzato
lecce straordinaria: quand'era sede del principe Mario Cazzato
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Rileggendo i libri antichi... e passeggiando tra le vie della città antica
Salento Segreto
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L
'eccellente restauro del cinquecentesco palazzo dei "Perrone di sant'Oronzo" ha fatto recuperare uno stemma quattrocentesco di notevole interesse per la storia della città. Il ritrovamento è noto, ma credo che non sia stato studiato. Ecco, intanto, la trascrizione dell'epigrafe che compare sotto lo scudo :
IOANNES ANTONIUS PRINCEPS TARENTI COMES/LICII REGNI SICILIE MAGNUS COMESTABULUS. Quel Giovanni Antonio è l'Orsini del Balzo principe di Taranto, il titolo di grande conestabile gli fu assegnato il 1437, ma divenne conte di Lecce e di Soleto solo alla morte
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Salento Segreto
Foto di Mario Cazzato e Nico Maggi
della madre Maria, il 1446. Ci sono alcuni motivi che ci portano a ritenere che lo stemma provenga dal vicino palazzo dei conti di Lecce che in quei decenni del '400 era stato venduto a privati e diviso in tre quote. Uno stemma simile, datato 1447 stava sulla chiesa di S.Antonio di Padova a Taranto e ricordava la donazione della chiesa da parte dell'Orsini. Lâ&#x20AC;&#x2122;immobile è detto pure "palazzo del pollicastro" dal pane, puddricasciu, di San Francesco che si riferisce alla nota leggenda ed è effigiato sul portale catalano-durazzesco. Onore a chi ha recuperato una memoria cosĂŹ significativa. Lecce non finisce mai di stupirci.
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